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10 Morte di un pioniere autodidatta I l giorno di Natale del 1890 in piazza Carità a Napoli un uomo si accascia improvvisamente a terra, semiparalizzato: è privo di documenti e incapace di parlare. La folla accorsa lo conduce in ospedale ma non essendo possibile identificarlo vie- ne subito dimesso e trasferito in commissariato dove, con un supplemento di indagini, egli è final- mente riconosciuto e accompagnato al suo alloggio al Grand Hotel presso il quale, fra l’indecisione dei medici, morirà il giorno seguente non ancora ses- santanovenne. Quello sconosciuto era Heinrich Schliemann, celeberrimo protagonista di una delle più importanti avventure dell’archeologia ottocen- tesca, divenuta un fenomeno di massa grazie al bagliore e alla ricchezza dei ritrovamenti, al loro nesso inscindibile con l’immaginario omerico e, infine, alla personalità e alle capacità comunicative del loro scopritore, un self-made archaeologist in grado di abbinare il fiuto per gli affari a quello per la ricer- ca di antichità. Le sue scoperte, dopo un primo periodo di scettici- smo e ritrosia da parte del paludato mondo accademi- co, cominciarono a imporsi con tutta la loro immagi- nifica evidenza anche fra gli studiosi, mostrando a tut- ti le straordinarie potenzialità dell’archeologia nella risoluzione e/o nell’approfondimento delle più intri- cate questioni storiche. Queste ultime, infatti, erano rimaste fino ad allora dominio quasi incontrastato di discipline quali la filologia, l’epigrafia o la numismati- ca che, seppur ispirate dalle nuove ventate positivisti- che, peccavano ancora di quei tipici difetti della vec- chia antiquaria che, dopo aver estrapolato più o meno acriticamente i dati archeologici e letterari dal loro contesto, li ricomponeva poi in un quadro tanto più erudito quanto più fragile e fallace, soprattutto se l’og- LA “QUESTIONE PELASGICA” IN ITALIA: 1871-1903 DI V ALENTINO NIZZO*

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Morte di un pioniere autodidatta

Il giorno di Natale del 1890 in piazza Carità aNapoli un uomo si accascia improvvisamentea terra, semiparalizzato: è privo di documenti

e incapace di parlare. La folla accorsa lo conduce inospedale ma non essendo possibile identificarlo vie-ne subito dimesso e trasferito in commissariatodove, con un supplemento di indagini, egli è final-mente riconosciuto e accompagnato al suo alloggioal Grand Hotel presso il quale, fra l’indecisione deimedici, morirà il giorno seguente non ancora ses-santanovenne. Quello sconosciuto era HeinrichSchliemann, celeberrimo protagonista di una dellepiù importanti avventure dell’archeologia ottocen-tesca, divenuta un fenomeno di massa grazie albagliore e alla ricchezza dei ritrovamenti, al loronesso inscindibile con l’immaginario omerico e,

infine, alla personalità e alle capacità comunicativedel loro scopritore, un self-made archaeologist in gradodi abbinare il fiuto per gli affari a quello per la ricer-ca di antichità.Le sue scoperte, dopo un primo periodo di scettici-smo e ritrosia da parte del paludato mondo accademi-co, cominciarono a imporsi con tutta la loro immagi-nifica evidenza anche fra gli studiosi, mostrando a tut-ti le straordinarie potenzialità dell’archeologia nellarisoluzione e/o nell’approfondimento delle più intri-cate questioni storiche. Queste ultime, infatti, eranorimaste fino ad allora dominio quasi incontrastato didiscipline quali la filologia, l’epigrafia o la numismati-ca che, seppur ispirate dalle nuove ventate positivisti-che, peccavano ancora di quei tipici difetti della vec-chia antiquaria che, dopo aver estrapolato più o menoacriticamente i dati archeologici e letterari dal lorocontesto, li ricomponeva poi in un quadro tanto piùerudito quanto più fragile e fallace, soprattutto se l’og-

LA “QUESTIONE PELASGICA”IN ITALIA: 1871-1903

DI VALENTINO NIZZO*

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getto del contendere era costituito dalle nebulose fasidella protostoria mediterranea in generale e italiana inparticolare.

Sotto tale punto di vista i risultatiottenuti da Schliemann a Troia(1870-73; ‘78-79; ‘82; ‘89-90) e inGrecia a Micene (‘74; ‘76), Orco-meno (‘81-82) e Tirinto (‘76; ‘84-85) ebbero lo stesso effetto dirom-pente delle teorie darwiniane incampo naturalistico. Mentre le pri-me, infatti, offrivano almeno inapparenza una conferma archeolo-gica alle più antiche tradizioni lette-rarie mediterranee facenti capoall’epopea omerica, le seconde,calando la storia umana in unadimensione evoluzionistica, faceva-no guadagnare d’un tratto alle disci-pline preistoriche e protostoricheun immenso gap temporale che lememorie bibliche e quelle classicheda sole non erano in grado di col-mare.

A pag. 10: H. Schliemann (1822-1890), nel 1890, pochi gior-ni prima della morte (da Duel 1980)

In alto, a sinistra: La tomba di Schliemann ad Atene (foto V.Nizzo)

In alto, a destra: La “cittadella” di Tirinto ai primi dell’ ‘800(da Dodwell 1834)

Al centro: La Porta dei Leoni a Micene ai primi dell’ ‘800(da Dodwell 1834)

In basso: La Porta dei Leoni a Micene oggi (foto V. Nizzo)

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Alla ricerca di una “identità pelasgica”

Gli anni in cui Schliemann miete i suoi primi suc-cessi sono gli stessi nei quali alcuni studiosi comin-ciano a porre su nuove basi il problema delle origi-ni delle “stirpi italiche” procedendo a un confrontoserrato ma, troppo spesso, ingenuamente fiducioso,fra gli scarni e di frequente contraddittori dati dellatradizione e le prime testimonianze materiali ogget-to di scavi “scientifici” riconducibili a tali genti. Il1871, sotto questo punto di vista, rappresentò unadata memorabile nella storia degli studi sulle primitivepopolazioni dell’Italia, come scriveva il più celebre deipaletnologi italiani, L. Pigorini (1842-1925), in unvolume dedicato ai Cinquanta anni di storia italiana,poiché nell’autunno di quell’anno, in uno Stato dapochi mesi finalmente unificato, si tennero a Bolo-gna il Congresso Internazionale e l’Esposizione Nazio-nale di archeologia preistorica, eventi ai quali ancoraoggi la critica attribuisce un impulso fondamentaleper la diffusione e lo sviluppo delle discipline

archeologiche nella nostra Nazione. Le travagliatevicende dell’Unificazione d’Italia con tutti i valoririsorgimentali ad esse connessi ebbero certamenteuna influenza determinante non solo per la nascitadella nuova disciplina archeologica ma perché sin dasubito si guardò ad essa come a uno strumento attra-verso cui sarebbe stato possibile procedere alla rico-struzione dell’identità storica della Nazione nellesue fasi archetipiche dopo che finalmente si erarecuperata anche quella politica.La fondazione fra il 1875 e il 1876 di riviste come ilBullettino di Paletnologia Italiana e delle Notizie degliScavi mostra chiaramente quale fosse l’interesse

In alto: La “cittadella” di Tirinto oggi (foto V. Nizzo)

A destra: Ponte Miceneo presso Arkadikò in Argolide (fotoV. Nizzo)

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attr ibuito a taliproblematiche econ quale atten-zione se ne aspet-tasse la soluzione;non è un casoquindi che la lorodirezione fosseaffidata, rispettiva-mente, a Pigorini,posto nel contem-po a capo delMuseo Preistoricodi Roma che por-

ta oggi il suo nome, e a Giuseppe Fiorelli (1823-1896), uno dei più illustri archeologi italiani, “rifon-datore” dell’archeologia pompeiana, Senatore delRegno e, a breve, Direttore Generale delle Antichità,la più alta carica all’interno del Ministero della Pub-blica Istruzione che conserverà fino al pensiona-mento dopo aver lasciato una impronta indelebilesulla nascente disciplina.Quando Schliemann, durante periodi di forzatasospensione delle sue ricerche, nel 1873 e poi anco-ra nel 1875, venne in Italia portando con sé la suacollezione troiana e si dichiarò interessato a compie-re scavi presso una città preistorica della penisola o dellaSicilia, fra le molte voci scettiche egli trovò dei vali-

di interlocutori proprio in Pigorini, Fiorelli e nelMinistro Bonghi, personalità alle quali a breve siunirono anche l’antropologo Giustiniano Nicolucci(1819-1904) e il giovane Edoardo Brizio (1846-1907), divenuto poi titolare della cattedra di archeo-logia nell’Università di Bologna, il quale fu anche frai primi a intuire l’importanza delle sue scoperte inparticolare per i risvolti che esse avrebbero potutoavere per la conoscenza del più antico mondo italico. Gli scavi compiuti da Schliemann, infatti, avevanoscosso dal torpore il dibattito su una delle questionipiù discusse dell’archeologia della prima metà delXIX secolo (cfr. il contributo di L. Attenni in questonumero, pagg. 4-9), quella relativa all’evidente simi-larità fra le tecniche costruttive di cittadelle quali

In alto: Luigi Pigorini (1842-1925) nel 1871 (da Barnabei,Delpino 1991)

Al centro: Giuseppe Fiorelli (1823-1896). Da Barnabei, Del-pino 1991

Tirinto e MiceneAvanzando ancora […] troviamo le rovine diTirinto […]. Le mura, l’unica parte delle rovineancora in piedi, sono opera dei Ciclopi e sonocostruite con pietre non lavorate. Ciascuna pietraha una grandezza tale che nemmeno una coppiadi muli riuscirebbe a smuovere minimamente lapiù piccola di esse dal loro complesso; e vi sonoinserite, fin dall’antichità, delle piccole pietre inmodo che ciascuna di esse faccia per quanto possi-bile da commessura tra quelle più grandi (trad. S.Rizzo). L’impressione destata a Pausania dal-le mura di Tirinto (II, XXV.8) e da quelle diMicene (II, XVI.5: Kuklèpwn œrga eŒnailšgousin - Kuklōpōn érga eînai légousin) nelII secolo d.C. non è molto dissimile da quel-la che affascina ancora oggi i turisti, renden-do credibile ai più fantasiosi che a realizzarlefossero i mitici Ciclopi sebbene la critica siaormai concorde nel riferirle ai Micenei e nelriconoscere per entrambe tre fasi costruttivedistinte distribuite fra il 1400 e il 1250 a.C.ca. a Tirinto e fra il 1350 e il 1200 a.C. aMicene. Entrambe costituiscono uno straor-dinario esempio di architettura militare, lacui eccezionalità è resa ancor più evidentedall’ottimo stato di conservazione che fa sì,nel caso di Tirinto, che le fortificazioni con-servino in alcuni tratti un’altezza di 7 mprossima a quella originaria, stimata in ca. 9,e uno spessore massimo di 17 m in corri-spondenza delle celebri gallerie voltate e unomedio di 6, e cingano ancora interamente lacittadella micenea innalzata su di un pianorooblungo di forma ovale (300x100 m ca.) cheindusse Omero ad attribuirle l’evocativo epi-teto di teiciÒessan - teichióessan: celebre perle sue mura (Il., II, 559), un aggettivo che intutta l’epopea omerica viene attribuito solo aun’altra città, significativamente cretese, Gor-tina (ib., II, 646).

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Tirinto e Micene (cfr. scheda di pag. 13) e le omo-loghe strutture murarie che caratterizzano il paesag-gio archeologico di buona parte dell’Italia centro-meridionale, come Norba, Arpino, Alfedena, AlbaFucens ecc. Le scoperte effettuate dall’archeologotedesco avevano contribuito in modo decisivo adattribuire una identità culturale ai costruttori dellemura micenee e a calarli in una dimensione storica,in virtù della quale gli stessi protagonisti dell’epicaomerica venivano di colpo evocati e quasi materia-lizzati dal bagliore di “tesori” come quello troiano“di Priamo” o dallo sguardo severo della “mascheradi Agamennone”. I ciclopi, ai quali la tradizioneattribuiva la costruzione di quelle mura, venivano dipeso sopraffatti da una civiltà preellenica dai trattisempre meglio definiti, quella micenea, mentre su diun altro fronte venivano acquisendo sempre mag-giore importanza le fonti relative ai Pelasgi, popola-zione preellenica artefice di mura poligonali come ilPelargikòn dell’Acropoli di Atene ricordato da Tuci-dide, che alcune fonti tramandavano essere emigra-ta nella nostra penisola per dare origine alle civiltàitaliche e a quella etrusca (cfr. scheda a pag. 15). La“storicizzazione” dell’epopea troiana aveva d’untratto restituito credibilità alle membra monche del-la tradizione, dando al contempo un duro colpo alla

Giustiniano Nicolucci (1819-1904). Da A. Carboni, Giustinia-no Nicolucci e la sua patria, Isola del Liri 1971

Edoardo Brizio (1846-1907). Da Barnabei, Delpino 1991

Michele Stefano De Rossi (1834-1898). Da Barnabei, Delpino1991

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“ipercritica” scuola storica tedesca capeggiata daMommsen e Meyer e propagata in Italia da Beloche Pais che per oltre mezzo secolo si era adoperataper sottoporre a un’aspra revisione le testimonianzemiti-storiche relative alle origini dei Greci e degliItalici, per relegarle poi nel novero delle leggende.

“Miraggi micenei” in Italia

L’arrivo di Schliemann accese in molti la speranzache il “miracolo miceneo” potesse ripetersi anche inItalia. Con tale proposito Fiorelli, nel Settembre del1875, assecondandone la frenetica passione per laricerca, gli affidò il delicato compito di sciogliereuna delle questioni allora aperte della protostoriaitaliana, relativa alla presunta anteriorità di alcunesepolture laziali preromane rispetto agli ultimi feno-meni eruttivi del complesso vulcanico dei ColliAlbani. Le indagini di Schliemann in una vignapresso Marino dissolsero nello spazio di pochi gior-ni il miraggio di una “Pompei preromana” vagheg-giato da studiosi come Michele Stefano De Rossi(1834-1898), ma i risultati di quelle ricerche nonebbero la risonanza e il successo che Schliemann sisarebbe atteso ponendo mano al suolo che si suppo-neva spettare alla miti-storica Alba Longa. La suaattenzione si spostò quindi altrove e ad attrarlo, gra-zie all’iniziativa del Nicolucci nativo di Isola del Liri,

furono i resti poderosi della cinta poligonale diArpino dove carezzò l’idea di condurre brevi son-daggi ma forse più per compiacere il suo ospite cheper sincero interesse visto che la sua avventura italia-na si sarebbe conclusa nei mesi seguenti, dopo unarapida campagna a Mozia, sito nel quale era statorichiamato da una scultura leonina dalle presunteaffinità con quelle della celebre porta di Micene.Negli anni successivi i soggiorni italiani di Schlie-mann divennero sempre più episodici poiché, appia-nati i problemi burocratici che ne avevano frenato lericerche in Turchia e in Grecia, la sua attività venneinterrotta solo dalla morte.Nonostante le rapide incursioni di Schliemann nel-l’archeologia nostrana si rivelassero poco fruttuose,l’idea che anche in Italia potessero affiorare le vesti-gia di una civiltà affine a quella micenea per culturae ricchezza, fosse essa da identificare o meno conquella dei “divini Pelasgi”, costituiva una possibilitàtroppo attraente perché potesse essere ignorata efurono molti gli studiosi che, abbagliati e sedotti dairitrovamenti dell’autodidatta tedesco, cominciaronoa guardare alle antichità italiche e, soprattutto, aquelle etrusche sotto una luce greco-orientale; luceresa spesso ancor più fulgida dalla veste “orientaliz-zante” che queste ultime cominciarono ad assumerea partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C., inquella fase oggi appunto definita Orientalizzante mala cui dimensione diacronica, nella seconda metàdell’‘800, non era ancora colta in modo compiuto.

I Pelasgi

Col termine Pelasgo… - Pelasgoí i Greci eranosoliti designare in modo più o meno chiaro edesplicito quelle popolazioni, presumibilmenteautoctone, che popolavano l’Egeo prima dellacalata delle stirpi elleniche. Le fonti tuttavia offri-vano un quadro spesso contraddittorio che pote-va prestarsi a molteplici interpretazioni sia perquel che concerne la loro localizzazione sia perquel che riguarda la loro cronologia e la loro dif-fusione nel Mediterraneo. Alla diaspora dei PelasgiDionigi di Alicarnasso dedicò una porzione signi-ficativa del I libro della sua Rhomaikè archaiologíanel quale, oltre a riportare la versione cui davamaggior credito, riferiva anche quelle degli altristorici fra i quali, uno dei più antichi, Ellanico diLesbo vissuto nel V secolo a.C., propendeva aper-tamente per una sostanziale identificazione degliEtruschi-Tirreni con i Pelasgi scacciati dai Greci etrasferitisi in Italia alla foce del Po presso Spina dadove poi si sarebbero diffusi nel resto della “Tirre-nia” (I, 28, 3). La mancanza di testimonianzearcheologiche e materiali riconducibili con cer-tezza a questa miti-storica popolazione contribuìe contribuisce ancora oggi a renderne sfuggenti le

tracce e a impedirne una adeguata trattazione sto-riografica. La scoperta della civiltà micenea effet-tuata da Schliemann indusse alcuni a ritenereplausibile una assimilazione fra quest’ultima e letradizioni che i Greci riferivano ai Pelasgi, mentrealtri hanno preferito propendere per una attribu-zione a questi ultimi delle testimonianze dellaGrecia neolitica.La critica ottocentesca disponeva di ben pochielementi per affrontare una questione resa para-dossalmente ancor più complessa dalle fonti lette-rarie; fra queste vi era in particolare una tradizio-ne riportata da Tucidide (II, 17) relativa all’esisten-za, sull’acropoli di Atene, di un muro antichissimo,denominato PelargikÕn - Pelargikòn, considera-to sacro e inviolabile ancora nel V sec. a.C., e la cuirealizzazione veniva riferita ai Pelasgi che, anchesecondo altre fonti, avrebbero popolato Atene pri-ma di essere scacciati a Lemno (HERODOTUS VI,137). La tradizione sul muro dei Pelasgi ateniesi equelle relative alla loro abilità come costruttoridelle cinte murarie che per antonomasia portanoil loro nome, sono all’origine di una parte delleleggende sulla diffusione di questa miti-storicaciviltà, rispolverate e accresciute spesso inopinata-mente dalla tradizione erudita dell’‘800.

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blema dei “recinti pelasgici”, fondato non su indagi-ni a tavolino ma su estese ricognizioni topografiche,integrate con l’esecuzione di accurati rilievi plani-metrici e sottoposte al vaglio della verifica archeolo-gica, sia ad oggi quasi completamente dimenticata.Il primo volume, dato alle stampe nel 1894 dopouna serie di anticipazioni nei fascicoli della rivista LaCiviltà Cattolica, recava un titolo assai eloquente checontraddistinguerà anche i due successivi tomiapparsi nel 1902: Gli Hethei-Pelasgi, ricerche di storia edi archeologia orientale, greca ed italica. A realizzarla fusignificativamente un gesuita calabrese, CesareAntonio De Cara (1835-1905) il quale, armato distrumenti euristici non troppo dissimili da quelli delsuo più illustre seicentesco predecessore, AthanasiusKircher, si schierava apertamente contro la scuola“ipercritica” tedesca, facendosi portavoce di unapretesa identità fra Hethei-Ittiti e Pelasgi, nomidiversi per un sol popolo che, in seguito a progressi-ve diaspore adombrate dalle più svariate fonti,avrebbe irradiato la sua cultura e la sua civiltà in tut-to il Mediterraneo, lasciando riscontri archeologiciin manifestazioni artistiche, architettoniche e lingui-stiche, delle quali il De Cara fu abilissimo collazio-natore e accanito divulgatore.Morto Schliemann erano in molti, come il De Carae il suo più fortunato omologo britannico, il Rev.Archibald Henry Sayce (1846-1933), ad auspicareche anche l’Italia trovasse un archeologo capace disvelare il mistero delle origini italiche e che, magari,con la sua stessa abilità, portasse alla luce tesori mira-bili come quelli troiani o micenei che si immagina-va fossero nascosti nel suolo di “città pelasgiche”quali Alatri, Alfedena e, soprattutto, Norba, la piùimponente e meglio conservata di tutte. Per giunge-re a tale scopo era tuttavia necessario volgere conte-stualmente lo sguardo alla patria dei “divini Pelasgi”e cercare nell’Egeo l’antica madre della profezia apol-linea immortalata da Virgilio (Aen. III, 96).Con questo obiettivo, fra i molti altri, la neonata

Gli strumenti critici di cui gli studiosi potevanoallora disporre erano spesso limitati alla sempliceanalogia e al mero comparativismo stilistico, eserci-tati peraltro su basi documentarie poco affidabili,data l’esiguità e la scarsa qualità delle raffigurazionidisponibili, la mancanza di dati di scavo e, quindi, disequenze crono-tipologiche attendibili. Era facilepertanto evidenziare corrispondenze apparenti ogeneriche somiglianze fra i più disparati prodottidell’artigianato, dell’arte e dell’architettura mediter-ranea, con le quali costruire teorie tanto complessequanto fragili. La fiducia positivistica nei principievoluzionistici affermatisi grazie alle scienze natura-li faceva sì poi che in questo acerbo coacervo di sup-posizioni trovassero posto considerazioni di tipo lin-guistico, para-etimologico, toponomastico o anche“biologico”, fondate sull’esame di specifici trattisomatici come quelli craniometrici a partire daiquali la nascente antropologia fisica cercava diricomporre un quadro evolutivo delle razze umane.Mescolati a tali mezzi i dati della tradizione classicae veterotestamentaria diventavano tessere di unmosaico che restituiva di volta in volta una immagi-ne differente.

Antiquam exquirite matrem

È curioso constatare come l’opera che più delle altredette impulso a un serio progetto di ricerca sul pro-

Arpino: Posterula versante nord ovest (foto D. Baldassarre)

In basso: Frontespizio del primo volume dell’opera di C.A.De Cara Sugli Hethei-Pelasgi, con dedica autografa a F. Bar-nabei (Propr. V. Nizzo)

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Regia Scuola Italiana di Archeologia di Roma diret-ta dal Pigorini aveva cominciato a muovere i suoiprimi timidi passi su di un suolo ellenico già da tem-po preda delle ambizioni di molte nazioni titolari diistituti e responsabili di fruttuose imprese come, adesempio, quelle francesi a Delfi e Delo, quelle tede-sche al Ceramico di Atene e ad Olimpia o quelleamericane a Thorikos e Corinto. In questa “compe-tizione scientifica”, che a tratti perpetuava le tensio-ni che animavano il dibattito politico contempora-neo e che spesso trascendeva in forme deleterie divero e proprio “colonialismo archeologico”, l’Italiaentrava con notevole ritardo e con mezzi tanto esi-gui da essere talvolta circoscritti alla sola buonavolontà dei primi esploratori e/o alle risorse difinanziatori privati italiani e stranieri, come l’Ar-chaeological Institute of America.A quest’ultimo si deveinfatti buona parte dei fondi che a partire dal 1892resero possibili le prime esplorazioni metodiche ita-liane sul suolo cretese dopo le pionieristiche e for-tunate ricerche di Halbherr (1857-1930), grazie allequali sarebbe poi finalmente sorta, nel 1909, l’oggicentenaria Scuola Archeologica Italiana di Atene. Nel primo esiguo manipolo di giovani archeologiche furono protagonisti di tale impresa figuranoalcuni dei nomi che negli anni seguenti avrebberoanimato non poco il dibattito sulle origini degli ita-lici come Luigi Savignoni (1864-1918) e LucioMariani (1865-1924). Quest’ultimo, in particolare,sin dal 1894 era stato indicato da De Cara (al qualeaveva porto una mano nella stesura del citato volu-me sugli Hethei) come l’unico in grado di cimen-tarsi nella soluzione del problema degli Hethei-Pelasgi, una stima che il Mariani seppe ricambiaredando eco agli scritti del gesuita nei suoi primi lavo-

ri giovanili e fornendo al contempo,grazie alle sue esperienze dirette sulsuolo cretese, nuovi materiali che sem-bravano avvalorare ulteriormente leanalogie formali esistenti fra le testimo-nianze preelleniche dell’Egeo e quellepresunte pelasgiche della Penisola,come Mariani scriveva a De Cara nel-l’autunno del 1893: «Le passerò quindi inuna rivista sommaria le diverse categorie dimonumenti che ho studiato, ed ella vedrà chene può risultare più d’un argomento inappoggio della sua teoria Hetheo-Pelasga,poiché anch’io, se non sono abbagliato dauna terribile allucinazione, ogni giorno piùche studio i monumenti preellenici […] mipersuado che tutto il grande complesso dellaciviltà c.d. micenea rappresenta una corrented’immigrazione dall’Asia in occidente, comeci dice la tradizione e come i trovamenti deinostri giorni mi pare che confermino. […] In

Creta […] per poco che si è operato […] ne sono venutifuori ben preziosi risultati e creda che io, che conosco il luo-go, mi sento fremere di voglia di frugare questo terreno checalpesto […] Vi sono alcune città di costruzione antichis-sima […] le quali ricordano nella situazione, nella strut-tura delle mura poligonali, nella pianta degli edifici, tanto imonumenti di Tirinto, Micene e Troia, come le nostre cittàpelasgiche d’Italia onde […] bisogna ammettere cheappartengano ad un sistema comune di costruzione, pensa-to e ragionato da un sol popolo e non somigliante solo perfortuite coincidenze».

A sinistra: Arpino: “cittadella” (foto V. Niz-zo)

In basso: Lucio Mariani (da Bull.Com. 1924)

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casione propizia parve giungere alla fine del 1895quando Arthur L. Frothingham jr., in qualità didirettore aggiunto dell’appena istituita (1895) Ame-rican Academy di Roma, aveva avviato le pratiche percondurre una missione archeologica sul suolo diNorba e vi aveva coordinato le prime ricerche otte-nendo risultati apparentemente favorevoli ai sosteni-tori della tesi “orientale”. La prospettiva che la scuo-la americana potesse sottrarre al Governo italiano ilprestigio derivante dalla risoluzione della “questionepelasgica” fece sì che, per un acerbo spirito patriot-tico, funzionari fino ad allora sostanzialmente inerticome Felice Barnabei (1842-1922), segretario parti-colare del ben più liberale Fiorelli del quale a breveavrebbe occupato la poltrona, si facessero subitolatori presso il Ministro Baccelli di un ambiziosoprogetto di ricerca che, sottraendo l’iniziativa aglistranieri, avrebbe riservato agli Italiani l’appiana-mento dello spinoso problema. Il programma era al

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Alla scoperta delle “città pelasgiche” d’Italia

Toccata con mano l’evidenza greca e orientale nonrestava quindi che volgere il piccone alle presunte“città pelasgiche” della Penisola per metterne inluce quei sepolcreti che, oltre alle ricchezze, avreb-bero dovuto anche rivelarne le origini. Gli appelli diDe Cara e Mariani trovarono immediato riscontronel mondo accademico da troppo tempo alle presecon una questione che, nel frattempo, continuava adautoalimentarsi contribuendo oltretutto ad alterarela percezione documentaria delle poche evidenzefino ad allora note come accadde nel caso di alcunesepolture rinvenute a Roma e nell’area dei ColliAlbani. Fra i principali sostenitori dell’impresa vierano personaggi del calibro di Pigorini e SalomonReinach (1858-1932) che speravano di trarre da essanuova sostanza per le loro ipotesi etnogenetichesebbene esse, contrariamente a quanto ipotizzato daDe Cara, spostassero l’ago della bussola da Oriente aOccidente, teorizzando una irradiazione dei popolipreellenici a partire dall’Europa centrale e non vice-versa, come nel caso del Reinach e del tedesco W.Helbig (1839-1915), o riconducessero l’originedegli Italici a una fantomatica cultura “terramarico-la” calata in Italia dalle Alpi, come sosterrà fino allamorte Pigorini. Il ritrovamento di materiali miceneiin Sicilia, effettuato da Paolo Orsi (1859-1935) inquegli anni, e l’individuazione di tratti egei nellaceramica indigena dell’Italia meridionale propostada Giovanni Patroni (1869-1951), sembravano dareragione ai seguaci della tradizione e a quanti, purtralasciando i dettagli della questione hetheo-pela-sgica, ne condividevano le grandi linee almenolimitatamente ai Tirreni, accogliendo la testimo-nianza erodotea relativa a una immigrazione degliEtruschi dalla Lidia, come sostenevano, in ferocepolemica con Helbig e Pigorini, Edoardo Brizio el’archeologo svedese Oscar Montelius (1843-1921).Mancava tuttavia una prova archeologica incontro-vertibile che, alla pari delle scoperte di Schliemann,offrisse una soluzione definitiva alla questione. L’oc-

A sinistra: Paolo Orsi (1859-1935). Da Barnabei,Delpino 1991 Wolfang Helbig (1839-1915). Da Bar-nabei, Delpino 1991

In basso: Arpino, “cittadella” (foto V.Nizzo)

A pag. 19, in alto: Norba. Da Dodwell1834

A pag. 19, in basso: Felice Barnabei(1842-1922). Da Barnabei, Delpino1991

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contempo semplice e ambizioso e prevedeva l’e-splorazione più o meno sistematica di almeno tre“recinti pelasgici” afferenti a diverse aree geografi-che: una “etrusco-laziale” facente capo a Norba, una“abruzzese” o “marso-sannitica” esemplificata da

Alfedena e una“lucana” rappresen-tata da Muro Luca-no. Le r icercheavrebbero dovutoessere condotteadottando le piùaccurate metodolo-gie di tutela, di scavoe di rilievo e i lororisultati avrebberodovuto essere daapposite missioni postia confronto con imonumenti della Gre-cia e dell’Asia minorecome con un appo-sito voto era stato

allora deliberato dall’Associazione Artistica dei Cul-tori di Architettura, diretta dall’architetto G. B. Gio-venale (1849-1934). Quest’ultimo, affascinato dalleteorie di De Cara, si era in quegli anni dedicato ala-cremente al problema, consacrando le sue compe-tenze alla documentazione di molte cinte pelasgichefra le quali quella di Alatri e riassumendone i fruttiin una dissertazione letta nel 1899 presso la Pontifi-cia Accademia Romana di Archeologia, la quale,sebbene fondata su ipotesi storiche preconcette,costituisce ancora oggi uno dei più importanti ten-

tativi di approccio tecnico-scientifico alla questionedelle mura poligonali.

Il “mistero” svelato

Guadagnata all’Italia l’esclusiva della ricerca que-st’ultima entrò nuovamente in una fase di stasi, siaper l’ininterrotto succedersi dei ministri sia per lacrescente mole di impegni politici e burocratici chedistraevano il suo principale propugnatore, Barna-bei. Mariani, nel frattempo, aveva conseguito e por-tato a termine l’incarico dell’esplorazione di Alfede-na senza tuttavia ottenerne risultati utili per risolve-re il problema. Si dovette quindi aspettare il 1901perché venisse finalmente conficcato il piccone ita-liano sul suolo di Norba, ma ad opera del Savignonie del Mengarelli e sotto la vigile direzione di Pigo-rini il quale, dopo il discredito che aveva contribui-to a gettare sul Barnabei nell’inchiesta per lo “scan-dalo di Villa Giulia”, era riuscito a estromettere que-st’ultimo e il Mariani (perché legato al Barnabei eprediletto da De Cara) dalla responsabilità e dalmerito di quella impresa. Nonostante gli intrighi dipalazzo e i complessi giochi di potere legati piùall’affermazione delle ambizioni personali che dellerispettive idee scientifiche, le esplorazioni di Norbaconseguirono sin da subito quei risultati storici cheanche le più recenti ed estensive ricerche hannoconfermato, testimoniando la romanità dell’impian-to poligonale e l’attribuzione delle sue prime fasi aun momento non anteriore alla metà del IV secoloa.C. (Quilici, Quilici Gigli).

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Il fantasma dei Pelasgi, almeno per quel che concer-neva Norba, risultava spazzato via in un solo colpo eil De Cara, assertore della loro identità con gliHethei, vedeva crollare all’improvviso il suo castellodi carte prima ancora che ne venissero alla luce gliultimi due tomi. La scoperta del sepolcreto di Cara-cupa-Valvisciolo, nei mesi seguenti, metteva infinein luce le caratteristiche prettamente italiche dellegenti che popolavano quei luoghi prima dei Roma-ni, spegnendo definitivamente le speranze di quantisognavano la scoperta di un “tesoro di Priamo”anche sul suolo italiano.Nell’Aprile del 1903, in occasione del Congresso Inter-nazionale di Scienze Storiche svoltosi a Roma, 250 sto-rici provenienti da tutto il mondo venivano condottia Norba per toccare con mano la veridicità archeolo-gica di quegli scavi e per assistere indirettamente al

riscatto delle teorie degli esponenti della scuola “iper-critica” tedesca e al trionfo degli assertori di una ori-gine centroeuropea degli Italici, primo fra tutti ilPigorini, protagonista incontrastato di un assordanteassolo che rese la paletnologia italiana schiava delleteorie terramaricole sino alla sua morte e anche oltre.Dopo il 1903 gran parte delle aspettative suscitate sulsuolo italico dalla questione pelasgica e dalle scoper-te di Schliemann vennero d’un tratto accantonate,mentre quanti da esse erano stati ammaliati si spense-ro nell’oblio come il De Cara o trascinarono i lorointeressi su altri fronti come il Mariani o il Giovena-le. Il progetto ricognitivo dei “recinti pelasgici” ven-ne di colpo abbandonato e dimenticato mentre eradestinata ancora a rimanere a lungo aperta la que-stione dell’origine degli Etruschi. Ma questa è un’al-tra storia. ■

In alto: Norba (foto V.Nizzo)

In basso: Alatri. Vedutadelle mura dell’acropoli(da Dodwell 1834)

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* Valentino Nizzo è Dottore diRicerca in Archeologia-Etruscolo-gia presso la “Sapienza“, Univer-sità di Roma; borsista post-docpresso l’Istituto Italiano di Scien-ze Umane di Firenze.Per contattarlo scrivere a:[email protected]

A destra: Alatri (foto V. Nizzo)

In basso: Alatri. Veduta dell’acro-poli da SE (foto D. Baldassarre)

Bibliografia Essenziale

Barbanera M., L’archeologia degli italiani, Roma 1998Barnabei M., Delpino F. (a cura di), Le «Memorie di unArcheologo» di Felice Barnabei, Roma 1991Briquel D., Les Pélasges en Italie. Recherches sur l’histoi-re de la légende, Rome 1984Duel L., Sulle tracce di Heinrich Schliemann, Milano1980Guadagno G., “Centosessanta anni di ricerche e stu-di sugli insediamenti megalitici. Un tentativo di sin-tesi”, in AA.VV., Mura poligonali. 1º Seminario naziona-le di studi, Alatri 2 ottobre 1988, Alatri 1989, pp. 13-21

Guidi A., Storia della paletnologia, Bari 1988Loader N.C., Building in cyclopean masonry: with specialreference to the Mycenaean Fortifications on MainlandGreece, Jonsered 1998Nizzo V., “Archetipi e «fantasmi» micenei nello studiodell’architettura funeraria del Lazio meridionale tra lafine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900”, in L. Drago (a curadi), Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preisto-ria ed età moderna, in corso di stampaQuilici L., Quilici Gigli S., “Sulle mura di Norba”, inL. Quilici, S. Quilici Gigli (a cura di), Fortificazioniantiche in Italia. Età Repubblicana, Atlante Tematico diTopografia Antica 9, 2000, Roma 2001, pp. 181-244