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  111 RIFLESSIONI SULLA PRATICA DEL RITUALE INCINERATORIO NEL LAZIO MERIDIONALE DELLA III E IV FASE *  Valentino Nizzo Fra gli aspetti “oscuri” dell’archeologia funeraria laziale tra la fine della prima età del ferro ed il periodo orientalizzante può ben figurare quello relativo alla presenza di un esiguo numero di sepolture ad incinerazione di problematica interpretazione sia per i caratteri della documentazione che per le prerogative del rito, un rito che si discosta da quello tipico della I e della II fase e che presenta al contempo tratti originali rispetto a quanto noto contemporaneamente nel resto della regione. Com’è risaputo grazie ad una lunga tradizione di studi corroborata da una ricca messe di recenti scoperte, l’incinerazione a Sud del Tevere nel corso del bronzo finale oltre a costituire l’unico rituale attestato è contraddistinta da uno straordinario “rigorismo ideologico” 1  che rappresenta sul piano archeologico la principale matrice comune di quella che convenzionalmente definiamo “cultura laziale”. L’armonia e la compattezza delle pratiche funerarie subisce tuttavia una progressiva e brusca regressione fin dal principio della fase IIA, periodo a partire dal quale il rituale inumatorio rappresenta la scelta privilegiata, laddove invece, in sepolcreti adeguatamente documentati come quello di Osteria dell’Osa (ma il quadro nel resto della regione non sembra essere dissimile), l’incinerazione costituisce sempre di più una eccezione, venendo adottata dal 15% dei defunti nella fase IIA e da poco più del 3% nel corso della fase IIB 2 . La critica è oggi comunemente concorde nell’attribuire le cause di questo fenomeno all’influsso dei contatti con l’area della Fossakultur , contatti *  Il presente articolo trae spunto da alcune delle problematiche che lo scrivente ha avuto modo di trattare nel corso del dottorato di ricerca in Archeologia (Etruscologia), XVIII ciclo, presso l’Università “La Sapienza” di Roma: N IZZO 2006-2007. Per l’approfondimento delle questioni connesse con l’archeologia funeraria di ambito greco è stata di grande importanza l’ospitalità concessa dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene, nella persona del prof. Emanuele Greco, presso la quale chi scrive ha avuto modo di trascorrere un proficuo soggiorno di studi nel febbraio-marzo del 2005. Un ringraziamento va infine alla prof. Gilda Bartoloni che, con la consueta disponibilità, ha stimolato questa ricerca e l’ha arricchita con s punti critici e utili discussioni. 1  COLONNA 1974, p. 286. 2  Le incinerazioni di fase IIA sono in tutto 24 (15%) a fronte di 136 inumazioni (85%). Nella fase IIB sono documentate in tutto 8 incinerazioni (3,1%) a fronte di 246 inumazioni (96,9%).

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RIFLESSIONI SULLA PRATICA DEL RITUALE INCINERATORIONEL LAZIO MERIDIONALE DELLA III E IV FASE

Valentino Nizzo

Fra gli aspetti “oscuri” dell’archeologia funeraria laziale tra la fine dellaprima età del ferro ed il periodo orientalizzante può ben figurare quello relativoalla presenza di un esiguo numero di sepolture ad incinerazione di problematicainterpretazione sia per i caratteri della documentazione che per le prerogativedel rito, un rito che si discosta da quello tipico della I e della II fase e chepresenta al contempo tratti originali rispetto a quanto noto contemporaneamentenel resto della regione.

Com’è risaputo grazie ad una lunga tradizione di studi corroborata dauna ricca messe di recenti scoperte, l’incinerazione a Sud del Tevere nel corsodel bronzo finale oltre a costituire l’unico rituale attestato è contraddistinta dauno straordinario “rigorismo ideologico”1 che rappresenta sul pianoarcheologico la principale matrice comune di quella che convenzionalmentedefiniamo “cultura laziale”. L’armonia e la compattezza delle pratiche funerariesubisce tuttavia una progressiva e brusca regressione fin dal principio della faseIIA, periodo a partire dal quale il rituale inumatorio rappresenta la sceltaprivilegiata, laddove invece, in sepolcreti adeguatamente documentati comequello di Osteria dell’Osa (ma il quadro nel resto della regione non sembraessere dissimile), l’incinerazione costituisce sempre di più una eccezione,venendo adottata dal 15% dei defunti nella fase IIA e da poco più del 3% nelcorso della fase IIB2.

La critica è oggi comunemente concorde nell’attribuire le cause diquesto fenomeno all’influsso dei contatti con l’area della Fossakultur , contatti

* Il presente articolo trae spunto da alcune delle problematiche che lo scrivente ha avutomodo di trattare nel corso del dottorato di ricerca in Archeologia (Etruscologia), XVIIIciclo, presso l’Università “La Sapienza” di Roma: NIZZO 2006-2007. Perl’approfondimento delle questioni connesse con l’archeologia funeraria di ambito grecoè stata di grande importanza l’ospitalità concessa dalla Scuola Archeologica Italiana diAtene, nella persona del prof. Emanuele Greco, presso la quale chi scrive ha avutomodo di trascorrere un proficuo soggiorno di studi nel febbraio-marzo del 2005. Unringraziamento va infine alla prof. Gilda Bartoloni che, con la consueta disponibilità, hastimolato questa ricerca e l’ha arricchita con spunti critici e utili discussioni.1 COLONNA 1974, p. 286.2 Le incinerazioni di fase IIA sono in tutto 24 (15%) a fronte di 136 inumazioni (85%).

Nella fase IIB sono documentate in tutto 8 incinerazioni (3,1%) a fronte di 246inumazioni (96,9%).

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che non si limitavano unicamente al transito di materie prime ed oggetti mapotevano concretizzarsi anche nell’immigrazione di singoli soggetti e/o gruppipiù ampi e/o in “scambi” di tipo matrimoniale3.

La disponibilità di adeguati campioni demografici come quello diOsteria dell’Osa mostra tuttavia come le dinamiche di questo processo sianoassai più complesse di quanto si possa supporre ipotizzando la sempliceadozione di “modelli esterni”. Vi sono infatti alcuni aspetti rituali difondamentale importanza ideologica, come ad esempio la rigorosa assenza dellearmi funzionali dai corredi o la prassi della deposizione secondaria, che segnanoun netto discrimine fra la pratica dell’inumazione del Lazio e quella dei centridella Fossakultur  dell’Italia meridionale, un discrimine che testimonia comel’adozione di questo rito sia stata preventivamente soggetta ad una indipendenteed originale riformulazione.

Con la III fase il processo di cui si sono sopra sintetizzate le lineeessenziali può dirsi concluso, salvo un ristretto numero di eccezioni sulle qualici si soffermerà nel presente contributo esaminando la documentazione deisingoli centri e proponendo qualche spunto interpretativo.

I. I contesti4 

1. Osteria dell’Osa

Nella necropoli di Osteria dell’Osa è documentata con certezza una solacremazione a carattere individuale di cronologia posteriore alla II fase, la O 259

(fig. 1), relativa  ad un soggetto che su basi antropologiche può essereconsiderato di sesso femminile (“F???”) e di età compresa fra i 15 ed i 18 anni5.

3 COLONNA 1974, pp. 299 ss.; A.M. BIETTI SESTIERI e A. DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992, p. 505 e pp. 515-523; BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 2004a. In generale sul ruolodegli scambi matrimoniali e, in particolare, su quello delle donne nei processi diacculturazione e/o anche come strumento per alleanze di tipo politico fra gli emergenticeti aristocratici si veda da ultimo il quadro di sintesi tracciato in B ARTOLONI 2007, conbibliografia precedente.4 Per facilitare i riferimenti alle sepolture oggetto di una specifica analisi si è fattosovente ricorso ad abbreviazioni (contraddistinte dall’uso del grassetto), nelle qualiviene riportata la denominazione originaria delle tombe (con la conversione dei numeriromani in numeri arabi) preceduta da una sigla indicante il sito (ad esempio: C 322 =Castel di Decima, tomba 322; R f DD = Roma, Foro Romano, tomba DD). Di taliabbreviazioni si fa utilizzo, oltre che nel testo, anche nella tabella riassuntiva finale: fig. 12.5 Per la determinazione antropologica cfr. M.J.  BECKER -  L.  SALVADEI, in BIETTI

SESTIERI 1992, p. 148; per l’inquadramento del contesto cfr. A.   DE SANTIS, ibid., pp.

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La datazione del corredo nell’ambito della fase IIIA è garantita dallapresenza di forme vascolari che, pur richiamando la tradizione ceramistica dellaII fase, presentano caratteri morfologici e decorativi propri della III 6.L’inquadramento nel momento iniziale del III periodo è confermatoindirettamente anche dal fatto che la tomba in esame risultava tagliata verso Wed E da una coppia di inumazioni riferibili genericamente alla stessa fase (O260 e O 261). Il concentrarsi delle deposizioni a ridosso dell’incinerazionefemminile O 259 e della vicina inumazione maschile O 262 (la più anticaconnotata da un’arma funzionale) non sembra essere un fatto casuale ma alcontrario esso sembra essere motivato dall’ “attrazione” esercitata da questacoppia di sepolture che avrebbe costituito il nucleo generante intorno al qualesarebbero andate poi affastellandosi, tra le fasi IIIA e IVB, le 65 tombe chefanno parte del cosiddetto “gruppo n”, “un gruppo familiare che si differenziarispetto al resto della comunità e che, nell’utilizzazione degli spazi dellanecropoli, esprime questa differenziazione attraverso la scelta e l’uso esclusivodi un’area determinata”, rappresentando “un esempio molto precoce [...]dell’emergere di una ideologia di tipo gentilizio nel rituale funebre che segnaprobabilmente il momento più antico del processo di differenziazione sociale”7.

L’impianto del “gruppo n” nell’area centrale della necropoli, in unsettore rimasto fino ad allora completamente libero, costituisce una nettainnovazione rispetto alle logiche che fino alla fine della fase IIB avevanoguidato lo sviluppo del sepolcreto, uno sviluppo sostanzialmente regolare, consovrapposizioni quasi sempre intenzionali che si traducono sovente nell’utilizzodella medesima fossa per due deposizioni (le cosiddette “doppie sepolture”),laddove invece nel settore centrale vanno imponendosi criteri che privilegiano il

principio della contiguità spaziale al nucleo centrale rispetto a quellodell’integrità delle singole strutture, con il conseguente raggiungimento di unadensità occupativa fra le più alte della necropoli.

La tomba O 259 sembra quindi accumulare un insieme di “segni”distintivi che ne accrescono la rilevanza più di quanto non sia lecito arguiredall’esame del solo corredo. A differenza delle incinerazioni della fase

788-789, figg. 3b.7, 15. L’attribuzione al genere femminile del soggetto cremato sembraessere confermata anche sul piano archeologico in virtù della presenza nel corredo di unanello fermatrecce a spirale di filo di bronzo (ibid ., p. 789, n. 5, figg. 3b.15, n. 5).6 Cfr. in particolare l’olla biansata tipo Osa 10f (A.  DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992,p. 789, n. 2, fig. 3b.15, n. 2; per il tipo: BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1992, p. 260) e latazza profonda con ansa bifora tipo Osa 20n ( ibid., n. 4; per il tipo: BIETTI SESTIERI-DE

SANTIS 1992, pp. 285-286).7 A. DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992, p. 787. Cfr. inoltre A.M.  BIETTI SESTIERI, inBIETTI SESTIERI 1992, p. 51 e BARTOLONI 2003, p. 52.

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precedente i resti cremati della defunta erano stati deposti all’interno del dolio adiretto contatto con il corredo; quest’ultimo era composto da tre vasi nonminiaturizzati (una coppia di tazze e un vaso biansato su piede), da un ciottolodi selce, 5 anellini ed una spirale fermatrecce di bronzo8. L’esiguitàdell’apparato ornamentale va probabilmente spiegata con specifiche pratiche delrituale incineratorio laziale che, in molti casi, potevano prevedere la rimozionedegli oggetti d’ornamento combusti sulla pira con il defunto, sovente sostituiticon versioni miniaturizzate degli stessi9; anche la presenza esclusiva di oggettinon miniaturizzati si inserisce in un fenomeno che ad Osteria dell’Osa èdocumentato da altre 7 incinerazioni10, corrispondenti alla totalità di quellefemminili11 ed a ben 5 delle 8 incinerazioni di fase IIB note12.

Le caratteristiche menzionate mostrano quindi come nel caso in esamevi sia una certa continuità rispetto alla documentazione del II periodo ma, aduna analisi più approfondita, emergono anche aspetti originali. Per quel checoncerne la “continuità”, infatti, le analogie osservate si pongono tutte su di unpiano nettamente contrastante con quelli che sono i connotati tipici delleincinerazioni più antiche, ossia la loro pertinenza a soggetti di sesso maschile ela tendenza rigorosa alla miniaturizzazione dell’intero corredo o di buona partedi esso. Assolutamente originale appare inoltre l’uso di deporre i resti incineratisenza ricorrere ad un apposito contenitore, ma direttamente nel dolio, senzadiaframmi con il resto del corredo. Ad Osteria dell’Osa questa pratica vieneammessa solo in quei casi nei quali il dolio è assimilato formalmente alla

8 Come si è accennato in precedenza la tomba risultava danneggiata in età anticalimitatamente alla parte sommitale del dolio ed alla sua copertura; non si può quindiescludere che tale circostanza possa avere contribuito alla dispersione di una parte delcorredo, una lacuna che, tuttavia, se si confrontano le caratteristiche della tomba conquanto noto per il resto del sepolcreto, non dovrebbe essere stata molto consistente.9 Nella necropoli di Osteria dell’Osa su 36 incinerazioni di II fase quelle provviste difibula sono in tutto 18 (50%; in 3 o 4 soli casi, quelli delle tombe 185, 365, 371 e quellodubbio 131, si tratta di es. di dimensioni reali), 4 delle quali accompagnate anche dasemplici anellini; a queste si può aggiungere la tomba 98, connotata da anelli e dischetti.Le incinerazioni sprovviste di ornamenti nel II periodo sono in tutto 17 (47,2%).10 Si tratta delle incinerazioni definite di “tipo c” dall’Editrice: 103, 164, 259, 365, 441,482, 504 (BIETTI SESTIERI 1992, p. 205), alle quali va aggiunta anche la 162considerata, erroneamente, fra quelle del tipo “b” ma correttamente attribuita a quellecon “corredo normale” nella sezione catalogica (ibid., p. 585).11 Le incinerazioni pertinenti a soggetti di sesso femminile sono in tutto 5 (259, 365,441, 482, 504), distribuite fra la fase IIA1 (365) e la IIIA.12 Cinque delle quali pertinenti a soggetti di sesso maschile (142, 162, 164, 307, 503) ele rimanenti femminili (441, 482, 504).

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capanna13, cosa che certamente non pare essere avvenuta nella tomba inesame14. Nel resto della regione tale costume ci è noto con sicurezza in due solicasi, quello della tomba 17 della Macchia di Santa Lucia (?) di Satricum, scavi1908 (SA nw (1907-10) 17), e quello della tomba DD del Foro Romano (R f 

DD), scavi Boni15, sepolture che, in base ad esami antropologici, possono essereriferite a soggetti di sesso maschile, di età adulta quello romano16, mentre perquel che concerne la cronologia l’assenza di elementi tipologicamentedeterminanti suggerisce un loro generico inquadramento nell’ambito della IIfase, senza tuttavia poter escludere un termine anche più in basso17, almeno nel

13 Tombe 128 e 454 con dolio-capanna; nel caso della tomba 307, invece, il dolio-capanna (di tipo affine a quello della tomba 454) conteneva un’urna ovoidale concoperchio pileato. Per quel che concerne la tomba 456, contraddistinta dal solo dolio, lostato di grave frammentarietà non permette di formulare alcuna considerazione.14 Il dolio della tomba O 259 è attribuito dubitativamente al tipo Osa 1c (BIETTI

SESTIERI-DE SANTIS 1992, p. 231), nel quale sono compresi numerosi altri esemplari,tutti provenienti da sepolture ad incinerazione. All’Osa la presenza di elementi più omeno esplicitamente allusivi all’assimilazione dell’urna ad una capanna (come, adesempio, i coperchi conformati a tetto; su queste problematiche cfr. da ultime B IETTI

SESTIERI-DE SANTIS 2004) è assai rara nell’ambito della fase IIB (tombe 142 e 503).Solo 4 delle 8 incinerazioni riferibili alla fase IIB (142, 162, 307, 503, tutte maschili)presentano componenti che presuppongono una allusione di tale genere (50%), mentrenella fase IIA questo avveniva in 21 casi sui 24 documentati (87,5%). La mancanza dielementi metaforici di questo tipo nella tomba in esame, quindi, potrebbe essereconsiderata un dato positivo anche tenendo conto della perdita del coperchio del dolio,per fattori connessi sia alla cronologia che al sesso della defunta.15 SA nw (1907-10) 17: GINGE 1996, pp. 38-39, fig. 10 e WAARSENBURG 1995, p. 134,nota 400. R f DD: BONI 1911, pp. 165-166, figg. 1, 7-10; GJERSTAD 1956, p. 82, figg.76-79. Oltre al caso citato, a Roma ve ne potrebbero essere anche altri per i quali,tuttavia, non si hanno dati certi (cfr. avanti la documentazione discussa al Paragrafo I.3).16 SA nw (1907-10) 17: M.J. BECKER, in GINGE 1996, p. 187. R f DD: si veda l’analisidel prof. Roncali, in BONI 1911, p. 165 (solo per l’età); N.G. GEJVALL e C.H. HJORTSJO,in GJERSTAD 1956, p. 307.17 La tomba di Satricum è sprovvista di elementi determinanti (un frammento dibucchero va considerato certamente come intruso); Ginge e Waarsenburg (GINGE 1996;WAARSENBURG 1995) propongono un suo inquadramento nell’ambito della fase IIB,fondato essenzialmente sulla tipologia del dolio e le caratteristiche del rituale. La tombaR f DD non contiene oggetti che permettano una sua puntuale datazione (l’attribuzionealla fase IIA1 proposta in BETTELLI 1997, tab. 2, va considerata molto probabilmenteuna forzatura: cfr. al riguardo BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1997, passim e in particolarep. 526). L’elemento cronologicamente più significativo è costituito dalla tazza

riprodotta in GJERSTAD 1956, fig. 79/3, per la quale possono essere ravvisati riscontripiuttosto puntuali per forma e decorazione con esemplari dalle vicine tombe P, KK, HH

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caso del contesto satricano che potrebbe essere coevo alla tomba O 259.Analogamente alla tomba in esame ambedue risultano contraddistinte

da oggetti di dimensioni reali (eccezion fatta per la coppetta miniaturizzata dellatomba satricana le cui analogie con esemplari di carattere votivo permettono diescluderla dal novero del corredo funebre)18, così come sembrano essere deltutto assenti elementi che assimilino il complesso tombale alla capanna, sebbenenel caso della tomba di Satricum si debba tener conto delle circostanze dirinvenimento e della possibile incompletezza del corredo.

Tratti originali e per certi versi “eccezionali” sembrano ricorrere anchein quella che potrebbe essere l’unica altra incinerazione individuale restituitadalla necropoli: la “tomba del guerriero” O 600 di fase IIIB che, come è stato inpiù occasioni evidenziato da A. De Santis19, costituisce il complesso di maggiorinteresse fra quelli inquadrabili nel momento di transizione fra la fine dellaprima età del ferro e l’orientalizzante dell’Osa.

L’uso del condizionale è d’obbligo date le circostanze di rinvenimento.I resti della tomba O 600, infatti, vennero alla luce nel 1972 nella zona a SWdella via Prenestina antica, non lontano dall’area interessata dagli scavi regolari,in seguito a profondi scassi agricoli che avevano disperso quasi integralmente ilcorredo ceramico e parte almeno degli oggetti personali; gli elementi superstitivennero raccolti in superficie senza che fosse possibile registrare alcun datoutile circa le condizioni di giacitura e le caratteristiche della deposizione.

Nonostante le incertezze documentarie derivanti dalla concomitanza ditali e tanti fattori negativi, i dati disponibili permettono comunque di ipotizzare

e soprattutto X (quest’ultima contraddistinta anche da un dolio sostanzialmente identicoa quello della tomba DD), sepolture inquadrabili nell’ambito della fase IIA, ma in unmomento avanzato della stessa, come sembra possibile supporre almeno nel caso dellaKK (per la presenza di una fibula ad arco ingrossato) ed in quello della P (per la fibulaserpeggiante con occhiello, sulla cui evoluzione cfr. da ultimo BABBI 2002-2003, pp.136-137, n. 18, fig. 9), tombe, queste ultime, che potrebbero anche essere attribuiteall’inizio della fase IIB. 18 Come rilevato dalla Ginge (GINGE 1996), la presenza in contesti funerari di vasellamevotivo di tipo affine a quello attestato in ambito cultuale (ma di tipo diverso rispetto aquello miniaturizzato proprio delle incinerazioni) è documentata nella necropoli diOsteria dell’Osa fin dall’inizio della prima età del ferro con testimonianze isolate anchenell’orientalizzante (BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1992, pp. 317-318; cfr. inoltre quantoosservato a proposito delle sepolture recenziori a p. 512; per le affinità fra i vasi votiviminiaturizzati a carattere funerario e quelli a destinazione cultuale cfr. C OLONNA 1988,p. 445 e, in generale, su tali problematiche PELLEGRINI 1997, con ulteriore bibliografia). 19 A. DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992, pp. 875-877, tavv. 47-49; DE SANTIS 1995, p.372; DE SANTIS 2005.

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con una certa plausibilità che il “guerriero” della tomba O 600 fosse statoincinerato20. La presenza del biconico in lamina di bronzo (fig. 2) e quelladell’elmo utilizzato eventualmente come coperchio, infatti, data la loro quasiassoluta originalità nel Latium vetus21, potrebbero costituire degli indizi in talsenso, viste le indubbie analogie (sia sul piano tipologico che su quello delrituale) con il coevo ambiente villanoviano in generale e veiente in particolare22.

In alternativa all’elmo non si può escludere che la funzione di coperturadell’eventuale cinerario possa essere stata assolta dal coperchio troncoconico dibronzo tipo Osa 83b23, peraltro impreziosito da una ricca decorazione a bulinosulla parte superiore. La medesima associazione biconico-coperchio ricorre, percitare alcuni esempi, a Bologna, nella tomba Benacci Caprara 39 24, ed, inparticolare, a Vulci, dove sono note diverse attestazioni, sia contestualizzate25 che prive di contesto26.

20 Questa ipotesi è stata prospettata da A.M. BIETTI SESTIERI, in BIETTI SESTIERI 1992,p. 204. Assai più prudente la posizione espressa da A. De Santis nel medesimo volume(ibid., p. 876), laddove la presenza di più di uno scudo di bronzo viene consideratacome un elemento a favore dell’interpretazione della sepoltura come inumazione,sebbene poi la medesima Autrice osservi, in uno scritto del 1995 (DE SANTIS 1995,  p.372), come in realtà quest’ultimo fattore non costituisca un discrimine sufficienteessendo documentate coppie di scudi anche in casi certi di cremazioni maschili, nelLatium vetus  alla Laurentina  (A 93) così come, in ambito veiente, nella tombaprincipesca di Monte Michele (BOITANI 1983). A detta dell’Editrice, quindi, i dati notinon sono sufficienti a determinare con certezza il rituale (posizione recentementeribadita in DE SANTIS 2005). Per una interpretazione come incinerazione propendeinfine G. Bartoloni (BARTOLONI 1984, p. 16; BARTOLONI 2003, p. 52).21 Si veda la documentazione prenestina discussa in questa sede al Paragrafo  I.2 e, inparticolare, il caso della cosiddetta “Tomba Castellani”.22 Su questi aspetti cfr. in dettaglio DE SANTIS 1995 e DE SANTIS 2005. Per una recentericonsiderazione tipologica dell’elmo (“tipo Asti”, var. A) e del biconico (“tipo Vulci”)cfr. IAIA 2005, rispettivamente a p. 83, cat. 29, e distribuzione a p. 248, fig. 100, e p.160, cat. 21; su vasi bronzei di tipo affine a quello in esame ma dal profilo più o menobiconico cfr. anche DRAGO 2005, p. 105, nota 83 con ulteriore bibliografia.23 BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1992, p. 416.24 TOVOLI 1989, p. 130, nn. 1.1-2, tav. 45.25 Tomba 97 della Cuccumella, scavi Gsell 1889 (GSELL 1891, pp. 205-208; esemplareinedito); “tomba del guerriero” della Polledrara, scavi 1976 (MORETTI SGUBINI 2004,pp. 150-165, cat. II.e); l’associazione del coperchio (cat. II.e.20) con il biconico (cat.II.e.19) non è certa come pure non lo è la destinazione d’uso funeraria del contenitore(per ulteriori riscontri con biconici bronzei vulcenti, oltre quelli menzionati in questasede, cfr. A.M. MORETTI SGUBINI, in MORETTI SGUBINI 2001, p. 201, cat. III.B.2.2).26 Da Vulci, esemplare degli scavi Bendinelli (necropoli dell’Osteria, La Cantina, inv.62984: A. GUIDI, in FALCONI AMORELLI 1983, p. 159, n. 211, figg. 69-70 e FUGAZZOLA

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La presenza del biconico di bronzo, tuttavia, non può costituire unaprova risolutiva per l’identificazione del rituale adottato come dimostra, adesempio, il caso della tomba 871 di Casale del Fosso a Veio27 o quello della 201di Calatia28, per citare un contesto estraneo all’ambiente villanoviano. Inquest’ultima sepoltura, una ricchissima inumazione femminile degli anniintorno al 700-690 a.C.29, figura infatti un biconico di bronzo che, seppure

DELPINO 1984, pp. 71-72, n. 7 che lo riferisce alla tomba 2 del sepolcreto); il biconicoera associato a 4 pendagli (sospesi alle maniglie) identici agli 11 della tomba O 600;tale circostanza potrebbe permettere di ipotizzare la pertinenza di alcuni dei pendaglidell’Osa al biconico oltre che agli scudi, come potrebbe dimostrare anche il casoanalogo della tomba 201 di Calatia (cfr. avanti nota 28 e s.). Collezione Massimo,Mandrione di Cavalupo, sporadico inv. 64486 (FALCONI AMORELLI 1968, n. 21).Esemplari di generica provenienza vulcente sono conservati nelle Collezioni Pesciotti(A.M.  MORETTI SGUBINI, in  Nuove scoperte 1975, pp. 184-186, catt. 5-7, tav. 42) eLotti (invv. 1427 e 1990: C. CASI e M.G. CELUZZA, in CELUZZA 2000, pp. 60-64).27 DRAGO 2005, p. 105, fig. 15, 1 e nota 83. Un biconico tipologicamente affine a quelloveiente proviene dalla tomba 110 di Castel di Decima, inumazione femminile di rangoprincipesco databile in un momento di passaggio fra la fase IIIB e la IVA1 (il contesto èinedito; sintetici cenni in BEDINI-CORDANO 1977, p. 284 e pp. 286-288, pp. 306-308;l’esemplare è riprodotto in BEDINI-CORDANO 1980, p. 101, tav. 15, 29; entrambi gliesemplari sono stati considerati da Iaia nel “tipo Veio”: IAIA 2005, pp. 178-179, cat. 45-46, senza menzionare il contesto di provenienza di quello laziale).28 La tomba, il cui corredo è attualmente esposto nel Museo Archeologico Nazionale diNapoli, è nota solo in forma parziale. Una sua edizione preliminare è in ALBORE

LIVADIE 1989; altri cenni  in BORRIELLO 2007.29 C. Albore Livadie data il contesto nell’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C. per lapresenza di una kotyle PCA con confronti puntuali a Pithekoussai (ALBORE LIVADIE

1989,  p. 31; i termini risultano ampliati fra il 750 ed il 700 a.C. in BORRIELLO 2007).Tale datazione può essere ulteriormente puntualizzata grazie ai numerosi riscontriravvisabili nella sequenza crono-tipologica elaborata dallo scrivente per la necropolipithecusana. Come ha rilevato la Livadie la kotyle inv. 218925 (ALBORE LIVADIE 1989, pp. 19-20, n. 7, fig. 6) corrisponde puntualmente al tipo B410(AI-C)B1c documentato aPithekoussai in un momento centrale del TG2 (“livv. 23-25”: N IZZO 2007, p. 162),periodo al quale possono essere riferiti più o meno precisamente anche altri oggetti delcorredo come lo skyphos pithecusano inv. 218926 (ibid.,  p. 20, n. 8, fig. 7), daconsiderare un adattamento locale delle coppe del tipo di Thapsos senza pannello (cfr. iltipo: B390(AL)B2, NIZZO 2007, p. 153: “liv. 24”; esemplari affini a Cuma e nella Valledel Sarno: cfr. NIZZO, c.s. e D’AGOSTINO 1979, p. 64, fig. 36), note ad Ischia anche daoriginali corinzi (tipo B390(AI-C)B2: NIZZO 2007, p. 155: “livv. 26-27”), fra i qualimerita una menzione quello della tomba 323 (TG2, liv. 26: ibid., tav. p. 182), contesto

nel quale figura anche una scodella di argilla figulina del tipo B340(AL)A1a ( ibid., p.149: “livv. 24-27”) analoga all’esemplare inv. 218928 di Calatia ( ibid., p. 21, n. 15, fig.

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frammentario, sembra essere molto simile a quello in esame, analogia rafforzataanche dal fatto che ad una delle anse risulta sospeso un pendaglio identico altipo Osa 88jj, documentato da 11 repliche nella sola tomba O 600

30.Alla luce dei casi citati, quindi, l’interpretazione della sepoltura come

una incinerazione resta problematica; il fatto che al momento del rinvenimentoalcuni resti del corredo, “tutti in cattivo stato di conservazione e molto lacunosi,[...] erano contenuti in una lente di terra nera, frammisti ad alcune lastrine dicrosta di travertino e a piccole pietre”31, di per sé non pare risolutivo sebbeneuna circostanza simile sia stata notata anche nell’altrettanto problematico casodel “tumulo Lanciani” di Decima (C tu) nel quale, “al di sopra [della grandefossa], misti a lenti di terra nerastra, fra i tufi di riempimento si [rinvennero]senza alcun ordine centinaia di minuti frammenti di lamina bronzea liscia odecorata a sbalzo con motivi geometrici, di cui numerosi appartenenti ad uno opiù scudi di cui si sono identificati anche tratti di orlo e alcuni caratteristici

11) ed una scodella biansata d’impasto del tipo B340(ImL)B2b (N IZZO 2007, p. 150: 2cronologia minima “TG2-MPC 24-30”), affine all’esemplare inv. 218932 ( ibid., p. 21,n. 14, fig. 13). Allo stesso orizzonte riportano l’apparato ornamentale e, in particolare,le 5 fibule ad arco serpeggiante con quattro coppie di apofisi ( ibid.,  p. 24, nn. 47-51;BORRIELLO 2007,  p.  199), corrispondenti al tipo A10N4c BR di Pithekoussai (NIZZO 2007, p. 98: “TG2 23-27”) ed i tre esemplari a navicella con apofisi ( ibid., p. 24, nn. 52-54; BORRIELLO 2007, ibid.) riferibili al tipo A10E2 BR (NIZZO 2007, p. 98: : “cron. min.TG2-MPC 23-31”). Tutti gli elementi citati inducono ad inquadrare la T. 201 in unafase non anteriore ad un momento centrale-avanzato del TG2 (“livv. 23-27” dellasequenza pithecusana: 705-685 a.C. ca.), che può essere ulteriormente circoscritto aglianni intorno al 700-690 a.C., tenendo conto dell’eccezionalità del contesto che potrebbeaver favorito una precoce acquisizione ed un altrettanto precoce utilizzo di elementiallogeni.30 BIETTI SESTIERI 1992, tav. 49, n. 7; per il tipo BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1992, pp.427-428 e, da ultimo, IAIA 2005, p. 123, tipo 1. Per l’interpretazione simbolica di questotipo di pendagli si veda quanto accennato dallo scrivente in NIZZO 2007a, p. 338, conbibliografia a p. 353 nota 60. Il biconico di Calatia ed il relativo pendaglio sono ancorainediti (cenni in ALBORE LIVADIE 1989, p. 24, n. 37, inv. 218961), ma sono esposti nelMuseo di Napoli. L’attuale ricostruzione (suggerita da un supporto in  plexiglas e da undisegno tratto da HENCKEN 1968, fig. 172e) sembra piuttosto arbitraria (in particolareper quel che riguarda la conformazione del collo, al quale viene attribuita una formacilindrica) anche alla luce del confronto con l’esemplare gabino che potrebbe esserestato prodotto dalla medesima bottega (come suggerisce l’assoluta identità del

pendaglio, derivante forse dalla stessa matrice di quelli laziali).31 A. DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992, p. 875.

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pendagli antropomorfi”32.Per quel che concerne la tomba O 600 bisogna inoltre tenere conto della

possibilità che le eventuali ceneri non siano state collocate nel cinerario masparse direttamente sul piano della sepoltura (indipendentemente dal fatto cheessa sia stata o meno utilizzata anche come ustrino) e che la lacunosità dei restidel corredo possa essere dipesa non solo dall’azione delle arature ma anche dauna sua combustione con il defunto, analogamente a quanto è stato ipotizzato daA. Bedini nel caso citato di Decima33. Questa eventualità spiegherebbel’assenza di oggetti d’ornamento che, come si è avuto già modo di sottolineare,potrebbe rientrare nella prassi tipica delle incinerazioni laziali delle fasi piùantiche che prevedevano la selezione/rimozione degli ornamenti combustidall’ustrino.

L’assenza di ornamenti, la presenza di un ricco corredo comprensivo diun biconico bronzeo di tipo affine a quello della tomba in esame e laconnotazione del defunto come un guerriero al vertice della scala socialecontraddistingue la tomba XVI della necropoli capenate di San Martino,databile entro la fine dell’orientalizzante antico locale (675 a.C.), contesto che èstato oggetto di recente di una rilettura particolarmente interessante per quelliche sono i fini del presente contributo34. Il ritrovamento della documentazioneoriginaria dello scavo ha consentito ad A. Sommella Mura di integrare edapprofondire il quadro delineato dal Paribeni due anni dopo la scoperta35. Inparticolare è emerso con chiarezza come la sepoltura fosse del tipo a caditoiacon loculo sepolcrale, con il corredo collocato esclusivamente nel loculo,secondo una prassi ben nota in ambito falisco, veiente e crustumino ma fino adora sconosciuta a Capena36. Al momento dello scavo la totale assenza di resti

ossei inumati o cremati così come quella degli oggetti d’ornamento dettero aditoall’ipotesi di una violazione della sepoltura in età antica, una supposizione cheva tuttavia esclusa anche solo tenendo conto della qualità e dello stato del restodel corredo oltre che della sua coerente ed accurata disposizione. Lacollocazione del carro da guerra nella zona centrale, apparentemente integro,

32 BEDINI-CORDANO 1977, pp. 290-292. I “pendenti antropomorfi” citati, probabilmente,sono affini a quelli della tomba 600 se non sono, addirittura, del medesimo tipo (cfr.nota 30), circostanza che rafforzerebbe ulteriormente le analogie fra i due contesti. Perla discussione della tomba di Decima si rinvia al Paragrafo I.7.33 BEDINI-CORDANO 1977, p. 295: “…alla cremazione infatti fa pensare lo strato di terranerastra frammista al tritume di oggetti di bronzo e ceramica, che possono rappresentarei resti del rogo deposti nella grande fossa rettangolare”.34 SOMMELLA MURA 2004-2005.35 PARIBENI 1906, cc. 291-8.36 SOMMELLA MURA 2004-2005, p. 253, con bibliografia.

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oltre a condizionare il posizionamento degli altri oggetti sembra al contempoescludere la possibilità che nel loculo vi fosse spazio sufficiente perl’inumazione di un cadavere, dando adito all’ipotesi che quest’ultimo fosse statocremato ed i suoi resti, forse, fossero stati deposti all’interno del biconico.

Se così fosse, nel caso capenate come in quello gabino, ci si troverebbedi fronte ad una situazione più o meno analoga a quella attestatacontemporaneamente in sepolture principesche di ambito veiente e falisco37, lacui origine va quasi certamente ricercata in modelli eroici di matrice greca,riadattati attraverso una prospettiva indigena nella quale un ruolo importante èstato giocato dalla tradizione villanoviana.

Per completare il quadro delle incinerazioni gabine restano damenzionare i resti cremati (pertinenti a due o, preferibilmente, ad un soloindividuo) rinvenuti presso la banchina est della cella orientale della tomba acamera O 62E, di fase IVB38. Sulla base di esami di tipo antropologico edell’evidenza offerta dal corredo la deposizione può essere attribuita ad uno odue soggetti adulti di sesso maschile uno dei quali, almeno, connotato comeguerriero. Il protrarsi dell’utilizzo della sepoltura per più deposizioniscaglionate nel corso dell’orientalizzante recente ha significativamente alteratola disposizione e l’integrità dei corredi, in particolar modo dei più antichi fra iquali, appunto, può essere collocato quello in discussione. I dati raccolti nelcorso dello scavo sembrano indicare che la combustione del defunto avvennedirettamente sulla banchina39, senza che i resti cremati venissero rimossi peressere collocati in un apposito cinerario, come avviene in quelle sepoltureconvenzionalmente definite “busta”40.

37 Per quel che riguarda la documentazione veiente si veda da ultima DRAGO 2005, conla bibliografia riportata a p. 99, nota 52 ed a p.  119, nota 145. Per l’ambito falisco siveda il caso esemplare della tomba 4 della Petrina recentemente ripreso in esame dallaDe Lucia Brolli (DE LUCIA BROLLI 1997).38 A. DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992, pp. 864 ss., in particolare pp. 867-868, figg.3c.103-105. L’identificazione dell’incinerazione in esame è avvenuta solo diversotempo dopo lo scavo, in seguito ad esami effettuati in laboratorio come dimostral’assenza di riferimenti nella prima edizione del contesto: M. CATALDI DINI, in A.M. BIETTI SESTIERI (a cura di),   Ricerca su una comunità del Lazio Protostorico, Roma1979, pp. 187-194 (in particolare alle pp. 189-191).39 A. DE SANTIS, in BIETTI SESTIERI 1992, p. 818.40 Iulius Paulus in Fest.  Ep.,  p. 32:   Bustum prope dicitur locus in quo mortuus est 

combustus et sepultus [...] ubi vero combustus quis tantummodo, alibi vero est sepultus,

is locus ab urendo ustrina vocatur, sed modo busta sepulcra appellamus; Serv. ad Aen. 

11,  201:  bustum dicitur id quo mortuus combustus est ossaque eius ibi iuxta sunt 

sepulta.  Contrario ad un uso del termine latino è H. Duday che, recentemente, si è

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L’incinerazione della tomba a camera O 62E verrebbe pertanto adacquisire dei connotati eccezionali, non tanto per la qualità del corredo quantoper l’adozione di un rituale di matrice eroica attraverso il quale veniva esaltatoil rango del defunto, secondo un modello ideologico per il quale si hannosignificative attestazioni nell’Etruria del VII secolo a.C.41; parimenti la sceltadel modello della sepoltura collettiva, importato direttamente dall’Etruria (comeperaltro gran parte del corredo vascolare), sortiva il medesimo scopo calando ildefunto ed il suo nucleo familiare in una dimensione gentilizia, dalle spiccateambizioni “aristocratiche”42.

2. Palestrina

Com’è noto la documentazione funeraria restituita dalle ricchenecropoli di Praeneste è stata pesantemente ed a tratti irrimediabilmentecompromessa dalle frenetiche circostanze nelle quali si succedettero iritrovamenti, a partire dalla metà del '700 e per tutto il corso dell’80043.Scoperte archivistiche recenti come, ad esempio, quelle effettuate da G.Colonna per la tomba Castellani, dimostrano quanto siano spesso esili le nostreconoscenze relative a contesti di indiscussa fama44.

Fra i ritrovamenti effettuati alla fine dell’800 ne figura uno che potrebbeinteressare ai fini della presente trattazione. Si tratta di una sepoltura venuta allaluce nel 1898 (PL 1898) in un terreno appartenente alla famiglia Libizzi sitonell’area della Colombella “in vicinanza dei luoghi ove avvennero le fortunatescoperte Barberini”45; la tomba sorgeva in un settore utilizzato come sepolcretofino all’età tardo-repubblicana con tracce che indiziavano una sua precedentedestinazione abitativa testimoniata dalla presenza di tre “fondi di capanne” di

cronologia non meglio precisabile

46

. La sepoltura in oggetto, “riferibile ad unaetà più antica” rispetto a quella ellenistica, sorgeva “in vicinanza delle predette

espresso a favore di perifrasi come “tomba a rogo” o “fossa a rogo”, terminequest’ultimo da adottare in presenza di tombe “scavate” (DUDAY 2006, p. 225).41 BOITANI 1983; BARTOLONI 1984; BOITANI 2001; BARTOLONI 2003, pp. 50-55.42 AMPOLO 1970-1971, pp. 48-49; AMPOLO-BARTOLONI 1980, p. 185; COLONNA 1988,p. 468; BARTOLONI 2003, pp. 63 ss.43 Sulle vicende degli scavi delle necropoli di Praeneste cfr. in particolare COLONNA

1992 ed i vari contributi editi in  Atti Palestrina 1992; cfr. inoltre F. ZEVI, in CLP 1976,pp. 213-217.44 COLONNA 1992, pp. 47-51; MAGAGNINI 2000; A.M. MORETTI SGUBINI, in Collezione

Castellani 2000, pp. 129-133.45 PASQUI 1900a, pp. 89-90.46 PASQUI 1900a, p. 89; F.  ZEVI, in CLP 1976, p. 217. Per una localizzazione deirinvenimenti citati nella valle dello Spedalato cfr. QUILICI 1992, pp. 59-63.

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capanne” ma non sembrerebbe esservi stato alcun rapporto con esse. Lo scavo,eseguito da un privato, venne sorvegliato dal custode R. Finelli la cui solerzia,oltre che dalle testimonianze dei contemporanei, è comprovata dalla cura con laquale in quello stesso lasso di tempo aveva seguito le indagini effettuate daMengarelli a Satricum47. Stando alle parole di Finelli riportate da A. Pasqui latomba era del tipo a fossa “semplice”, “senza segno di copertura” ossia priva dipietre di riempimento, scavata a poca profondità ed intaccata in superficie elungo il perimetro dai lavori agricoli; “del cadavere [...] non rimanevano chepoche ossa ed un dente [...] bruciate e riunite in un mucchietto, tanto che lostesso Finelli afferma nel suo giornale che il cadavere fosse stato cremato”.

La composizione del corredo, noto solo attraverso la sommariadescrizione di Pasqui, e la quasi totale assenza del vasellame ceramico lascianosupporre che esso sia stato almeno in parte depredato e/o disperso, forse inseguito ai menzionati lavori agricoli che potrebbero aver asportato un eventualeloculo posto ad un livello superiore rispetto al piano deposizionale (circostanzache potrebbe essersi verificata anche nel caso sopra esaminato della tomba O

600). La presenza di “un anello di bronzo, di forma piatta” e di fibule del tipo“con arco a navicella, vuoto e ornato” ad incisione con motivi geometrici, oltreche di vaghi di collana in ambra e pasta vitrea lasciano pochi dubbi circa lapertinenza della sepoltura ad un soggetto di sesso femminile, di cronologiacompresa nell’ambito della fase IVA. Del corredo faceva parte anche un “lebetedi lamina sottilissima, raccolto in frammenti” al cui interno venne rinvenuto “unvaso di terracotta [...] in tale stato che non fu possibile precisarne la forma e ledimensioni”.

La collocazione del “lebete” insieme agli oggetti d’ornamento

testimonia probabilmente che esso doveva essere stato collocato incorrispondenza del piano deposizionale e, pertanto, distinto dal resto delcorredo vascolare deposto nell’ipotetico loculo; tale circostanza potrebbeacquisire una insospettata coerenza se il cadavere fosse stato effettivamentecremato, come sosteneva Finelli. Il fatto che, tuttavia, le ossa fossero “riunite inun mucchietto” lascia supporre che al momento della scoperta esse non fosseroassociate al lebete che, peraltro, come si è detto, conteneva a sua volta un vaso.L’equazione lebete-cinerario, sebbene affascinante date le potenziali analogie

47 Cfr. WAARSENBURG 1995,  passim ed in particolare p. 61 con bibliografia alla nota224; cfr. inoltre BARNABEI-DELPINO 1991, pp. 236-237, nota 11 con bibliografia. Come

ha messo in evidenza Waarsenburg, il trasferimento di Finelli da Satricum a Palestrinaebbe ripercussioni assai negative sull’andamento degli scavi nel primo sito.

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con coeve incinerazioni della Campania48, non può essere quindi sostenuta sullasola base dei dati noti, anche se non si può escludere che l’originariadisposizione degli oggetti e dei resti ossei possa essere stata alterata in antico dainterventi post-deposizionali.

Alla luce della documentazione discussa in questa sede l’eventualeassenza di un cinerario non sembra rappresentare una valida obiezioneall’ipotesi che la defunta potesse essere stata cremata; anche la presenzadell’apparato ornamentale non sembra costituire un sufficiente discrimine in talsenso49 visto che esso potrebbe essere stato collocato in modo indipendenterispetto ai resti incinerati analogamente a quanto suole accadere nel caso dei“ripostigli” vetuloniesi. La tomba prenestina potrebbe quindi essere consideratauna rara testimonianza della pratica del rituale incineratorio nella fase IVA1laziale, cosa ancor più rilevante se si tiene conto del sesso e del rango delladefunta.

Per concludere l’esame della documentazione prenestina è bene fare unbreve cenno alla presenza, nel corredo della “tomba Castellani” (PL ca), di unvaso di bronzo frammentario (fig. 3) di tipo affine a quello presente nella tombaO 600 di Osteria dell’Osa (fig. 2)50. Nonostante le incertezze connesse conl’originaria composizione del corredo sembra plausibile che l’esemplare inquestione facesse parte del contesto più antico, presumibilmente maschile, alquale potrebbero spettare anche i tre scudi di bronzo che, come ha ipotizzato G.Colonna, forse coprivano il defunto, lasciando presumere che il rituale fossequello dell’inumazione51.

In realtà i dati noti non permettono di escludere che anche in questo

48 ALBORE LIVADIE 1975; D’AGOSTINO 1977; ALBORE LIVADIE 1979; GUZZO 2000. Cfr.inoltre, con ulteriore bibliografia, DELPINO 2005, p. 351.49 La presenza dei vaghi d’ambra fa supporre che, nel caso si fosse effettivamentetrattato di una incinerazione, questi ultimi (e con essi, forse, il resto degli ornamenti)non siano stati combusti con la defunta, circostanza che avrebbe potuto determinare unloro parziale o completo dissolvimento.50 Musei Capitolini, Inv. MC 540 Ca (da ultima MAGAGNINI 2000, p. 284, cat. 366); lapertinenza del vaso al corredo sembra confermata dalla documentazione d’archivio editada G. Colonna: COLONNA 1992,  p.  47, n. 6. Su questa classe di vasi cfr. quantoprecedentemente discusso alle note 22 e 30. Un altro biconico di bronzo di provenienzaprenestina è conservato fra i materiali della Collezione Barberini (Villa Giulia, inv.13084; altezza con il piede cm. 44,7; diametro massimo spalla cm. 36,5). Esso èriferibile al “tipo Vulci” di Iaia (IAIA 2005, pp. 155-160), nel quale rientra anchel’esemplare della tomba O 600.51 Per analogia con i casi delle tombe 21 di Decima e 1036 di Casale del Fosso:  

COLONNA 1992, p. 49.

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caso ci si possa trovare di fronte ad una incinerazione, come lascerebbesupporre, inoltre, l’assenza nella tomba PL ca di ornamenti di tipo maschileche, invece, connotavano sepolture principesche come la Barberini e laBernardini e che in genere compaiono sempre in inumazioni relative adindividui di rango elevato.

3. Roma

Se si eccettuano le incinerazioni riferibili alle fasi laziali I-IIA dell’areaforense e palatina52 sono soltanto due le sepolture contraddistinte da questorituale per le quali si disponga di una documentazione sufficientementeaffidabile, le tombe XLVIII (R e 48) e LVIII (R e 58) dell’Esquilino53. Sono

52 Fra le cremazioni più recenti dell’area centrale potrebbe figurare la R f DD (cfr.quanto discusso alla nota 17).53  R e 48: PINZA 1905, cc. 107-109, figg. 49-50; MÜLLER KARPE 1962, taf. 11d;GJERSTAD 1956, p. 172, fig. 150. R e 58: PINZA 1905, cc. 114-115, tavv. IV, 3, 11, VII,11; GJERSTAD 1956, p. 187, fig. 164; su quest’ultimo contesto cfr. inoltre gli appunti diR. Lanciani coevi al ritrovamento editi di recente in LANCIANI-BUONOCORE 1997, p.216, f. 14v., dai quali si desume con certezza che si tratta di una cremazione. Gjerstad(ibid ., p. 264), oltre ai casi citati, considera come incinerazioni anche le tombe CXII eCXXVII, la prima per la presenza della presunta urna a capanna identificata poi comecalefattoio da G. Bartoloni (BARTOLONI 1985), la seconda per la forma a pozzo dellastruttura, circostanza che può essere smentita in base ai dati editi da Pinza nel 1914(PINZA 1914, pp. 132-133). Un caso problematico potrebbe essere quello della tombaXI, inquadrabile in un momento avanzato della fase IIB, considerata da Pinza unacremazione per il fatto che, stando ai rapporti di scavo, tutti gli oggetti d’ornamentosarebbero stati rinvenuti all’interno dell’anfora, vaso che, pertanto “doveva contenere iresti del cadavere, col quale gli oggetti di abbigliamento sono costantemente associati”(PINZA 1905, cc. 65-67). Questa ipotesi è stata successivamente scartata sia da Gjerstadche da La Rocca (GJERSTAD 1956, p. 166, fig. 146; E.  LA ROCCA, in CLP 1976, pp.129-130, cat. 32, tav. XVIIIa, XIXa), a causa dell’assenza di resti cremati. L’usodell’anfora come cinerario è documentato a Roma ed all’Osa fin dalla fase IIA (tombeR, V del Foro e 365 dell’Osa), mentre all’Osa nella fase IIB, sul totale di 8 cremazioni,sono 3 quelle che ricorrono a tale contenitore (164, 503, 504). Quindi l’ipotesi che latomba XI fosse una incinerazione non sembra poter essere aprioristicamente scartata.Un altro caso problematico è quello della tomba LII (PINZA 1905, cc. 111-112, fig. 51),costituita da un piccolo sarcofago di peperino di forma quasi cubica (cm. 0,50 x 0,40 x0,22), all’interno del quale venne ritrovata una sola fusaiola, circostanza che fecepensare ad una sua violazione in età antica. La tipologia del contenitore è diversa daquella delle urne cinerarie di VI-V secolo a.C., di modo che un suo inquadramento

nell’ambito del VII secolo a.C. parrebbe plausibile, in pieno accordo con il datotopografico della sua localizzazione all’interno dell’aggere (COLONNA 1977, p. 149,

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queste in assoluto le cremazioni più recenti fra quelle rinvenute a Roma primache tale pratica tornasse ad affermarsi con l’arcaismo54. Entrambe sono staterinvenute nel settore della necropoli compreso fra via G. Lanza e l’area dellachiesa di S. Martino, presso la quale, come noto, è concentrata la maggior partedelle deposizioni di cronologia più antica. Stando ai dati raccolti e discussi daG. Pinza non sembrano esservi dubbi sul fatto che si trattasse di incinerazionisebbene si debba tenere conto dei consistenti margini di errore derivantidall’incompetenza e dalla disattenzione degli scavatori, spesso incapaci nonsolo di riconoscere le cremazioni ma anche di coglierne l’esatta consistenza edeventualmente distinguerle dalle vicine sepolture ad enchytrismos55.

La scarsa entità dei corredi rende difficile una loro puntuale datazione;la tomba R e 48 (fig. 4) può difficilmente essere anteriore alla fase IIB, per lapresenza della fibula ad arco ingrossato (che potrebbe indiziare la suapertinenza ad un soggetto di sesso femminile) e dell’olla biansata su piede,oggetti che, tuttavia, potrebbero protrarsi anche fino al principio della faseIIIA56; una datazione simile potrebbe essere ipotizzata anche per la tomba R e

58 (fig. 5) anche se, in questo caso, gli elementi disponibili sono più labili57.

nota 53; BARTOLONI 1984, p. 16). Più complessa l’identificazione del rito, datal’impossibilità di escludere che si trattasse di una inumazione infantile entro cassa litica.54 Per la ricomparsa del rituale incineratorio a partire dall’arcaismo cfr. B ARTOLONI 1987, p. 158; COLONNA 1988, p. 493; NASO 1990. Per la coeva documentazione veientecfr. DRAGO TROCCOLI 1997.55 Le difficoltà interpretative appaiono evidenti in casi come quello della tomba II diPalazzo Brancaccio, interpretata come un enchytrismos sebbene traspaiano elementisospetti o quanto meno dubbi dal confronto fra la relazione edita da Pinza nelle Notiziescavi del 1902 e quella apparsa nella monografia del 1905 (dalla quale paiono essereespunti tutti gli aspetti problematici).56 La fibula (fig.  4.1) è attribuita al tipo FI 9 in BETTELLI 1997, p. 95, tav. 45/13 (dacontesti di fase IIB1; cfr. inoltre il tipo Osa 38k documentato fino al principio della faseIIIA: BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1992, pp. 360-361), l’olla (fig. 4.2) al tipo V 3, ibid.,p. 40, tav. 2/1 (contesti di fase IIB1-2), vicino al tipo Osa 10f (B IETTI SESTIERI-DE

SANTIS 1992, p. 260), documentato, come si è visto, anche nella tomba O 259 di faseIIIA (fig. 1.2). M. Bettelli attribuisce la tomba R e 48 alla fase IIB1 ma una datazionenell’ambito della fase IIB2 o, anche, al principio della IIIA non sembra poter essereesclusa.57 Il dolio (fig. 5.1) è significativamente identico a quello della tomba O 259 (fig. 1.1),per la forma e la presenza delle 4 prese a bottone concavo (tipo Osa 1c: BIETTI

SESTIERI-DE SANTIS 1992, p. 231; le stesse caratteristiche ricorrono anche nell’es. dellatomba 130, di fase IIA1); il biconico con ansa verticale spezzata può essere attribuito ai

tipi O 2a (BETTELLI 1997, p. 46, tav. 9/3; il vaso è stato considerato da M. Bettelli neltipo V un alfa, ibid., p. 39, tav. 1/1, ma l’A. non ha tenuto conto della presenza

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Se l’esame dei corredi citati rivela alcune significative affinità conquello della tomba O 259, sul piano del rituale le analogie sono ancoramaggiori, sia per l’assenza di oggetti miniaturizzati che per quella di elementiche assimilino l’urna alla capanna. L’assenza di dati di scavo non permette disapere se le ceneri fossero deposte all’interno di uno dei vasi d’accompagno(l’olla biansata nel caso della R e 48, il biconico in quello della R e 58)58,oppure direttamente nei dolii come nel caso citato di Osteria dell’Osa,condizione che potrebbe costituire un’altra interessante similitudine.

Resti di probabili cremazioni vennero individuate anche nel corso degliscavi del sepolcreto fuori Porta Salaria, ma i dati al riguardo sono così esigui el’identificazione della cronologia così incerta (anche per la presenza nello stessoambito di sepolture di età recenziore, fino a quella romana imperiale)59 chesembra opportuno sospendere il giudizio60.

4. Laurentina

In tutta la necropoli della Laurentina il rito incineratorio è documentatosolo nella tomba 93 (A 93), una fossa a “pseudocamera” pertinente ad unsoggetto di sesso maschile, di rango principesco e di cronologia compresa in unmomento iniziale della fase IVA161. La tomba costituiva l’epicentro del circolo“III”, uno dei maggiori della necropoli (diametro superiore a m. 30), nel qualeerano incluse 18 sepolture, di cui quattro a pseudocamera. Fra queste figuravaanche l’inumazione femminile principesca 70, a riprova di come il nucleo“familiare” del quale queste tombe facevano parte fosse tra i più importantidella comunità e di come la scelta dell’incinerazione per la tomba più anticaimplicasse un chiaro riferimento alle modalità di seppellimento di matrice

greco-omerica con il preciso scopo di nobilitare ed eroizzare il defunto,

dell’ansa) oppure O 3C2 (ibid., p. 47, tav. 10/3) di Bettelli documentati in contesti difase IIB, o al tipo Osa 12a attestato per tutto il corso della II fase (B IETTI SESTIERI-DE

SANTIS 1992, pp. 266-267); la tazza, infine, trova riscontri più o meno puntuali incontesti compresi fra le fasi IIB2 e IIIA (BETTELLI 1997, tipi T 11A1-2, pp. 68-69, tav.31/1-4; BIETTI SESTIERI-DE SANTIS 1992, tipo 20m, p. 285, attestato sporadicamenteanche nella fase IIIB).58 Stando agli appunti del Lanciani relativi alla tomba R e 58, sopra citati alla nota 53,parrebbe che, almeno in questo caso, le ceneri fossero state deposte all’interno delbiconico.59 MESSINEO 1995.60 COLONNA 1996, p. 337, nota 8 con riferimenti bibliografici precedenti.61 La tomba è nota unicamente attraverso cenni sommari: BEDINI 1984, pp. 378-379;

BEDINI 1988-1989, pp. 240, 270 e 279, nota 11; BEDINI 1990, pp. 53-54, fig. 27; BEDINI

1992, pp. 83-84; BEDINI 1994a, p. 301; EMILIOZZI 1997, p. 314, n. 32.

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identificato tramite il “circolo” anche come il capo-fondatore del gruppo.I pochi dati fino ad oggi noti non permettono di conoscere nello

specifico le caratteristiche del rituale e, in particolare, se i resti cremati fosserostati raccolti in una apposita urna o se il corpo fosse stato combustodirettamente nella “pseudocamera”, come potrebbero lasciar supporre leanalogie con il “tumulo Lanciani” di Decima più volte chiamate in causadall’Editore.

5. L’area dei Colli Albani

La frammentarietà e la lacunosità della documentazione disponibile perl’area albana è tale da rendere assai difficoltoso se non impossibile ricostruireun quadro d’insieme attendibile. Anche il dato, frequentemente ribadito62,relativo alla prevalenza delle cremazioni sulle inumazioni nei Colli Albanirispetto al resto della regione durante la fase IIB non sembra poter essereammesso visto che per nessuna delle incinerazioni adeguatamente documentateè proponibile con certezza un inquadramento nell’ambito di questo periodo.

Castel Gandolfo: Oltre al consistente nucleo di incinerazioni rinvenutenel 1816-1817 nell’area del Pascolare e quelle recuperate presso SanSebastiano, tutte riferibili alle fasi I-IIA, il territorio di Castel Gandolfo harestituito altri gruppi di cremazioni che potrebbero essere dubitativamenteattribuite ad un orizzonte cronologico recenziore.

Fra queste potrebbero forse figurare le 2 o 3 tombe a pozzo portate allaluce da privati nel 1898 presso la Villa Monteverde (CG mc vm 1-3), alle faldeorientali del Monte Cucco, verso il lago di Albano. Le cremazioni sarebberostate contenute in dolii di tipo cilindro-ovoide per i quali G. Pinza (l’unico ad

aver preso visione dei materiali) richiamava come confronto un esemplare da uncontesto della fase IIB avanzata dell’Esquilino (tomba ad enchytrismosLXVI)63.

Marino: Nel corso di lavori agricoli succedutisi fra il 1864 ed il 1868nella Vigna Meluzzi, località posta sul versante N del Monte Crescenzio,vennero scoperte poco meno di una decina di sepolture, alcune delle quali,stando ai dati riportati da M.S. De Rossi, sarebbero state del tipo a pozzo condolio64. Durante i vari sopralluoghi De Rossi ebbe modo di acquistare alcunireperti, apparentemente parte di gruppi unitari, di altri invece trasse soltantodegli schizzi che pubblicò poi nelle sue relazioni, mentre di altri ancora e, inparticolare, di un gruppo di quattro pozzetti con dolio rinvenuti nel 1868, poté

62 Cfr. in particolare COLONNA 1988, p. 451.63 GIEROW 1964, pp. 285-286, con bibliografia.64 GIEROW 1964, pp. 119-125, figg. 55.13, 64-66, con bibliografia.

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raccogliere soltanto informazioni indirette. Combinando le fonti disponibiliGierow è stato in grado di ricomporre tre sepolture, ma le informazioni che sihanno in relazione alla natura dei contesti e delle associazioni appaiono pocoattendibili. La tomba I (M vm 1), infatti, una incinerazione con dolio, ècaratterizzata dalla combinazione di materiali che vanno dalla prima età delferro fino al pieno orientalizzante, circostanza che va probabilmente imputataalla sovrapposizione di sepolture pertinenti a più fasi di utilizzo dell’area, una,forse, di fase I-IIA, l’altra, invece, non anteriore all’orientalizzante medio. Allefasi IVA2-IVB riconducono i materiali dei due “contesti” (M vm 2-3) rimanenti(contenenti vasi d’impasto bruno sottile e di bucchero, oltre ad esemplarid’argilla figulina imitanti prototipi MPC), il primo dei quali sarebbe statoanch’esso del tipo a pozzo con dolio, analogamente ai quattro dolii rinvenuti nel1868 nei quali “i buccheri del resto erano assai abbondanti”65.

Le circostanze nelle quali ebbero luogo questi ritrovamenti ne inficianopesantemente l’attendibilità, data anche l’assenza di validi testimoni oculari,cosa che invece contraddistingue la sepoltura che segue. Essa venne alla lucenel 1907, nell’area di San Rocco a NE di Marino, grazie all’interessamento di P.Seccia66, protagonista a cavallo del '900 di diversi ritrovamenti e recuperi intutto il territorio, fra i quali, nella medesima zona, quello di una tomba a pozzocon dolio riferibile alle fasi I-IIA e di una serie di oggetti decontestualizzatiquasi tutti risalenti al medesimo orizzonte cronologico, eccezion fatta per unafibula a navicella con staffa lunga dell’inizio dell’orientalizzante67.

65 PINZA 1900, p. 203.66 Appassionato cultore e raccoglitore di cose locali, protagonista nel 1903 dei recuperidella Vigna Capri-Onorati di Grottaferrata (GIEROW 1964, pp. 33-34) e fondatore di unaraccolta civica a Marino, nella quale confluirono diversi ritrovamenti andatisuccessivamente dispersi nel corso della II Guerra Mondiale. Sulle vicende del MuseoCivico di Marino cfr. BEDETTI 2004.67 GIEROW 1964, pp. 262-266, figg. 56.25, 158-165. Analogamente a quanto si èosservato per Vigna Meluzzi, anche a San Rocco sembra essere attestata lasovrapposizione di un sepolcreto orientalizzante ad uno preesistente della prima età delferro, con una probabile soluzione di continuità fra le fasi IIB e III. Situazioni affinisono note a Castel Gandolfo nella Vigna Cittadini o, sempre a Marino, a Prato dellaCorte e Riserva del Truglio. Tracce di sepolture databili fra la III fase e l’inizio della IVsono documentate nell’area delle Vigne Limiti, Pavoni e Testa a SE di Marino, comepure a Vigna Batocchi non lontano dalle Frattocchie. Si potrebbe pensare pertanto chela soluzione di continuità non sia da connettere ad un eventuale spopolamento delterritorio, quanto piuttosto ad un esaurimento provvisorio degli spazi disponibili e/o diquelli con le caratteristiche geologiche adeguate, come sembra dimostrare lo sviluppo

topografico del sepolcreto di Riserva del Truglio pesantemente condizionatodall’andamento del durissimo banco lavico sottostante (ANTONIELLI 1924, p. 433; si

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Ad un momento di passaggio fra il III periodo e l’inizio della fase IVA1riconducono anche i materiali recuperati nel 1907 (M sr c 2) che, in base ai datiriportati da Seccia68, vennero ritrovati alla profondità di m. 1,90 in un “pozzettocilindrico [...] ricolmo di terra finissima e sopra [...] sfaldature di pietra locale”.Sul fondo del pozzo vi era un’olla ovoide che “conteneva ossa carbonizzate”intorno alla quale era collocato il resto del corredo, composto da 4 vasi di formanon puntualmente identificabile, da tre fibule a navicella ed un anello dasospensione a sezione piatta (fig. 6). I dati di scavo non lasciano dubbi circal’identificazione del rituale e fanno della tomba di San Rocco l’unico caso certodi cremazione che sia fino ad oggi noto nell’area dei Colli Albani dopo il IIperiodo, di particolare interesse anche in virtù delle forti analogie con la coevadocumentazione di Satricum e Caracupa (Paragrafi. I.8-9).

Rocca di Papa: Presso i Campi d’Annibale, un vasto pianoro a SE delcentro storico, M.S. De Rossi, seguito da G. Pinza, localizzava una vastanecropoli i cui unici indizi, tuttavia, consistono in due incinerazioni rinvenuteprima del 1874, la prima costituita da un pozzo profondo 3 metri con all’internole ceneri del defunto protette da scaglie di pietra senza alcun cinerario ed oggettidi corredo (RP ca 1), la seconda da una fossa quadrata di un metro di lato conall’interno un cinerario ed alcuni vasi accessori, questi ultimi integralmentedispersi (RP ca 2)69; stando al De Rossi questi reperti sarebbero stati “dellafamiglia etrusca” e pertanto si dovrebbe immaginare che si sia trattato di unaincinerazione di IV fase, una constatazione che potrebbe valere anche per ilprimo contesto menzionato e che potrebbe permettere di instaurare una analogiafra le sepolture di Rocca di Papa e quelle sopra citate di Marino.

6. ArdeaLa presenza di cremazioni di cronologia posteriore alla II fase nelterritorio ardeatino pare essere confermata da alcuni ritrovamenti fino ad orapoco valorizzati sia per le circostanze nelle quali essi ebbero luogo che per lecaratteristiche della documentazione edita.

noti come condizionamenti simili abbiano influenzato anche lo sviluppo della necropolidi Osteria dell’Osa: A.M. BIETTI SESTIERI, in BIETTI SESTIERI 1992, p. 23 e pp. 30 ss.).Le aree abbandonate alla fine della II fase sarebbero state successivamente rioccupatenel corso della IV senza che si avesse memoria dell’esistenza di strutture più anticheche, pertanto, vennero gravemente danneggiate dando luogo ai rimescolamentiosservati.68 P.  SECCIA,   Necropoli preistorica in contrada S. Rocco nel Comune di Marino, in

“BPI”, XXXIII, 1907, pp. 225-228.69 GIEROW 1964, pp. 279-281, con bibliografia.

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Fra il 1926 ed il 1934, nel corso di scavi regolari effettuati presso il latoSE del podio del tempio di Casalinaccio, E. Stefani rinvenne alcune cavitàcircolari scavate nel banco tufaceo, nella più piccola delle quali giaceva un’olladi impasto contenente resti di ossa combuste e altri frammenti ceramici (AR civ

ct 01)  che lo indussero ad avanzare l'ipotesi dell'esistenza “di un sepolcreto dietà anteriore all’ampliamento della città”70. La recente ripresa delle indagini(2000) ha permesso di constatare la presenza nel medesimo sito di una “piccolatomba ad inumazione con corredo, pertinente ad una bambina, databile [...]all’età del ferro, circostanza che parrebbe confermare l’ipotesi prospettata da E.Stefani”71.

I resti di una sepoltura a cremazione erano inclusi nel gruppo di 9 tombea camera e 6 a fossa di cronologia compresa fra il VI secolo e l’Ellenismoscavate da F. Mancinelli Scotti nel 1897 su impulso e con finanziamenti elargitidal Museo di Philadelphia, in località “Casalazzaro” (sic!)72, a NE dellaCivitavecchia oltre il secondo aggere73. Le scoperte effettuate da Mancinelli,inserite in un più ampio quadro di ricognizioni topografiche di cui è rimasta

70 STEFANI 1954, p. 10: “…olla di argilla scura dentro la quale si trovarono pochi restidi ossa umane combuste insieme a residui carboniosi ed a pochissimi frammenti fittili diimpasto”; MORSELLI-TORTORICI 1982, p. 97, n. 89.71 DI MARIO 2007, p. 34, tav. II. Come ha giustamente rilevato l’Editore (ibid. p. 114,nota 13, con bibliografia), la presenza dell’inumazione infantile rimanda alla situazioneriscontrata sotto il vicino tempio di Colle della Noce dove, fra il 1981 e il 1982, venneroportati alla luce i resti di 13 sepolture, 3 delle quali presumibilmente medievali e le altredi cronologia compresa fra le fasi IIB e IVA, quasi tutte infantili e, le più antiche, daconnettere ad un coevo insediamento capannicolo. Per quel che concerne invecel’incinerazione rinvenuta da Stefani gli elementi a disposizione non consentono diproporre un suo adeguato inquadramento cronologico; tuttavia caratteristiche quali ladeposizione dei resti cremati nell’ossuario insieme al vasellame accessorio, la modestiadel contesto e l’assenza di oggetti cronologicamente significativi (come, ad esempio,vasi miniaturizzati), sembrano permettere di escludere una sua collocazione nelle primefasi laziali ed al contempo suggeriscono analogie con le incinerazioni orientalizzanti diSatricum e Caracupa.72 Nelle planimetrie pubblicate nella Forma Italiae il toponimo figura come“Casalazzara” ed in questo modo è riportato nei vari contributi di C. Morselli ed E.Tortorici. La forma “Casalazzaro” compare invece negli scritti e nella planimetria delPasqui alla quale, successivamente, attinse fra gli altri C. Caprino.73 PASQUI 1900, pp. 53 ss.; MORSELLI-TORTORICI 1981, p. 72, n. 24; MORSELLI-TORTORICI 1982, p. 21, nota 19, pp. 130-131, n. 135;  Repertorio 1996, p. 49, n. 2, tav.III. Come specifica lo stesso Pasqui le sepolture rinvenute furono molte di più di quelle

specificamente menzionate e riprodotte nella planimetria allegata che, per sua stessaammissione, “sono soltanto le tombe completamente esplorate”.

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traccia in alcuni manoscritti conservati fra le carte Barnabei74, rimaserosostanzialmente inedite salvo i pochi cenni pubblicati da Pasqui nel 1900. Unasorte non molto dissimile toccò ai materiali rinvenuti nella stessa occasione, adeccezione di quelli entrati a far parte delle collezioni del Museo di Philadelphia,pubblicati negli anni Trenta dalla Adams Holland senza che vi fosse un legamediretto con la documentazione di scavo originaria75, condizione che rendeestremamente difficoltosa una loro puntuale contestualizzazione. Complessorisulta in particolare il caso dell’incinerazione suddetta (AR cas (1897)

(MPhiladelphia, 01), un’olla ovoide “of coarse reddish ware” contenente resticremati, che, a detta dell’Editrice, sarebbe stata rinvenuta nella tomba a camera“I” insieme a materiali di cronologia compresa fra il VI ed il III secolo a.C. e adun gruppo di tre vasi di impasto dell’orientalizzante antico che, in base alladatazione, la Adams Holland proponeva di collegare al cinerario. L’incertezzache avvolge i dati di scavo e le associazioni suggerisce di considerare conestrema prudenza il contesto in esame, data anche l’impossibilità di perveniread un puntuale inquadramento cronologico dell’ossuario76.

Un caso di estremo interesse, infine, è quello rappresentato da una dellesepolture ad inumazione rinvenute nel corso di scavi regolari in località Campodel Fico nel 1981-1982, un’area posta a S del moderno centro abitato,interessata da una vasta necropoli che copre un arco cronologico compreso fral’età del bronzo finale e l’orientalizzante recente77.

La tomba fa parte di un gruppo di circa trenta sepolture, comprese fra lefasi IIB e IVB e tutte ad inumazione, note ancora in forma preliminare edincompleta ad eccezione di quel che riguarda i dati antropologici, presentati daM. Rubini e A. Coppa in un contributo del 1989 che anticipa l’edizione dei

contesti archeologici

78

. Da questo scritto si desume che l’inumazione “A.T. 7”(da identificare con la tomba omonima degli scavi 1981-1982: AR cdf (1981-

 74 DELPINO 1987, p. 29, nota 99, fig. 15.75 ADAMS HOLLAND 1933-1934. Le 3 fosse e la camera citate non trovano puntualiriscontri fra quelle descritte dal Pasqui.76 Le caratteristiche tipologiche dell’olla non permettono di escludere una sua eventualedatazione, oltre che nel VII, anche nell’ambito del VI secolo, cosa che non può essereulteriormente precisata in assenza di adeguate riproduzioni grafiche. La Hollandavvicinava l’urna all’olla della tomba II dell’Esquilino utilizzata per una inumazione adenchytrismos (PINZA 1905, c. 55, tav. III, 18), ma, anche se ammissibile, si tratta di unconfronto piuttosto generico.77 Cfr. Repertorio 1996, p. 49, n. 3, tav. III, con bibliografia precedente.78 L. CRESCENZI - E. TORTORICI, in Ardea 1983, pp. 70-85; COPPA-RUBINI 1989.

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1982) 7)79, pertinente ad un individuo adulto di sesso femminile, risultava“combusta post-mortem” ed “estremamente rimaneggiata”80. Il datoantropologico potrebbe dar luogo all’interpretazione della sepoltura come un“bustum” o, almeno, come un tentativo incompiuto di procedere ad unacremazione del cadavere direttamente all’interno della fossa sepolcrale.Naturalmente si tratta solo di una ipotesi che andrà attentamente vagliata unavolta che saranno editi i dati di scavo, visto che, peraltro, non si può escludereche le tracce di combustione vadano riferite ad un intervento post-deposizionaledi tutt’altro carattere.

7. Decima

Il rito adottato in forma esclusiva nella necropoli di Decima è, con unasola eccezione certa (C 322) ed un’altra dubbia (“tumulo Lanciani”: C tu),quello inumatorio. L’estraneità del rito crematorio ai costumi funerarisolitamente adottati nel resto del sepolcreto ed a quelli tipici delle prime fasilaziali traspare con sufficiente chiarezza dai pochi dettagli noti circa la tomba C

32281. Il contesto, datato intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. e pertinente ad

un uomo, accoglieva infatti i resti di un individuo cremato, le cui ceneri mistealle ossa erano state “deposte nella fossa con gli oggetti del corredo disposticome se si trattasse di una inumazione”82. Il rituale seguito appare quindi di tipo“misto”, essendo il risultato della combinazione dei tratti tipici dell’inumazione(struttura tombale, organizzazione del corredo), con quelli propridell’incinerazione (combustione del cadavere), una “contaminazione” che trovaparallelismi piuttosto interessanti anche in ambito villanoviano, in tombe comela I, la II e la 39 della necropoli tarquiniese di Poggio Impiccato, nelle quali

cinerari di tipo canonico vengono trattati alla stregua di corpi inumati

83

.Gli scarni dati forniti da A. Bedini non permettono di cogliere i dettaglidel rituale adottato nella tomba di Decima e, in particolare, se il cadavere fossestato cremato direttamente sul piano deposizionale o se, piuttosto, vi fosse statocollocato in un secondo tempo (come farebbero intendere le parole di Bedini).La mancanza di un cinerario e la coerente disposizione del corredo lascerebberotuttavia propendere per la prima ipotesi e, conseguentemente, per una

79 Di questa tomba è nota solo la localizzazione nel sepolcreto ( Ardea 1983, fig. 148) inbase alla quale si desume che essa non era stata intaccata dalle sepolture circostanti.80 COPPA-RUBINI 1989, p. 169.81 BEDINI-CORDANO 1980, p. 109; ZEVI 1987, p. 72;  BEDINI 1994, p. 36. Nonostantel’assoluta rilevanza del contesto non è noto alcun dettaglio circa la composizione delcorredo.82 BEDINI 1994, p. 36.83 DELPINO 2005.

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interpretazione della sepoltura come “bustum”.L’identità fra la pira/ustrino e la tomba sembrerebbe caratterizzare in

forme ben più monumentali anche il cosiddetto “tumulo Lanciani” (fig. 7 ),databile in un momento di passaggio fra le fasi IIIB e IVA1. Questo imponentesepolcro, sormontato da un tumulo del diametro di ca. m. 32 e dell’altezzaconservata di 2, è l’unico fra quelli affini che caratterizzavano il paesaggiofunerario della necropoli di Decima ad essere stato indagato84. Lo scavo non hapurtroppo potuto verificare se il tumulo ospitasse una singola sepoltura o piùdeposizioni, come nei casi di Satricum e Corvaro, essendo stato limitato adalcune piccole trincee e ad un’indagine estensiva della sola fossa centrale.Quest’ultima, rivelatasi intatta, appariva come una grande fossa rettangolare (m.5 x 2), orientata in senso E-W e profonda m. 0, 80, con struttura e caratteristicheaffini, pur con le debite proporzioni, alle sepolture coeve della necropoli.Contro ogni aspettativa la fossa non sembrava aver mai accolto una regolaredeposizione, almeno secondo i canoni vigenti a Decima. La presenza fra iblocchi di tufo del riempimento di centinaia di minuti frammenti di oggetti inbronzo e in ceramica, oltre ai resti di un carro e dei morsi equini, frammisti

84 LANCIANI 1903, c. 154: Decima 1975, p. 234; SOMMELLA 1974, pp. 112-113, fig. 17,tav. I, n. 19; BEDINI-CORDANO 1977, pp. 289-296, figg. 9-11, tav. 1; BEDINI-CORDANO

1980, p. 112; COLONNA 1988, p. 463;  EMILIOZZI 1997, pp. 312 ss., n. 18. Il tumulo(parzialmente indagato da A. Bedini nel 1974) è stato identificato a partire da Lancianicon il cosiddetto “tumulo di Dercennio” ricordato da Virgilio (Verg.,  Aen. 11, 849-51: fuit ingens monte sub alto / regis Dercenni terreno ex aggere bustum / antiqui Laurentis

opacaque ilice tectum; si noti il ricorso al termine “bustum”, unica occorrenza di taleparola in tutta l’ Eneide), che in un primo tempo Nibby aveva proposto di riconoscere inuna collinetta naturale posta in località Torretta di Decima (GUAITOLI-PICCARRETA 1974, p. 126, n. 22, tav. I, sett. R11). Il “tumulo Lanciani” non era isolato ma eraaccompagnato da almeno altre 4 strutture affini (cfr. ZEVI-BEDINI 1973, fig. 1) cheerano state disposte lungo l’antico percorso stradale oggi ricalcato dalla via di Decima,una collocazione che alludeva certamente al “controllo” che le gentes incarnate da queitumuli esercitavano su questo importante asse viario, secondo una prassi bendocumentata fra le emergenti “aristocrazie terriere” dell’Italia centrale tirrenica(ZIFFERERO 1991). La superficie occupata dal tumulo è di ca. 800 mq. In base alle stimeeffettuate da R. Lanciani all’inizio del secolo (m. 34) è possibile ipotizzare che iltumulo avesse in origine dimensioni maggiori di quelle attuali, essendo stato intaccatodagli sbancamenti del 1953 connessi all’ampliamento della Pontina. Per un raffrontodimensionale con evidenze affini dell’Etruria cfr. BARTOLONI 2003,  p. 66 con ampiabibliografia alle pp. 79 ss.; nel Lazio meridionale possono essere richiamati il tumulodel cosiddetto “heroon di Enea” a Lavinio, dal diametro di “soli” m. 18, quello a

deposizione collettiva di Satricum (tumulo “C”) di m. 25 ca. o, infine, i “circoli” dellaLaurentina che raggiungevano al massimo i m. 30.

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senza ordine a lenti di terra nerastra, ha reso plausibile l’ipotesi di riconoscerein questo terriccio quanto rimaneva dei resti di un rogo funebre durante il qualeil corpo del defunto sarebbe stato combusto insieme ad alcuni oggetti delcorredo, fra i quali spiccano senza dubbio gli scudi che possono qualificarlocome guerriero85. Oltre che per le analogie più o meno puntuali riscontrabili conalcune sepolture di Vetulonia e Marsiliana86, il rituale, seppure “tradotto” informe locali, colpisce per i richiami ai modelli greci, l’allusione ai quali collocail defunto in una dimensione eroica, peraltro già in parte adombrata dallaricchezza del corredo e dalla eccezionalità della struttura. Sulla sommità diquest’ultima, assimilata ad una gigantesca pira, è forse plausibile ipotizzare cheavesse luogo il momento culminante della cerimonia, con la combustione deldefunto e delle sue insegne (gli scudi e, forse, anche, il carro)87.

Lo scavo parziale del tumulo non ha permesso di escludere l’esistenzadi almeno una seconda fossa per la deposizione del corredo di accompagno, lacui presenza potrebbe essere testimoniata dal rinvenimento di alcuni vasi nelsaggio effettuato sul lato Nord. Del corredo, oltre ad una descrizione moltogenerica di alcuni oggetti, risulta fino ad oggi edita solo l’immagine diun’anforetta ad anse crestate, di un tipo assai comune nelle tombe laziali dellafase IIIB avanzata88.

8. Caracupa-Valvisciolo

Le incinerazioni rinvenute nella piana di Caracupa (CA 5, 5bis, 6A, 17)e sull’altura di Monte Carbolino (VA 6) sono complessivamente 5, tuttescoperte all’inizio del secolo scorso durante le esplorazioni condotte da R.Mengarelli89.

85 L’ipotesi, caldeggiata da A. Bedini seppur con prudenza fin dal 1977 (i resti dellapresunta cremazione erano allora in corso di analisi: BEDINI-CORDANO 1977,  p. 296,nota 48), sembra costituire un dato acquisito nella sintesi del 1994 (BEDINI 1994, p. 36).Propende invece per l’identificazione con un “cenotafio” BARTOLONI 2003, p. 74. Siveda inoltre quanto riportato precedentemente nel corso dell’esame della tomba O 600 dell’Osa al Paragrafo I.1.86 BEDINI-CORDANO 1977, p. 294, nota 44.87 La presenza di due sole ruote (EMILIOZZI 1997, p. 312, cat. 18) permette, pur nonconoscendo altre caratteristiche tipologiche, di assimilarlo genericamente a carri daguerra quale quello della coeva tomba 21 di Decima (NIZZO 1999-2000).88 DRAGO 2005, pp. 108-111, nota 104 con confronti a Veio e nel Latium vetus.89  CA 5 e 5bis: G.  BARTOLONI, in CLP 1976, cat. 120, pp. 360-361, con biblografiaprecedente, tav. XCVIA-B e XCVIIB-C; CA  6A: SAVIGNONI-MENGARELLI 1903, p.

306, figg. 16-17; PINZA 1924, tav. CIV, nn. 16-18; MÜLLER KARPE 1974, taf. 28c(“Valvisciolo”); CA  17: SAVIGNONI-MENGARELLI 1903, p. 311; VA 6: MENGARELLI-

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L’incidenza statistica delle 5 cremazioni citate rispetto ai solirinvenimenti di Caracupa-Valvisciolo dell’inizio del '900 può essere stimataintorno al 5,7% del totale di 88 individui scoperti in tali occasioni. La lorodistribuzione cronologica presenta qualche difficoltà. L’incinerazione bisomaCA 5 (fig. 8) e 5 bis (fig. 9) è stata riferita da Angle e Gianni alla fase IIB ma,tuttavia, in accordo con quanto osservato nel 1976 da G. Bartoloni, vi sonodiversi elementi che sembrano indicare un momento iniziale del III periodo; allafine di quest’ultima fase sembra poter essere attribuita la mal nota VA 690,mentre va forse assegnata alla transizione con l’orientalizzante la CA 6A. LaCA 17, infine, è fra quelle del tutto sprovviste di corredo (eccezion fatta peralcuni “frammenti informi di terracotta rossiccia” alcuni dei quali graffiti),circostanza che ha indotto Angle e Gianni91 a riferirla genericamente alla IVfase, attribuzione che appare in contrasto con i pochi dati disponibili inrelazione alla presunta “stratigrafia orizzontale” della necropoli, data la sualocalizzazione nel settore più antico del sepolcreto (“gruppo 1”).

La cronologia di tutte le cremazioni conosciute potrebbe pertantoricadere integralmente fra il III periodo e l’inizio del IV, un dato che pare essereconfermato anche dalla disposizione topografica delle sepolture site in contradaCaracupa. Queste ultime, infatti, sono tutte localizzate nel terreno del colonoPonzi, a breve distanza le une dalle altre (fra la CA 6 e la CA 17 intercorronopoco più di 10 m.), un aspetto che potrebbe consentire di mettere in relazione leaffinità osservabili sul piano del rituale funerario con l’eventuale esistenza di

PARIBENI 1909, pp. 251-252. Per una analisi complessiva dei dati relativi alle campagnedi scavo dei primi del '900 si vedano i vari contributi di M. Angle ed A. Gianni (ANGLE-GIANNI 1985a; ANGLE-GIANNI 1985b; ANGLE-GIANNI 1990); per le ultime scoperte acarattere funerario effettuate nell’area cfr. CASSIERI 2002 e CASSIERI 2006.90 Il modesto corredo restituito da tale deposizione (un pugnale in ferro ed un“frammentino di vaso fittile arcaico”) è del tutto inedito. L’unico dato disponibile è cheil pugnale viene descritto come “simile” a quello della tomba 25 (SAVIGNONI-MENGARELLI 1903, pp. 314-315, figg. 28-29; PINZA 1924, tav. CII, nn. 1, 2, 6, 7, 10;MÜLLER KARPE 1974, taf. 28b), una tomba di “guerriero” che può essere attribuitaall’inizio dell’orientalizzante, in particolare per la presenza di una fibula con apofisilaterali ed incasso per un inserto in ambra (con riscontri molto puntuali a Veio incontesti di fase IIC: TOMS 1986, tipo I 36, p. 80, fig. 31; GUIDI 1993, tipo 99, p. 48, fig.14/1) ed una a drago con molla ed ago bifido nel tratto ricurvo di un tipo diffusonell’Italia centrale tirrenica in un momento di transizione fra la prima età del ferro el’orientalizzante (V.  NIZZO, in BARTOLONI-NIZZO 2005, p. 419, con bibliografia econfronti riportati alla nota 88 e NIZZO 2007, p. 97, tipo A10N3).91 ANGLE-GIANNI 1990, tav. XII; in ANGLE-GIANNI 1985a, fig. 10, il contesto era

considerato fra quelli “non databili” da riferire potenzialmente “alla seconda metà delVII secolo” (ibid. , p. 200).

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rapporti di parentela fra i 4 soggetti in esame (fig. 10).Quattro dei cinque casi menzionati sono riferibili con buone probabilità

a soggetti di sesso maschile data la presenza delle armi; per la tomba CA 17 taleattribuzione è invece ipotizzabile solo in virtù delle analogie con le precedenti92.Sotto tale prospettiva si potrebbe pensare che il ricorso all’incinerazione, data lacronologia dei contesti, la loro vicinanza spaziale e la loro esclusiva pertinenzaad uomini, sia da considerare non tanto come il retaggio della tradizioneregionale di I e II periodo quanto piuttosto come il risultato degli innovativiinflussi provenienti dall’hinterland  campano di recente ellenizzazione, unacontingenza che potrebbe contribuire a spiegare le “anomalie” che paionocontraddistinguere l’adozione di tale rituale nel sito in esame.

Un aspetto piuttosto interessante sotto quest’ultimo punto di vista puòderivare dalla constatazione di come 3 dei 5 soggetti incinerati siano statirinvenuti o all’interno della stessa fossa (CA 5 e 5bis)93, o in associazione conun altro individuo, apparentemente inumato (CA 6A)94. Le circostanze di scavonon permettono tuttavia di stabilire se ci si trovi o meno di fronte a deposizionia carattere simultaneo.

92 Si noti come a fronte dell’apparente “modestia” del corredo la tomba CA 17 sia unadelle sepolture scavate a maggiore profondità della necropoli (m. 1,73), segno tangibiledell’impegno profuso in termini di “forza lavoro” per la realizzazione di un incavo ditali proporzioni.93 La presenza di due soggetti distinti è confermata dall’esistenza di una “fila intermediadi [...] ciottoli dividente lo spazio in due parti”, una delle quali contenente “un ossuariofittile”, l’altra “un mucchio di ossa combuste”; ciascuna delle deposizioni era inoltreconnotata da uno specifico corredo d’accompagno nel quale figuravano, come unicooggetto personale, due punte di lancia di bronzo, una per parte.94 Contrariamente alla prassi comune in quegli anni, Savignoni e Mengarelli mostraronouna particolare attenzione ai resti antropologici, sia per quel che concerne dati biologicicome la determinazione del sesso e dell’età, sia per quel che riguarda gli aspetti di tipodeposizionale, sicché sembra possibile riporre una certa fede nelle informazionicontenute nei loro rapporti. Nel caso della tomba 6 la presenza di un secondo soggettoinumato è indiziata dal rinvenimento presso una delle estremità della fossa (cheaccoglieva sul fondo “pochi frammenti di ossa cremate”) “di parecchi denti, noncombusti, di adolescente”, una circostanza che gli scavatori misero subito in relazionecon la compresenza nel corredo di elementi di pertinenza maschile (punta di lancia diferro) e femminile (pendaglio e spirali di bronzo), concludendo che il “sepolcro fossecomune ad un guerriero cremato e a una giovinetta inumata”. Conclusioni di questotipo, naturalmente, non possono essere accolte acriticamente; resta fermo, tuttavia, ildato credibile della compresenza nella stessa fossa dei resti di due soggetti distinti

connotati da rituali diversi, un dato che, peraltro, potrebbe essere confermato anchedalla documentazione satricana (cfr. il caso citato avanti alla nota 110).

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Solo in un caso i resti di un soggetto cremato erano stati depostiall’interno di un’urna (CA 5) la cui rozza conformazione lascia supporre chenon si trattasse di un vaso d’uso comune ma di un contenitore realizzatoappositamente per una destinazione funeraria. Il cinerario (fig.  8.5), di forma“tronco-ovoidale” con labbro rientrante e di dimensioni tali (altezza cm. 16,7;diametro cm. 23) da non poterlo assimilare ad un dolio, era munito di uncoperchio discoidale convesso collocato in modo tale da chiuderlo. La forma,priva di puntuali riscontri nel resto della regione, potrebbe esseresuggestivamente avvicinata a quella dei calderoni bronzei che, forse già apartire dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C., venivano utilizzati in Greciacome ossuari95, richiamando pratiche di tipo eroico quali quelle che verrannocodificate dai poemi omerici e che alla fine del secolo saranno poi messe inpratica sul suolo italiano dai dignitari “ellenizzati” di Cuma e da quelli indigenidi Pontecagnano96.

In tutte le deposizioni rimanenti i resti cremati erano stati collocatidirettamente sul fondo della fossa, senza il ricorso ad alcun cinerario, conmodalità che possono ricordare alcuni dei casi discussi in questa sede come, inparticolare, quelli della non lontana Satricum, ed anche quelli documentati daicosiddetti “ripostigli” vetuloniesi97 o da alcune sepolture della prima età del

95  D’AGOSTINO 1996, pp. 460-461; DELPINO 2005,  p.  351, con bibliografia citata allenote 59-60, cui adde MARINI 2003, pp. 38-39 e  passim, con ampia bibliografia.  Oltreche con i calderoni bronzei un interessante riscontro può essere ravvisato anche con ilbacile-ossuario argenteo della tomba 104 Artiaco di Cuma (PELLEGRINI 1903, cc. 240-1,cat. XIV, fig. 16), affine per forma (compreso il coperchio) e dimensioni (altezza cm.18,5; diametro cm. 26) con il nostro, pur con le debite proporzioni derivantidall’approssimativa e, senza dubbio, scadente, tecnica adottata per la realizzazione diquest’ultimo.96 Cfr. la bibliografia sopra riportata alla nota 48.97 FALCHI 1891, pp. 67 ss.; NALDI VINATTIERI 1957. La documentazione offerta dairipostigli vetuloniesi non è stata mai adeguatamente valorizzata, in particolare per quelche concerne gli aspetti del rituale sui quali, probabilmente, ha sempre pesato il“sospetto” connesso ai metodi di scavo, alle caratteristiche della documentazione ed alleincertezze ed ambiguità dello stesso Falchi. Senza entrare nello specifico, cosa cherichiederebbe troppo spazio ed un esame approfondito delle singole evidenze, ci silimiterà a ricordare che i sepolcri identificati da Falchi come “buche” e/o “ripostiglistranieri” sono quasi sempre delle deposizioni ad incinerazione, in alcuni casi, moltoprobabilmente, dei “busta” (cfr., ad esempio, la tomba 18, del saggio 2 del 1885 o la 37del 1886, caratterizzate entrambe dalla presenza di terra nera “d’ustrino”, definita“untuosa” e “pastosa”, circostanza che lascia pensare ad una formazione in situ dei

residui del rogo: le tombe sono edite rispettivamente in FALCHI 1891, pp. 68-69 e pp.69-73), sprovviste di cinerario e con corredo caratterizzato o da una “apparente povertà”

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Ferro di Pontecagnano98 o, per volgere lo sguardo all’ambiente greco dovevanno quasi certamente ricercati i prototipi di tali pratiche, quelli attestati daalcune sepolture ateniesi dell’Areopago99 o, per rimanere sul suolo italiano,dalle incinerazioni con tumulo della necropoli di Pithekoussai

100.Per le tombe di Caracupa-Valvisciolo naturalmente non si può escludere

la possibilità, peraltro già prospettata dagli Editori, che i resti cremati fosserostati raccolti originariamente “in una cassa di legno che poi si disfece”101,possibilità che va sempre tenuta presente, in particolar modo nel caso disepolture frutto di scavi di vecchia data.

o, al contrario, da una ostentata esibizione di beni di prestigio di origine “straniera”,nella fattispecie, greca ed orientale.98 Pontecagnano 1988, p. 236; Pontecagnano 1992, pp. 140-141. I contesti caratterizzatidalla pratica dell’incinerazione senza ossuario si distribuiscono fra la fine della localefase IB (tomba 2145) e tutto il corso della II (tombe 3230, 3247, 3248, 3250, 3253,3255, 3277, 4867); in alcuni casi è sembrato possibile ipotizzare una identità fra la piraed il luogo della sepoltura come nel caso della citata tomba 2145 che, pertanto, potrebbeessere considerata una precoce testimonianza dell’assimilazione di pratiche funerarie dimatrice ellenica (D’AGOSTINO 1982, pp. 215-219). Incinerazioni senza ossuario o veri epropri “busta” sono documentati a Pontecagnano anche nel corso dell’orientalizzante(CUOZZO 2003, p. 49), come dimostra, ad esempio, il caso della tomba di guerriero concaratteri principeschi 1507, della fine dell’VIII secolo a.C. (ibid., p. 174), o il “bustum”bisomo 5879 (contenente un guerriero adulto ed un infante: ibid., p. 150).99 L’adozione di tale pratica (che può assumere la forma caratteristica del “bustum”, conle modalità che nell’ Iliade vengono descritte per il funerale di Patroclo) è assai pococomune nell’Atene contemporanea al punto che il ricorso ad un rituale di tipo anomalopotrebbe essere stato dettato dall’esigenza di differenziazione di un “high-status group”,contraddistinto non tanto dalla ricchezza del corredo quanto piuttosto dalla posizioneprivilegiata e dall’originalità del rito (MORRIS 1987, p. 124; D’AGOSTINO 1996, p. 456,con riferimento al caso di Atene, p. 460, con riferimento ad Eretria; MARINI 2003, p. 36,con bibliografia).100 Da ultimo NIZZO 2007.  L’esistenza di legami “privilegiati” fra l’hinterland  diCaracupa e la necropoli di Pithekoussai può essere confermata dalla presenza nelsepolcreto greco di alcune classi di materiali   tipiche del basso Lazio  come le fibule afoglia traforata tipo A10K1 (NIZZO 2007,  p. 94, da un contesto della fine del TG2; ingenerale ibid., p. 213, nota 156), la fibula serpeggiante tipo A10N3 BR unicum I, conconfronti puntuali nella necropoli di Cassino (ibid., p. 97), il rasoio lunato “tipoCaracupa” (ibid., p. 114; un nuovo esemplare riferibile al tipo è venuto alla luce nellatomba 10, scavi 1995-99: CASSIERI 2006, p. 250, fig. 13). Su queste problematiche cfr.

in generale CIFARELLI 1996.101 SAVIGNONI-MENGARELLI 1903, p. 293.

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9. SatricumSatricum ha restituito un cospicuo numero di sepolture ad incinerazione

sulla cui valutazione, tuttavia, hanno pesato le complesse vicende legate alleprocedure di scavo, ai rimescolamenti di magazzino ed alla dispersione di unaparte consistente dei rinvenimenti e della documentazione originaria,circostanze che sono state solo parzialmente risarcite dall’encomiabile opera“filologica” di D. Waarsenburg e B. Ginge102.

Come si è visto nel caso di Caracupa-Valvisciolo, il rituale crematorio aSatricum fra il III ed il IV periodo assume delle forme inconsuete in particolarese poste a confronto con quelle che erano le conoscenze comunemente diffusefra la fine dell’800 e gli inizi del '900; se si aggiunge inoltre il fatto che moltospesso i resti inumati venivano ritrovati in uno stato di conservazione nonottimale può essere facile comprendere quali fossero le difficoltà interpretativeincontrate da scavatori non professionisti, più esperti come il Finelli oimprovvisati come il Marino, sui quali pesava il grosso della documentazione,data anche la saltuaria presenza del Mengarelli sullo scavo103.

Le conseguenze derivanti da queste più o meno oggettive difficoltà siriversano ovviamente sull’affidabilità dei dati discussi in questa sede, sebbenela documentazione finora raccolta sul resto della regione possa sottrarre il casodi Satricum dall’isolamento nel quale parrebbe altrimenti confinato. Leincinerazioni “certe” sono in tutto 17104, distribuite equamente fra entrambi isessi (M: 6; F: 8; N.Id.: 3) e per tutto l’arco di vita della necropoli105. A queste

102 WAARSENBURG 1995; GINGE 1996.103 WAARSENBURG 1995, pp. 47-73.104 Le denominazioni utilizzate in questa sede, con alcuni adattamenti come l’inserzionedegli anni di scavo o la trasposizione in numeri arabi dei numeri romani con i quali icontesti ed i “falsi contesti” vennero musealizzati, sono quelle proposte dalla scuolaolandese: SA nw (1896-8) 4 (WAARSENBURG 1995, pp. 88-90); SA nw (1896-8) 7-C06 (ibid., pp. 344-346; forse bisoma); SA nw (1896-8) 10 (ibid , p. 97); SA nw (1896-8) 11

(ibid., pp. 98-99); SA nw (1896-8) 17 (ibid., pp. 106-107); SA nw (1896-8) 18-C04 (ibid., p. 331); SA nw (1896-8) 18-C11 (ibid., p. 338; associata con una inumazione?);SA nw (1896-8) 19 (ibid., p. 100); SA nw (1896-8) 19bis (ibid., p. 111); SA nw (1896-

8) 21 (ibid., pp. 115-116); SA nw (1896-8) 22 (ibid., pp. 117-118); SA nw (1896-8) 24 (ibid., pp. 121-122); SA nw (1897) p-sn1 (ibid., p. 117, nota 374); SA nw (1907-10) 8 (GINGE 1996, p. 25); SA nw (1907-10) 17 (ibid., pp. 38-39); SA nw (1907-10) 21 (ibid ,pp. 44-46); SA nw (1907-10) 28 (ibid., pp. 56-57).105 Questa la suddivisione che si ottiene in base alle datazioni proposte dagli editori(approssimate e trasposte in termini cronologici relativi, tenendo conto anche delriesame effettuato dallo scrivente in NIZZO 2006-2007, pp. 797 ss.): II: SA nw (1896-8)

17 e 19, SA nw (1907-10) 17 (cfr. tuttavia su quest’ultimo contesto quanto discussosopra alla nota 18); IIB-IIIA: SA nw (1896-8) 10; III: SA nw (1896-8) 7-C06, 11, SA

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si possono aggiungere alcuni casi d’identificazione più o meno dubbia, in tutto8106, che porterebbero così il totale delle cremazioni a 25 (M: 7; F: 11; N.Id.: 7),cui andrebbero aggiunti gli innumerevoli pozzetti dispersi dal Mazzoleni nelleprime campagne di scavo (almeno una ventina, da considerare quasi certamentefra quelli più antichi)107.

Tenendo conto degli inevitabili margini di approssimazione il numerocomplessivo di cremazioni che potrebbero essere riferite alle fasi III e IVdovrebbe essere di poco superiore alle 20 unità, un numero senza dubbiosignificativo se rapportato alla documentazione del resto della regione.

Stando a quanto riportato nei giornali di scavo alcune di esse e, inparticolare, quelle rinvenute nell’area della Macchia dei Bottacci durante lecampagne 1907-1910, sarebbero state ricoperte con bassi tumuletti di pietre108,appena distinguibili al livello del terreno ma che, tuttavia, in antico, avrebberopotuto fungere da segnacoli per le sottostanti sepolture. Le tombe che nesarebbero state contraddistinte, tuttavia, non sono sempre identificabili concertezza come incinerazioni e, pertanto, non è possibile istituire un rapportodiretto fra l’adozione di questo apprestamento e tale rituale109.

I dati relativi alle modalità deposizionali ed alle caratteristichecostruttive delle sepolture sono estremamente esigui. Le strutture più comunidovettero essere le cremazioni entro pozzo di forma più o meno regolarmentecircolare ma, forse, non dovettero mancare casi di cremazioni entro fossa,

nw (1907-10) 8, 21; III-IVA: SA nw (1896-8) 21, 22, 24; IVA: SA nw (1896-8) 19bis, SA nw (1907-10) 28; IVB: SA nw (1896-8) 4, 18-C04; IV: SA nw (1896-8) 18-C11; III-IV: SA nw (1897) p-sn1.106 SA nw (1896-8) 26 (WAARSENBURG 1995, p. 125, fase IVB); SA nw (1896-8) 27 (ibid ., p. 126, fase IIB-IIIA); SA nw (1896-8) 28 (ibid ., p. 127, fase III); SA nw (1907-

10) 9 (GINGE 1996, pp. 25-29, fase IV); SA nw (1907-10) 10 (ibid ., p. 29, fase III-IVA); SA nw (1907-10) 14 (ibid., pp. 32-36, fase IV); SA nw (1907-10) 30 (ibid ., pp. 60-64,fase IVA); SA nw (1907-10) sn2 (WAARSENBURG 1995, p. 135, nota 404; GINGE 1996,p. 68; fase IVA).107 WAARSENBURG 1995, p. 96, note 330 e 331.108 Cfr. WAARSENBURG 1995, p. 142, SA nw (1907-10) 21, 22, 28, 29, 30. 109 Il fatto che nel giornale di scavo non si faccia alcun riferimento alla conformazionedella fossa ma che si indichi solo che l’urna era stata rinvenuta presso il centro del“tumulo” alla profondità di cm. 60 (cfr. ad esempio D.  MARINO, in GINGE 1996, p. 167)fa venire in mente le cremazioni con tumulo della necropoli greca di Pithekoussai, nelle

quali i resti dei cremati erano deposti a livello superficiale e direttamente sormontati dacumuli di pietre (cfr. da ultimo NIZZO 2007).

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sebbene gli indizi a tale riguardo siano piuttosto labili110.L’unica cremazione di cui si ha una cognizione più o meno compiuta,

grazie ad una planimetria redatta dal Mengarelli, è la SA nw (1898-96) 4 (fig. 11), una incinerazione individuale entro pozzo circolare interamente foderato dablocchi di pietra riferibile alla fase IVB; diversi indizi suggeriscono tuttavia chela pianta abbia un carattere “ricostruttivo” e che, pertanto, non riproduca lasituazione “osservata” quanto, piuttosto, quella “immaginata”111.

Le incinerazioni più antiche sembrano conformarsi a quelli che sono i“canoni” adottati nel corso della II fase nel resto della regione con la solaeccezione della tomba SA nw (1907-10) 17, sulla quale ci si è già soffermati(Paragrafo I.1.).

A partire dal III periodo le cremazioni sembrano abbandonare del tuttole costumanze funerarie comuni nella fase precedente, dando luogo a situazioniappena intuibili attraverso i dati di scavo. Fra queste figurano senza dubbio unnumero non precisabile di casi nei quali i resti incinerati vennero collocatidirettamente sul fondo della fossa senza l’ausilio di uno specifico ossuario,circostanza che, comunque, non esclude la possibilità che tale funzione fosseassolta da contenitori in materiali deperibili come si è accennato (Paragrafo 

I.8.).Una eco di pratiche quali quelle documentate da alcuni dei “ripostigli”

vetuloniesi può essere ravvisata nella tomba SA nw (1896-8) 7-C06, unadeposizione femminile riferibile al pieno III periodo, nella quale i resti crematidella defunta risultavano deposti in una tazza sprovvista di coperchio112.

Olle-ossuario, con o senza regolare coperchio, sono invece documentateper alcune delle incinerazioni più recenti, riferibili alla fase IVB, come la già

menzionata SA nw (1896-8) 4 o la SA nw (1896-8) 18-C04. Incogniti i casidelle SA nw (1907-10) 8 e 10 forse anch’esse caratterizzate da un’olla.A modelli greci filtrati potrebbe invece rimandare il caso della tomba

SA nw (1896-8) 21 qualora cogliesse nel segno l’ipotesi prospettata daWaarsenburg di attribuire una funzione di cinerario ai resti dell’anforaquadriansata di bronzo associata a tale contesto.

110 Potrebbero rientrare in questa casistica le tombe SA nw (1898-96) 18-C04, 18-C11,ma quest’ultima era legata in qualche modo ad una inumazione e, pertanto, talecircostanza potrebbe avere alterato la “lettura” della situazione strutturale complessiva.111 Cfr. da ultimo NIZZO, c.s. a.112 Per Vetulonia si veda il caso del “ripostiglio” 19, del saggio terzo degli scavi del1884 in FALCHI 1891, pp. 67-68. Il ricorso ad una tazza come cinerario è documentato

anche in una delle mal note tombe di Poggio Mengarelli a Vulci, riferita alla metàdell’VIII secolo a.C. (RICCIARDI 1989, p. 47, n. 30).

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II. Conclusioni

Nonostante l’inadeguatezza di gran parte delle fonti documentarieconsiderate in questa sede alcuni spunti interpretativi proposti nelle pagineprecedenti sembrano fornire un quadro interessante e, forse, inaspettato, chemerita di essere brevemente discusso, seppure con prudenza (cfr. tab. fig. 12).

Come si è visto nell’esame della documentazione di Osteria dell’Osa oin quella assai più “frammentaria” di Roma, Caracupa  e Satricum, lecaratteristiche acquisite dal rituale incineratorio nel corso della III fasenecessitano di una lettura che tenga conto degli sviluppi che tali pratiche hannoavuto a partire dalla fase IIB. Si è infatti avuto modo di notare come già inquest’ultimo periodo fossero in atto una serie di innovazioni che possonoprestarsi ad almeno due chiavi di lettura, l’una non necessariamente alternativaall’altra. Se, infatti, si prende come punto di riferimento il rituale incineratoriodelle fasi più antiche si nota un attenuarsi progressivo di quel rigorismoideologico che figura fra le componenti primarie della cultura laziale; iprincipali mutamenti si traducono essenzialmente nel totale abbandono dellapratica della miniaturizzazione (una prassi che, tuttavia, mostra i suoi primisegni di cedimento fin dalla fase IIA) e nell’assenza di riferimenti espliciti osimbolici che alludano all’assimilazione dell’urna alla capanna. Al contempo sinota una maggiore “improvvisazione” nella scelta degli ossuari ed unasignificativa “apertura” del rituale crematorio alla componente femminile dellacomunità, il tutto in uno scenario nel quale la cremazione tendeprogressivamente a rarefarsi a vantaggio della totale affermazionedell’inumazione.

Se si guarda alla medesima situazione sotto una prospettiva inversa,quelli che sembrano essere i segni di un progressivo decadimento possonoapparire al contrario come l’effetto di profonde innovazioni. La presenza dellapiù antica iscrizione del Mediterraneo occidentale (indipendentemente dal fattoche sia essa latina o greca)113 in una delle cremazioni femminili della fase IIB2(482), significativamente associata ad una inumazione maschile, sembrasuggerire con chiarezza la direzione verso la quale volgere lo sguardo, ossia ilmondo greco.

Se tale prospettiva è corretta è possibile ipotizzare che le novità cheinteressano il rituale incineratorio non siano da connettere con l’affievolirsidella “disciplina” indigena quanto piuttosto con il primo insinuarsi di modellirituali provenienti dall’esterno, la cui introduzione potrebbe essere stata almenoin parte favorita dagli assidui contatti della cultura laziale con la Fossakultur  

113 Da ultimo G. COLONNA, in Oriente e Occidente 2005, pp. 478-483.

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campana, principale artefice della diffusione del rituale inumatorio nel Lazio e,forse, dati i suoi precoci e privilegiati contatti con il mondo greco, anche delladiffusione di modelli rituali ellenizzanti, in particolare per mezzo di scambi“matrimoniali”, come potrebbe anche testimoniare l’elevato numero dicremazioni relative a soggetti di sesso femminile a Gabi, in aperto contrasto conle fasi precedenti.

Naturalmente le componenti in gioco possono essere state più di unacome dimostra la coeva diffusione di “suggestioni” di matrice ellenica anche incimiteri villanoviani come quello tarquiniese di Poggio Impiccato, dove glispunti allogeni vennero sottoposti ad una preventiva decodificazione attraversoil “filtro” delle tradizioni locali, come ha messo convincentemente in evidenzaF. Delpino. Nel caso veiente, invece, la situazione appare leggermente piùcomplessa per circostanze che possono essere in parte connesse alla “posizionedi confine” dello stanziamento, in virtù della quale le pratiche funerariemostravano una maggiore e precoce apertura ad influssi esterni diversificati,dando vita a situazioni ibride, spesso frutto di “scelte familiari” indipendenti114.Nel caso di Pontecagnano si può invece osservare una più fedele adesione aiprototipi greci, come dimostra il già citato caso della tomba 2145 della finedella fase locale IB, circostanza che non stupisce in una comunità “aperta”come quella picentina, sede delle più antiche e, al contempo, delle piùabbondanti importazioni e rielaborazioni di manufatti greci nell’Italia centraletirrenica115.

Alla luce degli esempi citati la componente “immateriale” del ritualepare acquisire la medesima rilevanza concettuale offerta dalle “tangibili”importazioni precoloniali.

Uno degli aspetti che colpisce maggiormente è quello relativo allemodalità di assimilazione di tali modelli, modalità che in alcuni casi sembranopresupporre una conoscenza diretta e puntuale di pratiche che nella madrepatriaerano appannaggio di una componente esigua ed elitaria della comunità, come,

114 Per Tarquinia cfr. DELPINO 2005; si veda anche il caso parimenti interessantedell’hydria tardo geometrica utilizzata come cinerario nella tomba femminile 160 dellanecropoli tarquiniese di Selciatello di Sopra (da ultimo V.  NIZZO, in  Magna Graecia 2005, p. 354, cat. III.26 con bibliografia), denotante la piena acquisizione di un modellorituale greco in un contesto villanoviano inquadrabile intorno alla metà dell’VIII secoloa.C., al punto che si è proposto di riconoscere nella defunta una immigrata greca(BARTOLONI 2003, p. 131 con bibliografia, p. 152 e BARTOLONI 2007, p. 16). Per quelche riguarda le necropoli di Veio il quadro generalmente condiviso è ancora quelloprospettato da G. Bartoloni nel 1984 e rivisitato dalla stessa Autrice nel 2003

(BARTOLONI 1984; BARTOLONI 2003, pp. 50-54).115 BAILO MODESTI-GASTALDI 1999.

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ad esempio, il piccolo gruppo di incinerati dell’Areopago di Atene. Sotto talepunto di vista la diffusione dell’epica e dell’immaginario omerico possonoessere stati ovviamente un veicolo di trasmissione di fondamentaleimportanza116.

I casi che si è cercato di raccogliere nel Lazio meridionale mostranocome quest’area non si sia sottratta a tale dialettica culturale e possa, anzi, avergiocato un ruolo importante nella codificazione e trasmissione di questi modelli,più di quanto le esigue tracce di materiali d’importazione dell’orizzonteprecoloniale possano lasciare intuire117. Casi come quello della tomba C 322 diDecima, della metà dell’VIII secolo a.C., o quelli di Satricum e Caracupa, delIII periodo, pur non godendo della monumentalità di sepolture che segnano latransizione fra la prima età del ferro e l’orientalizzante, come, ad esempio, il“tumulo Lanciani” di Decima, sembrano essere il frutto diretto di una dialetticadi questo tipo, una dialettica che si materializza in spunti apparentementesecondari ma dal profondo significato ideologico, come la coincidenza delluogo dell’ustrino con quello della sepoltura (circostanza documentataprobabilmente a Decima, all’Osa e forse anche a Satricum , Caracupa ed Ardea),la trasposizione nel modesto impasto di vasi come i calderoni bronzei al fine diutilizzarli come ossuari (CA 5), la collocazione dei resti cremati sul pianodeposizionale senza il ricorso ad appositi cinerari (documentata a Rocca diPapa, Satricum,  Caracupa e, forse, anche altrove). I casi esaminati mostranocome nel corso della III fase l’adesione a modelli elitari e, plausibilmente, larivendicazione del proprio rango, non si attuino ancora attraverso una paleseesibizione di ricchezza, quanto piuttosto mediante il ricorso a pratiche funerarieoriginali, come pare avvenire più o meno nello stesso periodo nel ricordato

“gruppo” dell’Areopago e come è documentato anche a Pithekoussai da alcuneincinerazioni del tutto sprovviste di corredo, circostanza, quest’ultima, che parepoter essere ricondotta ai “meccanismi” della cerimonia funebre piuttosto che,come si potrebbe semplicisticamente pensare, al rango dei defunti118.

Sotto tale prospettiva va considerato il caso della tomba O 259, unasepoltura che, adottando i consueti parametri, potrebbe apparire modesta mache, al contrario, costituisce l’indiscusso epicentro di un gruppo nel quale si èvoluto ravvisare il primo germe delle emergenti aristocrazie di stampogentilizio.

116 COLDSTREAM 1977, pp. 349-352.117 Sul quadro d’insieme si vedano da ultimi BARTOLONI-NIZZO 2005;  BARTOLONI

2005;  per un recente e sintetico riesame delle più antiche importazioni greche nel

Latium vetus cfr. V. NIZZO, in Magna Graecia 2005, pp. 349-351.118 NIZZO 2007, p. 31.

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Con l’orientalizzante, come noto, la cerimonia oltre che più riccadiviene anche più complessa; il messaggio ideologico si raffina e con essodiviene ancora più marcata l’adesione ai modelli dell’epica, come potrannoforse documentare i casi del tumulo di Decima o quello della tomba A 93 dellaLaurentina una volta che saranno editi e come ha già magistralmente dimostratoB. d’Agostino esaminando quelli delle tombe principesche di Pontecagnano119.

Il rituale incineratorio, tuttavia, viene ancora percepito come unaeccezione e la persistenza del ricorso all’inumazione per soggetti posti al verticedella comunità, come il “guerriero” ed il “principe” delle tombe 21 e 15 diCastel di Decima, quest’ultimo profondamente influenzato da modelliaristocratici di matrice allogena, non solo greca120, potrebbe essere ricondotta aforme di conservatorismo nate forse dall’esigenza di contrapporrenell’ “intimità” delle pratiche funerarie un ideale modello indigeno a quelloallogeno, percepito come estraneo ma sempre di più presente nella vitaquotidiana delle nascenti oligarchie121.

Le circostanze avverse nelle quali è avvenuto il ritrovamento di

119 D’AGOSTINO 1977.120 BARTOLONI 2002; BARTOLONI 2003, pp. 203-209.121 Assai interessante, a tale proposito, il quadro offerto dalla coeva documentazioneveiente e, in particolare, da inumazioni di “guerrieri” di rango plausibilmente “regale”come la 871 e la 1036 di Casale del Fosso i quali, secondo l’interpretazione datane daG. Bartoloni (BARTOLONI 2003, pp. 54, 179), potrebbero aver detenuto anche un ruolosacerdotale nella comunità e, per questo, essere stati oggetto di un trattamento funerariodifferenziato rispetto a quello riservato ad una selezionata élite di dignitari. Sul fronteromano-laziale risulta assai rilevante quanto la tradizione riporta intorno a NumaPompilio il quale, stando ad una fonte plutarchea, avrebbe posto un divieto alla praticadella cremazione venendo egli stesso inumato ai piedi del Gianicolo, circostanza cheparrebbe confermare quanto anche la documentazione archeologica mostra circal’attestazione simultanea dei due riti (BARTOLONI 2003, pp. 43-44 con bibliografia allepp. 74 ss.); che tale norma fosse volta a limitare la penetrazione di elementi allogeni nelrituale funebre indigeno potrebbe provarlo anche un passo di Plinio il Vecchio nel qualeviene riportata una lex regia attribuita a Numa con la quale si prescriveva che: Vino

rogum ne respargito (Plin.  NH , 14, 12, 88; cfr. inoltre BARTOLONI 2003,  p. 44). Lapratica di estinguere il rogo funebre con il vino (cfr., ad esempio, a proposito deifunerali di Miseno quanto riportato da Virgilio,  Aen. 6, 227-9:   postquam conlapsi

cineres et flamma quieuit, / reliquias uino et bibulam lauere fauillam, / ossaque lecta

cado texit Corynaeus aeno) sembra trovare ampie attestazioni nel sepolcreto greco diPithekoussai dove gran parte delle sepolture ad incinerazione risulta accompagnata dauna oinochoe incombusta la cui funzione parrebbe appunto essere stata quella di

spegnere la pira (cfr. da ultimo NIZZO 2007, p. 38 e nota 149 a p. 211 con bibliografiaivi citata).

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sepolture come la O 600 e la cosiddetta “tomba Castellani” di Palestrina nonpermettono di apprezzare quelle che potrebbero essere delle interessantieccezioni, caratterizzate entrambe dalla presenza di oggetti che riconducono alvicino ambiente etrusco (e veiente in particolare), come i biconici bronzei, il cuieventuale utilizzo come cinerari, purtroppo, è inestricabilmente avvolto neldubbio ma che, come si è visto, potrebbe essere confermato dalla rivalutazionedi testimonianze come quella della non lontana tomba XVI di Capena,anch’essa pertinente ad un individuo connotato come guerriero.

Da modelli etruschi dipendono quasi certamente casi isolati ma dinotevole importanza come quello dell’incinerato della tomba a camera O 62E diOsteria dell’Osa della fase IVB, chiaramente ispirato a prototipi quali la tombaveiente di Monte Michele dell’orientalizzante medio, che a sua volta siricollegava all’immaginario eroico greco in auge nella generazione precedente.

In termini generali il ricorso all’incinerazione nella IV fase, pur nonsmettendo di essere attestato, subisce una generale regressione la cui effettivaentità non può essere colta nella sua interezza a causa delle consistenti lacuneche affliggono la documentazione laziale in questo periodo ma anche in virtù diquei rivolgimenti sociali che, a partire dalla fine del VII secolo a.C.,determineranno un generale ridimensionamento del lusso funerario e dellepratiche cultuali ad esso connesse in tutta la regione122.

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Fig. 2 - Osteria dell’Osa, biconico della tomba 600, da BIETTI SESTIERI 1992, tav. 49, n.79a.

Fig. 3 - Palestrina, biconico della “tomba Castellani”, da M AGAGNINI 2000, p. 285, cat.366.

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Fig. 4 - Roma, Esquilino, tomba XLVIII, da MÜLLER KARPE 1962, taf. 11d.

Fig. 5 - Roma, Esquilino, tomba LVIII, da GJERSTAD 1956, fig. 164.

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Fig. 6 - Marino, San Rocco, tomba 2, da GIEROW 1964, fig. 160.

Fig. 7 - Castel di Decima, “tumulo Lanciani”, planimetria, rielaborata da B EDINI-CORDANO 1977, tav. 1.

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Fig. 8 - Caracupa, tomba 5, da CLP 1976, tav. XCVIA e XCVIIB.

Fig. 9 - Caracupa, tomba 5 bis, da CLP 1976, tav. XCVIB e XCVIIC.

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Fig. 10 - Caracupa, planimetria, dislocazione delle cremazioni, rielaborata daSAVIGNONI-MENGARELLI 1903, tav. 1 e ANGLE-GIANNI 1985, fig. 5.

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Fig. 11 - Satricum, tomba SA nw (1898-96) 4, da WAARSENBURG 1995, pl. 15.

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Fig. 12 - Le incinerazioni laziali del III e IV periodo: sintesi delle evidenze.