NIM.libri . Numero 7 . Febbraio 2005

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IN QUESTO NUMERO: Alfonso Amendola Frammenti d’immagine. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazione p. 2 Pierre Bourdieu Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario p.3 Vanni Codeluppi La vetrinizzazione sociale Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società p. 4 Andrea Granelli Il sé digitale. Identità, memoria, relazioni nell’era della rete p. 5 David Kamp, Lawrence Levi Dizionario snob del cinema p. 7 Giampaolo Nuvolati Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni p. 8 Alessandro Ovi (a cura di) Top 20. Le tecnologie emergenti p. 9 Bartolomeo Pietromarchi (a cura di) The [un]common place. Art, public space and urban aesthetics in Europe p. 10 Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia http://www.nimmagazine.it/?q=bookreview Numero 7, febbraio 2006 NIM .libri 7

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Il settimo numero di NIM.libri, rubrica di recensioni di NIM magazine http://www.nimmagazine.it

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IN QUESTO NUMERO:

Alfonso AmendolaFrammenti d’immagine.

Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazione p. 2

Pierre BourdieuLe regole dell’arte.

Genesi e struttura del campo letterario p.3

Vanni CodeluppiLa vetrinizzazione sociale

Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società p. 4

Andrea GranelliIl sé digitale. Identità, memoria, relazioni nell’era della rete p. 5

David Kamp, Lawrence LeviDizionario snob del cinema p. 7

Giampaolo NuvolatiLo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni p. 8

Alessandro Ovi (a cura di) Top 20. Le tecnologie emergenti p. 9

Bartolomeo Pietromarchi (a cura di)The [un]common place.

Art, public space and urban aesthetics in Europe p. 10

Rubrica bimestrale di recensioni diNIM - Newsletter Italiana di Mediologiahttp://www.nimmagazine.it/?q=bookreviewNumero 7, febbraio 2006

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Alfonso AmendolaFRAMMENTI D’IMMAGINE. Scene, schermi, video per una sociologia della sperimentazioneLiguori Editore, Napoli 2006pp. 240, € 15,50ISBN 88-207-3946-1

Recensione di Francesca Marsilio

“Frammento-frammentazione”: è da tale binomio, che definirei di “derivazione”, cioè dalla frammentazioneal frammento e viceversa, che si fonda il lavoro svolto da Alfonso Amendola nel suo libro. Il titolo è già la rive-lazione della sua essenza: è il frammento a conferire, paradossalmente, solidità alla ricerca dell’autore. Esso nonè altro che la traccia d’immagini, segno allusivo ed ambiguo di un passaggio epocale che ha visto conciliare e con-templare nello sviluppo storico delle arti visive lo spirito della tecnologia del cinema applicata all’arte teatrale econcepita nella visione analitica delle nuove tecnologie sperimentali, innescando dinamiche di trasformazioneanche nella sfera del patico. Il concetto-chiave del testo, che offre la possibilità di accesso all’ambito disciplinaredel teatro, del cinema e delle arti visive in generale, è proprio il frammento. Diviene, in tale lavoro, la linea-guidanonché l’elemento cardine del processo evolutivo muovendo dalla scena teatrale, passando per lo schermo cine-matografico fino ad arrivare al video delle più moderne tecnologie digitali. E se, tramite esso, l’autore ci riportaad una “marca temporale” che, da un lato la precede nella “frazione” e dall’altro la potenzia nella “frattura”, latesi sostenuta offre la possibilità di guardare al teatro oltre la prospettiva che gli è propria, facendolo sconfinareverso la politica, la società e i mezzi di comunicazione mediante cui la società stessa tende a manifestarsi.

Il taglio specificamente sociologico permette di effettuare un’operazione “sperimentale” e/o tesa a spe-rimentare quei momenti-eventi di contaminazione e ibridazione, caratterizzanti l’intero sviluppo del siste-ma dell’industria culturale. Il rapporto tra scena, schermo e video è analizzato in chiave socio-sperimenta-le in virtù del nesso esistente tra la natura della sperimentazione (e con esso delle avanguardie) e del suorapporto con la società. Attraverso l’accuratezza del metodo d’indagine si è dimostrato come la contami-nazione tra teatro e cinema risponda e, allo stesso tempo, sia matrice fondante e scatenante di processisociali, per cui i mezzi in questione diventano gli strumenti attraverso cui veicolare i cambiamenti innesca-ti nel contesto socio-culturale. Tale visione d’insieme Amendola ce la fornisce nella presentazione “espan-sa” di una più ampia prospettiva sociale.

Incentrato, dunque, principalmente sulle evidenti influenze tra forme espressive artistiche, il volume inten-de essere consapevolmente una riflessione sulla convivenza tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico.La ricerca dello studioso analizza il modo in cui i diversi elementi cinematografici (linguistici) erano già pre-senti nelle Avanguardie storiche, andando a sondare un terreno fertile in cui sono maturate pian piano diret-tive e tematiche che hanno avuto il loro sviluppo successivamente: dagli anni Trenta, infatti, i movimenti avan-guardisti hanno teso volutamente a far “straripare” l’arte dai ristretti ambiti in cui era sino ad allora contenu-ta, interrogandosi e interrogandoci sul possibile rapporto, nonché confluenza, fra teatro e ambito sociologi-co; l’innovazione e l’avvento delle neo-tecnologie rappresenta il terrapieno per quella riformulazione testualesecondo cui il testo stesso viene spodestato dal ruolo egemone fino ad allora assunto, e si offre quindi non piùcome fine a se stesso ma in forme osmotiche con altri media, altre pratiche testuali, in virtù di un perfetto sin-cretismo tra linguaggi artistici diversi e idealizzati, in un amalgama che li vede contemplare nello stesso modoin un’opera d’arte (totale) comune. La scrittura del testo teatrale è stata favorita dal dialogo “inscenato” dalteatro e dal cinema, dirigendo quest’ultimo il processo in quanto “coscienza” del Novecento.

L’attenta analisi si orienta verso una lettura estetico-sociologica, tesa a focalizzarsi minuziosamente suframmentazioni, passaggi epocali del Ventesimo Secolo che hanno inciso profondamente su quello succes-sivo: la frammentazione del dialogo incentrata sul rapporto tra schermo e scena, che vide nel “pensiero-esperienza” di Antonin Artaud una delle massime teorizzazioni; le “interfacce” e le “sperimentazioni”, par-tendo dallo spettacolo-evento di John Cage fino al work in progress dell’happening quale forma teatrale piùche mai disgregata e frammentata, lette e analizzate dal punto di vista avanguardista (dal Futurismo alDadaismo, dal Surrealismo alla Bauhaus fino alla Pop Art). Un cine-teatro quale summa di elementi tecni-

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ci e artistici, cui negli anni Sessanta si è aggiunta anche una componente ideologica; le frammentazionisociologiche della società; quelle del teatro mediale, ovvero del video-teatro, fino ad arrivare a quanto l’au-tore aggettiva quali “prossime/future”, ossia al cinema. La compiuta ricchezza di tale lavoro giunge a unariflessione “alta” su tre grandi autori-maestri, sperimentatori “endogeni”, che hanno operato partendodalla loro concezione ideologica inerente il teatro: Orson Welles, Rainer Werner Fassbinder, SamuelBeckett. La riflessione si sposta poi verso la fine degli anni Sessanta e oltre, concentrando lo sguardo sulloscenario teatrale di casa nostra, tra cui figura l’esemplare lezione di Carmelo Bene. Tutto si evolve, neglianni Settanta-Ottanta, verso un’idea di teatro come “gruppo” nato da un’attenta focalizzazione e ibridazio-ne del territorio con le pratiche metropolitane e lo sviluppo tecnologico. Le prospettive dell’arte teatrale siaprono, infine, al linguaggio digitale divenendo punto di sintesi estrema tra tecnica/tecnologia e arte, gene-rando nuove pratiche mediali/esperienziali.

Il libro si snoda, dunque, lungo complessi percorsi e sentieri, incontrando nel mentre anime di artisti epersonaggi che, mediante la tecnica e l’arte applicata, hanno ibridato, contaminato il territorio teatrale disemi (dal greco semêion, segno) audiovisivi: un teatro cinematografico gravido di frammenti d’immagineper un piacere degli occhi…e non solo!

Alfonso Amendola, dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione, insegna Linguaggio degli Audiovisivipresso l’Università degli Studi di Salerno e Tecniche di marketing e comunicazione presso l’Università“Federico II” di Napoli. Studioso di comunicazione di massa e culture dello spettacolo, ha pubblicato saggidedicati al cinema, al video e al teatro sperimentale. Redattore dei Quaderni di Scienze dellaComunicazione (Carocci Editore); cura la sezione videoteatro del Festival del cortometraggio “O’ Curt” diNapoli; dirige la collana multimediale videoterritori per la casa di produzione cinematografica indipendenteCactus Film.

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Pierre BourdieuLE REGOLE DELL’ARTE. Genesi e struttura del campo letterario[Ed.or. Le régles de l’art, Editions du Seuil, 1992]Traduzione di Anna Boschetti e Emanuele Bottaroil Saggiatore, Milano 2005pp. 512, € 35,00ISBN: 88-428-1075-4

Recensione di Marcello Serra

Se i concetti sono armi per la battaglia intellettuale, i libri di Bourdieu contengono missili terra-aria chefanno comodo in arsenale. Nessuna arma vince però tutte le battaglie ed anche questa, a volte, si inceppa.In parte sono problemi di “agilità” e in parte sarà anche l’età. Finalmente tradotto in italiano, Le regole del-l’arte è infatti un libro con qualche anno non solo perché l’edizione originale francese è del 1992, ma ancheperché si compone di scritti precedenti, sia pur rielaborati in forma unitaria e frutto di una impostazioneteorica forte e coerente.

Il volume fa il paio con il precedente, celebre lavoro sulla “distinzione”, rappresentandone insieme pro-sieguo e complemento: dove lì l’accento era sul consumo, qui l’attenzione è sulla produzione. Forte dellanotorietà e di una certa accettazione delle sue posizioni in campo internazionale, Bourdieu attenua in partel’aspetto polemico della riflessione e si concentra sulla definizione di una “scienza delle opere” capace dispiegare le proprietà specifiche dei testi artistici e letterari.

A questo fine viene un rifiuto dell’univocità tanto delle letture “interne”, formalistiche, quanto di quel-le “esterne”, storico-sociali, a favore di una pratica di ricerca che combina gli apporti di entrambe le tradi-zioni. L’ipotesi su cui si regge questa opzione è quella di una «omologia fra lo spazio delle opere definitenel loro contenuto propriamente simbolico, e in particolare nella loro forma, e lo spazio delle posizioni nel

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campo di produzione» (p. 279). Ogni scelta stilistica si rivelerebbe allora come una «presa di posizione» edogni scelta letteraria rifletterebbe una posizione nel campo sociale.

Proprio la nozione di campo è la chiave di volta de Le regole dell’arte, che rappresenta anche il tentati-vo più ampio di sistematizzare le implicazioni di tale concetto. Centrale in tutta la sociologia di Bourdieu,esso nasce dall’esigenza di considerare che nelle società complesse, per effetto della divisione del lavoro, lediverse attività umane tendono ad organizzarsi come “campi di produzione” relativamente autonomi,caratterizzati da specifiche forme di funzionamento. Così, l’influenza della società su arte e letteratura ver-rebbe mediata da specifiche strutture di campo e, più nello specifico, le scelte tematiche e formali di cia-scun autore dipenderebbero dalla percezione dei “possibili” offerti dalla storia e dal presente del campostesso, a sua volta inserito in un campo del potere.

Su questo sfondo teorico Bourdieu affronta una serie di questioni cruciali, correggendo spesso l’impre-cisione idealistica di alcuni concetti. Nell’analisi del potere del creatore artistico, ad esempio, la sua origi-ne “magica” è individuata nel sistema di relazioni oggettive dello spazio di gioco dell’arte, nelle lotte che vihanno luogo e nelle forme di credenza che vi sorgono. L’opposizione weberiana tra ortodossia ed eresia,generalizzata al di là dell’ambito religioso, diventa il motore del cambiamento culturale e la nozione diavanguardia una presa di posizione nella storia e nella struttura del campo. Allo stesso modo emerge lanecessità delle correnti artistico-letterarie di differenziarsi, trovare uno spazio e creare i propri critici, edi-tori, eventi, lettori e canali di divulgazione.

Bourdieu definisce il suo metodo “strutturalismo genetico” e lo applica a diversi campi della sfera cultu-rale, mostrandone la fertilità empirica. La teoria trova sempre un appoggio in analisi concrete, che vanno dauna formidabile analisi de L’educazione sentimentale a quella della logica del mercato dei beni simbolici, otte-nuta attraverso l’oggettivazione della struttura del campo delle gallerie d’arte e delle case editrici francesi.

Insomma, anche se carichi di un metodo non certo semplice e che molto si agevola di un lavoro d’équi-pe, alla fine della lettura si ha davvero l’impressione di uscire maggiormente attrezzati per il duro lavorod’analisi delle forme culturali. La domanda irrinunciabile è però: quali? Non è un caso che Bourdieu scel-ga di concentrare l’analisi soprattutto sul campo letterario francese dell’Ottocento, definitosi proprio attra-verso la lotta per la propria autonomia. È così la separatezza stessa di quel mondo a garantire efficacia allateoria. Risulta invece difficile non nutrire qualche dubbio sulla sua applicabilità a sfere culturali più aper-te ad influssi disparati, a pratiche che si inseriscono in campi poco definiti, dove patchwork e attraversa-mento diventano la regola. Oltre allo stesso universo contemporaneo dell’arte – concetto, peraltro, sempremeno utile quanto meno l’arte stessa si definisce come campo di produzione separato – sembrano sfuggiremolti prodotti dell’industria culturale e, in generale, le estetiche che meno vantano etichette di artisticità.Proprio quelle con maggiore preganza epocale e fors’anche dinamismo creativo.

Pierre Bourdieu (1930-2002) è una delle figure più incisive del pensiero contemporaneo. Tra le suenumerosissime pubblicazioni: Il senso pratico, Meditazioni pascaliane, La distinzione, Homo academicus.

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Vanni CodeluppiLA VETRINIZZAZIONE SOCIALEIl processo di spettacolarizzazione degli individui e della societàBollati Boringhieri, Torino 2007pp. 109, € 11,00ISBN: 978-88-339-1741-2

Recensione di Luca Massidda

«Lì, davanti alla vetrina, l’individuo occidentale ha imparato però soprattutto una fondamentale moda-lità di rapporto con il mondo» (p. 8). Dunque la vetrina non è soltanto il primo palcoscenico della merce chela nascente società industriale mette in scena per mostrare al suo nuovo pubblico di massa se stessa e i suiprodotti. È qualcosa di più, è appunto il vettore di una nuova modalità di rapporto con il mondo. La vetri-

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nizzazione sociale, che è poi vetrinizzazione del sociale, rappresenta cioè un vorticoso processo di sconfi-namento della logica espositiva dalla cornice circoscritta della vetrina nel territorio complessivo dellametropoli prima, nelle pratiche e nell’immaginario del sistema mediale poi e infine nei tessuti del corpostesso di un spettatore-consumatore divenuto esso stesso, contemporaneamente, la vetrina e la merce chein essa è esposta.

Quella della vetrina si impone allora, seguendo il percorso di Codeluppi, come la storia di una tecnolo-gia caratterizzante che progressivamente permea con le sue metafore le diverse dimensioni dell’abitare:quella urbana, facendo della metropoli tutta una mostruosa supermerce; quella fisica, confezionando ilcorpo stesso in un packaging sfavillante e trasparente; quella mediale, aprendo un passage tra «ribalta» e«retroscena» (Goffman) che se-duce direttamente in quella che Jean Baudrillard ha definito la «fase video»;e, in conclusione, seppur in modo imperfetto, quella della morte, anch’essa divenuta feticcio vetrinizzato econsumabile in una processione di fedeli videotelefoni alla cattura delle esequie papali.

Inizialmente dunque, in un processo ancora oggi in atto, la logica spettacolare della vetrinizzazione èfuoriuscita dalla cornice della finestra del negozio per diffondersi con mirabile virulenza nella città, andan-do a riempire con il suo spettacolo ogni interstizio dell’allora nascente spazio metropolitano. È lo schermo-soglia della vetrina, la sua profondità superficiale a porre come principio organizzativo della città non piùl’ordine, ma l’offerta (Alain Bourdin).

La seconda cornice spezzata dal processo di vetrinizzazione sociale è, come accennato, quella che deli-mitava il confine tra lo spazio visibile della «ribalta» e quello nascosto del «retroscena». La vetrina, con lasua trasparenza assoluta, è il primo medium a illuminare quelle zone della vita, della metropoli, del socia-le, che fino a quel momento avevano ancora potuto riservarsi una zona d’ombra. Il reality televisivo e lenuove spazialità pubbliche-private della rete non sono altro allora che l’ultima avventura di quella coloniz-zazione voyeuristica dell’invisibile cominciata più di due secoli orsono dallo spettacolo della vetrina.

Il corpo è l’altra dimensione su cui oggi sembrano imperversare le metafore determinate dalla logicadella vetrinizzazione. Il corpo sembra oggi complessivamente indirizzato verso il perfetto confezionamen-to dell’Artificial Kid immaginato da Bruce Sterling. Vistoso oggetto di consumo totale, artificialmentemodificato, eternamente giovane, diffusamente erotizzato ma perfettamente desessualizzato come l’imma-gine di una pin-up, perennemente esposto allo sguardo di uno sciame di videocamere personali, il corpodel personaggio creato da Sterling, puro packaging, sembra mostrare, esasperandolo, il futuro della nostravetrinizzazione somatica.

L’ultimo territorio che la vetrinizzazione sta cercando di illuminare è quello della morte. Ma le incursio-ni delle sue logiche, che siano artistiche (Von Hagens, Hirst o Cattelan) o massmediatiche (i funerali diPapa Giovanni Paolo II), nello spazio sacro della morte non sembrano ancora sufficienti a riscattare ildispendio assoluto di un gesto capace ancora di fermare eternamente il circuito dialettico del consumo desi-derio-appagamento-frustrazione-nuovo desiderio.

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Andrea GranelliIL SÉ DIGITALE. Identità, memoria, relazioni nell’era della reteGuerini e Associati, Milano 2006.pp. 223, € 19,50ISBN 88-8335-733-7

Recensione di Manolo Farci

Una delle chiavi di lettura che possiamo utilizzare per leggere il libro di Andrea Granelli – Il sé digitale –ci rimanda direttamente al pensiero ecologizzante sviluppato da Edgar Morin nel corso della sua fondamen-tale riflessione sociologica. Secondo lo studioso francese, un pensiero ecologizzante non si deve limitare ainscrivere un evento nel suo contesto, in un “quadro” o “orizzonte” di riferimento, ma necessita di ricerca-re sempre le relazioni e le inter-retroazioni tra ogni fenomeno e la complessità in cui si inserisce. Il principa-le merito del libro di Granelli è racchiuso proprio nella capacità di far confluire all’interno di un preciso

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assunto tecnologico – i processi di digitalizzazione che attraversano in maniera sempre più invasiva la sferadella vita pubblica come i dati più intimi della nostra esperienza quotidiana – un’ampia analisi antropologi-ca attenta a evitare anzitutto la logica di un pensiero compartimentato in divisioni disciplinari e iperspecia-lizzazioni che rischia di produrre ignoranza e cecità verso la complessità globale dei problemi di oggi.

Il sé digitale è dunque principalmente un libro di metodo, poiché non si limita a raccontare un cambia-mento, ma avanza proposte sulle modalità più adeguate per governare con consapevolezza tale mutamen-to. E tali proposte vanno tutte nella direzione di uno sviluppo di nuove modalità di organizzazione dellaconoscenza, capaci di rispondere all’emergenza di un orizzonte sociale caratterizzato da un surriscaldamen-to comunicativo e informativo senza precedenti. L’identità digitale – un’identità disseminata nelle magliedella tecnologia informatica e delle sue innumerevoli incarnazioni – non è solo un’immagine suggestiva-mente legata ai processi di smaterializzazione virtuale dell’esperienza umana, ma rappresenta uno strumen-to concreto per sviluppare nuovi sistemi di codificazione e accesso al sapere.

Non si tratta solo di trovare metodi efficaci in grado di archiviare e gestire le miriadi di informazioni cheavvolgono la nostra epoca, ma di gettare le basi per una riforma radicale delle modalità di apprendimentoe utilizzazione del capitale sociale e creativo delle nostre intelligenze individuali e collettive. Una riformache non riguarda semplicemente il piano dello sviluppo tecnologico, ma che coinvolge gli stessi modelliantropologici della tarda modernità, proponendosi di rifondare su basi nuove concetti come uomo, identi-tà, relazione, alla luce delle modifiche che il progresso tecnologico ha apportato su di noi.

Addomesticarsi al proprio essere digitali significa ripensare alle modalità con cui si deve far presa sulmondo, a partire da un’idea di identità che necessita di doversi continuamente rimediare attraverso l’incro-cio e l’ibridazione polifonica con l’altro da sé. Lo sviluppo delle piattaforme telematiche pare rinforzareuna concezione connessionista dell’esperienza personale, dove l’io non è un’essenza univocamente fissata,ma un sistema emergente dall’incrocio ipertestuale distribuito secondo logiche reticolari e flessibili.Accettare questa posizione significa – per Granelli – poter immaginare soprattutto nuove modalità attra-verso cui edificare le nostre conoscenze e competenze: modalità trasversali, polidisciplinari, de-struttive eglobali, capaci di risanare le disgiunzioni specialistiche dei saperi tradizionali e connetterci con un pensie-ro che offra uno sguardo critico e problematico sulla complessità del mondo e la totalità di nodi esperien-ziali che lo congiungono. Le tecnologie digitali – dalle logiche di fissazione delle informazioni nei blog onei siti web personali alle modalità di insegnamento e-learning – determinano un modus vivendi et operan-di nuovo, offrono un metodo di conoscenza che non si basa sul semplice immagazzinamento enciclopedi-co di nozioni e saperi, ma sviluppa modi di organizzare le informazioni più efficaci e flessibili, in grado diaccrescere le nostre capacità di contestualizzazione trasversale e integrazione interdisciplinare dei saperi.

Il merito principale del libro di Granelli sta nella capacità di muoversi in un campo trasversale dove lefilosofie postmoderne più radicali – dalle riflessioni sull’identità in rete, alle visioni neopagane e ansie newage, sino alle suggestioni del postumano – si incontrano con le analisi economiche sui nuovi consumi espe-rienziali, sul marketing territoriale e le forme di valorizzazione dei capitali sociali, senza cadere nei radica-lismi dell’una o dell’altra dimensione. E se l’approccio può apparire generico e non esaustivo o alcuni pas-saggi risultare troppo forzati nella loro eterogeneità, è perché – fedele allo spirito del suo libro – Granellielabora il testo usando quello stesso principio di serendipity che caratterizza la navigazione in rete: piaceredella scoperta di connessioni inedite, gusto della sorpresa che nasce da chi si dispone ad accettare il caso el’intuizione come strumenti principali della conoscenza. La serendipity è un’attitudine che ricorda molto ilvagabondare di Walter Benjamin per le strade di Parigi: una perdita della mappa, uno smarrirsi nel territo-rio che non è una rinuncia alla comprensione, ma uno sperimentare un modo nuovo di essere nel mondo.

Andrea Granelli si occupa da diversi anni di innovazione. È stato amministratore delegato di tin.it e deilaboratori di ricerca di Gruppo Telecom. È presidente del Distretto dell’Audiovisivo e dell’ICT di Roma,membro della Fondazione COTEC per la diffusione dell’innovazione tecnologica e dirige l’Istituto diEconomia dei Media della Fondazione Rosselli. Ha inoltre fondato KANSO, società di consulenza che sioccupa di innovazione, design e custumer experience.

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David Kamp, Lawrence LeviDIZIONARIO SNOB DEL CINEMASellerio, Palermo 2006pp. 180, € 10,00ISBN 88-389-2169-5

Recensione di Guido Vitiello

C’è una categoria di persone, di cui è difficile stimare l’estensione, che coltiva con malcelato orgogliouna sorta di segreta schizofrenia. Gli appartenenti a questa petite bande di iniziati vanno in sollucherodavanti ai cortometraggi sperimentali di Maya Deren, caldeggiano la Nouvelle Vague iraniana e ancora nonriescono a far pace con l’idea che la versione originale di nove ore di Greed (1925) di Erich Von Stroheimsia andata per sempre perduta. Al tempo stesso, però, gli adepti di questa singolare conventicola si beanodavanti ai film exploitation sulle carceri femminili, gongolano davanti ai film di wrestling messicani e sonopronti a sorbirsi devotamente qualunque cosa provenga da Hong Kong o da Bollywood. Ugualmente a loroagio sulle vette inarrivabili dell’auteur film e nelle discariche della spazzatura cult, costoro disprezzano tuttoquel che si trova nel mezzo: dal cinema mainstream né troppo cervellotico né troppo ineffabilmente atro-ce, destinato al profanum vulgum dei non iniziati, ai rintontiti ostaggi degli Arconti osceni di Hollywood.

Due giornalisti newyorchesi che si occupano di cinema – David Kamp scrive per Vanity Fair, LawrenceLevi per il New York Times – hanno dato a questo tipo umano il nome di Cinefilo Snob, e alle sue osses-sioni hanno dedicato un piccolo glossario divertente e divertito. Nel Dizionario Snob del Cinema figuranolemmi come “Panoramica a schiaffo” o “Terza fila” («l’unica in cui può mettersi a sedere il vero cinefilo,stando alla compianta donna di lettere e Signora degli Snob Susan Sontag», per poter «apprezzare piena-mente la mise-en-scène senza essere infastiditi da altri appartenenti alla razza umana»), ma per lo più si trat-ta di un who’s who del nerd cinematografico, una carrellata di personaggi che, per una ragione o per l’al-tra, sono idolatrati dal Cinefilo Snob – su tutti, Roger Corman e Peter Bogdanovich.

Kamp e Levi non vanno per il sottile, e la loro franchezza può suonare felicemente irriverente o crassa-mente qualunquista, a seconda che incontri o meno le idiosincrasie del lettore. Alcune voci sono così per-fette che suonano come iscrizioni tombali (il “Dogma 95” è definito un “austero collettivo di registi deditialla parodia di se stessi”), altre sbeffeggiano il gergo cervellotico e involuto del cinéphile d’impronta fran-cese, fatto di “Diegesi”, “Mise-en-scène” (espressione che «va profferita mentre si gesticola con una siga-retta accesa stretta tra il dito indice ed il medio») o “Apparato” («Termine comicamente oscuro utilizzatoper blaterare di cinema nell’ambito di discorsi a sedicente ispirazione semiotica»).

Soprassedendo su qualche stoccata davvero fuori misura, figlia di un radicato pregiudizio “misogallo” –i Cahiers du Cinéma sarebbero «fons et origo dell’intellettuale francese da caricatura, un po’ fesso e che dicecose assurde», i lavori di Rohmer sono liquidati sbrigativamente come «film verbosi in cui la borghesia fran-cese contemporanea blatera all’infinito dei propri peccatucci sessuali» – il Dizionario Snob del Cinema èuna miniera di curiosità, spigolature e osservazioni penetranti su un “tipo umano” monomane e sociopati-co. E lo si richiude con la certezza che i due autori abbiano fatto parte a lungo della setta cinefila che, cometutti i fuorusciti, ripudiano con un visibile senso di liberazione e una sospetta (pur se ironica) virulenza.Insomma, si avverte un’eco del catartico grido fantozziano davanti al “Cinefilo Snob” Guidobaldo MariaRiccardelli: «Per me la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!».

David Kamp e Lawrence Levi sono due critici cinematografici e giornalisti newyorchesi. Il primo scriveper Vanity Fair, il secondo per il New York Times.

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Giampaolo NuvolatiLO SGUARDO VAGABONDO. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderniil Mulino, Bologna 2006pp. 167, € 12,00ISBN 88-15-11089-5

Recensione di Stefano Mizzella

Si dice spesso che il flâneur rappresenti una delle figure emblematiche della modernità. Non sarebbeneppure troppo azzardato affermare che il flâneur è la modernità. Le ambivalenze, le idiosincrasie deltempo e del vissuto moderno risiedono nell’archetipo di una figura che ha riempito tanto la prosa diBenjamin quanto la poesia di Poe e Baudelaire, ma che ancora oggi può funzionare come modello interpre-tativo del tempo presente. Si farebbe presto a concludere questa recensione, se ci si limitasse ad affermareche il testo di Giampaolo Nuvolati si presenta come una riflessione estremamente precisa, puntuale esoprattutto attuale del ruolo del flâneur all’interno dello spazio urbano. Un’analisi, dunque, che non limi-tandosi alla tradizionale ricostruzione storica del fenomeno, ha l’audacia di leggere l’esperienza della flâner-ie all’interno delle attuali dinamiche sociologiche che caratterizzano tanto gli spazi del consumo quanto learee maggiormente periferiche e disagiate del tessuto suburbano. Tutto vero, tutto ampiamente documen-tato, ma non è questo ciò che qui ci interessa. O meglio, tali argomentazioni non sarebbero ancora suffici-enti a giustificare la presenza di un testo di sociologia urbana all’interno di una piattaforma dal taglio forte-mente mediologico come quella per cui questa recensione è stata pensata. Ecco allora trovare giustifi-cazione nell’atto “disonesto” che qui si compie, ovvero quello di interrogare un libro – e conseguentementeil suo autore – su di un unico concetto presente in modo intermittente all’interno del testo.

In un articolo datato 1996, Steven Goldate definiva nei termini di cyberflâneur una nuova e per certiversi paradossale tipologia di flâneur che «ama mescolarsi alla folla, in questo caso virtuale, senza perderel’anonimato; (…) un voyeur che desidera guardare senza essere visto, che gode nel provare un senso d’im-punità mentre interroga il sistema» (Goldate, S., The Cyberflâneur: Spaces and Places on the Internet, 1996).Nell’analisi proposta da Nuvolati, il cyberflâneur è figura seducente quanto problematica, perché in essal’elemento tecnologico è ossimoro: compare nelle vesti di medicina e di veleno, di diamante e di pugnale,per usare un’immagine cara a Poe. Questo perché uno sguardo “virtuale” sul mondo rischierebbe di offus-care la centralità del luogo, finendo per rendere quasi inutile il privilegio della scoperta reale condotta sulcampo, hic et nunc, dal flâneur. Ma è proprio la possibilità di questo sguardo, mobile e cangiante, a rendereemblematica la flânerie che ognuno di noi compie quotidianamente in rete.

Lo sguardo nella rete è in bilico tra presenza e assenza, necessità del nomadismo e nostalgia dellastanzialità. Si pensi alle webcam situate agli incroci delle grandi metropoli, attraverso le quali è possibileosservare in tempo reale il movimento delle folle, le tattiche del camminare contrapposte alle strategie del-l’urbanistica. Tanti piccoli occhi elettronici che nelle parole di Nuvolati appaiono come una sorta diipertrofizzazione tecnologica della vetrina di quel caffè di Londra dal quale Poe scrutava i volti e l’abbiglia-mento dei passanti mentre se ne stava comodamente seduto con un sigaro in bocca e un giornale sulleginocchia. Ma l’esperienza conoscitiva e critica del cyberflâneur non può limitarsi a ciò che Baumandefinisce come flâneurismo privatizzato, ovvero una subalterna condizione di destinatario passivo dei mes-saggi che il mondo dei consumi e dei media gli impone. Nell’era del TomTom l’arte di perdersi nella cittàsembra assumere i tratti di un’esperienza nostalgica, romantica, vintage. È un’altra la città in cui ha ancoradavvero senso perdersi, lasciandosi trasportare, oziosamente e dispendiosamente, dallo splendore di mercifantasmagoriche e dal pericolo seducente di incontri fugaci. È una città immateriale, fatta di immagini manon immaginaria, che può essere percorsa avanti e indietro attraverso lo zapping del telecomando, o, anco-ra e di più, immergendosi nell’esperienza dei mondi virtuali che solo la rete rende possibile.

È all’interno di queste pratiche immateriali che il cyberflâneur recupera il predominio dello sguardo sultatto, l’antica capacità di abbracciare con lo sguardo gli elementi del paesaggio per dare loro nuove config-urazioni, inedite risemantizzazioni. Anche se l’autore non entra direttamente nel merito della questione, ed’altro canto non sarebbe potuto essere altrimenti trattandosi, ripetiamolo ancora una volta, di un testo disociologia urbana, potremmo in tal senso azzardare l’ipotesi secondo cui è oggi possibile ritrovare quellestesse dinamiche straordinariamente narrate dai versi di Poe o di Baudelaire, all’interno dei mondi paral-

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leli di Second Life. Nelle strade di Second Life ci si annoia a rimanere troppo tempo fermi in un caffè lim-itandosi a guardare svogliati cosa succede da quelle parti. Molto meglio allora entrare a far parte di quellafolla e osservarla come un detective osserva le tracce lasciate da un serial killer nel suo cammino. Sentirsi acasa in mezzo alla folla, studiarne le dinamiche dall’interno, tenendo sempre bene a mente che, anche nellestrade non troppo virtuali di Second Life, a volte è preferibile arrestare l’incedere e fermarsi, piuttosto checontinuare a seguire colui che rifiuta di essere solo.

Giampaolo Nuvolati è docente di Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università di MilanoBicocca. Con il Mulino ha pubblicato Popolazioni in movimento, città in trasformazione. Abitanti, pendolari,city users, uomini d’affari e flâneurs (2002).

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Alessandro Ovi (a cura di) TOP 20. Le tecnologie emergentiLuiss University Press, Roma, 2006.pp. 112, € 12,00 ISBN 88-88877-86-X

Recensione di Mario Pireddu

«Cos’è che genera l’innovazione e da dove vengono le nuove idee?». Se lo chiede Nicholas Negropontenella prefazione al testo curato da Alessandro Ovi, direttore e editore di Technology Review edizione ita-liana (nonché membro del Consiglio dell’Istituto Italiano di Tecnologia). Per Negroponte è la diversità arendere un sistema aperto all’innovazione, secondo una semplice equazione: più una cultura è forte (insenso nazionale, istituzionale, generazionale, etc.), meno è disposta a promuovere il “pensiero innovativo”.Viceversa, più una cultura è eterogenea, più è propensa a promuovere l’innovazione.

Al di là della vulgata ormai arcinota qui riproposta dal guru di Essere digitali, resta comunque da chie-dersi: se negli Stati Uniti l’attenzione del mondo imprenditoriale verso il mondo giovanile – e più in gene-rale verso la fantasia come risorsa sulla quale investire – è molto alta, che succede nel resto del mondo? Iredattori di Technology Review ogni anno identificano le tecnologie emergenti che avranno in futuro unruolo determinante, almeno a giudizio degli esperti del MIT, e il libro curato da Ovi presenta appunto leventi tecnologie più interessanti selezionate negli ultimi tre anni. Per ognuna, viene elencato un ricercato-re o un gruppo di ricercatori «che hanno una funzione trainante sia per il loro lavoro sia per la loro creati-vità». In appendice, tra l’altro, vengono riportati i riferimenti dei ricercatori citati, utili per approfondirecasi specifici o per contattarli nelle università o nelle piccole, medie e grandi aziende in cui lavorano.

Il libro è diviso in tre macroaree – Bio, Nano, Info – che riassumono i settori tecnologici più dipendentidall’innovazione in senso stretto. I tre settori sono i tre capitoli del libro, organizzati per schede descrittivedelle tecnologie emergenti, e alla fine di ogni capitolo una breve panoramica (dal titolo «I giovani “ricercato-ri corragiosi” del mondo Bio», o Nano, o Info) descrive il lavoro dei ricercatori che si sono distinti per il livel-lo di innovazione delle proprie proposte o per il proprio coraggio in ambito accademico o professionale.

L’area Bio riguarda le scienze biologiche, la robotica, l’integrazione e la cooperazione tra scienze dellavita e scienza dei computer. L’area Nano è dedicata alla nanotecnologia, la scienza della costruzione e mani-polazione delle strutture a livello molecolare (l’infinitamente piccolo della materia non vivente). L’area Info,infine, è quella per noi più interessante: raccoglie gli esempi di tecnologie digitali per le connessioni ad altavelocità, per le connessioni wireless, per la gestione di grandi database, più in generale esempi di sistemiavanzati di comunicazione e interazione uomo-macchina («o meglio, uomo-rete»). Impossibile a questoproposito non citare il software di “traduzione universale” di fantascientifica memoria sviluppato daYuqing Gao presso il Watson Research Center IBM di New York, basato su un sofisticato utilizzo dell’ana-lisi semantica dei contenuti. Oppure gli studi sulla memoria distribuita di Hari Balakrishnan, quelli sull’ap-prendimento probabilistico di Daphne Koller, quelli sulle interfacce di Nuria Oliver. Nel campo delle bio-

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tecnologie (o meglio della biomeccatronica, delle relazioni tra robotica e sistema nervoso) va citato almenoil caso di Hugh Herr, impegnato nella creazione di arti artificiali che funzionino come quelli veri. Hugh Herrfa parte del Media Lab del Mit e partecipa a un progetto di ricerca dal valore di più di 7 milioni di dollari:Herr ha entrambe le gambe amputate e sperimenterà da sé il suo ultimo prototipo di protesi alla caviglia.

Il libro, a parte forse il titolo – che più che all’innovazione tecnologica fa pensare alle hitlist settimanali diMtv – è dunque un utile manuale per comprendere i possibili impieghi delle applicazioni tecnologiche in viadi realizzazione nei vari centri di ricerca di tutto il mondo, e per avere un’idea più chiara delle sinergie tra enti,ricercatori, imprese e finanziatori che all’estero sono alla base della perpetua “creazione di innovazione”.

Non c’è innovazione senza impresa: questo, in sintesi, è quanto vien fuori dalla lettura di Top 20, picco-lo “prontuario della ricerca emergente”. Inevitabilmente, ciò comporta il dover tener presenti le relazioniche legano il sistema conoscitivo con quello formativo, quello produttivo con quello promozionale e com-merciale ecc. Quanto questo appaia distante dalla realtà italiana, quanto questo riguardi il modello dellegrandi università pubbliche e private americane e la competizione tra enti diversi per avere i migliori talen-ti, quanto questo sia importante anche per rivedere il modo di intendere la stessa vita universitaria italianaè spiegato nella sintetica (e per la verità, va detto, non priva di retorica) conclusione: «tra le prime società,per crescita, negli Stati Uniti, la grandissima maggioranza opera partendo dai settori delle tecnologie emer-genti, mentre non ne troviamo praticamente nessuna nel panorama italiano». In chiusura vale la pena ricor-dare, appunto, l’assenza di casi italiani nel volume: forse non perché non ne esistano, scrive Ovi nell’intro-duzione, «ma perché non hanno avuto la possibilità di farsi conoscere».

Alessandro Ovi, nato a Carpineti di Reggio Emilia, si è formato al Politecnico di Milano e al MassachusettsInstitute of Technology. Attualmente è direttore e editore di Technology Review, Edizione Italiana, la riv-ista per l’innovazione del MIT. È “Life trustee” della Carnegie Mellon University di Pittsburg e membrodell’“Advisory board” del Media Lab del MIT. Siede in diversi consigli di amministrazione di società quo-tate italiane e straniere.

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Bartolomeo Pietromarchi (a cura di)THE [UN]COMMON PLACE. Art, public space and urban aesthetics in EuropeActar, Barcellona 2005pp. 248, € 35,00ISBN: 84-95951-99-1

Recensione di Daniele Vazquez

Questa pubblicazione è il risultato di un progetto di ricerca durato tre anni dal titolo “Trans:it. MovingCulture through Europe”. La finalità del progetto promosso dalla Fondazione Olivetti era di produrre unariflessione teorica sulle più recenti e interessanti esperienze artistiche che sono intervenute sullo spaziopubblico europeo. Il pretesto era quello di mettere in rete istituzioni pubbliche e private, organizzazioniculturali indipendenti, artisti, architetti e urban planner per identificare le “emergenze” artistiche nel pano-rama europeo e attraverso queste promuovere la cooperazione e il dialogo interculturale. Tutto ciò racco-gliendo input “dal basso”, prendendo atto di un mutamento nei progetti artistici che sempre meno si dif-fondono e passano attraverso i canali istituzionali tradizionali, sdoganando mezzi obsoleti di ricerca chenon avrebbero permesso di intercettarli.

Trans:it è per questo, più che un catalogo, quasi un lavoro di ricerca antropologico sull’arte. Si tratta di “casestudies” che rappresentano attraverso il lavoro e lo sguardo dell’artista le trasformazioni sociali, economiche eculturali in atto nello spazio pubblico europeo. Il critico della Fondazione Olivetti Bartolomeo Pietromarchiattraversa i concetti più innovativi del pensiero contemporaneo per presentare il suo campo di ricerca e i pro-getti artistici scovati.

La sua sintesi critica è molto radicale e allo stesso tempo molto allineata: lo spazio pubblico è in rovinae si è ridotto esclusivamente ad uno spazio immaginario. Ma come tanto “blue sky thinking”, si fa di una

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debolezza una forza. Certo non ci dispiacciono le importanti fonti che hanno negli ultimi due decennidisvelato la natura costruttivista e immaginaria di comunità, nazioni e tradizioni. Ma non ci basta. Non civa di stare con quelli che dicono: teniamoci stretto questo spazio immaginario e, magari, facciamolo nar-rare agli artisti. Non basteranno degli artisti a decidere le sorti dello spazio pubblico, a Corviale come neglispazi delle comunità rom di Atene. Ma d’altronde non si può pretendere troppo né dai critici né dall’arte.Sì, è vero: ogni centimetro quadrato è sfruttato solo per alcune funzioni di natura esclusivamente economi-ca e lo spazio libero per l’autodeterminazione di una socialità spontanea e individuale si è ridotto. MaPietromarchi deve fare il suo sporco lavoro, detto con ironia, in un mondo privo di coerenze, così poi silimita a spiegarci cos’è e cosa non è un luogo comune. Non cammina tra le rovine.

L’Europa è stato il suo campo di ricerca, lo spazio pubblico come spazio di relazioni la chiave per la suaricerca: «L’idea di una “fortezza Europa” è contrastata da un’identità europea basata non su una identificazio-ne geografica ma sulla partecipazione a un luogo comune immaginario, indefinito, o piuttosto in continua defi-nizione, che è il suo elemento caratteristico. In questo senso, l’identità europea è sempre stata utopica. Mapotremmo considerare l’utopia come una terra comune sulla quale vari stimoli culturali si intersecano, o luoghiinesistenti che non possono essere rappresentati sulle mappe, o da un altro lato come l’humus di una disomo-geneità culturale, l’attitudine forestiera dell’Europa». Bauman docet. Così pian piano si delinea l’idea di que-sto luogo non comune: un luogo immaginario, una comunità invisibile, un’utopia, una terra d’incontro dove èd’obbligo parlare e ascoltare e vivere magari, ce l’aggiungiamo noi, gli equivoci e i malintesi delle traduzioni.

Ci sembra tutto davvero interessante, ma non sagace e comunque un passo indietro rispetto ad esempioalle riflessioni dell’agenzia Multiplicity scaturite da una ricerca sul campo, simile nella metodologia ma nonnell’oggetto, dal nome USE (Uncertain States of Europe) e realizzata nel 2000.

A nostro avviso i luoghi comuni, che consideriamo come luoghi tipicamente urbani, sono venuti menoperché le identità non si giocano più né sul terreno del lavoro né su quello del consumo. Oggi è il genera-lizzarsi della precarietà, che è un mondo dove i confini tra lavoro e vita quotidiana si fanno molto sfumati,che sta devastando i luoghi comuni, singolarizzando le esperienze.

Un’indagine davvero antropologica sui protagonisti dei progetti artistici contemporanei scoprirebbe che sifa di necessità virtù, e che queste formidabili nuove forme di auto-organizzazione non sono altro che la rica-duta in ambito artistico del mutamento antropologico che la precarietà sta producendo, spesso dolorosamen-te, nelle nuove generazioni. Gli artisti fanno bene a realizzare interventi sul territorio, a lavorare con gli abi-tanti delle periferie degradate, con comunità nomadiche o di migranti, ma non si credano però per questoparte di un élite radical chic che non ne condivide le sorti. Alcuni artisti gettano davvero uno sguardo sullospazio pubblico che ci permette di comprendere meglio i suoi mutamenti, altri sono più interessati a sfrutta-re astutamente le occasioni oscillanti del mercato. In un caso o nell’altro non solo vediamo rappresentareesplicitamente la fine dei luoghi comuni, ma anche soggiacere alla condizione del precariato, a vivere davve-ro la fine dei luoghi comuni. Così quella che sembra l’autonomia delle nuove forme dell’arte contemporaneaspesso non è altro che volontariato ai margini delle istituzioni. È la condizione forzata del precario, dell’arti-sta così come del centralinista, sul limen tra due mondi, quello dell’esclusione e quello dell'inclusione.

Come scrisse l’agenzia Multiplicity: «Nella densità fisica e di relazioni della città europea, la quotidianitàdel conflitto tra chi sta “dentro” e chi sta “fuori” è parte della dinamica più generale di idee, forze e discorsiche attraversa la città europea». Non un luogo comune, ma un limen, poco immaginario e molto concreto.

Bartolomeo Pietromarchi (Roma, 1968) è critico e curatore d’arte. Dal 1997 dirige il programma d’arte con-temporanea della Fondazione Adriano Olivetti a Roma. Nel 2002 ha assunto l’incarico di SegretarioGenerale della Fondazione. Ha curato diverse mostre e cataloghi.

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Redazione:Mario Pireddu ([email protected])Marcello Serra ([email protected])

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