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Nicola Danti (Firenze, 1966), eletto de-putato europeo per la circoscrizione Ita-lia centrale il 25 maggio 2014. È mem-bro del Gruppo dell’Alleanza Progressistadei Socialisti & Democratici al Parla-mento europeo. È Vice Presidente dellaCommissione Mercato interno e prote-

zione dei consumatori, e membro sostituto della Commis-sione Commercio internazionale. È stato Consigliere regio-nale della Toscana e amministratore locale, attualmentemembro della Direzione nazionale e della Segreteria regio-nale toscana del Partito Democratico. Come deputato euro-peo si è impegnato in particolare a favore della tutela delMade in Italy; per l’estensione delle indicazioni geograficheai prodotti non agricoli; a sostegno della risoluzione sui ne-goziati per il TTIP (Trattato transatlantico sul commercio e gliinvestimenti tra Ue e Usa); a favore dell’approvazione delPiano di investimenti Juncker; per l’approvazione della di-rettiva europea sulla sicurezza delle reti informatiche e perlo sviluppo di un mercato unico digitale.

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Nicola Danti

LA STRADADA PERCORREREIl racconto dei miei primi 500 giorni in Europa

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A coloro che hanno condiviso la strada

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Si parla poco di Europa: e quando se ne parla, lo si fa spessosenza saperne abbastanza. Siamo inondati di notizie sulla

politica italiana, personaggi, partiti, movimenti, alleanze, pro-clami… In genere, invece, poco si sa della situazione europea.L’Europa ci appare come un’entità astratta. Non offre facce co-nosciute al grande pubblico, anzi, spesso nell’immaginariocollettivo sembra avere più il volto del capo del governo diqualche grande Paese europeo piuttosto che quello dei rap-presentanti delle istituzioni comunitarie.

Eppure l’Europa ha le proprie strutture, le proprie nor-me, la propria dialettica politica. Ma non è facile penetrarvi eorientarsi.

Coi miei colleghi, nei diciotto mesi trascorsi al ParlamentoEuropeo, sono stato testimone quotidiano di un’Europa chefatica a trovare la propria strada, lenta nel prendere decisioni senon addirittura incapace di prenderne. Inadeguata nell’inter-pretare il compito che la storia le assegna, nel rispondere allesfide epocali che il mondo globalizzato le pone davanti, primafra tutte l’immigrazione.

Abbiamo toccato con mano, quanto difficile sia concilia-re visioni e obiettivi diversi all’interno della casa comune eu-ropea. Abbiamo registrato il riemergere dei nazionalismi e ilriaffiorare dell’antieuropeismo di destra e di sinistra: abbiamo

Introduzione

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constatato quanto tutto ciò gravi sulle leadership nazionali,che appaiono oggi prive di forza e di una prospettiva di lungoperiodo.

L’Europa di questo anno e mezzo è quella che ha cammi-nato sul baratro della crisi greca, dal quale si è salvata solo conun colpo di reni dell’ultimo minuto. È quella dove si è con-sentito a un governo nazionale di costruire muri di filo spina-to ai confini con altri Stati membri.

Eppure in questo quadro non proprio ottimistico nonmancano segnali importanti che possono marcare un cambiodi passo, un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni. Larinnovata centralità della politica, il piano d’investimenti, laflessibilità: sono questi alcuni dei buoni frutti della Commis-sione Juncker e del nuovo corso intrapreso in seguito alle ulti-me elezioni europee.

Ma soprattutto, la vera buona notizia per noi è il ritorno daprotagonista dell’Italia sulla scena continentale. Dopo anni diassenza, talvolta di presenza imbarazzante, oggi ci siamo, atesta alta, pronti a riprenderci il nostro ruolo di motore d’in-tegrazione, di Paese guida nell’Europa che affronta le sfide enon le rimanda. Ci siamo grazie al 40,8 per cento ottenuto dalPartito Democratico alle elezioni del 25 maggio 2014, grazie allavoro del nostro governo e alla leadership di Matteo Renzi.

Ci aspettano anni difficili, certo, non solo per le scelte dacompiere, ma anche per le scadenze elettorali che interessanoPaesi tra i più importanti dell’Unione. Il 2017 potrebbe esserel’anno del rilancio o della fine. Le elezioni presidenziali inFrancia, le politiche in Germania e il referendum sull’adesioneall’Unione nel Regno Unito saranno uno spartiacque per il no-stro domani. Il risultato di queste consultazioni popolari sarà

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determinato in gran parte dalla politica comunitaria dei pros-simi mesi, in cui la nostra famiglia politica europea di riferi-mento dovrà giocare un ruolo primario.

Nei diciotto mesi che ci stanno alle spalle non solo abbia-mo cercato di ambientarci in questa realtà per noi nuova, maci siamo soffermati spesso a riflettere su ciò che avveniva in-torno a noi.

Queste pagine hanno lo scopo di raccontare un’esperienzavissuta, provando a dare una chiave di lettura di ciò che avvie-ne e potrebbe avvenire nel prossimo futuro. L’obiettivo è quel-lo di illustrare quale ruolo possiamo avere, come Partito De-mocratico, all’interno del Partito Socialista Europeo, di cuifacciamo lealmente parte e di cui scorgiamo le potenzialità,ma del quale al tempo stesso dobbiamo constatare l’attualeinadeguatezza, quanto a iniziativa politica, organizzazione ed ef-ficacia.

È sempre più difficile, parlando dell’Europa di oggi, ac-cendere i sogni e le speranze dei cittadini. In fondo – dobbia-mo ammetterlo – l’Europa, pur essendo il grande esito di unaluminosa vicenda, negli ultimi anni ci ha costretto al disin-canto. Oggi, provando solo ad accennare agli Stati Uniti d’Eu-ropa, si rischia di passare per visionari: dopo la crisi greca e pri-ma del referendum britannico, più che mai nella storia degliultimi sessant’anni, il sogno dei fondatori pare semplicementeimpossibile.

Eppure, come ricordava Altiero Spinelli citando Max We-ber, dovremmo sapere che «è perfettamente esatto, e confer-mato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non sarebberaggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».

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Qui comincia l’avventura…

Quattro regioni, dodici milioni di abitanti, ventimila chi-lometri in sessanta giorni. Si potrebbe riassumere così la

mia campagna elettorale per le elezioni europee del maggio2014. I numeri, però, non possono raccontare i ricordi e leemozioni di una storia impegnativa e avvincente, vissuta in-tensamente: non bastano a descrivere i volti e gli sguardi del-le persone incontrate in quei mesi, le loro storie, le loro pre-occupazioni e le loro speranze.

Un’avventura iniziata ben prima dell’avvio ufficiale dellacampagna elettorale, partita simbolicamente il 24 di aprile daSant’Anna di Stazzema, il punto più basso della storia d’Eu-ropa.

Non ci siamo mai fermati, girando dall’Appennino to-scano all’Agro Pontino, dall’Adriatico al Tirreno, dalla pro-vincia di Massa Carrara a quella di Latina.

Una campagna per le elezioni europee è una sfida molti-plicata per dieci, anche dal punto di vista fisico e psicologi-co. Ne ero consapevole fin da quando mi è stato chiesto dimettermi in gioco. Non posso dimenticare le sensazioni cheho provato all’alba del 26 maggio, mentre rientravo versocasa sotto un cielo grigio e una pioggerellina leggera. Pen-

CAPITOLO 1

L’Italia protagonista

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sando al consenso ottenuto, ho visto scorrere davanti a me ivolti delle tante persone incontrate. Alla sensazione di gioiaper quel grande risultato si è subito affiancato il senso di re-sponsabilità, la consapevolezza di dover dare voce alle aspet-tative che mi erano state affidate. La stessa sensazione che hoprovato qualche settimana più tardi, quando in una soleg-giata mattina di giugno ho varcato per la prima volta leporte del Parlamento a Bruxelles.

Le campagne elettorali sono così: ti cambiano dentro epongono le premesse del lavoro successivo. Questa è in fondola straordinaria bellezza della politica: proporre idee e pro-grammi, incontrare persone che ti consegnano le loro spe-ranze, condividono problemi, chiedono attenzione per il fu-turo della propria terra, del proprio lavoro, dei propri figli.

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L’Italia vista da vicino

La visione dell’Italia che i media perlopiù diffondono èquella di un Paese in declino, in una condizione di decadenzapressoché ineluttabile: un vecchio castello pieno di fascino,ma rimasto ai margini della contemporaneità, incapace dirinnovarsi e stare al passo coi tempi. All’opposto, l’Italia cheabbiamo incontrato e visto da vicino durante la nostra cam-pagna elettorale è un’Italia diversa e migliore dell’immagineche ne viene data, più viva, più coraggiosa. Un’Italia “norma-le”, fatta di lavoratori e piccole imprese che ogni giorno van-no avanti malgrado le difficoltà: un Paese straordinario e ric-co di futuro, ma che spesso non fa notizia.

Da questi incontri è venuta la spinta e l’orgoglio di rap-presentare l’Italia in Europa: del resto, un collegio elettoralecosì ampio ed eterogeneo non poteva che rendere la sfida diquesta campagna innanzitutto un’occasione di arricchimento,culturale ed emotivo. In quelle intense settimane ho cono-sciuto un’Italia che non si arrende, un’Italia che vuole tornareprotagonista in Europa e nel mondo. L’ho vista nella deter-minazione dei molti cittadini incontrati nei mercati, nelletante piccole e medie aziende visitate, negli occhi degli im-prenditori e dei lavoratori, dei sindaci e degli amministratorilocali, ogni giorno in trincea, tutti chiamati a fare i conticon una società sempre più complessa e con risorse semprepiù limitate per fronteggiare bisogni e sfide. L’ho vista riflessanegli occhi dei volontari, l’anima grande del nostro paese,che ogni giorno arrivano con la loro passione e il loro impe-gno là dove le istituzioni non riescono ad arrivare, che ognigiorno danno un volto e un sorriso alla solidarietà.

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È questa l’Italia che ho conosciuto lungo le migliaia di chi-lometri percorsi, nelle centinaia d’incontri, nelle riunioni conmilitanti e simpatizzanti: un’Italia che chiede più Europa, maun’Europa diversa, più semplice, più attenta ai problemi veriche le famiglie devono affrontare quotidianamente, a partire dallavoro. Un’Italia orgogliosa della propria storia, che vuole tor-nare a essere protagonista nel continente europeo. Un’Italiache chiede una visione dell’Europa coraggiosa e allo stesso tem-po concreta, che non si accontenta di considerare l’UnioneEuropea solamente un coacervo di cifre, burocrazia e rigore.

La sfida è stata tutt’altro che facile. Complice la crisi cheha accentuato le contraddizioni presenti nell’Unione, nellacompetizione elettorale era prevalente il “partito dell’antieu-ropeismo”. Sembrava che la retorica antiunionista dovesseessere la via maestra da seguire per raccogliere consensi. Tuttii nostri antagonisti, dal Movimento 5 Stelle alla Lega Nord fi-no a Forza Italia, parlavano alla pancia degli italiani, con-centrando il loro messaggio sugli aspetti negativi dell’Europa,in particolare sull’euro. Mi tornano in mente, solo per rendereun’idea del clima della competizione, i principali slogan uti-lizzati da costoro: «Basta euro: moneta straniera», «Un mostrosi aggira per l’Europa. Si chiama euro», «Euro: strumento dimorte». Sembrava una follia scommettere sull’europeismo.

Il Partito Democratico si è dimostrato l’unico soggettoautenticamente europeista fra quelli in competizione, sce-gliendo di centrare il proprio messaggio su di un concetto:«L’Italia vuole essere protagonista in Europa, rispondendo al-la domanda di cambiamento dei cittadini». Una scelta corag-giosa, come quella d’integrare la propria campagna con quel-la del Partito Socialista Europeo, la cui denominazione per la

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prima volta era presente anche nel simbolo del Partito De-mocratico.

Il risultato delle elezioni europee del 2014 racconta inmaniera inequivocabile di un trionfo del Partito Democraticoche, con oltre undici milioni e duecentomila voti, ottiene il40,8 per cento dei suffragi e viene premiato dagli italiani perla convinta scelta europeista. Una vittoria oltre le aspettative:nella competizione il PD stacca di quasi venti punti il se-condo partito più votato, il Movimento 5 Stelle, che si fermaal 21,1 per cento delle preferenze.

I risultati elettorali delineano un successo che va ben oltre iconfini nazionali: il Partito Democratico è il più votato del-l’intera Unione Europea, un milione di voti in più persino ri-spetto alla CDU-CSU guidata da una leadership forte e auto-revole come quella di Angela Merkel, ed è il partito numerica-

Grafico 1 – Elezioni europee 2014: partiti italiani a confronto.

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mente più forte all’interno del gruppo dell’Alleanza Progressistadei Socialisti e dei Democratici al Parlamento Europeo.

L’avvio della legislatura

Forte di questo risultato, il Partito Democratico si presentasulla scena comunitaria con rinnovata e accresciuta credibili-tà. Il 40,8 per cento ottenuto il 25 maggio si traduce in tren-tuno seggi al Parlamento Europeo: una nutrita delegazione dieurodeputati che il 1° luglio 2014 s’insediano in un clima incui la curiosità si mescola alla diffidenza. Non ci vuole moltoad accorgersene anche per chi, come me, mette piede per laprima volta nelle aule di Strasburgo e Bruxelles.

Sicuramente, dal punto di vista personale, l’impatto è statorilevante, col passaggio da una dimensione prettamente locale

Tabella 1 – La “top ten” dei partiti più votati alle europee del 2014: votiassoluti e percentuali sui votanti.

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Tabella 2 – Numero di seggi per Paese del Gruppo dell’Alleanza Progressi-sta dei Socialisti e dei Democratici alle elezioni europee del 2014.

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come quella del Consiglio Regionale toscano a quella comples-sa, ampia (e potenzialmente dispersiva) del Parlamento Europeo.

Io e i miei colleghi eurodeputati del PD siamo giunti aquesto incarico, chi per la prima volta chi con alle spalleun’esperienza passata, con l’orgoglio di un grande risultato econ una altrettanto grande voglia di fare bene. Con la consa-pevolezza di una forza da usare innanzitutto per imprimere uncambiamento all’Europa e in secondo luogo per restituire alnostro Paese il ruolo che gli spetta nelle istituzioni continen-tali per storia, tradizione e importanza.

La nostra reputazione sembrava compromessa da un feed-back estremamente negativo, eredità di una presenza italiananelle istituzioni europee troppo spesso distratta e inadeguata.Provo a spiegarmi. In Europa la reputazione è importante: lecose funzionano un po’ come le transazioni su eBay. Quando siacquista online, ciò che influisce sul buon esito di ogni transa-zione è il feedback positivo del venditore, in altre parole il suogrado di affidabilità. Acquistereste qualcosa da un venditore conuna reputazione fortemente negativa, anche se vendesse i suoioggetti a prezzi allettanti? Immagino la risposta. Ecco, così co-me accade su eBay, anche per muoversi in maniera efficacesullo scacchiere politico europeo è fondamentale avere un fe-edback positivo, ovvero essere affidabili e credibili.

Il recupero di credibilità è stato uno degli aspetti con cuiabbiamo dovuto fare i conti in avvio di legislatura. Guar-dando indietro, a mesi di distanza e con tanto lavoro allespalle, possiamo sostenere che il nostro feedback, in partenzanon del tutto positivo, è cresciuto giorno dopo giorno graziealla ritrovata credibilità del governo nazionale e al lavoro checiascuno dei parlamentari ha svolto nel proprio ambito di

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lavoro. Per la prima volta l’Italia ha avviato una serie di rifor-me fondamentali: dal mercato del lavoro alla scuola, dallalegge elettorale alla delega fiscale e alla pubblica amministra-zione. Riforme certamente importanti per il paese, tradottesiperaltro in un risultato complessivo non meno importante,ovvero il miglioramento quanto a reputazione e credibilità agliocchi della comunità internazionale.

All’avvio di ogni legislatura si accompagna un’intensa e ser-rata trattativa per i posti chiave in Parlamento e nelle commis-sioni. Anche in quest’attività, di cui in genere non si sa molto eche ha scarso impatto mediatico, ma che risulta essenziale perimpostare al meglio l’azione politica, l’Italia ha ottenuto risultatidecisivi, gettando le basi per il lavoro dei mesi seguenti.

Il Partito Democratico non aveva mai ottenuto altrettantiruoli chiave all’interno del Parlamento e nelle commissioni.Uno dei successi più significativi, non solo per il nostro par-tito ma anche per l’Italia, è stata l’elezione di Gianni Pittella apresidente del gruppo Socialisti e Democratici, primo italianoa rivestire questo ruolo nella storia del gruppo. Ma non èquesta la sola posizione di prestigio ottenuta dal nostro parti-to. Nell’attuale legislatura il PD vanta un vicepresidente delParlamento Europeo, due Presidenti di Commissione (“Pro-blemi economici e monetari” e “Cultura e istruzione”) e quat-tro Vicepresidenti di Commissione (“Mercato interno e pro-tezione dei consumatori”, “Industria, ricerca ed energia”, “Pe-sca”, “Sviluppo regionale”).

La credibilità italiana è stata ulteriormente rafforzata dallaposizione tenuta in avvio di legislatura dal nostro grupponella scelta per la presidenza della Commissione e nel decisoappoggio a Jean-Claude Juncker.

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In vista delle elezioni del 2014, le maggiori famiglie po-litiche europee avevano deciso per la prima volta che ognischieramento indicasse il proprio candidato alla presidenzadella Commissione prima della tornata elettorale, sulla basedella nuova procedura di elezione prevista dal trattato diLisbona che rafforza i poteri del Parlamento Europeo. Con-siderando il risultato elettorale, con la vittoria dei Popolari,Juncker godeva di una sorta di “investitura” democratica:sposare la proposta del premier britannico Cameron e la-sciare al Consiglio dell’Unione il compito d’individuare ilcandidato alla presidenza avrebbe significato disattenderele regole e indebolire l’autorevolezza delle istituzioni euro-pee, che da sempre soffrono di un deficit di partecipazionedemocratica e di credito da parte dell’opinione pubblica. Loha ribadito Matteo Renzi parlando ai parlamentari europeiin occasione del discorso di apertura del semestre di presi-denza italiano: «Avete avuto da subito la massima collabo-razione del Consiglio, che ha scelto di rispettare, come eradoveroso e politicamente giusto, le prerogative del Parla-mento».

L’altra iniziativa politica di grande impatto ed efficacia èstata la candidatura di Federica Mogherini al ruolo di altorappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica disicurezza nonché vicepresidente della Commissione. Questascelta, fortemente sostenuta da Matteo Renzi e altrettantocriticata dall’opposizione e da una parte tutt’altro che margi-nale del Partito Democratico, si è rivelata lungimirante e di al-to valore strategico e politico.

Erano in molti a pensare che per il nostro Paese sarebbestato più utile puntare, all’interno della Commissione, a ruo-

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li di maggiore impatto in comparti per noi strategici quali in-dustria, commercio internazionale o agricoltura, anche inconsiderazione della fase recessiva che l’Italia stava ancora at-traversando. Tuttavia, se è vero che le questioni economichesono e rimangono centrali, non vi è dubbio che oggi l’Unionedebba giocare una partita fondamentale sullo scenario mon-diale: occupare una casella come quella di alto rappresentan-te per gli Affari esteri significa farsi protagonisti nel rafforza-mento del peso specifico di un’Europa unita nel frammentatoscacchiere internazionale.

Federica Mogherini è la più giovane tra i membri dellaCommissione Europea. In molti sostenevano che, per l’età ela relativamente scarsa esperienza, potesse non essere la per-sona più adeguata per un ruolo così delicato e prestigioso. Neigiorni decisivi per le nomine, la caparbietà di Matteo Renzi èapparsa quasi una forzatura, una sfida all’establishment euro-peo. A un anno di distanza abbiamo invece la conferma che lagiovane classe dirigente del Partito Democratico è in gradoper capacità e preparazione di far fronte anche alle sfide piùdelicate sullo scenario internazionale.

Mogherini ha certamente contribuito a rafforzare, rispetto alpassato, il prestigio e l’influenza del timoniere della diplomaziaeuropea, grazie anche al coordinamento del gruppo di lavoro deicommissari più coinvolti nella proiezione esterna dell’Unione,addetti a settori quali commercio, migrazioni, sviluppo, politi-che di vicinato, trasporti, clima ed energia. L’intuizione politicadella centralità strategica del ruolo di responsabile delle relazio-ni estere dell’Unione trova conferma negli sviluppi di politica in-ternazionale che si susseguono senza soluzione di continuità:dalla crisi ucraina alla questione mediterranea (Libia e Tunisia)

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per arrivare, last but not least, alla crisi della Siria, i cui effettihanno scosso profondamente l’Europa col dramma dei profu-ghi, senza dimenticare la striscia di sangue del terrorismo. E sel’Europa ha il coraggio di portare avanti una politica estera co-mune, può davvero essere protagonista sulla scena internazio-nale, com’è accaduto nel caso dell’accordo sul nucleare conl’Iran, un grande successo per l’Unione.

Il semestre italiano di presidenza

Il 1° luglio 2014 ha preso avvio il semestre italiano dipresidenza del Consiglio dell’Unione Europea. L’ultima voltache ciò era accaduto, esattamente undici anni prima, al go-verno in Italia c’era Silvio Berlusconi. Ricordiamo bene l’im-barazzo causato a noi tutti dal siparietto andato in scena conl’allora vicepresidente del gruppo dei Socialisti e Democraticie capodelegazione della SPD tedesca, Martin Schulz, dipintocome un kapò di fronte allo stupore dell’assemblea riunitaper celebrare l’inizio del semestre. Undici anni dopo, il con-fronto col discorso di Matteo Renzi è l’esempio più lampantedel diverso clima che si respira dentro e intorno al nostropaese. Lo spirito con cui l’Italia si è posta alla guida del-l’Unione è quello di una nuova generazione di europei, la“generazione Telemaco”, che deve meritare l’eredità dei padrifondatori e proiettarla nel futuro senza paura.

Non dobbiamo dimenticare neanche il delicato contestomondiale in cui si è avviato il nostro semestre, uno scenariocaratterizzato dall’ennesimo acuirsi del conflitto israelo-pale-stinese, dalla ripresa delle tensioni sull’asse Kiev-Mosca in se-

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guito alla caduta del Boeing malese, dall’instabilità crescentenell’Africa del Nord e dalla proclamazione del califfato daparte dello Stato Islamico tra Siria e Iraq.

Molte sono state le critiche ma, a un anno di distanza, ilgiudizio sul semestre di presidenza italiana è nettamente po-sitivo, soprattutto dal punto di vista politico. Sbaglia chi ri-tiene di poterlo valutare solo in base al numero di dossier le-gislativi approvati tra luglio e dicembre 2014. Complice la fa-se iniziale della legislatura, con le commissioni del “nuovo”Parlamento ancora da costituire e la “vecchia” Commissionein carica solo per gli affari correnti in attesa della formazionedel nuovo esecutivo comunitario, i risultati legislativi appaio-no inevitabilmente limitati, nonostante il significativo accor-do raggiunto sul bilancio 2015 e i molteplici successi nei set-tori ambientale ed economico-finanziario.

Dal punto di vista politico, per contro, i risultati sonostati straordinari. Il semestre di presidenza italiana ha segnatoinfatti una prima svolta nelle priorità politiche dell’Unione. Senell’agenda politica sono finalmente e prepotentemente en-trate la questione degli investimenti e delle strategie di cresci-ta dell’Europa, con la necessità di un’interpretazione più fles-sibile delle politiche economiche e l’adeguamento delle normesull’immigrazione e sul diritto d’asilo – priorità indicate incampagna elettorale dal Partito Democratico – ciò è statoinnanzitutto merito di una decisa azione della presidenza ita-liana, per un’Europa più attenta alle priorità sociali e a unacrescita basata sull’economia reale, grazie anche al sostegno delgruppo Socialisti e Democratici. A un anno di distanza dallaconclusione del semestre italiano, quegli obiettivi sono statiraggiunti.

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Forse – è opportuno sottolinearlo – è proprio con l’Italia al-la guida del Consiglio Europeo che l’immagine e la credibilitàdel nostro Paese sono definitivamente e profondamente muta-te. Ricordo bene l’attacco del capogruppo del Partito PopolareEuropeo, il tedesco Manfred Weber, al nostro premier e all’Ita-lia in occasione dell’inaugurazione del semestre di presidenza eil conseguente imbarazzo dei nostri deputati: «L’Italia ha il 130per cento di debito, dove pensa di prendere i soldi? I debiti noncreano il futuro, lo distruggono: bisogna continuare con la lineadel rigore!». Parole dure, risuonate nell’aula di Strasburgo controla nostra presunta incapacità di rispettare gli impegni e portarea termine le riforme necessarie, stante l’elevato debito pubblicoereditato dal passato, che avrebbe dovuto impedirci di chiederemaggiore flessibilità. Tuttavia, a poco più di un anno di di-stanza, la profezia di Weber non si è avverata: anzi, è accadutoesattamente il contrario. Non solo l’Italia ha avviato un impor-tante processo di riforme interne, ma è riuscita a imporre nel-l’agenda europea le proprie priorità. Quell’Italia raffigurata neldiscorso di Weber non esiste più, ha profondamente cambiatovolto: sono certo che sia lui, oggi, il primo riconoscerlo.

Anche per quanto riguarda gli investimenti, a un anno dal-la conclusione del semestre italiano, possiamo dire che ci stiamomuovendo verso gli obiettivi prefissati. Nel luglio 2015, il pre-sidente Juncker ha firmato il nuovo Piano EFSI (EuropeanFund for Strategic Investments) da 315 miliardi di euro, vota-to a larga maggioranza nella plenaria di giugno del ParlamentoEuropeo. Si tratta, in altre parole, del più ingente piano d’in-vestimenti varato dalla Commissione nel recente passato, unascelta politica chiara e tutt’altro che scontata fino a qualche me-se prima. Una scelta che ha riorientato la barra dell’Unione ver-

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so politiche di crescita e di creazione di posti di lavoro. Qual-cuno si aspettava stanziamenti persino maggiori, ma l’appro-vazione del piano Juncker resta un segnale importante in unoscenario continentale in cui c’è bisogno di dare speranza.

Il cambio di rotta nella politica economica europea si sta fa-cendo evidente anche sul piano delle clausole di flessibilità di bi-lancio. Proprio alla chiusura del semestre italiano di presidenza, laCommissione ha presentato la propria proposta sulla flessibilità,pensata per riconfigurare le politiche fiscali in favore di crescita einvestimenti e legata alla realizzazione delle necessarie riformestrutturali nei singoli paesi. A certe condizioni, che l’Italia si avviafinalmente a rispettare, potranno quindi essere temporaneamen-te oltrepassati i rigidi vincoli del fiscal compact.

Infine, per quanto riguarda le norme sull’immigrazione e ildiritto d’asilo, il governo italiano ha chiesto per mesi unapolitica forte all’Unione e ha spinto affinché si creasse una co-scienza europea, con l’importante risultato dell’avvio del-l’operazione Triton che, nonostante i numerosi limiti, ha da-to inizio a un nuovo impegno comune nella gestione della cri-si migratoria. Abbiamo ancora tutti negli occhi e nel cuore leimmagini del naufragio di Lampedusa e di molte altre scia-gure, immagini che ci raccontano la disperazione di centina-ia e centinaia di donne, uomini e bambini.

Nonostante le tragedie che si sono ripetute incessanti neimesi, nonostante che il Parlamento Europeo si sia espresso piùvolte, troppi Stati membri si sono ostinatamente rifiutati di af-frontare collegialmente il problema, fino a quando le prime on-date di profughi si sono affacciate sulla rotta balcanica, arrivandoper strade diverse dal solito direttamente nel cuore dell’Europa,nel suo “salotto buono”. Accanto agli aspetti politici, nel discor-

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so inaugurale del semestre di presidenza italiana, Matteo Renziaveva posto un’altra questione cruciale, relativa alla visione euro-pea: «Se oggi l’Europa si facesse un selfie, che immagine verrebbefuori? … Emergerebbe il volto della stanchezza, della rassegna-zione. L’Europa oggi mostrerebbe nel selfie il volto della noia. …Non credo che possiamo sottovalutare la questione finanziaria …esiste un grande tema economico e finanziario; ma l’Italia sostie-ne che la grande sfida del semestre europeo non sia soltantoquella di elencare una serie di appuntamenti … la grande sfidavera che ha il nostro continente oggi è quella di ritrovare l’animadell’Europa, ritrovare il senso profondo del nostro stare insieme».

A un anno di distanza dalla chiusura del semestre italiano,il volto dell’Europa è ancora quello di quel selfie: è l’Europache ha costruito il muro di Orban fra Ungheria e Croazia, èl’Europa che ha visto Slovacchia e Repubblica Ceca votare inConsiglio contro la ripartizione dei profughi. E, in questocontesto, provare a immaginare un selfie diverso, ritrovando ilsenso profondo del nostro stare insieme, rimane una dellesfide più impegnative. Se è vero che il motto dell’UnioneEuropea è «Uniti nella diversità», troppi indizi ci dicono cheoggi rischiamo di essere disuniti nelle nostre diversità. Sottoquesto aspetto la strada da fare resta ancora tanta.

Protagonista a sua insaputa?

È vero: abbiamo da rimproverarci, come paese, molti er-rori commessi nel passato più o meno recente. Pensiamo aldebito pubblico, alle riforme che abbiamo promesso e nonabbiamo realizzato – se non nell’ultimo anno – e che non ci

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hanno consentito d’affrontare adeguatamente le grandi mu-tazioni planetarie. Nonostante ciò – e lungo sarebbe l’elencodelle occasioni mancate dalle classi dirigenti in Italia e in Eu-ropa – siamo ancora un grande Paese in grado di ritagliarsi unruolo importante tra le leadership continentali.

A volte un aneddoto può raccontare meglio di un trattato discienza politica la realtà che ci circonda. È accaduto qualche me-se fa a Bruxelles, mentre presiedevo un workshop sul mercatodigitale e la sicurezza delle reti. All’incontro partecipavano quin-dici aziende, alcuni colossi mondiali delle tecnologie digitalicome Google e Microsoft e alcune start-up europee. Quandoprendo la parola, noto che molti dei presenti non si mettono lecuffie per ascoltare. Inizialmente ho temuto che non fosserointeressati al mio intervento, ma alla fine scopro, non senzastupore, che le cuffie non servono perché più della metà dei pre-senti sono italiani! Insomma, oltre la metà delle aziende presentia un appuntamento importante su un settore strategico per losviluppo dell’Unione erano italiane o avevano degli italiani inruoli chiave. Il mio stupore nel constatare la nutrita presenza diconcittadini in incontri di questo livello rispecchia d’altrondeuno dei nostri principali limiti, ovvero la scarsa consapevolezzadel nostro valore e delle nostre capacità: siamo abituati a convi-vere con lo stereotipo di appartenere a una nazione di serie B.Questo complesso d’inferiorità, che non hanno Paesi più piccolie oggettivamente meno rilevanti economicamente e socialmen-te del nostro, è talvolta il nostro peggior nemico. A ciò si som-mano la nostra cronica diffidenza e la strutturale tendenza allaframmentazione, che non ci fa agire in modo coordinato. Nonriusciamo a trasformare le molte eccellenze individuali in un si-stema sinergico: siamo incapaci di fare squadra.

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Troppo spesso, nel passato, si è sottovalutato quanto im-portante sia per il nostro Paese una forte presenza dei legittimiinteressi del governo, nelle istituzioni europee e nei sistemi dirappresentanza, nelle istituzioni locali e nelle rappresentanzesociali. Ci sono Paesi in Europa che riescono a fare sistema, acoordinarsi al proprio interno e tutelare al meglio le proprieistanze. Noi abbiamo ancora molta strada da fare, ma grandipassi avanti sono stati compiuti in quest’anno in termini dicredibilità: basti pensare a nuovi Gabinetti dei commissari,dove la presenza italiana ha avuto un forte incremento con lacostituzione dell’ultima Commissione Europea. I Gabinettidei commissari, organi particolarmente importanti per la po-litica comunitaria, sono gruppi ristretti di funzionari con for-te valenza politica che supportano il rispettivo commissarionella gestione del proprio portafoglio. Oggi due capi di gabi-netto (Vicepresidente Alto Rappresentante e Politiche regio-nali), quattro vicecapi di gabinetto (Vicepresidente Euro eDialogo sociale, Occupazione e Affari sociali, Agricoltura eSviluppo rurale, Ricerca, Scienza e Innovazione) e quindicimembri sono italiani: è il dato più alto mai raggiunto dalnostro paese. Basti pensare che nella Commissione Barroso II(2009-2014) l’Italia poteva contare solo su due vicecapi di ga-binetto e quattordici membri.

Ma non è ancora sufficiente. La frammentazione è un re-taggio che tuttora penalizza la nostra presenza e le nostre re-lazioni. Eppure quotidianamente abbiamo prova della quali-tà dei funzionari italiani che lavorano nelle istituzioni comu-nitarie o negli uffici di rappresentanza del sistema Italia. L’Ita-lia c’è, è presente, è apprezzata. Viene perciò da chiedersiquanto maggiore potrebbe essere l’impatto positivo per il no-

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stro paese, ma anche per l’Unione stessa, se davvero iniziassi-mo a fare gioco di squadra a tutti i livelli. Soltanto se diven-teremo un sistema-paese a tutti gli effetti potremo contri-buire a creare un’Europa più forte, più capace, più integrata eanche a tutelare meglio i legittimi interessi e le peculiarità del-l’Italia.

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Un facile capro espiatorio

Houston… anzi: Bruxelles, abbiamo un problema. Sì, per-ché se l’ultimo sondaggio condotto da Eurobarometro ci

racconta che il 51 per cento degli italiani non si sente cittadi-no europeo, che il 56 per cento non conosce il funziona-mento dell’Unione, che il 72 per cento non sa quasi nientedelle questioni di cui essa si occupa e che solamente una mi-noranza si fida delle istituzioni europee o pensa che far partedell’Unione sia un bene, un problema esiste. Come dare tor-to a quei nostri concittadini se persino gli stessi parlamentarieuropei hanno inizialmente difficoltà a comprendere a fondoil funzionamento delle istituzioni comunitarie? Come dar lo-ro torto, se l’Europa appare ancor oggi troppo spesso un og-getto distante e misterioso, evanescente e senz’anima?

Oggi il vero, profondo limite dell’Europa si riassume nel-la percezione che di essa prevale nell’immaginario diffuso:l’Unione non è più percepita come aspirazione e progettocomune, ma come sovrastruttura “burocratica” con ricaduteprincipalmente negative sulla vita quotidiana dei cittadini.Eppure ciò che forse colpisce ancor di più è la giustificazioneprevalente di chi la considera in qualche modo un fatto posi-tivo: i finanziamenti europei. Un’Europa distante, complica-

CAPITOLO 2

I limiti dell’Europa

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ta e misteriosa, che assume nella migliore delle ipotesi la fi-sionomia di uno sportello bancomat.

Un sentimento fortemente europeista è sempre stato pa-trimonio della cultura italiana fin dai tempi di Altiero Spinellied Ernesto Rossi: eppure oggi, sul cammino che porta daVentotene a Bruxelles, sembra soffiare in direzione ostinata econtraria un vento antieuropeista persino più forte di quelloche spira in altri paesi, attenuatosi in parte solo recentementegrazie a una decisa azione del Partito Democratico. L’Italia è

Grafico 2 – I cittadini e l’Unione all’indomani delle elezioni europee del2014. Italia e media UE28.

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infatti oggi uno dei Paesi dell’Unione con la più alta percen-tuale di elettori che si dichiarano antieuropeisti.

Certo, quella percezione diffusa di un’Europa distante eastratta non aiuta, anzi sempre più spesso finisce per trasfor-mare l’Unione in un capro espiatorio a cui dare la colpa ditutto. Dagli inevitabili vincoli a una spesa pubblica fuoricontrollo alle direttive che regolano produzione e commerciodelle merci, il ritornello è sempre lo stesso: «È colpa dell’Eu-ropa, è colpa di Bruxelles».

Cosa non va nell’Unione?

Dunque, è veramente sempre colpa dell’Europa? Davverol’Unione è responsabile di ogni nostro male? Ovviamente larisposta è negativa, eppure non possiamo nasconderci chedei problemi esistano.

Il primo dato da sottolineare è che negli ultimi decenni ilnumero degli Stati membri è progressivamente aumentato:oggi l’Unione è un aggregato composto da ventotto entità,molto più frammentato ed eterogeneo rispetto al nucleo cen-trale dei Paesi fondatori.

Gli attuali membri differiscono profondamente per esten-sione (si va dai trecento chilometri quadrati di Malta agli oltreseicentomila della Francia), per dimensione demografica (daipoco più di quattrocentoventicinquemila abitanti di Malta aglioltre ottanta milioni della Germania) e per collocazione geo-grafica: oggi l’Europa unita va dalla Finlandia a Cipro, dal-l’Estonia al Portogallo. In più, esistono delle differenze storichee culturali di decisiva importanza, soprattutto per quanto ri-

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guarda i Paesi dell’Est. Differenze talmente macroscopiche tra iventotto Stati membri non possono che riflettersi sulle sceltepolitiche e sulla quotidiana attività decisionale delle istituzioni.

L’Europa è estesa, diversificata, frammentata. Troppo spes-so per questo motivo l’Unione è percepita come un organi-smo che non decide. Troppo spesso perciò non riesce a essereun potente motore d’integrazione, un vasto mercato unico,un grande agglomerato di Paesi che, pur con differenti tradi-zioni, culture e mentalità, contribuiscano a rendere competi-tivo il continente.

Eppure – di questo dobbiamo essere ben consapevoli –non esistono alternative. Nessuno dei Paesi membri, neppuretra i più grandi e ricchi, ha le dimensioni e la capacità econo-mica sufficienti per competere sul mercato globale. Solamen-te per fare un esempio, la Germania, che nel 2014 aveva ilprodotto interno lordo più elevato fra i Paesi dell’Unione(oltre 3200 miliardi di dollari), produce meno di un quartodella ricchezza degli Stati Uniti (16.720 miliardi di dollari) edella Repubblica Popolare Cinese (13.390 miliardi di dollari).L’Unione Europea invece ha – o meglio avrebbe – i fonda-mentali per competere ad armi pari, con oltre cinquecentomilioni di abitanti e un prodotto interno lordo che si attestasu valori analoghi a quello statunitense.

I problemi però non finiscono qui. Se infatti la percezioneche abbiamo dell’Unione Europea è quella che ci restituisco-no i dati di Eurobarometro, allora esiste ben più di un limiteanche nel modo in cui l’Europa viene comunicata ai cittadini.

Dell’Europa si parla poco – abbiamo detto all’inizio – equasi sempre se ne parla come di un’entità astratta e indefinita,senza raccontare il lavoro quotidiano all’interno delle istitu-

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zioni. Basti pensare a quanti sono i giornalisti italiani al Parla-mento Europeo a Bruxelles. Poco più di una decina, più o me-no lo stesso numero di quelli che s’incontrano nei primi diecimetri del Transatlantico di Montecitorio, alla Camera dei De-putati. È ovvio che con un’attenzione mediatica così bassa,raccontare diventa più complicato. E molto spesso a un deficitdi comunicazione – spesso drammatico nei nostri telegiornali esulle nostre emittenti televisive – si affianca un modo d’infor-mare strumentalmente finalizzato a dare un’immagine incom-pleta e distorta di ciò che è l’Europa. È drammatico rilevare co-me nei telegiornali italiani si parli di Europa, in media, solo perl’1 per cento del tempo, dando piuttosto la priorità a futiliquestioni di gossip politico.

Tabella 3 – Popolazione, PIL e PIL pro capite in alcuni paesi. Dati al 2014.

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Qualche altro esempio? Lo scorso novembre il ParlamentoEuropeo ha votato per l’affermazione del principio di neutrali-tà della rete e per l’abolizione definitiva del roaming a partire dagiugno 2017, frutto di un accordo tra Parlamento stesso eConsiglio. Tutto ciò è avvenuto nel quasi totale silenzio me-diatico, senza che i cittadini europei fossero adeguatamenteinformati. Relativamente alla questione del novel food, invece, èprevalso il metodo dell’informazione distorta. Il ParlamentoEuropeo, riunito in assemblea plenaria alla fine di ottobre, haapprovato una proposta di regolamento per semplificare e me-glio controllare le procedure di commercializzazione di nuovialimenti. La nuova norma prevede che l’autorizzazione per lacommercializzazione sia di competenza diretta della Commis-sione Europea (e non più dei singoli Stati membri), che valu-

Tabella 4 – Copertura dei temi europei nei telegiornali italiani nel perio-do gennaio-ottobre 2015: minuti dedicati all’UE sul totale dei minutitrasmessi (fonte: AGCOM).

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terà la presenza di rischi per la salute umana, avvalendosi se ne-cessario del parere dell’Autorità europea per la sicurezza ali-mentare. Ebbene, la vicenda è stata raccontata dai media italianicome l’ennesima imposizione da parte di Bruxelles, volta a far-ci mangiare cavallette, insetti e carne di coccodrillo.

E dunque, cosa manca oggi perché l’Europa sia qualcosadi più vicino all’idea che stava alla base del sogno iniziale?Mancano una visione comune e un disegno strategico, senza iquali si fa concreto il rischio che tutto si riduca a una tratta-tiva quotidiana, «mi conviene, non mi conviene», a una va-lutazione contabile, «quanto do, quanto mi torna indietro», aun calcolo interessato, «questo provvedimento interessa onon interessa il mio paese».

Un disegno strategico comune

La questione di una visione e di un disegno strategicocomuni, posta come tema centrale anche da Matteo Renzidurante il discorso di apertura del semestre di presidenza ita-liana del Consiglio Europeo, è il nodo centrale del proble-ma, la vera sfida da affrontare: dentro questa Europa, infat-ti, convivono visioni anche molto diverse su aspetti cruciali,quali il modello di sviluppo economico, il tema dell’immi-grazione, l’architettura istituzionale dell’Unione.

Dal punto di vista economico, nord e sud dell’Europasono caratterizzati da un indirizzo profondamente diverso.Se infatti la maggior parte dei Paesi dell’Europa settentrio-nale intende potenziare il proprio ruolo di grande piatta-forma commerciale e di centro di erogazione di servizi fi-

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nanziari e di terziario avanzato, il sud (e in parte la Germa-nia) continua ad avere una forte vocazione manifatturiera. Idue modelli di sviluppo economico faticano a convivere equesto si traduce in ostacoli e rallentamenti sull’iter di mol-ti provvedimenti europei. La ricerca di un punto d’incon-tro, tuttavia, è una necessità politica imprescindibile sel’Europa vuole davvero competere da protagonista nelloscenario globale.

Anche per quanto riguarda il tema dell’immigrazione edella regolamentazione dei flussi, le difficoltà nel definireuna politica europea unica ed efficace affondano le radici neldiverso atteggiamento degli Stati membri, declinabile inquesto caso in una contrapposizione est-ovest che spessoprescinde dall’orientamento politico dei governi in carica. Lemaggiori resistenze nell’affrontare in maniera condivisa laquestione dei flussi s’incontrano proprio in quei Paesi da cuisi sono originati i più recenti fenomeni migratori all’internodel nostro continente: Polonia, Romania, Bulgaria, Unghe-ria. Inoltre, la posizione del governo britannico rispetto altema dei flussi migratori si spiega da un lato con la volontàdi rafforzare la posizione della Gran Bretagna all’internodell’Unione Europea e dall’altro con l’urgenza tutta politicadi David Cameron di mostrarsi coerente con gli impegni as-sunti nell’ultima campagna elettorale, centrata anche su diuna drastica riduzione dell’immigrazione, tema rispetto alquale aveva sostanzialmente fallito nel precedente mandato.

Anche dal punto di vista istituzionale le visioni sono va-riegate e divergenti: alcuni paesi, infatti, chiedono menoEuropa. La Gran Bretagna, ad esempio, che non ha maiaderito alla moneta unica, ha addirittura promosso per il

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2017 un referendum popolare sulla sua permanenza nel-l’Unione.

Da tutto ciò consegue che la capacità decisionale delleistituzioni europee è condizionata da discordanti e spessocontrapposte visioni.

Nell’ambito della mia esperienza parlamentare, un casoin particolare è clamoroso ed emblematico: quello della tu-tela del cosiddetto “Made In”. Il Parlamento Europeo ha giàapprovato in prima lettura e con una maggioranza larga etrasversale la proposta di obbligatorietà d’indicazione del-l’origine dei prodotti.

Eppure questa norma così importante per economiemanifatturiere come quella italiana non riesce a ottenere lamaggioranza per essere approvata in Consiglio, spaccatoancora una volta su posizioni contrapposte: da una parte iPaesi manifatturieri come Italia, Francia e Spagna, che sem-pre di più soffrono la spregiudicata concorrenza della Cinae del cosiddetto “Far East”; dall’altra, il blocco anglo-scan-dinavo, a cui si aggiunge la Germania, il cui sistema mani-fatturiero si fonda in larga parte sull’assemblaggio di semi-lavorati e componentistica prodotti fuori dai confini conti-nentali.

Perché l’Europa possa uscire da queste contrapposizionioccorrono quella visione comune e quel disegno strategicoche stavano alla base del sogno originario e che devono tor-nare ad essere la bussola per il futuro dell’Unione.

La convinzione che l’Europa debba imboccare più velo-cemente possibile questa strada è stata rafforzata in me dadue incontri molto emozionanti che mi sono capitati inquesti mesi.

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Lo scorso novembre papa Francesco ha fatto visita al Par-lamento Europeo a Strasburgo e con parole al solito chiare edirette ha ribadito che spetta a noi costruire un’Europa che di-venti un punto di riferimento per tutta l’umanità, e che sola-mente coniugando la diversità di ciascuno con l’ideale del-l’unità possiamo raggiungere questo risultato.

«Il motto dell’Unione Europea è “Unità nella diversità”, mal’unità non significa uniformità politica, economica, culturaleo di pensiero. In realtà ogni autentica unità vive della ricchez-za delle diversità che la compongono: come una famiglia, cheè tanto più unita quanto più ciascuno dei suoi componentipuò essere fino in fondo se stesso senza timore. In tal senso, ri-tengo che l’Europa sia una famiglia di popoli, i quali potrannosentire vicine le istituzioni dell’Unione se esse sapranno sa-pientemente coniugare l’ideale dell’unità cui si anela alla di-versità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni;prendendo coscienza della sua storia e delle sue radici; libe-randosi dalle tante manipolazioni e dalle tante fobie» (dal di-scorso di papa Francesco a Strasburgo, 25 novembre 2014).

Qualche mese dopo, il presidente della Repubblica SergioMattarella, nell’accogliere al Quirinale la delegazione italianadei membri del Parlamento europeo, ha dato a tutti noi un al-tro insegnamento imprescindibile:

«C’è poca unione in Europa e poca Europa nell’Unione.Non vi è dubbio che il percorso verso istituzioni europee sem-pre più rappresentative e politicamente responsabili sia ancoralungo, ma la ricerca di nuovi equilibri fra Stati membri, Unio-ne, corpi sociali e cittadini europei è oggi una necessità storicaineludibile. Siamo di fronte a scelte che condizioneranno leprossime generazioni».

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E se fosse una questione di leadership?

Resta un’ultima questione da affrontare, a proposito dei li-miti dell’Unione. I problemi strutturali delle istituzioni eu-ropee, i limiti di coesione tra gli Stati membri, le conseguen-ze di un ampliamento forse troppo veloce e di un inadeguatosistema di governance sicuramente hanno posto le istituzionicomunitarie in condizione di non rispondere a pieno ai biso-gni di una società e di un’economia in continua evoluzione.

Nessuno Stato europeo oggi, l’abbiamo sottolineato, ha lapossibilità di giocare da solo un ruolo significativo sullo scac-chiere mondiale, eppure le suggestioni antieuropee hannopreso campo ovunque: talvolta di destra, talvolta di sinistra,spesso sotto le sembianze del nazionalismo. Attenuatasi lapropria vocazione, l’Europa rischia di perdere anche il con-

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senso: le responsabilità sono da cercare sia nelle politiche eco-nomiche degli ultimi anni che nella scarsità di lungimiranzapolitica. Tutto ciò indebolisce oggi le leadership politiche eu-ropeiste. Se prendiamo in rassegna i leader dei Paesi membri,pochi tra essi incarnano una visione autenticamente euro-peista e spesso il fatto di dover fronteggiare sul piano internole spinte contrarie all’Unione li induce a un’eccessiva cautela.

Serve un nuovo sogno europeo. Serve un nuovo gruppo dileader capaci di scommettere sul progetto comunitario. Bisognagiocare all’attacco, non in difesa. Rimanere immobili adessovuol dire arrendersi ed essere travolti. Sotto le macerie del sognoeuropeo rischiano di rimanere non solo le ambizioni, le spe-ranze e il lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto e chehanno operato per arrivare agli Stati Uniti d’Europa, ma anchevalori supremi come la pace e beni concreti come lo statuseconomico di cui gran parte dei cittadini europei oggi gode.

Il 2017, l’abbiamo visto all’inizio della nostra riflessione,propone scadenze politiche che possono segnare la fine del-l’Unione o il suo rilancio. I leader europei hanno un anno,non di più, per salvare il sogno dei padri fondatori. Spetta atutti, ma in primo luogo ai grandi paesi, riprendere e far pro-gredire il progetto. È il momento di poter contare su leader-ship forti. Abbiamo visto quali danni hanno prodotto leader-ship deboli negli ultimi dieci anni.

Serve un nuovo patto tra chi ha a cuore l’Europa su alcu-ni temi strategici per il continente, nel cui ambito si debbamagari rinunciare a qualcosa, avendo chiaro però il fine uni-tario, con tutti i suoi vantaggi. Sarà più accettabile per tuttiperdere qualcosa se la strada comune sarà segnata in modochiaro e si procederà con decisione nell’interesse comune.

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Non possiamo far finta di niente: esistono linee di fratturasempre più profonde che stanno incrinando il disegno co-

mune europeo e rischiano concretamente di farlo naufragare od’indebolirlo fortemente nel prossimo futuro. La frammen-tazione procede lungo linee di faglia mutevoli e trasversali: trafamiglie politiche europee, tra europeisti e contestatori delprogetto europeo, tra aree geografiche del continente, tra li-velli regionali e statali nonché, immancabilmente, tra singoliStati membri.

Le conseguenze di questa frammentazione sono sotto gliocchi di tutti, così come la mancanza di leadership autorevo-li in grado di condurre l’Unione fuori dall’immobilismo incui pare intrappolata da tempo. Sotto molti aspetti lo scontroè palese: la conflittualità fra gli Stati membri e l’assenza di unasolidarietà comunitaria sono evidenti all’interno e all’esternodelle istituzioni. Le polemiche e le reciproche accuse tra lecancellerie vanno spesso ben oltre gli usuali toni della diplo-mazia.

Nella fase più critica della gestione dell’emergenza dei mi-granti il cancelliere austriaco Werner Faymann ha accusato ilpremier ungherese Viktor Orban di riservare ai rifugiati «untrattamento analogo a quello usato dai nazisti durante la de-portazione degli ebrei». Tramite una dichiarazione del proprio

CAPITOLO 3

Le sfide che ci attendono

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ministro degli Esteri, l’Ungheria ha risposto accusando l’Au-stria di condurre una «campagna di falsità», rendendo ancorpiù difficile il raggiungimento di una soluzione condivisa allacrisi dei migranti. Analoghi i toni usati nella polemica fraAlexis Tsipras e Mariano Rajoy. All’accusa del premier grecodi aver fatto asse per sabotare la lotta di Atene contro l’auste-rità a fini di politica interna, il primo ministro spagnolo ha ri-sposto criticando il governo ellenico per aver illuso i greci,promettendo loro cose irrealizzabili.

In molti degli Stati membri, inoltre, dilagano spinte indi-pendentiste e antieuropeiste. Il referendum scozzese – dove ilno all’indipendenza si è affermato con un margine tutt’altroche ampio (55,3 per cento) – e le elezioni regionali in Cata-logna – che hanno visto prevalere nettamente i partiti auto-nomisti, pur senza raggiungere la maggioranza assoluta dei vo-ti – sono solo i casi più significativi ed eclatanti. All’affermarsidi forze centripete e destabilizzanti la coesione statale si ac-compagnano e talvolta si sovrappongono aneliti antieuropei-sti di varia natura e origine politica, tra cui la “valanga Mari-ne Le Pen” è forse il fenomeno più significativo.

Nelle stanze di alcune cancellerie europee si moltiplicanoinoltre i tentativi – formali o sostanziali – di rinegoziare lapropria presenza all’interno dell’Unione, come nel caso espli-cito della Gran Bretagna, dove l’esito del referendum è tut-t’altro che scontato e il rischio di un’uscita dalla compagineeuropea è verosimile. Spero e credo che ciò non avverrà: av-venturarsi da soli, oggi, nel mondo globalizzato comporta ilrischio di un esito incerto anche per un grande Paese come laGran Bretagna. Peraltro, il “Brexit” non farebbe che accelera-re – e questa volta pressoché con la certezza di un risultato fa-

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vorevole – la disgregazione dello Stato britannico, a partiredalla Scozia.

Nonostante questo quadro sconfortante, la mia convin-zione è tuttavia che nessuno degli Stati membri pensi seria-mente di mettere in dubbio l’Unione, di collocarsi al di fuoridelle istituzioni comunitarie. Credo che sia ormai maturata lapiena consapevolezza che non se ne può più fare a meno.Oggi l’Unione mostra tutti i suoi limiti, ma garantisce libertà,sicurezza, democrazia, un grande mercato unico e una grandeforza economica. Anche la vicenda della crisi greca porta consé un chiaro e forte messaggio d’irreversibilità: nonostante ilrisultato del referendum, nonostante la propensione dellamaggioranza a non sottostare alle misure prescritte per il ri-sanamento, la Grecia non è uscita dall’euro.

Certo, qualcuno strumentalizza i problemi esistenti op-pure immagina un’Europa diversa, modellata sulle proprievisioni e sulle proprie esigenze, senza lasciare troppo spazio aun’autentica solidarietà comunitaria. Tra gli ultimi in ordinedi tempo, proprio il premier britannico David Cameron, chenella sua lettera al presidente del Consiglio europeo ha detta-to le proprie inaccettabili «quattro condizioni» per rimanereall’interno dell’Unione. E d’altronde, lo scenario di un’Euro-pa unita che vada avanti solo per forza d’inerzia non è menopreoccupante.

Credo sinceramente che non esistano alternative a un de-stino comune. In questi primi mesi dell’esperienza di parla-mentare europeo mi sono sempre di più convinto del pro-fondo significato delle parole poste da Altiero Spinelli a chiu-sura del Manifesto di Ventotene: «La via da percorrere non è fa-cile, né sicura. Ma deve essere percorsa».

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Dobbiamo concludere il percorso d’integrazione iniziatonel secondo dopoguerra e completare l’Unione: a quel punto,le dispute – anche accese – tra Stati membri somiglierannosempre più a quei litigi che avvengono in ogni famiglia, dovesi arriva ad alzare la voce proprio perché si ha la certezza del-la (quasi) indistruttibilità dei legami.

Nel passato, anche recente, in molte parti del mondo lea-dership più o meno democratiche hanno usato lo strumentodella guerra per far crescere l’economia in modo rapido e “abuon mercato”. La storia ci racconta come anche nel nostrocontinente l’opzione bellica sia stata considerata in tante,troppe occasioni uno stimolo alla crescita economica al pari dialtri. L’esperienza dell’Unione Europea ha dimostrato inveceche si può far crescere e prosperare una comunità anche sen-za imbracciare le armi. Anzi, ponendo la pace tra i popoli chela compongono al primo posto tra le ragioni fondamentalidella propria genesi.

Per completare l’integrazione, tuttavia, non si può più pre-scindere dalla stipulazione di un nuovo patto comunitario fon-dato su valori condivisi e su di una strategia comune che af-fronti le grandi questioni sociali, economiche e istituzionalidel nostro tempo: l’elaborazione e l’attuazione di politiche di bi-lancio e fiscalità comuni, la creazione di una difesa e di un’in-telligence europee, la necessaria riforma delle istituzioni e dellagovernance, il rilancio del concetto di cittadinanza europea e dinuovi diritti comunitari, la definizione di uno spazio politicoeuropeo, la riscrittura di un modello di sviluppo economico esociale in grado di competere nel mondo globale.

La scommessa della pacifica convivenza tra i popoli si de-ve rinnovare ogni giorno per proseguire nel proprio cammino,

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a partire dal tema oggi più scottante e foriero di divisioni:quello dell’immigrazione e della solidarietà europea.

L’immigrazione: una sfida epocale

L’esodo di milioni di persone in fuga dalla fame, dallaguerra e dal diffondersi dei fondamentalismi rappresenta lasfida cruciale del nostro tempo. Non possiamo pensare di la-sciare la gestione di questa partita ai singoli stati, consentendoad alcuni tra loro d’innalzare muri e barriere di filo spinato.Questa convinzione si è rafforzata in me lo scorso settembre,quando con una delegazione di parlamentari ed eurodeputa-ti del Partito Democratico ho avuto modo di visitare il confi-ne ungherese, dove il governo Orban stava erigendo le sue fa-migerate barriere, nello sdegno di gran parte dell’opinionepubblica europea.

Quella domenica d’inizio autunno ha lasciato ricordi dif-ficili da cancellare. Le coperte e gli oggetti personali abban-donati alla stazione di Hegyeshalom, testimonianza di un ve-ro e proprio esodo di massa, fatto di migliaia di storie di per-sone e di famiglie. Il confine con l’Austria, con le tende bian-che montate dai volontari. I volti degli uomini, delle donne edei tanti bambini in attesa di cibo e di acqua. Il nostro viaggioin pulmino verso il confine con la Croazia. Le file di scalcinatiautobus scortati dai blindati. I fucili mitragliatori dei soldatisovrastati dalla bandiera stellata dell’Europa, quanto mai sto-nata su quel confine di filo spinato, come se di colpo si fossefatto un salto indietro di trent’anni, ai tempi della guerrafredda. E da lì, la nostra decisione di compiere un gesto forte

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di dissenso: la partenza a piedi, eludendo la sorveglianza del-le truppe ungheresi, verso la cortina di filo spinato. Una bar-riera sorta da qualche giorno appena, e per questo ancor piùterribile. Non un relitto della storia, un avanzo della cortina diferro, ma la testimonianza attualissima della crisi dei nostri va-lori, della nostra Europa.

Ripensare a quei momenti mi emoziona tutt’oggi e raf-forza in me la convinzione che la sfida epocale dei processimigratori non può essere affrontata come una “banale” emer-genza logistica, né tanto meno strumentalizzata da quei de-magoghi abituati a specularvi sopra per un pugno di voti inpiù: occorre un disegno strategico e condiviso, altrimenti ne

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saremo travolti. Il dato reale è che l’Europa ha dei tangibili li-miti strutturali e non può accogliere tutti. Tuttavia un conti-nente che conta cinquecento milioni di abitanti non può an-dare in crisi per l’arrivo di cinquecentomila migranti: è comese un Paese di cinquemila abitanti fosse sconvolto dall’arrivodi una famiglia di cinque persone.

Affrontare seriamente l’ondata migratoria significa crearecanali e meccanismi d’ingresso regolari, facendo in modo chechi lascia il proprio Paese possa contare su un sistema efficacedi controlli, di accoglienza e d’integrazione. Potrebbe obiettarequalcuno: ma le risorse? Le risorse ci sono già: sono, ad esem-pio, i 114 milioni di euro spesi da Frontex nel 2015 per ge-stire l’accoglienza di migliaia di migranti, in una mera logicad’emergenza e senza alcuna programmazione. Non una cifraenorme, se comparata al budget dell’Unione, ma che certopotrebbe essere impiegata in modo assai più efficace.

Affrontare seriamente la questione migratoria non signifi-ca tuttavia limitarsi alla regolamentazione dei flussi, alla logi-stica e all’accoglienza, in una parola alla gestione delle emer-genze man mano che si presentano. Significa avere una visio-ne di lungo periodo, basata su di una politica strutturata di vi-cinato con i Paesi della sponda meridionale e orientale delMediterraneo e sul rafforzamento delle politiche di coopera-zione con i Paesi all’origine dei flussi.

La vera sfida per l’Europa, dunque, è rimuovere gli squilibripolitici e socioeconomici alla base dei fenomeni migratori eprogettare una politica comune dell’accoglienza per i prossimidecenni. Accanto alle strategie di cooperazione, anche lo stru-mento della politica commerciale e dei nuovi accordi di liberoscambio (ALS) può sostenere la crescita economica e l’affermarsi

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di sistemi democratici solidi e duraturi nei Paesi in via di svi-luppo. Il sistema di preferenze generalizzate rappresenta, inquesta direzione, un esempio di successo: da decenni l’Unionegarantisce, attraverso questo programma, un accesso agevolatoall’ampio mercato interno europeo ai beni prodotti nei Paesi piùpoveri del pianeta, seguendo la logica di privilegiare gli Stati piùvirtuosi nel cammino delle riforme, del buon governo, del ri-spetto dei diritti umani e degli standard sociali e ambientali.

Inserire il governo dell’immigrazione in un modello d’in-tegrazione e di sviluppo che guardi al futuro non solo è pos-sibile, ma è anche l’unica strada da seguire. Quando si parla diStati Uniti d’Europa, proviamo a ispirarci davvero agli StatiUniti d’America e al modello d’integrazione di cittadini e la-voratori dalle mille provenienze che, pur fra numerose con-traddizioni e difficoltà, ha caratterizzato quel Paese nel XIXsecolo e agli albori del XX, ponendo le basi per trasformarlonella più grande democrazia del mondo.

A proposito di America, mi tornano in mente le parolepronunciate da Gabriel García Márquez, autore del capola-voro Cent’anni di solitudine, nel ricevere il premio Nobel nel1982: «La solidarietà coi nostri sogni non ci farà sentire menosoli finché non si concretizzerà in atti di sostegno legittimo aipopoli che coltivano l’illusione di avere una vita propria nellaripartizione del mondo. … Di fronte all’oppressione, al sac-cheggio e all’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né i di-luvi né le pestilenze, né le carestie né i cataclismi, e nemmenole guerre eterne attraverso i secoli dei secoli sono riusciti a ri-durre il tenace vantaggio della vita sulla morte».

Il grande scrittore colombiano si riferiva naturalmente aipopoli dell’America Latina, ma la stessa solidarietà e la stessa

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attenzione per la vita debbono oggi essere dimostrate verso irifugiati in fuga dalla Siria, dall’Afghanistan o dalla Somalia.Questi sono i principi intorno ai quali ci siamo dati una casacomune quasi sessant’anni fa, questi sono i principi a cuinon possiamo derogare.

Il nostro modello di sviluppo

Nel mondo della globalizzazione, non sono soltanto gli in-dividui a spostarsi più facilmente da un angolo all’altro delpianeta, ma soprattutto le merci e i capitali. Uno dei granditemi su cui l’Europa si scontra con se stessa è la visione delmodello di sviluppo da promuovere. Il risultato è un’Unionecon le armi spuntate che rischia di perdere terreno nella com-petizione globale e di dover rinunciare al proprio modelloeconomico e sociale subendo pericolosi contropiedi avversari.L’integrazione tra le due tradizionali anime dell’Europa, lamanifatturiera e la mercantilista, resta difficile e complessa,ma oggi una sintesi appare ancor più necessaria per rimanereprotagonisti nella competizione internazionale, dove si con-frontano nuovi Paesi emergenti e tradizionali global player.

La strategia di sviluppo dell’Unione non può altresì pre-scindere da una decisa valorizzazione della dimensione mani-fatturiera del nostro continente. Da un lato, perché produrresignifica promuovere la crescita dell’economia reale e lo svi-luppo: dall’altro, perché non possiamo immaginare di pro-muovere nel mondo i nostri standard qualitativi, sociali eambientali senza essere prima di tutto un continente che pro-duce e innova.

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L’Europa non può limitare il proprio ruolo a quello dipiattaforma commerciale, ma deve continuare a essere unluogo di creazione di bellezza e di eccellenza, grazie al tradi-zionale “saper fare” che ci contraddistingue da secoli. In pocheparole: l’Europa potrà restare competitiva solamente se non ri-nuncia alla propria dimensione manifatturiera e produttiva.

Su questo fronte manca una strategia complessiva a livellocomunitario, al di là di qualche documento ufficiale di mo-desta portata e senza attuazione pratica. Di recente il Parla-mento, che tradizionalmente è l’istituzione europea più sen-sibile alle tematiche della produzione e del lavoro, ha inviatosegnali inequivocabili alla Commissione e ai governi nazio-nali. Un esempio su tutti è l’estensione del sistema di prote-zione delle indicazioni geografiche ai prodotti non agroali-mentari. Il provvedimento, di cui sono stato relatore in com-missione Mercato interno e Tutela dei consumatori, è statoapprovato a larghissima maggioranza nel corso della plenariadi ottobre 2015. Un voto che, se verrà accolto dalla Com-missione Europea, porterà alla creazione di un sistema diprotezione per più di ottocento prodotti di qualità sparsi neiventotto Paesi dell’Unione, dal marmo di Carrara ai tartanscozzesi, dal cristallo di Boemia alle ceramiche di Vietri, Mon-telupo e Faenza. Dare alle eccellenze tradizionali e artigianalile stesse tutele garantite oggi a prodotti agroalimentari come ilChianti Classico o il Parmigiano Reggiano rappresenterà unaspinta importante per tante realtà locali che potranno svi-lupparsi sempre più in virtù di nuove sinergie tra artigianato,cultura e turismo.

L’Unione Europea non deve avere paura di valorizzare sestessa, la propria cultura e il proprio sistema economico e ha il

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dovere di tutelarsi da chi nel mondo vuole imitare e usurparele sue produzioni di qualità, in modo spesso sleale. L’Europaavrà un futuro se sarà anzitutto il luogo del “saper fare”, primaancora che del “fare”. Le nostre tradizioni artigianali e pro-duttive sono un’importante eredità da tutelare e preservare,un retaggio che rischia di essere perduto se ci accontentiamodi diventare soltanto una grande – ma vuota – piattaformacommerciale.

Come ho già accennato, l’Italia conduce da un decennio ladifficile battaglia per la tutela del “Made In” e dei prodottid’eccellenza, divenuta ormai il simbolo della contrapposizio-ne tra l’Europa manifatturiera e l’Europa mercantilista. Dopoanni in cui Bruxelles è sembrata disinteressarsi dei destinidell’economia reale, è giunto il momento di dimostrare chel’Unione non ha a cuore solamente il rispetto di vincoli eparametri finanziari, ma il progresso, la crescita e il benesseredei cittadini europei.

Il nostro modello di sviluppo, inoltre, non può prescin-dere da un rapporto virtuoso e sostenibile col pianeta in cuiviviamo. Per questo motivo, la sfida più grande, che condi-ziona sullo sfondo il potenziamento delle nostre attività, ri-guarda il tema della green economy, sul quale il documento Eu-ropa 2020 per una crescita «intelligente, sostenibile e inclusi-va» ha fissato importanti linee guida. Tra gli obiettivi stabilitidall’Unione per i prossimi cinque anni vi sono il raggiungi-mento della quota del 3 per cento del PIL investita in ricercae sviluppo, la riduzione del 20 per cento delle emissioni di gasserra, l’aumento del 20 per cento dell’energia prodotta confonti rinnovabili e la riduzione del 20 per cento del consumoenergetico generale.

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Al di là dei numeri, è evidente che o il nostro sistema eco-nomico sarà “verde”, o non sarà: oltre alla perdita di competi-tività, senza una maggiore attenzione alla green economy il no-stro sistema non potrà avere la credibilità necessaria a proporsicon successo quale benchmark mondiale per standard produt-tivi e lavorativi, sociali e ambientali. L’accordo Cop21 sul climaraggiunto a Parigi nel dicembre 2015 ha confermato che l’Eu-ropa può e deve giocare questa partita da protagonista.

Dobbiamo essere ottimisti e determinati su questo fronte.Una volta un ministro del petrolio saudita ha detto: «Così co-me l’età della pietra non finì perché finirono le pietre, l’età delpetrolio non finirà perché finirà il petrolio». Finirà perché ilprogresso tecnologico ci fornirà alternative più sostenibili epiù convenienti anche economicamente. Sta anche a noi fa-vorire la ricerca e lo sviluppo di tali alternative.

Un altro ambito in cui dovremo dimostrare di essere al-l’altezza delle sfide globali è la cosiddetta “economia circolare”.In un mondo che sempre più dovrà fare i conti con la scarsi-tà delle risorse naturali a disposizione, la questione ambientalesi fonde con quella produttiva: spetta alle istituzioni europeegovernare un indilazionabile mutamento di paradigma, checonsenta di favorire il superamento delle modalità di produ-zione tipiche dell’economia lineare. Per rimanere competitivi,dobbiamo favorire lo sviluppo di nuovi modelli di business epensare a nuovi “ecosistemi” produttivi che riducano drasti-camente la quota di rifiuti prodotti e garantiscano una soste-nibilità sia economica che ecologica alle imprese del nostrocontinente.

L’Europa è nata e si è sviluppata attorno a valori e princì-pi che sono sempre stati accompagnati da una “convenienza

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economica” a stare insieme e a cooperare per superare le sfidedel tempo. L’idea di Europa, lo sappiamo, nasce proprio in-torno alla creazione di un mercato comune del carbone edell’acciaio. Tuttavia dietro – o proprio grazie – alla conve-nienza economica, vi è anche il tentativo di evitare l’insorge-re di nuovi conflitti all’indomani della seconda guerra mon-diale, proprio in virtù del controllo comunitario delle materieprime dell’industria bellica. La storia dell’integrazione europeaè poi proseguita nei decenni attraverso grandi progetti di ca-rattere economico: pensiamo solo alla politica agricola co-mune, alla strategia di coesione e alla moneta comune, l’euro.

La nuova sfida, adesso, giunge dalla rivoluzione digitale. Seè vero, citando i dati della Commissione, che in Europa il set-tore digitale cresce a un ritmo del 12 per cento annuo, se necomprende la cruciale importanza strategica. Bruxelles devecavalcare questa nuova dimensione, sfruttandone appieno lepotenzialità e connettendo il proprio modello di sviluppoeconomico e sociale alle nuove tecnologie, per ottenere più in-clusione e competitività. La rivoluzione digitale dovrà ac-compagnare la necessaria trasformazione dei modelli indu-striali nel nostro continente. Non a caso si parla di “Manifat-tura 4.0”, successiva alle ere del vapore, dell’elettricità e del-l’informatica.

È naturale che molte delle politiche comuni europee ruo-tino attorno alla dimensione economica e commerciale. Unesempio è il TTIP, il trattato commerciale in fase di negozia-zione con gli Stati Uniti da cui dipenderanno in modo signi-ficativo la protezione delle nostre Indicazioni Geografiche,l’accesso al mercato statunitense per le piccole e medie im-prese, il superamento dei vecchi sistemi di risoluzione delle

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controversie commerciali e la tutela dei nostri standard socia-li, sanitari e ambientali. In quest’ambito noi, eurodeputatidel Partito Democratico, possiamo giocare un ruolo impor-tante: dovremo vigilare sull’andamento dei negoziati per giun-gere a un accordo equilibrato, ma al tempo stesso tenere benpresente che non è più il tempo dell’isolamento. Non possia-mo tirare su il ponte levatoio. In ballo non c’è soltanto un ac-cordo commerciale col protagonista per eccellenza dell’eco-nomia mondiale, ma anche la riscrittura delle regole dellaglobalizzazione che, grazie anche al nostro contributo, potràessere più equilibrata, più attenta alle persone e ai loro dirittie più rispettosa dell’ambiente e delle risorse del pianeta.

Non tutto ciò che è globalizzato vien per nuocere, verreb-be da dire: risale a qualche mese fa uno studio della BancaMondiale che ha stimato il numero di coloro che vivono incondizioni di povertà estrema in calo dal 12,8 al 9,6 per cen-to della popolazione mondiale, grazie anche alle dinamicheglobali dell’economia di mercato. Tuttavia, le contraddizionie le sperequazioni legate al nostro modello di sviluppo sonoancora evidenti, che si guardi alle periferie del mondo o anchesolo a quelle delle nostre città. Dobbiamo inserirci dunquenella logica della competizione economica globale provando agovernarla e a coglierne le opportunità: l’alternativa è rifiutarlaanacronisticamente a priori, col rischio concreto di condan-narci all’irrilevanza economica e geopolitica.

La domanda che viene da porsi è: siamo in grado di met-tere la nostra esperienza e il nostro modello economico e so-ciale europeo a disposizione del resto del mondo?

Nonostante i limiti di cui abbiamo detto, l’Europa si fon-da su solide radici comuni in termini di cultura, conoscenza,

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valori, coesione economica e sociale: e proprio grazie a questepremesse l’Unione può continuare a essere quel grande centrodi creazione di bellezza ed eccellenza fondato su alti standardambientali, produttivi e lavorativi. Ma le nostre best practicesnon possono essere solo economiche: il modello europeod’integrazione è di per sé un’esperienza esemplare per tante al-tre aree. Questo nostro patrimonio, che sta alle fondamentadel nostro stare insieme, può essere una risorsa anche per altriattori, altri paesi, altre aree del pianeta.

Rafforzando la nostra economia e il nostro mercato co-mune, giocando un ruolo sempre più da protagonisti nellapolitica internazionale, potremo certamente valorizzare anchele nostre conquiste politiche e sociali. In questo senso l’Unio-ne Europea, se saprà superare le acque agitate in cui sta at-tualmente navigando, potrà davvero orientare le dinamicheeconomiche internazionali verso una “globalizzazione buona”,più sostenibile e più inclusiva.

Cittadinanza europea, diritti europei, politica europea?

Non c’è dubbio che la responsabilità di tracciare una stra-tegia comune in tutti questi ambiti ricada principalmentesulle spalle di chi oggi guida le istituzioni comunitarie e igoverni degli Stati membri. Ma nessuna “rivoluzione” può es-sere compiuta senza un largo e convinto appoggio popolare.Cosa pensano, quindi, i cittadini europei del fatto di appar-tenere all’Unione? Secondo l’ultimo sondaggio di Eurobaro-metro, la percentuale di coloro che lo valuta positivamente siattesta al 54 per cento, con differenze anche significative fra i

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diversi paesi. In Italia la percentuale si ferma al 40 per cento,valore non molto distante da quello della Gran Bretagna (39)e della Grecia (30).

Questi dati debbono far riflettere, se pensiamo per esem-pio che fino a pochissimi anni fa noi italiani eravamo tra i piùconvinti europeisti del continente. Le difficoltà economiche,negli anni della crisi, hanno certamente pesato nel togliere atanti cittadini la fiducia in istituzioni comunitarie avvertitecome distanti e poco utili. Ma non può essere questa l’unicaspiegazione.

Manca soprattutto – e ce ne accorgiamo oggi più che mai– una visione condivisa del nostro stare insieme, manca una

Grafico 3 - Percentuale di cittadini europei che ritiene il fatto di appartenereall’UE sia una buona cosa. Dato al 2014 in Italia e in alcuni Paesi europei.

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prospettiva comune per immaginare il nostro futuro, a Romacome a Parigi, a Praga come a Londra o a Lisbona… Mancaun modo di pensare da europei, di pensarci europei.

Per costruire una visione comune e rafforzare il senso diappartenenza è necessario investire soprattutto sul coinvolgi-mento delle giovani generazioni, i cittadini del futuro. Oggicirca sette milioni di europei lavorano in un Paese diverso dalproprio all’interno dei confini dell’Unione. Troppo pochi perpoterlo considerare un mercato del lavoro integrato, espres-sione di un’unica società, da Tallinn a Madrid, da Berlino adAtene.

Dobbiamo mettere al centro della costruzione europea la“generazione Erasmus”, quel popolo di oltre tre milioni di ra-gazze e ragazzi che per primi hanno avuto l’opportunità di ve-dere il mondo da cittadini autenticamente europei. Questo èil senso del progetto “Pensare Europei”, che finora ha portatoa Bruxelles circa centocinquanta giovani da varie regioni ita-liane. Per tre giorni, con ognuno di questi gruppi di giovani,abbiamo partecipato a incontri con deputati e funzionari diogni provenienza e colore politico, abbiamo affrontato e di-scusso le principali questioni dell’agenda politica europea.Sono convinto che, grazie a esperienze come questa, i nostriragazzi possano tornare a casa non solo più informati, macon una visione diversa di Europa.

Al tema della cittadinanza non può non accompagnarsiuna riflessione sui diritti di ogni cittadino europeo. Per con-solidare e modernizzare il modello sociale comunitario, il go-verno italiano ha formulato nei mesi scorsi una proposta co-raggiosa, volta alla creazione di un fondo comune per la di-soccupazione. L’idea promossa dal ministro italiano del-

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l’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan è costruire nel-la zona euro un sistema di assicurazione contro la disoccupa-zione ciclica, da finanziare con risorse comuni. Una propostadi ampio respiro che si deve inserire in una visione strategicacomune che vada oltre la stretta attualità e la logica del-l’emergenza, anche in ambito sociale.

Ma la riflessione in merito non può fermarsi qui. La Car-ta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, conosciutacome Carta di Nizza e promulgata nella sua versione più ag-giornata il 12 dicembre 2007, è un importante tentativo didefinire una serie di libertà e di diritti garantiti indistinta-mente a tutti i cittadini dell’Unione. Incorporata nel Trattatodell’Unione Europea, la sua adozione da parte degli Statimembri non è ancora completata. Non c’è dubbio che l’opi-nione pubblica europea sia al momento distratta da altre pre-occupazioni e priorità, ma anche da qui bisogna ripartire perriempire di significati concreti la cittadinanza europea e raf-forzare lo spirito di appartenenza.

Infine, occorre procedere con convinzione verso la defini-zione di uno spazio comune della politica europea: dobbiamo,

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insomma, creare un unico stadio in cui tutte le squadre, ov-vero i partiti, si affrontino con le stesse regole. E vinca il mi-gliore! Alcuni passi avanti sono stati fatti, ad esempio – comericordato – con l’indicazione da parte delle grandi famigliepolitiche dell’Unione dei rispettivi candidati alla presidenzadella Commissione prima delle ultime elezioni europee. I di-battiti pubblici del 2014, anche se inevitabilmente e tradi-zionalmente dominati dai temi e dalle emergenze nazionali,hanno avuto, come mai prima d’ora, un respiro più ampioche ha senza dubbio avvicinato molti alle poco familiari cate-gorie della “politica europea”.

Il fatto che, dopo la consultazione elettorale, il Consiglioabbia confermato la scelta del candidato “vincente”, ossiaquello indicato dal gruppo maggiormente rappresentato inParlamento, segna un avanzamento decisivo, dal quale saràdifficile tornare indietro.

Come ha detto Matteo Renzi in occasione della chiusuradel semestre italiano di presidenza: «Si è scelto di dare valorepolitico alle elezioni del 25 maggio 2014. La designazione diJean-Claude Juncker come presidente della Commissionenon nasce semplicemente dal riconoscimento di un risultatoche di per sé non sarebbe stato sufficiente – perché il partitoche lo ha presentato non aveva ottenuto la maggioranza deimembri necessaria ad un voto di fiducia – ma da un accordopolitico con la P maiuscola … È la prima volta che questo ac-cade nella storia delle Istituzioni europee. Io credo che nondebba essere l’ultima e che dovrà essere in qualche misura co-dificata nella consuetudine politica europea».

La strada per arrivare a una competizione politica auten-ticamente europea è tuttavia ancora lunga e non potrà che

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passare attraverso la creazione di un sistema elettorale unicoche uniformi i diversi sistemi nazionali e veda in gioco delleautentiche liste europee.

Un’Europa che decide

Non basta tuttavia una visione comune su grandi temiquali immigrazione, modelli e percorsi di sviluppo, diritti dicittadinanza. Resta difficile immaginare un’Europa diversasenza una profonda riforma delle sue istituzioni. Mai come inquesto momento la governance europea è percepita come unodegli elementi tra i più deboli dell’Unione. La complessità e lascarsa efficacia della catena di comando europea produconoeffetti che vanno ben al di là della mera contrapposizione traistituzioni intergovernative come il Consiglio e istituzionicomunitarie come il Parlamento. Senza dubbio, il frequentecortocircuito tra i due rami legislativi è uno degli aspetti piùfragili di un edificio europeo non ancora in grado di reggerealle grandi sfide del presente. Ma oltre a ciò, macchinosità einefficienza fanno risaltare le numerose incoerenze della suaorganizzazione e ne mettono in discussione l’assetto istitu-zionale complessivo.

Nella mia pur breve esperienza di europarlamentare hoavuto modo di toccare con mano la complessità del procedi-mento legislativo comunitario, che fonda appunto la propriamacchina su due “motori”: Parlamento e Consiglio. C’è unmomento, nella fase legislativa, in cui le volontà quasi sempredivergenti di questi due soggetti debbono trovare una sintesi:il trilogo, ossia l’incontro nel quale Consiglio (rappresentatodalla presidenza di turno) e Parlamento (rappresentato dai re-

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latori di ciascun gruppo) debbono trovare un compromesso,grazie anche al ruolo di facilitatore svolto dalla Commissione(terza istituzione presente alla riunione).

Quando i punti di partenza del Consiglio e del Parlamentosono particolarmente distanti, la negoziazione può durare mol-ti mesi, se non anni. La nobile arte del compromesso arriva inquesti incontri al proprio apice: una battaglia fatta di sostitu-zioni di parole, di lavoro di cesello su modi verbali e punteg-giatura, che avrebbe fatto impallidire anche i campioni dellanostra Prima Repubblica. Eppure la costante ricerca del com-promesso alla fine produce norme che debbono regolare la vitadi cinquecento milioni di cittadini in ventotto Paesi negli am-biti più disparati: dalla politica agricola, all’abolizione del roa-ming, agli stanziamenti per il programma Erasmus.

La domanda è: in questo mondo contemporaneo semprepiù smart e fast, può l’Europa permettersi procedure cosìcomplesse e lente? Può l’Europa permettersi un Consigliodei ministri che blocca numerosi dossier legislativi a tempoindeterminato in mancanza di una chiara maggioranza? Puòl’Europa permettersi che l’esclusività dell’iniziativa legislativasia appannaggio di una Commissione col freno a mano tirato?

Le necessarie riforme istituzionali, tuttavia, appaiono tut-t’altro che agevoli da conseguirsi. La modifica dei trattati ri-chiede non solo l’unanimità degli stati, ma anche la successi-va ratifica da parte dei parlamenti nazionali o dei cittadinimediante referendum. La storia recente ci ricorda come que-sti passaggi siano molto difficili, tanto più oggi, in un’Unionecosì “frastagliata”.

Proprio a causa delle difficoltà nella modifica dei trattati ètornato prepotentemente d’attualità il tema dell’Europa “a

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due velocità”, sempre esorcizzato dai vertici comunitari ma di-venuto oggi inaggirabile per non rimanere a metà del guado erischiare di essere travolti. Per questo, ad esempio, si puòipotizzare un’intensificazione dei meccanismi di cooperazionerafforzata, talché alcuni paesi, se lo vogliono, possano spin-gersi più avanti sul terreno dell’integrazione, lasciando che glialtri li raggiungano in seguito.

La verità è che l’Europa non può permettersi di correre allavelocità degli “ultimi della classe”, ovvero dei Paesi che per varimotivi vogliono meno Europa. Bisogna traghettare l’Unionefuori dallo stallo, verso un’Europa più unita, più integrata e piùforte. Chi ci vuole stare, deve poterci stare. Chi invece chiedepiù tempo, legittimamente può farlo, ma non può imporreagli altri di stare ad aspettare. A maggior ragione in un’Europadel futuro che conterà trentadue o trentatré stati.

La Commissione Juncker, anche per andare incontro allerichieste della Gran Bretagna e scongiurare l’ipotesi “Brexit”,sta aprendo appunto all’idea di un’Europa a due velocità,sempre avversata dalla precedente Commissione Barroso. Unpasso in avanti forse obbligato, ma che va nella direzionegiusta: permettere a chi lo vuole di spingere con più forza sulpedale dell’integrazione. E molti sono gli ambiti in cui ab-biamo la necessità di spingerci oltre. Come già accennato, oc-corre giungere all’unione del bilancio e delle politiche fiscali,dell’industria e delle strategie sociali, rilanciare la politicaestera comune e definire un nuovo piano della difesa e del-l’intelligence. La gravità della crisi economica e finanziaria, co-sì come il suo durevole impatto, hanno fatto emergere l’esi-stenza di nodi irrisolti relativi all’incompletezza dell’Unioneeconomica e monetaria.

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Proprio sulle politiche fiscali, abbiamo recentemente avutola prova della necessità di maggiore integrazione. Il caso “Lu-xLeaks” in questo senso è esemplare: l’Europa deve smettere difarsi dumping da sola, attraverso un’armonizzazione e unamaggiore trasparenza delle politiche fiscali dei singoli membri.

La ripresa comincia adesso a farsi tangibile, ma con dina-miche e tassi d’incremento molto differenziati tra le ventottoeconomie europee: si torna a crescere, ma in ordine sparso eancora troppo lentamente. Dobbiamo decidere se proseguirecon gli strumenti e con le politiche attuali oppure affrontarecon determinazione le nuove sfide dotandoci di mezzi e con-cetti nuovi, anche dal punto di vista istituzionale.

Per quanto riguarda le politiche finanziarie, il lancio delpiano d’investimenti (EFSI) da parte del presidente Junckerrappresenta un primo passo importante, ma non basta. Nelpercorso di rinnovamento della governance europea possia-mo immaginare un nuovo ruolo per la Banca europea per gliinvestimenti (BEI), il completamento dell’unione bancaria el’avvio di un cammino che ci conduca verso un bilancio pro-prio dell’Unione, nel cui ambito predisporre politiche antici-cliche. E infine, per evitare fraintendimenti e polemiche stru-mentali, perché non sancire una volta per tutte l’irreversibili-tà della moneta unica?

Qualcuno potrebbe sostenere che l’attuazione di tuttequeste riforme nel breve periodo, per tutti e ventotto i Paesimembri, risulterebbe forse uno scatto in avanti troppo azzar-dato. Si tratta di una critica comprensibile e alla quale abbia-mo già in parte risposto col modello “a due velocità”, da ap-plicare ove possibile anche nella riforma delle istituzioni co-munitarie.

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Qualche mese fa, il governo italiano ha riassunto queste ealtre proposte di riforma in un documento trasmesso al pre-sidente della Commissione Jean-Claude Juncker e al presi-dente della BCE Mario Draghi. A quel documento, intitola-to “Completing and Strengthening the EMU” (Completare erafforzare l’Unione Economica e Monetaria), ha fatto seguitoil “Documento dei 5 presidenti”, con cui lo scorso giugnoJuncker «in stretta cooperazione» con lo stesso Draghi, JeroenDijsselbloem (presidente dell’Eurogruppo), Donald Tusk(presidente del Consiglio Europeo) e Martin Schulz (presi-dente del Parlamento Europeo) tracciava le linee guida per lariforma delle istituzioni comunitarie. Il documento presenta-to dal governo italiano era in verità più avanzato e più corag-gioso rispetto al “Documento dei 5 presidenti” (nonché ri-spetto ad analoghi papers provenienti da altre cancellerie eu-ropee). Tuttavia, qualcosa ha iniziato a muoversi.

Infine, si rende doveroso un pensiero su di un tema di tri-ste attualità: dopo gli attentati di Parigi abbiamo assistitoper l’ennesima volta a una reazione europea troppo pococoordinata e sostanzialmente lasciata all’iniziativa dei singo-li Stati membri. La prospettiva di un esercito comune, boc-ciata proprio dalla Francia sessantuno anni fa, sembra tutto-ra – purtroppo – lontana. Nell’attesa, possiamo almeno la-vorare per creare strumenti comuni d’intelligence europea,peraltro i più adeguati a rispondere alle minacce del terrori-smo internazionale. La sicurezza dei nostri concittadini do-vrebbe essere il primo ambito di applicazione del metodo co-munitario e del principio di solidarietà europea, col supera-mento delle logiche nazionali e la condivisione delle infor-mazioni riservate.

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Stati Uniti d’Europa

Capita spesso, a chi siede nel Parlamento Europeo, di sen-tirsi rivolgere dalle persone che incontra una domanda: «Maquando si fanno gli Stati Uniti d’Europa?».

Credo che molti non abbiano l’esatta percezione di quan-to le cose siano cambiate nel corso dei decenni e di quantol’Europa si sia integrata “nonostante tutto”, nonostante lepolemiche, le discussioni e i dibattiti (spesso sterili e inutili)che negli Stati membri riguardavano e riguardano la salva-guardia delle culture, delle identità e, soprattutto, delle so-vranità nazionali.

L’Europa non è più quella di cinquant’anni fa: ha rag-giunto un grado d’integrazione difficilmente riscontrabile inaltre esperienze passate e presenti nella storia. Un’integrazioneche ritroviamo nelle dimensioni complesse della politica edella struttura statuale, ma anche in aspetti più concreti equotidiani. Forse non tutti sanno che larga parte della legi-slazione nazionale degli Stati membri deriva, in via diretta oindiretta, da norme approvate a Bruxelles. E forse non tuttisanno – o forse dimenticano – quanto l’Europa sia ormaiparte della nostra vita quotidiana: ne fanno fede il supera-mento della guerra come dinamica pressoché consuetudinarianello spazio continentale, l’annullamento di tradizionali riva-lità, la creazione di una moneta unica e di un grande mercatoall’interno del quale lavorare, imprendere, commerciare, for-marsi e spostarsi, il sostegno strutturale a importanti settoridella società e dell’economia quali l’agricoltura e la pesca, il fi-nanziamento della maggior parte delle grandi opere nelle no-stre città e nei nostri paesi, la formazione di una nuova gene-

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razione “Erasmus” di ragazzi e ragazze che si sentono prima ditutto cittadini europei.

Quest’Europa esiste, spesso a nostra insaputa, anche seha reso la nostra vita quotidiana totalmente differente daquella delle generazioni passate.

Tuttavia, non possiamo ancora parlare degli Stati Unitid’Europa come di una prospettiva concreta. È una formulasuggestiva che deve guidare la nostra azione e deve restare la no-stra stella polare. Per raggiungere questo risultato, che oggi puòsembrare una chimera, servono una forte consapevolezza dei no-stri valori e una salda certezza della nostra identità, specie nelmomento in cui il nostro valore più importante – la libertà – èmesso sotto attacco da chi mediante il terrore vorrebbe vedercidivisi e impauriti. Dobbiamo ritrovare la nostra unità strin-gendoci attorno a una nuova visione d’Europa.

Nell’attesa di realizzare il sogno federalista, occorre com-pletare pragmaticamente il processo d’integrazione iniziandoladdove le fragilità europee sono più evidenti.

Quel percorso iniziato sessantacinque anni fa con la Di-chiarazione Schuman e culminato nella nascita dell’UnioneEuropea, negli accordi di Schengen e nell’adozione della mo-neta unica, ha subito una dura battuta d’arresto dieci anni fa,con la bocciatura del progetto di Costituzione europea daparte dei cittadini francesi e olandesi. Ma sbaglia chi banaliz-za dicendo che dobbiamo ripartire da lì per rilanciare il pro-cesso d’integrazione in Europa. Servono piuttosto rispostenuove, adeguate a tempi in cui le novità si susseguono incal-zanti e alla complessità di un mondo che corre veloce verso ilfuturo, e strumenti politici europei per poterle realizzare.

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I partiti dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici

I l risultato del Partito Democratico alle elezioni europee del2014, lo abbiamo visto, ha rappresentato un caso quasi iso-

lato nel panorama europeo. Insieme al PD, infatti, sono statipochissimi i partiti dell’Alleanza Progressista dei Socialisti eDemocratici che rispetto al 2009 hanno registrato un incre-mento significativo del consenso elettorale: i laburisti in In-ghilterra (più 9,7 per cento), la SPD in Germania (6,5 percento) e i socialdemocratici in Romania (6,5 per cento).

In pochi altri Paesi i partiti del gruppo S&D hanno tenu-to le posizioni, consolidando i precedenti risultati elettorali.Nel resto dell’Europa il trend è stato invece negativo: in di-ciotto degli Stati membri le formazioni di centrosinistra han-no perso consenso, con flessioni che sono state particolar-mente consistenti in Spagna, Grecia e Slovenia.

L’entità del gruppo dei Socialisti e Democratici al Parla-mento europeo – sette seggi in più rispetto al 2009, con ladistanza dal gruppo del Partito Popolare Europeo ridotta aventitré seggi – si spiega col risultato inferiore alle attese dimolti partiti aderenti al PPE e con le buone performancedelle forze di centrosinistra in alcuni paesi, più che con l’af-fermarsi di un progetto progressista convincente e condiviso

CAPITOLO 4

Il Partito Socialista Europeo:cambiare per crescere

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all’interno del continente. I risultati elettorali, se osservaticon più attenzione, confermano in effetti che la sinistra digoverno in Europa è in crisi. Alle elezioni del maggio 2014solo in sei dei ventotto Paesi dell’Unione un soggetto ade-rente al Partito Socialista Europeo è risultato il primo parti-to nazionale. E soltanto in Italia, in Romania e a Malta ilconsenso ottenuto ha superato il 35 per cento. Quasi ovun-que i partiti socialisti e socialdemocratici sono stati percepi-ti dagli elettori come parte integrante del cosiddetto esta-blishment dell’Unione e per questo sono stati fortementepenalizzati dall’ondata antieuropeista.

Ma le cattive notizie non finiscono qui. Se infatti analiz-ziamo ciò che è avvenuto nelle competizioni politiche na-zionali e in quelle amministrative susseguitesi dopo le euro-pee del maggio 2014, il quadro appare ancora più sconfor-tante. Dalla Gran Bretagna alla Danimarca, dalla Grecia al-l’Estonia, dalla Polonia al Portogallo, dalla Francia alla Fin-landia, con la sola eccezione della Svezia, dove il partitoaderente al PSE ha vinto ed è tornato al governo, i risultatielettorali segnano un arretramento ancor più netto dei par-titi progressisti rispetto alla consultazione europea, anche inquei Paesi dove una vittoria e un ritorno al potere sembra-vano davvero a portata di mano. In altri casi, come in Polo-nia, i progressisti sono restati addirittura fuori dal Parla-mento nazionale.

Il quadro che emerge, con la sola eccezione dell’Italia e diqualche altro Paese più piccolo, è dunque una crisi struttura-le dei partiti aderenti al Partito Socialista Europeo. “Non ètempo per noi”: questo pare essere il messaggio che arrivacon forza dall’opinione pubblica continentale.

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Ancor più preoccupante è la risposta elaborata dai partitidella sinistra europea all’indomani di queste sonore sconfitte.Nella maggioranza dei casi, l’analisi imputa la débâcle al “nonessere stati abbastanza di sinistra”: spesso la soluzione si con-figura in un comodo ma illusorio rifugio nella tradizione.

D’altro canto, invece, l’incapacità di vincere e convince-re costringe la sinistra ad accontentarsi del ruolo di partnerall’interno di grandi coalizioni di governo, non come solu-zione d’emergenza, ma sempre più come risposta struttura-le, in conseguenza dell’avanzamento dei partiti nazionalisti e

Tabella 5 – Elezioni successive alle Europee 2014 e risultato per i partitiaderenti al PSE.

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populisti. Oggi in otto Paesi dell’Unione un partito aderen-te al PSE è al governo come partner di una Grosse Koalition:i socialdemocratici in Austria, Lettonia e Lituania, la SPD inGermania, i laburisti in Irlanda, i socialisti in Lussemburgoe nella Repubblica Ceca, il Partito del Lavoro in Olanda.Ma soltanto in due degli otto Paesi il premier è espressionedi uno di tali partiti. Questo quadro d’insieme ha anche pe-santi ricadute sugli equilibri politici delle istituzioni europee.La compagine socialista all’interno della Commissione è in-fatti sottodimensionata rispetto al peso parlamentare effet-tivo: su otto casi di governo di coalizione, per ben sei di es-si il commissario scelto dal governo non appartiene al nostroschieramento.

Insomma, sembra proprio che non riusciamo ancora adessere quel partito in grado di rappresentare una politicariformista innovatrice, raccogliere le sfide e cogliere appienole opportunità del mondo contemporaneo. Le uniche al-ternative rimaste sembrano essere da una parte il radicalismodi una sinistra ormai fuori dal tempo e dall’altra un’alleanza,da comprimari, con i conservatori. Da una parte, l’ineffica-cia di una sinistra anacronistica e non più credibile, dal-l’altra, la cooperazione forzata e istituzionalizzata con unadestra eccessivamente rigorista, per provare a garantire unavariante ammorbidita e maggiormente “sociale” delle ricettedelle forze conservatrici.

All’impasse generata negli ultimi anni dalle conseguenzeinaspettate dei processi di globalizzazione economica e po-litica, i grandi partiti di centrosinistra hanno risposto quasiovunque spostandosi “un po’ più a sinistra”. Lo hanno fattoi laburisti inglesi nel 2010 e poi nel 2015; lo ha fatto la SPD

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tedesca nel 2009 e nel 2013. E ogni volta, puntualmente,questi tentativi sono stati bocciati dagli elettori, che hannoaffidato la propria fiducia a formazioni populiste di varia na-tura o ai partiti dello schieramento popolare, i cui pro-grammi sono stati ritenuti più credibili e affidabili nel ri-spondere alle grandi sfide del nostro tempo, dalla crisi eco-nomica alle ondate migratorie. In un simile panorama eu-ropeo, soltanto il Partito Democratico ha provato ad andareoltre la mera retorica anti-austerity, costruendo una piatta-forma di sinistra di governo. Solamente il Partito Democra-tico ha davvero compreso la necessità di coltivare una voca-zione maggioritaria, costruendo non un partito di sinistrache guarda al centro, ma un partito di sinistra capace dirappresentare autonomamente il centro, senza delegare adaltri questo compito.

Ai partiti europei di centrosinistra non manca soltantoun progetto politico innovativo, credibile e vincente: sono inprofonda crisi anche le leadership. Quanti sono oggi i leaderprogressisti che sono stati capaci d’introdurre nei rispettiviPaesi riforme e mutamenti significativi? Quanti di loro sonoriusciti a governare per almeno due mandati consecutivi? Equanti, a eccezione di Matteo Renzi e François Hollande,sono noti all’elettorato europeo? Il minore appeal dei parti-ti che aderiscono al gruppo Socialisti e Democratici, dun-que, va ricercato non solo nella mancanza di un progettopolitico convincente, ma anche nell’incapacità di assicurareuna successione adeguata a grandi leader del calibro di Fran-çois Mitterrand, Felipe González, Tony Blair e GerhardSchröder, solo per restare agli ultimi decenni di politica eu-ropea.

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Quale ruolo per il PSE?

Nella crisi diffusa e generalizzata della sinistra continenta-le, il Partito Socialista Europeo può e deve diventare lo stru-mento per un radicale cambio di passo dell’Europa.

Il Partito Democratico italiano è stato uno degli ultimisoggetti politici a confluire nel PSE, con un voto in Direzionea febbraio del 2014. Nella scorsa legislatura, i deputati del PDal Parlamento Europeo avevano già aderito al gruppo parla-mentare Socialisti e Democratici.

Entrando in una nuova casa, è più facile individuarne lepotenzialità, ma anche i limiti.

A distanza di neanche due anni da questo passaggio, oggiil Partito Democratico è numericamente il più consistente trai soggetti aderenti al PSE: di ciò occorre avere la piena consa-pevolezza, sia per esercitare una leadership politica, sia per de-terminare, pilotare e attuare quei cambiamenti che sono ne-cessari. Anche in Europa il Partito Democratico ha saputo in-

Tabella 6 – I leader socialisti in Consiglio europeo.

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carnare la modernità e misurarsi positivamente con le sfide delmondo contemporaneo, senza rimanere ostaggio di una tra-dizione che troppo spesso appare come un totem o poco più.In questa direzione, possiamo rappresentare un esempio da se-guire per il riscatto del progressismo continentale. Gli ingre-dienti del successo ottenuto dal PD sono da un lato la sceltaconvinta di un modello di partito a vocazione maggioritaria,capace di rappresentare un elettorato composito e socialmen-te frammentato, dall’altro l’avvio di un deciso processo dicambiamento, fatto di grandi e incisive riforme in ambitistrategici per il proprio paese, là dove tutti i predecessori ave-vano fallito.

Nel panorama europeo, tuttavia, il “caso PD” rischia di ri-manere un esempio di successo isolato se non si avvia unforte processo di rinnovamento all’interno dei grandi partitinazionali a vocazione progressista e non si creano maggiori si-nergie fra le formazioni aderenti al PSE. Le singole forze po-litiche di centrosinistra – al pari degli Stati nazionali cui ap-partengono – si trovano di fronte a sfide che non sono più ingrado di affrontare da sole e per le quali è imprescindibile unadimensione politica comunitaria. Occorrono un grande pro-getto politico, che oggi manca, e uno strumento adeguato ingrado di plasmarlo, diffonderlo, attuarlo. Le grandi idee nonsono in grado di stare in piedi e camminare da sole: eccoperché – questo è il nodo della questione – un grande partitodei progressisti europei è una necessità assoluta e non piùrinviabile.

Devo essere sincero: all’inizio della mia esperienza di eu-roparlamentare avevo qualche perplessità rispetto al PSE ealla sua funzione e credo che questo fosse un dubbio comune

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a molti. Eppure mi sono bastati pochi mesi trascorsi tra Bru-xelles, Strasburgo e l’Italia per maturare la consapevolezzache senza un efficace strumento politico a livello europeo èimpossibile incidere sulla realtà con un disegno autentica-mente riformista. Al cospetto d’istituzioni sovranazionali, èfondamentale che sia sovranazionale anche la politica. Altri-menti si è inefficaci.

Il Partito Socialista Europeo è dunque una necessità per ilpresente e il futuro. Ma che cos’è al momento?

«Voi lo sapete il nome del segretario del PSE?» ho chiestoun giorno parlando alla Direzione regionale del PD. Silenzioin sala, facce perplesse, sguardi interrogativi. E non li biasimoaffatto! Il segretario politico di un partito europeo dovrebbeessere persona nota e influente, quanto meno fra gli addetti ailavori. E invece così non è.

Esiste un problema di leadership, certo, ma la scarsa visi-bilità politica e mediatica del segretario non è tutto. Il PSE èinfatti un partito vecchio e stanco, macchinoso, travagliato dacontraddizioni fortissime: un partito che non ha ancora defi-nito la propria identità, mentre il mondo intorno corre allavelocità della luce. Un partito che non agisce mosso da un di-segno strategico condiviso, ma che sopravvive come “fusionefredda” tra partiti troppo diversi tra loro. Serve qualcosa dipiù, serve un partito in sintonia coi tempi e con le sfide delpresente.

Un collega, un giorno, esordì così in una riunione internasul mercato unico digitale: «Cari compagni, partiamo da unagrande domanda: il digitale può essere una minaccia o un’op-portunità?». Suo obiettivo era trovare in qualche modo una“via socialista al digitale”, come se fosse possibile determinare

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la sopravvivenza o meno del digitale, plasmare e condizionarelo sviluppo tecnologico. Ma – questo è il punto – l’innova-zione procede a prescindere dalle posizioni di qualsivogliapartito: a noi resta scegliere se condannarsi all’inefficacia so-stenendo posizioni anacronistiche oppure elaborare un pen-siero nuovo all’altezza dei cambiamenti sociali e tecnologici inatto. Mi torna alla mente la battaglia di una parte del PCI ne-gli anni Settanta contro la televisione a colori, un tentativo dicontrapporsi alla forza dell’innovazione, coronato da un ine-vitabile insuccesso.

Personalmente, immagino il PSE come un partito conuna visione strategica coraggiosa, con un’idea forte di futuroper l’Unione, che non rinunci a forgiare il processo d’inte-grazione europea con l’energia delle proprie idee. Il PartitoSocialista Europeo deve procedere sicuro sulla strada degliStati Uniti d’Europa, spingendo per un’Unione sempre piùfederale, recuperando all’Europa un ruolo da protagonistanello scenario mondiale. Come possiamo farlo?

Una visione strategica

Una sinistra radicale demagogica, incurante dei vincolidi spesa e interessata a politiche di semplice redistribuzionesenza un concomitante disegno di sviluppo; un campo libe-rale dominato dall’ultraliberismo dei Paesi nordici (ricordatel’intransigente ex commissario agli Affari economici OlliRehn? Era un liberale finlandese…); una destra rigorista, at-tenta solo ai parametri finanziari; un nazionalismo estremo edeuroscettico che vede la soluzione in un’Europa che arretra il

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proprio campo d’azione e riconsegna fette consistenti di so-vranità ai singoli stati.

È questo il campo di gioco, con relativi avversari, in cuiuna politica progressista autenticamente europeista si trova acompetere. È questo il campo di gioco per l’azione riformistadei socialisti e democratici europei.

Un rinnovato PSE dovrà essere in grado di dare risposteconcrete alle sfide lanciate dal crescente euroscetticismo, dai fe-nomeni migratori, dall’innovazione digitale e dalle dinamichedella globalizzazione. Solamente in virtù di un coraggioso di-segno strategico comune, che comprenda tutti questi elementi,potremo rendere questo grande contenitore uno strumento ef-ficace di cambiamento e di progresso. Il Partito Socialista Eu-ropeo deve darsi un’idea ben chiara di futuro, battendosi perun’Europa federale, solidale, produttiva, innovativa, sosteni-bile e globale, che parli al mondo con una voce sola.

Un genuino e leale europeismo deve essere il nostro trattodistintivo primario: dall’Europa non si torna indietro, il pro-cesso d’integrazione deve avanzare, la risposta alle sfide del no-stro tempo è più e non meno Europa. I tragici attentati di Pa-rigi hanno scosso le nostre coscienze, ma la risposta non puòessere la revisione degli accordi di Schengen: la risposta sonole piazze di Londra, Dublino, Roma e Berlino che all’unisonointonano la Marsigliese. E più Europa significa anche e so-prattutto una politica estera davvero comune e una riformaefficace degli strumenti di governance istituzionale, sulla stra-da che conduce verso gli Stati Uniti d’Europa.

Il secondo elemento chiave al centro di questa nuovaagenda strategica è la costruzione di un’Europa sempre piùcoesa e solidale.

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Le reazioni scomposte sul tema dell’immigrazione che re-centemente abbiamo registrato da parte dell’opinione pub-blica in numerosi Paesi europei sono la spia di un malesserereale sempre più difficile da nascondere sotto il tappeto. Suquesto tema le posizioni delle formazioni nazionali aderenti alPSE sono inaccettabilmente confuse e contraddittorie, rag-giungendo l’apice nella contrapposizione tra Paesi dell’Est edell’Ovest. Il dato che non si può ignorare e da cui si devepartire è che l’Europa, con i suoi cinquecento milioni di abi-tanti, ha evidenti limiti strutturali e non può accogliere tutti.Tocca dunque proprio ad una formazione progressista ela-borare una risposta condivisibile, strutturale ed efficace allaquestione migratoria, andando oltre gli egoismi nazionali dialcuni Paesi dell’Est e la retorica buonista di coloro che vor-rebbero accogliere tutti indiscriminatamente. L’accoglienzadei rifugiati è una priorità, così come l’integrazione di chi ar-riva in Europa attraverso canali d’ingresso regolari: chi fuggedal proprio Paese perché perseguitato deve poter trovare rifu-gio da noi, così come chi cerca una vita migliore dovrà potercontare su un sistema di migrazione legale e controllata, sen-za affidarsi ai mercanti della morte.

Tocca a noi battersi per un’Europa più solidale sotto tuttigli aspetti.

Per questo serve un grande partito rinnovato in grado digestire politiche di solidarietà non solo verso chi arriva, maanche verso chi già c’è e c’era, come ad esempio i nuovi esclu-si dal mondo del lavoro, puntando a costruire una società eu-ropea più coesa, inclusiva e partecipativa. A proposito di so-lidarietà, una grande formazione progressista e riformista direspiro europeo dovrebbe anche riflettere sul proprio livello di

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apertura culturale. Il partito che immagino, che immaginia-mo, dovrà essere in grado di distinguere in modo più netto tralaicità e laicismo, fugando ogni dubbio a proposito della li-bertà di ogni suo aderente di avere una coscienza religiosa euna fede. Come Jacques Delors, si può essere cattolici e so-cialisti, senza che ciò sia considerato una contraddizione. Inaltre parole, si possono avere posizioni diverse su temi che at-tengono alla dimensione etica personale, mentre talvolta si hainvece l’impressione che rispetto a tale ambito sussista ancoraun approccio eccessivamente ideologico.

Dovremo inoltre essere il partito dell’innovazione e del di-gitale, formidabile risorsa ricca di potenzialità in ogni ambitodella nostra esistenza, mettendo senza timori ed esitazioni alcentro della nostra agenda politica un’Europa che investa inquesti settori, da considerare come straordinari motori di cre-scita e sviluppo.

Di pari passo, dovremo essere il partito della “Manifattu-ra 4.0” e della green economy, dovremo sostenere un nuovo ri-nascimento industriale e produttivo europeo, coniugando in-novazione digitale e sostenibilità ambientale. L’Europa, l’ab-biamo detto e lo ripetiamo, dev’essere il luogo in cui si pro-ducono bellezza ed eccellenza: dovremo promuovere un rin-novato modello di produzione artigianale che sappia valoriz-zare l’arte del “saper fare”, patrimonio inestimabile di tantiPaesi europei come l’Italia. Saremo il partito del lavoro nonsolo perché tuteleremo i lavoratori, ma soprattutto perchésaremo il partito della produzione e dell’innovazione, il par-tito dei makers digitali e degli artigiani tradizionali, il partitoche sosterrà chi crea lavoro, sviluppo, crescita economica equindi progresso.

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Un partito europeo autenticamente progressista ha il do-vere di riscrivere le regole della globalizzazione su basi più giu-ste e rispettose delle persone e dell’ambiente, anche attraversouna politica estera, commerciale e di cooperazione interna-zionale ambiziosa e coraggiosa, che promuova il dialogo, ilmultilateralismo e la riforma della governance mondiale. Unpartito europeo autenticamente progressista non può non af-frontare seriamente la questione ambientale: come già accen-nato, in un mondo che sempre più deve fare i conti con lascarsità di risorse naturali, dovremo essere capaci di sosteneree favorire lo sviluppo di “ecosistemi” produttivi sostenibilisia in termini economici che ecologici.

Un partito europeo autenticamente progressista, infine,non può non immaginare e mettere al centro della propriaagenda politica un nuovo modello sociale comunitario, indi-spensabile per dare davvero un senso alla cittadinanza europeae una sostanza concreta ai diritti ad essa connessi.

Se questa dunque è la road map per rifondare su nuove basiun PSE che si muova da protagonista nello scenario futuro del-l’Unione Europea, il tempo per agire non è infinito. Abbiamogià sprecato una grande opportunità, in occasione dell’ultimocongresso di Budapest. Non possiamo e non dobbiamo perderealtro tempo: le sfide che l’Europa ha davanti a sé sono enormi ela realtà intorno a noi si muove veloce e caotica. Tocca a noi co-struire finalmente un partito nuovo, anche nel nome, più aper-to e coraggioso, che divenga motore del cambiamento versoun’Europa migliore e più integrata. Di fronte a questa sfidapossiamo scegliere se giocare da protagonisti o restare in pan-china, in attesa che altri decidano per noi. Tempus fugit: dob-biamo stare al passo della storia per non condannarci all’oblio.

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Martedì 17 novembre 2015. Wembley Stadium, Londra.S’incontrano in amichevole le nazionali di calcio d’Inghil-terra e Francia. Prima del fischio d’inizio novantamila perso-ne intonano la Marsigliese. È un miscuglio di lingue e accen-ti differenti, tra cui prevale quello dei tanti tifosi inglesi. Ep-pure quelle persone cantano insieme, tutte unite nelle loro di-versità. Sono cittadini di diverse nazionalità, parlano linguedifferenti, i loro Paesi hanno storie e tradizioni diverse: eppuresi tengono per mano dentro a uno stadio cantando insiemeper riaffermare un’appartenenza comune, l’appartenenza auna storia, a un progetto, a una visione. È un canto che riaf-ferma solennemente un’identità comune, quella di cittadinieuropei. Qualche giorno prima i kalashnikov a Parigi avevanovoluto umiliare il sentimento di quell’identità comune, ave-vano tentato di affossare i valori che stanno a fondamento del-la cittadinanza europea. A quegli spari hanno risposto le vocidi Wembley e di milioni di persone in tutte le piazze d’Euro-pa. Le voci e i volti dei cittadini europei.

Se di fronte ai fatti di quel maledetto venerdì pariginodonne e uomini del nostro continente hanno saputo reagireriaffermando i propri valori e un’identità comune, d’altraparte è vero che all’Europa oggi manca qualcosa. Sono tanti,in questo momento, coloro che stanno provando a porre la

Conclusioni

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parola fine alla storia d’Europa. E troppi sono coloro che siadeguano a questo panorama funesto, chi dando la colpa allaburocrazia di Bruxelles piuttosto che alle mire egemonichedella Germania, chi profetizzando l’ineluttabile declino dellanostra civiltà o la sottomissione all’Islam.

In tanti lo fanno proprio perché all’Europa oggi mancaqualcosa. Che lo si definisca sogno, visione o prospettiva…c’è effettivamente qualcosa che ci manca. L’Europa non èpiù la protagonista di quella storia avvincente che l’ha porta-ta a essere quello che oggi rappresenta nelle vite di tutti noi.

Ci manca una storia, o meglio una narrazione condivisadel nostro comune futuro, all’altezza del nostro passato. Trop-po spesso finiamo per perderci in disquisizioni cervellotiche escartoffie burocratiche, pur avendo alle spalle una vicendastraordinaria, meravigliosa. Mentre il resto del mondo andavadisgregandosi, separandosi, lacerandosi, mentre la Corea si di-videva irrimediabilmente, il Medio Oriente si balcanizzava e iBalcani, per parte loro, erano risucchiati in un tremendo vor-tice di guerre fratricide, mentre tutto questo accadeva, nelcuore dell’Europa prendeva vita e cresceva – un passo dopol’altro, un Paese dopo l’altro – una realtà chiamata ComunitàEuropea. In nessun altro luogo al mondo l’uomo è riuscito acostruire una comunità così grande, così composita e allostesso tempo così unita.

È questa l’eccezionalità dell’Europa, è questo che dovreb-be riempirci d’orgoglio e farci pensare al futuro con più fidu-cia, anche in tempi bui per la fratellanza e la solidarietà comequelli che stiamo vivendo. Ci sono frontiere sulle quali e perle quali hanno perso la vita milioni di europei e che oggi noiattraversiamo senza dover esibire un qualsivoglia documento.

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La storia dell’integrazione europea è una vicenda straordinariaanche sotto il profilo delle esperienze di ciascuno di noi. Miopadre era professore di filologia slava e appena nato mi sonotrasferito con lui e mia madre a Cracovia: un viaggio epico abordo di una Volkswagen rossa. Quella era l’Europa del mu-ro di Berlino, della cortina di ferro, con un pezzo di conti-nente che non viveva ancora quei valori di libertà, convivenzae democrazia che si andavano affermando dopo la secondaguerra mondiale. Eppure, dopo decenni di progressiva inte-grazione, siamo arrivati a un’Europa unita in cui quei valorisono patrimonio di tutti.

È il sogno immaginato da Altiero Spinelli ed Ernesto Ros-si a Ventotene nel loro Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa: èil progetto avviato dalla prima generazione di europeisti, Ro-bert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi.

Forse in questo momento siamo in un periodo di stallo, inuna fase di stanca del nostro stare insieme. Chi s’intende dinarrazione sostiene che quando una storia s’incaglia serveuna scossa, l’intervento di qualcuno che dall’interno o dal-l’esterno la ravvivi. Non sappiamo chi potrà essere l’attorein grado di scuotere le nostre coscienze, riavviare la nostra sto-ria e ridare slancio all’Unione. Potrebbe accadere per via en-dogena, grazie all’emergere di una nuova classe di leader ge-nuinamente europeisti, oppure in modo esogeno, sfruttandocome opportunità di crescita e d’integrazione quelle sfideepocali che l’Europa si trova davanti. Vista la nostra posizionegeografica, prima ancora che geopolitica, il pensiero va in-nanzitutto alla questione dei migranti. Il popolo dei rifugiatiin fuga dalla guerra e dalle persecuzioni sarà al tempo stessobanco di prova e fonte di opportunità per le istituzioni euro-

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pee. Se da una parte troviamo le risposte regressive e xenofo-be di chi, come Orban, costruisce muri lungo i confini, la sfi-da da vincere è definire una politica migratoria comune chesia all’altezza dell’eroismo quotidiano dei cittadini di Lampe-dusa, che da anni ormai accolgono con straordinaria umanitàchi fugge da un destino di guerra e di morte, o dei cittadinitedeschi che danno il benvenuto ai migranti alla stazione diMonaco. Allo stesso modo, dovremo riuscire a costruireun’autentica identità comunitaria, dando linfa a quella “ge-nerazione Erasmus” che sempre più incarna l’idea e il signifi-cato di cittadinanza europea, contro l’esclusione e la ghettiz-zazione delle banlieue e delle periferie delle nostre metropoli.Dovremo proseguire sulla rotta tracciata dai primi grandi eu-ropeisti, una rotta che nei decenni ha garantito livelli di be-nessere crescenti a fronte dell’incertezza in cui sono avvolti imodelli della globalizzazione extraeuropei.

Abbiamo davanti sfide epocali. Di fronte a esse l’Europa de-ve tornare a incarnare il sogno e la visione racchiusi nel mani-festo di Ventotene. Deve saper tornare a raccontare quella sto-ria meravigliosa che ha trasformato un insieme di nazioni inguerra in un luogo di convivenza, libertà e democrazia. E perfarlo deve riuscire ad agire come un soggetto concreto, unitanelle sue diversità, capace di superare contrasti ed egoismi na-zionali che ancora oggi frenano un agire comune. Per farloserve un’Europa più integrata, un’Europa più coraggiosa.

Un’Europa all’altezza della propria storia.

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RINGRAZIAMENTI

Un grazie speciale ad Alberto, Bianca, Carlo, Francesco, Giulio e Valentina(rigorosamente in ordine alfabetico), che sono o sono stati eccellenti colla-boratori nel lavoro quotidiano ma anche compagni di molte chiacchierate. Leriflessioni che il lettore trova in questo libro sono frutto anche dei nostri ra-gionamenti nelle fredde sere dell’inverno belga dopo interminabili giornate dilavoro, delle cene “dal sardo”, dei pranzi in via Forlanini o delle lunghe tra-sferte in giro per il collegio elettorale sotto l’impeccabile guida dello Stefa.Assieme a loro, un grazie particolare a Francesca, Giovanni e Fabio che han-no contribuito in varie forme a queste pagine.

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Introduzione 5

Capitolo 1L’Italia protagonista 9

Capitolo 2I limiti dell’Europa 29

Capitolo 3Le sfide che ci attendono 41

Capitolo 4Il Partito Socialista Europeo: cambiare per crescere 67

Conclusioni 81

Indice

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Finito di stampare in Firenzepresso la tipografia editrice Polistampa

dicembre 2015

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Nicola Danti (Firenze, 1966), eletto de-putato europeo per la circoscrizione Ita-lia centrale il 25 maggio 2014. È mem-bro del Gruppo dell’Alleanza Progressistadei Socialisti & Democratici al Parla-mento europeo. È Vice Presidente dellaCommissione Mercato interno e prote-

zione dei consumatori, e membro sostituto della Commis-sione Commercio internazionale. È stato Consigliere regio-nale della Toscana e amministratore locale, attualmentemembro della Direzione nazionale e della Segreteria regio-nale toscana del Partito Democratico. Come deputato euro-peo si è impegnato in particolare a favore della tutela delMade in Italy; per l’estensione delle indicazioni geograficheai prodotti non agricoli; a sostegno della risoluzione sui ne-goziati per il TTIP (Trattato transatlantico sul commercio e gliinvestimenti tra Ue e Usa); a favore dell’approvazione delPiano di investimenti Juncker; per l’approvazione della di-rettiva europea sulla sicurezza delle reti informatiche e perlo sviluppo di un mercato unico digitale.