[NAZIONALE - 19] GIORN/INTERNI/PAG25 23/08/09 · DOTE DI FAMIGLIA Gianni Cantù con una copia di...

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19 CRONACHE il Giornale Domenica 23 agosto 2009 C on questo «tipoitalia- no» ho avuto la fortuna di lavorareperundecen- nio. Lo conobbi nella redazione dell’Arena. Era l’estate del 1975. Lui aveva già 52 anni e veniva dall’agenzia Ansa di Milano, io solo 19 e spuntavo dal nulla di Verona. Il quotidiano locale mi aveva assun- to per una sostituzione in cronaca. La prima se- ra stappò una bottiglia di champagne. Mica in mio onore, ovvio. Festeggiava con i colleghi i 10annidall’esamediStatocheloavevaammes- so nell’Ordine dei giornalisti. In realtà esercita- va la professione già da 30, dal 1945 o giù di lì. HoincontratoGianniCantùlascorsasettima- na.Avevadapocofesteggiatoilsuo86˚ comple- anno. Stessa lucidità mentale, stessa passione per i fatti della vita. Anche la sordità, sempre la stessa, perlomeno non peggiorata rispetto alla finedegliAnni80,quandodovemmominaccia- re uno sciopero perché la società editrice del- l’Arena sirifiutava di acquistareun amplificato- re telefonico da poche migliaia di lire che gli avrebbe reso più agevole il lavoro. A un croni- sta di nera così, qualsiasi giornale avrebbe fatto ponti, e cimici, d’oro: il primo a riconoscere Giangiacomo Feltrinelli sventrato dalla bomba sotto il traliccio di Segrate; il primo a giungere davanti alla questura di Milano dove Gianfran- co Bertoli aveva fatto esplodere un ordigno; il primo ad avvicinare il generale James Lee Do- zier appena strappato alle grinfie dei brigatisti rossi. E l’unico a uscire in edizione straordina- ria quando fu rilasciato dai rapitori il presiden- te del Verona Hellas, Saverio Garonzi, e quan- do fu liberata dai carabinieri la piccola Patrizia Tacchella, figlia del re dei jeans Carrera; l’unico a polemizzare a mezzo stampa con Ludwig, fi- no a tendere un trabocchetto mediatico che ri- sultò decisivo per la cattura degli irreprensibili studenti Wolfgang Abel e Marco Furlan, poi condannatiper15omicidi;l’unicoadavercapi- to che il duo era in realtà un trio; l’unico a cono- scere una verità dirompente e mai scritta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bolo- gna. Di Cantù dicevano che rivoltasse le tasche dei cadaveri per cercarvi documenti e reperti che nemmenoicarabinieri avevano lo stomaco di recuperare. Dicevano anche che una volta avesse torto il braccio a un malavitoso in rigor mortis, fino a spezzarglielo, al solo scopo di consentire al fotoreporter Costantino Fadda di fotogra- fare un tatuaggio sul polso che ne rese certa l’identifica- zione. Aveva sempre l’orec- chio teso, Cantù. Quello che gliinteressavasentire,loudi- va benissimo. Per esempio, quandocaptavacheuncroni- sta stava raccogliendo per te- lefono la notizia dell’ennesi- mo incidente mortale al pas- saggio a livello del quartiere di periferia dove abita tutto- ra, si precipitava alla scriva- nia del collega: «Chi è? Chi è?». Viveva nell’ossessione che si trattasse dell’unico fi- glio,Guido.Menesonoricor- dato nei giorni scorsi, quan- do ho letto che a Marco Dal Fior, caporedattore del Corriere della Seratoccata la sorte crudele di apprendere in reda- zione che una delle tre giovani vittime stritolate da un Suv sul raccordo autostradale di Varese era il suo Paolo, 23 anni appena. Dopo essersi occupato per mezzo secolo dei morticontemporanei,Cantùètornatoacoltiva- re con rinnovato vigore la mai abbandonata passioneperimortidell’antichità.Làeracrona- ca, qui è letteratura. Una dote di famiglia: lo storico Cesare Cantù (1804-1895), erudito poli- tico lombardo, era prozio di suo nonno pater- no e quando nel 1833 fu rinchiuso in carcere dagli Austriaci, col divieto di detenere carta da lettere e matita, riuscì a scrivere i primi capitoli delromanzo Margherita Pusterla sullacartada bugliolo, col nerofumo ottenuto dai fiammife- ri. Finora il pronipote ha pubblicato una venti- nadilibri,tradottiinvarielingue.L’ultimos’inti- tola Vestigia romane (Cierre Grafica), un «viag- gio attraverso le province dell’Impero». Quello dei Cesari, si capisce. Sono 286 pagine correda- te da un Cd interattivo con le immagini scattate dallo stesso Cantù. Eh sì, perché un tempo i bravi giornalisti portavano a casa anche le foto, come accadde quando intervistò in esclusiva a Parigi l’astronauta russo Jurij Gagarin, il primo uomoa volare nello spazio. Egittologo di fama, in precedenza aveva passato, sia pure a rate, due anni della sua vita a scavare nelle tombe dei faraoni. Perché hai tradito gli Egizi per i Romani? «Se la metti così, ben prima di me aveva tradito Augusto, che si fece effigiare come fa- raone sui templi tolemaici. Dopodilui,tuttigliimperato- ri romani vollero essere fara- oni: da Tiberio, che imper- versa sulle colonne di Kom Ombo ed Esna, a Decio. Su unarchitravedell’isoladiEle- fantina ho scoperto due ri- tratti speculari di Augusto mentrecompielacorsaritua- le del giubileo. Come farao- ne volle dimostrare al dio Amon e al popolo egizio di possedere le qualità psicofi- siche idonee ad assicurare la stabilità del cosmo». Nelle identificazioni sei sempre stato imbatti- bile, a cominciare da Feltrinelli. «Davanti al cadavere straziato di quell’uo- mo barbuto, con addosso l’eskimo d’ordinan- za dell’ultrasinistra, la polizia brancolava nel buio. Ma io sapevo che Giangi era tornato dal- la Carinzia e aveva partecipato a una riunione preparatoria a Milano per qualcosa di grosso. Sotto il traliccio di Segrate tutto mi fu chiaro: i rossi volevano provocare la paralisi di uffici, industrie, ospedali, tram, ascensori facendo saltare i due tralicci che da Est e da Ovest por- tavano l’energia elettrica in città. Ma l’ordi- gno difettoso aveva dilaniato l’editore». E come facevi a sapere della riunione? «Mi ero infiltrato nell’ultrasinistra». Tu? Un ex ragazzo della Repubblica di Salò? «I compagni erano molto cólti, bisogna rico- noscerlo, ma anche un po’ coglionazzi. Non fu difficile farmi passare per simpatizzante. All’Ansa sceglievo sempre il turno di notte, in modo da poter scrivere i miei libri di giorno. La sera mi telefonava Capanna: “Sono Mario, abbiamo fregato i fasci”. Intendeva dire che a qualche avversario avevano aperto la testa con la chiave inglese. Era quella l’arma del movimento». Ma poi finisti sulla lista delle Brigate rosse. «A dirmelo fu Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo, che a differenza del suo allievo Cesare Battisti ha pagato fino in fondo il conto con la giustizia e ha cambiato vita. La conferma arrivò dall’uffi- cio centrale dell’Ucigos di Roma. Mi fu impo- sta la scorta». Tu già giravi armato. Ricordo che tenevi una pistola in una cartelletta di pelle. «Una Colt Cobra 38 special, sei colpi, un gio- iellino. Per fortuna è ancora vergine. Ero stato minacciato per lettera da Vincenzo Andra- ous». Il pluriomicida della banda Vallanzasca che in galera partecipò all’uccisione di Francis Tu- ratello? «Esatto. Squarciarono il petto al boss della mala milanese, gli addentarono il cuore e gli strapparono l’intestino. Andraous non vole- va che scrivessi che gli erano stati irrogati cin- que ergastoli. Secondo lui bastava “condanna- to all’ergastolo”. Oggi è un buon cristiano, l’ho pure aiutato ad affermarsi come poeta. Ma allora era un pericoloso latitante appena evaso dal carcere di Treviso insieme col briga- tista rosso Prospero Gallinari, che l’anno se- guente avrebbe rapito e ucciso Aldo Moro». Che cosa pensi della cosiddetta «strategia della tensione»? «Da entrambe le parti, estrema sinistra ed estrema destra, c’era interesse a creare una situazione d’emergenza. Non credo affatto che fosse la strategia della Dc per rafforzare il governo». Chi mise la bomba alla stazione di Bologna? «Io posso riferirti quali furono le risultanze delle mie ricerche. In seguito all’attentato ri- mase per 9 ore sotto le macerie un tossicodi- pendente di 25 anni, B.S., nativo di Terni ma residente a Verona. Ebbe la gamba destra spappolata e riportò gravi ustioni al volto. Agli inquirenti raccontò che tornava da Roma e che doveva raggiungere Parma. A me inve- ce disse: “Volevo proseguire per Rimini”. In realtà era sceso alla stazione di Bologna per lasciarvi una valigia che gli era stata consegna- ta nella capitale». Da chi? «Da chi, non lo so. Ma dove, sì: all’Eur. Fu lui a confessarmelo. Sul fatto che fosse l’inconsa- pevole corriere della valigia contenente pro- babilmente l’esplosivo si sarebbe dovuto in- dagare a fondo. Per prudenza non scrissi nul- la e avvisai il capitano Gennaro Scala, del nu- cleo investigativo dei carabinieri, il quale a sua volta informò la magi- stratura. E sai quale fu il ri- sultato? L’ufficiale venne ac- cusato di depistaggio. Da Roma, dal ministero degli Interni, era arrivato infatti l’ordine d’indagare soltanto fra gli extraparlamentari di destra, non fra i tossicoma- ni. Il presunto fattorino del- la bomba ebbe dallo Stato 100 milioni di lire d’inden- nizzo, rivalutati oggi sareb- bero 215.000 euro, che dissi- pò in droga nel giro di un mese. Venne ospitato per ol- tre un anno da un parroco veronese. Il prete fu rapina- to in canonica da due com- plici di B.S., un balordo tori- nese e un minorenne pado- vano. Poi il terzetto cominciò a inviare lettere minatorie al sacerdote, con richieste di dena- ro. Smascherato e processato, B.S. fu condan- nato a 4 anni e mezzo di reclusione». Anche al duo Ludwig arrivasti per conto tuo anticipando gli inquirenti. «La prima vittima fu un nomade abruzzese, Guerrino Spinelli, arso vivo nell’auto dentro cui dormiva. All’ospedale, in punto di morte, raccomandò alla figlia di stare attenta, perché c’erano in giro tre uomini pericolosi: quelli che l’avevano aggredito. In quell’occasione furono lanciate tre molotov, di cui una non scoppiò. Tutti pensarono a bottiglie molotov. In realtà erano fiaschi riempiti di benzina. E nella rivendicazione del delitto si parlava di fiaschi. Ero sulla pista giusta. Quando venne bruciato uno studente torinese in gita, Luca Martinotti, che s’era fermato a dormire col sac- co a pelo in una casamatta asburgica lungo l’Adige, ebbi la prova che i folli di Ludwig era- no veronesi». In che modo la avesti? «Il fortino austriaco era il rifugio abituale di un minorato psichico, che, avendolo trovato occupato dal saccopelista, vi appiccò il fuoco. Insomma, Ludwig non c’entrava. Nel mio pez- zo scrissi che l’incendio era partito da alcune torce, un’espressione di fantasia. Prontamen- te arrivò una rivendicazione che parlava di torce. Mi persuasi che gli assassini erano del posto, leggevano L’Arena. Cominciai a pole- mizzare con loro. Dissi che si attribuivano an- che delitti non commessi, e questo li fece infu- riare. Erano in preda a un delirio di onnipoten- za. Non a caso nei loro comunicati proclama- vano: “Il potere di Ludwig non ha limiti”. Para- noici totali. Mi rispondevano inviando comu- nicati all’Ansa di Milano, che facevo analizza- re dal grafologo Salvatore De Marco. Da lì s’ar- rivò ai famosi “solchi ciechi” trovati su alcuni fogli bianchi sequestrati in casa di Furlan: a produrli era stata la scrittura con righello e normografo dei loro testi farneticanti». E il terzo uomo chi era? «Colui che con la sua Mercedes accompagnò Abel e Furlan alla discoteca Melamara di Casti- glione delle Stiviere, dove furono bloccati pri- machelaincendiassero.Loriconobbisenz’om- bra di dubbio nell’identikit elaborato dagli in- vestigatori a Trento, dove padre Armando Bi- son era stato ucciso con un punteruolo a forma di crocifisso conficcato nel cranio. Ma la pre- senza del terzo uomo sulla scena del delitto cozzava contro l’idea che il giudice istruttore s’era fatto di Ludwig, a suo giudizio una coppia impermeabile. Io invece sapevo che era il ram- pollo di un imprenditore ricchissimo. Oggi è un personaggio molto in vista, ha persino rico- perto alcuni incarichi pubblici». Il terzo uomo sa che tu sai? «Credo proprio di sì, ma gira al largo». T’è dispiaciuto non seguire da cronista il caso del serial killer Gianfranco Stevanin? «Più che altro m’è dispiaciuto non essere riu- scito a far arrestare nel 1976 il suo precursore, un geometra impotente d’origini bellunesi, abitante in un quartiere-bene di Verona, che stordiva le prostitute fratturandogli il setto na- sale con un pugno devastante, le seviziava re- gistrando i loro lamenti e poi gli piantava un coltello nel cuore. È morto per cause naturali. Il fidanzato di Fernanda Pellegrini, una delle vittime, era un ladro. S’introdusse nell’appar- tamento del maniaco e mi portò il nastro con le urla. Di un’altra assassinata, Regina Dalla Croce, ormai decomposta, toccò a me recupe- rare scalpo, gonna e camicetta: gli inquirenti avevano portato via il teschio, dimenticando- si tutto il resto». Qual è il delitto peggiore di cui ti sei occupa- to? «Quello di Renzo Pavini, un sordomuto strangolato con una calza di nylon e gettato in Adige da tre diciannovenni per rapinarlo di 44.000 lire. Lo avevano atteso nel giorno in cui ritirava la pensione d’invalidità, con la pro- messa di portarlo a donne. Invece volevano i suoi soldi per comprarsi la droga». Come ti sembrano i cronisti di oggi? «Leggi qua». (Mi porge un titolo di giornale: «Per l’os- sessione dei ladri uccide un carabiniere»). «Nell’articolo c’è tutto, tranne l’identità del carabiniere. Tanto, che importa? I carabinieri devo- no crepare e basta. Ma se vuoi ti mostro il ritaglio del- l’ottantenne che, armato di fucile, ha litigato “in modo molto cruento” con i vicini». Non t’impressiona il molti- plicarsi delle crisi coniugali che sfociano in delitti-suici- di e nello sterminio d’intere famiglie? «Nulla d’inedito. L’unica differenza è che una volta la notizia di paese stentava ad arrivare nel Comune capo- luogo mentre oggi ti viene messa nel piatto all’ora di pranzo dai telegiornali nazionali. Sbagliatissimo, perché la banalizzazione del male induce un effetto imitativo». A che serve la cronaca nera? «È necessaria al pari della bianca. Non l’ho inventata io la completezza dell’informazio- ne. Dal mio maestro, Guido Zangrando, che mi assunse all’Ansa, ho imparato due cose: primo, la notizia non ha prezzo; secondo, mai innamorarsi della notizia. La cronaca nera, se sei uomo, serve a farti star male». (464. Continua) [email protected] tipi italiani Li aiutava un terzo uomo. Lo riconobbi dall’identikit dopo che uccisero un frate. In seguito ricoprì cariche pubbliche a Verona Mi telefonava all’Ansa, dov’ero di turno la notte: «Abbiamo fregato i fasci». Voleva dire che era stata usata la chiave inglese... Infiltrato nell’ultrasinistra, fu il primo a riconoscere Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate. Smascherò anche un serial killer peggiore di Stevanin. Ora, a 86 anni, scrive libri su Egizi e Romani GIANNI CANTÙ ABEL E FURLAN MARIO CAPANNA Il cronista che scoprì Ludwig «So chi portò la bomba fino alla stazione di Bologna» «Era un drogato: ritirò la valigia all’Eur e rimase ferito nell’attentato Ma al capitano dei carabinieri che allertai venne impedito d’indagare» DOTE DI FAMIGLIA Gianni Cantù con una copia di «Margherita Pusterla», che il suo avo Cesare scrisse in carcere sulla carta da bugliolo [Maurizio Don] di Stefano Lorenzetto

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19 CRONACHEil GiornaleDomenica 23 agosto 2009

C on questo«tipoitalia-no» hoavuto lafortuna di

lavorareperundecen-nio. Lo conobbi nellaredazione dell’Arena.Era l’estate del 1975.Luiavevagià52annieveniva dall’agenzia

Ansa di Milano, io solo 19 e spuntavo dal nulladiVerona. Ilquotidiano localemiavevaassun-toperunasostituzione incronaca. Laprimase-ra stappò una bottiglia di champagne. Mica inmio onore, ovvio. Festeggiava con i colleghi i10annidall’esamediStatocheloavevaammes-sonell’Ordinedeigiornalisti. In realtàesercita-va la professione già da 30, dal 1945 o giù di lì.

HoincontratoGianniCantùlascorsasettima-na.Avevadapocofesteggiatoilsuo86˚ comple-anno. Stessa lucidità mentale, stessa passioneper i fatti della vita. Anche la sordità, sempre lastessa, perlomeno nonpeggiorata rispetto allafinedegliAnni80,quandodovemmominaccia-re uno sciopero perché la società editrice del-l’Arenasirifiutavadiacquistareunamplificato-re telefonico da poche migliaia di lire che gliavrebbe reso più agevole il lavoro. A un croni-stadineracosì,qualsiasigiornaleavrebbefattoponti, e cimici, d’oro: il primo a riconoscereGiangiacomoFeltrinelli sventratodallabombasotto il traliccio di Segrate; il primo a giungeredavanti alla questuradiMilano doveGianfran-co Bertoli aveva fatto esplodere un ordigno; ilprimo ad avvicinare il generale James Lee Do-zier appena strappato alle grinfie dei brigatistirossi. E l’unico a uscire in edizione straordina-ria quando fu rilasciatodai rapitori il presiden-te del Verona Hellas, Saverio Garonzi, e quan-do fu liberata dai carabinieri la piccola PatriziaTacchella, figliadel redei jeansCarrera; l’unicoa polemizzare a mezzo stampa con Ludwig, fi-no a tendere un trabocchetto mediatico che ri-sultòdecisivoper la cattura degli irreprensibilistudenti Wolfgang Abel e Marco Furlan, poicondannatiper15omicidi; l’unicoadavercapi-toche ilduoera inrealtàuntrio; l’unicoacono-scere una verità dirompente e mai scritta sullastrage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bolo-gna.

Di Cantù dicevano che rivoltasse le taschedei cadaveri per cercarvi documenti e repertichenemmenoicarabinieriavevanolostomacodi recuperare. Dicevano anche che una voltaavesse torto il braccio a un malavitoso in rigormortis, fino a spezzarglielo, al solo scopo diconsentire al fotoreporterCostantinoFaddadi fotogra-fare un tatuaggio sul polsoche ne rese certa l’identifica-zione. Aveva sempre l’orec-chio teso, Cantù. Quello chegliinteressavasentire, loudi-va benissimo. Per esempio,quandocaptavacheuncroni-stastavaraccogliendoperte-lefono la notizia dell’ennesi-mo incidente mortale al pas-saggio a livello del quartieredi periferia dove abita tutto-ra, si precipitava alla scriva-nia del collega: «Chi è? Chiè?». Viveva nell’ossessioneche si trattasse dell’unico fi-glio,Guido.Menesonoricor-dato nei giorni scorsi, quan-do ho letto che a Marco DalFior, caporedattore del Corriere della Sera, ètoccata la sorte crudele di apprendere in reda-zionecheunadelletregiovanivittimestritolateda un Suv sul raccordo autostradale di Vareseera il suo Paolo, 23 anni appena.

Dopoessersi occupatopermezzo secolodeimorticontemporanei,Cantùètornatoacoltiva-re con rinnovato vigore la mai abbandonatapassioneperimortidell’antichità.Làeracrona-ca, qui è letteratura. Una dote di famiglia: lostoricoCesareCantù(1804-1895),eruditopoli-tico lombardo, era prozio di suo nonno pater-no e quando nel 1833 fu rinchiuso in carceredagli Austriaci, col divieto di detenere carta dalettere ematita, riuscì a scrivere i primi capitoli

delromanzoMargheritaPusterlasullacartadabugliolo, col nerofumo ottenuto dai fiammife-ri. Finora il pronipote ha pubblicato una venti-nadilibri,tradotti invarielingue.L’ultimos’inti-tolaVestigiaromane (CierreGrafica),un«viag-gioattraverso leprovincedell’Impero».QuellodeiCesari,sicapisce.Sono286paginecorreda-tedaunCd interattivocon le immagini scattatedallo stesso Cantù. Eh sì, perché un tempo ibravigiornalistiportavanoacasaanchele foto,comeaccaddequando intervistò in esclusiva aParigi l’astronauta russo JurijGagarin, il primouomoavolarenellospazio.Egittologodi fama,in precedenza aveva passato, sia pure a rate,due anni della sua vita a scavare nelle tombedei faraoni.

Perché hai tradito gli Egiziper i Romani?«Se lametti così,benprima

dimeaveva traditoAugusto,che si fece effigiare come fa-raone sui templi tolemaici.Dopodilui,tuttigliimperato-ri romanivolleroessere fara-oni: da Tiberio, che imper-versa sulle colonne di KomOmbo ed Esna, a Decio. Suunarchitravedell’isoladiEle-fantina ho scoperto due ri-tratti speculari di Augustomentrecompielacorsaritua-le del giubileo. Come farao-ne volle dimostrare al dioAmon e al popolo egizio dipossedere le qualità psicofi-siche idoneeadassicurare lastabilità del cosmo».

Nelle identificazioni sei sempre stato imbatti-bile, a cominciare da Feltrinelli.«Davanti al cadavere straziato di quell’uo-

mobarbuto,conaddossol’eskimod’ordinan-za dell’ultrasinistra, la polizia brancolava nelbuio.MaiosapevocheGiangiera tornatodal-laCarinzia e avevapartecipato auna riunionepreparatoria aMilanoper qualcosadi grosso.Sotto il traliccio di Segrate tuttomi fu chiaro: irossi volevano provocare la paralisi di uffici,industrie, ospedali, tram, ascensori facendosaltare i due tralicci cheda Est e daOvest por-tavano l’energia elettrica in città. Ma l’ordi-gno difettoso aveva dilaniato l’editore».

E come facevi a sapere della riunione?

«Mi ero infiltrato nell’ultrasinistra».Tu? Un ex ragazzo della Repubblica di Salò?«Icompagnieranomoltocólti,bisognarico-

noscerlo, ma anche un po’ coglionazzi. Nonfu difficile farmi passare per simpatizzante.All’Ansa sceglievo sempre il turnodi notte, inmodo da poter scrivere i miei libri di giorno.La sera mi telefonava Capanna: “Sono Mario,abbiamo fregato i fasci”. Intendeva dire che aqualche avversario avevano aperto la testacon la chiave inglese. Era quella l’arma delmovimento».

Ma poi finisti sulla lista delle Brigate rosse.«A dirmelo fu Arrigo Cavallina, il fondatore

dei Proletari armati per il comunismo, che adifferenza del suo allievo Cesare Battisti hapagato fino in fondo il conto con la giustizia ehacambiato vita. La confermaarrivòdall’uffi-cio centrale dell’Ucigos di Roma. Mi fu impo-sta la scorta».

Tu già giravi armato. Ricordo che tenevi unapistola in una cartelletta di pelle.«UnaColtCobra38special, sei colpi,ungio-

iellino.Per fortunaèancoravergine.Erostatominacciato per lettera da Vincenzo Andra-ous».

Il pluriomicida della banda Vallanzasca chein galera partecipò all’uccisione di Francis Tu-ratello?«Esatto. Squarciarono il petto al boss della

mala milanese, gli addentarono il cuore e glistrapparono l’intestino. Andraous non vole-va che scrivessi chegli erano stati irrogati cin-queergastoli.Secondoluibastava“condanna-to all’ergastolo”. Oggi è un buon cristiano,l’ho pure aiutato ad affermarsi come poeta.Ma allora era un pericoloso latitante appenaevasodalcarcerediTreviso insiemecolbriga-tista rosso Prospero Gallinari, che l’anno se-guente avrebbe rapito e ucciso Aldo Moro».

Che cosa pensi della cosiddetta «strategiadella tensione»?«Da entrambe le parti, estrema sinistra ed

estrema destra, c’era interesse a creare unasituazione d’emergenza. Non credo affattoche fosse la strategia dellaDc per rafforzare ilgoverno».

Chi mise la bomba alla stazione di Bologna?«Io posso riferirti quali furono le risultanze

delle mie ricerche. In seguito all’attentato ri-mase per 9 ore sotto le macerie un tossicodi-pendente di 25 anni, B.S., nativo di Terni ma

residente a Verona. Ebbe la gamba destraspappolata e riportò gravi ustioni al volto.Agli inquirenti raccontòche tornavadaRomae che doveva raggiungere Parma. A me inve-ce disse: “Volevo proseguire per Rimini”. Inrealtà era sceso alla stazione di Bologna perlasciarviunavaligiacheglierastataconsegna-ta nella capitale».

Da chi?«Dachi,non lo so.Madove, sì: all’Eur.Fu lui

aconfessarmelo.Sul fattoche fosse l’inconsa-pevole corriere della valigia contenente pro-babilmente l’esplosivo si sarebbe dovuto in-dagare a fondo. Per prudenza non scrissi nul-la e avvisai il capitano Gennaro Scala, del nu-cleo investigativo dei carabinieri, il quale asua volta informò la magi-stratura. E sai quale fu il ri-sultato?L’ufficialevenneac-cusato di depistaggio. DaRoma, dal ministero degliInterni, era arrivato infattil’ordined’indagaresoltantofra gli extraparlamentari didestra, non fra i tossicoma-ni. Il presunto fattorino del-la bomba ebbe dallo Stato100 milioni di lire d’inden-nizzo, rivalutati oggi sareb-bero215.000euro,chedissi-pò in droga nel giro di unmese.Venneospitatoperol-tre un anno da un parrocoveronese. Il prete fu rapina-to in canonica da due com-plicidiB.S.,unbalordo tori-nese e un minorenne pado-vano. Poi il terzetto cominciò a inviare lettereminatorie al sacerdote, con richieste di dena-ro.Smascheratoeprocessato,B.S. fucondan-nato a 4 anni e mezzo di reclusione».

Anche al duo Ludwig arrivasti per conto tuoanticipando gli inquirenti.«La prima vittima fu un nomade abruzzese,

Guerrino Spinelli, arso vivo nell’auto dentrocui dormiva. All’ospedale, in punto di morte,raccomandòalla figliadi stareattenta,perchéc’erano in giro tre uomini pericolosi: quelliche l’avevano aggredito. In quell’occasionefurono lanciate tre molotov, di cui una nonscoppiò.Tutti pensaronoabottigliemolotov.In realtà erano fiaschi riempiti di benzina. E

nella rivendicazione del delitto si parlava difiaschi. Ero sulla pista giusta. Quando vennebruciato uno studente torinese in gita, LucaMartinotti,ches’erafermatoadormirecolsac-co a pelo in una casamatta asburgica lungol’Adige, ebbi laprova che i folli di Ludwigera-no veronesi».

In che modo la avesti?«Il fortino austriaco era il rifugio abituale di

un minorato psichico, che, avendolo trovatooccupatodalsaccopelista,viappiccò il fuoco.Insomma,Ludwignonc’entrava.Nelmiopez-zo scrissi che l’incendio era partito da alcunetorce,un’espressionedi fantasia.Prontamen-te arrivò una rivendicazione che parlava ditorce. Mi persuasi che gli assassini erano delposto, leggevano L’Arena. Cominciai a pole-mizzarecon loro.Dissi che si attribuivanoan-chedelittinoncommessi, equestoli fece infu-riare.Eranoinpredaaundeliriodionnipoten-za. Non a caso nei loro comunicati proclama-vano:“IlpoterediLudwignonhalimiti”.Para-noici totali. Mi rispondevano inviando comu-nicati all’Ansa diMilano, che facevo analizza-redalgrafologoSalvatoreDeMarco.Da lì s’ar-rivò ai famosi “solchi ciechi” trovati su alcunifogli bianchi sequestrati in casa di Furlan: aprodurli era stata la scrittura con righello enormografo dei loro testi farneticanti».

E il terzo uomo chi era?«Colui checon lasuaMercedesaccompagnò

AbeleFurlanalladiscotecaMelamaradiCasti-glione delle Stiviere, dove furono bloccati pri-machelaincendiassero.Loriconobbisenz’om-bra di dubbio nell’identikit elaborato dagli in-vestigatori a Trento, dove padre Armando Bi-sonerastatouccisoconunpunteruoloa formadi crocifisso conficcato nel cranio. Ma la pre-senza del terzo uomo sulla scena del delittocozzava contro l’idea che il giudice istruttores’erafattodiLudwig,asuogiudiziounacoppiaimpermeabile. Io invecesapevocheera il ram-pollo di un imprenditore ricchissimo. Oggi èunpersonaggiomoltoinvista,hapersinorico-perto alcuni incarichi pubblici».

Il terzo uomo sa che tu sai?«Credo proprio di sì, ma gira al largo».

T’è dispiaciuto non seguire da cronista il casodel serial killer Gianfranco Stevanin?«Piùchealtrom’èdispiaciutononessereriu-

scitoa fararrestarenel1976 il suoprecursore,un geometra impotente d’origini bellunesi,abitante in un quartiere-bene di Verona, chestordivaleprostitute fratturandogli il settona-sale conunpugnodevastante, le seviziava re-gistrando i loro lamenti e poi gli piantava uncoltellonel cuore. Èmortoper causenaturali.Il fidanzato di Fernanda Pellegrini, una dellevittime, era un ladro. S’introdussenell’appar-tamento del maniaco e mi portò il nastro conle urla. Di un’altra assassinata, Regina DallaCroce,ormaidecomposta, toccòamerecupe-rare scalpo, gonna e camicetta: gli inquirentiavevanoportato via il teschio, dimenticando-si tutto il resto».

Qual è il delitto peggiore di cui ti sei occupa-to?«Quello di Renzo Pavini, un sordomuto

strangolatoconunacalzadi nylonegettato inAdige da tre diciannovenni per rapinarlo di44.000 lire. Lo avevano atteso nel giorno incuiritiravalapensioned’invalidità,conlapro-messa di portarlo a donne. Invece volevano isuoi soldi per comprarsi la droga».

Come ti sembrano i cronisti di oggi?«Leggi qua». (Mi porge un

titolo di giornale: «Per l’os-sessione dei ladri uccide uncarabiniere»). «Nell’articoloc’è tutto, tranne l’identitàdel carabiniere. Tanto, cheimporta? I carabinieri devo-no crepare e basta. Ma sevuoi ti mostro il ritaglio del-l’ottantenne che, armato difucile, ha litigato “in modomolto cruento” con i vicini».

Non t’impressiona il molti-plicarsi delle crisi coniugaliche sfociano in delitti-suici-di e nello sterminio d’interefamiglie?«Nulla d’inedito. L’unica

differenza è che una volta lanotizia di paese stentava adarrivare nel Comune capo-

luogo mentre oggi ti viene messa nel piattoall’ora di pranzo dai telegiornali nazionali.Sbagliatissimo, perché la banalizzazione delmale induce un effetto imitativo».

A che serve la cronaca nera?«È necessaria al pari della bianca. Non l’ho

inventata io la completezza dell’informazio-ne. Dal mio maestro, Guido Zangrando, chemi assunse all’Ansa, ho imparato due cose:primo, lanotizianonhaprezzo; secondo,maiinnamorarsi della notizia. La cronaca nera, sesei uomo, serve a farti star male».

(464. Continua)

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“ “

tipi italiani

Li aiutava un terzo uomo.

Lo riconobbi dall’identikit

dopo che uccisero un frate.

In seguito ricoprì cariche

pubbliche a Verona

Mi telefonava all’Ansa,

dov’ero di turno la notte:

«Abbiamo fregato i fasci».

Voleva dire che era stata

usata la chiave inglese...

Infiltrato nell’ultrasinistra,fu il primo a riconoscere

Feltrinelli sotto il tralicciodi Segrate. Smascherò anche

un serial killer peggioredi Stevanin. Ora, a 86 anni,

scrive libri su Egizi e Romani

GIANNI CANTÙ

ABEL E FURLAN MARIO CAPANNA

Il cronista che scoprì Ludwig«So chi portò la bombafino alla stazione di Bologna»«Era un drogato: ritirò la valigia all’Eur e rimase ferito nell’attentatoMa al capitano dei carabinieri che allertai venne impedito d’indagare»

DOTE DI FAMIGLIA Gianni Cantù con una copia di «Margherita Pusterla», che il suo avo Cesare scrisse in carcere sulla carta da bugliolo [Maurizio Don]

di Stefano Lorenzetto