NAWAL. L'angelo dei profughi - estratto libro - Paolne

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DANIELE BIELLA L’angelo dei profughi Nawal Prefazione di Francesco Montenegro

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Nawal è un nome arabo che in italiano potremmo tradurre con «donata». E, di fatto, quella in cui stiamo per entrare, sfogliando ogni singola pagina, è la storia vera e concreta di un angelo donato: "l'angelo dei profughi" appunto. Così Daniele Biella, giornalista, ha definito Nawal Soufi, giovane donna di 28 anni, nel libro che le ha dedicato. »»» http://www.paoline.it/blog/testimoni/466-nawal-testimoni-protagonisti.html

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D A N I E L E B I E L L A

L’angelo dei profughiNawal

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€ 13,00

Daniele Biella, classe 1978, giornali-sta, scrive di tematiche sociali per « Vita » e per altre testate nazionali. Si occupa inoltre di educativa e formazione alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Il suo nome è Nawal e ha venti-sette anni. La chiamano l’angelo dei siriani in fuga dalla guerra. Di origini marocchine, è arrivata appena nata nel catanese, dove oggi vive, studia e lavo-ra. Da lì ora aiuta, in modo volontario, migliaia di profughi a sopravvivere al viaggio della speranza nel Mediter-raneo e a non cedere al racket degli « scafisti di terra » all’arrivo in Italia.

Vive con il cellulare sempre all’o-recchio, perché le chiamate di sos dal mare arrivano anche nel cuore della notte. È un punto di riferimento per la Guardia costiera italiana, lo è stata anche durante l’Operazione Mare No-strum: chiede ai migranti alla deriva le coordinate, le comunica ai funzionari che fanno partire i soccorsi. Passa giornate intere alla stazione ferroviaria di Catania, accogliendo i profughi di passaggio verso il Nord Europa nel recuperare dignità e voglia di vivere, dopo avere scampato la morte – spesso perdendo persone care – con i barconi del mare. Ed è una fonte inesauribile per i giornalisti di tutto il mondo: se possono fare il loro mestiere, raccon-tando nei dettagli quello che accade, lo devono a persone come Nawal e la rete di chi la « aiuta ad aiutare ».

Questa è la sua storia. Che avrebbe i connotati di una leggenda, se non fosse superata dalla realtà...

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« Mentre a livello politico si discute o si cam-biano strategie, la povera gente – tra cui potreb-bero esserci mio padre, mia madre o mio fratello – continua a morire ed essere trattata in modo di-sumano prima della partenza, durante la traver-sata e, qualche volta, anche dopo l’arrivo.

Nawal ha deciso di entrare in questa storia. Ha deciso di farlo con le capacità che si ritrova. Sa di non essere né un politico né la responsabile di una organizzazione non governativa. È una cittadina che ha deciso di stare dalla parte dell’uomo. Le è bastato dare il numero del cellulare a qualcuno per dare inizio a una storia lunghissima di salva-taggi, di salvezza.

Le pagine del libro raccontano non una sto-ria romanzata ma una storia vera: una vicenda di solidarietà che nasce da una profonda com-passione ».

Cardinale FranCesCo Montenegro

In copertina: Nawal. Foto di Salvatore Cavalli - fotoreporter

Prefazione diFrancesco Montenegro

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Alle migliaia di persone che non sono sopravvissuteai viaggi della speranza nel mar Mediterraneoe a chi ha perso la vita in guerra,in Siria come altrove. Ai loro figli, genitori, mogli, mariti, parenti e amici che,nonostante tutto, tengono viva la fiduciain un’umanità migliore.

 

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PREFAZIONE

« Se mi rendo conto che qualcuno non ce la farà, quando vedo le salme coperte da un telo nero dopo essere state recuperate, o sento famiglie che mi dicono di aver perso in mare i propri cari, provo rabbia e dolo-re. Sono emozioni talmente forti che non riesco a gestir-le. Spesso mi capita di sbattere la mano da qualche parte, su un muro o su una porta, ma il dolore fisico è inesistente, in quei momenti, perché è il cuore che fa male. Potrebbero essere stati mio padre, mia madre, i miei fratelli… ».

Questa frase di Nawal inserita nel libro di Daniele Biella mi è risultata come la chiave di accesso e di uscita all’esperienza di questa giovane donna di origini maroc-chine che vive a Catania da oltre un ventennio e che l’autore ha voluto raccogliere e consegnare ai lettori. Nawal è una donna normalissima che studia e lavora; insieme alla sua famiglia è arrivata in Italia quando era ancora molto piccola.

Si è inserita bene in Sicilia ma da qualche anno ha deciso di impegnarsi in una straordinaria opera di aiuto ai profughi che hanno il numero del suo cellulare e che le lanciano degli sos, quando per diversi motivi sono in difficoltà. Nawal si fa dare le coordinate, le comunica alla Guardia Costiera che fa tutto il resto.

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Nel tempo dell’indifferenza la storia di Nawal colpi-sce, così come colpisce la « normalità » con cui porta avanti la sua azione di volontariato. « Potrebbero essere stati mio padre, mia madre, i miei fratelli ». La ragione che dà al suo operato è rintracciabile nell’identità delle persone che aiuta. Non sono suoi connazionali – lei è marocchina e i profughi sono nella maggior parte siria-ni – né il suo è un lavoro a cui spetta una retribuzione. Chi, nel cuore della notte, lancia un sos perché il moto-re è andato in avaria o perché lo scafista è scappato, è considerato da Nawal come il padre o la madre o il fratello: è parte di lei, della sua storia e della sua stessa vita. Ecco perché è « normale » aiutarlo/a senza aspet-tarsi nulla in cambio.

 Il fenomeno dell’immigrazione assume di giorno in

giorno toni sempre più drammatici. Non si riesce nem-meno a contare il numero dei morti in mare, si parla di diverse migliaia ma nessuno riesce a dire esattamente quanti siano. Così come non si riesce a prevedere quel-lo che succederà nei prossimi anni. È un fenomeno che alimenta paura e sconforto, ma ormai l’arrivo di profu-ghi non costituisce più elemento di notizia. Un po’ di scalpore lo si avverte quando si ha notizia di decessi in mare. E mentre a livello politico si discute o si cambiano strategie, la povera gente, quelli che potrebbero essere miei famigliari, continuano a morire, a essere trattati in modo disumano prima della partenza, durante la traversata e, qualche volta, anche dopo l’arrivo. Nawal ha deciso di entrare in questa storia. Ha deciso di farlo con le capacità che si ritrova. Sa di non essere né un politico né la responsabile di una organizzazione non

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governativa. È una cittadina che ha deciso di stare dalla parte dell’uomo. Le è bastato dare il numero del cellu-lare a qualcuno per dare inizio a una storia lunghissima di salvataggi, di salvezza. Le pagine del libro raccontano non una storia romanzata ma una storia vera: una vicen-da di solidarietà che nasce da una profonda compassio-ne perché, in genere, solo chi ha sofferto capisce chi soffre e lo aiuta, così come chi è povero ha compassione per ogni forma di povertà.

Probabilmente Nawal non ha mai dimenticato la storia del suo viaggio dal Marocco con i genitori: ha vissuto in prima persona la partenza dalla propria terra verso un futuro migliore e, una volta diventata adulta, ha pensato che fosse giusto rendere partecipe di quella speranza andata a buon fine chi « oggi » sta attraversando una situazione tragica. Anch’io, nel mio piccolo, mi sen-to di affermare lo stesso principio. Tante volte mi è capi-tato – soprattutto da quando mi trovo ad Agrigento – di parlare di immigrati; ma da quando sono stato a Lampe-dusa, all’indomani della tragedia del 3 ottobre del 2013, mentre gli uomini delle Forze dell’Ordine recuperavano i cadaveri dall’imbarcazione libica affondata a pochi metri dalle coste di Lampedusa, qualcosa in me è cam-biato. Non riesco a non pensare a quelle salme che gal-leggiavano, alle altre sistemate nell’hangar dell’aeroporto, ai corpicini dei più piccoli, a quanti nelle sacche sono stati trovati con una medaglietta o un crocifisso in bocca. Quelle persone potevano essere mio padre, mia madre e i miei fratelli e, in realtà, lo sono. Questo è il motivo che mi spinge a credere che non si può parlare dell’immigra-zione semplicemente come un problema. Più che dell’im-migrazione dovremmo parlare degli immigrati. Persone

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vere, in carne e ossa, che hanno l’unica colpa di voler lasciare Paesi dove si muore per guerra o per fame o per violenze e cercare altrove le condizioni per vivere digni-tosamente. E se fossimo noi al loro posto?

La regola d’oro che ci ha lasciato Gesù consiste nel fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi; e pen-so che nessuno di noi, trovandosi in una situazione di difficoltà – fisica, morale o materiale – gradirebbe in-contrare l’indifferenza o l’apatia. Nawal, allora può di-ventare esempio di umanità e di solidarietà. Nel libro si riporta la testimonianza di un alto funzionario governa-tivo che, vedendo all’opera Nawal e i suoi amici, così si è espresso: « (gli immigrati) arrivano lì con addosso ancora il sale del mare e dei vestiti malridotti e trovano chi, senza chiedere nulla in cambio, riesce a ridare loro un sorriso e tanta dignità ». Un sorriso e tanta dignità. Non soldi o case, non progetti o parole altisonanti ma un sorriso e tanta dignità. Nawal tutto ciò è riuscita a farlo e continua, ancora oggi, in quest’opera di volonta-riato. Ed è bello che attorno a lei sia nata una catena di persone amiche, mosse dagli stessi obiettivi che le danno una mano d’aiuto a trovare qualche vestito, a farsi tro-vare alla stazione di Catania prima che arrivino i soliti furbi, pronti a speculare anche su un biglietto ferrovia-rio, o a preparare un pasto caldo. Questa è la dimostra-zione che tutti possiamo fare qualcosa; tutti possiamo essere dei piccoli angeli dei profughi; tutti possiamo mettere a disposizione quello che siamo e quello che abbiamo perché altri ritornino a sorridere e a sperare… Tutti possiamo essere come Nawal.

Sono sinceramente grato a Daniele Biella per l’opera che ha realizzato. Oggi più che mai abbiamo bisogno,

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come amava dire monsignor Cataldo Naro, che qualcu-no non solo legga i segni dei tempi, ma li metta anche per iscritto. E certamente l’azione di Nawal è un segno dei tempi ed è un segno per questi tempi. Speriamo che l’esempio di Nawal – alla quale idealmente vorrei fare arrivare il mio abbraccio – sia raccolto e imitato da tan-ti, e che questo libro serva a gettare semi di bontà perché da parte di tutti si apra il cuore a chi soffre: perché in quell’uomo o in quella donna che viene da lontano, che scappa da guerre e persecuzioni, non c’è uno straniero, ma mio padre, mia madre e mio fratello.

 cardinale Francesco Montenegro

 

 

 

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I.

UN GIORNO, IN MEZZO AL MARE

All’improvviso, Maysan capisce che potrebbe essere finita per davvero. L’aveva già messo in conto, qualche settimana prima: una bomba avrebbe potuto centrare la sua casa, o un cecchino mirare proprio a lei, mentre andava a prendere della farina dall’unico panettiere del quartiere, aperto solo nelle prime ore del mattino, quan-do gli spari concedevano una fragilissima tregua. Ma, allora, non era successo. Oggi, invece, sembra che il destino non lasci vie di scampo: la barca su cui la donna viaggia da giorni in compagnia del marito e di altri pri-ma-sconosciuti-ora-fratelli ha iniziato a riempirsi di ac-qua. Il peso è troppo, 300 persone stipate in pochi metri quadrati, un motore che non funziona più e gli scafisti, quelli che alla partenza hanno intascato 1500 euro per ogni passeggero, sono scappati il giorno prima con un gommone arrivato da chissà dove. E per giunta il mare, che per anni Maysan aveva amato, soprattutto nelle lunghe estati passate a mollo nell’acqua con le proprie sorelle, adesso faceva una gran paura. « Devo essere forte », sussurra a se stessa. Il giovane marito – che voglia di diventare genitori, una volta al sicuro, in Europa! – non parlava più. Il suo sguardo era fisso verso un oriz-zonte beffardo, dove mare e cielo combattevano un duello senza sosta, ora che la brezza con cui l’alba aveva

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accolto i migranti si era trasformata in una burrasca fe-roce, maligna. Allora Maysan chiude gli occhi, pensa alla « vita », quella a cui vuole rimanere attaccata fino all’ul-timo respiro, e lancia un urlo che, per un attimo, sembra squarciare il manto nero della morte vicina e il torpore surreale che aveva preso il marito e gli altri. « Rashid! ». Nessuna risposta. « Rashiiiid! Il numero! ». Il digiuno forzato e la sete l’hanno resa debole, ma riesce comun-que a strattonare l’amore della sua giovane vita già se-gnata dalla guerra. È un attimo: l’uomo si risveglia dal limbo, la guarda negli occhi e dalla tasca interna dei jeans tira fuori il Turaya, il telefono satellitare, forse l’unico sfuggito alle confische degli scafisti.

Maysan e Rashid avevano salvato un numero, in at-tesa di partire dalle coste libiche e affrontare il viaggio della speranza nel mar Mediterraneo. Un numero che mai avrebbero voluto usare ma che, lo sapevano, aveva rappresentato la salvezza per migliaia di persone scap-pate prima di loro dalla polveriera siriana e ritrovatesi con la vita appesa a un filo.

« Madam! Aiutoooo! ». Questa volta è Rashid che urla a squarciagola: la chiamata era andata a buon fine, qualcuno dall’altra parte aveva risposto. Qualcuno, una donna, chissà dove sulla terraferma. « Ci sono le onde alte, imbarchiamo acqua, sta piovendo, una ragazza sta partorendo! Madam, aiuto! », grida l’uomo, in preda al panico. Maysan è atterrita. Ma ecco che il marito si cal-ma, all’improvviso. « Siamo 300 circa ». Subito dopo: « Le coordinate? Quali coordinate? », chiede. Sposta il satellitare dall’orecchio, mette l’altoparlante da cui esce una fortissima voce metallica, digita dei tasti, trova i numeri che cerca – la loro posizione nel mare – li grida

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alla donna al telefono e, sconsolato, si siede terminando la conversazione. Non c’è bisogno di parlare, ora. Un sos è stato lanciato, le coordinate inviate alla persona giusta. Ora rimane solo la speranza. Poca, pochissima. Perché il mare sembra infinito, il tramonto è vicino e con il buio, la paura e la solitudine sono l’anticamera di una sola parola. Fine.

 Grosse lacrime solcavano, quel tardo pomeriggio, il

viso della ragazza catanese. Che in realtà era nata in Marocco, ventisei anni prima, ma che a venticinque giorni di vita aveva trovato un porto sicuro, con mamma e papà, sotto le magiche pendici dell’Etna. Quel porto sicuro, in Sicilia o altrove, che ora sperava raggiunges-sero i disperati appena sentiti al telefono mentre erano in balia delle leggi non scritte del mar Mediterraneo. Succedeva spesso, quasi dopo ogni chiamata da una barca alla deriva – ne aveva ricevute tante, tantissime, dall’estate 2013 in poi – che la vista le si appannasse e il cuore iniziasse a palpitare senza freni. Ma questa volta, se possibile, era stato diverso: il terrore puro del giovane siriano che parlava dall’altra parte del telefono l’aveva messa a dura prova. Aveva dovuto alzare la voce molto più del solito e rivolgergli parole dure, per placare la sua agitazione e convincerlo a fare la sola azione utile in quel momento: far sapere dove si trovavano, attraverso il localizzatore gps. Ce l’aveva fatta, anche questa volta. Aveva ricevuto le preziose coordinate e le aveva imme-diatamente comunicate al Comando Generale della Guardia Costiera: sarebbero arrivati in tempo i soccor-si, inshallah. Bisognava solo sperare. E pregare. Nawal, questo il nome della ragazza, recitava le sue preghiere a

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mente, perché le parole servivano ad altro, in quel mo-mento: asciugate le lacrime, c’era da riprendere l’opera di accoglienza delle centinaia di persone che dopo esse-re sopravvissute al viaggio in mare arrivavano nella stazione di Catania per prendere un treno verso la nuo-va vita, nel Nord Europa. Quel giorno erano passati in 250, molte famiglie con bambini: a ognuno di loro la ragazza dispensava consigli, sorrisi, aiutava ad acquista-re biglietti al giusto prezzo, non inflazionato dagli squa-li che giravano attorno alla stazione. Mancavano ancora poche decine di persone da sistemare, per concludere la giornata: se avessero perso l’ultimo treno, bisognava organizzare un pullman direzione Roma o Milano, per-lomeno. Poi finalmente Nawal avrebbe potuto tirare il fiato, forse tornare a casa e riposare qualche ora. Ma sempre con l’orecchio vigile, allora come oggi: gli sos arrivano anche nel cuore della notte, e sono spesso i più atroci. Lei non si sarebbe fermata, come non si ferma oggi. Lei e la rete di persone, tutte volontarie e sparse in mezza Italia, che anche grazie alle sue indicazioni ren-dono l’odissea dei profughi più lieve e umana.

Nawal Soufi non ha ancora figli suoi, ma sparse per il mondo ci sono decine di migliaia di persone che la chiamano « mama Nawal », e che sanno di doverle, in parte, la vita.

Questa è la sua storia.

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XXIV.

FAMMI PARTIRE VERSO QUALSIASI TERRA22

Fammi partire verso qualsiasi terraLasciami andare e dimenticati di me

Gettami nel mare e non chiedere nullaNon ho altra strada

Non vado via per passare il tempoLa mia casa sotto le bombe trema

E la cenere della guerra mi ha accecatoChiamala fuga o asilo umanitario

Lasciami tentareIn fondo sono un essere umano.

 Fammi partire verso qualsiasi terra

Lasciami andare e dimenticati di meForse un giorno tornerò

Almeno nei sogni. 

 

 

22 Titolo della canzone composta dal musicista siriano Iyad Rimawi e de-dicata al proprio Paese in guerra. Nawal la ascolta con i profughi al momento di ogni partenza, trasmettendola con un altoparlante collegato al proprio tele-fonino: è un momento di forte emozione.

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INDICE

Prefazione pag. 7

I. Un giorno, in mezzo al mare » 13II. L’Italia è un pianto interrotto » 17III. Il peperoncino e l’olimpionica » 23IV. La stanza sul retro » 27V. Di cause perse e volontà d’acciaio » 31VI. La Siria esplode nel centro di Catania » 36VII. Ad Aleppo, sotto le bombe » 45VIII. Quelle grida disperate » 51IX. Il grembo » 59X. Un quaderno come tanti » 61XI. « Signorina Soufi, solo lei può convincerli » » 69XII. Mettetemi le manette » 73XIII. Scafisti di mare e di terra » 76XIV. Qais » 85XV. Di canti, discorsi e accoglienze » 87XVI. Agata! » 96XVII. Kebab, pizza o pasta? » 107

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XVIII. Quanti sono su quel treno? pag. 109XIX. La fede » 115XX. La grande famiglia » 118XXI. Sicilia, mondo » 124XXII. La salvezza è in fondo al corridoio » 130XXIII. Tutto verrà » 139XXIV. Fammi partire verso qualsiasi terra » 144

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Il libro raccoglie la testimonianza di Nasser – Mimmo per gli italiani –, un immigrato clandestino, arrivato dall’Egitto attraverso un barcone e che, non senza fatica, è riuscito a integrarsi nel tessuto sociale italiano, dando lavoro anche ad altre persone.

EDITORIALE LIBRI

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Il libro presenta otto storie vere di donne e uomini che vivono ai margini della società, nelle periferie non soltanto delle città, ma anche in quelle « esistenziali », di cui spesso parla papa Francesco. Sono vicende intrise di sofferenza, ma anche di speranza non ancora sopita, raccolte da alcuni volontari in una parrocchia del Nord-Est d’Italia. Tutti raccontano in prima persona la loro storia.

EDITORIALE LIBRI

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Questo libro contiene, nella forma letteraria del rac-conto, gli avvenimenti milanesi sui rom degli ultimi quindici anni. Gli attori di questa storia sono maestre, mamme, due cardinali separati nel tempo e uniti nella profezia, volontari senza nome, una sopravvissuta al lager di Bergen-Belsen, ma anche la Casa della carità di don Virginio Colmegna, la Caritas Ambrosiana, la Co-munità di Sant’Egidio e il Nocetum. I protagonisti sono i bambini rom di Milano e le loro famiglie.

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Si tratta della storia vera di una donna che per dodici anni ha subìto la violenza fisica e psicologica del marito, uomo dispotico e manipolatore, che l’ha perseguitata in ogni modo e con ogni mezzo, cercando di annullarne la personalità. I fatti, i ricordi, le sensazioni e i sentimenti sono descritti in prima persona da Mariana in forma di mémoire, una sorta di diario, cui si alterna la voce nar-rante dell’Autrice.

EDITORIALE LIBRI

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L’angelo dei profughiNawal

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Daniele Biella, classe 1978, giornali-sta, scrive di tematiche sociali per « Vita » e per altre testate nazionali. Si occupa inoltre di educativa e formazione alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Il suo nome è Nawal e ha venti-sette anni. La chiamano l’angelo dei siriani in fuga dalla guerra. Di origini marocchine, è arrivata appena nata nel catanese, dove oggi vive, studia e lavo-ra. Da lì ora aiuta, in modo volontario, migliaia di profughi a sopravvivere al viaggio della speranza nel Mediter-raneo e a non cedere al racket degli « scafisti di terra » all’arrivo in Italia.

Vive con il cellulare sempre all’o-recchio, perché le chiamate di sos dal mare arrivano anche nel cuore della notte. È un punto di riferimento per la Guardia costiera italiana, lo è stata anche durante l’Operazione Mare No-strum: chiede ai migranti alla deriva le coordinate, le comunica ai funzionari che fanno partire i soccorsi. Passa giornate intere alla stazione ferroviaria di Catania, accogliendo i profughi di passaggio verso il Nord Europa nel recuperare dignità e voglia di vivere, dopo avere scampato la morte – spesso perdendo persone care – con i barconi del mare. Ed è una fonte inesauribile per i giornalisti di tutto il mondo: se possono fare il loro mestiere, raccon-tando nei dettagli quello che accade, lo devono a persone come Nawal e la rete di chi la « aiuta ad aiutare ».

Questa è la sua storia. Che avrebbe i connotati di una leggenda, se non fosse superata dalla realtà...

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« Mentre a livello politico si discute o si cam-biano strategie, la povera gente – tra cui potreb-bero esserci mio padre, mia madre o mio fratello – continua a morire ed essere trattata in modo di-sumano prima della partenza, durante la traver-sata e, qualche volta, anche dopo l’arrivo.

Nawal ha deciso di entrare in questa storia. Ha deciso di farlo con le capacità che si ritrova. Sa di non essere né un politico né la responsabile di una organizzazione non governativa. È una cittadina che ha deciso di stare dalla parte dell’uomo. Le è bastato dare il numero del cellulare a qualcuno per dare inizio a una storia lunghissima di salva-taggi, di salvezza.

Le pagine del libro raccontano non una sto-ria romanzata ma una storia vera: una vicenda di solidarietà che nasce da una profonda com-passione ».

Cardinale FranCesCo Montenegro

In copertina: Nawal. Foto di Salvatore Cavalli - fotoreporter

Prefazione diFrancesco Montenegro