Napoli nella seconda guerra mondiale€¦ · Aurelio Le pre, che ha analizzato i rapporti degli...
Transcript of Napoli nella seconda guerra mondiale€¦ · Aurelio Le pre, che ha analizzato i rapporti degli...
Napoli nella seconda guerra mondiale
Gloria Chianese
Il saggio ripercorre la vicenda del secondo conflitto mondiale nel contesto napoletano soffermandosi su alcuni nuclei tematici. In primo luogo si cerca di analizzare il rapporto tra propaganda militarista, livelli di consenso alla guerra e modello di sviluppo della città. Emerge innanzitutto un forte nesso tra i livelli di consenso al regime e alle guerre da esso volute e il modello di sviluppo economico della città, che aveva avuto nell’edilizia un ruolo trainante. Alla fine però la guerra comportò un blocco del settore, limitando l’attività ai lavori di costruzione e di manutenzione dei ricoveri, mentre ad essere potenziate furono le aziende metalmeccaniche e l’industria aeronautica. Si prende quindi in esame lo stereotipo “Napoli porto dell’Impero”, veicolato già a partire dalla guerra d’Etiopia: esso prospettava un ruolo colonialistico che si risolse, invece, in una grossa operazione di ristrutturazione urbanistica, quale la Mostra d’Oltremare.In secondo luogo si focalizza l’attenzione sulla guerra “reale”. L’osservatorio prescelto è il rapporto tra diversi segmenti di popolazione e le istituzioni “vicine”, ossia la burocrazia periferica, in cui si sovrapponevano personale del Pnf e funzionari statali.Nell’insieme la vicenda della guerra finì per approfondire l’estraneità tra lo stato autoritario e la società locale, investita da processi di disgregazione e frammentazione. L’avversione al regime e l’odio contro la guerra mettevano radicalmente in crisi il già scarso sentimento d’identità nazionale favorendo il perdurare di antichi miti come quello monarchico.
The A. revisits the vicissitudes o f WWII in the neapolitan area, focusing on certain peculiar aspects, such as the relationship between war propaganda, popular consensus to war and patterns o f urban development. A clear light is thrown on the strong link existing between the levels o f consensus to the regime and its wars and the pattern o f economic growth o f the city, which had found its spearhead in building hin- dustry. The war, however, resulted in a sharp decline o f this compartment, restricting its activity to the construction and maintenance o f shelters, while stimulating aircraft and engineering production. Special attention is devoted to the “Naples port o f the empire” sterotype, launched since the Ethiopian war, which claimed a colonial role rather paradoxically resulting in a big urbanistic operation, the “Mostra d ’Oltremare” (Overseas Exhibition).Another privilegd observatory is offered by the relationship between different segments o f the population and such “closer” institutions as represented by peripheral burocracy, including both PNF and State officials.On the whole, the course o f the war determined an increasing separatedness between the authoritarian State and local communities, invested by process o f disgregation and fragmentation. Distase for both the regime and the war literally undermined the already faltering sentiment o f national identity, favouring the reviviscence o f old myths, such as monarchy.
Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195
344 Gloria Chianese
I temi della ricerca
La congiuntura della seconda guerra mondiale a Napoli può essere indagata con due finalità: per riflettere sul rapporto istituzioni-economia-società nell’ambito di un processo che ha origine dal crollo del regime autoritario e approda all’affermazione del lau- rismo negli anni cinquanta; per avviare una comparazione in senso diacronico tra l’even- to/catastrofe guerra ed altri momenti di crisi verticale della storia cittadina nell’ultimo secolo: il colera del 1884, la crisi del primo dopoguerra, il colera del 1973, il terremoto del 1990, ecc. In questa sede prendo in esame soltanto il primo insieme di problemi, rimandando ad un ulteriore sviluppo delle indagini l’approfondimento del secondo piano d’analisi1.
La vicenda della guerra costituisce un osservatorio per delineare i comportamenti e le scelte, collettivi ed individuali, in una fase in cui si infrangono i rapporti, già deboli, tra società, istituzioni locali e stato centrale autoritario. Inoltre, la guerra incrina fino a distruggere certezze e valori che avevano sorretto l’intelaiatura della società gerarchica ed autoritaria che si era affermata a Napoli durante il fascismo. Gli esempi possono essere molteplici. Si pensi al processo di impo
verimento che viveva la piccola borghesia a reddito fisso. Di sicuro esso non investiva soltanto la realtà partenopea2, ma qui si colorava di un significato peculiare perché contribuiva ad alimentare uno stato di malessere nei confronti di altri gruppi sociali — in particolare i ceti popolari — appannando così una certa tradizione di napoletanità interclassista. Eguale attenzione merita il fenomeno della prostituzione di massa, che si verificò in città durante gli anni dell’occupazione angloamericana, da cui nasceva lo stereotipo della segnorina, rappresentato da una donna giovane di estrazione popolare. Tale comportamento veniva recepito in maniera ambigua e contraddittoria in quanto, se da una parte risultava condannabile sul piano morale, dall’altra si dimostrava assai efficace perché consentiva la sopravvivenza individuale e, spesso, anche del nucleo familiare di appartenenza. C’è però da sottolineare che sul rapporto guerra/crisi dei valori diffusi la ricerca storica continua ad offrire pochi spunti di riflessione, mentre maggiori suggestioni provengono dall’analisi di fonti letterarie. Per il caso napoletano è da segnalare il romanzo/diario di Norman Lewis Napoli 19443 che consente in più passaggi di addentrarsi in un ambito di psicologia sociale attraverso un linguaggio insieme contenu-
La ricerca è stata condotta prevalentemente presso l’Archivio comunale di Napoli (AC Napoli) consultando: cat. I, Ufficio del Gabinetto; cat. XI, Anagrafe elettorale; cat. XIV, Assistenza; cat. XV, Direzione e cultura. Utile strumento per la ricognizione delle fonti è: Maria Teresa Iannitto, Guida agli archivi per la storia contemporanea regionale. Napoli, Napoli, Guida, 1990 (Quaderni dell’Istituto campano per la storia della Resistenza).1 Questo articolo è una rielaborazione della comunicazione presentata al seminario organizzato dallTnsmli “Ricerche sulla partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale” (Vercelli 11-13 nov. 1992) e s’inserisce in una ricerca più ampia sul tema “Napoli in guerra”. Si rimanda anche al saggio L ’esperienza della guerra a Napoli: storia del conflitto, storia della città, “Qualestoria”, 1990, n. 1, pp. 29-51. Il tema “Città e guerra” è stato approfondito per alcune realtà urbane quali Trieste, Bologna, Torino. Cfr. Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra. Gli anni 1938-1943, Trieste, Irsml Friuli-Venezia Giulia, 1992 (I Quaderni di Qualestoria); atti del seminario “Bologna in guerra 1940-1945”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza di Bologna (6-7 maggio 1992, in corso di pubblicazione presso Franco Angeli); Giovanni De Luna, A Torino durante la guerra... Le coordinate dell’esistenza collettiva, in Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nella seconda guerra mondiale, Bari-Roma, Laterza, 1991, pp. 57-95.2 Cfr. Le osservazioni di Massimo Legnani, Guerra e governo delle risorse. Strategie economiche e soggetti sociali nell’Italia 1940-1943, in Bruna Micheletti, Pier Paolo Poggio (a cura di), L ’Italia in guerra 1940-1943, Brescia, Annali della Fondazione Micheletti, 1992.3 II romanzo, edito nel 1978, è stato ristampato nel 1993 dalla Adelphi Edizioni di Milano.
Napoli nella seconda guerra mondiale 345
to ed intenso, assai lontano dai risvolti a forti tinte de La Pelle di Malaparte.
È invece possibile, attraverso fonti più consuete nell’indagine storiografica, effettuare una prima ricognizione sulla configurazione che assume durante il conflitto il rapporto società/istituzioni. Si delimita così il campo d’analisi ed è possibile formulare l’ipotesi da sviluppare: la guerra contribuì a rafforzare un sentimento di estraneità nei contronti dello stato — in questo caso il regime autoritario in disgregazione — il quale aveva radici antiche che attraversavano lo stato liberale e si sarebbero riproposte in quello repubblicano. La questione rimanda ai reali livelli di fascistizzazione presenti a Napoli ed alla capacità di penetrazione e persuasione dell’organizzazione statuale nella realtà locale. E, soprattutto, si pone il problema di analizzare quali erano le motivazioni, molteplici e talora contraddittorie, che sorreggevano gli atteggiamenti della popolazione dinanzi al conflitto, in particolare nel momento in cui esso si trasformava da “guerra immaginata” in “guerra reale” .
Partiamo dal discorso del consenso che sembra configurarsi in maniera non diversa da quanto avveniva nel resto del paese: da una parte si desiderava entrare in guerra perché la nazione potesse usufruire dei vantaggi di un conflitto considerato breve e di esito sicuro; dall’altra, si guardava con preoccupazione e diffidenza ai costi imposti dall’intervento bellico. In ogni caso la fase di mobilitazione civile era avvenuta in maniera non traumatica. L’attivizzazione delle organizzazioni fasciste, che promuovevano e gestivano le diverse iniziative, tendeva a proiettare l’immagine rassicurante di un apparato statale capace di fronteggiare gli eventi futuri. Le prime misure di razionamento, che nel febbraio 1940 riducevano il
consumo di generi voluttuari come lo zucchero e il caffè, non suscitarono particolari reazioni e lo stesso avveniva per l’allestimento dei rifugi antiaerei e l’istituzione del capofabbricato. Segnali di incrinatura si avvertirono momento in cui l’inizio del conflitto appariva ormai imminente. Aurelio Lepre, che ha analizzato i rapporti degli informatori Ovra e le relazioni della Questura, ricorda un rapporto dell’8 giugno 1940 dove si rilevava uno stato d’animo di diffusa preoccupazione. Si diffondevano voci per cui la guerra sarebbe stata lunga, anche se vittoriosa e la città non sembrava adeguata- mente attrezzata. Da parte di alcuni si avanzava la proposta di far dichiarare Napoli città aperta.
Esitazioni e perplessità si registrarono al momento dell’ingresso nel conflitto, mitigate, di lì a poco, dalle ripercussioni indotte dalla resa francese.4
Napoli porto dell’impero
Fin qui sembrerebbero prevalere le analogie con quanto avveniva su scala nazionale. C’è però da aggiungere che il consenso al conflitto fu in qualche modo rafforzato a Napoli da alcune peculiarità locali. Mi riferisco al largo favore che aveva registrato l’esperienza della guerra d’Etiopia per un insieme di motivazioni su cui è opportuno soffermarsi. In primo luogo, la città aveva conosciuto un qualche sviluppo soprattutto attraverso l’attività portuale, essendo diventata il luogo d’imbarco delle truppe per l’Africa. Ciò favorì il rilancio del mito di una sua vocazione colonialistica, che venne alimentato attraverso alcuni stereotipi di indubbia efficacia. Si consideri ad esempio lo slogan “Napoli porto dell’impero”: esso delineava
Cfr. Aurelio Lepre, Napoli durante la seconda guerra mondiale, in Paolo Macry, Pasquale Villani, La Campania, Storia d ’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 1006-1025.
346 Gloria Chianese
una possibilità d’incremento economico ed evocava una prospettiva prestigiosa, addirittura un ruolo ed un’identità di segno nazionale. L’efficacia dello stereotipo si accrebbe durante la grossa operazione di ristrutturazione urbanistica costituita dalla Mostra d’Oltremare, venne alimentata con alcune iniziative di propaganda militarista — si ricordi la visita di Hitler a Napoli nel maggio 1938 — e costituì un fertile retroterra per sollecitare il consenso all’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, anche perché legò Napoli, proprio in quanto porto d’imbarco delle truppe per l’Africa settentrionale, alle vicende dello scacchiere medi- terraneo.
In realtà il ruolo “africano” della città avrebbe favorito la tragica sequenza dei 101 bombardamenti che colpirono la popolazione e, nell’immediato dopoguerra, il porto vide confluire non più truppe in partenza, ma le migliaia di reduci provenienti dai campi di prigionia5. Il motivo della vocazione “medi- terranea” di Napoli e del suo porto sarebbe del resto ritornato negli anni cinquanta — questa volta senza orpelli di segno militarista — nella formula laurina di “Napoli perla del Mediterraneo” .
L’istanza di un possibile ruolo imperiale partenopeo esercitò grande fascino ed ebbe un valido supporto da parte di alcune istituzioni culturali che enfatizzarono ulteriormente tale prospettiva. È il caso dell’Istituto universitario orientale e della Società africana d’Italia. Il primo, a partire dal 1937, istituì un corso di laurea in scienze coloniali “per preparare il personale idoneo alle varie funzioni che si richiedono per gli enti pub
blici e privati”6. La seconda, sorta nel 1880 e convinta sostenitrice della politica estera crispina, fu potenziata dal regime fascista ed organizzò nel 1934 il primo raduno nazionale dei combattenti delle campagne d’Africa. Con la conquista etiopica conobbe un’ulteriore espansione e il suo direttore Enrico Fe- licella, promosse nel 1938 un numero speciale della rivista “Politica Nuova”, L ’economia di Napoli sul piano dell’Impero, in cui si ritrovano tutte le coordinate della propaganda del regime sul ruolo imperialista della città: “Tocca a Napoli d’organizzare il suo porto [...] la sua attrezzatura industriale ed agraria, la trasformazione parziale e completa delle materie prime in arrivo, ravviamento rapido e funzionale del suo porto verso i lontani mercati etiopici, africani ed orientali” . Lo sviluppo delle attività turisti- co-culturali sarebbe stato complementare a quello industriale e portuale. Su questo tema si soffermava anche uno studioso del prestigio di Amedeo Maiuri, sovrintendente alle Antichità7.
Occorre sottolineare la capacità di suggestione degli stereotipi colonialistici perché essi contribuirono a sedimentare la convinzione che la guerra avrebbe potuto comportare sbocchi e soluzioni ad un’economia cittadina che viveva una crisi ormai endemica. Si creavano in tal modo attese che contribuivano a legittimare soluzioni di tipo militarista. Nel caso della campagna d’Etiopia giocava anche la peculiare percezione del conflitto già sottolineata da Mario Isnenghi: la guerra veniva presentata come “guerra lampo”, combattuta in terre lontane e caratterizzata da una schiacciante superiorità tecni-
5 Per i dati relativi al movimento dei reduci a Napoli si rimanda a Ministero della Guerra, Ufficio autonomo reduci da prigionia di guerra e rimpatriati, Relazione sull’attività svolta per il rimpatrio dei prigionieri di guerra ed internati 1944-1947, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1947, Allegato 16 bis.6 Cfr. Il Regio Istituto Universitario Orientale, “Napoli Rivista Municipale”, luglio 1941, pp. CXLII-CXLIII.7 Cfr. gli articoli di Bruno Spampanato, Napoli dall’Unità all’Impero; di Enrico Felicella, Sul piano imperiale; di Amedeo Maiuri, Valori culturali ed universali del turismo napoletano, in L'economia di Napoli sul piano dell’Impero, Edizioni Politica Nuova, 1938, pp. 11-20, pp. 243-253 e pp. 113-116.
Napoli nella seconda guerra mondiale 347
co-militare che appariva quanto mai rassicurante8. In conclusione l’ideologia colonialistica costituiva un buon retroterra per accrescere il consenso all’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sia perché legittimava di per sé una guerra di tipo offensivo, sia perché consentiva di costruire un peculiare destino della città — “Napoli porto dell’impero” — tutto interno alla prospettiva imperialista.
In concreto questi orientamenti si risolsero in una grande operazione di ristrutturazione urbanistica che s’inseriva nella politica di “bonifica urbana”; quest’ultima era stata una costante nelle scelte di intervento sul territorio durante il regime fascista, il quale aveva continuato una strategia iniziata, come è noto, con il risanamento successivo al colera del 1884. Lo sviluppo delle opere pubbliche era stato favorito a partire dall’istituzione dell’Alto commissariato nel 1925 ed aveva assolto un’importante funzione di ammortizzatore sociale, soprattutto dopo gli squilibri indotti nel già debole tessuto economico napoletano e campano dalle ripercussioni italiane della grande crisi9. La costruzione della Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare s’inseriva quindi in contesto di crisi e comportò la ristrutturazione dell’intero quartiere di Fuorigrotta con l’abbattimento di oltre settemila vani, la realizzazione di un funzionale sistema viario, il potenziamento dell’edilizia popolare. Vi furono anche dei risvolti sul piano delle dinamiche politiche cittadine, perché l’operazione Mostra coincise con il pieno ritorno sulla
scena politica di Vincenzo Tecchio che, emarginato dopo la vicenda Padovani, fu nominato commissario governativo. Alla realizzazione della Mostra veniva associata la speranza di potenziare l’attività turistica, ma tutto il progetto non ebbe il tempo di decollare: la Mostra fu inaugurata il 10 maggio 1940, ma fu ben presto requisita ed utilizzata fino al 1948 come convalescenziario militare10.
Economia cittadina e industria di guerra
Se l’immagine di una “Napoli imperiale” era destinata ad infrangersi non appena il conflitto mostrò la sua reale dimensione di guerra lunga ed incerta, il discorso sulla “bonifica urbana” ebbe vita più duratura ed in qualche modo si intrecciò con la questione delle distruzioni belliche. Secondo le rilevazioni del censimento angloamericano del settembre 1944, i vani distrutti ammontavano a 80.147 e Napoli era compresa tra le città che avevano subito danni in una percentuale che oscillava tra il 5 e il 10 per cento delPintero patrimonio abitativo11. Nello scenario di una città distrutta ed inscheletrita tornava il discorso sulla “bonifica”. Indicativo era un opuscolo redatto da Guido Milo- ne, amministratore delegato della Società Risanamento, Problemi del dopoguerra. Il rinnovamento edilizio del dopoguerra-, esso fu pubblicato, una prima volta, nel 1942 con prefazione di Giuseppe Frignani, direttore del Banco di Napoli e figura di spicco del ce-
Cfr. Mario Isnenghi, Il sogno africano, in Angelo Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma- Bari, Laterza, 1991, pp. 49-72.9 Cfr. Guido Savarese, L ’industria in Campania (1911-1940), Napoli, Guida, 1980, pp. 108-140, e Augusto De Benedetti, Il sistema industriale (1880-1940), in Storia d ’Italia. La Campania, cit., in particolare pp. 591-605.
Cfr. Carlo Cocchia, L ’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958, in Società del Risanamento di Napoli, Contributi allo studio della città, Napoli, 1961, Vol. III. Ed inoltre “I Mostra Triennale delle terre italiane d’Oltremare. Napoli- Campi Flegrei 9 maggio-15 ottobre 1940”, documentario edito dalla Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare. Torino, Industrie Grafiche Gros Monti e C., 1940.
Commissione Alleata-Presidenza del Consiglio dei ministri, Censimenti ed indagini per la ricostruzione industriale eseguiti nel settembre 1944, Roma, 1945, grafico 5.
348 Gloria Chianese
to politico-economico fascista, e una seconda volta nel 1944 con prefazione di Gustavo Ingrosso, cioè del sindaco che presiedeva la giunta voluta dagli alleati ed insediata, con nomina prefettizia, nell’aprile del 194412. La tesi era singolare: le distruzioni belliche avevano facilitato lo sventramento della città proprio perché i danni maggiori si erano avuti nei quartieri più fatiscenti. Di conseguenza “bonifica urbana” e ricostruzione avrebbero potuto procedere insieme.
Nel percorso che ho cercato di tratteggiare mi sembra emerga un forte nesso tra i livelli di consenso al regime ed alle guerre da esso volute ed il modello di sviluppo economico della città, che aveva avuto nell’edilizia un ruolo trainante. In particolare il settore delle opere pubbliche aveva assunto grande importanza sia in rapporto al mercato del lavoro sia in relazione al nesso centro/periferia. Era infatti a Mussolini che veniva ascritto il merito del potenziamento urbanistico partenopeo a differenza di quanto sarebbe avvenuto negli anni cinquanta, quando Lauro — e non i governi centristi — avrebbe potuto presentarsi come colui che, attraverso la speculazione edilizia, favoriva la ripresa dell’economia cittadina. La guerra comportò, come è noto, il blocco del settore. L’attività si concentrò nei lavori di costruzione e manutenzione dei ricoveri che venivano appaltati dall’amministrazione podestarile. Le delibere approvate da quest’ultima costituiscono una buona fonte di documentazione da cui è possibile ricavare l’elenco dei nominativi delle ditte. Ancora nel maggio 1943 veniva decisa la costruzione di nuovi rifugi e tutto
ciò favoriva lo sviluppo di un certo indotto come, ad esempio, le commesse per la fornitura di panche, medicinali di pronto soccorso, lampadine e così via.
Se l’edilizia conosceva una fase di stallo, altri settori industriali venivano invece potenziati. La strategia del decentramento delle industrie belliche comportava un certo incremento delle aziende metalmeccaniche con la costituzione della Navalmeccanica (di cui dal 1939 al 1944 fu vicepresidente Giuseppe Cenzato) ed il potenziamento dell’industria aeronautica di Pomigliano d’Arco. Nel 1939 fu istituito l’Istituto nazionale dei motori, dipendente dal Cnr che avrebbe dovuto favorire il raggiungimento dell’autarchia nel campo dei carburanti. Alla sua attività di ricerca, di fatto indirizzata al settore militare, collaborarono molti docenti della facoltà d’ingegneria13, vale a dire un segmento di tecnici a cui il fascismo guardava con particolare attenzione. La situazione più interessante era però quella dell’Uva di Bagnoli. Il suo potenziamento rientrava nel piano siderurgico nazionale ed appariva un risultato connesso anche all’impegno di istituzioni come la Fondazione politecnica del Mezzogiorno e la rivista “Questioni Meridionali” che, a partire dall’inizio degli anni trenta, avevano posto il problema dello sviluppo industriale del Sud. Entrambe le esperienze furono promosse da figure come Cenzato e Giordani14. Il piano della siderurgia fu ridimensionato a vantaggio degli imprenditori privati15 e ciò comportò anche per l’Ilva di Bagnoli un ritardo nel conseguimento degli obiettivi fissati. Soltanto nel 1942 entrò pie-
12 Guido Milone, Problemi del dopoguerra. Il rinnovamento edilizio di Napoli, prefazione di Giuseppe Frignani, Napoli, Richter, 1942 (prefazione di Gustavo Ingrosso, 1944).13 Cfr. Giuseppe Russo, La scuoia d ’ingegneria in Napoli (1911-1967), Napoli, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, 1967, pp. 287-291.14 Cfr. G. Savarese, L ’industria in Campania (1911-1940), cit., pp. 140-152, e A. De Benedetti II sistema industriale, cit., p. 603.15 Cfr. M. Legnani, Guerra e governo delle risorse, cit., pp. 335-357. Per un quadro generale dell’industria italiana durante il secondo conflitto mondiale utili le osservazioni di Valerio Castronovo, L ’industria di guerra 1940-1943, in Francesca Ferrantini, Gaetano Grassi, M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Re-
Napoli nella seconda guerra mondiale 349
namente in funzione l’acciaieria Thomas, ma il ritmo produttivo scese a livelli inferiori a quelli prebellici16. Non è ancora possibile analizzare minutamente l’attività produttiva nelle diverse fasi del conflitto perché nell’archivio storico dell’Uva non sono conservati le relazioni aziendali e i verbali del Consiglio d’amministrazione. Buona risulta la documentazione sulla condizione operaia in quanto sono consultabili i fascicoli personali dei lavoratori fino al 194517. La disamina di un campione di 75 fascicoli consente un primo sondaggio e qualche considerazione di carattere generale. In primo luogo la partecipazione alla guerra fu consistente anche se non è ancora possibile quantificarla. Inoltre non sono pochi i casi di coloro che avevano già partecipato alla campagna d’Etiopia. Sembra cioè delinearsi una generazione di lavoratori che conviveva con la guerra, così come era avvenuto per quella precedente. Molti operai, assunti o riassunti dopo la chiusura della fabbrica dal 1919 al 1921, erano infatti reduci della prima guerra mondiale. In secondo luogo emerge dalle carte
un senso di forte attaccamento all’azienda che già si era evidenziato attraverso la lettura di fonti diverse come, ad esempio, la documentazione sindacale. Esso è influenzato dal fatto che la fabbrica significava in primo luogo sicurezza del posto di lavoro o possibilità per i più anziani di far assumere un componente della famiglia — in genere il primo figlio maschio — soprattutto se reduce. Ciò era tanto più vero a conclusione del conflitto quando l’Uva, sistematicamente saccheggiata e poi incendiata dai nazisti in fuga, venne chiusa nell’autunno 1943. Di qui la frequente richiesta degli operai di essere assunti come manovali per lo sgombero delle macerie, a cui, in realtà, molti lavoratori avrebbero partecipato gratuitamente18. Può essere interessante prendere in esame anche il punto di vista dei quadri direttivi19, da cui emerge un elemento di fedeltà alla fabbrica che mi sembra abbastanza significativo perché è parte di “un’etica del lavoro” che in qualche modo fa da argine al crollo del rapporto fra istituzioni e cittadini. È un’ipotesi che andrà suffragata con una
sistema, Milano F. Angeli, 1988, pp. 239-156. Inoltre alcuni esempi del rapporto/conflitto tra industriali italiani e tedeschi sono presi in esame da Stefano Battilossi, Mercanti e guerrieri. Gli industriali italiani verso il “Nuovo ordine europeo", in B. Micheletti, P .P . Poggio, L ’Italia in guerra, cit., pp. 367-399.16 Cfr. Paolo Demarco, L ’Ilva nel periodo bellico, “Bollettino dell’Istituto Campano per la storia della Resistenza”, Italsider, una fabbrica, una città, 1983, n. 1, pp. 18-22, e il più recente Vincenzo Andriello, Attilio Belli, Daniela Lepore, Il luogo e la fabbrica, Napoli, Graphotronic, 1991, pp. 105-135.17 Per un inventario sistematico dell’archivio cfr. Maria Rosaria Strazzullo, L ’archivio Ilva di Bagnoli: una fabbrica tra passato e presente, Napoli, Soprintendenza Archivistica della Campania, 1992.18 Un esempio è la lettera inviata da C.R. al direttore il 4 dicembre 1943: “Io sottoscritto C.R. [...] avendo lavorato in qualità di laminatore per la durata di più di vent’anni in codesto spett.le Stabilimento nella Sezione laminatoi con medaglia [...] licenziato per chiusura. Prego la S.V. 111.ma, avendo moglie e una figlia di venti anni a carico e anche sinistrato da incursioni nemiche di volermi riammettere. Poiché lo stabilimento è sinistrato, mi degno di farvi presente di essere assunto per i lavori di sgombero [...]” (Archivio aziendale dell’Uva di Bagnoli, d’ora in poi AIB, fascicoli del personale, faldone 50, fascicolo C.R.).
Interessante è la testimonianza di C.C., ingegnere, capitano d’artiglieria, che lavora a Bagnoli dal 1912. Durante la guerra si trasferisce nello stabilimento di Bolzaneto. La sua casa di Napoli, non lontana dall’azienda, è incendiata dai tedeschi e poi saccheggiata dai ladri: “Da Bagnoli sono partito malvolentieri perché mia moglie e mio figlio erano a Vicenza ed io non potevo restarmene tranquillamente a Napoli, mentre la guerra camminava verso il Nord dove erano i miei cari. L’accoglienza avuta a Bolzaneto è stata amichevole e cordiale [...] ma questo non mi ha fatto dimenticare Bagnoli, dove ho lavorato venticinque anni in piena armonia e serenità di spirito. Farò quindi come sempre se l’ordine sarà di tornare a Bagnoli [...]. In questi due anni di Alta Italia ho visto e capito tante cose e mi sono fatto la persuasione che il nostro vecchio ambiente di dirigenti a Bagnoli è da considerarsi qualche cosa di ineguagliabile per correttezza, onestà e dirittura morale” (AIB, fascicolo del personale, faldone 37, fascicolo di C.C.).
350 Gloria Chianese
ricognizione più ampia dell’archivio, ma che può contribuire a spiegare perché, laddove l’azienda continuava a configurarsi come un’istituzione, rimaneva in piedi una sorta di identità collettiva dei lavoratori Ilva che, ovviamente, non escludeva le diverse forme di conflitto di classe20.
La latitanza delle istituzioni
Nonostante ciò l’elemento che caratterizzava con maggior nettezza la situazione napoletana era il crollo di credibilità delle istituzioni, che vedeva accomunate e spesso sovrapposte sia le strutture fasciste che quelle statuali. Tale processo e lo stesso odio contro la guerra favorivano un’acutizzazione dei conflitti sociali. Il ricorso obbligato alla soluzione individuale, la corruzione generalizzata, il venir meno di ogni fiducia in uno stato, a cui per antica tradizione si chiedeva in primo luogo protezione, soffocavano lo sviluppo della coscienza civile. Diventa così difficile utilizzare nel caso napoletano il concetto di città come categoria unificante, che invece si è dimostrato proficuo per altre realtà del paese21. In questo percorso sono da collocare per intero gli anni di guerra perché fin dall’inizio l’organizzazione statuale si dimostrò inefficiente e quindi inadeguata al ruolo di difesa e di protezione che l’inasprirsi del conflitto sollecitava ogni giorno di più, demolendo qualsiasi convinzione che la guerra potesse essere breve e vittoriosa. Il problema da affrontare non consiste quindi soltanto nella disamina delle straordinarie sofferenze che l’esperienza bellica comportò per la città, anche perché esse
furono una caratteristica propria di tutta la popolazione civile coinvolta nel conflitto, ad eccezione di quella americana22. È piuttosto un altro aspetto che vorrei tentare di mettere a fuoco, vale a dire il processo attraverso cui si consolidava la convinzione che miseria e sofferenza fossero inutili e che il regime fascista, identificato con lo stato, non meritasse più alcuna fiducia. Il quotidiano si configura come il luogo privilegiato per analizzare il rapporto tra stato autoritario e società locale. Il suo degrado legittimava la priorità delle istanze private, anche quando queste ultime favorivano forme di corruzione che si diffusero durante gli anni di guerra e, poi, con particolare asprezza, nel 1943.
Indagare questo nodo da un osservatorio locale pone un problema di fonti che devono essere adeguatamente dettagliate per poter restituire il peculiare clima di crisi sociale e politica. In tal senso ho privilegiato la documentazione degli archivi locali ed in particolare quella dell’Archivio comunale di Napoli. Essa mi sembra possa essere un’efficace lente di ingrandimento nella quotidiana vicenda del conflitto dal punto di vista di una burocrazia periferica: prefetto, podestà, ufficiale sanitario, direttore degli uffici comunali, capiricovero, assistenti sanitarie e altri ancora. L’emergenza si sfaccetta in tanti piccoli episodi, piccole storie che ci restituiscono il livello di separatezza tra società e organizzazione statuale, la cui burocrazia è identificata con quella del Pnf, che finisce con l’essere accomunato nel medesimo giudizio negativo. Quest’ultimo elemento è importante per dar corpo al senso di estraneità/ostilità verso lo stato fascista a cui si accennava in precedenza. Esso maturava proprio a partire dalla
20 Mi sono soffermata sulle diverse forme di conflitto sociale presente nella classe operaia e più in generale nei ceti popolari nel saggio Napoli: questione urbana e lotte sociali, in G. Chianese, Guido Crainz, Gabriella Gribau- di, Marco Da Vela, Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazione sociale, Milano, Angeli, 1985, in particolare pp. 74-100.21 Mi riferisco al saggio di G. De Luna, A Torino durante la guerra, cit.2" Sull’esperienza della guerra in America fondamentale il saggio di Paul Fussell, Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e cultura nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1991.
Napoli nella seconda guerra mondiale 351
quotidiana vicenda di inefficienza e corruzione dello “stato vicino” . Più a lungo resisteva il mito del duce destinato, però, a crollare nel momento in cui si dispiegava pienamente il processo di disgregazione del fronte interno e il mito del re, inteso come autorità protettrice, sostituiva quello di Mussolini23.
Se sul piano della percezione ceto politico fascista e burocrazia statale periferica erano accomunati, ciò non avveniva in concreto perché numerosi erano i contrasti e frequente lo scarico di responsabilità tra i due ambiti. Ad esempio, sulle gravi inefficienze del Comune intervenivano di volta in volta i responsabili delle singole direzioni, che spesso entravano in conflitto tra di loro, e poi il podestà, che tentava di difendere l’operato del Comune dalle critiche di prefetto e questore, e poi, ancora, i segretari della federazione ed i responsabili dei gruppi rionali fascisti, che si atteggiavano sempre a difensori di coloro che avanzavano lamentele e proteste. Quest’ultimo dato va letto, a mio avviso, all’interno di un tentativo di estrema mediazione con la società che rimanda al problema del ruolo del Pnf su cui si avrà modo di tornare più avanti. Ho preso in esame due esempi che possono essere significativi del rapporto tra “stato vicino” e società: il primo riguarda il funzionamento del tesseramento annonario, il secondo alcuni aspetti della vita nei ricoveri.
Conviene iniziare da una questione solo apparentemente secondaria, vale a dire il cattivo funzionamento della distribuzione delle carte annonarie che interagiva con il più generale problema del razionamento. Fin dall’inizio esso subì ritardi e rallentamenti sia per l’organizzazione di per sé far
raginosa sia per la crescente corruzione che alimentava, già nel 1941, un fiorente mercato nero delle tessere. Il servizio, affidato alle due direzioni comunali dell’annona e dei servizi demografici, fu organizzato con difficoltà ed in un primo tempo la distribuzione fu effettuata da una ditta privata, il cui appalto venne poi sospeso per gravi irregolarità24. Il malcontento contro la corruzione era diffuso, ma nel medesimo tempo vi era il tentativo, un po’ da parte di tutti, di accaparrarsi quante più tessere fosse possibile: gli sfollati ad esempio mantenevano le carte annonarie napoletane e le famiglie dei richiamati continuavano ad usare quelle dei figli e dei mariti al fronte. Il disagio si manifestava anche nel ricorso a esposti anonimi inviati all’autorità superiore. Era il caso di una lettera indirizzata al ministro dell’Interno nel maggio 1941, che denunciava la complicità del comune nei furti di tessere, lamentava il caos provocato dal rilascio di migliaia di duplicati e concludeva con un significativo richiamo alla prima guerra mondiale:
Le tessere vengono cedute non so per quale compenso ad accaparratori e sfruttatori dell’economia pubblica [...] Nella Grande Guerra 1915- 1918 si ovviò a tale disonestà con un libretto intestato col nome ed il numero delle persone e con tanti buoni sufficienti per ogni genere di 12 mesi.
La risposta del podestà Orgera, a cui il prefetto aveva chiesto giustificazioni, rivelava un forte imbarazzo celato dietro la cavillosità del linguaggio burocratico25. Allo stesso Orgera era inviato, nel settembre 1941, un secondo esposto anonimo che denunciava imbrogli nella distribuzione delle tessere:
Su questo problema assai utili le osservazioni di Angelo Imbriani in “L’immagine dello stato e della politica a Napoli”, relazione al convegno “1943. La scelta, la lotta, la speranza” (Napoli, 29-30 settembre e 1° ott. 1993).‘4 Circolare del podestà al prefetto, 28 ottobre 1941, in AC Napoli, cat. XI, cl. 12, fase. Tesseramento annonario.
Esposto anonimo al podestà e nota di risposta di Giovanni Orgera al prefetto, 19 maggio 1941, loc. cit. a nota 24.
352 Gloria Chianese
In più di una famiglia si sente dire che hanno delle tessere in più, chi perché appartiene ad un impiegato comunale, chi per imbroglio ha ricevuto due volte la tessera sempre con lo stesso cognome. Ci sono famiglie che hanno ricevuto la tessera dei militari in zona di guerra26.
In realtà i casi di illegalità erano innumerevoli ed avvenivano anche con la complicità del personale comunale. In una relazione del podestà del dicembre 1941 si menzionavano due casi di furto a cui avevano collaborato alcuni impiegati avventizi. Il mese successivo veniva scoperto un traffico clandestino di tessere nel quale era implicato un avventizio, assunto “benché fosse pregiudicato per reati contro il patrimonio”27.
Il malcontento della popolazione poteva tradursi in aperte manifestazioni di insofferenza e creare quindi problemi di ordine pubblico. È quanto avvenne non nel 1943, bensì nel dicembre 1941, quando l’enorme folla, che attendeva in fila la distribuzione delle tessere, sfondò la porta d’accesso agli uffici. Il questore, nella nota al podestà, si diceva convinto che gli incidenti si sarebbero ripetuti e raccomandava di tener conto “dello stato di esasperazione della popolazione e della necessità degli agenti di usare il maggior tatto possibile per non acuire maggiormente tale giustificato stato d’animo”28. E di problemi di ordine pubblico parlava anche l’ufficiale sanitario per difendersi dalle lamentele del prefetto, il quale criticava il numero eccessivo di certificati medici rilasciati dal comune che consentivano di ottenere le carte annonarie per razioni supplementari29.
L’inefficienza e la corruzione dell’amministrazione comunale risalivano per lo meno al 1941 e non possono quindi essere conside
rati conseguenza del caos amministrativo verificatosi nell’ultima fase del conflitto. Certo le carenze tendevano ad aggravarsi. Nel 1942 negli uffici mancavano le macchine da scrivere ed in seguito sarebbero scarseggiate le stesse sedie per il personale. Talora, per giustificare l’inefficienza dei servizi comunali, si ricorreva a spiegazioni che facevano appello a luoghi comuni come la figura della giovane impiegata donna che non aveva voglia di lavorare. In una nota del prefetto al podestà nel maggio del 1942 si legge:Attendono al lavoro numerosissime donne senza alcuna diretta vigilanza. Esse sono prevalentemente di giovane età, siedono in parecchie presso tavoli collocati vicini, dove ciarlano fra di loro continuamente, c’è chi si alza e va in giro, chi mangia, chi si trattiene in conversari, dall’apparenza faceti e piacevoli, con uscieri ed altri impiegati30.
In ogni caso inefficienza e corruzione si manifestavano su un terreno che sarebbe stato meno arduo affrontare rispetto ad altre drammatiche questioni cittadine. Si pensi al mercato nero dei generi alimentari: l’entità dei problemi di produzione, distribuzione e lotta ai circuiti illegali era talmente impari rispetto alle reali possibilità d’intervento dell’amministrazione comunale che gli “spacci di paragone” da essa istituiti ebbero sin dall’inizio effetti irrisori. Nel caso invece della distribuzione delle tessere sarebbe stato forse più semplice dare un esempio di “buon governo” consolidando il legame con la società civile. Anche questo non accadde e ciò rimanda al ruolo ed alla configurazione della burocrazia locale. Con la guerra si appannava l’immagine del funzionario onesto di tradizione umbertina e ciò a livello sia di quadri direttivi che intermedi. Influiva forse
26 Esposto anonimo al podestà, 9 settembre 1941, loc. cit. a nota 24.27 Relazione del podestà sul tesseramento, 3 dicembre 1941, loc. cit. a nota 24.28 Riservata del podestà al direttore dell’Ufficio servizi demografici, 2 gennaio 1942, loc. cit. a nota 24.29 Nota del direttore dell’Ufficio Igiene al podestà, 5 gennaio 1942, loc. cit. a nota 24.30 Riservata del prefetto al podestà, 29 maggio 1942, loc. cit. a nota 24.
Napoli nella seconda guerra mondiale 353
anche l’ampia presenza del personale avventizio, che continuava ad essere assunto anche durante la guerra dimostrandosi assai poco controllabile. Il “buon governo” finiva così con il diventare soltanto un’immagine propagandistica veicolata dalla stampa di regime. “Napoli Rivista Municipale”, bollettino del comune, nel settembre 1942 quando, come si è visto, i livelli di inefficienza si erano ulteriormente aggravati, dedicava un lungo articolo ai servizi annonari, tentando di dimostrare come, dopo una fase iniziale di caos, la distribuzione procedesse in maniera regolare. Il supporto di quattro fotografie, che sottolineavano la pulizia e l’ordine delle sale degli uffici, avrebbero dovuto contribuire a rendere più persuasivo il messaggio, puntualmente smentito dagli eventi31.
Bombardamenti e vita nei ricoveri
Con il secondo esempio, che investe la vita nei ricoveri e le capacità d’organizzazione delle istituzioni cittadine in tale traumatica esperienza, si entra nel pieno della crisi del fronte interno. La guerra con il suo scenario di morte e distruzione invadeva il quotidiano. Ma i morti civili erano più difficili da accettare dei caduti in guerra, a cui in qualche modo aveva abituato la memoria della prima guerra mondiale e le più vicine campagne coloniali. Per Napoli la cronistoria dei bombardamenti è stata ricostruita sul finire degli anni sessanta da Aldo Stefanile32. La città fu bombardata massicciamente ed il ritmo delle incursioni seguì l’andamento delle operazioni belliche. Esse furono poche,
ma rovinose, nel 1940-1941 crebbero con l’intensificarsi del conflitto in Africa settentrionale e furono particolarmente frequenti, intense e devastatrici nel 1943. Dapprima i bombardamenti venivano effettuati di notte ed erano diretti su obiettivi militari ed aree industriali, ma, a partire dall’incursione del 4 dicembre 1942, diventarono con sempre maggior frequenza diurni ed indirizzati verso obiettivi civili secondo quanto previsto dalla strategia propria della guerra psicologica. In questo l’esperienza napoletana non mi sembra diversa da quanto avvenne in altre grandi città italiane; essa ripropone una caratteristica comune all’intero paese, in cui la vicenda dei bombardamenti contribuì in misura decisiva ad infrangere la credibilità del fascismo. La scelta dei bombardamenti a tappeto era mirata a far crollare il sistema città ritenuto particolarmente vulnerabile proprio a causa della sua complessità. In realtà, come ha osservato Josef Konvitz33, gli abitanti delle città dimostrarono capacità di adattamento e risorse assai maggiori del previsto. Il problema diventa semmai cercare di capire attraverso quali strategie individuali e di gruppo fu possibile sopravvivere fisicamente e psicologicamente a tale catastrofe.
In una prima fase i lunghi intervalli tra gli allarmi e le incursioni prolungavano le soste, ma venivano vissuti senza particolare tragicità, come una sorta di intermezzo in cui tendevano ad essere esaltati gli aspetti comunitari. In seguito l’esperienza si fece sempre più traumatica: il sovraffollamento, la carenza d’aria, le esalazioni di gas, il panico diventavano la norma soprattutto quando i bombardamenti ostruivano le uscite dei rifugi e si moriva per soffocamento. In ogni ca
31 Cfr. Iservizi di tesseramento annonario, “Napoli Rivista Municipale”, settembre 1942, pp. CL-CLII.32 Cfr. Aldo Stefanile / cento bombardamenti di Napoli. I giorni delle am-lire, Napoli, Marotta, 1968. Riferimenti vi sono anche in G. Bonacina, Obiettivo: Italia. I bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Milano, Mursia, 1970.33 Cfr. Josef Konvitz, Contesti urbani, reazioni psicologiche di massa e bombardamenti strategici (1914-1945) “Storia e problemi contemporanei”, 1992, n. 9.
354 Gloria Chianese
so le istituzioni non c’erano. Lo “stato vicino” si rivelava inadeguato su entrambi i piani della difesa militare e della protezione civile. Talvolta addirittura non scattarono gli allarmi. I ricoveri si rivelarono poco sicuri, ma, nonostante ciò, presero ad essere abitati in permanenza.
Conviene seguire tutto il percorso attraverso cui tale esperienza assunse un ruolo prioritario nella disgregazione del fronte interno. L’allestimento dei rifugi era stato nella fase di mobilitazione civile un elemento importante del tentativo operato dal regime di rassicurare la popolazione, dimostrando come le misure di protezione venissero effettuate scrupolosamente ed in tempo utile. Così commenta un testimone nelle pagine del suo diario:L’entrata in guerra doveva essere il coronamento della lunga messa a punto di una macchina: da sembrare, dopo tanti preparativi, di poter partire quasi con sollievo per un viaggio senza sorprese34.
A partire dall’agosto del 1939 ogni palazzo doveva avere il proprio ridovero, mentre l’allestimento dei rifugi pubblici procedeva lentamente. Il problema del superaffollamento veniva rilevato già nel novembre 1940, in particolare nel centro storico35. Nell’agosto del 1941 il prefetto istituiva un servizio di assistenza medica a cui avrebbero dovuto provvedere 18 medici designati dal sindacato corporativo36. Ma già nel novembre dello stesso anno si verificarono disguidi ed inadempienze segnalate dal direttore del- l’Unpa (Unione nazionale protezione antiaerea) al podestà37; con l’intensificarsi dei
bombardamenti medici ed infermieri tendevano a scarseggiare ed in realtà l’assistenza sanitaria veniva a cessare38.
I ricoveri erano affollati, scarsamente attrezzati e soprattutto fin dai primi mesi del conflitto si verificarono problemi di ordine pubblico. Si trattava per lo più di furti e di episodi di intolleranza che avvenivano durante le lunghe ore di permanenza. In questa fase, però, era ancora consuetudine rivolgersi all’autorità legittima — prefetto, questore, direttore Unpa — per avere in qualche modo giustizia. Un esempio è costituito dall’esposto inviato all’Unpa nel gennaio 1941 da un gruppo di proprietari ed inquilini di un palazzo residenziale di S. Lucia. Si protestava perché nel ricovero, dove confluivano anche molte persone provenienti dalla popolare zona del Pallonetto
alcuni brutti figuri [...] con apprezzamenti insidiosi e provocatori non mancano di generare turpiloqui e panico. Vero è che il ricovero è pubblico ma non per questo la condotta di taluni deve turbare la quiete di quelli, fra cui donne e bambini, che in tutta rassegnazione e con i nervi tesi sono lì a pazientare.
L’esposto, in cui erano evidenti anche motivi di contrapposizione sociale, perveniva al podestà, che faceva proprie le ragioni dei firmatari e sollecitava, a sua volta, l’intervento del questore affinché
in uno dei prossimi allarmi sia subito inviato sul posto qualche agente che possa, accertando il grave inconveniente, procedere al fermo dei disturbatori per i necessari provvedimenti di rigore,
34 Diario di Vincenzo Frediani, in Archivio dell’Isr Napoli, Piccoli fondi, Carte V. Frediani, b. I. Il documento mi è stato segnalato dalla professoressa Laura Albarella. Redatto nel 1963, esso rivisita gli eventi della città dal maggio all’ottobre 1943.35 Nota dell’amministratore dell’Unione costruttori meridionali al podestà, 6 novembre 1940, in AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase., Vigilanza.36 Fonogramma del podestà al presidente al Comitato provinciale Cri, 5 agosto 1941, in AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Sanitari addetti ricoveri pubblici.37 Rapporto del dirigente protezione antiaerea al podestà, 6 novembre 1940, loc. cit. a nota 36.38 Rapporti dei capiricovero del corso Garibaldi e galleria IX maggio, 1° aprile 1943, loc. cit. a nota 36.
Napoli nella seconda guerra mondiale 355
per dare un esempio che valga di monito ai malintenzionati39.
Anche su questo terreno la situazione tendeva a peggiorare drasticamente tra la fine del 1942 e il 1943, come segnalavano i resoconti dei capiricovero ai podestà ed ai gruppi rionali fascisti40. In realtà la funzione dei ricoveri era di per sé mutata. Era avvenuto lo sfollamento; con l’intensificarsi dei bombardamenti — in particolare dopo l’incursione del 4 dicembre del 1942 che aveva causato 159 morti — esso si era trasformato in un vero e proprio esodo, mitigato parzialmente dal pendolarismo di una parte della popolazione che, durante il giorno, continuava a venire in città per lavorare. Soltanto le fasce più povere ed emarginate presero a vivere in permanenza nei tunnel cittadini e nella fitta rete di grotte sotterranee e di fatto ne diventarono i'padroni.
Si considerino inoltre le condizioni di estrema precarietà dei rifugi. Mancava l’illuminazione perché le lampadine venivano sistematicamente rubate e né il comune, né l’Unpa erano in grado di reperirne di nuove41; inoltre le condizioni igieniche erano talmente gravi da minacciare pericoli di epidemie42. Di fatto qualsiasi forma di presenza dello Stato, repressiva o assistenziale, era venuta a mancare.
All’agosto del 1943 risalgono alcuni elenchi di sinistrati, redatti dalle assistenti sanitarie visitatrici, che consentono di avere qualche ulteriore elemento di analisi43. So
prattutto nei ricoveri più grandi i “residenti” provenivano ormai da tutti i quartieri cittadini e, talora, dalla provincia. Moltissimi, ma non tutti, erano senzatetto; alcuni rifiutavano di dare il proprio indirizzo, altri accettavano di andar via, purché venisse garantito lo sfollamento verso le città campane o anche nelle regioni limitrofe. Questo tipo di situazione procedeva autonomamente rispetto alla scansione degli eventi politici. Ancora nel dicembre 1943 — e cioè dopo l’8 settembre, le Quattro giornate e durante l’occupazione angloamericana — i ricoveri di più ampie dimensioni risultavano abitati in permanenza da sinistrati che avevano costruito delle baracche per ogni singola famiglia e praticavano il mercato nero44.
Un clima un po’ diverso sembra delinearsi se si prende in esame un momento, per così dire, atipico della vita nei ricoveri e cioè le numerose esperienze di parto che si verifica- vano durante le incursioni. Nel campione di 15 casi che è stato possibile reperire non si avverte l’atmosfera di intenso degrado a cui si è accennato in precedenza, nonostante il contesto temporale sia il medesimo45. Anche in questo caso in primo luogo c’è un problema di linguaggio. I rapporti, redatti quasi sempre dai capiricovero, mettevano in evidenza come i parti si concludessero felicemente, sottolineavano l’apporto dei medici e delle ostetriche ed enfatizzavano il clima di attesa e di solidarietà che si creava intorno alle donne. Prendiamo il caso di A.F.:
39 Nota del podestà al questore con allegato esposto, 1° gennaio 1941, in AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Vigilanza.40 Rapporti dei capiricovero di via Chiatamone, via Carafa, via Foria, 9 e 30 gennaio, 2 e 4 febbraio 1943, loc. cit. a nota 39.41 AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Illuminazione. Acqua (la documentazione dell’intero fascicolo copre il periodo dal luglio 1942 al dicembre 1943).4~ AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Igiene (la documentazione comprende il periodo dal novembre al dicembre 1943).43 Elenchi di sinistrati dei ricoveri tunnel Vittoria, metropolitana Montesanto, salita Petraio, agosto 1943, loc. cit. a nota 42.44 Relazioni assistenti sanitarie visitatrici, 18 e 30 dicembre 1943, loc. cit. a nota 42.45 AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antialrea. Ricoveri pubblici, s. fase. Varie (i rapporti dei capiricovero sui parti sono compresi nel periodo aprile-agosto 1943).
356 Gloria Chianese
[Ella] ha dato felicemente alla luce una florida bambina a cui sarà imposto il nome di Italia Vittoria Emanuele. La puerpera è stata amorevolmente assistita dal dottore [...] di servizio e dalla levatrice [...] che si trovava nel ricovero [...] Il pubblico che era nel ricovero ha seguito con vivo interessamento il lieto evento, tanto che la signora [...] ha offerto spontaneamente alla puerpera vitto speciale e riscaldamento ed ha messo alla porta un grande nastro con un cartello sul quale è scritto il nome della neonata.
Il rapporto è molto dettagliato, ci fa sapere che il padre della bambina era un operaio della fabbrica La Precisa ed anche che era iscritto al Pnf dal 1935; delle donna invece nessuna informazione se non la data di nascita46. I capiricovero avevano probabilmente interesse a sottolineare una qualche residua efficienza dei rifugi, ma c’è anche da considerare un altro aspetto. La nascita di un bambino costituiva un raro momento finalmente non riconducibile alla quotidiana esperienza di morte e distruzione. Peraltro non sappiamo niente delle concrete modalità del parto perché le fonti tacciono su questi aspetti. Altre, come ad esempio le relazioni dei sanitari, ci dicono qualcosa di più; è il caso di ben tre donne che nel ricovero di Via Foria partorirono, nel gennaio 1943, senza l’aiuto dell’ostetrica47.
In conclusione, lo sguardo ravvicinato che consente la documentazione dell’archivio comunale consente di comprendere in maniera assai più analitica la dimensione di “guerra totale” che coinvolge i civili attraverso l’esperienza dei bombardamenti e dei
ricoveri e l’assenza dello “stato vicino”. Anche in questo caso però è importante seguir l’intero percorso e non soltanto la fase conclusiva, su cui in prevalenza si è soffermata l’attenzione di quanti hanno ricostruito la cronaca del conflitto48. Riproporrei quindi come elementi di riflessione innanzitutto la considerazione che l’allestimento dei rifugi nella fase iniziale di mobilitazione civile acquisiva soprattutto un carattere simbolico, per cui essi avevano una funzione di rassicurazione contro pericoli considerati ancora lontani. Risulta inoltre evidente che le carenze e i disguidi condizionavano la vita dei rifugi già dal 1941 ed alimentavano la conflittualità sociale mettendo in evidenza i limiti dell’organizzazione statuale fascista senza però destrutturarla. Infine si può constatare che con “l’intensificarsi dei bombardamenti e lo sfollamento generale” i ricoveri si trasformarono in luoghi di residenza delle fasce di popolazione più emarginata, anche dopo la fine dell’emergenza-incursioni.
Il tema della vita nei rifugi è affrontato con modalità diverse in altri tipi di documentazione. Nelle relazioni della questura è meno presente di altri problemi cittadini come ad esempio il tesseramento o il mercato nero. Cenni più estesi si trovano nella relazione del dicembre 1942, in cui si ribadisce come i ricoveri siano di fatto abitati in permanenza con il conseguente pericolo di epidemie49. I quotidiani ne parlano soprattutto nei primi mesi del conflitto per dare norme minuziose sul modo di sostarvi50. “Napoli Rivista Municipale” non se ne occupa, men-
46 Rapporto capiricovero Vico Forno, 19 aprile 1943, loc. cit. a nota 45.47 Relazione del sanitario sul ricovero di via Foria, 30 gennaio 1943, loc. cit. e nota 39.48 Cfr. A. Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli, cit.; Sergio Lambiase, Gian Battista Nazzaro, Napoli 1940- 1945, Milano, Longanesi, 1978.49 Relazione trimestrale sulla situazione politica ed economica della provincia di Napoli, in ACS, Agr., 1930- 1955, cat. KI-BI5, b. 16A, ora in Luigi Cortesi, Giovanna Percopo, Patrizia Salvetti (a cura di), La Campania da! fascismo alla Repubblica. Società, politica, cultura, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1977, Vol. I, p. 207.50 Cfr. Come si deve stare nei rifugi. Norme, consigli, insegnamenti per difendere il morale e il fisico, “Corriere di Napoli”, 5 novembre 1940.
Napoli nella seconda guerra mondiale 357
tre invece si sofferma sulla visita del re ai feriti dei bombardamenti nel luglio 1941, elogiando un presunto “altissimo spirito guerriero” della popolazione51.
Ceto dirigente e fascismo
Nell’analisi del rapporto tra città e “stato vicino” grande importanza assume la configurazione del personale politico fascista. Si è già osservato in precedenza come vi fosse una forte identificazione tra Pnf e burocrazia statale che si accrebbe ancor di più durante gli anni di guerra. Segretario della federazione napoletana fu, dal 1940 ai primi mesi del 1943, Fabio Milone proveniente dai Guf. Il 1943 fu un anno convulso e si susseguirono gli avvicendamenti dei federali. Dapprima fu insediato Domenico Pellegrino Giampietro, che, di lì a poco, sarebbe stato nominato ministro delle Finanze della Rsi, ad esso subentrò Francesco Siniscalchi e poi, ancora, Domenico Tilena, il quale, dopo l’armistizio dell’8 settembre, collaborò attivamente con i nazisti52. Più stabile, invece, l’amministrazione podestarile che fu retta da Giovanni Orgera per l’intero periodo 1936-1943. La sua designazione era avvenuta dopo quattro anni di gestione straordinaria nel quadro di un generale ricambio del personale politico napoletano. Questa fase del governo locale coincise con il già menzionato ritorno sulla scena politica di Vincenzo Tecchio e con la realizzazione di alcu
ni importanti provvedimenti, quali l’approvazione del piano regolatore e la costruzione della Mostra d’Oltremare.
Il 5 agosto 1943 Orgera fu sostituito dal commissario straordinario Giuseppe Soli- mena; il primo aderì alla Rsi, e ricoprì la carica di governator della Banca d’Italia in sostituzione di Azzolini53. Infine, i prefetti degli anni di guerra furono Francesco Benigni, a cui subentrò il più “fascista” Umberto Albini e poi, ancora, nel febbraio 1943, Marcello Vaccari, sostituito, a sua volta, dopo il 25 luglio, dal viceprefetto Domenico Soprano.
Questi cenni sugli organigrammi locali sono ovviamente da collocare nel contesto delle strategie d’intervento di volta in volta promosse da podestà, prefetto e Pnf. Il discorso è appena avviato soprattutto per quanto riguarda gli ultimi due. Sull’organizzazione fascista napoletana è comunque possibile fare qualche considerazione. Mi sembra cioè che essa gestì in proprio l’organizzazione della mobilitazione civile, mentre invece accentuò l’intreccio con l’amministrazione podestarile nel campo dell’assistenza. Il Pnf diresse le molteplici iniziative che accompagnarono la non belligeranza e l’inizio del conflitto: “settimane del metallo” , “orti di guerra”, “campagne per la raccolta della lana”, ecc. Promotori furono i gruppi rionali fascisti, il dopolavoro provinciale, la Gii, i Fasci femminili54. L’attività non declinava negli anni successivi: nel marzo 1941 furono organizzate dai gruppi rio-
51 Cfr. Sua Maestà il Re Imperatore visita i feriti delle incursioni nemiche, “Napoli Rivista Municipale”, luglio 1941, pp. CXL-CXLII.52 Per la ricostruzione degli organigrammi locali rimane utile la minuziosa ricerca di Alfonso Scirocco, Politica ed amministrazione a Napoli nella vita unitaria, Napoli, Esi, 1972, pp. 185-228. Un profilo di Domenico Pellegrini è in Angelo Norelli, Il ministro Domenico Pellegrini Giampietro nel tramonto del fascismo, Napoli, Fratelli Conte Editori, 1992, in cui si riporta anche la documentazione relativa alla polemica giudiziaria che oppose, negli anni 1978-1980, il figlio del Pellegrini al giornalista Giorgio Bocca, accusato di diffamazione.53 Per un profilo di G. Orgera cfr. Francesco D ’Ascoli, Michele D’Avino, Isindaci di Napoli, Napoli, Misa Editore, 1974, pp. 291-300.54 Cfr. “Orti di guerra. Raccolta della lana. Trebbiatura in p.zza Plebiscito. Auto a gasogeno. Assistenza ai militari”, in ICSR Napoli, archivio fotografico Pasquale Schiano.
358 Gloria Chianese
nali 21 conferenze sugli obiettivi di guerra55. Nel campo assistenziale invece la presenza fascista era rinsaldata dalla collaborazione alle iniziative promosse dal comune, il cui merito finiva così per essere largamente attribuito alla fitta rete di organizzazioni territoriali e di settore del Pnf. Un primo esempio è dato dalla campagna promossa, tra il 1941 e il 1942, per la refezione scolastica e l’assistenza sanitaria ai circa cinquemila bambini degli asili comunali. Si trattava, per la maggior parte, di figli di famiglie iscritte nell’elenco dei poveri o, in misura assai minore, di figli di richiamati. Promotori furono, oltre alla Direzione comunale della cultura, i gruppi rionali fascisti che fornivano vestiario, materiale didattico, nonché assistenza sanitaria nei propri ambulatori56. Un secondo esempio rimanda all’attività dell’E- ca, che durante il conflitto segnò una qualche presenza. Alle famiglie bisognose, che avevano avuto morti in guerra, veniva assegnato un contributo, operando peraltro una distinzione tra ufficiali e soldati. Ho avuto modo di analizzare un campione di 19 lettere, scritte dai familiari di militari morti, nel periodo compreso tra il giugno 1941 e l’ottobre 194257, al podestà Orgera che presiedeva l’Eca. La documentazione non ha carattere privato. Mogli, madri e, più raramente, padri si rivolgevano all’autorità descrivendo una condizione di indigenza aggravata in primo luogo dal richiamo alle armi dei congiunti e poi dalla loro morte. I caduti erano
giovani operai, camerieri, panettieri, netturbini, quasi tutti soldati impegnati sul fronte greco-albanese, anche se non manca qualche esempio di militare di carriera. Spesso da civili erano stati sostegno di famiglia e talora avevano continuato ad esserlo attraverso il sussidio militare. Le lettere ci offrono uno squarcio significativo sul vissuto di guerra: nella famiglia povera la morte di un familiare al fronte aggravava, ma non determinava lo stato di indigenza. Allora ci si rivolgeva all’Eca per avere un qualche aiuto ed anche in questo caso istituzione statale e struttura fascista si sovrapponevano. Molte lettere giungevano attraverso la mediazione dei responsabili dei gruppi rionali o, più raramente, dei gerarchi della federazione.
In conclusione, credo ci sia ancora molto da approfondire sul ruolo del Pnf, a partire dall’analisi e dalla comparazione dei percorsi biografici dei funzionari locali di maggiore rilievo. Un certo ampliamento delle sue funzioni58, che sembra delinearsi anche nel caso napoletano, rimanda all’analisi del personale fascista presente nelle strutture collaterali di partito. Tale segmento di burocrazia sembra configurarsi diversamente dal personale di tradizione liberale, così come ha sottolineato di recente Mariuccia Salvati59. Nel medesimo tempo il Pnf è recepito come parte di quello “stato vicino” verso il quale prevalgono sentimenti di estraneità e poi di ostilità. Questo aspetto del problema
55 Le ragioni della guerra illustrate da ventuno personalità del partito, “Napoli rivista municipale”, marzo 1941, pp. LVII-LIX.56 Relazione “Le scuole materne del comune di Napoli”, luglio 1941, in AC Napoli, cat. XV, fase. 3 e “Relazione di Gina Coccoli”, 1952, ivi, fase. 1. Cfr. anche La refezione scolastica a 42.000 bambini delle scuole, “Napoli rivista municipale”, novembre-dicembre 1941, p. CCXXVII.57 AC Napoli, cat. XIV, cl. 1, fase. Assistenza Eca famiglie caduti.58 La crescita del Pnf come struttura burocratico-amministrativa è stata sottolineata da Dario Mattiussi che ha preso in esame il caso triestino. In tale processo l’Eca acquista un ruolo importante che tende, però, a ridimensionarsi durante il conflitto. Cfr. D. Mattiussi, Il Pnf a Trieste 1938-43: la fine del partito? La crisi del partito come organismo burocratico amministrativo, e anche Tullia Catalan, Fascismo e politica assistenziale a Trieste. Fondazione e attività dell’Ente comunale di assistenza (1937-1943), in Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra, cit.59 Cfr. Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, Roma-Bari, Laterza, 1992.
Napoli nella seconda guerra mondiale 359
attende ancora di essere indagato e rimanda alla fase conclusiva del conflitto, alle modalità del crollo del fronte interno che nel caso napoletano mette in crisi l’autorevolezza e la credibilità del regime fascista, ma non quelle della monarchia. Dopo il 25 luglio e l’8 settembre maturano nuovi processi ed il nesso tra dinamiche nazionali e locali si fa più forte. La fine del fascismo e poi del conflitto sembrano dare uno sbocco a sentimenti da tempo assai profondi come l’avversione al regime e l’odio contro la guerra. Il farsi nemico dei tedeschi, gli eccidi e le violenze che si moltiplicano nel Napoletano, nel Casertano e nell’intera regione paradossalmente favoriscono il riappropriarsi di un’identità collettiva che si esprime in molteplici episodi di rivolta. La città vive un momento di cesura con il proprio passato. È la storia delle Quattro giornate: un esempio importante di lotta antinazista ed antifascista che, però, finirà per incidere debolmente nella successiva, lunga vicenda dell’occupazione angloamericana. Si apre comunque una fase nuova e diversa, che rimanda alla transizione tra dopoguerra e stato repubblicano.
Altri temi di ricerca
Il tema città/guerra è evidentemente molto complesso. Come ho già sottolineato all’inizio di queste note, la mia analisi privilegia il rapporto con lo “stato vicino”, ma possono esservi altre prospettive di ricerca. Se è vero che il governo locale si dimostra inefficiente fin dall’inizio del conflitto e perde qualsiasi capacità di gestione con il crollo del fronte interno, allora c’è da chiedersi at
traverso quali risorse e strategie, individui e famiglie riescano ad organizzare la loro sopravvivenza. Il sistema di relazioni familiari ed amicali acquista grande rilievo, ma nel medesimo tempo i rapporti di solidarietà sono messi a dura prova nella lotta feroce contro fame e morte. Un’indagine su tali ambiti è davvero difficile e pone il problema di ricercare fonti che privilegino l’ambito del quotidiano e del soggettivo. È il vasto campo delle fonti orali, dei diari, delle testimonianze coeve o “a distanza”, che, anche per il caso napoletano, cominciano ad essere utilizzate. Un esempio è costituito dalle memorie di donne e uomini campani redatte in occasione della trasmissione televisiva “La mia guerra”60. Si tratta di una peculiare forma di testimonianza perché il ricordo è rielaborato dopo molto tempo e ciò influenza l’organizzazione e la stratificazione della memoria. Peraltro la ricostruzione è sollecitata da uno stimolo occasionale che sopravviene, talora, dopo anni di rimozione e di difficile comunicazione con le generazioni più giovani. Uno dei testimoni, E.F., osserva che si tratta di narrare
vicende sepolte come non fossero mai accadute e che solo la memoria fruga tormentandosi, questa memoria che è sempre più amica della morte61.
Letta con la dovuta cautela la fonte si rivela quanto mai ricca. Molti testimoni all’epoca erano in una fascia d’età compresa tra l’infanzia e la prima adolescenza, sicché dai loro ricordi è possibile trarre un insieme di suggestioni che rimandano al grosso tema di come bambini e ragazzi vissero e recepirono l’esperienza della guerra. Ciò consente di vagliare in maniera critica alcuni stereotipi sul-
60 L’intero fondo è stato versato all’archivio dell’Insmli che ha cortesemente consentito all’Icsr di consultare sessan- tasei memorie di cittadini campani, di fotocopiarle e conservarle presso l’istituto. La collocazione citata nelle note successive è il risultato di una schedatura provvisoria dell’istituto campano. Sull’intero fondo utili le osservazioni di Rosella Prezzo (che ha analizzato alcune coordinate della memoria femminile), La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memoria e soggettività rammemorante. Il fondo “La mia guerra", “L’impegno”, 1993, n. 1.61 Testimonianza di E.F. (undici anni nel 1940), in ICSR Napoli, fondo “La mia guerra”, 9/U .
360 Gloria Chianese
l’infanzia che sono stati veicolati da certa produzione letteraria e cinematografica62.
È forse utile sottolineare alcuni elementi di osservazione. Le testimonianze lasciano intrawedere un processo di riorganizzazione della struttura familiare: nel clima di eccezionalità della guerra la figura della madre diventa centrale e spesso unica; per i ragazzi più grandi si moltiplicano responsabilità ed incombenze nei confronti dei numerosi fratelli più piccoli, laddove la donna capofamiglia è spesso assente per lavorare e per procacciarsi cibo. Il tema della fame ritorna di continuo. “La fame era più grande della paura”63. Tocca spesso ai ragazzi fare le lunghe file per ritirare i generi tesserati, ma talora sono proprio loro ad andare in giro per procurare qualcosa e possono spostarsi anche lontano. P.I. ha tredici anni e nell’estate del 1944 viene mandato in Basilicata a comprare farina, fagioli e ceci. Il viaggio di ritorno è costretto a farlo tutto a piedi ed alla fine si ammala anche di malaria64. Per mangiare si possono fare piccoli furti, per esempio a danno dei vicini. N.R. ricorda che una sera la madre — torna la centralità della figura materna — non riuscì a racimolare nient’altro che un pacco di sale. Il ragazzo, il più grande dei tre fratelli, decise allora di andare a rubare le patate che aveva visto seminare la stessa mattina negli orti limitrofi:
Rapidamente con l’aiuto del cucchiaio e con il cuore in gola per paura di essere scorto, dissotterrai tutto e riempii la borsa di questo semifracidume”65.
Per mangiare si può anche partecipare ai saccheggi con i tedeschi. Così racconta C.D.M.:
Io stesso durante uno di quei saccheggi dei tedeschi riuscii ad impossessarmi di alcuni pacchi di spaghetti”66.
G.M., sfollato a Frattamaggiore, accorre in una filanda che i nazisti hanno quasi del tutto incendiato e riesce a portare con sé quattro matassine di filo. Nel fuggire rischia di essere ucciso da un soldato tedesco, ma un commilitone riesce a deviare il fucile. Gli rimane il ricordo del tedesco buono-.Non mi resi subito conto del pericolo corso, poi ho rivissuto quel momento e, spesso, ancora oggi, torna alla mia mente il viso di quel giovane tedesco che aveva voluto risparmiare la vita di un ragazzo67.
Bombardamenti, ricoveri, sfollamento sono le esperienze intorno a cui si costruisce il ricordo di guerra. È molto precisa la memoria di alcuni bombardamenti come quello del 4 dicembre 1942 e del 4 agosto 1943 e, così pure, è nitido il ricordo dello scoppio, nel marzo 1943, della nave “Caterina Costa” con il suo terribile carico di benzina ed esplosivo. Il ricovero nella memoria acquista valenze diverse: nella medesima testimonianza esso può essere idealizzato e di lì a poco essere associato ad una situazione di disagio:La situazione che ancora oggi ricordo era di un amore reciproco tra tutti quelli che occupavano quel luogo umido ed oscuro. Si pregava ad alta voce mentre si sentivano i sibili delle bombe che cadevano [...] Nei ricoveri delle mani mi toccarono, avvenne una sola volta perché lo dissi subito a mia nonna che da allora mi tenne sempre vicino a lei. Ora mi rendo conto che simili cose avvenivano in luoghi di tanta paura ed angoscia68.
62 Cfr. le pagine sulla degradazione dell’infanzia di Curzio Malaparte, La pelle, Milano, Mondadori, 1978, nonché lo stereotipo dello scugnizzo nel film di Nanni Loy Le Quattro Giornate.63 Testimonianza di P.B. (undici anni nel 1940), loc. cit. a nota 6 1 ,2/U .64 Testimonianza di P.I. (dieci anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 11/U.65 Testimonianza di N.R. (non dichiara quanti anni aveva nel 1940), loc. cit. a nota 61, 26/U.66 Testimonianza Cd.M. (dodici anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 7/U .67 Testimonianza di G.M. (otto anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 16/U.68 Testimonianza di C.M. (cinque anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 19/U.
Napoli nella seconda guerra mondiale 361
Il rifugio è ancora un’altra cosa, è il luogo della paura che si dispiega in tutta la sua pienezza, oltre che durante le lunghe attese, nelle scene di panico che accompagnano l’entrata e l’uscita. Ad esempio V.R. ricorda quando tra la folla, che si accalcava sulle scale del ricovero di piazza Ottocalli, un uomo inciampò e cadde:I sopravvenienti, spinti soprattutto dal terrore, incespicarono a loro volta nei corpi di coloro che erano a terra e fu il finimondo. Ripresi conoscenza dopo alcuni giorni in una corsia degli Incurabili69.
Lo sfollamento è prima di tutto l’uscita dalla città — che nelle testimonianze viene identificata per lo più con i quartieri del centro storico — verso la provincia napoletana e l’entroterra campano. La fame continua, ma c’è maggiore tranquillità. La quotidianità rimane assai difficile, ma convive con attimi di serenità:Ora sfolliamo da Napoli ed andiamo ad Ercola- no, allora Resina. L’aria di questo posto è amena, abitiamo alle falde del Vesuvio, le ginestre in fiore spandono intorno il loro profumo da quel colle dove la sera vedo tornare i nostri aerei bimotori, caccia che si stagliano contro il sole al tramonto.II mare bellissimo è solcato da navi, cacciatorpe- dinieri e qualche incrociatore, vedo anche dei palloni frenati che difendono il porto di Napoli, di questa città sicuramente la più bella del mondo, con il suo golfo divino attorniato dall’isola di Capri a sud e dall’isola di Ischia a nord. Azzurro, celeste, rosa, lilla sono le tinte che predominano il Monte Vesuvio a guardia di tanta bellezza70.
Fascisti e tedeschi sono ben presenti nella memoria. Per i primi prevale l’immagine degli approfittatori che, utilizzando il loro status politico, imboscano il cibo e lo distribuiscono con criteri di favoritismo. S.G. scrive:
Ricordo un particolare molto importante: tutte quelle famiglie che avevano aderenze, amicizie presso il fascio e cioè i famosi gerarchi dell’epoca, avevano il privilegio di ricevere quasi sempre viveri, in genere scatolami, legumi, pasta, riso, ecc. Certamente ogni regola ha le sue eccezioni. Si dice a Napoli “Zompa chi può”71.E la fine della guerra, identificata nel ricordo con la fine del fascismo, viene vissuta anche come sopravvenuta impossibilità per i gerarchi, più o meno importanti, di continuare in tale malcostume:Finalmente, dopo circa tre anni di sofferenze e di angherie di certi fascisti, che ti sequestravano tutto con la scusa dell’ammasso, se ti beccavano, ti toglievano tutto, come è successo a me che mi tolsero una damigiana di 5 litri d’olio, tutto un lavoro distrutto, avvenne la notizia che la guerra era finita...72.
Il ricordo del fascista è sussunto nella figura dell’accaparratore. L’immagine del tedesco è invece a più dimensioni. Si possono avere rapporti di cameratismo e di amicizia con i soldati tedeschi. Sempre essi danno l’impressione di potenza:sembrano degli dei forti ed imbattibili [...] pensavo che andavano via e non mi faceva piacere, andavano via i nostri alleati, ora rimanevamo soli ad affrontare l’ignoto73.
Ma l’idea di forza è sempre congiunta a quella di crudeltà, a cui si contrappone lo stereotipo dell’italiano subalterno che, talora, però, può addirittura uscire vincente dal confronto:Quella scena la ricorderò per sempre: gli occhi azzurri del tedesco, gli occhi neri come la pece dell’italiano, gli uni pieni di disprezzo, occhi di un’altra razza, gli altri sbarrati, di una razza da sempre servile, ma che in quell’occasione vinsero per la lotta alla sopravvivenza74.
69 Testimonianza di V.R. (dieci anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 10/U.70 Testimonianza di C.M., cit.71 Testimonianza di S.G. (dieci anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 10/U.7“ Testimonianza di C.P. (dodici anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 11/U.
Testimonianza di M.A. (undici anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 1/U.Testimonianza di C.M., cit.
362 Gloria Chianese
Il ricordo dei tedeschi è associato agli eccidi compiuti dopo l’8 settembre: Nola, Mugliano, Miano. Per M.M. la memoria del massacro al Fondo Maranese filtra attraverso l’immagine dei genitori: il padre tranquillo a stendere noci e, poi, rapidissimo a scappare per l’imminente arrivo dei tedeschi, la madre che raccoglie tutti i figli e tiene testa ai nazisti.L’ultimo ufficiale si fermò con noi sul terrazzo. Era per me molto alto ed elegante. Aveva due scarpe nere e lucide che facevano da base a dei calzoni grigio-verde, ben stirati.
Dell’eccidio vero e proprio sono ricordati soltanto gli spari. Esso avvenne il 28 settembre 1943 in seguito alla delazione di una spia fascista e comportò l’uccisione di alcuni reduci calabresi e siciliani, rifugiatisi nella masseria, e di sei vecchi che non avevano fatto in tempo a scappare. La spia venne uccisa qualche giorno dopo dai partigiani e il ragazzo li ricorda mentre inducono la moglie di uno degli anziani massacrati ad infierire sul corpo del delatore:È stato lui, lui ha mandato i tedeschi, lui ha fatto uccidere Paolo, tuo marito, vendicati, sparagli ancora e le fornì una pistola che s’inceppò subito. La donna gridava sconvolta, prese una stanga di legno, colpì più volte l’uomo morto sulla testa ed a ogni colpo quel corpo sussultava75.
In definitiva a me sembra che queste testimonianze siano importanti su due piani: perché lasciano intravedere i mutamenti delle relazioni e dei ruoli familiari e le modalità attraverso cui nel ritmo quotidiano è inglobata la dimensione anomala della guerra; perché disegnano un mondo che, per quanto attraver
sato e stravolto dalle ripercussioni del conflitto, rimane altro da quello degli adulti sicché gli stessi fenomeni dei bombardamenti e della sottoalimentazione sono vissuti diversamente. Si coglie una sorta di straniamen- to, quasi un senso di meraviglia, che rende meno tragica la percezione del conflitto. Il tema della morte di rado compare, almeno in questo primo campione di testimonianze che ho esaminato; con forza si propone soltanto una volta e riguarda, non a caso, la morte di un compagno di giochi. C.F. si sofferma a lungo sull’amicizia che lo lega a Vittorio con cui condivide l’intera esperienza della guerra. La città distrutta fa da sfondo ai giochi dei due ragazzi ed alla loro quotidiana lotta per la sopravvivenza. Vittorio è ucciso mentre tenta di fuggire dopo un rastrellamento nazista. C.F. però focalizza nella memoria non il ricordo dell’amico morto, ma l’immagine di una lunga ed affannosa corsa in cui egli, per la prima volta, riesce a sentirsi superiore al compagno:Veloci veloci, Vittorio ed io puntavamo allo stesso traguardo, attraverso la piazza. Incredibile a dirsi, io ero più avanti di Vittorio. Due soldati tedeschi prima spararono in aria, poi ci rincorsero. Quando dall’angolo del bar “Van-Bol e Feste” arrivai ai Gradini, ero ancora in testa e neanche mi voltai per guardare se Vittorio era dietro di me, ché ne ero certo. Ma allorché giunsi a casa, Vittorio non era con me: ero incredulo, e tuttavia felice, di aver battuto per la prima volta Vittorio in una corsa. Mia madre continuava a chiedermi che cos’era accaduto, mentre io continuavo a pensare con orgoglio di aver superato Vittorio in velocità per la prima volta76.
Gloria Chianese
75 Testimonianza di M.M. (sei anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 14/U.76 Testimonianza di Cd.M., cit.
Gloria Chianese (Napoli 1952), docente di storia e filosofia, lavora presso l’Icsr come responsabile dei settori Archivio e Ricerca. Tra i suoi saggi Napoli: questione urbana e lotte sociali nel volume colletta- neo Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazioni sociali, Milano 1985, Sindacato e Mezzogiorno: la Camera del Lavoro di Napoli (1943-1947), Napoli 1987, Storia sociale della donna in Italia, Napoli 1981.