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Napoli nella seconda guerra mondiale Gloria Chianese Il saggio ripercorre la vicenda del secondo con- flitto mondiale nel contesto napoletano soffer- mandosi su alcuni nuclei tematici. In primo luo- go si cerca di analizzare il rapporto tra propa- ganda militarista, livelli di consenso alla guerra e modello di sviluppo della città. Emerge innan- zitutto un forte nesso tra i livelli di consenso al regime e alle guerre da esso volute e il modello di sviluppo economico della città, che aveva avuto nell’edilizia un ruolo trainante. Alla fine però la guerra comportò un blocco del settore, limitando l’attività ai lavori di costruzione e di manutenzione dei ricoveri, mentre ad essere po- tenziate furono le aziende metalmeccaniche e l’industria aeronautica. Si prende quindi in esa- me lo stereotipo “Napoli porto dell’Impero”, veicolato già a partire dalla guerra d’Etiopia: esso prospettava un ruolo colonialistico che si risolse, invece, in una grossa operazione di ri- strutturazione urbanistica, quale la Mostra d’Oltremare. In secondo luogo si focalizza l’attenzione sulla guerra “reale”. L’osservatorio prescelto è il rapporto tra diversi segmenti di popolazione e le istituzioni “vicine”, ossia la burocrazia peri- ferica, in cui si sovrapponevano personale del Pnf e funzionari statali. Nell’insieme la vicenda della guerra finì per ap- profondire l’estraneità tra lo stato autoritario e la società locale, investita da processi di disgre- gazione e frammentazione. L’avversione al re- gime e l’odio contro la guerra mettevano radi- calmente in crisi il già scarso sentimento d’iden- tità nazionale favorendo il perdurare di antichi miti come quello monarchico. The A. revisits the vicissitudes o f WWII in the neapolitan area, focusing on certain peculiar aspects, such as the relationship between war propaganda, popular consensus to war and pat- terns o f urban development. A clear light is thrown on the strong link existing between the levels of consensus to the regime and its wars and the pattern o f economic growth o f the city, which had found its spearhead in building hin- dustry. The war, however, resulted in a sharp decline o f this compartment, restricting its acti- vity to the construction and maintenance o f shelters, while stimulating aircraft and enginee- ring production. Special attention is devoted to the “Naples port o f the empire” sterotype, launched since the Ethiopian war, which clai- med a colonial role rather paradoxically resul- ting in a big urbanistic operation, the “Mostra d ’Oltremare” (Overseas Exhibition). Another privilegd observatory is offered by the relationship between different segments o f the population and such “closer” institutions as re- presented by peripheral burocracy, including both PNF and State officials. On the whole, the course of the war determined an increasing separatedness between the autho- ritarian State and local communities, invested by process o f disgregation and fragmentation. Distase fo r both the regime and the war literally undermined the already faltering sentiment of national identity, favouring the reviviscence o f old myths, such as monarchy. Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195

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Napoli nella seconda guerra mondiale

Gloria Chianese

Il saggio ripercorre la vicenda del secondo con­flitto mondiale nel contesto napoletano soffer­mandosi su alcuni nuclei tematici. In primo luo­go si cerca di analizzare il rapporto tra propa­ganda militarista, livelli di consenso alla guerra e modello di sviluppo della città. Emerge innan­zitutto un forte nesso tra i livelli di consenso al regime e alle guerre da esso volute e il modello di sviluppo economico della città, che aveva avuto nell’edilizia un ruolo trainante. Alla fine però la guerra comportò un blocco del settore, limitando l’attività ai lavori di costruzione e di manutenzione dei ricoveri, mentre ad essere po­tenziate furono le aziende metalmeccaniche e l’industria aeronautica. Si prende quindi in esa­me lo stereotipo “Napoli porto dell’Impero”, veicolato già a partire dalla guerra d’Etiopia: esso prospettava un ruolo colonialistico che si risolse, invece, in una grossa operazione di ri­strutturazione urbanistica, quale la Mostra d’Oltremare.In secondo luogo si focalizza l’attenzione sulla guerra “reale”. L’osservatorio prescelto è il rapporto tra diversi segmenti di popolazione e le istituzioni “vicine”, ossia la burocrazia peri­ferica, in cui si sovrapponevano personale del Pnf e funzionari statali.Nell’insieme la vicenda della guerra finì per ap­profondire l’estraneità tra lo stato autoritario e la società locale, investita da processi di disgre­gazione e frammentazione. L’avversione al re­gime e l’odio contro la guerra mettevano radi­calmente in crisi il già scarso sentimento d’iden­tità nazionale favorendo il perdurare di antichi miti come quello monarchico.

The A. revisits the vicissitudes o f WWII in the neapolitan area, focusing on certain peculiar aspects, such as the relationship between war propaganda, popular consensus to war and pat­terns o f urban development. A clear light is thrown on the strong link existing between the levels o f consensus to the regime and its wars and the pattern o f economic growth o f the city, which had found its spearhead in building hin- dustry. The war, however, resulted in a sharp decline o f this compartment, restricting its acti­vity to the construction and maintenance o f shelters, while stimulating aircraft and enginee­ring production. Special attention is devoted to the “Naples port o f the empire” sterotype, launched since the Ethiopian war, which clai­med a colonial role rather paradoxically resul­ting in a big urbanistic operation, the “Mostra d ’Oltremare” (Overseas Exhibition).Another privilegd observatory is offered by the relationship between different segments o f the population and such “closer” institutions as re­presented by peripheral burocracy, including both PNF and State officials.On the whole, the course o f the war determined an increasing separatedness between the autho­ritarian State and local communities, invested by process o f disgregation and fragmentation. Distase for both the regime and the war literally undermined the already faltering sentiment o f national identity, favouring the reviviscence o f old myths, such as monarchy.

Italia contemporanea”, giugno 1994, n. 195

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I temi della ricerca

La congiuntura della seconda guerra mon­diale a Napoli può essere indagata con due finalità: per riflettere sul rapporto istituzio­ni-economia-società nell’ambito di un pro­cesso che ha origine dal crollo del regime au­toritario e approda all’affermazione del lau- rismo negli anni cinquanta; per avviare una comparazione in senso diacronico tra l’even- to/catastrofe guerra ed altri momenti di crisi verticale della storia cittadina nell’ultimo se­colo: il colera del 1884, la crisi del primo do­poguerra, il colera del 1973, il terremoto del 1990, ecc. In questa sede prendo in esame soltanto il primo insieme di problemi, ri­mandando ad un ulteriore sviluppo delle in­dagini l’approfondimento del secondo piano d’analisi1.

La vicenda della guerra costituisce un os­servatorio per delineare i comportamenti e le scelte, collettivi ed individuali, in una fase in cui si infrangono i rapporti, già deboli, tra società, istituzioni locali e stato centrale au­toritario. Inoltre, la guerra incrina fino a di­struggere certezze e valori che avevano sor­retto l’intelaiatura della società gerarchica ed autoritaria che si era affermata a Napoli durante il fascismo. Gli esempi possono es­sere molteplici. Si pensi al processo di impo­

verimento che viveva la piccola borghesia a reddito fisso. Di sicuro esso non investiva soltanto la realtà partenopea2, ma qui si co­lorava di un significato peculiare perché contribuiva ad alimentare uno stato di ma­lessere nei confronti di altri gruppi sociali — in particolare i ceti popolari — appannando così una certa tradizione di napoletanità in­terclassista. Eguale attenzione merita il fe­nomeno della prostituzione di massa, che si verificò in città durante gli anni dell’occupa­zione angloamericana, da cui nasceva lo ste­reotipo della segnorina, rappresentato da una donna giovane di estrazione popolare. Tale comportamento veniva recepito in ma­niera ambigua e contraddittoria in quanto, se da una parte risultava condannabile sul piano morale, dall’altra si dimostrava assai efficace perché consentiva la sopravvivenza individuale e, spesso, anche del nucleo fami­liare di appartenenza. C’è però da sottoli­neare che sul rapporto guerra/crisi dei valori diffusi la ricerca storica continua ad offrire pochi spunti di riflessione, mentre maggiori suggestioni provengono dall’analisi di fonti letterarie. Per il caso napoletano è da segna­lare il romanzo/diario di Norman Lewis Na­poli 19443 che consente in più passaggi di addentrarsi in un ambito di psicologia socia­le attraverso un linguaggio insieme contenu-

La ricerca è stata condotta prevalentemente presso l’Archivio comunale di Napoli (AC Napoli) consultando: cat. I, Ufficio del Gabinetto; cat. XI, Anagrafe elettorale; cat. XIV, Assistenza; cat. XV, Direzione e cultura. Utile stru­mento per la ricognizione delle fonti è: Maria Teresa Iannitto, Guida agli archivi per la storia contemporanea regio­nale. Napoli, Napoli, Guida, 1990 (Quaderni dell’Istituto campano per la storia della Resistenza).1 Questo articolo è una rielaborazione della comunicazione presentata al seminario organizzato dallTnsmli “Ricer­che sulla partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale” (Vercelli 11-13 nov. 1992) e s’inserisce in una ricer­ca più ampia sul tema “Napoli in guerra”. Si rimanda anche al saggio L ’esperienza della guerra a Napoli: storia del conflitto, storia della città, “Qualestoria”, 1990, n. 1, pp. 29-51. Il tema “Città e guerra” è stato approfondito per alcune realtà urbane quali Trieste, Bologna, Torino. Cfr. Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra. Gli anni 1938-1943, Trieste, Irsml Friuli-Venezia Giulia, 1992 (I Quaderni di Qualestoria); atti del seminario “Bologna in guerra 1940-1945”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza di Bologna (6-7 maggio 1992, in corso di pub­blicazione presso Franco Angeli); Giovanni De Luna, A Torino durante la guerra... Le coordinate dell’esistenza collettiva, in Anna Bravo (a cura di), Donne e uomini nella seconda guerra mondiale, Bari-Roma, Laterza, 1991, pp. 57-95.2 Cfr. Le osservazioni di Massimo Legnani, Guerra e governo delle risorse. Strategie economiche e soggetti sociali nell’Italia 1940-1943, in Bruna Micheletti, Pier Paolo Poggio (a cura di), L ’Italia in guerra 1940-1943, Brescia, An­nali della Fondazione Micheletti, 1992.3 II romanzo, edito nel 1978, è stato ristampato nel 1993 dalla Adelphi Edizioni di Milano.

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to ed intenso, assai lontano dai risvolti a forti tinte de La Pelle di Malaparte.

È invece possibile, attraverso fonti più consuete nell’indagine storiografica, effet­tuare una prima ricognizione sulla configu­razione che assume durante il conflitto il rapporto società/istituzioni. Si delimita così il campo d’analisi ed è possibile formulare l’ipotesi da sviluppare: la guerra contribuì a rafforzare un sentimento di estraneità nei contronti dello stato — in questo caso il re­gime autoritario in disgregazione — il quale aveva radici antiche che attraversavano lo stato liberale e si sarebbero riproposte in quello repubblicano. La questione rimanda ai reali livelli di fascistizzazione presenti a Napoli ed alla capacità di penetrazione e persuasione dell’organizzazione statuale nel­la realtà locale. E, soprattutto, si pone il problema di analizzare quali erano le moti­vazioni, molteplici e talora contraddittorie, che sorreggevano gli atteggiamenti della po­polazione dinanzi al conflitto, in particolare nel momento in cui esso si trasformava da “guerra immaginata” in “guerra reale” .

Partiamo dal discorso del consenso che sembra configurarsi in maniera non diversa da quanto avveniva nel resto del paese: da una parte si desiderava entrare in guerra perché la nazione potesse usufruire dei van­taggi di un conflitto considerato breve e di esito sicuro; dall’altra, si guardava con preoccupazione e diffidenza ai costi imposti dall’intervento bellico. In ogni caso la fase di mobilitazione civile era avvenuta in ma­niera non traumatica. L’attivizzazione delle organizzazioni fasciste, che promuovevano e gestivano le diverse iniziative, tendeva a proiettare l’immagine rassicurante di un ap­parato statale capace di fronteggiare gli eventi futuri. Le prime misure di raziona­mento, che nel febbraio 1940 riducevano il

consumo di generi voluttuari come lo zuc­chero e il caffè, non suscitarono particolari reazioni e lo stesso avveniva per l’allestimen­to dei rifugi antiaerei e l’istituzione del ca­pofabbricato. Segnali di incrinatura si av­vertirono momento in cui l’inizio del conflit­to appariva ormai imminente. Aurelio Le­pre, che ha analizzato i rapporti degli infor­matori Ovra e le relazioni della Questura, ri­corda un rapporto dell’8 giugno 1940 dove si rilevava uno stato d’animo di diffusa preoccupazione. Si diffondevano voci per cui la guerra sarebbe stata lunga, anche se vittoriosa e la città non sembrava adeguata- mente attrezzata. Da parte di alcuni si avan­zava la proposta di far dichiarare Napoli cit­tà aperta.

Esitazioni e perplessità si registrarono al momento dell’ingresso nel conflitto, mitiga­te, di lì a poco, dalle ripercussioni indotte dalla resa francese.4

Napoli porto dell’impero

Fin qui sembrerebbero prevalere le analogie con quanto avveniva su scala nazionale. C’è però da aggiungere che il consenso al con­flitto fu in qualche modo rafforzato a Na­poli da alcune peculiarità locali. Mi riferisco al largo favore che aveva registrato l’espe­rienza della guerra d’Etiopia per un insieme di motivazioni su cui è opportuno soffer­marsi. In primo luogo, la città aveva cono­sciuto un qualche sviluppo soprattutto attra­verso l’attività portuale, essendo diventata il luogo d’imbarco delle truppe per l’Africa. Ciò favorì il rilancio del mito di una sua vo­cazione colonialistica, che venne alimentato attraverso alcuni stereotipi di indubbia effi­cacia. Si consideri ad esempio lo slogan “Napoli porto dell’impero”: esso delineava

Cfr. Aurelio Lepre, Napoli durante la seconda guerra mondiale, in Paolo Macry, Pasquale Villani, La Campa­nia, Storia d ’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1990, pp. 1006-1025.

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una possibilità d’incremento economico ed evocava una prospettiva prestigiosa, addirit­tura un ruolo ed un’identità di segno nazio­nale. L’efficacia dello stereotipo si accrebbe durante la grossa operazione di ristruttura­zione urbanistica costituita dalla Mostra d’Oltremare, venne alimentata con alcune iniziative di propaganda militarista — si ri­cordi la visita di Hitler a Napoli nel maggio 1938 — e costituì un fertile retroterra per sollecitare il consenso all’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, anche per­ché legò Napoli, proprio in quanto porto d’imbarco delle truppe per l’Africa setten­trionale, alle vicende dello scacchiere medi- terraneo.

In realtà il ruolo “africano” della città avrebbe favorito la tragica sequenza dei 101 bombardamenti che colpirono la popolazio­ne e, nell’immediato dopoguerra, il porto vi­de confluire non più truppe in partenza, ma le migliaia di reduci provenienti dai campi di prigionia5. Il motivo della vocazione “medi- terranea” di Napoli e del suo porto sarebbe del resto ritornato negli anni cinquanta — questa volta senza orpelli di segno militari­sta — nella formula laurina di “Napoli perla del Mediterraneo” .

L’istanza di un possibile ruolo imperiale partenopeo esercitò grande fascino ed ebbe un valido supporto da parte di alcune istitu­zioni culturali che enfatizzarono ulterior­mente tale prospettiva. È il caso dell’Istituto universitario orientale e della Società africa­na d’Italia. Il primo, a partire dal 1937, isti­tuì un corso di laurea in scienze coloniali “per preparare il personale idoneo alle varie funzioni che si richiedono per gli enti pub­

blici e privati”6. La seconda, sorta nel 1880 e convinta sostenitrice della politica estera cri­spina, fu potenziata dal regime fascista ed organizzò nel 1934 il primo raduno naziona­le dei combattenti delle campagne d’Africa. Con la conquista etiopica conobbe un’ulte­riore espansione e il suo direttore Enrico Fe- licella, promosse nel 1938 un numero specia­le della rivista “Politica Nuova”, L ’econo­mia di Napoli sul piano dell’Impero, in cui si ritrovano tutte le coordinate della propa­ganda del regime sul ruolo imperialista della città: “Tocca a Napoli d’organizzare il suo porto [...] la sua attrezzatura industriale ed agraria, la trasformazione parziale e com­pleta delle materie prime in arrivo, ravvia­mento rapido e funzionale del suo porto ver­so i lontani mercati etiopici, africani ed orientali” . Lo sviluppo delle attività turisti- co-culturali sarebbe stato complementare a quello industriale e portuale. Su questo tema si soffermava anche uno studioso del presti­gio di Amedeo Maiuri, sovrintendente alle Antichità7.

Occorre sottolineare la capacità di sugge­stione degli stereotipi colonialistici perché essi contribuirono a sedimentare la convin­zione che la guerra avrebbe potuto compor­tare sbocchi e soluzioni ad un’economia cit­tadina che viveva una crisi ormai endemica. Si creavano in tal modo attese che contribui­vano a legittimare soluzioni di tipo militari­sta. Nel caso della campagna d’Etiopia gio­cava anche la peculiare percezione del con­flitto già sottolineata da Mario Isnenghi: la guerra veniva presentata come “guerra lam­po”, combattuta in terre lontane e caratte­rizzata da una schiacciante superiorità tecni-

5 Per i dati relativi al movimento dei reduci a Napoli si rimanda a Ministero della Guerra, Ufficio autonomo reduci da prigionia di guerra e rimpatriati, Relazione sull’attività svolta per il rimpatrio dei prigionieri di guerra ed inter­nati 1944-1947, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1947, Allegato 16 bis.6 Cfr. Il Regio Istituto Universitario Orientale, “Napoli Rivista Municipale”, luglio 1941, pp. CXLII-CXLIII.7 Cfr. gli articoli di Bruno Spampanato, Napoli dall’Unità all’Impero; di Enrico Felicella, Sul piano imperiale; di Amedeo Maiuri, Valori culturali ed universali del turismo napoletano, in L'economia di Napoli sul piano dell’Im­pero, Edizioni Politica Nuova, 1938, pp. 11-20, pp. 243-253 e pp. 113-116.

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co-militare che appariva quanto mai rassi­curante8. In conclusione l’ideologia colonia­listica costituiva un buon retroterra per ac­crescere il consenso all’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sia perché legit­timava di per sé una guerra di tipo offensi­vo, sia perché consentiva di costruire un pe­culiare destino della città — “Napoli porto dell’impero” — tutto interno alla prospetti­va imperialista.

In concreto questi orientamenti si risolse­ro in una grande operazione di ristruttura­zione urbanistica che s’inseriva nella politi­ca di “bonifica urbana”; quest’ultima era stata una costante nelle scelte di intervento sul territorio durante il regime fascista, il quale aveva continuato una strategia inizia­ta, come è noto, con il risanamento succes­sivo al colera del 1884. Lo sviluppo delle opere pubbliche era stato favorito a partire dall’istituzione dell’Alto commissariato nel 1925 ed aveva assolto un’importante fun­zione di ammortizzatore sociale, soprattutto dopo gli squilibri indotti nel già debole tes­suto economico napoletano e campano dal­le ripercussioni italiane della grande crisi9. La costruzione della Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare s’inseriva quindi in con­testo di crisi e comportò la ristrutturazione dell’intero quartiere di Fuorigrotta con l’ab­battimento di oltre settemila vani, la realiz­zazione di un funzionale sistema viario, il potenziamento dell’edilizia popolare. Vi fu­rono anche dei risvolti sul piano delle dina­miche politiche cittadine, perché l’operazio­ne Mostra coincise con il pieno ritorno sulla

scena politica di Vincenzo Tecchio che, emarginato dopo la vicenda Padovani, fu nominato commissario governativo. Alla realizzazione della Mostra veniva associata la speranza di potenziare l’attività turistica, ma tutto il progetto non ebbe il tempo di de­collare: la Mostra fu inaugurata il 10 mag­gio 1940, ma fu ben presto requisita ed uti­lizzata fino al 1948 come convalescenziario militare10.

Economia cittadina e industria di guerra

Se l’immagine di una “Napoli imperiale” era destinata ad infrangersi non appena il con­flitto mostrò la sua reale dimensione di guerra lunga ed incerta, il discorso sulla “bonifica urbana” ebbe vita più duratura ed in qualche modo si intrecciò con la questio­ne delle distruzioni belliche. Secondo le rile­vazioni del censimento angloamericano del settembre 1944, i vani distrutti ammontava­no a 80.147 e Napoli era compresa tra le cit­tà che avevano subito danni in una percen­tuale che oscillava tra il 5 e il 10 per cento delPintero patrimonio abitativo11. Nello sce­nario di una città distrutta ed inscheletrita tornava il discorso sulla “bonifica”. Indica­tivo era un opuscolo redatto da Guido Milo- ne, amministratore delegato della Società Risanamento, Problemi del dopoguerra. Il rinnovamento edilizio del dopoguerra-, esso fu pubblicato, una prima volta, nel 1942 con prefazione di Giuseppe Frignani, direttore del Banco di Napoli e figura di spicco del ce-

Cfr. Mario Isnenghi, Il sogno africano, in Angelo Del Boca (a cura di), Le guerre coloniali del fascismo, Roma- Bari, Laterza, 1991, pp. 49-72.9 Cfr. Guido Savarese, L ’industria in Campania (1911-1940), Napoli, Guida, 1980, pp. 108-140, e Augusto De Be­nedetti, Il sistema industriale (1880-1940), in Storia d ’Italia. La Campania, cit., in particolare pp. 591-605.

Cfr. Carlo Cocchia, L ’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958, in Società del Risanamento di Napoli, Contributi allo studio della città, Napoli, 1961, Vol. III. Ed inoltre “I Mostra Triennale delle terre italiane d’Oltremare. Napoli- Campi Flegrei 9 maggio-15 ottobre 1940”, documentario edito dalla Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltre­mare. Torino, Industrie Grafiche Gros Monti e C., 1940.

Commissione Alleata-Presidenza del Consiglio dei ministri, Censimenti ed indagini per la ricostruzione indu­striale eseguiti nel settembre 1944, Roma, 1945, grafico 5.

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to politico-economico fascista, e una secon­da volta nel 1944 con prefazione di Gustavo Ingrosso, cioè del sindaco che presiedeva la giunta voluta dagli alleati ed insediata, con nomina prefettizia, nell’aprile del 194412. La tesi era singolare: le distruzioni belliche ave­vano facilitato lo sventramento della città proprio perché i danni maggiori si erano avuti nei quartieri più fatiscenti. Di conse­guenza “bonifica urbana” e ricostruzione avrebbero potuto procedere insieme.

Nel percorso che ho cercato di tratteggiare mi sembra emerga un forte nesso tra i livelli di consenso al regime ed alle guerre da esso volute ed il modello di sviluppo economico della città, che aveva avuto nell’edilizia un ruolo trainante. In particolare il settore delle opere pubbliche aveva assunto grande im­portanza sia in rapporto al mercato del lavo­ro sia in relazione al nesso centro/periferia. Era infatti a Mussolini che veniva ascritto il merito del potenziamento urbanistico parte­nopeo a differenza di quanto sarebbe avve­nuto negli anni cinquanta, quando Lauro — e non i governi centristi — avrebbe potuto presentarsi come colui che, attraverso la spe­culazione edilizia, favoriva la ripresa dell’e­conomia cittadina. La guerra comportò, co­me è noto, il blocco del settore. L’attività si concentrò nei lavori di costruzione e manu­tenzione dei ricoveri che venivano appaltati dall’amministrazione podestarile. Le delibe­re approvate da quest’ultima costituiscono una buona fonte di documentazione da cui è possibile ricavare l’elenco dei nominativi delle ditte. Ancora nel maggio 1943 veniva decisa la costruzione di nuovi rifugi e tutto

ciò favoriva lo sviluppo di un certo indotto come, ad esempio, le commesse per la forni­tura di panche, medicinali di pronto soccor­so, lampadine e così via.

Se l’edilizia conosceva una fase di stallo, altri settori industriali venivano invece po­tenziati. La strategia del decentramento del­le industrie belliche comportava un certo in­cremento delle aziende metalmeccaniche con la costituzione della Navalmeccanica (di cui dal 1939 al 1944 fu vicepresidente Giuseppe Cenzato) ed il potenziamento dell’industria aeronautica di Pomigliano d’Arco. Nel 1939 fu istituito l’Istituto nazionale dei motori, dipendente dal Cnr che avrebbe dovuto fa­vorire il raggiungimento dell’autarchia nel campo dei carburanti. Alla sua attività di ri­cerca, di fatto indirizzata al settore militare, collaborarono molti docenti della facoltà d’ingegneria13, vale a dire un segmento di tecnici a cui il fascismo guardava con parti­colare attenzione. La situazione più interes­sante era però quella dell’Uva di Bagnoli. Il suo potenziamento rientrava nel piano side­rurgico nazionale ed appariva un risultato connesso anche all’impegno di istituzioni come la Fondazione politecnica del Mezzo­giorno e la rivista “Questioni Meridionali” che, a partire dall’inizio degli anni trenta, avevano posto il problema dello sviluppo in­dustriale del Sud. Entrambe le esperienze fu­rono promosse da figure come Cenzato e Giordani14. Il piano della siderurgia fu ridi­mensionato a vantaggio degli imprenditori privati15 e ciò comportò anche per l’Ilva di Bagnoli un ritardo nel conseguimento degli obiettivi fissati. Soltanto nel 1942 entrò pie-

12 Guido Milone, Problemi del dopoguerra. Il rinnovamento edilizio di Napoli, prefazione di Giuseppe Frignani, Napoli, Richter, 1942 (prefazione di Gustavo Ingrosso, 1944).13 Cfr. Giuseppe Russo, La scuoia d ’ingegneria in Napoli (1911-1967), Napoli, Istituto Editoriale del Mezzogior­no, 1967, pp. 287-291.14 Cfr. G. Savarese, L ’industria in Campania (1911-1940), cit., pp. 140-152, e A. De Benedetti II sistema industria­le, cit., p. 603.15 Cfr. M. Legnani, Guerra e governo delle risorse, cit., pp. 335-357. Per un quadro generale dell’industria italiana durante il secondo conflitto mondiale utili le osservazioni di Valerio Castronovo, L ’industria di guerra 1940-1943, in Francesca Ferrantini, Gaetano Grassi, M. Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Re-

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namente in funzione l’acciaieria Thomas, ma il ritmo produttivo scese a livelli inferiori a quelli prebellici16. Non è ancora possibile analizzare minutamente l’attività produttiva nelle diverse fasi del conflitto perché nell’ar­chivio storico dell’Uva non sono conservati le relazioni aziendali e i verbali del Consiglio d’amministrazione. Buona risulta la docu­mentazione sulla condizione operaia in quanto sono consultabili i fascicoli personali dei lavoratori fino al 194517. La disamina di un campione di 75 fascicoli consente un pri­mo sondaggio e qualche considerazione di carattere generale. In primo luogo la parte­cipazione alla guerra fu consistente anche se non è ancora possibile quantificarla. Inoltre non sono pochi i casi di coloro che avevano già partecipato alla campagna d’Etiopia. Sembra cioè delinearsi una generazione di lavoratori che conviveva con la guerra, così come era avvenuto per quella precedente. Molti operai, assunti o riassunti dopo la chiusura della fabbrica dal 1919 al 1921, erano infatti reduci della prima guerra mon­diale. In secondo luogo emerge dalle carte

un senso di forte attaccamento all’azienda che già si era evidenziato attraverso la lettu­ra di fonti diverse come, ad esempio, la do­cumentazione sindacale. Esso è influenzato dal fatto che la fabbrica significava in primo luogo sicurezza del posto di lavoro o possi­bilità per i più anziani di far assumere un componente della famiglia — in genere il primo figlio maschio — soprattutto se redu­ce. Ciò era tanto più vero a conclusione del conflitto quando l’Uva, sistematicamente saccheggiata e poi incendiata dai nazisti in fuga, venne chiusa nell’autunno 1943. Di qui la frequente richiesta degli operai di es­sere assunti come manovali per lo sgombero delle macerie, a cui, in realtà, molti lavora­tori avrebbero partecipato gratuitamente18. Può essere interessante prendere in esame anche il punto di vista dei quadri direttivi19, da cui emerge un elemento di fedeltà alla fabbrica che mi sembra abbastanza signifi­cativo perché è parte di “un’etica del lavo­ro” che in qualche modo fa da argine al crollo del rapporto fra istituzioni e cittadini. È un’ipotesi che andrà suffragata con una

sistema, Milano F. Angeli, 1988, pp. 239-156. Inoltre alcuni esempi del rapporto/conflitto tra industriali italiani e tedeschi sono presi in esame da Stefano Battilossi, Mercanti e guerrieri. Gli industriali italiani verso il “Nuovo ordi­ne europeo", in B. Micheletti, P .P . Poggio, L ’Italia in guerra, cit., pp. 367-399.16 Cfr. Paolo Demarco, L ’Ilva nel periodo bellico, “Bollettino dell’Istituto Campano per la storia della Resisten­za”, Italsider, una fabbrica, una città, 1983, n. 1, pp. 18-22, e il più recente Vincenzo Andriello, Attilio Belli, Da­niela Lepore, Il luogo e la fabbrica, Napoli, Graphotronic, 1991, pp. 105-135.17 Per un inventario sistematico dell’archivio cfr. Maria Rosaria Strazzullo, L ’archivio Ilva di Bagnoli: una fabbri­ca tra passato e presente, Napoli, Soprintendenza Archivistica della Campania, 1992.18 Un esempio è la lettera inviata da C.R. al direttore il 4 dicembre 1943: “Io sottoscritto C.R. [...] avendo lavorato in qualità di laminatore per la durata di più di vent’anni in codesto spett.le Stabilimento nella Sezione laminatoi con medaglia [...] licenziato per chiusura. Prego la S.V. 111.ma, avendo moglie e una figlia di venti anni a carico e anche sinistrato da incursioni nemiche di volermi riammettere. Poiché lo stabilimento è sinistrato, mi degno di far­vi presente di essere assunto per i lavori di sgombero [...]” (Archivio aziendale dell’Uva di Bagnoli, d’ora in poi AIB, fascicoli del personale, faldone 50, fascicolo C.R.).

Interessante è la testimonianza di C.C., ingegnere, capitano d’artiglieria, che lavora a Bagnoli dal 1912. Durante la guerra si trasferisce nello stabilimento di Bolzaneto. La sua casa di Napoli, non lontana dall’azienda, è incendia­ta dai tedeschi e poi saccheggiata dai ladri: “Da Bagnoli sono partito malvolentieri perché mia moglie e mio figlio erano a Vicenza ed io non potevo restarmene tranquillamente a Napoli, mentre la guerra camminava verso il Nord dove erano i miei cari. L’accoglienza avuta a Bolzaneto è stata amichevole e cordiale [...] ma questo non mi ha fat­to dimenticare Bagnoli, dove ho lavorato venticinque anni in piena armonia e serenità di spirito. Farò quindi come sempre se l’ordine sarà di tornare a Bagnoli [...]. In questi due anni di Alta Italia ho visto e capito tante cose e mi sono fatto la persuasione che il nostro vecchio ambiente di dirigenti a Bagnoli è da considerarsi qualche cosa di ine­guagliabile per correttezza, onestà e dirittura morale” (AIB, fascicolo del personale, faldone 37, fascicolo di C.C.).

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ricognizione più ampia dell’archivio, ma che può contribuire a spiegare perché, laddove l’azienda continuava a configurarsi come un’istituzione, rimaneva in piedi una sorta di identità collettiva dei lavoratori Ilva che, ovviamente, non escludeva le diverse forme di conflitto di classe20.

La latitanza delle istituzioni

Nonostante ciò l’elemento che caratterizza­va con maggior nettezza la situazione napo­letana era il crollo di credibilità delle istitu­zioni, che vedeva accomunate e spesso so­vrapposte sia le strutture fasciste che quelle statuali. Tale processo e lo stesso odio con­tro la guerra favorivano un’acutizzazione dei conflitti sociali. Il ricorso obbligato alla soluzione individuale, la corruzione genera­lizzata, il venir meno di ogni fiducia in uno stato, a cui per antica tradizione si chiedeva in primo luogo protezione, soffocavano lo sviluppo della coscienza civile. Diventa così difficile utilizzare nel caso napoletano il concetto di città come categoria unificante, che invece si è dimostrato proficuo per altre realtà del paese21. In questo percorso sono da collocare per intero gli anni di guerra perché fin dall’inizio l’organizzazione sta­tuale si dimostrò inefficiente e quindi inade­guata al ruolo di difesa e di protezione che l’inasprirsi del conflitto sollecitava ogni giorno di più, demolendo qualsiasi convin­zione che la guerra potesse essere breve e vit­toriosa. Il problema da affrontare non con­siste quindi soltanto nella disamina delle straordinarie sofferenze che l’esperienza bel­lica comportò per la città, anche perché esse

furono una caratteristica propria di tutta la popolazione civile coinvolta nel conflitto, ad eccezione di quella americana22. È piuttosto un altro aspetto che vorrei tentare di mettere a fuoco, vale a dire il processo attraverso cui si consolidava la convinzione che miseria e sofferenza fossero inutili e che il regime fa­scista, identificato con lo stato, non meritas­se più alcuna fiducia. Il quotidiano si confi­gura come il luogo privilegiato per analizzare il rapporto tra stato autoritario e società lo­cale. Il suo degrado legittimava la priorità delle istanze private, anche quando queste ul­time favorivano forme di corruzione che si diffusero durante gli anni di guerra e, poi, con particolare asprezza, nel 1943.

Indagare questo nodo da un osservatorio locale pone un problema di fonti che devono essere adeguatamente dettagliate per poter restituire il peculiare clima di crisi sociale e politica. In tal senso ho privilegiato la docu­mentazione degli archivi locali ed in partico­lare quella dell’Archivio comunale di Napoli. Essa mi sembra possa essere un’efficace lente di ingrandimento nella quotidiana vicenda del conflitto dal punto di vista di una buro­crazia periferica: prefetto, podestà, ufficiale sanitario, direttore degli uffici comunali, ca­piricovero, assistenti sanitarie e altri ancora. L’emergenza si sfaccetta in tanti piccoli epi­sodi, piccole storie che ci restituiscono il li­vello di separatezza tra società e organizza­zione statuale, la cui burocrazia è identificata con quella del Pnf, che finisce con l’essere ac­comunato nel medesimo giudizio negativo. Quest’ultimo elemento è importante per dar corpo al senso di estraneità/ostilità verso lo stato fascista a cui si accennava in preceden­za. Esso maturava proprio a partire dalla

20 Mi sono soffermata sulle diverse forme di conflitto sociale presente nella classe operaia e più in generale nei ceti popolari nel saggio Napoli: questione urbana e lotte sociali, in G. Chianese, Guido Crainz, Gabriella Gribau- di, Marco Da Vela, Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazione sociale, Milano, Angeli, 1985, in particolare pp. 74-100.21 Mi riferisco al saggio di G. De Luna, A Torino durante la guerra, cit.2" Sull’esperienza della guerra in America fondamentale il saggio di Paul Fussell, Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e cultura nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1991.

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quotidiana vicenda di inefficienza e corru­zione dello “stato vicino” . Più a lungo resi­steva il mito del duce destinato, però, a crol­lare nel momento in cui si dispiegava pie­namente il processo di disgregazione del fronte interno e il mito del re, inteso co­me autorità protettrice, sostituiva quello di Mussolini23.

Se sul piano della percezione ceto politico fascista e burocrazia statale periferica erano accomunati, ciò non avveniva in concreto perché numerosi erano i contrasti e frequen­te lo scarico di responsabilità tra i due ambi­ti. Ad esempio, sulle gravi inefficienze del Comune intervenivano di volta in volta i re­sponsabili delle singole direzioni, che spesso entravano in conflitto tra di loro, e poi il po­destà, che tentava di difendere l’operato del Comune dalle critiche di prefetto e questore, e poi, ancora, i segretari della federazione ed i responsabili dei gruppi rionali fascisti, che si atteggiavano sempre a difensori di co­loro che avanzavano lamentele e proteste. Quest’ultimo dato va letto, a mio avviso, al­l’interno di un tentativo di estrema media­zione con la società che rimanda al proble­ma del ruolo del Pnf su cui si avrà modo di tornare più avanti. Ho preso in esame due esempi che possono essere significativi del rapporto tra “stato vicino” e società: il pri­mo riguarda il funzionamento del tessera­mento annonario, il secondo alcuni aspetti della vita nei ricoveri.

Conviene iniziare da una questione solo apparentemente secondaria, vale a dire il cattivo funzionamento della distribuzione delle carte annonarie che interagiva con il più generale problema del razionamento. Fin dall’inizio esso subì ritardi e rallenta­menti sia per l’organizzazione di per sé far­

raginosa sia per la crescente corruzione che alimentava, già nel 1941, un fiorente merca­to nero delle tessere. Il servizio, affidato alle due direzioni comunali dell’annona e dei servizi demografici, fu organizzato con dif­ficoltà ed in un primo tempo la distribuzio­ne fu effettuata da una ditta privata, il cui appalto venne poi sospeso per gravi irregola­rità24. Il malcontento contro la corruzione era diffuso, ma nel medesimo tempo vi era il tentativo, un po’ da parte di tutti, di acca­parrarsi quante più tessere fosse possibile: gli sfollati ad esempio mantenevano le carte annonarie napoletane e le famiglie dei ri­chiamati continuavano ad usare quelle dei figli e dei mariti al fronte. Il disagio si mani­festava anche nel ricorso a esposti anonimi inviati all’autorità superiore. Era il caso di una lettera indirizzata al ministro dell’Inter­no nel maggio 1941, che denunciava la com­plicità del comune nei furti di tessere, la­mentava il caos provocato dal rilascio di mi­gliaia di duplicati e concludeva con un signi­ficativo richiamo alla prima guerra mon­diale:

Le tessere vengono cedute non so per quale com­penso ad accaparratori e sfruttatori dell’econo­mia pubblica [...] Nella Grande Guerra 1915- 1918 si ovviò a tale disonestà con un libretto in­testato col nome ed il numero delle persone e con tanti buoni sufficienti per ogni genere di 12 mesi.

La risposta del podestà Orgera, a cui il pre­fetto aveva chiesto giustificazioni, rivelava un forte imbarazzo celato dietro la cavillosi­tà del linguaggio burocratico25. Allo stesso Orgera era inviato, nel settembre 1941, un secondo esposto anonimo che denunciava imbrogli nella distribuzione delle tessere:

Su questo problema assai utili le osservazioni di Angelo Imbriani in “L’immagine dello stato e della politica a Napoli”, relazione al convegno “1943. La scelta, la lotta, la speranza” (Napoli, 29-30 settembre e 1° ott. 1993).‘4 Circolare del podestà al prefetto, 28 ottobre 1941, in AC Napoli, cat. XI, cl. 12, fase. Tesseramento annonario.

Esposto anonimo al podestà e nota di risposta di Giovanni Orgera al prefetto, 19 maggio 1941, loc. cit. a nota 24.

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In più di una famiglia si sente dire che hanno del­le tessere in più, chi perché appartiene ad un im­piegato comunale, chi per imbroglio ha ricevuto due volte la tessera sempre con lo stesso cogno­me. Ci sono famiglie che hanno ricevuto la tesse­ra dei militari in zona di guerra26.

In realtà i casi di illegalità erano innumere­voli ed avvenivano anche con la complicità del personale comunale. In una relazione del podestà del dicembre 1941 si menzionavano due casi di furto a cui avevano collaborato alcuni impiegati avventizi. Il mese successi­vo veniva scoperto un traffico clandestino di tessere nel quale era implicato un avventizio, assunto “benché fosse pregiudicato per reati contro il patrimonio”27.

Il malcontento della popolazione poteva tradursi in aperte manifestazioni di insoffe­renza e creare quindi problemi di ordine pubblico. È quanto avvenne non nel 1943, bensì nel dicembre 1941, quando l’enorme folla, che attendeva in fila la distribuzione delle tessere, sfondò la porta d’accesso agli uffici. Il questore, nella nota al podestà, si diceva convinto che gli incidenti si sarebbero ripetuti e raccomandava di tener conto “del­lo stato di esasperazione della popolazione e della necessità degli agenti di usare il mag­gior tatto possibile per non acuire maggior­mente tale giustificato stato d’animo”28. E di problemi di ordine pubblico parlava an­che l’ufficiale sanitario per difendersi dalle lamentele del prefetto, il quale criticava il numero eccessivo di certificati medici rila­sciati dal comune che consentivano di otte­nere le carte annonarie per razioni supple­mentari29.

L’inefficienza e la corruzione dell’ammi­nistrazione comunale risalivano per lo meno al 1941 e non possono quindi essere conside­

rati conseguenza del caos amministrativo ve­rificatosi nell’ultima fase del conflitto. Cer­to le carenze tendevano ad aggravarsi. Nel 1942 negli uffici mancavano le macchine da scrivere ed in seguito sarebbero scarseggiate le stesse sedie per il personale. Talora, per giustificare l’inefficienza dei servizi comuna­li, si ricorreva a spiegazioni che facevano appello a luoghi comuni come la figura della giovane impiegata donna che non aveva vo­glia di lavorare. In una nota del prefetto al podestà nel maggio del 1942 si legge:Attendono al lavoro numerosissime donne senza alcuna diretta vigilanza. Esse sono prevalente­mente di giovane età, siedono in parecchie presso tavoli collocati vicini, dove ciarlano fra di loro continuamente, c’è chi si alza e va in giro, chi mangia, chi si trattiene in conversari, dall’appa­renza faceti e piacevoli, con uscieri ed altri impie­gati30.

In ogni caso inefficienza e corruzione si ma­nifestavano su un terreno che sarebbe stato meno arduo affrontare rispetto ad altre drammatiche questioni cittadine. Si pensi al mercato nero dei generi alimentari: l’entità dei problemi di produzione, distribuzione e lotta ai circuiti illegali era talmente impari rispetto alle reali possibilità d’intervento dell’amministrazione comunale che gli “spacci di paragone” da essa istituiti ebbero sin dall’inizio effetti irrisori. Nel caso invece della distribuzione delle tessere sarebbe stato forse più semplice dare un esempio di “buon governo” consolidando il legame con la so­cietà civile. Anche questo non accadde e ciò rimanda al ruolo ed alla configurazione del­la burocrazia locale. Con la guerra si appan­nava l’immagine del funzionario onesto di tradizione umbertina e ciò a livello sia di quadri direttivi che intermedi. Influiva forse

26 Esposto anonimo al podestà, 9 settembre 1941, loc. cit. a nota 24.27 Relazione del podestà sul tesseramento, 3 dicembre 1941, loc. cit. a nota 24.28 Riservata del podestà al direttore dell’Ufficio servizi demografici, 2 gennaio 1942, loc. cit. a nota 24.29 Nota del direttore dell’Ufficio Igiene al podestà, 5 gennaio 1942, loc. cit. a nota 24.30 Riservata del prefetto al podestà, 29 maggio 1942, loc. cit. a nota 24.

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anche l’ampia presenza del personale avven­tizio, che continuava ad essere assunto an­che durante la guerra dimostrandosi assai poco controllabile. Il “buon governo” finiva così con il diventare soltanto un’immagine propagandistica veicolata dalla stampa di regime. “Napoli Rivista Municipale”, bol­lettino del comune, nel settembre 1942 quando, come si è visto, i livelli di ineffi­cienza si erano ulteriormente aggravati, de­dicava un lungo articolo ai servizi annonari, tentando di dimostrare come, dopo una fase iniziale di caos, la distribuzione procedesse in maniera regolare. Il supporto di quattro fotografie, che sottolineavano la pulizia e l’ordine delle sale degli uffici, avrebbero do­vuto contribuire a rendere più persuasivo il messaggio, puntualmente smentito dagli eventi31.

Bombardamenti e vita nei ricoveri

Con il secondo esempio, che investe la vita nei ricoveri e le capacità d’organizzazione delle istituzioni cittadine in tale traumatica esperienza, si entra nel pieno della crisi del fronte interno. La guerra con il suo scenario di morte e distruzione invadeva il quotidia­no. Ma i morti civili erano più difficili da accettare dei caduti in guerra, a cui in qual­che modo aveva abituato la memoria della prima guerra mondiale e le più vicine cam­pagne coloniali. Per Napoli la cronistoria dei bombardamenti è stata ricostruita sul fi­nire degli anni sessanta da Aldo Stefanile32. La città fu bombardata massicciamente ed il ritmo delle incursioni seguì l’andamento del­le operazioni belliche. Esse furono poche,

ma rovinose, nel 1940-1941 crebbero con l’intensificarsi del conflitto in Africa setten­trionale e furono particolarmente frequenti, intense e devastatrici nel 1943. Dapprima i bombardamenti venivano effettuati di notte ed erano diretti su obiettivi militari ed aree industriali, ma, a partire dall’incursione del 4 dicembre 1942, diventarono con sempre maggior frequenza diurni ed indirizzati verso obiettivi civili secondo quanto previsto dalla strategia propria della guerra psicologica. In questo l’esperienza napoletana non mi sem­bra diversa da quanto avvenne in altre grandi città italiane; essa ripropone una caratteristi­ca comune all’intero paese, in cui la vicenda dei bombardamenti contribuì in misura deci­siva ad infrangere la credibilità del fascismo. La scelta dei bombardamenti a tappeto era mirata a far crollare il sistema città ritenuto particolarmente vulnerabile proprio a causa della sua complessità. In realtà, come ha os­servato Josef Konvitz33, gli abitanti delle cit­tà dimostrarono capacità di adattamento e risorse assai maggiori del previsto. Il proble­ma diventa semmai cercare di capire attra­verso quali strategie individuali e di gruppo fu possibile sopravvivere fisicamente e psico­logicamente a tale catastrofe.

In una prima fase i lunghi intervalli tra gli allarmi e le incursioni prolungavano le soste, ma venivano vissuti senza particolare tragi­cità, come una sorta di intermezzo in cui tendevano ad essere esaltati gli aspetti comu­nitari. In seguito l’esperienza si fece sempre più traumatica: il sovraffollamento, la ca­renza d’aria, le esalazioni di gas, il panico diventavano la norma soprattutto quando i bombardamenti ostruivano le uscite dei rifu­gi e si moriva per soffocamento. In ogni ca­

31 Cfr. Iservizi di tesseramento annonario, “Napoli Rivista Municipale”, settembre 1942, pp. CL-CLII.32 Cfr. Aldo Stefanile / cento bombardamenti di Napoli. I giorni delle am-lire, Napoli, Marotta, 1968. Riferimenti vi sono anche in G. Bonacina, Obiettivo: Italia. I bombardamenti aerei delle città italiane dal 1940 al 1945, Milano, Mursia, 1970.33 Cfr. Josef Konvitz, Contesti urbani, reazioni psicologiche di massa e bombardamenti strategici (1914-1945) “Storia e problemi contemporanei”, 1992, n. 9.

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so le istituzioni non c’erano. Lo “stato vici­no” si rivelava inadeguato su entrambi i pia­ni della difesa militare e della protezione ci­vile. Talvolta addirittura non scattarono gli allarmi. I ricoveri si rivelarono poco sicuri, ma, nonostante ciò, presero ad essere abitati in permanenza.

Conviene seguire tutto il percorso attra­verso cui tale esperienza assunse un ruolo prioritario nella disgregazione del fronte in­terno. L’allestimento dei rifugi era stato nel­la fase di mobilitazione civile un elemento importante del tentativo operato dal regime di rassicurare la popolazione, dimostrando come le misure di protezione venissero effet­tuate scrupolosamente ed in tempo utile. Così commenta un testimone nelle pagine del suo diario:L’entrata in guerra doveva essere il coronamento della lunga messa a punto di una macchina: da sembrare, dopo tanti preparativi, di poter partire quasi con sollievo per un viaggio senza sorprese34.

A partire dall’agosto del 1939 ogni palazzo doveva avere il proprio ridovero, mentre l’allestimento dei rifugi pubblici procedeva lentamente. Il problema del superaffolla­mento veniva rilevato già nel novembre 1940, in particolare nel centro storico35. Nel­l’agosto del 1941 il prefetto istituiva un ser­vizio di assistenza medica a cui avrebbero dovuto provvedere 18 medici designati dal sindacato corporativo36. Ma già nel novem­bre dello stesso anno si verificarono disguidi ed inadempienze segnalate dal direttore del- l’Unpa (Unione nazionale protezione antiae­rea) al podestà37; con l’intensificarsi dei

bombardamenti medici ed infermieri tende­vano a scarseggiare ed in realtà l’assistenza sanitaria veniva a cessare38.

I ricoveri erano affollati, scarsamente at­trezzati e soprattutto fin dai primi mesi del conflitto si verificarono problemi di ordine pubblico. Si trattava per lo più di furti e di episodi di intolleranza che avvenivano du­rante le lunghe ore di permanenza. In questa fase, però, era ancora consuetudine rivol­gersi all’autorità legittima — prefetto, que­store, direttore Unpa — per avere in qualche modo giustizia. Un esempio è costituito dal­l’esposto inviato all’Unpa nel gennaio 1941 da un gruppo di proprietari ed inquilini di un palazzo residenziale di S. Lucia. Si prote­stava perché nel ricovero, dove confluivano anche molte persone provenienti dalla popo­lare zona del Pallonetto

alcuni brutti figuri [...] con apprezzamenti insi­diosi e provocatori non mancano di generare tur­piloqui e panico. Vero è che il ricovero è pubbli­co ma non per questo la condotta di taluni deve turbare la quiete di quelli, fra cui donne e bambi­ni, che in tutta rassegnazione e con i nervi tesi so­no lì a pazientare.

L’esposto, in cui erano evidenti anche moti­vi di contrapposizione sociale, perveniva al podestà, che faceva proprie le ragioni dei firmatari e sollecitava, a sua volta, l’inter­vento del questore affinché

in uno dei prossimi allarmi sia subito inviato sul posto qualche agente che possa, accertando il grave inconveniente, procedere al fermo dei di­sturbatori per i necessari provvedimenti di rigore,

34 Diario di Vincenzo Frediani, in Archivio dell’Isr Napoli, Piccoli fondi, Carte V. Frediani, b. I. Il documento mi è stato segnalato dalla professoressa Laura Albarella. Redatto nel 1963, esso rivisita gli eventi della città dal maggio all’ottobre 1943.35 Nota dell’amministratore dell’Unione costruttori meridionali al podestà, 6 novembre 1940, in AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase., Vigilanza.36 Fonogramma del podestà al presidente al Comitato provinciale Cri, 5 agosto 1941, in AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Sanitari addetti ricoveri pubblici.37 Rapporto del dirigente protezione antiaerea al podestà, 6 novembre 1940, loc. cit. a nota 36.38 Rapporti dei capiricovero del corso Garibaldi e galleria IX maggio, 1° aprile 1943, loc. cit. a nota 36.

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per dare un esempio che valga di monito ai ma­lintenzionati39.

Anche su questo terreno la situazione tende­va a peggiorare drasticamente tra la fine del 1942 e il 1943, come segnalavano i resoconti dei capiricovero ai podestà ed ai gruppi rio­nali fascisti40. In realtà la funzione dei rico­veri era di per sé mutata. Era avvenuto lo sfollamento; con l’intensificarsi dei bombar­damenti — in particolare dopo l’incursione del 4 dicembre del 1942 che aveva causato 159 morti — esso si era trasformato in un vero e proprio esodo, mitigato parzialmente dal pendolarismo di una parte della popola­zione che, durante il giorno, continuava a venire in città per lavorare. Soltanto le fasce più povere ed emarginate presero a vivere in permanenza nei tunnel cittadini e nella fitta rete di grotte sotterranee e di fatto ne diven­tarono i'padroni.

Si considerino inoltre le condizioni di estrema precarietà dei rifugi. Mancava l’illu­minazione perché le lampadine venivano si­stematicamente rubate e né il comune, né l’Unpa erano in grado di reperirne di nuo­ve41; inoltre le condizioni igieniche erano tal­mente gravi da minacciare pericoli di epide­mie42. Di fatto qualsiasi forma di presenza dello Stato, repressiva o assistenziale, era venuta a mancare.

All’agosto del 1943 risalgono alcuni elen­chi di sinistrati, redatti dalle assistenti sani­tarie visitatrici, che consentono di avere qualche ulteriore elemento di analisi43. So­

prattutto nei ricoveri più grandi i “residenti” provenivano ormai da tutti i quartieri citta­dini e, talora, dalla provincia. Moltissimi, ma non tutti, erano senzatetto; alcuni rifiu­tavano di dare il proprio indirizzo, altri ac­cettavano di andar via, purché venisse ga­rantito lo sfollamento verso le città campane o anche nelle regioni limitrofe. Questo tipo di situazione procedeva autonomamente ri­spetto alla scansione degli eventi politici. Ancora nel dicembre 1943 — e cioè dopo l’8 settembre, le Quattro giornate e durante l’occupazione angloamericana — i ricoveri di più ampie dimensioni risultavano abitati in permanenza da sinistrati che avevano co­struito delle baracche per ogni singola fami­glia e praticavano il mercato nero44.

Un clima un po’ diverso sembra delinearsi se si prende in esame un momento, per così dire, atipico della vita nei ricoveri e cioè le numerose esperienze di parto che si verifica- vano durante le incursioni. Nel campione di 15 casi che è stato possibile reperire non si avverte l’atmosfera di intenso degrado a cui si è accennato in precedenza, nonostante il contesto temporale sia il medesimo45. Anche in questo caso in primo luogo c’è un proble­ma di linguaggio. I rapporti, redatti quasi sempre dai capiricovero, mettevano in evi­denza come i parti si concludessero felice­mente, sottolineavano l’apporto dei medici e delle ostetriche ed enfatizzavano il clima di attesa e di solidarietà che si creava intorno alle donne. Prendiamo il caso di A.F.:

39 Nota del podestà al questore con allegato esposto, 1° gennaio 1941, in AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Vigilanza.40 Rapporti dei capiricovero di via Chiatamone, via Carafa, via Foria, 9 e 30 gennaio, 2 e 4 febbraio 1943, loc. cit. a nota 39.41 AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Illuminazione. Acqua (la docu­mentazione dell’intero fascicolo copre il periodo dal luglio 1942 al dicembre 1943).4~ AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antiaerea. Ricoveri pubblici, s. fase. Igiene (la documentazione com­prende il periodo dal novembre al dicembre 1943).43 Elenchi di sinistrati dei ricoveri tunnel Vittoria, metropolitana Montesanto, salita Petraio, agosto 1943, loc. cit. a nota 42.44 Relazioni assistenti sanitarie visitatrici, 18 e 30 dicembre 1943, loc. cit. a nota 42.45 AC Napoli, cat. I, cl. 5, fase. Protezione antialrea. Ricoveri pubblici, s. fase. Varie (i rapporti dei capiricovero sui parti sono compresi nel periodo aprile-agosto 1943).

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[Ella] ha dato felicemente alla luce una florida bambina a cui sarà imposto il nome di Italia Vit­toria Emanuele. La puerpera è stata amorevol­mente assistita dal dottore [...] di servizio e dalla levatrice [...] che si trovava nel ricovero [...] Il pubblico che era nel ricovero ha seguito con vivo interessamento il lieto evento, tanto che la signo­ra [...] ha offerto spontaneamente alla puerpera vitto speciale e riscaldamento ed ha messo alla porta un grande nastro con un cartello sul quale è scritto il nome della neonata.

Il rapporto è molto dettagliato, ci fa sapere che il padre della bambina era un operaio della fabbrica La Precisa ed anche che era iscritto al Pnf dal 1935; delle donna invece nessuna informazione se non la data di na­scita46. I capiricovero avevano probabilmen­te interesse a sottolineare una qualche resi­dua efficienza dei rifugi, ma c’è anche da considerare un altro aspetto. La nascita di un bambino costituiva un raro momento fi­nalmente non riconducibile alla quotidiana esperienza di morte e distruzione. Peraltro non sappiamo niente delle concrete modalità del parto perché le fonti tacciono su questi aspetti. Altre, come ad esempio le relazioni dei sanitari, ci dicono qualcosa di più; è il caso di ben tre donne che nel ricovero di Via Foria partorirono, nel gennaio 1943, senza l’aiuto dell’ostetrica47.

In conclusione, lo sguardo ravvicinato che consente la documentazione dell’archivio comunale consente di comprendere in ma­niera assai più analitica la dimensione di “guerra totale” che coinvolge i civili attra­verso l’esperienza dei bombardamenti e dei

ricoveri e l’assenza dello “stato vicino”. An­che in questo caso però è importante seguir l’intero percorso e non soltanto la fase con­clusiva, su cui in prevalenza si è soffermata l’attenzione di quanti hanno ricostruito la cronaca del conflitto48. Riproporrei quindi come elementi di riflessione innanzitutto la considerazione che l’allestimento dei rifugi nella fase iniziale di mobilitazione civile ac­quisiva soprattutto un carattere simbolico, per cui essi avevano una funzione di rassicu­razione contro pericoli considerati ancora lontani. Risulta inoltre evidente che le caren­ze e i disguidi condizionavano la vita dei ri­fugi già dal 1941 ed alimentavano la conflit­tualità sociale mettendo in evidenza i limiti dell’organizzazione statuale fascista senza però destrutturarla. Infine si può constatare che con “l’intensificarsi dei bombardamenti e lo sfollamento generale” i ricoveri si tra­sformarono in luoghi di residenza delle fasce di popolazione più emarginata, anche dopo la fine dell’emergenza-incursioni.

Il tema della vita nei rifugi è affrontato con modalità diverse in altri tipi di docu­mentazione. Nelle relazioni della questura è meno presente di altri problemi cittadini co­me ad esempio il tesseramento o il mercato nero. Cenni più estesi si trovano nella rela­zione del dicembre 1942, in cui si ribadisce come i ricoveri siano di fatto abitati in per­manenza con il conseguente pericolo di epi­demie49. I quotidiani ne parlano soprattutto nei primi mesi del conflitto per dare norme minuziose sul modo di sostarvi50. “Napoli Rivista Municipale” non se ne occupa, men-

46 Rapporto capiricovero Vico Forno, 19 aprile 1943, loc. cit. a nota 45.47 Relazione del sanitario sul ricovero di via Foria, 30 gennaio 1943, loc. cit. e nota 39.48 Cfr. A. Stefanile, I cento bombardamenti di Napoli, cit.; Sergio Lambiase, Gian Battista Nazzaro, Napoli 1940- 1945, Milano, Longanesi, 1978.49 Relazione trimestrale sulla situazione politica ed economica della provincia di Napoli, in ACS, Agr., 1930- 1955, cat. KI-BI5, b. 16A, ora in Luigi Cortesi, Giovanna Percopo, Patrizia Salvetti (a cura di), La Campania da! fascismo alla Repubblica. Società, politica, cultura, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1977, Vol. I, p. 207.50 Cfr. Come si deve stare nei rifugi. Norme, consigli, insegnamenti per difendere il morale e il fisico, “Corriere di Napoli”, 5 novembre 1940.

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tre invece si sofferma sulla visita del re ai fe­riti dei bombardamenti nel luglio 1941, elo­giando un presunto “altissimo spirito guer­riero” della popolazione51.

Ceto dirigente e fascismo

Nell’analisi del rapporto tra città e “stato vi­cino” grande importanza assume la configu­razione del personale politico fascista. Si è già osservato in precedenza come vi fosse una forte identificazione tra Pnf e burocra­zia statale che si accrebbe ancor di più du­rante gli anni di guerra. Segretario della fe­derazione napoletana fu, dal 1940 ai primi mesi del 1943, Fabio Milone proveniente dai Guf. Il 1943 fu un anno convulso e si susse­guirono gli avvicendamenti dei federali. Dapprima fu insediato Domenico Pellegrino Giampietro, che, di lì a poco, sarebbe stato nominato ministro delle Finanze della Rsi, ad esso subentrò Francesco Siniscalchi e poi, ancora, Domenico Tilena, il quale, dopo l’armistizio dell’8 settembre, collaborò atti­vamente con i nazisti52. Più stabile, invece, l’amministrazione podestarile che fu retta da Giovanni Orgera per l’intero periodo 1936-1943. La sua designazione era avvenu­ta dopo quattro anni di gestione straordina­ria nel quadro di un generale ricambio del personale politico napoletano. Questa fase del governo locale coincise con il già men­zionato ritorno sulla scena politica di Vin­cenzo Tecchio e con la realizzazione di alcu­

ni importanti provvedimenti, quali l’appro­vazione del piano regolatore e la costruzione della Mostra d’Oltremare.

Il 5 agosto 1943 Orgera fu sostituito dal commissario straordinario Giuseppe Soli- mena; il primo aderì alla Rsi, e ricoprì la carica di governator della Banca d’Italia in sostituzione di Azzolini53. Infine, i prefetti degli anni di guerra furono Francesco Beni­gni, a cui subentrò il più “fascista” Umber­to Albini e poi, ancora, nel febbraio 1943, Marcello Vaccari, sostituito, a sua volta, dopo il 25 luglio, dal viceprefetto Domenico Soprano.

Questi cenni sugli organigrammi locali so­no ovviamente da collocare nel contesto del­le strategie d’intervento di volta in volta promosse da podestà, prefetto e Pnf. Il di­scorso è appena avviato soprattutto per quanto riguarda gli ultimi due. Sull’organiz­zazione fascista napoletana è comunque possibile fare qualche considerazione. Mi sembra cioè che essa gestì in proprio l’orga­nizzazione della mobilitazione civile, mentre invece accentuò l’intreccio con l’ammini­strazione podestarile nel campo dell’assi­stenza. Il Pnf diresse le molteplici iniziative che accompagnarono la non belligeranza e l’inizio del conflitto: “settimane del metal­lo” , “orti di guerra”, “campagne per la rac­colta della lana”, ecc. Promotori furono i gruppi rionali fascisti, il dopolavoro provin­ciale, la Gii, i Fasci femminili54. L’attività non declinava negli anni successivi: nel mar­zo 1941 furono organizzate dai gruppi rio-

51 Cfr. Sua Maestà il Re Imperatore visita i feriti delle incursioni nemiche, “Napoli Rivista Municipale”, luglio 1941, pp. CXL-CXLII.52 Per la ricostruzione degli organigrammi locali rimane utile la minuziosa ricerca di Alfonso Scirocco, Politica ed amministrazione a Napoli nella vita unitaria, Napoli, Esi, 1972, pp. 185-228. Un profilo di Domenico Pellegrini è in Angelo Norelli, Il ministro Domenico Pellegrini Giampietro nel tramonto del fascismo, Napoli, Fratelli Conte Editori, 1992, in cui si riporta anche la documentazione relativa alla polemica giudiziaria che oppose, negli anni 1978-1980, il figlio del Pellegrini al giornalista Giorgio Bocca, accusato di diffamazione.53 Per un profilo di G. Orgera cfr. Francesco D ’Ascoli, Michele D’Avino, Isindaci di Napoli, Napoli, Misa Edito­re, 1974, pp. 291-300.54 Cfr. “Orti di guerra. Raccolta della lana. Trebbiatura in p.zza Plebiscito. Auto a gasogeno. Assistenza ai milita­ri”, in ICSR Napoli, archivio fotografico Pasquale Schiano.

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nali 21 conferenze sugli obiettivi di guerra55. Nel campo assistenziale invece la presenza fascista era rinsaldata dalla collaborazione alle iniziative promosse dal comune, il cui merito finiva così per essere largamente at­tribuito alla fitta rete di organizzazioni terri­toriali e di settore del Pnf. Un primo esem­pio è dato dalla campagna promossa, tra il 1941 e il 1942, per la refezione scolastica e l’assistenza sanitaria ai circa cinquemila bambini degli asili comunali. Si trattava, per la maggior parte, di figli di famiglie iscritte nell’elenco dei poveri o, in misura assai mi­nore, di figli di richiamati. Promotori furo­no, oltre alla Direzione comunale della cul­tura, i gruppi rionali fascisti che fornivano vestiario, materiale didattico, nonché assi­stenza sanitaria nei propri ambulatori56. Un secondo esempio rimanda all’attività dell’E- ca, che durante il conflitto segnò una qual­che presenza. Alle famiglie bisognose, che avevano avuto morti in guerra, veniva asse­gnato un contributo, operando peraltro una distinzione tra ufficiali e soldati. Ho avuto modo di analizzare un campione di 19 lette­re, scritte dai familiari di militari morti, nel periodo compreso tra il giugno 1941 e l’otto­bre 194257, al podestà Orgera che presiedeva l’Eca. La documentazione non ha carattere privato. Mogli, madri e, più raramente, pa­dri si rivolgevano all’autorità descrivendo una condizione di indigenza aggravata in primo luogo dal richiamo alle armi dei con­giunti e poi dalla loro morte. I caduti erano

giovani operai, camerieri, panettieri, net­turbini, quasi tutti soldati impegnati sul fronte greco-albanese, anche se non manca qualche esempio di militare di carriera. Spesso da civili erano stati sostegno di fa­miglia e talora avevano continuato ad es­serlo attraverso il sussidio militare. Le let­tere ci offrono uno squarcio significativo sul vissuto di guerra: nella famiglia povera la morte di un familiare al fronte aggrava­va, ma non determinava lo stato di indi­genza. Allora ci si rivolgeva all’Eca per avere un qualche aiuto ed anche in questo caso istituzione statale e struttura fascista si sovrapponevano. Molte lettere giungevano attraverso la mediazione dei responsabili dei gruppi rionali o, più raramente, dei ge­rarchi della federazione.

In conclusione, credo ci sia ancora molto da approfondire sul ruolo del Pnf, a partire dall’analisi e dalla comparazione dei percor­si biografici dei funzionari locali di maggio­re rilievo. Un certo ampliamento delle sue funzioni58, che sembra delinearsi anche nel caso napoletano, rimanda all’analisi del per­sonale fascista presente nelle strutture colla­terali di partito. Tale segmento di burocra­zia sembra configurarsi diversamente dal personale di tradizione liberale, così come ha sottolineato di recente Mariuccia Salva­ti59. Nel medesimo tempo il Pnf è recepito come parte di quello “stato vicino” verso il quale prevalgono sentimenti di estraneità e poi di ostilità. Questo aspetto del problema

55 Le ragioni della guerra illustrate da ventuno personalità del partito, “Napoli rivista municipale”, marzo 1941, pp. LVII-LIX.56 Relazione “Le scuole materne del comune di Napoli”, luglio 1941, in AC Napoli, cat. XV, fase. 3 e “Relazione di Gina Coccoli”, 1952, ivi, fase. 1. Cfr. anche La refezione scolastica a 42.000 bambini delle scuole, “Napoli rivi­sta municipale”, novembre-dicembre 1941, p. CCXXVII.57 AC Napoli, cat. XIV, cl. 1, fase. Assistenza Eca famiglie caduti.58 La crescita del Pnf come struttura burocratico-amministrativa è stata sottolineata da Dario Mattiussi che ha pre­so in esame il caso triestino. In tale processo l’Eca acquista un ruolo importante che tende, però, a ridimensionarsi durante il conflitto. Cfr. D. Mattiussi, Il Pnf a Trieste 1938-43: la fine del partito? La crisi del partito come organi­smo burocratico amministrativo, e anche Tullia Catalan, Fascismo e politica assistenziale a Trieste. Fondazione e attività dell’Ente comunale di assistenza (1937-1943), in Annamaria Vinci (a cura di), Trieste in guerra, cit.59 Cfr. Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, Roma-Bari, Laterza, 1992.

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attende ancora di essere indagato e rimanda alla fase conclusiva del conflitto, alle moda­lità del crollo del fronte interno che nel caso napoletano mette in crisi l’autorevolezza e la credibilità del regime fascista, ma non quelle della monarchia. Dopo il 25 luglio e l’8 set­tembre maturano nuovi processi ed il nesso tra dinamiche nazionali e locali si fa più for­te. La fine del fascismo e poi del conflitto sembrano dare uno sbocco a sentimenti da tempo assai profondi come l’avversione al regime e l’odio contro la guerra. Il farsi ne­mico dei tedeschi, gli eccidi e le violenze che si moltiplicano nel Napoletano, nel Caserta­no e nell’intera regione paradossalmente fa­voriscono il riappropriarsi di un’identità collettiva che si esprime in molteplici episodi di rivolta. La città vive un momento di cesu­ra con il proprio passato. È la storia delle Quattro giornate: un esempio importante di lotta antinazista ed antifascista che, però, fi­nirà per incidere debolmente nella successi­va, lunga vicenda dell’occupazione angloa­mericana. Si apre comunque una fase nuova e diversa, che rimanda alla transizione tra dopoguerra e stato repubblicano.

Altri temi di ricerca

Il tema città/guerra è evidentemente molto complesso. Come ho già sottolineato all’ini­zio di queste note, la mia analisi privilegia il rapporto con lo “stato vicino”, ma posso­no esservi altre prospettive di ricerca. Se è vero che il governo locale si dimostra ineffi­ciente fin dall’inizio del conflitto e perde qualsiasi capacità di gestione con il crollo del fronte interno, allora c’è da chiedersi at­

traverso quali risorse e strategie, individui e famiglie riescano ad organizzare la loro so­pravvivenza. Il sistema di relazioni familiari ed amicali acquista grande rilievo, ma nel medesimo tempo i rapporti di solidarietà so­no messi a dura prova nella lotta feroce con­tro fame e morte. Un’indagine su tali ambiti è davvero difficile e pone il problema di ri­cercare fonti che privilegino l’ambito del quotidiano e del soggettivo. È il vasto cam­po delle fonti orali, dei diari, delle testimo­nianze coeve o “a distanza”, che, anche per il caso napoletano, cominciano ad essere uti­lizzate. Un esempio è costituito dalle memo­rie di donne e uomini campani redatte in oc­casione della trasmissione televisiva “La mia guerra”60. Si tratta di una peculiare forma di testimonianza perché il ricordo è rielaborato dopo molto tempo e ciò influenza l’organiz­zazione e la stratificazione della memoria. Peraltro la ricostruzione è sollecitata da uno stimolo occasionale che sopravviene, talora, dopo anni di rimozione e di difficile comu­nicazione con le generazioni più giovani. Uno dei testimoni, E.F., osserva che si trat­ta di narrare

vicende sepolte come non fossero mai accadute e che solo la memoria fruga tormentandosi, questa memoria che è sempre più amica della morte61.

Letta con la dovuta cautela la fonte si rivela quanto mai ricca. Molti testimoni all’epoca erano in una fascia d’età compresa tra l’in­fanzia e la prima adolescenza, sicché dai lo­ro ricordi è possibile trarre un insieme di suggestioni che rimandano al grosso tema di come bambini e ragazzi vissero e recepirono l’esperienza della guerra. Ciò consente di va­gliare in maniera critica alcuni stereotipi sul-

60 L’intero fondo è stato versato all’archivio dell’Insmli che ha cortesemente consentito all’Icsr di consultare sessan- tasei memorie di cittadini campani, di fotocopiarle e conservarle presso l’istituto. La collocazione citata nelle note successive è il risultato di una schedatura provvisoria dell’istituto campano. Sull’intero fondo utili le osservazioni di Rosella Prezzo (che ha analizzato alcune coordinate della memoria femminile), La seconda guerra mondiale sul filo della memoria. Memoria e soggettività rammemorante. Il fondo “La mia guerra", “L’impegno”, 1993, n. 1.61 Testimonianza di E.F. (undici anni nel 1940), in ICSR Napoli, fondo “La mia guerra”, 9/U .

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l’infanzia che sono stati veicolati da certa produzione letteraria e cinematografica62.

È forse utile sottolineare alcuni elementi di osservazione. Le testimonianze lasciano intrawedere un processo di riorganizzazione della struttura familiare: nel clima di ecce­zionalità della guerra la figura della madre diventa centrale e spesso unica; per i ragazzi più grandi si moltiplicano responsabilità ed incombenze nei confronti dei numerosi fra­telli più piccoli, laddove la donna capofami­glia è spesso assente per lavorare e per pro­cacciarsi cibo. Il tema della fame ritorna di continuo. “La fame era più grande della paura”63. Tocca spesso ai ragazzi fare le lun­ghe file per ritirare i generi tesserati, ma ta­lora sono proprio loro ad andare in giro per procurare qualcosa e possono spostarsi an­che lontano. P.I. ha tredici anni e nell’estate del 1944 viene mandato in Basilicata a com­prare farina, fagioli e ceci. Il viaggio di ri­torno è costretto a farlo tutto a piedi ed alla fine si ammala anche di malaria64. Per man­giare si possono fare piccoli furti, per esem­pio a danno dei vicini. N.R. ricorda che una sera la madre — torna la centralità della fi­gura materna — non riuscì a racimolare nient’altro che un pacco di sale. Il ragazzo, il più grande dei tre fratelli, decise allora di andare a rubare le patate che aveva visto se­minare la stessa mattina negli orti limitrofi:

Rapidamente con l’aiuto del cucchiaio e con il cuo­re in gola per paura di essere scorto, dissotterrai tut­to e riempii la borsa di questo semifracidume”65.

Per mangiare si può anche partecipare ai sac­cheggi con i tedeschi. Così racconta C.D.M.:

Io stesso durante uno di quei saccheggi dei tede­schi riuscii ad impossessarmi di alcuni pacchi di spaghetti”66.

G.M., sfollato a Frattamaggiore, accorre in una filanda che i nazisti hanno quasi del tut­to incendiato e riesce a portare con sé quat­tro matassine di filo. Nel fuggire rischia di essere ucciso da un soldato tedesco, ma un commilitone riesce a deviare il fucile. Gli ri­mane il ricordo del tedesco buono-.Non mi resi subito conto del pericolo corso, poi ho rivissuto quel momento e, spesso, ancora og­gi, torna alla mia mente il viso di quel giovane te­desco che aveva voluto risparmiare la vita di un ragazzo67.

Bombardamenti, ricoveri, sfollamento so­no le esperienze intorno a cui si costruisce il ricordo di guerra. È molto precisa la memo­ria di alcuni bombardamenti come quello del 4 dicembre 1942 e del 4 agosto 1943 e, così pure, è nitido il ricordo dello scoppio, nel marzo 1943, della nave “Caterina Co­sta” con il suo terribile carico di benzina ed esplosivo. Il ricovero nella memoria acqui­sta valenze diverse: nella medesima testimo­nianza esso può essere idealizzato e di lì a poco essere associato ad una situazione di disagio:La situazione che ancora oggi ricordo era di un amore reciproco tra tutti quelli che occupavano quel luogo umido ed oscuro. Si pregava ad alta voce mentre si sentivano i sibili delle bombe che cadevano [...] Nei ricoveri delle mani mi toccaro­no, avvenne una sola volta perché lo dissi subito a mia nonna che da allora mi tenne sempre vicino a lei. Ora mi rendo conto che simili cose avveni­vano in luoghi di tanta paura ed angoscia68.

62 Cfr. le pagine sulla degradazione dell’infanzia di Curzio Malaparte, La pelle, Milano, Mondadori, 1978, nonché lo stereotipo dello scugnizzo nel film di Nanni Loy Le Quattro Giornate.63 Testimonianza di P.B. (undici anni nel 1940), loc. cit. a nota 6 1 ,2/U .64 Testimonianza di P.I. (dieci anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 11/U.65 Testimonianza di N.R. (non dichiara quanti anni aveva nel 1940), loc. cit. a nota 61, 26/U.66 Testimonianza Cd.M. (dodici anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 7/U .67 Testimonianza di G.M. (otto anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 16/U.68 Testimonianza di C.M. (cinque anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 19/U.

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Il rifugio è ancora un’altra cosa, è il luogo della paura che si dispiega in tutta la sua pie­nezza, oltre che durante le lunghe attese, nelle scene di panico che accompagnano l’entrata e l’uscita. Ad esempio V.R. ricorda quando tra la folla, che si accalcava sulle scale del ricovero di piazza Ottocalli, un uo­mo inciampò e cadde:I sopravvenienti, spinti soprattutto dal terrore, in­cespicarono a loro volta nei corpi di coloro che erano a terra e fu il finimondo. Ripresi conoscenza dopo alcuni giorni in una corsia degli Incurabili69.

Lo sfollamento è prima di tutto l’uscita dal­la città — che nelle testimonianze viene identificata per lo più con i quartieri del cen­tro storico — verso la provincia napoletana e l’entroterra campano. La fame continua, ma c’è maggiore tranquillità. La quotidiani­tà rimane assai difficile, ma convive con at­timi di serenità:Ora sfolliamo da Napoli ed andiamo ad Ercola- no, allora Resina. L’aria di questo posto è amena, abitiamo alle falde del Vesuvio, le ginestre in fiore spandono intorno il loro profumo da quel colle dove la sera vedo tornare i nostri aerei bimotori, caccia che si stagliano contro il sole al tramonto.II mare bellissimo è solcato da navi, cacciatorpe- dinieri e qualche incrociatore, vedo anche dei pal­loni frenati che difendono il porto di Napoli, di questa città sicuramente la più bella del mondo, con il suo golfo divino attorniato dall’isola di Ca­pri a sud e dall’isola di Ischia a nord. Azzurro, ce­leste, rosa, lilla sono le tinte che predominano il Monte Vesuvio a guardia di tanta bellezza70.

Fascisti e tedeschi sono ben presenti nella memoria. Per i primi prevale l’immagine de­gli approfittatori che, utilizzando il loro sta­tus politico, imboscano il cibo e lo distribui­scono con criteri di favoritismo. S.G. scrive:

Ricordo un particolare molto importante: tutte quelle famiglie che avevano aderenze, amicizie presso il fascio e cioè i famosi gerarchi dell’epoca, avevano il privilegio di ricevere quasi sempre vive­ri, in genere scatolami, legumi, pasta, riso, ecc. Certamente ogni regola ha le sue eccezioni. Si dice a Napoli “Zompa chi può”71.E la fine della guerra, identificata nel ricordo con la fine del fascismo, viene vissuta anche come sopravvenuta impossibilità per i gerar­chi, più o meno importanti, di continuare in tale malcostume:Finalmente, dopo circa tre anni di sofferenze e di angherie di certi fascisti, che ti sequestravano tut­to con la scusa dell’ammasso, se ti beccavano, ti toglievano tutto, come è successo a me che mi tol­sero una damigiana di 5 litri d’olio, tutto un lavo­ro distrutto, avvenne la notizia che la guerra era finita...72.

Il ricordo del fascista è sussunto nella figura dell’accaparratore. L’immagine del tedesco è invece a più dimensioni. Si possono avere rapporti di cameratismo e di amicizia con i soldati tedeschi. Sempre essi danno l’impres­sione di potenza:sembrano degli dei forti ed imbattibili [...] pensa­vo che andavano via e non mi faceva piacere, an­davano via i nostri alleati, ora rimanevamo soli ad affrontare l’ignoto73.

Ma l’idea di forza è sempre congiunta a quel­la di crudeltà, a cui si contrappone lo stereoti­po dell’italiano subalterno che, talora, però, può addirittura uscire vincente dal confronto:Quella scena la ricorderò per sempre: gli occhi az­zurri del tedesco, gli occhi neri come la pece dell’i­taliano, gli uni pieni di disprezzo, occhi di un’al­tra razza, gli altri sbarrati, di una razza da sempre servile, ma che in quell’occasione vinsero per la lotta alla sopravvivenza74.

69 Testimonianza di V.R. (dieci anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 10/U.70 Testimonianza di C.M., cit.71 Testimonianza di S.G. (dieci anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 10/U.7“ Testimonianza di C.P. (dodici anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 11/U.

Testimonianza di M.A. (undici anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 1/U.Testimonianza di C.M., cit.

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Il ricordo dei tedeschi è associato agli eccidi compiuti dopo l’8 settembre: Nola, Muglia­no, Miano. Per M.M. la memoria del massa­cro al Fondo Maranese filtra attraverso l’im­magine dei genitori: il padre tranquillo a stendere noci e, poi, rapidissimo a scappare per l’imminente arrivo dei tedeschi, la madre che raccoglie tutti i figli e tiene testa ai na­zisti.L’ultimo ufficiale si fermò con noi sul terrazzo. Era per me molto alto ed elegante. Aveva due scarpe nere e lucide che facevano da base a dei calzoni grigio-verde, ben stirati.

Dell’eccidio vero e proprio sono ricordati soltanto gli spari. Esso avvenne il 28 settem­bre 1943 in seguito alla delazione di una spia fascista e comportò l’uccisione di alcuni re­duci calabresi e siciliani, rifugiatisi nella masseria, e di sei vecchi che non avevano fat­to in tempo a scappare. La spia venne uccisa qualche giorno dopo dai partigiani e il ragaz­zo li ricorda mentre inducono la moglie di uno degli anziani massacrati ad infierire sul corpo del delatore:È stato lui, lui ha mandato i tedeschi, lui ha fatto uccidere Paolo, tuo marito, vendicati, sparagli ancora e le fornì una pistola che s’inceppò subito. La donna gridava sconvolta, prese una stanga di legno, colpì più volte l’uomo morto sulla testa ed a ogni colpo quel corpo sussultava75.

In definitiva a me sembra che queste testimo­nianze siano importanti su due piani: perché lasciano intravedere i mutamenti delle rela­zioni e dei ruoli familiari e le modalità attra­verso cui nel ritmo quotidiano è inglobata la dimensione anomala della guerra; perché di­segnano un mondo che, per quanto attraver­

sato e stravolto dalle ripercussioni del con­flitto, rimane altro da quello degli adulti sic­ché gli stessi fenomeni dei bombardamenti e della sottoalimentazione sono vissuti diver­samente. Si coglie una sorta di straniamen- to, quasi un senso di meraviglia, che rende meno tragica la percezione del conflitto. Il tema della morte di rado compare, almeno in questo primo campione di testimonianze che ho esaminato; con forza si propone sol­tanto una volta e riguarda, non a caso, la morte di un compagno di giochi. C.F. si sof­ferma a lungo sull’amicizia che lo lega a Vit­torio con cui condivide l’intera esperienza della guerra. La città distrutta fa da sfondo ai giochi dei due ragazzi ed alla loro quoti­diana lotta per la sopravvivenza. Vittorio è ucciso mentre tenta di fuggire dopo un ra­strellamento nazista. C.F. però focalizza nella memoria non il ricordo dell’amico morto, ma l’immagine di una lunga ed af­fannosa corsa in cui egli, per la prima volta, riesce a sentirsi superiore al compagno:Veloci veloci, Vittorio ed io puntavamo allo stes­so traguardo, attraverso la piazza. Incredibile a dirsi, io ero più avanti di Vittorio. Due soldati te­deschi prima spararono in aria, poi ci rincorsero. Quando dall’angolo del bar “Van-Bol e Feste” arrivai ai Gradini, ero ancora in testa e neanche mi voltai per guardare se Vittorio era dietro di me, ché ne ero certo. Ma allorché giunsi a ca­sa, Vittorio non era con me: ero incredulo, e tut­tavia felice, di aver battuto per la prima volta Vittorio in una corsa. Mia madre continuava a chiedermi che cos’era accaduto, mentre io conti­nuavo a pensare con orgoglio di aver superato Vittorio in velocità per la prima volta76.

Gloria Chianese

75 Testimonianza di M.M. (sei anni nel 1940), loc. cit. a nota 61, 14/U.76 Testimonianza di Cd.M., cit.

Gloria Chianese (Napoli 1952), docente di storia e filosofia, lavora presso l’Icsr come responsabile dei settori Archivio e Ricerca. Tra i suoi saggi Napoli: questione urbana e lotte sociali nel volume colletta- neo Italia 1945-1950. Conflitti e trasformazioni sociali, Milano 1985, Sindacato e Mezzogiorno: la Ca­mera del Lavoro di Napoli (1943-1947), Napoli 1987, Storia sociale della donna in Italia, Napoli 1981.