N.2 Patrimonio e mercato

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l’œil qui pense QUADERNI SULLA CITTà MARZO 2013 APRILE 2 URBAN CENTER METROPOLITANO TORINO

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Nuovo numero del magazine di Urban Center Metropolitano

Transcript of N.2 Patrimonio e mercato

l’œilqui pense

quadernisulla città

MarZO 2013aPrile

2URBAN CENTER METROPOLITANO

TORINO

l’œilqui pense

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ISSN 2281-8073

Svendere i beni pubblici o valorizzare il patrimonioROCCO CURTO > pag. 4

Percezione e tutela, una strada per generare valoreROBERTO GNAvI > pag. 7

sguardi

Tanti, piccoli indianiCARLO OLMO > pag. 2

editoriale

Più aperte e più autorevoliIntervIsta a PAOLA vIRANO > pag. 12

strategie

Patrimonio del Novecento e principio di autoritàANTONIO dE ROssI > pag. 14

forme

Un patrimonio in cerca di qualitàIntervIste a GIORGIO GALLEsIO, MARINA PAGLIERI, LUCA RINALdI

> pag. 18

modi

Oltre il muro. Carcere, un pezzo di cittàIntervIsta a PIETRO BUffA > pag. 24

inclusioni

Notizie da non mancare

> pag. 26

cronache

l’ŒIl quI peNSeQuaderni sulla cittàun progetto di Urban Center MetropolitanoTestata bimestrale on-line, non registrata presso il Tribunale di Torino ai sensi della Legge n. 62 del 07/03/2001 Numero 2 _ marzo-aprile 2013

Direttore Carlo OlmoVicedirettore Antonio De RossiCoordinamento redazionale Carlo SpinelliIdentità visiva e progetto grafico ElyronImpaginazione Luca Begheldo

Hanno collaborato a questo numero: Paola Assom,Armando Baietto, Dario Bragaglia, Andrea Brignone, Pietro Buffa, Rocco Curto, Giorgio Gallesio, Roberto Gnavi, Marina Paglieri, Luca Rinaldi, Agnese Samà, Paola Virano ai quali va il ringraziamento di Urban Center. Le opinioni espresse negli articoli firmati e le dichiarazioni riportate impegnano esclusivamente i rispettivi autori.

© Urban Center Metropolitano, 2013

Patrimonio e mercato

CoNServazIoNe vS valorIzzazIoNe

Urban Center MetropolitanoAssociazione iscritta nel Registro Persone Giuridiche della Regione Piemonte n. 1045 del 17/11/2011

Piazza Palazzo di Città 8/F, 10122 Torinot +39 011 5537 950f +39 011 5537 980e [email protected] www.urbancenter.to.it

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ALL’INdICE

editorialeriflessioni per un luogo

c

onservazione, restauro, valorizzazione, termini dalla storia talmente complessa che da sola potrebbe scrivere una parte certo non marginale della storia politica, non solo culturale, dell’Italia

nel secondo dopoguerra. Battaglie ideologiche, confronti, spesso aspri, sul piano concettuale, strategie economiche profondamente segnate dall’accento posto sull’uno o sull’altro termine, persino scontri sull’identità anch’essa culturale, ma anche locale o nazionale, segnano i decenni dall’immediato dopoguerra sino ad oggi, dibattiti che hanno visti protagonisti Argan, Brandi, Pane e molti altri intellettuali italiani. Questi scontri, dietro i quali si celavano filosofie, etiche, estetiche oggi si sono quasi tutte trasferite sul piano locale. Venuto meno il confronto sui valori – e la passione della discussione – il dibattito si è territorializzato, seguendo certo una tendenza che non riguarda solo il bene architettonico, ma che sull’architettura e sulla sua storia ha assunto toni ancor più radicali. Si è prodotto in maniera ancor più evidente, quando ad essere chiamato in ballo è entrata l’architettura del primo e secondo Novecento. Una, due, molte modernità e postmodernità sono entrate in gioco: archeologia industriale, culture materiali, ampliamenti del concetto di paesaggio sino a sussumere un’idea di paesaggio urbano che apparteneva sino ad allora alla pittura tardogotica o rinascimentale, hanno segnato polemiche giornalistiche, seminari scientifici, assemblee locali. La storia sino ad allora lasciata a specialisti tristi e nascosti in archivi e biblioteche è diventato il materiale fondamentale del contendere. Un processo che in realtà non riguarda solo l’Italia. Dopo la caduta del muro ad esempio in Germania l’interpretazione di due grandi “traumi” – la Shoah e la repressione della Stasi – hanno riportato gli storici e l’interpretazione di quegli avvenimenti al centro del dibattito, anche se in quel caso a prevalere è stata la possibile funzione di “riconciliazione” che letture, ricerche e soprattutto architetture realizzate o recuperate potevano svolgere. L’esempio più eclatante, anche per il luogo dove si produce, è la conservazione, nella ricostruzione del Reichstag,

delle scritte di chi quel luogo ha abitato dopo l’incendio nazista e sino alla sua ricostruzione, sulle pareti dell’attuale edificio. Richiamare la storia contemporanea a essere protagonista della vita culturale, ma anche politica, ha invece in Italia una tradizione di “lacerazione” e insieme di “legittimazione”: sono le vicende legate alla guerra di liberazione a segnare riletture di quegli anni in cui la salvezza ricercata nella procedura seguita dagli storici si è rivelata barriera assai fragile all’uso ideologico della storia stessa.Nella discussone su conservazione, restauro e valorizzazione la situazione attuale non è molto diversa. L’argomentazione appare quasi trascurata a favore di emergenze che si vanno via via radicalizzando, mano a mano che da un lato la conservazione perde risorse, ma anche valore sociale, se così posso chiamarlo, e le trasformazioni legate a politiche urbane rese sempre più affannose da una crisi fiscale dello Stato, non solo delle autonomie locali, rendono la trasformazione urbana, soprattutto alla grande scala, una strada quasi obbligata. Perché – e su questo punto varrebbe la pena riflettere – è proprio quando la dimensione dell’intervento (di conservazione o valorizzazione) supera una certa scala che si apre lo scontro. È del resto questo il nodo, anche teorico, che ha richiamato di lontano il concetto di paesaggio urbano. Evocato, forse senza essere interamente concettualizzato, il trasferimento del paesaggio a città che sempre meno rispondevano a design urbani anche solo visuali – assi, prospettive, fuochi… – ha comunque messo in luce il core, come si sarebbe detto a inizio anni cinquanta, della dialettica conservazione-valorizzazione oggi: la grande scala.Il problema storico e storiografico è che la città, proprio alla grande scala, si è creata in centinaia di anni, o in decine di anni, se il riferimento è dalla metà dell’Ottocento in avanti. Ciò che crisi così radicali – come quella della seconda industrializzazione – ci mettono davanti è una trasformazione improvvisa alla grande scala, rispetto alla quale quasi nessuno strumento, né concettuale né operativo era anche solo disponibile. Tecniche, artigianati, culture, normative, strumenti urbanistici non erano né costruiti né pensati per affrontare vuoti improvvisi di milioni di metri quadrati,

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Tanti, piccoli indianiCarlo olmo

determinati anche dalla crisi delle grandi infrastrutture della città tardo ottocentesca. Il mix che si è prodotto a fine anni ottanta del Novecento, tra queste crisi ed un’ideologia del mercato come strada unica per risolvere problemi di quella scala, produce il dato forse più choccante: tanti, piccoli indiani, improvvisamente gonfiati per rispondere ai problemi che la scala propone. Siano architetture, strumenti normativi o tecniche di restauro, l’impressione quasi traumatica è di trovarsi davanti non a ripensamenti – le tracce ad esempio di progettazione alla scala urbana sono pochissime in Italia – ma di adattamenti, che rendono la territorializzazione delle rivendicazioni ancor più permeabile ad un’opinione pubblica sempre più confusa. Ma riprendere in mano la ridefinizione di strumenti tecnici, nuovi artigianati, produzioni normative e strumenti urbanistici significa riprendere in mano la riflessione sulla complessità, evitare con cura quasi maniacale ogni riduzionismo conoscitivo e operativo, difendersi dalle prese di posizioni ideologiche, rigettare atteggiamenti che facciano di identità statiche e immutabili strumenti di battaglie politiche: se c’è un manufatto umano che è in continua trasformazione è la città! Come è la straordinaria rete di città il patrimonio politico, non solo culturale e turistico, su cui l’Europa può ricominciare a costruire una sua politica non solo fiscale ed economica.

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ALL’INdICE

sguardiprospettive sulla città

Ľentità del patrimonio pubblico in termini di valori storici, artistici, architettonici, paesaggistici, è un assunto ormai riconosciuto sul piano socio-culturale, mentre sul piano politico si registra un approccio

riduttivo che ne considera la sola dimensione finanziaria (immobiliare e di mercato). Questo scollamento nega i contenuti stessi dei processi di valorizzazione che includono l’incremento del valore dei beni e li considerano come risorsa economica in piena aderenza con finalità educative, di conservazione e di fruibilità. Ciò ha comportato la sottostima e la svendita dei beni, perfino nelle congiunture più favorevoli dei mercati immobiliari. Fino ad oggi, i beni pubblici sono stati dismessi e venduti singolarmente, per rispondere alla necessità immediata di ripianare i conti dello Stato e degli enti locali – come accade per i saldi di fine stagione – senza una programmazione d’insieme rispondente a strategie di valorizzazione territoriale più ampie, articolate e condivise. L’attuale crollo del mercato immobiliare privato limita le possibilità di assorbimento dei beni pubblici, la cui offerta, data la stessa entità, è oltretutto sovradimensionata. In questa situazione di crisi non si può quindi

Svendere i beni pubblici o valorizzare il patrimonioroCCo Curto

prescindere dall’affermare una nuova visione integrata della politica culturale, che rappresenti realisticamente una leva di sviluppo economico in grado di sollecitare anche i settori produttivi.Di fatto, nonostante l’eccezionalità del valore del patrimonio culturale italiano, riconosciuta a livello internazionale, le scelte politiche rivelano la mancanza di una qualsiasi consapevolezza del patrimonio sia come valore identitario sia come risorsa economica, oltre che sociale e culturale. Non se ne riconosce nemmeno la nozione, se è vero che è considerato come insieme indistinto di beni da dismettere per rispondere all’urgenza di ripianare i debiti della finanza locale e nazionale, causati in primo luogo dall’ abolizione dell’Ici, cui si deve oltretutto anche la realizzazione di piani e progetti fuori scala rispetto alle stesse capacità d’assorbimento dei mercati immobiliari. Immettere nel mercato immobiliare singoli beni – senza avere preventivamente verificato la compatibilità tra i caratteri storico-strutturali e i nuovi usi, comporta il rischio di frammentare, disperdere, alterare, e perfino perdere, un patrimonio pubblico di notevole entità e valore culturale. Tutto ciò con lo scopo di perseguire rientri finanziari immediati. In ambito torinese, si possono citare due casi emblematici: Palazzo Gualino, trasformato da

direttore, dipartimento Architettura e design, Politecnico di Torino

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uffici pubblici in residenze private e Palazzo del Lavoro, da sede espositiva in centro commerciale, quando invece la specifica realtà torinese e più in generale piemontese richiederebbero una valutazione più attenta delle potenzialità del patrimonio architettonico del Novecento, che oggi potrebbe essere facilmente ricondotto a un sistema integrato di arte, architettura e design in grado di stimolare creatività, sperimentazione e innovazione. L’allentamento delle norme che regolavano a livello internazionale il sistema finanziario, i mutui sub-prime, l’emissione di titoli tossici a sostegno di operazioni immobiliari assolutamente fuori scala, caratterizzate come nel caso di Milano da un elevato rischio specifico e sistemico, hanno acuito negli ultimi anni le distorsioni intervenute proprio nel consumo del suolo: un consumo assolutamente ingiustificato se paragonato alle domande reali espresse dal mercato immobiliare nella sua stessa fase di sviluppo; un consumo inoltre che ha creato una condizione generalizzata di sovra offerta che limita le attuali capacità di assorbimento degli stessi beni pubblici da parte del mercato immobiliare. La stessa questione della fiscalità immobiliare è oggi dibattuta senza un qualsiasi riferimento al nodo centrale dell’equità e della conseguente riforma del catasto, ma anche

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senza considerare la fiscalità – insieme a piani di intervento relativi alle opere pubbliche – come un irrinunciabile supporto delle politiche territoriali, nazionali e locali, di cui il patrimonio storico, artistico, architettonico e ambientale del paese potrebbe costituire una risorsa economica importante.La “mercantilizzazione” dei beni di natura pubblica e meritoria nei confronti delle generazioni future è invece sostenuta in presenza di una contrazione delle compravendite che ha pochi precedenti, o in condizioni di mercato in cui non si può che svendere ossia vendere a prezzi di mercato nettamente inferiori ai valore dei beni, se è vero che lo stesso valore di mercato dei beni di interesse storico è determinato in funzione delle loro qualità architettoniche, artistiche, posizionali. I beni culturali sono beni non solo economici ma anche pubblici. In quanto tali, l’obiettivo della loro fruizione conseguente al re-use è irrinunciabile non solo sul piano del valore ma anche in termini di utilità sociale. Il più delle volte sono, infatti, beni strumentali che, persa la propria funzione originaria, devono essere “messi in valore” attraverso progetti specifici di valorizzazione. Questi devono eliminare il degrado fisico e individuare nuovi usi, usi cioè compatibili (con le caratteristiche storiche, architettoniche e artistiche dei beni)

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Svendere i beni pubblici o valorizzare il patrimonio

sguardiprospettive sulla città

e al tempo stesso rispondenti a domande reali o emergenti di servizi pubblici e privati come di attività economiche, ricreative e culturali. La valorizzazione non dipende, infatti, solo dall’intensità e dall’unicità dei valori incorporati e stratificati nei beni, ma anche dai contesti territoriali, culturali, sociali, dalla loro dinamicità e dalle capacità progettuali delle amministrazioni locali, oltre che di organizzazione e di promozione. Occorre pertanto uscire dalla logica strettamente finanziaria, illusoria, “miracolosa”, prendendo atto che siamo in presenza di una condizione di mercato di vera e propria sovra offerta. Bisogna invertire le attuali logiche delle dismissioni, partire dai territori, assumere l’intercomunalità. Per questo, è necessario ripensare l’intero processo, a partire dal momento stesso dell’identificazione dei beni, da selezionare e differenziare in base ai valori intrinseci, alle potenzialità d’uso e di valorizzazione e da confrontare col marketing

territoriale, con le domande e i pubblici di riferimento. È fondamentale considerare i beni come sistemi, raccordando le azioni e gli interventi degli enti proprietari in modo tale da integrare i beni eccezionali con i beni diffusi e i beni architettonici con quelli paesaggistici. In definitiva, dobbiamo assumere una logica di sviluppo di lungo termine più che di corto o medio termine, passando dal singolo bene al territorio, spostando l’attenzione dal singolo progetto a un piano strategico territoriale di valorizzazione che dev’essere costituito da azioni e progetti puntuali. Solo se si assume una logica sistemica si può perseguire l’obiettivo di limitare le singole iniziative e i possibili conflitti e si può operare nella prospettiva della multisettorialità e dell’integrazione.

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Ľ Italia, quantomeno nella sua Costituzione, si dice tenuta a proteggere il patrimonio nazionale dei beni culturali e del paesaggio. Una parte dei grandi problemi che questa tutela comporta sta naturalmente nella

messa a fuoco dei criteri per l’identificazione di queste entità. E una riflessione di per sé filosofica viene massicciamente infiltrata da istanze di natura economica, soprattutto per quanto riguarda l’identificazione di beni culturali edilizi e di paesaggio da proteggere, ma anche da elementi non economici ma altrettanto deleteri, narcisismi e pigrizie. Mentre per i beni culturali edilizi il nuovo Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio evita una definizione e affida l’identificazione alla sapienza degli addetti alla tutela e al mondo accademico, per il paesaggio il Codice esplicita una definizione, peraltro molto ampia e che in rapporto ai singoli casi si presta a varie interpretazioni: 1. per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni; 2. il Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto e spressione d i v alori c ulturali. Esiste ancora uno iato enorme fra quanto nella sensibilità diffusa può configurare valore estetico

o elemento identitario, e quanto risulta al momento effettivamente tutelato sulla base del Codice dei Beni Culturali e delle normative preesistenti. A tale situazione concorrono certamente interessi privati iperliberisti, sia liberismo di iniziativa economica sia, nei progettisti, conscio o inconscio desiderio narcisista di massima libertà creativa, in possibile rotta di collisione con la tutela di un prezioso esistente. Ma pesano altrettanto inerzie burocratiche, oggettiva carenza numerica del personale scientifico dedicato, e infine una vera difficoltà concettuale nel costruire una filosofia della tutela universalmente condivisa – quelli che potremmo chiamare “i dubbi onesti”. Prima di tutto, serpeggia il timore della soggettività incontrollata. Si teme che piccoli gruppi di individui possano professare con veemenza una loro nicchia culturale, insistendo sulla conservazione di singoli edifici, ambiti architettonici o di paesaggio sulla base di un nucleo appunto troppo piccolo e troppo personale di memorie condivise, o di adesione estetica. Poi si teme, non solo da parte del mondo della speculazione immobiliare, ma anche da una parte degli osservatori disinteressati, che applicare bene e con calma la lente dell’attenzione a tutto un territorio come quello italiano, folto di bellezze del paesaggio, intriso di storia e poi anche disseminato di beni archeologici ancora nascosti, porterebbe a identificare un’estensione enorme di >

Percezione e tutela, una strada per generare valoreroberto GNavIPresidente, Italia Nostra Torino

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aree meritevoli di protezione, con apparente grossa minaccia per l’utilizzabilità del territorio per esigenze collettive, da quelle infrastrutturali e produttive, alla stessa agricoltura. E così per quanto riguarda i beni architettonici e il paesaggio interessati dalla speculazione immobiliare, difficoltà concettuali “oneste” si saldano perfettamente, appunto, con le istanze della speculazione e, da qualche anno a questa parte, con le pesanti esigenze economiche avvertite da amministratori locali. Prendiamo una categoria particolarmente coinvolta, gli architetti, e per non compromettere una attribuzione di onestà intellettuale restringiamo il campo ai teorici puri, agli accademici, a quelli che operano negli organi di tutela. È diffuso anche in questo segmento elitario della categoria un certo relativismo estetico, la convinzione di una natura sfuggente e cangevole delle reazioni di valutazione estetica del pubblico, che autorizzerebbe a circoscrivere agli addetti ai lavori il dibattito sui valori. E fra i valori riconosciuti dall’accademia sembra contare molto più l’aura, diciamo pure la sacralità, del percorso creativo di un grande architetto, che non istanze espresse da più o meno ampie porzioni della “ingenua” collettività, che alla realizzazione dell’opera di questo architetto oppongano le ragioni di un paesaggio minacciato.

sguardiprospettive sulla città

Senza ripercorrere la vicenda del grattacielo Intesa Sanpaolo, provo invece a enunciare in positivo quale sia a mio avviso, e in cosa consista, l’oggettività dei valori risultati soccombenti. Il paesaggio torinese può essere più o meno intensamente percepito ed apprezzato, ma con un nucleo di reazioni analoghe largamente prevalente nella collettività. E quando parlo di rilevanza oggettiva intendo la presenza di un giudizio, particolarmente intenso in una minoranza sensibile (o se preferite ipersensibile), ma condiviso da una maggioranza sia pur meno coinvolta, e con una persistenza nel tempo facilmente constatabile. Riconoscibile in una miriade di documenti letterari dei secoli scorsi, da Alfieri, che pure di Torino non apprezzava la società, a De Amicis, a Carducci, a Gozzano. Ciò vale certamente per il paesaggio ampio della città, enormemente gratificato dalla cerchia alpina, e certamente ora, per i più, disturbato almeno non poco dall’immissione di un grosso oggetto estraneo, che è puerile paragonare con la piccola, snella, Mole Antonelliana. Proviamo a immaginare quali vincoli normativi che, adottati a tempo debito, avrebbero potuto evitare questo disastroso errore e potrebbero, nello spirito e nella lettera dell’attuale Codice, impedire danni ulteriori.Prima di tutto, nel piano paesaggistico regionale dovrebbe essere esplicitamente

Percezione e tutela, una strada per generare valore

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riconosciuto come parte, appunto, del patrimonio nazionale del paesaggio il panorama dell’arco alpino come percepito non solo dai punti panoramici sulla sommità della collina torinese, ma da tutti i principali punti della città, di accessibilità pubblica, da cui questo panorama sia fruibile, lungo le pendici della collina, su edifici pubblici elevati, come la Mole, e a livello strada dagli spazi aperti nella città che sono gratificati da questa possibilità, a cominciare dai grandi viali ottocenteschi. Ora invece, definiti “irreversibili” i quattro o cinque giganti in costruzione o comunque previsti, e pure concesso che siano “irripetibili”, il Comune di Torino snocciola uno stillicidio di Varianti che consentono edifici molto alti – sessanta metri o anche ottanta – in collocazioni destinate a interferire violentemente con la fruibilità di questo panorama: per esempio la “piastra” alta sessanta metri che sorgerà sul triangolo ex Ghia fra il bivio ferroviario e corso Dante, mortificando la vista da corso Moncalieri, e la porzione molto elevata di edilizia residenziale prevista nell’area delle ex Officine Grandi Motori fra via Cuneo e corso Vercelli. Ma di questo patrimonio nazionale dei beni culturali e del paesaggio a Torino certo non è in gioco solo il panorama delle Alpi. Vediamo per le sponde del Po progetti che non è esagerato definire sconvolgenti e, in generale, vediamo l’edilizia

storica minore avvilita dall’abituale accostamento di nuovi edifici di linguaggio violentemente dissonante, e ora minacciata dalla vera e propria cancellazione fisica di vasti complessi ottocenteschi: caserme, edifici ferroviari e altro, per rendere più appetibile lo sfruttamento immobiliare delle relative aree e, si suppone, soccorrere così le esauste casse del Comune.Anche se attualmente, per molte di queste porzioni del nostro patrimonio, non c’è nel pubblico una percezione diffusa del loro valore, penso che essa si stia rapidamente estendendo e che evitare queste distruzioni non solo ci risparmierebbe rimpianti, ma consentirebbe abbastanza presto una riappropriazione culturale di questi elementi da parte dei cittadini, generando una piccola quota di benessere anche dalla semplice percezione della loro esistenza e anche la comparsa di usi remunerativi rispettosi della storia di questi edifici, magari non immensamente distanti delle somme che il Comune conta di incassare radendoli a zero. E l’interesse per la città dei visitatori italiani e stranieri, che tanto si proclama di voler moltiplicare, non potrebbe che aumentare, scoprendone porzioni imprevedibilmente quanto “classicamente” interessanti e apprezzandone decisioni coraggiose e, queste sì, finalmente smart.

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Occorre premettere che la proprietà pubblica non è, in quanto tale, garanzia né di tutela né di valorizzazione: anzi, si è spesso assistito a usi inadeguati e all’incapacità di cogliere appieno il valore, dato che spesso l’intero patrimonio veniva trattato, con un atteggiamento sciatto, senza rilevare differenze di qualità, posizione, funzione, opportunità. Stiamo naturalmente vivendo una stagione diversa, in cui la scarsità di risorse costringe o, per lo meno, invita a far conto sulle effettive entrate, a mettere in gioco le proprie forze, in una logica più simile a quella privata, che deve però essere sempre adeguata al ruolo del soggetto pubblico. Torino ha vissuto un periodo caratterizzato dalla cospicua erogazione di risorse pubbliche: fattore molto importante, che ha consentito la realizzazione di opere e infrastrutture, ma che non è presente in un regime ordinario, il cui scenario impone

strategieprogetti di territorio

Più aperte e autorevoli le amministrazioni di fronte alla trasformazione del patrimonio

IntervIsta a paola vIraNodirettore centrale Ambiente, Territorio, sviluppo e Lavoro, Città di Torino

il confronto con le dinamiche dell’economia reale e, di conseguenza, un cambio strutturale di mentalità e di approccio, volto a considerare sempre quale sia il limite massimo raggiungibile, nelle razionalizzazioni da operare e nelle scelte da portare avanti. Ci sono elementi ancora irrisolti, o in attesa, del patrimonio immobiliare che sono parti importanti della storia urbana, pensiamo, rifacendoci a periodi diversi, alla Cavallerizza, alle Officine Grandi Riparazioni, al Palazzo del Lavoro. Un buon processo di valorizzazione parte dal ruolo degli edifici, esalta la componente storica, enfatizza il pregio architettonico. Certo un’amministrazione non può venir meno al compito di garantire ai cittadini i servizi primari e, in un momento come questo, ciò può comportare grandi sacrifici e scelte apparentemente miopi rispetto alle specifiche opzioni di recupero.

1Quale è l’approccio della Città di Torino rispetto al governo della trasformazione della città-patrimonio? Attraverso quali strategie e quali tattiche si esercitano gli equilibri istanze apparentemente confliggenti?

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2Nella consapevolezza, ormai, di non essere l’attore unico del processo, ma uno dei numerosi, come un’amministrazione può lavorare - senza perdere opportunità di sviluppo e di recupero di risorse, nell’interlocuzione con gli altri soggetti coinvolti, mirando almeno a un ruolo di efficace coordinamento?

Non vi è dubbio che il sistema italiano sia riconducibile a una situazione di tipo oligopolista, nella quale l’attuale stato di necessità degli enti pubblici porta a una condizione di oggettiva debolezza e perdita di potere contrattuale, che va a sommarsi all’asfissia del mercato e alla modesta, episodica, reattività agli stimoli del settore privato locale. Occorre lavorare sempre più per migliorare la nostra scarsa capacità di attrarre risorse, dialogando con investitori internazionali, proprio perché il supporto di investimenti privati è fondamentale per incrementare servizi, infrastrutture, opportunità.Serve, proprio per questo, una guida politica forte, che chiarisca l’autorità del ruolo pubblico, la titolarità e l’autonomia delle scelte in materia di pianificazione, nella consapevolezza della centralità di una sana e trasparente collaborazione con il privato; il partenariato

è un tema di grande attualità, certo occorre mettere in campo misure e strumenti adeguati che rendano proficua la commistione di funzioni, la condivisione di spazi, il dialogo sulla qualità degli interventi e che generino un effetto volano sull’azione di altri attori.

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3In questo difficile momento congiunturale, quali spazi di azione restano quindi per una pubblica amministrazione, compressa dalla ricerca dell’interesse pubblico – ma cosa significa oggi “interesse pubblico”? – e dalla tensione risorse-

qualità? Quale ruolo riesce a giocare al 2013, tenuto conto certo dei compiti istituzionali ma anche delle dinamiche pubblico-privato?

Penso che oggi un ente pubblico possa essere mol-to più autorevole rispetto a un tempo, se davvero in grado di mettersi in gioco ai tavoli aperti, nella consapevolezza dei diversi ruoli ma con la capacità di capire le logiche del privato, e se adeguatamente attrezzato nelle proprie professionalità. Tutto ciò in passato non era né previsto, né richiesto, ma ora la presenza di una efficiente burocrazia capace di co-ordinarsi con le dinamiche del mercato costituisce un segno di autorevolezza e comporta il relativo riconoscimento. È certo un nodo molto delicato, tenendo altresì in considerazione che non è scon-tato o automatico il fatto che il pubblico interpreti al meglio l’interesse pubblico: i ragionamenti sulle trasformazioni urbane vanno sempre declinati al livello corretto e adattati al caso di specie, non fermandosi soltanto al Piano regolatore che, pur fissando i telai fondanti le scelte d’impostazione, conta ormai numerosi elementi obsoleti. I valo-ri, in questo campo, sono raramente qualcosa di immutabile, ma sono frutto di stratificazioni che comportano successive interpretazioni e adatta-menti. Sulle modalità di riconversione, recupero e gestione non ci sono comandamenti: occorre tener presente ruoli e regole, ma credo che il compito delle amministrazioni consista soprattutto nel guidare lo spazio della mediazione, puntando il più possibile alla condivisione di obiettivi e scelte e facendosi carico delle diverse sensibilità, in un’ibridazione tra pianificazione e contrattazione. Il governo, quindi, come sintesi calata nella realtà, che fa propria la responsabilità della gestione dei territori e dei bisogni, utilizza il dialogo come stru-mento ma ha come scopo la scelta. Soprattutto nel nostro Paese, si registra di frequente il timore che la discussione possa venir strumentalizzata metten-do a rischio il risultato finale, con la conseguenza di alimentare la tendenza a celare il più possibile, specie nelle fasi nodali, alcuni processi: è un tema, questo, che rimanda purtroppo alla maturità del sistema democratico.

Più aperte e autorevoli

strategieprogetti di territorio

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rispetto a quale principio di autorità, a quali valori, si stabilisce quali sono le opere architettoniche costruite, gli ambienti e gli spazi urbani, i brani di città da preservare? È sufficiente soffermarsi un

attimo per comprendere come questa domanda sia decisiva e ben poco oziosa. È ad esempio assolutamente evidente come, al variare dei principi e dei valori scelti, possano corrispondere insiemi ed “elenchi” profondamente differenti di “oggetti” e opere da conservare. Ma non solo. Muteranno anche le metodologie di conservazione e valorizzazione, i concetti e le gerarchie alla base del progetto di restauro, le modalità e le articolazioni del vincolo. Muterà inoltre il modo stesso di pensare il rapporto tra conservazione e trasformazione, tra tutela e innovazione, e quindi ad esempio i gradi di compatibilità rispetto all’introduzione di nuovi usi e funzioni. E infine, l’affermarsi di un determinato principio di autorità e di un certo sistema di valori avrà profonde conseguenze nella determinazione dei mercati professionali, o nella definizione dei rapporti di forza connessi alle rendite di posizione culturali. Parlare del principio di autorità, dei soggetti che lo esercitano, significa quindi parlare tout court del patrimonio. Tutto ciò diventa ulteriormente complesso se parliamo di patrimonio

architettonico del Novecento. Senza avere la pretesa di ricostruire una vicenda intricatissima, è chiaro come le trasformazioni epistemologiche nel campo della storia e del patrimonio degli ultimi decenni abbiamo portato a un ventaglio di idee sulle conservazione profondamente diverse tra loro. Schematicamente, si potrebbe dire che da un lato c’è una idea di patrimonio che muove da una storiografia tradizionalmente architettonico-artistica. La “fama”, il riconoscimento di un’opera si formano all’interno di un mondo di élites professionali-culturali o di apparati istituzionali. Si tratta di una visione per certi versi autoreferenziale, perché per definire che cosa è patrimonio utilizza fonti tutte interne alle élites e al corpus delle discipline. Un prodotto raffinato di questo punto di vista è la “Guida all’architettura moderna di Roma” di Piero Ostilio Rossi, che per molti versi già travalica la tradizionale storiografia artistica per legare le opere al processo di costruzione della città o alle tecniche costruttive. Ma alla luce delle conquiste avvenute nei campi della storia sociale, delle culture materiali, ecc., quest’idea della conservazione e del patrimonio ci sta sempre più “stretta”. E ciò diventa ancora più vero in città come Milano o Torino. Ovvero in metropoli dove le pratiche sociali, la storia operaia e sindacale, la formazione di massa, i grandi movimenti sociali e religiosi hanno giocato un ruolo determinante nella plasmazione dello spazio urbano del

Patrimonio del Novecento e principio di autoritàaNtoNIo de roSSI

formecostruzione della qualità architettonica

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Novecento, delle sue memorie e identità. Memorie plurali, difficilmente riconducibili a una esclusiva idea di patrimonio di matrice aristocratica o altoborghese. L’immediato risultato è che abbiamo due topografie, o due insieme di oggetti, che certo si sovrappongono e si intrecciano, ma che al contempo si differenziano fortemente. Due liste, sia chiaro, tutte e due necessarie. Ciò mette però in crisi il tradizionale principio di autorità intorno cui viene a formarsi l’idea di patrimonio e conservazione. E porta alla necessità di allargare le procedure scientifiche, le fonti attraverso cui si vengono a selezionare le opere. Non solo, quindi, libri e riviste di architettura, ma fonti più allargate, che utilizzino anche la local history, le metodologie della storia quantitativa e orale, e via dicendo, e che possano tra l’altro portare a forme di tutela “graduata”, con modalità articolate di vincolo. E rispetto a questo necessario processo di allargamento delle fonti e di coinvolgimento della città, è doveroso ricordare almeno en passant il progetto di MuseoTorino, che costituisce un tentativo importante di mobilitare e costruire una memoria collettiva. Questo perché come Urban Center Metropolitano crediamo che solo un percorso condiviso, capace di coinvolgere enti preposti e studiosi, associazioni e cittadini, si possa superare quella logica dei veti contrapposti che oggi paralizza il tema della conservazione. L’idea di un principio di autorità articolato e

molteplice, proprio in virtù delle particolarità del patrimonio novecentesco, permette di illuminare alcune criticità più puntuali, che nel poco spazio qui disponibile non possono che essere accennate. 1. La storiografia architettonico-artistica non rischia solo di essere autoreferenziale, ma anche di far coincidere il tema del patrimonio con quello della patrimonializzazione. In realtà la patrimonializzazione (ossia il processo sociale ed economico di formazione dei valori che determina il patrimonio) e il patrimonio (l’esito della patrimonializzazione) rappresentano concetti assai diversi. Questa mancata distinzione fa sì che il patrimonio continui a essere visto come una sorta di “ontologia” naturale, e non come un concetto mobile nel tempo e un costrutto culturale, con conseguenze dirette sui modelli di gestione e di vincolo. Il patrimonio (e i suoi oggetti) come un qualcosa non di interno, ma esterno al fluire della storia e ai processi economici e sociali, quasi fosse dotato di vita propria. Però le modalità generalizzate di formazione del valore, in una società di ceti medi come è quella del Novecento, insieme al processo culturale di moltiplicazione delle “storie” cui prima si faceva cenno, portano a una esplosione del concetto stesso di patrimonio, e all’impossibilità di applicare metodologie e vincoli tradizionalmente intesi. Per dirla in altri termini: oggi la tutela è messa in crisi e rischia di essere ingestibile a causa del suo stesso successo e del

Patrimonio del Novecento e principio di autorità

formecostruzione della qualità architettonica

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suo incredibile carattere pervasivo. 2. Un secondo nodo critico concerne l’estensione del concetto di patrimonio dalla scala dell’oggetto a quella dello spazio urbano. Un processo determinato anche in questo caso dal duplice movimento della patrimonializzazione e di una visione plurale della storia urbana. Ma questo trasferimento di scala dal manufatto alla scena urbana del patrimonio avviene quasi sempre in assenza di una reale concettualizzazione scientifica del tema. Ecco così l’applicazione agli spazi della città delle tradizionali categorie del restauro, che nel passaggio di scala prendono le forme della metonimia (una parte per il tutto) o del ricorso alle categorie sette-ottocentesche del pittoresco urbano, lungo un’idea equivocata di paesaggio simbolico (per dirla alla Cosgrove) che viene a sostituire il concetto sociale ed economico di città e territorio. Ma cosa significa realmente conservare una grande fabbrica, o uno spazio urbano, nel loro complesso intrecciarsi di manufatti, memorie collettive, esperienze spaziali? Tema reso ancora più difficile dalla potenza delle trasformazioni del territorio urbano contemporaneo (riuso delle aree industriali dismesse, ecc.): che cosa resta, al di là del feticcio materico, quando magari tutto intorno è cambiata non solo la scena urbana, ma la natura stessa del suolo, per ettari e chilometri quadrati, dando vita a radicali processi di risignificazione che eliminano stratificazione e palinsesto?

3. Tutto questo riporta al centro il nodo critico del progetto. Se il principio di autorità tradizionale si dissolve a favore di molteplici punti di vista, diventa fondamentale costruire nuove modalità relazionali tra autorità e visioni diverse. Il modello della conferenza dei servizi, con la sua idea di razionalità efficientista fondata sulla sommatoria sinottica dei vincoli, non funziona più. Bisogna riportare al centro l’olismo del progetto. È quindi necessario costruire percorsi e tavoli di condivisione dove ognuno dei soggetti dovrebbe essere tenuto a esprimersi non al negativo, ma argomentando al positivo, esplicitando quindi il nesso tra progetto tout court e progetto di conservazione, cosa che finalmente renderebbe leggibili i sistemi di valori, di gerarchie e scelte.

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ALL’INdICE

marINa paGlIerI

Un patrimonio in cerca di qualitàIntervIste a

GIorGIo GalleSIo

soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Torino, Asti, Cuneo, Biella e vercelli

luCa rINaldI

vicepresidente Associazione Nazionale Costruttori Edili e Ad deGa spa

Giornalista, “La Repubblica”

G.G. Il patrimonio edilizio delle città italiane è qualcosa di molto vasto, comprende edifici, complessi di pregio e non, con le funzioni più varie, che possono e devono essere modificate sulla base delle esigenze di oggi. Si pensi all’housing sociale (in Italia limitato ad appena il 5% del totale del patrimonio abitativo) o anche alle residenze per studenti fuori sede, o alle scuole stesse (che hanno una consistenza totale di 64 milioni di mq e accolgono 9 milioni di studenti in 45 mila sedi, di cui 20 mila a rischio sismico o idrogeologico): ci sarebbe grande spazio per la riqualificazione, il risanamento e la razionalizzazione di questo patrimonio, dando contemporaneamente un importante contributo alla crescita della nostra economia, ma servono le risorse, le condizioni e gli strumenti (ad esempio l’uso della leva fiscale) per fare in modo che i conti tornino; questo delle scuole e dei poli scolastici sarebbe anche un ottimo punto di partenza per i processi di rigenerazione urbana.Patrimonio pubblico e privato devono entrare

entrambi nel disegno della riqualificazione urbana: il riuso e la rigenerazione del costruito sono oggi il tema centrale, su cui occorre lavorare con velocità e determinazione – più che sulla nuova costruzione, che è stato il mercato dominante dal dopoguerra – nella costruzione di un’offerta adeguata, anche perché esso si lega a un mercato reale, per il quale esiste una domanda e che peraltro è uno dei pochi su cui sia possibile accedere a risorse e finanziamenti esterni, nazionali ed europei.Questa domanda riguarda edifici di elevato livello di qualitativo con caratteristiche di innovazione tipologico-funzionale, di sostenibilità, economicità nella gestione, a un prezzo di mercato che consenta una corretta remunerazione. Gli investitori non prendono più in considerazione impieghi in prodotti edilizi che non abbiano queste caratteristiche. Inoltre, solo un progetto/processo veloce di intervento sul patrimonio esistente, può consentire di raggiungere gli obiettivi di Kyoto (20/20/20).

modiprocessi della trasformazione

1Il tema di questo secondo numero è “Patrimonio e mercato”. Dal suo punto di vista, di cosa parliamo quando parliamo di “patrimonio”, ovviamente in riferimento all’architettura e al tessuto storico-ambientale delle nostre città in questa fase?

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M.P. Il “patrimonio” è l’insieme dei beni culturali, artistici e architettonici di un territorio che siano stati conservati e siano da conservare: tenendo conto che non si può certo mantenere acriticamente ogni segno, ogni elemento. Il rapporto tra memoria e oblio legato a questi ragionamenti è qualcosa di molto complicato, che genera conflitti e non può essere soltanto limitato agli aspetti normativi: c’è un senso comune di appropriazione diffuso nella cittadinanza, più semplice da descrivere quando ci riferiamo a beni consolidati, antichi o comunque con un apparato stilistico decorativo forte e riconoscibile; avvicinandosi al moderno diventa invece tutto più sfuggente, con criteri difficili da stabilire. La grandezza dell’autore, il ruolo dell’edificio, la dimensione, il luogo, la funzione (per Torino l’importanza della storia industriale): attorno a questi concetti si può tentare di discutere e condividere ciò che è “patrimonio”, tenendo sempre presente che non si può allontanare l’idea di “bello”, quanto mai soggettiva e variegata.

l.r. Nel mio ruolo di Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici, non posso che fare in primo luogo riferimento al Codice, che all’articolo 2 definisce “patrimonio culturale” l’insieme dei beni culturali e dei beni paesaggistici tutelati. In considerazione peraltro delle mutevoli posizioni a partire dalle quali si è formato in passato il giudizio critico, e un edificio è stato ritenuto meritevole o meno di conservazione, dovremmo esercitare una notevole cautela nell’attribuzione di specifici valori, e soprattutto nel considerarli oggettivi e immutabili. Arriverei a dire che, a prescindere che sia sottoposto a tutela, si dovrebbe concepire come patrimonio l’intero tessuto edilizio storico. Una risorsa, al di là del valore economico, sia per il possessore che per la collettività stessa. Nei suoi confronti ci si deve porre in un atteggiamento di ascolto, abbandonando i preconcetti, anteponendo un progetto di conoscenza alla proposta di una sua eventuale trasformazione nell’ottica di uno sfruttamento mercantile.

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2Nello svolgimento quotidiano del suo lavoro, quale è il suo approccio, tecnico e culturale, nell’affrontare le questioni che ricadono all’interno delle dinamiche tra patrimonio e mercato? Quali concreti strumenti mette in campo, nel suo ruolo, per tentare di

migliorare o favorire indirettamente un innalzamento della qualità urbana?

G.G. Ben il 45% delle imprese associate all’Ance sono anche developers: certo non hanno mediamente dimensioni che consentono loro di competere con grandi operatori oltre confine, ma sono soggetti in grado di gestire lo sviluppo dell’iniziativa immobiliare, di governare un processo dall’inizio alla fine, e pure capaci di stare attivamente nelle compagini con i fondi immobiliari e altri attori, rappresentando un’opportunità per costruire edifici e spazi di qualità. Peraltro, sono quasi sempre le imprese che vanno a cercare la finanza necessaria all’intervento e in Italia il 53% delle partnership pubblico-private parte dalle imprese.Per quanto riguarda le istanze di tutela, credo che rispetto alla semplice conservazione, avulsa dal contesto contemporaneo, stratificato, in cui il bene si colloca, il tema di un riuso efficace sia qualcosa di più complicato e che imponga un atteggiamento di mediazione, lontano dalle logiche “a tutti i costi”: ogni aspetto deve avere il giusto costo, per la città, per il mercato, per l’ambiente deve essere occasione per riqualificare il tessuto urbano, con un’offerta in linea con la domanda di oggi, ma con attenzione e rispetto per la storia e la conservazione della memoria. Gestire tali processi, con gli equilibri che si portano dietro, non è sempre semplice; il ruolo che tocca ai Sovrintendenti rende questo un mestiere di grande delicatezza e responsabilità, che a mio avviso dovrebbe però registrare un atteggiamento più disponibile all’ascolto, all’apertura ad altri punti di vista. In questo senso, trovo che Torino sia stata in generale una città fortunata, che anche grazie a Sovrintendenti e funzionari di qualità, ha saputo riqualificarsi coniugando piuttosto bene tutela e riuso.

M.P. Credo non ci debba essere un’aprioristica condanna delle dinamiche di mercato, indubbiamente quando queste prevalgono in modo sproporzionato rispetto alla conservazione

Un patrimonio in cerca di qualità

del patrimonio ci si insospettisce, con la conseguenza di propendere per l’azione di chi tutela. Spesso si generano conflitti complicati, di difficile soluzione: un giornale come Repubblica ha il compito di vigilare, di rendere conto all’opinione pubblica e cerca quindi di avere tutti i punti di vista, come si è fatto negli anni per molte vicende importanti dell’architettura del Novecento, dal Lingotto, al Teatro Regio, alla Grandi Motori. Per il recupero e riutilizzo di Palazzo Gualino la redazione torinese ha anche ospitato un forum con i vari attori del progetto e del dissenso. Tutto questo deve servire a far davvero emergere gli elementi delle vicende, non solo le destinazioni d’uso, ma anche la qualità dei progetti, la coerenza con le esigenze dei cittadini. Occorre certo restituire, con l’inevitabile sintesi di una pagina di quotidiano, la complessità dei processi, ma ci sono casi in cui palesemente le soluzioni non tutelano e non valorizzano: penso alla Materferro di corso Rosselli, in cui la permanenza di un breve tratto di facciata, non restituisce senz’altro la memoria di quel luogo e diventa invece una sorta di superfluo feticcio. E il ruolo di mediazione dei giornali e degli altri organi deve anche sottolineare, oltre agli aspetti legati agli interventi di trasformazione, gli enormi rischi derivanti dall’abbandono e dal degrado (si pensi alla Cavallerizza o a Torino Esposizioni), tema che purtroppo sembra fare normalmente meno notizia.

l.r. Lavorare in un luogo che è crocevia per le scelte di conservazione o trasformazione del tessuto storico, ci investe di una pesante responsabilità. Sarebbe forse ancor più gravosa però se ci si comportasse diversamente caso per caso, anche se spesso è quello che credono, o meglio auspicano molti, professionisti e proprietari. Centocinquant’anni di dibattito nel nostro paese sulla tutela di quelli che

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chiamiamo beni culturali non possono però non costituire il termine di paragone. La tutela del patrimonio storico e artistico della nazione è stata costituzionalmente sancita, ed è prevalente su qualsiasi altra valutazione. I concetti di prevenzione, manutenzione e restauro sono definiti dalla legge. Non ci si può accontentare dunque, almeno negli interventi sui beni tutelati, di qualche pellicolare compensazione a beneficio delle “Belle Arti”, ma dobbiamo garantire la prevalenza delle esigenze della conservazione su quelle di sfruttamento economico del bene. Nella pratica naturalmente non sempre la cosa è semplice, dovendo trattare non di oggetti d’arte, ma di architetture storiche e di paesaggio, in costante mutazione. Credo più che alle imposizioni di singoli comportamenti o soluzioni, all’autorevolezza della nostra posizione nell’impostare i problemi, e alla trasparenza della nostra azione, che vuol dire rendere ragione delle scelte assunte. Il dialogo non sempre è agevole. Constato una diffusa ignoranza, anche nei professionisti, su questi temi. Non parliamo poi degli uffici tecnici degli enti locali.

Ciò ha una spiegazione nella complessità del cantiere edilizio, all’interno del quale il “restauro” è generalmente relegato in secondo piano e affidato per gli approfondimenti ad estemporanei collaboratori. Tutt’altro succede, nella selezione degli operatori, in altri ambiti, e per altre categorie di beni culturali, per quelli archeologici o artistici in particolare. Spesso, dunque, il nostro ruolo muta inevitabilmente: dal controllo a un vero e proprio supporto alla progettazione, nella definizione della destinazione più congrua, nel disegno di singoli particolari architettonici, nella scelta dei criteri di trasformazione di interi comparti urbani. L’obiettivo che perseguiamo è la fisica permanenza di queste memorie, che i cittadini riconoscono come cardine dell’identità dei luoghi, e attraverso questa la promozione di iniziative di qualità urbana diffusa, come parte della difesa della qualità della vita.

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modiprocessi della trasformazione

3Su quali aspetti del processo decisionale auspica delle modifiche, sia rispetto alle procedure sia, eventualmente, per quanto concerne i rapporti, anche non formalizzati, tra i vari attori?

G.G. Serve un decisore pubblico che abbia visione, obiettivi chiari, capacità di governare, consapevole che nel mondo di oggi il tempo di attuazione delle scelte non è una variabile indipendente dai costi di ogni tipo, economici e sociali; deve saper comunicare, costruire un sufficiente consenso, che permetta di realizzare; il cittadino, che è mediamente conservatore perché abitudinario, può diventare un alleato ed un tifoso del cambiamento. Tornando ai tempi di realizzazione di un’opera pubblica, sappiamo che in Italia un’infrastruttura impiega mediamente dieci anni per passare dall’idea iniziale alla realizzazione con il tradizionale procedimento dell’appalto, mentre per un’opera realizzata in project financing il tempo medio è di

quattro anni; in momenti di forte scarsità di risorse pubbliche, quando ciò sia proficuo e possibile, l’attivazione di capitale privato per realizzare opere pubbliche o di pubblica utilità è certamente una scelta da perseguire, superando la vecchia cultura del sospetto reciproco con la convinzione che pubblico e privato, nel rispetto dei reciproci ruoli, possono essere alleati e operare insieme con interessi convergenti.

M.P. A mio avviso un tema importante è quello del coraggio: ce ne vorrebbe di più, da parte di tutti gli attori sulla scena: occorre dialogare, nel reciproco rispetto dei ruoli, prendendo però posizioni nette, facendo scelte più chiare e meglio comunicate, nella consapevolezza che i linguaggi dell’architettura e dell’urbanistica possono risultare ostici ma che è essenziale la chiarezza nei confronti dell’opinione pubblica. Non bisogna temere le scelte impopolari, se queste seguono un percorso chiaro che anticipa

Un patrimonio in cerca di qualità

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i conflitti, li affronta e non li evita. Sempre di più, inoltre, i cittadini chiedono di essere ascoltati: non sono più disposti, come dimostrano anche fatti recenti, ad accettare passivamente interventi su strutture, per esempio, ex industriali, ritenuti lesivi della memoria e non portatori di istanze condivise.

l.r. Noi costituiamo il terminale di un processo di elaborazione progettuale. Non siamo promotori, o almeno non lo siamo stati in passato in questa città, di un dibattito su questi temi. Questo spetta alla rappresentanza democratica dei cittadini, in primis dunque al Comune, che individua le scelte di trasformazione e sviluppo della città. L’esigenza per noi è quella, già prevista per procedimenti complessi, di essere coinvolti nel processo decisionale, naturalmente per gli aspetti che ci competono, già dalle fasi preliminari. Questo per non ritrovarsi magari a esprimere dei veti quando già alcune decisioni strategiche sono state assunte, e condivise con gli operatori.

Sull’apporto della cittadinanza, attraverso comitati o associazioni di tutela, da cui spesso siamo sollecitati ad intervenire, posso dire solo che, se talvolta sono utili e stimolanti, più spesso esprimono miopi posizioni di parte, di chi nelle trasformazioni vede danneggiato il proprio interesse particolare, a prescindere da quello della collettività. Sul contributo dell’Università, lo limiterei all’ambito della conoscenza. Raramente per la mia esperienza passata ho avuto sostegno nell’attività di tutela; più spesso invece sono giunte critiche, quasi sempre infondate, sul nostro operato. Naturalmente anche in questi casi, per singoli procedimenti, il rapporto può essere ristabilito e potenziato e l’istituzione universitaria può tornare a rivestire un ruolo di attore importante in questi processi.

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inclusioniattori da portare in scena

1Incrementare la conoscenza e la visibilità del carcere quale elemento non rimovibile della città: non qualcosa da negare, ma luogo importante dove mettere in pratica il diritto, tutelare la dignità e costruire percorsi sociali di recupero e di reinserimento. Condivide questa visione?

Quali azioni possono contribuire a rafforzarla?

È un punto di vista che posso condividere, ma a un ragionamento di questo tipo manca una sorta di cappello, di premessa: in Italia, per norma e tradizione, il fatto penitenziario è – o, meglio, è previsto che sia – qualcosa di eminentemente sociale. La comunità tutta deve far parte di un percorso che tende al reinserimento, la società deve contribuire a creare le condizioni che facilitino il ritorno di chi ha sbagliato e concluso il periodo di permanenza carceraria. L’amministrazione penitenziaria è il soggetto specifico che ha il compito di gestire la pena, l’organo dello Stato responsabile rispetto alle questioni carcerarie e di avvio al reinserimento; ma se agisce in solitudine ha scarse probabilità di raggiungere i propri obiettivi. Stiamo articolando un concetto-faro: diffondere e consolidare la concezione di istituto di pena non banalmente come situazione altra o distante, ma come luogo espressione di una fase imprescindibile di una società di diritto, non è qualcosa di accessorio, ma un’azione centrale senza la quale gran parte del nostro lavoro rischia di perdere significato.

Oltre il muro. Carcere, un pezzo di città 2Carcere come luogo fatto di persone:

può raccontare gli obiettivi e gli esiti dei progetti che sotto la sua direzione sono stati attuati alla Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”?

Per affrontare senza scoraggiarsi problemi così complessi come la gestione della cosa penitenziaria, occorre innanzitutto cercare il bandolo della matassa, individuare le priorità. Nella mia esperienza alla Vallette, i principali punti d’attacco sono stati due, tra loro fortemente intrecciati: la riduzione dell’autolesionismo e l’incremento dell’occupazione dei detenuti. È stato piuttosto chiaro sin dall’inizio che incidendo su questi due nodi si sarebbe riusciti a ridurre la tensione e a produrre benefici per tutti, rendendo le persone più consapevoli. Oggi nel carcere torinese sono attive 8 cooperative per un totale di quasi 100 posti di lavoro – prima non presenti – e continuano a svolgersi esperienze formative di grande interesse. Pur senza poter risolvere tutte le problematiche derivanti dal sovraffollamento, scuola e lavoro sono misure che consentono di migliorare sensibilmente la situazione fisica e psicologica sia dei detenuti sia degli operatori.

3Ragionando in termini paradossali, se arrivasse un giorno una sorta di legge Basaglia per l’amministrazione penitenziaria, se cadessero tutti i recinti… è un’utopia a cui tendere con le politiche da mettere in campo? Quale futuro vede per il rapporto tra

città e carcere?

La domanda in realtà non si può porre. La “legge Basaglia” per le carceri esiste già e appartiene peraltro al medesimo periodo di elaborazione: è la numero 354, varata nel luglio 1975, che disciplina l’Ordinamento penitenziario. Da quasi quarant’anni, dunque, la legislazione italiana prevede che la privazione della libertà costituisca soltanto un passaggio, non più esteso dello stretto necessario e naturalmente con la piena tutela della dignità, di un percorso di rieducazione e reinserimento all’interno del contesto sociale. Nel frattempo, però, si è verificato un affastellamento di norme che sono andate

IntervIsta a pIetro buffa

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secondo cui il carcere è un luogo della città e della società, avremmo sciolto un nodo decisivo. Per fortuna ho incontrato molte persone che ragionano e stanno lavorando quotidianamente in questa direzione; insieme abbiamo potuto affrontare numerosi passaggi, incrementando la consapevolezza di chi si occupa di questa complicata materia.

Pietro Buffa (1959), laureato in Scienze Politiche e specializzato

in Criminologia Clinica con indirizzo psicologico-sociale, è

stato esperto criminologo presso il Tribunale di Sorveglianza

di Torino. Direttore di istituto penitenziario sin dal 1993,

coordinatore di progetti e gruppi di studio nazionali e

internazionali su problematiche attinenti le risorse trattamentali

intramurarie, le strategie di collegamento con la realtà esterna,

la formazione del personale penitenziario, ha guidato la Casa

circondariale “Lorusso e Cutugno” delle Vallette dal 2000 al

2012. Dall’estate scorsa è Provveditore all’Amministrazione

Penitenziaria dell’Emilia Romagna.

anche, almeno in parte, nel senso contrario, rendendo spesso poco lineare la gestione quotidiana della materia. Sono stato definito un “creativo”, ma rispetto a questo preferisco rifarmi a una definizione di Galimberti, secondo cui per identificare la creatività non è sufficiente il criterio dell’originalità, ma è al contempo necessario che quest’ultima sia connessa a un principio di legalità, a regole chiare e definite, che consentano all’attività creativa di essere riconosciuta da altri individui. Credo infatti che la proprio norma, senza mai essere infranta naturalmente, possa venir valorizzata dalla capacità delle persone che hanno la responsabilità di applicarla, ed è questo il modo in cui svolgo la mia professione, cercando giorno per giorno di migliorare ciò di cui mi occupo. E per tornare alla questione di fondo, fintantoché vorremo continuare a nascondere i problemi, sarà sia impossibile sia inutile incrementare i rapporti tra i penitenziari e il mondo circostante; se invece diventasse condiviso a tutti i livelli che il principio

foto di Andre Guermani

26l’œilqui pense < TORNA

ALL’INdICE

ex isvOr, l’ultiMa ParOla

Bocciato il ricorso del comitato dei residenti riuniti sotto gli stendardi di “salviamo Borgo valentino”: a febbraio la quarta sezione del

Consiglio di stato ha respinto in appello la richiesta di annullamento della deliberazione del Consiglio comunale, con cui l’Amministrazione ha approvato, nell’estate del 2010 (n. 97 del 23/07), il permesso di costruire convenzionato per la realizzazione di un intervento nell’area ex Isvor, compresa tra corso Massimo d’Azeglio, corso dante, via Marenco e via Monti per quasi 17 mila mq. soddisfazione da Palazzo Civico, secondo cui I giudici hanno riconosciuto la regolarità dei processi urbanistici e la bontà delle procedure attuate dal Comune, già affermate dalla sentenza del Tar avverso la quale il comitato si era appellato; delusione invece tra i residenti, che continuano a ritenere sproporzionate le cubature previste e sottostimati gli oneri di urbanizzazione a carico dei costruttori. La Gefim sta quindi procedendo alla costruzione, su progetto dello studio Rolla, di circa 31 mila mq di slp, di cui quasi 23 mila mq per nuova costruzione e 8.380 mq per restauro e risanamento conservativo, con destinazione residenziale, terziaria e commerciale.

sPina 2, dOve andare a cOnGressO e fare la sPesa

Sono molti i ragionamenti attorno al futuro dell’area ex Westinghouse, tra corso vittorio, corso ferrucci e via Borsellino. È una delle

poche porzioni di spina 2 che ancora devono trovare un assetto definitivo, tra la Cittadella Politecnica, le Ogr destinate a fondazione Crt, il Tribunale, le ex Nuove riconvertite a funzioni giudiziarie, la sede della Provincia, il grattacielo Intesa sanpalo, la nuova Porta susa e il futuro Energy Center. È stata pubblicata a fine febbraio la delibera per trasferire a privati il diritto di superficie di 34 mila mq, 9 mila in più rispetto a quanto previsto per il solo Centro congressi, con l’obiettivo di sostenere la fattibilità dell’operazione attraverso altre funzioni remunerative. Il progetto complessivo verrà redatto in seguito alla formale assegnazione dell’area e al momento si stanno ancora valutando ipotesi e soluzioni, ma sembra probabile la realizzazione di un centro commerciale (si è fatta avanti Esselunga) al posto dell’attuale giardino e area cani. Il Comune sottolinea la volontà di mantenere e anzi migliorare gli spazi verdi esistenti, ma i residenti del quartiere seguono l’iter con particolare attenzione e la Circoscrizione 3 ha già chiesto “soluzioni meno impattanti” di quanto prospettato.

cronachenotizie da non mancare

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un PianO Per MuOversi su due ruOte

Il Comune ha recentemente presentato il “Biciplan”, il piano della mobilità ciclabile per Torino. Obiettivo: raggiungere il 15% di

spostamenti in bicicletta nel proprio territorio entro il 2020, all’insegna di una mobilità più sostenibile e di una maggiore sicurezza negli spostamenti su due ruote. Torino dispone di un sistema di piste/percorsi ciclo-pedonali e aree pedonali per uno sviluppo complessivo di 175 km (125 lungo la viabilità e 50 nei parchi): il piano prevede lo sviluppo di una rete che raggiunga i 310 km di estensione tra piste, corsie, percorsi ciclabili e zone 30, articolata in 9 direttrici e 4 circolari. Le prime collegheranno i percorsi urbani con quelli extraurbani, le seconde si svilupperanno concentricamente nel tessuto cittadino. Molti di questi tracciati (60 km già realizzati dei 130 in programma) sono oggi discontinui, presentano criticità e tratti mancanti: il Biciplan punta alla loro messa a sistema e al completamento della rete in progetto tramite un fitto lavoro di ricucitura e completamento dei percorsi.

tOrri in cOrsO traianO, PrOGettO da rivedere

Il progetto per la realizzazione di torri alte 55 metri sull’isolato compreso tra corso Traiano, via Pasubio e via Guala è stato bocciato dalla

commissione Urbanistica del Comune e dalla Circoscrizione 9, che hanno chiesto allo studio Rolla, autore del progetto su incarico di Gefim, di rivedere le altezze degli edifici che si affacciano su corso Traiano. si parla ora di edifici che non superino i 30 m, vale a dire 10 piani circa, 7 in meno rispetto alla soluzione proposta precedentemente: un’altezza in linea con quelle degli altri edifici nel quartiere, fanno notare in Circoscrizione. Mentre il progetto è in fase di rielaborazione, l’amministrazione guarda alle opere realizzabili a scomputo dei diritti edificatori concessi per l’intervento. L’obiettivo è il vicino mercato di piazza Guala, bisognoso di una serie di interventi di riqualificazione.

28l’œilqui pense < TORNA

ALL’INdICE

duri Muri

È atteso entro marzo il bando per l’affidamento a privati della gestione dei locali ai Murazzi, al centro del progetto d’ambito con il quale la

Città intende riqualificare la zona di piazza vittorio. Le arcate sul fiume, da anni meta dei frequentatori della movida torinese, lo scorso autunno sono state oggetto di un’inchiesta della Procura conclusasi con il sequestro degli spazi esterni lungo il fiume e l’eliminazione di tutti i dehors abusivi. La vicenda, complessa e sofferta perché riguarda un luogo dove si scontrano una forte identità giovanile e culturale torinese e la vita quotidiana degli abitanti della zona, si snoda tra numerosi aspetti della riforma a lungo dibattuti in Consiglio comunale, pareri della sovrintendenza più o meno vincolanti rispetto al nuovo progetto di riqualificazione, le proteste dei gestori, degli abitanti e degli avventori. L’obiettivo del piano è diversificare le destinazioni, inserendo attività culturali e commerciali anche diurne. Tutti i locali saranno affidati in gestione ai privati che parteciperanno al bando per i nuovi affidamenti. Per gli attuali gestori, nessuna certezza, tranne il diritto di prelazione a parità d’offerta. Con il timore, a questo punto, di ulteriori slittamenti nell’approvazione del piano: ad agosto scadranno i contratti di gestione delle arcate.

cronachenotizie da non mancare

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le fotografie di copertina e da pagina 3 a pagina 23 sono di agnese Samà. si propone al lettore un percorso attraverso alcuni luoghi nodali del patrimonio novecentesco della città, da sud-est a nord-ovest: Italia ’61 con il palazzo a vela e il palazzo del lavoro, il lingotto, gli ex mercati Generali, la ex diatto, palazzo Gualino, la ex teksid e Snos a Spina 3. Grazie all’obiettivo ci si muove tra spazi in attesa, spazi in trasformazione, spazi riattivati.Agnese samà, fotografa e architetta di formazione, lavora a progetti di ricerca sul paesaggio urbano e rurale, e progetti sullo spazio pubblico, con un team interdisciplinare di architetti, videomakers, artisti e antropologi. Collabora con enti pubblici e privati a progetti di analisi e documentazione territoriale integrando metodi di ricerca sociologici, fotografici e video. Intende l’architettura come manufatto e come elemento immateriale che si manifesta nei modi dell’abitare; la fotografia diventa così indagine del reale, strumento critico di analisi del territorio e del paesaggio, tra diagnosi e progetto.

http://agnesesama.wordpress.com