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MT STORIE • SICUREZZA • CITTÀ • SUL PALAZZO • • CASA • AMIANTO • MONFALCONE INTERNATIONAL • MT MONFALCONE TERRITORIO Prezzo 2 € MT è un giornale promosso dall’ associazione “libertà di parola” Reg. Trib. Go N° 01/09 del 08/01/2009 N° 1 Gennaio 2009 TEMPI STRANI, QUESTI Anche per Monfalcone LA RICERCA CI SALVERÁ ANCHE SE FUORI PIOVE Intervista al professor Claudio Bianchi LEGGENDE METROPOLITANE DI CASA NOSTRA

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M T

STORIE • SICUREZZA • CITTÀ • SUL PALAZZO •

• CASA • AMIANTO • MONFALCONE INTERNATIONAL •

MTMONFALCONE TERRITORIO

Prezzo 2 €

MT è un giornale promosso dall’ associazione “libertà di parola”Reg. Trib. Go N° 01/09 del 08/01/2009N° 1 Gennaio 2009

TEMPI STRANI, QUESTI Anche per Monfalcone

LA RICERCA CI SALVERÁ ANCHE SE FUORI PIOVEIntervista al professor Claudio Bianchi

LEGGENDE METROPOLITANEDI CASA NOSTRA

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SOMMARIOSOMMARIOSOMMARIO

Tempi strani, questi. Anche per Monfalcone Sembra proprio che tutti i problemi e le contraddizioni che attraversano il pianeta si siano dati appuntamento qui.

Il problema dei migranti? noi ce l’abbiamo.Quello della domanda e dell’offerta di lavo-

ro che non si incontrano e quindi sempre più manodopera da fuori? Noi ce l’abbiamoNuove forme di organizzazione produttiva che privilegia appalti e subappalti e quindi preca-rietà? Noi ce l’abbiamo.Infortuni e morti sul lavoro? Noi ce li ab-biamo.Un implacabile serial killer come l’amianto? Noi ce l’abbiamo.Inquinamento ambientale tra centrale elettri-ca, colibatteri dall’Isonzo, terreni inquinati? Noi ce l’abbiamo.Intasamento ed inadeguatezza del sistema di mobilità e di trasporto? Noi ce l’abbiamo.Diffi coltà di sbocchi professionali per lavori qualifi cati? Noi ce l’abbiamo.Emergenza abitativa? Noi ce l’abbiamo.Una classe politica – maggioranza ed opposi-zione – spesso inadeguata? Noi ce l’abbiamo.Il disagio sociale, la crescita della povertà? Noi ce l’abbiamo.Sacche malavitose? Ce le abbiamo.Bene. E allora?

Allora è inutile mettersi a piangere in memoria di un passato che ci sembra invidiabile solo oggi che siamo nel suo futuro, ma che a ben pensarci non è mai stato troppo tranquillo.L’industrializzazione improvvisa dell’inizio ‘900, la prima guerra mondiale, il fascismo e le persecuzioni che questo territorio ha subito, la prima ondata migratoria che ha fatto lievi-tare la città, la seconda guerra, gli anni duri della ricostruzione, la strage dell’amianto che ancora continua. Eppure Monfalcone è riu-scita sempre, con cocciutaggine, a guardare i problemi in faccia e ad affrontarli e a ripartire con un dinamismo magari confuso ma scono-sciuto in altre aree della Regione.Non saranno le posizioni conservatrici espres-se con la testa rivolta all’indietro dagli espo-nenti politici dell’opposizione più retrograda di tutto il nord est, non sarà l’afasia dei partiti di maggioranza, non sarà un’ amministrazione comunale, quand’anche diligente, a disegnare la Monfalcone che verrà. Dobbiamo assumerci noi tutti cittadini il compito di costruirla ap-profi ttando anche delle opportunità che le tra-sformazioni della città ci offrono.

Bisogna tornare ad essere protagonisti del de-stino di questa città, ad affrontare con intelli-genza e fatica la comprensione e la soluzione dei problemi. Ragionando sui problemi veri e non su questioni pompate ad arte per interessi politici o di mercato dei giornali come la que-stione rifi uti e quell’altra sulla sicurezza.Dove sta scritto che non saremo capaci di ri-partire ancora una volta?Una nuova Monfalcone è davanti a noi e non sarà mai più quella di prima. Possiamo lavorare per renderla un posto dove ci piaccia ancora vivere o la vogliamo livida, timorosa, morta?Questo giornale nasce per parlare, discutere e far discutere sui problemi reali della nostra città e di tutto il suo territorio mandamentale verso il quale abbiamo grandi responsabilità.Questo giornale nasce per parlare della nuova Monfalcone e anche dei suoi nuovi abitanti, di cosa sa esprimere questa città, anche delle cose belle che vi succedono.Vogliamo essere un giornale aperto per una città aperta, rinnovata, ottimista nonostante tutto. ❒

EDITORIALE

MT è un giornale promosso dall’ associazione “libertà di parola”. Un giornale per vivere ha bisogno del contributo di tutti coloro che hanno a cuore un’informazione libera e plurale. MT è aperto alle collaborazioni di tutti. Segnalazioni, articoli, proposte, offerte di collaborazione possono essere inviate a: [email protected] blog: http://monfalconeterritorio.org

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SICURI? MA SICURI SICURI? L’ AGGRESSORE NON BUSSA, HA LE CHIAVI

RAGIONIAMO SUI DATI

SICUREZZA? SI, SUL LAVORO

FINITA BENE

LEGGENDE METROPOLITANEDI CASA NOSTRA

UN GIORNO IN BASSA SOGLIA

NE INTIVASSERO ALMENO UNA

LE GIARETTE

GLI IMMORTALI

UNA CENTRALE A BIOMASSE A STARANZANO9

101215161820

CASA DOLCE CASA

ANCHE A MONFALCONE

LA RICERCA CI SALVERÀ ANCHE SE FUORI PIOVE

AVANTI IL PROSSIMO

HO CERCATO DI NON DIMENTICARE

ODISSEA 2000

A SCUOLA DI INTEGRAZIONE

STRANIERI IN CLASSE

21222324252627

UNIVERSITÀ SI TAGLIA IL FUTURO

FARE TEATRO A MONFALCONE

IL MUSEO DEL ROCK

ARBITRO IN TERRA NEL BENE E NEL MALE

DOBIA LAB TRA SPERIMENTAZIONE E COMUNICAZIONE

L’UOMO NERO

SOMMARIOSOMMARIOSOMMARIOSOMMARIOLUCA STERLE CANTANTE

E FLAUTISTA

Ringraziamo Gabriele Polo per aver acconsentito a fi rmare questo giornale

[email protected] BertoliBettina BinsauMauro BussaniEva DemarchiMassimiliano MoschinMichela Parovel

Stefano PireddaGianni SpizzoFranco TerzoniRoberto ZanetTiziano Pizzamiglio

COMITATO DI REDAZIONE

Gabriele Polo

DIRETTORE RESPONSABILE

PROGETTAZIONE GRAFICA E IMPAGINAZIONE

Lucia Bottegaro

FOTO

Roberto Francomano

Stampato presso Grafi ka Soča Via Sedejeva, 4 5000 Nova Gorica - Slovenia

STAMPA

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gennaio 2009 • • 3M T

Sicuri? Ma sicuri sicuri?

Aqualche mese dalle elezioni politiche, l’Italia appare come un paese mol-to meno impaurito e molto, ma molto

meno insicuro. A testimoniarlo, il secondo rapporto - curato da Demos e dall’Osservato-rio di Pavia per Unipolis - sulla rappresenta-zione della sicurezza, nella percezione sociale e nei media. Solo qualche dato: negli ultimi tempi si è ridotta sensibilmente la percezione della minaccia prodotta dalla criminalità, a livello nazionale e soprattutto (quel che più importa) nel contesto locale. È calato in modo rilevante anche il timore dei cittadini di cadere vittima di malintenzionati. Dal sondaggio di Demos emerge che il problema più urgente per il 31% degli italiani è la criminalità comune. Solo un anno fa erano il 40%. Mentre il 21% indica l’immigrazione: 5 punti in meno di un anno fa. Gli immigrati, oggi come oggi, sono considerati “un pericolo per la sicurezza” dal 36% degli italiani: e fanno quasi 15 punti per-centuali in meno di un anno fa, 8 rispetto allo scorso maggio. Ma che sarà mai accaduto per far mutare opinione a tanti nostri bravi con-cittadini in maniera così significativa? Molte statistiche, in effetti, rilevano un declino nel-l’andamento dei reati che, peraltro, era comin-ciato già attorno a metà del 2007. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, questo declino si è sviluppato senza variazioni tali da giustifi-care sbalzi di umore tanto rilevanti. E allora? Dove sta il busillis? Intanto va detto che, in questo momento, la gente teme soprattutto la crisi economica. Gli altri mostri, quindi, ven-

gono dopo. Poi, come ha scritto recentemente Ilvo Diamanti, “il profilo delle “persone spa-ventate” presenta alcuni tratti particolari, utili a chiarire l’origine di questo collasso emotivo. Due fra gli altri: guardano la tivù per oltre 4 ore al giorno e sono vicine al centrodestra; nel Nord, alla Lega”. L’analisi dell’Osservatorio di Pavia sulla pro-grammazione dei tg di prima serata, peraltro, ha messo in evidenza una forte crescita di no-tizie sulla criminalità comune nell’autunno del 2007 e un successivo declino, particolarmente rapido dopo il maggio del 2008. Il peso delle notizie “ansiogene”, poi, sarebbe stato netta-mente più elevato sulle reti Mediaset, in parti-colare su Studio Aperto e Canale 5. Ciò suggerisce che i cicli dell’insicurezza sia-no favoriti, e scoraggiati, da un cortocircuito che si verificherebbe fra media e politica. In-somma, un certo modo di fare informazione avrebbe influito su quella percezione di insi-curezza che, fino alle elezioni politiche (e alle amministrative di Roma), ha colpito larghi strati della popolazione italiana. Tutto questo ci riguarda, in qualche modo? Secondo me sì, se la sovrapposizione fra dimensione reale e proiezione virtuale produce, ad esempio, quei milioni di euro stanziati dalla giunta regionale del FVG per la sicurezza. “Lo stato di appren-sione che attanaglia i cittadini è ormai acclara-to e spetta alla politica dare risposte concrete per lenire questo disagio e restituire alle nostre città un’atmosfera serena e tranquilla”: sono le parole con cui l’assessore Seganti presentò il

pacchetto-sicurezza della giunta Tondo, parole che hanno dato il ritmo pure al discorso pub-blico monfalconese, dai mesi estivi in qua. E si capisce, perché le onde mediatiche non le ca-valca solo chi le produce, ma spesso anche chi le subisce: beninteso, se chi le subisce immagi-na che questo tipo di surf sia l’unico modo per essere in sintonia con i cittadini (con gli spet-tatori?), per non scollarsi troppo da loro. Dopo, magari, arrivano pure gli applausi, per i surfisti democratici. Dal centrodestra. “Rileviamo con favore che, da un po’ di tempo a questa parte, Sindaco e giunta di M. hanno smesso l’ironia da quattro soldi su temi che da anni la Lega Nord porta avanti sulla vita cittadina” (così il maschio-alfa della Lega Nord locale, il consi-gliere regionale Razzini). E magari arriva pure il compitino: “Il piano predisposto dall’asses-sore Seganti prevede tutte le soluzioni. Rite-niamo in primo luogo che M. debba essere più illuminata perché attualmente è troppo buia. E che sia auspicabile un’adeguata presenza di gruppi volontari, magari che prima appartene-vano alle forze dell’ordine, non utilizzandoli esclusivamente per segnalare fenomeni di mi-crocriminalità ma anche, come la Lega Nord si è sempre battuta, contro i maleducati e l’an-tidegrado (sic) della città” (sempre Razzini). Insomma, se la televisione chiede sicurezza, la gente chiede sicurezza, quindi arriva l’asses-sore Seganti con un piano che prevede tutte le soluzioni e il centrosinistra, alla fine, ringrazia di cuore. Tanto, per una politica diversa c’è sempre tempo. O forse no? ❒

SICUREZZA[di Stefano Piredda]

Negli ultimi tempi si parla molto del problema sicurezza, sia a livello nazionale che locale: dall’emergenza immigrazione al fenomeno

del bullismo all’esigenza di controlli maggiori; le soluzioni proposte a questa mancanza di sicurezza percepita dalla popolazione sono le più disparate. Ogni giorno, leggendo i quotidiani, sembra che la situazione stia peggiorando, che “il nemico sia alle porte”, che la tranquilla vita dei cittadini, in questo caso, monfalconesi, sia minacciata dall’ “altro”, identi-ficato con l’immigrato piuttosto che il trasfertista o il giovane bullo, in

ogni caso lontano e diverso da “noi” e dai nostri sani valori. Tuttavia i dati e le statistiche nazionali e locali non confermano un aumento della criminalità. Le statistiche più inquietanti riguardano invece la violenza contro le donne (secondo una ricerca Istat del 2006 1 donna su 3 subisce violenza fisica), anche se di questo fenomeno si parla poco e solo quando c’è un caso eclatante, come lo stupro agito dallo straniero o l’omicidio com-messo dall’uomo (presunto) “perbene”. L’esperienza più che decennale del Centro Antiviolenza gestito dall’As-sociazione “Da donna a DONNA”, ci dice che la violenza contro le donne non è un’emergenza o un fenomeno raro, ma è una quotidianità: solo nel 2007, infatti, il Centro ha accolto 115 donne ed il numero è in co-stante crescita. Gli episodi di violenza contro le donne non accadono solo nelle strade buie e non coinvolgono solo ragazze vestite in modo succinto e solo uomini stranieri, lontani, diversi, sconosciuti o drogati, alcolizzati o poveri. Al contrario, accadono spesso dentro le nostre case: a subirli sono donne qualsiasi e ad agirli uomini normali. Sono i nostri

familiari, amici, conoscenti: uomini non sconosciuti alle donne, ma, nella gran parte dei casi, mariti, compagni, padri, figli. È importante, perciò, riconoscere questa violenza e non nascondersi dietro a luoghi comuni che identificano nel “diverso” il male e che contrappongono ipotetici va-lori sani con altri considerati sbagliati.A livello mediatico, ma anche da parte di quei servizi preposti all’assi-stenza e alla salute, la violenza tende ad essere individuata solo quando si manifesta in modo evidente ed eclatante: si rischia così di dimentica-

re che è un fenomeno quotidiano e che i casi di cui parlano televisioni e giornali sono solo una piccolis-sima parte di quello che sono costrette a vivere ogni giorno moltissime donne. Proprio per contrastare in

modo efficace la violenza contro le donne nel nostro territorio, si sta cer-cando di mettere in rete tutti i soggetti pubblici e privati che possono venire in contatto con il problema. È già attivo un protocollo integrato per la presa in carico di queste gravi situazioni ed a breve inizierà il pro-getto “INTEGRA”, attuato dai Centri Antiviolenza della Regione, assieme ad altri partners istituzionali (per la nostra zona: Provincia di Gorizia, Comune di Monfalcone, con il supporto del Comune di Gorizia e del-l’Azienda per i Servizi Sanitari n°2 Isontina) e finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per le Pari Opportunità. L’obiet-tivo è quello di realizzare un lavoro integrato di rete, per un miglior coor-dinamento negli interventi tra tutti i soggetti a cui si possono rivolgere donne vittime di violenza (Ospedali o altri Servizi Sanitari, Servizi Sociali, Polizia, Carabinieri, ,...), in modo tale che la loro situazione possa essere riconosciuta e possa essere attivato il miglior sostegno possibile. Un ap-proccio multiprofessionale e intersettoriale viene infatti riconosciuto a livello internazionale come efficace strategia di contrasto al fenomeno della violenza contro le donne. ❒

L’ aggressore non bussa, ha le chiavi

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4 • • gennaio 2009M T

SICUREZZA

Ragioniamo sui dati Colloquio con Giovanni Sammito , segretario generale provinciale s.i.u.l.p. ,(Sindacato italiano unitario lavoratori polizia , componente direttivo nazionale)

L’allarmismo ed enfatizzazione dei problemi relativi alla sicurezza personale e della collettività nel

monfalconese, non ci stanno allonta-nando dalla realtà? Sgominati i fenomeni criminali eclatan-ti quali le infi ltrazioni camorristiche con l’operazione “Torre Annunziata”, risolto uno dei più efferati omicidi mai compiuti in zona, quello di Paolo Grubissa, l’in-cessante controllo sulla presenza di cri-minalità organizzata - esordisce Sammito - assieme ad una percentuale positiva di risoluzione dei reati pari al 70 - 80%, ci pone tra le città e le province maggior-mente controllate e sicure.A livello nazionale, ci sono state impor-tanti decurtazioni delle risorse alle forze dell’ordine statali, mentre constatiamo al contrario fi nanziamenti per progetti legati alla nascita di una polizia locale. Le strategie nazionali a livello governati-vo sono inversamente proporzionali alle nostre necessità, visti i tagli consistenti alle forze di polizia con l’ultima fi nanzia-ria (tre milioni di euro in tre anni) e il po-tenziamento e la maggior autonomia della polizia locale e regionale (dai vigili urba-ni ai poliziotti municipali con la pistola), contrariamente a quello che indicherebbe il buon senso, e cioè un accorpamento sotto un unico ministero di tutte le forze dell’ordine statali dotate della professio-nalità e delle risorse umane necessarie per affrontare la complessità sociale. Il Friuli Venezia Giulia - prosegue il segre-tario S.I.U.L.P. - è stato scelto come piat-taforma sperimentale sulla polizia locale, senza dimenticare l’intervento dell’eser-cito in alcune località italiane, interventi questi in controtendenza rispetto ad altre realtà europee e mondiali protese a quali-fi care e potenziare sul territorio la presen-za di una polizia al servizio del cittadino. Il nostro sforzo è proteso ad essere parte integrante del monfalconese, magari con distaccamenti rionali, ma sicuramente non facendo esercitare a ronde cittadine ruoli non pertinenti in materia di sicurez-za e controllo della legalità. Quali sono i reati che, allo stato attuale, creano maggior preoccupazione? Gli unici veri fenomeni considerabili a li-

vello locale sono legati a situazioni di disa-gio sociale di diversa natura che sfociano in atteggiamenti violenti come atti di bul-lismo giovanile, legati anche all’immigra-zione interna, frutto magari di condizioni familiari fuori della norma e di modelli sociali deprecabili. Fortunatamente - con-tinua Sammito nella sua disamina - è una minoranza, rispetto ad una maggioranza di persone meridionali di sani principi che ha portato tra l’altro nel monfalconese un in-dotto consistente tra affi tti, compravendite immobiliari e consumi in genere: un giro d’affari di circa tre milioni di euro. Nelle problematiche seguite con attenzione c’è sicuramente anche la tossicodipenza .Ci risulta che sia a livello nazionale, sia a livello locale la violenza fra le mura domestiche, che vede prevalentemente vittime le donne, cresca in modo espo-nenziale. La violenza tra le mura domestiche è si-curamente in aumento, e dovremo prepa-rarci e lavorare in futuro per poter argina-re il problema .Bullismo, tossicodipendenza, violenza in famiglia e sulle donne, eventi questi legati più a disagio sociale ed esistenzia-le che a progetti criminali veri e propri.Infatti, parlando di queste problematiche ci troviamo a parlare di episodi legati più che altro alla microcriminalità e a proble-mi familiari. Aggiungerei il capitolo furti, fenomeno questo leggermente in aumento di circa il 2,3%, legato anche a situazioni quali la disoccupazione. Comportamen-to illegale, questo dei furti, ritenuto uno dei più irritanti dalla cittadinanza che lo interpreta come una violenza vera e pro-pria. Devo dire però che il tessuto sociale è sano e che le strutture scolastiche a tut-ti i livelli ben supportano i giovani della nostra comunità, grazie all’ottima qualità del servizio offerto.Ci sembra che l’interpretazione dei nu-meri e delle statistiche sui reati sia da prendere con le molle, trattandosi tal-volta di differenze inconsistenti rispet-to al passato.Obiettivamente bisogna ragionare sui dati, perché, per esempio, un episodio drammatico come l’omicidio aumentando da un solo caso a due, nell’anno successi-

vo vedrebbe raddoppiare percentualmen-te la sua presenza nelle tabelle statistiche e quindi potrebbe venir analizzato come priorità assoluta. I numeri vanno valutati attentamente senza isterismi.Per quanto riguarda l’ordine pubblico, tema trattato dall’amministrazione co-munale con divagazioni che vanno dal-l’uso indiscriminato delle telecamere, fi no a prese di posizione sull’assembra-mento di più persone, lo sputo, il concet-to del decoro urbano, cosa ci può dire ? Posso sinceramente rispondere che attual-mente il nostro commissariato è privo di una adeguata rete di videosorveglianza (visti i tagli fi nanziari) e che trovo so-vradimensionata quella cittadina (abbia-mo proporzionalmente più telecamere di Milano rapportate a popolazione e terri-torio). Inoltre per gestire tale rete c’è bi-sogno di più personale, che viene distolto dall’azione sul territorio. Per quanto ri-guarda le altre tematiche bisogna pensare che allo stato attuale il Sindaco nel testo di legge sulla sicurezza del 23 luglio di quest’anno viene investito di poteri sulla pubblica sicurezza e sulla vigilanza urba-na. Quindi presumo ci siano state delle aspettative riguardo la risoluzione di pro-blemi, che a mio avviso riguardano altre modalità d’intervento con le comunità straniere. Bisogna lavorare con pazienza sulla strada dell’integrazione fra la citta-dinanza. Sicuramente, in linea di princi-pio, gli strumenti per contrastare qualche comportamento fuori dalle righe, esistono già, chiunque sia il destinatario e in pre-senza ovviamente di un accadimento de-gno di rilievo.Un quadro, quello fi n qui tracciato, che sembra assolutamente fi siologico e che contrasta con l’allarme criminalità de-scritto negli ultimi tempi.Trovo che la città ed il suo mandamento abbia gli anticorpi necessari per rifi utare categoricamente intrusioni di qualsiasi tipo, peraltro già stroncate sul nascere e la maturità necessaria per dare il giusto peso ai vari accadimenti. Ritornando sul no-stro discorso, non trovo motivi particolari d’allarme sociale. Tutte le situazioni sono però da affrontare con professionalità ed esperienza. ❒

intervista

[a cura di Franco Terzoni]

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gennaio 2009 • • 5M T

SICUREZZASicurezza? Si, sul lavoro

L ’ associazione CARICO SOSPE-SO - Coordinamento Franco Cicciarella - nasce in seguito a

un terribile incidente sul lavoro, av-venuto all’interno del Porto di Mon-falcone: è l’11 aprile del 2005, Fran-co Cicciarella, operaio di 38 anni, muore.La tragedia avviene in una giornata caratterizzata da forti raffiche di ven-to che quella mattina, come registra l’Istituto Nautico di Trieste, raggiun-gono i 173 Km/h.Ma in porto a Monfalcone si continua a lavorare. Franco viene travolto da un carrello sollevatore, che manovra in retromarcia sprovvisto del segna-latore acustico. Neppure l’elisoccor-so del 118 riesce ad atterrare a causa del vento.Amici, parenti e conoscenti di Franco hanno sentito l’esigenza di riunirsi per reagire a questo immenso dolore e vincere il silenzio, non solo media-tico, seguito alla sua morte. La neces-sità di parlare e riflettere su quanto accaduto è nata non solo dal bisogno di elevare a collettiva la memoria in-dividuale ma anche di rappresentare un monito.Travalicare il dolore personale per renderlo produttivo e costruttivo è stato il proposito che ha spinto l’as-sociazione a condurre una battaglia culturale sul tema della sicurezza e del diritto a un lavoro sicuro, per contrastare un meccanismo di oblio e rimozione di una problematica così presente e devastante anche nella no-stra regione.In Italia, restando ai dati ufficiali che non comprendono il lavoro nero, si contano più di 1000 morti l’anno e quasi un milione di feriti a cui si ag-giungono più di 45 miliardi di euro di costi sociali (fonte Inail 2007).Cifre impressionanti e intollerabili, anche nel caso fossero sovrastima-te, che non ci restituiscono dati in controtendenza. Non dobbiamo mai dimenticare che dietro questi nume-ri c’erano e ci sono delle persone, ognuna con il suo dramma, che non può essere ignorato, ma deve smuo-vere le nostre coscienze e richiedere un impegno comune per ottenere ri-sposte tempestive e coerenti.

L’Associazione Carico Sospeso pro-muove iniziative allo scopo di mante-nere viva l’attenzione sul tema della sicurezza sul lavoro, coinvolgendo cittadini, istituzioni e associazioni del mandamento in momenti collet-tivi di riflessione sulla situazione lavorativa, sugli infortuni e sull’ur-genza di adeguate politiche di pre-venzione di un problema che, nel nostro paese, presenta caratteristiche di eccezionale gravità e incide quo-tidianamente con altissimi costi eco-nomici e sociali per la comunità nel suo complesso.Il percorso e le iniziative pubbliche dell’associazione hanno preso il via con la realizzazione di uno spettaco-lo, intitolato “Carico Sospeso. Fram-menti per non dimenticare Franco e...”, andato in scena nel novembre del 2005, con la partecipazione spon-tanea di numerosi amici e gruppi lo-cali, coordinati dalla paziente e sa-piente regia di Luisa Vermiglio.In quell’occasione nasce la proposta di apporre una targa commemorativa, in Porto a Monfalcone, ma la richie-sta è negata con motivazioni risibili. A sostegno dell’iniziativa è indetta una raccolta di firme che in breve tempo ne raccoglie più di 2000. Le attività proseguono nell’aprile 2006 con il presidio pacifico pres-so il porto di Monfalcone, la parte-cipazione alle manifestazioni del 1° maggio e l’adesione al Summerlab a Staranzano.Nel frattempo si organizza una serata teatrale intitolata “Camalli” con una compagnia di Genova che tra gli at-tori vanta anche un ex portuale, un “camallo”. Durante l’evento vengono consegnate, nelle mani del Sindaco di Monfalcone, le firme a sostegno della targa.Si giunge così all’11 aprile del 2007, a due anni esatti dell’incidente, nel corso di una toccante cerimonia pub-blica in porto viene apposta la targa commemorativa in ricordo di Franco e delle altre vittime del lavoro.A ottobre 2007, nell’ambito del pro-getto Contrazioni Network promosso dall’amministrazione comunale, vie-ne realizzata un’interessante rassegna cinematografica sulle problematiche

del lavoro intitolata “I giovedì sul lavoro”. Alla rassegna, partecipano anche altre associazioni: AEA, AN-MIL, ARCI, Consorzio Culturale del Monfalconese, Banda Larga, Centro di Aggregazione Giovanile di Mon-falcone.L’evento clou del 2007 è una serata di musica e di impegno che vede protago-nista il già premiato gruppo “Tetes de Bois” con lo spettacolo “Avanti Pop”. Il gruppo destina alla nostra associazio-ne i proventi di un libro/DVD “I diari del camioncino”, diffuso in tutto il ter-ritorio nazionale.Nel 2008, grazie alla collaborazione con il Liceo di Monfalcone, ci è sta-ta offerta l’opportunità di portare la problematica degli infortuni sul lavo-ro all’interno della scuola, attraverso la proiezione e il commento di alcuni video.In novembre è andato in scena uno spettacolo di teatro civile: “Il Pane Loro -Storie da una repubblica fonda-ta sul lavoro” con la regia di Ulderico Pesce e la partecipazione straordina-ria, fra gli altri, del cantante France-sco di Giacomo e del chitarrista Ro-dolfo Maltese del Banco del Mutuo Soccorso.Il 22 gennaio, nell’ambito di una se-rata dedicata alla Sicurezza presso il Centro Giovani, ci sarà l’occasione di rincontrare Andrea Satta, cantante dei Tetes de Bois e ringraziarlo del-l’impegno e dell’amicizia dimostrati alla nostra associazione. L’associazione sta inoltre cercando la strada migliore per promuovere un progetto di sostegno psicologico rivol-to agli infortunati e alle loro famiglie, mentre è già in atto una collaborazione con alcuni avvocati che si sono resi di-sponibili a fornire una prima valutazio-ne legale su problematiche legate agli infortuni sul lavoro.Un progetto che vorremmo realizzare è la creazione di un premio giornali-stico o letterario dedicato a temi ine-renti a prevenzione e sicurezza.L’associazione rinnova i più sentiti ringraziamenti a tutta la cittadinanza, le associazioni e le istituzioni che in questi anni hanno voluto sostenere e accompagnare le iniziative di Carico Sospeso. ❒

[email protected]

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6 • • gennaio 2009M T

La vicenda del parco di via Cellottini, du-rata quasi due anni, evidenzia nel bene e nel male come vanno le cose nella nostra

società e quali rischi si corrono quando gli amministratori, una volta eletti, non tengono minimamente conto dei cittadini che li hanno votati diventando espressione di ben altri in-teressi.Il Comune elabora un piano di ristrutturazione dell’ex albergo impiegati e, senza porsi alcun interrogativo, individua nella vicina area pub-blica di via Cellottini il sito ideale per un par-cheggio di servizio da 61 posti auto.Peccato che l’area in questione rappresenti un importante polmone verde all’interno del rione largo Isonzo-Crociera e sicuramente uno dei più utilizzati in città dai bambini, dalle fa-miglie, dai giovani per giocare a calcio come dai bengalesi per giocare a cricket.Nel settembre 2006 alcune casalinghe disperate (all’inizio vengono trattate così dai vicini) si re-cano in Comune per capire meglio le intenzioni

della giunta e dal momento che non ottengono spiegazioni danno vita ad un comitato sponta-neo per impedire la colata di cemento, riuscen-do in questo modo a coinvolgere un gran nume-ro di simpatizzanti nella loro vertenza.Convinte più che mai che intaccare un’area verde pubblica sia l’ultima, ma proprio l’ultima spiaggia in una società dove i bambini diven-tano sempre più sedentari, dove la democrazia diventa un concetto sempre più sfocato e dove bisogna trovare velocemente dei sistemi per ridurre il riscaldamento globale piuttosto che favorire l’utilizzo di mezzi inquinanti.Così comincia una bella avventura con tanto di petizione (sono state raccolte più di 800 fi r-me in città), girotondo dei bambini davanti al Comune, disegni contro il parcheggio realiz-zati nelle scuole e consegnati al sindaco.E ancora feste e picnic sul prato del parco inte-ressato, partite di cricket (si, anche i bengalesi hanno diritto allo svago), partite di calcio tra i giovani del quartiere e una rappresentativa di olandesi che lavorano in cantiere e centinaia di bandiere con il divieto di parcheggio alle fi ne-stre di mezza città fanno capire ai cittadini che a tutto c’è un limite e che uniti si può vincere.Naturalmente il comitato spontaneo viene ac-

cusato di essere contrario allo sviluppo, di aver chiesto appoggio logistico e umano alle realtà associative con sede in via Natisone 1 e di tut-to il corollario diffamatorio che normalmente viene appioppato a chi mette in discussione gli interessi di pochi.Ma una certa stanchezza derivante dall’esse-re poco avvezzi ai giochi della politica di pa-lazzo non riesce a frenare l’iniziativa contro quel “cemento calato dall’alto sopra il nostro parco”.Molto recentemente per bocca dell’assessore Schiavo sulle cronache del monfalconese è stato dichiarato l’abbandono defi nitivo del-l’idea di un parcheggio nel parco di via Cel-lottini. Il comitato spontaneo è riuscito a far lavorare come si deve chi dovrebbe rappresen-tare la cittadinanza. Si auspicava che la gente rimanesse intrap-polata nel frenetico ingranaggio quotidiano, che restasse disinformata, che si accorgesse di quanto stesse accadendo solo dopo la pri-ma colata di cemento sul verde. Si volevano le lamentele solo dopo il fatto compiuto a conferma dell’idea che “tanto non cambia mai niente”Invece stavolta è andata in maniera diversa. ❒

CITTÀFinita bene

[di Claudia Barros]

Leggende metropolitane di casa nostra

NJan Harold Brunvand, uno dei più famosi studiosi americani di antropologia culturale e docente all’Università dello Utah, de-

fi nisce come leggenda metropolitana un mito che dovrebbe essere relegato al folklore del passato e che invece si ricicla continuamen-te, in quella zona grigia tra l’immaginario e la realtà, adattandosi al contesto sociale del momento. E, nella società delle comunicazioni di massa, riesce ad avere una diffusione orale tale da soggiogare, talvolta, i mezzi di informazione uffi ciali senza che la notizia possa essere, in qualche modo, confermata.Esistono miti generali che si diffondono sempre uguali a se stessi facendo leva sulle paure ancestrali della gente – il caso del ragno velenoso nel tronchetto della felicità o della miriade di insetti che crescono sottopelle conseguentemente ad una puntura subita per lo più durante il sonno – e altri di matrice sociale, solitamente lega-ti a dinamiche xenofobe, sempre disponibili per essere strumenta-lizzati politicamente.Qualche tempo dopo un fatto di cronaca successo in Corso del Po-polo – il presunto rapimento di un bambino da parte di un presunto gruppo di stranieri, gli inquirenti non sono stati in grado nemmeno di delineare il contesto dell’accadimento tanto che le indagini sono state abbandonate – è girata la voce di un altro tentato rapimento all’interno del centro commerciale Emisfero. La voce è stata talmen-te ossessiva da essere oggetto di interrogazione di un consigliere comunale di maggioranza. Piccolo e Messaggero, a metà settem-bre 2007, riprendevano la voce come segue: “... episodi di bambini sottratti ai genitori, rasati e mimetizzati con abiti diversi da quelli indossati in alcuni grossi punti vendita cittadini”.Senza neanche tanta fantasia si tratta di una leggenda tra le più classiche. Brunvand, nel suo libro “Leggende metropolitane” (Co-sta & Nolan, 1989), classifi ca i miti per tipologia e - 18 anni prima a migliaia di chilometri da Monfalcone – riporta così nella categoria “tentati rapimenti” «Una donna stava facendo delle compere in un grande magazzino di Beloit (Winsconsin) insieme alla sua bambina,

quando si è voltata per un attimo. Subito dopo, si è resa conto che la piccola era sparita. I funzionari addetti al controllo hanno bloc-cato le uscite e hanno perquisito il grande magazzino. La bambina è stata ritrovata in un bagno insieme a due donne che le avevano tagliato i capelli e le avevano fatto indossare abiti diversi. Le due donne sarebbero poi state rilasciate per evitare “una cattiva pub-blicità” al grande magazzino. Le indagini della polizia su tale voce si riassumono nelle parole del capo dipartimento, John Mizerka: non abbiamo trovato niente». Sconfortante la risposta del sindaco Pizzolitto al question time che aggiunge banalità e luoghi comuni alla bufala: ”inutile nascondere la nostra situazione, siamo una città industriale e vicina al confi ne, ed è quindi possibile che si verifi chi-no fenomeni d’illegalità. Occorre capire e informare i cittadini sui fatti che qui avvengono, ma senza enfatizzare episodi o situazioni, rischiando che certe cose avvengano

Sindrome cinese La variante al tema del tentato rapimento al ma-gazzino cinese di fi anco al Kinemax.Qui il marito si sarebbe momentaneamente separato dalla moglie per entrare in un camerino a provare dei vestiti. Da quel momen-to si sarebbe persa ogni traccia dell’uomo tanto che la signora, impaurita si sarebbe rivolta alle forze dell’ordine per denunciare quanto accaduto riuscendo a far intervenire la guardia di fi nanza.Gli agenti avrebbero quindi posto sotto sequestro l’esercizio de-cretandone in questo modo la chiusura defi nitiva.Ma perché la fi nanza e non l’esercito della salvezza?Ciò che fa rifl ettere in queste vicende è che la base del delirio sicu-ritario, che ha travolto gli schieramenti di ogni colore politico, do-vrebbe essere materia di sociologi e antropologi più che di ammi-nistratori politici disposti a spendere milioni di euro in dispositivi di controllo e normalizzazione degli stili di vita che, alla fi ne, vanno a colpire proprio la fascia più debole dei cittadini. Quella che ne-cessità di più aiuti in tempi di crisi globale e strutturale. ❒

[di Mauro Bussani]

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gennaio 2009 • • 7M T

CITTÁ

Un giorno in Bassa Soglia Ne parla Luciano Capaldo, operatore sociale

Bassa Soglia nasce 5 anni fa, su indica-zione del SerT, per offrire un servizio di riduzione del danno alle persone

con problemi di dipendenza, in particolare da eroina. La fase sperimentale evidenzia che da noi vengono anche persone con al-tre problematiche: precarietà economica, perdita del lavoro o della casa, diffi coltà a mantenere un reddito.Il servizio offre una serie di beni primari come pasto, doccia, lavatrice, telefono e fax, punto internet e, soprattutto, un luo-go accogliente, purtroppo solo per due ore al giorno. È importante considerare che, per chi sta in strada nei mesi freddi, avere quotidianamente un luogo dove scaldarsi e mangiare è già una forma di riduzione della condizione di marginalità. Nel Bassa Soglia sono presenti alcuni operatori e, nonostan-te ci si trovi in una struttura protetta, l’ap-proccio utilizzato è quello “di strada”, non sono richieste generalità e non è necessario l’invio da parte di altri servizi per accedervi: Bassa Soglia signifi ca appunto nessun con-fi ne tra la strada e il servizio. La relazione di fi ducia che si crea favorisce l’emergere dei bisogni a cui si cerca di dare risposta creando un ponte verso i servizi più struttu-rati (SerT, servizi sociali, servizio di salute mentale..) Bassa Soglia tenta di essere anche un punto di riferimento per una rifl essione culturale “altra” rispetto a ciò che si legge quotidia-namente sui giornali in tema di stupefacenti organizzando dei momenti di approfondi-mento per creare maggiore consapevolezza sia in chi vive il problema sia nella società. In questo modo si cerca di offrire contatti e relazioni diverse e positive rispetto a quelle del cerchio del vissuto.C’è chi viene per usufruire dei beni primari

offerti, chi più semplicemente ha bisogno di un contatto quotidiano di aggregazione e so-cialità e chi perché sa che gli operatori sono in contatto con l’uffi cio del lavoro e con il SerT per le borse lavoro. È stato creato un servizio d’invio all’uffi cio del lavoro, dove è possibile elaborare un curriculum dando evidenza alle specifi che capacità. Viene svolto anche del lavoro di strada su diffe-renti versanti: diffusione (fuori dal cantiere) di brochure informative e un servizio mail tramite il quale è possibile richiedere consu-lenze personalizzate. Da maggio, nonostante il rifi uto dell’azienda sanitaria di appoggiare il progetto, è iniziato un lavoro in Slovenia, in collaborazione con il Drop In di Nova Gorica, per monitorare i punti caldi della città dove gli italiani vanno a rifornirsi. In alcuni casi sono state attuate iniziative di ri-duzione del danno distribuendo siringhe ste-rili e Narcan (farmaco salvavita che annulla l’effetto dell’overdose). I risultati di questa iniziativa verranno diffusi a dicembre in un incontro organizzato con il Drop In sloveno e una conferenza stampa sulla Transalpina, sperando così di dare continuità al progetto. Un’altra iniziativa è “Chill Out”, in collabo-razione con il Comune di Monfalcone, che consiste in un’opera di informazione, nei luoghi estivi frequentati dai giovani, met-tendo a disposizione gratuitamente acqua, caffè e l’uso di alcool-test. È stata fatta una mappatura di chi vive in camper, senza fi ssa dimora o in posti di emergenza, come l’ex discoteca Hyppodrome, facendo emergere il paradosso dell’impossibilità di fruire dei servizi sociali da parte di coloro che, pur vivendo nel territorio, non sono in grado di ottenere una residenza. Dal Bassa Soglia è passata almeno una ventina di persone senza fi ssa dimora, ora ce ne sono 7.

Sul rapporto con le istituzioni stendiamo un velo pietoso. L’impressione è che la politica tenga in piedi questo servizio perché la si-tuazione è talmente complessa e in fase di degenerazione che anche togliere 20 pasti al giorno e una doccia potrebbe scatenare po-lemiche e confl ittualità non di poco conto. La rifl essionePurtroppo l’unico approccio alle dipenden-ze è la criminalizzazione e ciò viene pro-posto dalle istituzioni in tutte le sedi, per esempio la scuola, senza approfondire tutti gli aspetti a partire dal contesto sociale in cui si sviluppa l’uso. Si dà sempre risalto al danno, senza distinguere tra le sostanze. In questo modo chi, alla prima esperienza, scopre l’elemento del “piacere” – elemento solitamente censurato quando si parla di so-stanze - si convince che gli siano state dette delle falsità e proverà a consumarne di altri tipi entrando in una logica meglio conosciu-ta come “policonsumo”. Ciò vale anche per il piacere dell’alcool che ha perso ogni legame culturale legato alla terra e alle usanze per trasformarsi in abuso di cocktail e superalcolici. Comple-tano il quadro la totale mancanza di spa-zi sociali e una scuola dove sono diffi cili il protagonismo e la creazione di percorsi autoformativi. Il recente decreto Giovanardi, peggiorando la già tragica legge Fini, impone ai datori di lavoro il test sulle sostanze ai propri dipen-denti. Non interessano le condizioni di si-curezza sul lavoro ma una dinamica di con-trollo sociale sulle abitudini personali: uno si fa male perché è genericamente assuntore e in quanto tale, anche se il suo comporta-mento sul lavoro è ineccepibile, rischia la sospensione per mesi. ❒

[a cura di Mauro Bussani]

Franco Titonel, 68 anni Sono arrivato al Bassa Soglia accompagnato da uno dei giovanotti che vengo-no a mangiare qua dal momento che ho la pensione minima. Vengo da alcuni

mesi con la speranza che il servizio non venga chiuso, che continui ad aiutare la gente sennò è grave. Qui danno aiuto alle persone come me cercando di risolvere i problemi.Vivo in un camper da 7 anni, d’estate fa troppo caldo, d’inverno fa troppo freddo, ci vuole la bombola per scaldarsi e con il mio reddito non ce la faccio a pagarla. Prima avevo una casa con mia sorella ma ho dovuto venderla e con quei soldi ho comprato il camper. Ho provato a richiedere una casa popolare ma mi hanno detto che per una persona è molto diffi cile, quelli che abitavano in via Volta li hanno sfrattati e non so se continuare a fare domande perché mi sembra tutto inutile anche se ho visto che il comune paga a qualcuno una camera in al-bergo. Non ho la residenza e la posta mi arriva al patronato, dove vado a ritirarla. Vedo che c’è molta disoccupazione, ci sono molti stranieri che rischiano di perdere il posto di lavoro e di dover tornare in patria e i governi non riescono a garantire un reddito dignitoso alla gente, c’è troppa crisi. L’opinione nei confronti del comune è più negativa che positiva e la gente deve vivere con quei due soldi che riesce ad accumulare. L’unica visita che ho ricevuto nel mio camper sono stati i carabinieri per controllare se ero in regola con bollo e assicurazione. Devo limitare le spese per mettere via i soldi per l’assicurazione, ho chiesto aiuto al patronato ma dicono che i miei 400 euro di pensione, secondo loro, sono suffi cienti, invece non bastano. ❒

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8 • • gennaio 2009M T

Il giornale cittadino di cui tutti siamo vittime ha elevato ad immeritata fama le imprese della coppia Nicoli e Raz-

zini. Per quasi due anni i nostri due eroi hanno imperversato sulle pagine del gior-nale nella loro epica battaglia, durante la quale dichiaravano di non voler far pri-gionieri, contro la raccolta differenziata porta a porta.Ricordate quanti argomenti portavano? Vi ricordate come, con la leggerezza dell’in-

competenza, sostenevano l’utilizzo degli inceneri-tori e dei cassonetti? Vi ricordate come prediceva-no sventure per i cittadini che si fossero rassegnati

a fare il porta a porta? Vi ricordate della dichiarata impossibilità che attribuivano ai cittadini di poter capire come funzio-nava? Ebbene, dopo un anno Monfalcone ha raggiunto il 50% di raccolta differenziata e nessuno è morto ammorbato dalla puz-za delle interiora di ribaltavapori conser-vate nei bidoncini casalinghi. Ricordate quando dicevano che con la vittoria di Romoli a Sindaco di Gorizia, si sarebbe tornati immediatamente ai cassonetti, cosa che Romoli ovviamente si è ben guardato dal fare? Forse qualcuno si chiederà perché da un bel po’ hanno rinunciato al loro cavallo di battaglia che li aveva resi popolari come Belen Rodriguez. La risposta è facile: perché le loro motivazioni erano talmente inconsistenti da venir contestate anche dai loro leader regionali. Anche il sottosegre-tario Menia, triestino, ha dichiarato recen-temente che in regione non si faranno più inceneritori e grandi discariche ma che si punterà sempre di più alla differenziata.D’altronde predicevano sventure anche sulla rotonda dell’Anconetta e poi sulla sicurezza con la richiesta continua di te-lecamere, richiesta poi smorzata quando si sono accorti che ormai in città ci sono più telecamere che abitanti.Di fatto l’unica forza che hanno è quel-la di sapersi attaccare ai mal di pancia che naturalmente nascono nella gente di fronte ai cambiamenti. Quando poi i fatti li smentiscono non se ne curano troppo: aspettano il prossimo mal di pancia e ri-partono. La via intestinale al potere. ❒

SUL PALAZZONe “intivassero” almeno una

La solita, dispettosa mareggiata ha “devastato” la spiaggia di Marina

Julia. Come ogni inverno .La sabbia se ne va e riparte la sequen-za: richieste di interventi di pulizia e di ripascimento. La cosa si sistemerà come sempre giusto in tempo per la stagione estiva, ma poi si ricomin-cerà: altra mareggiata, altri lamenti, proteste, altro ripascimento. Da qui all’eternità.E allora uno si chiede: dove sta l’erro-re? Certo mancano le difese a mare per le mareggiate, ma non è forse quello il punto centrale. E uno si chiede anche: perché quella zona una volta era nota come le gia-rette? La risposte è semplice. Una vol-ta la “spiaggia” di Marina Julia era una spiaggia molto mista con presenza prevalente di ciottoli che progressi-vamente sono spariti grazie alla sab-bia abbondantemente portata negli ultimi anni. E che viene regolarmente risucchiata dal mare.E allora viene da domandarsi se inve-ce di intestardirsi con la sabbia, non sarebbe meglio tornare alle origini. Riportare i ciottoli in spiaggia e cu-rare il prato semplifi cherebbe innan-zitutto le operazioni di pulizia e poi eviterebbe continue, inutili e costose operazioni di fatuo ripascimento. Gli stessi soldi inoltre potrebbero essere utilizzati per qualche difesa a mare e per migliorare le infrastrutture.Ma come sempre è diffi cile scegliere le soluzioni semplici. ❒

Quando, nel ‘92, esplose tangento-poli e la Democrazia Cristiana si

dissolse, qualcuno disse che moriva la DC ma non i democristiani. Mai profe-zia fu più puntuale. Da allora gli ex de-mocristiani si sono sparsi dappertutto : a destra, al centro, a sinistra e ovunque hanno fatto valere le ragioni di una grande tradizione di resistenza alle in-

temperie politiche e di galleggiamento nei mari procellosi. Sono passati 17 anni e sono ancora dappertutto. E il sogno di un rinnova-mento della politica si è infranto grazie anche alla loro tenace resistenza.Anche a Monfalcone, che pur aveva visto nei mandati del Sindaco Persi e anche nel primo mandato Pizzolitto

segnali di rinnovamento, con la chia-mata in giunta di fi gure nuove e spesso estranee alla stretta vita dei partiti, ha voluto confermare questa verità.Nella giunta comunale oggi sono pre-senti ben 4 ex margheriti su 8, e nessu-no di primo pelo. Spazzolati senza pietà gli ex Ds che conservano un solo rap-presentante in giunta. Una dimostra-zione di classe e di abilità di manovra che lascia interdetti, soprattutto i tordi che si sono fatti infi lzare.In fondo che bisogno c’è di rinnovare la politica se ci sono gli immortali? ❒

Gli immortali

LE GIARETTE

tornati immediatamente ai cassonetti, cosa che Romoli ovviamente si è ben guardato dal fare? Forse qualcuno si chiederà perché da un bel po’ hanno rinunciato al loro cavallo di battaglia che li aveva resi popolari come Belen Rodriguez. La risposta è facile: perché le loro motivazioni erano talmente inconsistenti da venir contestate anche dai loro leader regionali. Anche il sottosegre-tario Menia, triestino, ha dichiarato recen-temente che in regione non si faranno più inceneritori e grandi discariche ma che si punterà sempre di più alla differenziata.D’altronde predicevano sventure anche sulla rotonda dell’Anconetta e poi sulla sicurezza con la richiesta continua di te-lecamere, richiesta poi smorzata quando si sono accorti che ormai in città ci sono più telecamere che abitanti.Di fatto l’unica forza che hanno è quel-la di sapersi attaccare ai mal di pancia che naturalmente nascono nella gente di fronte ai cambiamenti. Quando poi i fatti li smentiscono non se ne curano troppo: aspettano il prossimo mal di pancia e ri-partono. La via intestinale al potere.

Nuovo Presidente al consorzio industriale

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gennaio 2009 • • 9M T

Una centrale a biomasse a Staranza-no. Una centrale di grossa taglia, nel suo genere. Gli interrogativi che

questo progetto pone, nel suo insieme, sono parecchi, sia di natura tecnica che, soprattutto, di origine politica.I primi sono in genere quelli che richiama-no l’attenzione preoccupata della gente, ma in questo caso sono decisamente i meno problematici. Infatti, sono gli aspet-ti sui quali le risposte fornite dai tecnici intervenuti nell’ambito dell’assemblea pubblica organizzata dal Comune, sono state precise e puntuali. Sono anche quel-le che Legambiente conosceva da prima, ma sono altri gli elementi per dire NO a questa centrale. Per farla breve, se i tra-sporti per rifornire il combustibile alla centrale avvengono nella quasi totalità via rotaia, se le emissioni in atmosfera possono essere contenute, se l’area dove dovrebbe sorgere l’insediamento ha le ca-ratteristiche urbanistiche idonee, è chiaro che il senso di disagio per questo insedia-mento ha ben altra origine.E veniamo al punto, perché una centrale a biomasse da 55 megawatt a Staranzano (consideriamo che la taglia di quella rea-lizzata ad Arta Terme, a biomassa legno-sa, è di 4,6 MWtermici e 05 MWelettrici, soltanto)? Chi ci guadagna e chi ci perde?Ci guadagna la società Elettrostudio, che propone la realizzazione e gestione dell’impianto, grazie soprattutto ai con-sistenti contributi economici (certificati verdi) che otterrà per un periodo di 12 - 15 anni (e dopo che succede?); ci gua-dagna (e molto) chi ha venduto o venderà il terreno (ad oggi sembra esserci un pre-liminare, peraltro abbastanza avvolto nel mistero); solo apparentemente ci guada-gna il Comune di Staranzano, che spera di veder decollare una zona artigianale non molto appetita dalle aziende.Perdono tutti gli altri soggetti: in primo luogo l’Ambiente, in nome del quale si tenta di rifilare di tutto, dall’acqua mine-rale della salute (molto meno controllata dell’acqua del rubinetto, con costi ener-getici enormi) al nucleare ( spostando le risorse economiche dalle fonti rinnovabili e delle misure per l’efficienza energetica ad un’industria nucleare in declino in tut-to il mondo); perdono i cittadini, in buo-

na parte contrari, che hanno raccolto in poco tempo più di 500 firme di residenti a Staranzano contrari all’impianto; perde la politica, che guarda miope solo al proprio giardino, disinteressandosi degli ammoni-menti dell’ONU e della Comunità Euro-pea che invitano alla cautela nella stipula di accordi tra Paesi produttori (poveri) e società importatrici dei Paesi ricchi, te-mendo il ripetersi di tragiche conseguen-ze socio-economiche a discapito degli agricoltori. Perdono gli abitanti dei Paesi

in via di sviluppo che, come purtroppo sta già succedendo, sono indotti a coltivare estensivamente alcuni tipi di palma e la “miracolosa” Jatropha curcas, che ha rese per ettaro stupefacenti, ma non considera i loro bisogni essenziali, crea un mercato controllato dai Paesi importatori che ri-schia di degenerare in sovrapproduzione e inaridimento dei suoli.Insomma: alla faccia delle rinnovabili! Oltretutto non c’è traccia di sfruttamento del calore facendo ricorso al teleriscalda-mento, con il folle risultato che il 60% del-l’energia se ne va beatamente dispersa in atmosfera; è ampiamente ignorato l’acco-rato appello di Comunità Europea e asso-ciazioni agricole ad adottare la cosiddetta “filiera corta” e, in definitiva, il bilancio energetico complessivo difficilmente sarà

positivo, con buona pace dell’impellente necessità di ridurre con decisione la Co2 emessa in atmosfera.E poi, se tra quindici anni i certificati ver-di saranno esclusi? O se, già nel prossimo futuro, come si ipotizza, saranno ridotti? Che ne sarà dell’impianto? Il Comune di Staranzano ha previsto una adeguata fi-dejussione? Non ci risulta!Infine, se è vero che è prevista una com-pensazione economica, abbiamo fatto due conti: per un funzionamento di circa 8000

ore/anno, e considerato che i certifica-ti verdi valgono circa 150 euro a MWh, Elettrostudio ricava (55 x 8000 x 150 = 66 milioni di Euro/anno)! Si è parlato di una convenzione nell’ambito della quale Elettrostudio dovrebbe versare nelle casse del Comune annualmente circa 200.000 Euro, ICI e Tarsu comprese! Praticamente un’elemosina.Chi amministra deve prendere decisio-ni, anche impopolari a volte. Con alcuni obblighi imprescindibili però: farlo con specchiata competenza, coinvolgimento della popolazione alla quale va spiegato ogni risvolto in termini oggettivi, valuta-zione di tutti gli aspetti dell’operazione, non per primi e non solo quelli econo-mici. Ahinoi, tutti elementi affrontati in modo evidentemente inadeguato. ❒

TERRITORIO

Una centrale a biomasse a Staranzano A tutti i costi, contro ogni logica! [di Michele Tonzar]

Che ne sarà dell’impianto?

Il Comune di Staranzano ha

previsto una adeguata

fidejussione?

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10 • • gennaio 2009M T

La “Crisi dei mutui” negli U.S.A. che ha comportato il fallimento indeco-roso di vari colossi bancari renden-

do palese l’insostenibilità del sistema finanziario speculativo capitalista e che continueremo a sentire sulla pelle di tan-

te famiglie “normali” anche in Italia, è disastrosa soprattutto per le fasce più deboli della popolazione e per tutti gli impoveriti. A Monfalcone si registra senza ombra di dubbio la situazione di maggior sofferen-

za a livello regionale sul fronte della casa. Esiste un disagio abitativo che aumenta inesorabilmente per una serie di motivi diversi e che dovrebbe essere affrontato in maniera complessiva. Nel momento in cui servirebbero almeno 4-500 nuovi alloggi pubblici e un’azione congiunta, coerente e condivisa tra Amministrazione Comunale, Ater, Regione, Associazioni di categoria, non ci sono nuove risorse economiche e urbanistiche e dal gover-no nazionale si incita alla vendita delle abitazioni di proprietà pubblica per fare cassa addossando nuovi rischi mutui alla popolazione.

È difficile per sempre più

persone o nuclei familiari

accedere ad una casa in

affitto

Corrado Altran

CASA

[di Corrado Altran]

Casa, dolce casa. Anche a Monfalcone?

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gennaio 2009 • • 11M T

Mancano alloggi... eppure se ne sono co-struiti o ristrutturati tanti in questi anni, sia pubblici che privati, ed i residenti nel Mandamento non sono aumentati poi più di tanto, stando ai dati uffi ciali degli Uf-fi ci anagrafi ci.Certamente una delle principali cause de-riva dal fatto che il trend di componenti per nucleo familiare è in decrescita; no-nostante la crescita zero del nostro Paese i nuclei familiari aumentano, soprattutto i single o i nuclei di due persone. Insomma ci sono meno persone ma più necessità di case. Un altro fattore che incide sicura-mente è anche la presenza, fi no a qualche anno fa temporanea, di lavoratori che ar-rivano a Monfalcone da altre parti d’Italia o da tutto il mondo e che hanno rappre-sentato per molti affi ttuari una manna, portando a sfruttare l’impennata di do-manda di alloggi pseudo-ammobiliati a prezzi altissimi, come da sempre accade

nelle città sedi di università rispetto agli studenti “fuori sede”. Se ne stivano 4, 5 o più per alloggio e si realizzano, spesso in nero, ricavi mensili superiori ai 1000 euro. In nero, lo sottolineo. E di conse-guenza da anni si è alzato il livello me-dio degli affi tti, costringendo moltissimi a cercare un tetto altrove, non solo nel Mandamento ma anche in Slovenia. E l’aumento del valore medio degli affi tti è stato alimentato anche dalla Legge re-gionale che concedeva un bonus per le famiglie in diffi coltà, aumentando le spe-culazioni da parte dei proprietari: effetto prevedibile ma non previsto.E poi sono aumentati i casi di minori al-lontanati dai nuclei familiari o i casi di emergenza abitativa e le persone che vi-vono in strada...o in una “casa molto ca-rina senza soffi tto, senza cucina...” come recita la fi lastrocca cantata da Endrigo.L’altra faccia della problematica per chi non è ancora proprietario di una casa è il “mutuo”. Ed anche qui, non solo negli U.S.A., sempre più persone non riescono a pagare le “maledette” rate e ad estingue-re il mutuo cui si è ricorsi per poter dare soddisfazione al proprio cosiddetto diritto alla casa.A fronte di cause diverse l’effetto sem-bra apparentemente unico: è diffi cile per sempre più persone o nuclei familiari, che non hanno già la proprietà di un immobile, accedere ad una casa in affi tto. A Monfal-cone, le case in affi tto sono circa un mi-gliaio di proprietà pubblica (tra Comune ed Ater) e circa 2000 di proprietà privata. Le prime sono per la maggior parte già as-segnate e quelle vuote, fi nalmente, quasi tutte oggetto di ristrutturazioni, anche se con tempi biblici...; le seconde sono ac-cessibili a prezzi medi degni delle grandi città italiane (per monolocali “arredati” la media è di 500 € al mese). Ma attorno al mercato della casa non ci sono solo le speculazioni dei proprietari che affi ttano “in nero” e che sfuggono ai controlli evidentemente poco effi caci degli Enti competenti. Vista l’inevitabile impossibilità per gli Enti Pubblici, Comu-ne e Ater in primis, di soddisfare tutto il fabbisogno abitativo reale, ci pensano al-tri, come il sottobosco camorrista da tem-po presente a Monfalcone, a dare risposte a chi non trova alloggi in affi tto, magari subaffi ttando alloggi occupati abusiva-mente.Sulle occupazioni “abusive” si è scate-nata una battaglia “etica” degna di mi-gliori cause, almeno stante la situazione nel Monfalconese. Le autoassegnazioni,

in realtà, hanno permesso di spingere l’Ater e il Comune ad occuparsi con più serietà della ristrutturazione degli alloggi fatiscenti e lasciati per anni vuoti, hanno consentito a nuclei familiari in diffi col-tà di trovare risposta all’esigenza di una casa uscendo dallo strozzinaggio e dalle speculazioni del mercato privato e, a mio avviso, senza prevaricare altrui diritti perchè recuperavano in stato di necessi-tà alloggi “senza soffi tto, senza cucina...” lasciati in abbandono dagli Enti compe-tenti (o in-competenti) da anni e, quindi, alloggi non disponibili per l’assegnazione a potenziali inquilini in attesa nelle gra-duatorie dei bandi pubblici.E comunque hanno spinto le Ammini-strazioni ad immaginare ulteriori, nuove possibilità d’intervento rispetto alla tradi-zionale risposta che la legge consente o cui la legge costringe gli Enti pubblici e che non permette di dare risposta a tutte le esigenze, ma solo ad una parte del di-sagio abitativo reale. Come nel caso del-l’auto-recupero o auto-costruzione, già abbondantemente utilizzata in altri Paesi europei e che, faticosamente, inizia a rea-lizzarsi anche in Italia. Rispetto a queste considerazioni, natural-mente, si rivela molto grave l’incapacità della precedente Amministrazione regio-nale a promulgare una legge adeguata alle nuove esigenze abitative in regione e a nulla aiuteranno le nuove norme razziste dell’attuale Amministrazione regionale, che aumenteranno la tensione abitativa e gli affari per speculatori e camorristi, identifi cando nella presenza di lavoratori non italofoni l’unico problema a livello regionale. Già oggi aumentano le persone che devono arrangiarsi in camper, auto, alloggi “di fortuna” e la necessità di un dormitorio pubblico a Monfalcone è or-mai evidente. A Gorizia c’è già... Insomma, “mala tempora currunt”. Gli obiettivi di realizzare 4-500 nuovi allog-gi per soddisfare le reali necessità di chi abita o lavora nel Monfalconese e di con-trastare il mercato illegale degli affi tti in nero sembrano non interessare nessuno. Si preferisce investire e dedicare risorse all’installazione di telecamere inutili e nel controllo “spietato” del numero di perso-ne ospitate per alloggio o nelle verifi che patrimoniali di chi non riesce più a pagare la rata del mutuo contratto per acquista-re l’alloggio pubblico... E si alimenta la “guerra tra poveri”, sempre più sfruttati sul lavoro, invitati ad... arrangiarsi dagli Enti competenti, sempre più a rischio esclusione e marginalità. ❒

CASA

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12 • • gennaio 2009M T

MTMT considera la questione amianto come una delle emer-genze di Monfalcone e riserve-rà, a partire da questo numero, uno spazio dedicato

AMIANTO

Incontro il professor Claudio Bianchi nell’uffi cio della Lega tumori presso l’Ospedale di San Polo (edifi cio A,

primo piano, in fondo al corridoio ovest). Qui, in uno spazio angusto ed illuminato dalla luce artifi ciale anche quando fuori c’è il sole, egli svolge da anni le sue ri-cerche. Le interrompe solo quando la sua presenza è richiesta in giro per il mondo dagli organizzatori dei più importanti con-vegni internazionali di studio sulle neo-plasie asbesto correlate. Mi dice che non rinuncerebbe mai a quest’uffi cio perché è contiguo agli sportelli dell’Associazione esposti amianto di Monfalcone e ciò gli consente di avere un contatto quotidiano con le persone che sta aiutando. In que-sti periodi di alto medioevo per la ricerca scientifi ca ci sono istituzioni che credono nel suo lavoro e lo sostengono fi nanzia-riamente.Professor Bianchi, lei si è occupato durante la sua vita professionale delle conseguenze che l’utilizzo irrespon-sabile dell’amianto ha prodotto sulla salute umana. Ha iniziato a farlo in un tempo in cui la cosa era unanimemente e deliberatamente sottaciuta. Lei è sta-to capace di farlo con grande coraggio ma soprattutto riuscendo a produrre evidenze oggettive così importanti da costringere il mondo che le stava attor-no a fare i conti con questa tragedia. Credo che tutto ciò le sarà costato qual-cosa in qualche modo...Vorrei dire subito che non sono stato io a scegliere l’amianto, è stato l’amianto a scegliere me. Mi ci sono imbattuto ca-sualmente per un caso di mesotelioma al peritoneo in una persona affetta da asbe-stosi. Eravamo nel 1971 e conoscevo la cosa del tutto superfi cialmente. Ho co-minciato allora ad occuparmene andando a ritroso ad esaminare gli altri casi. Ho continuato ad occuparmene per alcuni anni anche se, allora, l’amianto non era al primo posto tra i miei interessi perché avevo intrapreso la carriera medica con l’obiettivo di occuparmi di psichiatria e neurologia. Infatti quando ho iniziato a studiare anatomia patologica ero interes-sato all’anatomia patologica del sistema nervoso e avrei desiderato specializzarmi in neuropatologia; poi, per varie ragioni,

non ho potuto farlo e nel 1979, venendo a Monfalcone, ho messo l’amianto al pri-mo posto giacché in questa città l’amian-to aveva già allora più importanza che a Trieste.I suoi primi studi che reazioni suscita-rono nella comunità monfalconese?Si sapeva dal punto di vista scientifi co che il mesotelioma era prodotto dall’amianto. La prima autopsia su un caso di mesote-lioma pleurico è avvenuta a seguito di un incarico assegnatomi dall’Inail: si trattava di una perizia medico-legale per stabilire se si trattasse di una malattia professio-nale o no. La mia risposta, a fronte del-le evidenze oggettive riscontrate, è stata sì. Non ci sono state reazioni importanti. Ricordo che i miei colleghi più giovani erano i più increduli, mentre i colleghi di anatomia patologica pensavano che io fossi leggermente fi ssato...Ha mai avuto la sensazione, man mano che il quadro epidemiologico esplodeva nella sua drammaticità e lei diventava uno degli studiosi più accreditati sul-l’argomento, che la cosa suscitasse del disagio attorno a lei o addirittura di aver subito ostracismi o ancora oppo-sizioni?Forse un vero ostracismo no, certamen-te ero accusato di occuparmi troppo, da primario di anatomia patologica, di pato-logie asbesto-correlate... in tutta onestà posso ammettere che in parte fosse an-che vero, ma soprattutto disturbava che io comunicassi direttamente alla stampa i risultati delle ricerche e del nostro la-voro. Non abbiamo mai fatto mistero dei risultati e questo “seccava”. Da un cer-to punto di vista si può riconoscere che l’Azienda per i servizi sanitari (o come si chiamava a quel tempo) una dose di ragione ce l’avesse perché la direzione avrebbe desiderato comunicare lei stessa i risultati alla stampa. Però era accaduto che la prima volta in cui, tornando da un congresso con dei risultati importanti, li consegnassi al Direttore sanitario chie-dendo che fossero comunicati alla stam-pa; non successe nulla; da allora iniziai a comunicare direttamente con la stampa. Nel corso degli anni ho subito qualche reprimenda e l’accusa, ricorrente, di fare dell’allarmismo, di ingigantire i problemi

per miei fi ni personali. Purtroppo quello che stava accadendo ha dimostrato che non stavo ingigantendo nulla.L’accusa di creare gratuitamente del-l’allarmismo è sistematica, anche a me è accaduto di sentirmela rivolgere, è la situazione di per sè ad essere macro, lei ha registrato e divulgato i dati senza enfatizzarli o ingigantirli. Per contro avremmo donde di ribaltare l’accusa affermando che semmai si è riscontata e per certi versi si registra tuttora una diffusa tendenza a minimizzare... Quando parliamo di amianto, della morte e del dolore che reca, siamo im-mersi nella tragedia, ne siamo consape-voli... tuttavia sappiamo che tra qualche decennio, almeno qua da noi, nessuno morirà più d’amianto. In realtà sarà così solo in Occidente perché nel sud del mondo l’amianto è commercializza-to ed utilizzato in quantità mostruose, non bisognerebbe scordarsene mai.Infatti, pensiamo all’aspettativa di vita in generale. Dall’inizio del Novecento ai giorni nostri è aumentata notevolmente, questo è un dato di cui sentiamo parlare spesso, però l’aspettativa di vita è aumen-tata solo nel mondo occidentale, non nel Sud del mondo. La stessa cosa accade per l’amianto. Sì, qui fi nirà, ma altrove deve appena incominciare. Per fortuna che ci sono degli organismi come il Segretariato internazionale per la messa al bando del-l’amianto che è molto attivo e ci fornisce continuamente informazioni sulla situa-zione nel mondo e organizza convegni mondiali a frequenza biennale, il prossi-mo si terrà ad Hong Kong quest’anno e avrà per obiettivo la messa la bando totale dell’amianto. Questi convegni si riferi-scono soprattutto ad Asia, Cina e Russia

La ricerca ci salverá anche se fuori pioveConversazione con il professor Claudio Bianchi

di Tiziano Pizzamigliointervista

[a cura di Tiziano Pizzamiglio]

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che sono i maggiori produttori e consu-matori di amianto. I dati epidemiologici riferiti alla situazio-ne locale attualmente disponibili, grazie al registro dei tumori del Friuli Venezia Giulia, che recentemente ha fornito i dati del periodo 2004-2005, non mostra-no una situazione migliorata, questo va contro quelle che erano le mie personali speranze. Ero ottimista perché nell’am-biente cantieristico, c’è stata una ridu-zione dell’utilizzo già nella seconda metà degli anni Settanta. Inoltre, nel trasporto marittimo, l’avvento dei container ha ri-dotto l’esposizione (prima, l’amianto era trasportato in sacchi di carta e di juta), ciò signifi ca che, nella nostra zona, l’espo-sizione globale si è ridotta ormai da una trentina d’anni. Conseguentemente, anche se non ci sarà una cessazione dei casi di mesotelioma, necessariamente dovrem-mo registrare una riduzione dei casi entro pochi anni perché il rischio amianto è in netta funzione della dose inalata e, se di-minuisce la dose globale, necessariamen-te dovranno diminuire i casi. Nonostante l’andamento epidemiologico attuale an-cora smentisca questa mia convinzione, rimango convinto che presto assisteremo ad una diminuzione progressiva.

Non ci sono molti altri elementi positivi. Il mesotelioma è veramente un tumore che sfugge a tutte le regole, mentre per tutti gli altri tumori si realizzano continuamente notevoli progressi infatti la chirurgia, da devastante ed invasiva che è sempre sta-ta, man mano che procediamo diventa sempre più rispettosa dell’integrità del-l’organismo. Nel mesotelioma si è veri-fi cato l’esatto contrario: si è riportato in voga l’intervento che consiste nell’aspor-tare il polmone, la pleura, il pericardio e il diaframma, e tuttavia questo è l’unico rimedio disponibile. I progressi terapeu-tici sono nel complesso scarsi. Un altro elemento positivo che mi sento di citare, che deriva dall’osservazione quotidiana dei casi piuttosto che da precise e rigorose registrazioni statistiche, è che sempre più spesso registriamo casi di durata in vita dalla diagnosi dai due ai quattro anni, a volte cinque. Non sono casi frequentissi-mi, però si ha la sensazione che qualche cosa sia cambiato, la prima cosa a cui vie-ne da pensare è l’avvento di una terapia migliore ma è più probabile che, in qual-che modo, in certe persone, sia aumentata la resistenza. Un altro elemento positivo è che certamente esiste una resistenza naturale agli effetti dell’amianto perché,

se su 100 persone esposte all’amianto noi abbiamo l’insorgenza del mesotelioma in un solo soggetto, o in dieci su cento come è avvenuto per la categoria di lavoratori più esposti, gli isolatori, bisogna conside-rare che ci sono gli altri 90 che, a parità di esposizione, non hanno sviluppato il me-sotelioma dopo 40 o 50 anni. Possiamo concludere che l’amianto è la condizione assolutamente necessaria, però ci sono degli altri fattori che si aggiungono, una resistenza individuale molto estesa esi-ste. La ricerca dovrebbe cercare di capire quali sono gli elementi che fanno da base a questa resistenza e quali sono i fattori che la possono elevare. Tendiamo a pen-sare che questa resistenza sia dovuta alle difese immunitarie che certo tendono a ridursi con l’età e al ridursi dell’esposi-zione all’amianto ma che, in 90 casi su cento, come abbiamo visto, non porta al tumore. Questo è un elemento di grande valore positivo. Un altro elemento positi-vo emerge dalle ultime ricerche condotte sui lavoratori della fabbrica di cemento amianto di Casale Monferrato, oggetto di studi intensi e di alto livello già da tanti anni. Queste ricerche hanno suggerito una regola completamente opposta a quella in vigore: si è sempre ritenuto e ancora >>

AMIANTO

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AMIANTO>> si ritiene che lo scorrere del tempo fosse un elemento contrario, cioè, quanto più tempo passa, tanto maggiore è il ri-schio. Queste ricerche invece dimostrano il contrario: fi no a quarant’anni dalla fi ne dell’esposizione il rischio aumenta, ma al di là di un certo valore il rischio non aumenta più e tende a ridursi. In altri ter-mini si potrebbe dire che il tempo non è un nemico ma è un alleato. Il motivo della riduzione del rischio deriva dal fatto che il polmone certamente non è in grado di espellere grandi quantità di amianto, però un certo grado di epurazione esiste ed è molto più rilevante di quanto un tempo si ritenesse. Quindi, man mano che passa il tempo e soprattutto se non subentra una nuova esposizione, ecco che questa len-ta, ma non insignifi cante operazione di allontanamento dell’amianto dal tessuto polmonare comincia ad avere un buon effetto. Ecco perchè il rischio tendereb-be a diminuire con il tempo. La ricerca dovrebbe orientarsi sull’individuazione dei fattori che aumentano la suscettibili-tà o, per contro, i fattori che aumentano la resistenza. Su questo stiamo lavorando da vari anni, con pochi mezzi, con pochi risultati anche se qualcosa abbiamo raci-molato...Quello che ha appena fi nito di dire, mi riporta con la memoria a quanto lei stes-so mi disse qualche anno fa e cioè che è vero che il mesotelioma pleurico non è una neoplasia né debellabile né cura-bile allo stato delle attuali conoscenze mediche, tuttavia si potrebbe orientare la ricerca per trovare il gene, o quello che è, in grado di prolungare la laten-za della malattia di decenni perché, se si riuscisse di differirla di ottant’anni, è chiaro che uno fa in tempo a mori-re prima in modo naturale magari a centoventi anni... Allora le chiedo, se a capire questa cosa ci riesco io, che non sono un medico né un assessore, come mai non ci sono dei progetti orientati a stravolgere, differendolo all’inverosi-mile, il tempo della latenza? Non lo so, d’altra parte è diffi cile imma-ginare un qualcosa che aumenti il tempo della latenza perché, da un lato la resisten-za è in funzione della dose di amianto ina-lata ed è pressoché impossibile aumentare la latenza in un lavoratore con dosi mas-sicce di amianto nei polmoni e dal mo-mento che, se il polmone non vi provve-de, è impossibile rimuovere l’amianto dai polmoni e mi riesce diffi cile immaginare altri modi per aumentare la latenza. La patogenesi del mesotelioma pleurico ri-

mane misteriosa. Ci si chiede: se l’amian-to è presente da tanto tempo, perchè ci impiega 30, 40 o 50 anni per svilupparsi? Non è assolutamente immaginabile che le prime alterazioni avvengano nei primi tempi di esposizione, evidentemente nei primi decenni dall’inizio dell’esposizione non avviene niente perché l’organismo riesce a neutralizzare l’amianto che ha in corpo, mentre dopo succede qualcosa perché probabilmente c’è un crollo delle resistenze immunitarie.Ma allora la ricerca non potrebbe cer-care proprio questo?Sì, bisognerebbe trovare qualcosa in grado di aumentare le resistenze immunitarie.L’amianto è la zona franca del positivi-smo di cui dovrebbe essere ammantata l’intera comunità scientifi ca mondiale. Per ogni patologia ci sono ricerche in corso e risultati ottenuti, per il mesote-lioma pleurico non c’è niente. Addirit-tura qualche settimana fa su Il Piccolo c’era la cronaca di un convegno tenuto-si in Olanda in cui per l’ennesima volta gli scienziati hanno annunciato che non ci sono speranze di guarigione dal me-sotelioma pleurico. Per come la vedo io l’intera tragedia amianto è marchiata da un fatalismo di matrice giudaico-cristiana che non ammette reazioni alla strage dell’amianto, non sul fronte po-litico, non sul fronte medico scientifi co, spesso nemmeno sul piano emotivo. Ma perché anche la scienza che può progre-dire solo per prove e successive confu-tazioni, è affetta da questa sindrome fa-talista che ha sostituito il positivismo?Non possiamo certamente parlare di disin-teresse, però c’è un motivo e consiste nel dire che quasi tutto in ambito scientifi co è mosso dalle grandi case farmaceutiche con i loro grandi capitali da investire. Sia la ricerca pubblica che quella privata pun-tano sui tumori più frequenti perché han-no un impatto sociale maggiore e garan-tiscono profi tti più importanti. È un dato di fatto che il mesotelioma della pleurica è uno dei tumori meno frequenti anche se, qua da noi, invece è frequente e nessuno potrebbe defi nirlo un tumore raro. Tut-tavia non si può parlare di disinteresse della scienza: per esempio, il convegno di Amsterdam da lei citato, che si intitola-va “Convegno del gruppo di interesse sul mesotelioma pleurico”, si tiene ogni due anni e riunisce ricercatori che si occupano sotto tutti i punti di vista esclusivamente del mesotelioma...Secondo lei è più una questione di ri-sorse o di sapere umano?

Sapere umano. A livello mondiale qual-che progetto di ricerca c’è. Per il meso-telioma le possibilità terapeutiche sono scarse, ma ci sono alcuni centri, negli Usa e qualcosa anche in Italia, che trattano con buon successo, ben il 50% dei casi, il me-sotelioma del peritoneo che è ancora più complicato da trattare perché il peritoneo è una membrana che avvolge l’intestino, avvolge tutti i visceri addominali, quindi, quando il mesotelioma trasforma questa sottile membrana che segue le pieghe di tutti i visceri addominali, rimuoverlo è un impresa notevole, eppure ci stanno riu-scendo.Un’ ultima domanda. Per formularla attingerò dalla mia esperienza perso-nale perché vorrei introdurre il discor-so della percezione del rischio e di uno dei vari business che scaturiscono dal-l’amianto. Dunque, a mio avviso hanno artatamente diffuso la fobia per l’eter-nit perché ci sono quantità mostruose di amianto in opera e qualcuno saprà ricavarci parecchi quattrini con la bo-nifi ca...Da ragazzo, prima di partire per il ser-vizio militare, ho lavorato a bordo delle navi in un cantiere di riparazioni na-vali di Trieste. Ricordo un’intera setti-mana trascorsa a rimuovere l’amianto delle tubazioni che dovevamo sostituire nella sala macchine di una nave stal-la. Non avevamo nessuna dotazione di protezione individuale ed abbiamo ri-mosso l’amianto dai tubi con il martel-lino da saldatore. L’altro mio contatto con l’amianto si è protratto per tutta la mia infanzia e tutta la mia adolescen-za perché mio padre aveva costruito una cantina con il tetto in eternit dove ho trascorso ore e ore a giocare. Se un giorno dovessi sviluppare una patolo-gia asbesto correlata, sarà più proba-bile che essa derivi dalla settimana tra-scorsa a bordo a picchettare l’amianto o da quindici anni di giochi sotto una tettoia in eternit?(Sorride) Certamente da quella settimana là perché se l’amianto non produce pol-vere non reca danno. Però anche queste piccole esposizioni ambientali non vanno prese sottogamba perché non possiamo valutare solo una situazione specifi ca quanto piuttosto la sommatoria di tut-te le situazioni di possibile esposizione. Non possiamo affermare che l’amianto in opera non costituisca un rischio, però cer-tamente il rischio è di un ordine di gran-dezza enormemente inferiore di quello avvenuto in sede professionale. ❒

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V engono chiamati MMVF (man-made vitreous fiber) i prodotti inor-ganici fibrosi ottenuti sinteticamen-

te (lana di vetro, di roccia, di scoria, ma anche fibre di ceramiche, di carbonio e di grafite). L’utilizzo di questi prodotti si è diffuso vieppiù per l’isolamento termico ed acustico e, oggi come oggi, di questi prodotti sono conosciute almeno 30.000 (sic!) applicazioni industriali diverse. Del resto non potrebbe essere che così dal mo-mento che questi prodotti (che inizieremo a definire per l’aspetto che ci preoccupa e cioè sostituti dell’amianto) presentano ottime caratteristiche di resistenza: infat-ti resistono al fuoco, reggono all’umidità e sono ottimi isolanti acustici e termici. Praticamente, messo al bando l’amianto, non era possibile trovare un sostituto suc-cedaneo migliore delle MMVF.L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) classifica la lana di vetro, di roccia, di scoria, le fibre di cera-miche, di carbonio e di grafite nel gruppo 2B: “Possibile cancerogeno per l’uomo”, con l’eccezione dei filamenti di vetro, che sono classificati nel Gruppo 3: “Non clas-sificabile come cancerogeno per l’uomo”.Nella sola Europa contiamo già alcune decine di migliaia di lavoratori addetti alla produzione di queste fibre, a questi vanno aggiunti i lavoratori che utilizza-no il prodotto finito. A questo punto c’è forse qualche lettore che non saprebbe

dire quali sono i settori industriali di maggior utilizzo delle MMVF? Esatto! Navalmeccanica ed edilizia... Habermas o non Habermas, la storia gira vorticosamente al ritmo e al sol-do delle sempre più spietate esigen-ze di profitto dell’industria. E come non preoccuparsi per i potenziali, ma purtroppo non eventuali, effetti per la salute, dovuti all’esposizione a queste fibre? Mica che i figli che si son persi l’amianto dei padri devono ora recuperare inalando le fibre dei sosti-tuti dell’amianto?Non è il caso di scherzare. Già sono stati rilevati in un numero non trascurabile di lavoratori esposti a fibre artificiali sintomi

persistenti a carico della cute e dell’appa-rato respiratorio e bisogna tener presente che, come ben abbiamo avuto modo di im-parare dall’amianto, i danni più importan-ti non sono immediatamente riconoscibili perché sono soggetti ad un certo periodo di latenza prima di manifestarsi, stiamo parlando di tumori ai polmoni, alla pleura e al peritoneo, tanto per intenderci. Non ci sono ancora studi sulla capacità cancerogena per l’uomo delle MMVF e quindi il nesso eziologico tra la fibra e la cellula che può condurre al cancro è anco-ra tutto da dimostrare, tuttavia è indispen-sabile considerare questo dato: l’amianto non provoca tumori in quanto amianto, ma a causa della particolare struttura fisi-ca in cui si presenta. Ciò è già sufficiente per attivarsi immediatamente per la tutela della salute dei lavoratori, affinché la tra-gedia dell’amianto non si ripeta appunto perché, ed è proprio il caso di ribadirlo, le MMVF sono un materiale con le stesse caratteristiche fisiche dell’amianto. ❒

Avanti il prossimo

Ho cercato di non dimenticareCristina Visintini

È stato il 1999 l’anno in cui ho capito cosa significasse “morire d’amianto”. Perché è stato il 1999 l’anno in cui ho

conosciuto Rita Nardi, vedova “dell’amianto” che per prima ha raccolto il coraggio di denunciare per omicidio colposo i dirigenti di Fincantieri.Assieme a lei, poi, altre donne, vedove che hanno visto mori-re i loro mariti soffrendo in modo terribile, indicibile, hanno fatto sentire la loro voce non per chiedere denaro, ma per chiedere giustizia, dignità, onore. È stato nel 1999 che ho iniziato a scrivere davvero consapevolmente in merito alla tragedia amianto, una tragedia che per troppo tempo è ri-masta sepolta sotto il silenzio dilaniando centinaia, migliaia di famiglie di Monfalcone e del Monfalconese private dei loro mariti, dei loro padri, dei loro figli, ma anche delle loro donne, che spesso avevano, e hanno avuto, l’unica colpa diaver lavato tute di lavoro sporche d’amianto. Quasi che la morte, provocata dall’aver respirato fibre di amianto men-

tre si svolgevano le proprie mansioni lavorative, fosse una conseguenza “normale”. Un tributo dovuto allo sviluppo, all’economia, al profitto. Ma non è così. Non è così che si deve morire. Sono state le lacrime di Rita, ma anche di Duilio Castelli, dei figli di chi è morto a farmi capire che di quelle morti non potevo scrivere, per poi passare ad altro articolo, dimenticando. Lacrime che mi hanno fatto capire come la morte di quelle persone, di quei lavoratori, di quelle madrinon potevano rimanere un fatto privato, ma dovevano di-ventare pubbliche, dovevano essere acqua che lavava il grigio sotto cui erano stati nascosti quei decessi, per far emergere i colori forti del riconoscimento di responsabilità. Ho cercato nel mio piccolo di dare voce a chi soffriva, ma soprattutto a chi voce non aveva più. Ho cercato di scrive-re mettendoci il cuore e l’obiettività, perché così chiede il mio mestiere, ma soprattutto ho cercato di non dimenticare. Mai. ❒

[di Tiziano Pizzamiglio]

Le MMVF manmade

vitreous fiber

AMIANTO

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Sotto una cascata di riccioli neri il sorriso luminoso di Ahmed ti con-quista subito. E quando incomincia

a raccontare la sua storia, lo fa con una serenità e una calma che contrasta con la durezza della sua odissea durata quasi cinque anni.Ahmed cresce a Nouakchott, capitale della Mauritania, con i genitori e due so-relle. Nel 1996 frequenta il terzo anno di università, facoltà di economia e gestione aziendale. L’ennesimo colpo di stato nel Paese fa scattare crudeli misure repres-sive. Ahmed vede scomparire a ritmo

crescente nelle prigioni compagni di uni-versità ed insegnanti, diversi giornalisti invece scompaiono e basta. Si viene con-dannati anche per critiche al regime pro-nunciate all’estero, la censura costringe al silenzio.Ahmed capisce che non c’è più futuro e sicurezza per lui e decide di par-tire. Per dove? Per ovunque, dice, ci sia la possibilità di una vita normale.Con il passaporto e qualche soldo in ta-sca Ahmed decide di andare in Tunisia. Nonostante gli sforzi non riesce a trovare un lavoro e quindi dopo un mese decide di proseguire per la Libia. Il biglietto dei minibus che fanno servizio irregolare tra la Tunisia e Tripoli non costa molto e se lo può permettere.L’impatto con la Libia non è facile, i li-bici non amano troppo gli stranieri, han-no un complesso di superiorità che fanno continuamente pesare e, nonostante mille tentativi, non si riesce a trovare uno strac-cio di lavoro. Inoltre c’è da fare i conti con una polizia che non perde occasione per arrestare e picchiare gli immigrati e, spesso, di depredarli dei proprio miseri averi. È quanto succede anche a lui quan-do acquista un biglietto aereo per la Si-ria e viene truffato. La sua protesta pres-so la polizia gli costa il 50% del prezzo che aveva pagato per il biglietto che non c’era. Il tentativo di proseguire via terra verso l’Egitto non ha successo e, dopo un mese di permanenza, decide di andare a Damasco.

Ahmed è determinato, vuole continuare a muoversi finché, dice, non troverò il posto giusto per me. Non ha una meta precisa in testa, vuole solo vivere in pace.In Siria la situazione è difficile. Lavoro ce n’è poco, le paghe sono molto basse. Riesce a trovare lavoro saltuario di cari-co scarico al mercato ortofrutticolo, ma la paga non basta a permettergli un alloggio e gli ultimi soldi se ne erano andati per il biglietto aereo dalla Libia. Per tre mesi è costretto a vivere per strada, a dormire nei giardini e, quando incomincia a non mangiare per giorni, insieme con un ami-

co tunisino incontrato a Damasco decide di tentare l’ingresso in Libano. È il suo primo passaggio di confine clandestino.C’è un’organizzazione che si occupa de-gli espatri e lui riesce a convincerli a farsi portare in Libano a credito. Lascia il pas-saporto e gli altri documenti nelle mani dell’organizzazione: li riavrà quando avrà pagato il debito. Su alcuni pulmini, di notte, con altre 20 persone, viene portato sulle montagne al confine con il Libano dove vengono radu-nati insieme a gente che arriva anche da altre città siriane. 10 ore di marcia nella notte tra i boschi e i campi, al freddo, in fila indiana, in silenzio e alla fine è in Li-bano. Finalmente a Beirut. La città è tran-quilla anche se spesso si sentono i colpi lontani dei cannoni al confine con Israele. In Libano, per fortuna, il lavoro non man-ca. Grazie all’amicizia con due sudanesi trova casa e la padrona gli procura lavoro in una fabbrica tessile. In poco tempo Ah-med diventa uomo di fiducia dell’azien-da che lo utilizza un po’ come jolly. La paga, anche se rigorosamente in nero, non è male. Riesce a restituire i soldi del passaggio confine, rientra in possesso dei suoi documenti e sembra che le cose si mettano per il meglio. Ha una casa, il lavoro e mangia regolarmente. Ha anche una fidanzata. Un anno e mezzo di pace. Poi, improvvisamente, la vita per gli im-migrati diventa durissima. Il fatto è che in Libano ne arrivano ormai a fiumi, in

particolare dall’Iraq, e all’improvviso il governo decide che tutti gli irregolari do-vranno lasciare il paese entro un mese.Esattamente il primo giorno dopo la sca-denza del termine Ahmed viene arrestato durante una retata, separato dalla fidan-zata di cui non saprà più nulla e sbattuto in prigione. La guerra con l’Iraq fa pre-cipitare ancora la situazione. In prigione deve vivere in uno stanzone con altre 200 persone nutrite con poche patate e ancor meno pane.Dopo alcune settimane lo riportano al confine con la Siria, dove lo mettono su-bito in una prigione vicino al confine. È solo, in una cella il cui unico arredo è il pavimento. Lo tengono lì per due settima-ne quasi senza mangiare, per aver qual-cosa da mettere sotto i denti deve pagare, pagare e pagare.Chiunque abbia un minimo di potere chiede soldi in Siria, dice Ahmed. Viene portato nella prigione di Damasco, dove si ritrova anche qui in una cella con due-cento altri prigionieri.La situazione è terrificante. Lo spazio è cosi poco che metà della gente può stare seduta e l’altra deve stare in piedi. A tur-no, un giorno in piedi,un giorno seduti. In prigione non si mangia, arriva ogni tanto un bidone, quelli per il petrolio, con patate bollite ancora nella loro terra. Ed è tutto. Il carcere è pieno di gente che im-pazzisce, ammalata, devastata dai paras-siti che coprono anche il pavimento come eserciti di formiche. Chi si lamenta viene picchiato. Per 10 dollari ogni tanto si rie-sce a comprare una brocca di tè. I detenuti non possono guardare le guardie. Bisogna restare a testa china, durante l’appello mattutino chi la solleva anche solo un po’ viene frustato con cavi di metallo.Alla fine decide di seguire il consiglio di un compagno di sventura e si fa portare a colloquio con il capo delle guardie e, in cambio di 250 dollari, ottiene di essere liberato ma... verso l’Iraq. In realtà viene portato verso il confine della Giordania dove però non viene fatto entrare. Rima-ne per giorni nella terra di nessuno tra i due confini. Poi, stremato, viene ripreso dai siriani e riportato nella stessa prigione di prima. Passano ancora giorni e giorni, poi il solito capoguardia, per altri 100 dol-lari, lo fa uscire e portare al confine con la Turchia non senza, prima, mettergli un timbro sul passaporto che gli impe-

Odissea 2000STORIE

Con il passaporto e qualche

soldo in tasca Ahmed decide

di andare in Tunisia

[di Arturo Bertoli]

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gennaio 2009 • • 17M T

STORIEdisce l’espatrio in Turchia. Quindi viene di nuovo bloccato sulle montagne, nella terra di nessuno tra i due confini. 5 giorni senza mangiare. Alla fine un soldato tur-co, per 50 dollari, lo fa passare e gli indica la strada per la città più vicina.Arrivato alla stazione, riesce a compe-rare con gli ultimi soldi un biglietto per Istanbul che raggiunge dopo due giorni di viaggio. È inverno, fa un freddo cane. Ah-med cerca un lavoro, ma non parla turco, non lo trova ed è costretto a dormire al freddo in strada. In caso di controlli rie-sce a salvarsi dando fondo alle ultimissi-me risorse accumulate nell’anno e mezzo in Libano. Nessuna speranza di un lavoro legale, qualche offerta per lavori illegali che Ahmed rifiuta. Preferisce continuare a dormire in strada.Gli rubano il passaporto dopo una sola notte passata in un miserissimo ostello per sfuggire al gelo.Ormai è allo stremo. Non mangia se non ogni 3-4 giorni. Una notte cerca rifugio in una casa abbandonata, ma viene sorpreso dal padrone di casa che lo costringe per giorni a ripulire tutto il primo piano della casa per non denunciarlo. Non un centesi-mo, niente cibo. Dopo qualche giorno, per il freddo insopportabile, rientra nella stes-sa casa abbandonata, ma viene riscoperto dal solito padrone di casa che questa vol-ta lo costringe a ripulire il secondo piano.Alla fine trova lavoro come muratore. Per cinque giorni trasporta sacchi di cemento al 5° piano di una casa in costruzione, ma

è troppo debilitato e si ammala. Riesce a trovare una camera con altre quattro per-sone, ma nella notte, svegliato da lamenti e richiami, si affaccia alla finestra e vede un gruppo di ragazzi infreddoliti. Prende una coperta e gliela butta dalla finestra. Ovviamente viene visto e sbattuto imme-diatamente fuori dalla “pensione”. Am-malato, al freddo.Sente di gente che tenterà di entrare in Grecia via terra e si unisce al gruppo. In-sieme, in pieno inverno guadano un fiume aggrappandosi ad una corda che avevano teso tra le due rive. Qualcuno non ce la fa e viene portato via dalla corrente. Due giorni per riuscire ad andare di là. Attra-versato il fiume, il cammino riprende at-traversando campi fangosi in cui si spro-fonda fino al ginocchio. Ahmed è senza scarpe. Cercano di rimanere lontani dalle città, ma alla seconda il lungo serpente di clandestini che si muove in fila indiana viene avvistato. Tutti arrestati. I greci non sono gentili. Insieme con gli altri viene picchiato da tutti, ma proprio tutti, i po-liziotti che poi gli fanno strane iniezioni che lo lasciano per giorni in stato confu-sionale. Passano molti giorni, poi i greci prendono tutti i clandestini, li raggrup-pano, gettano nel mucchio i documenti scatenando una selvaggia caccia al passa-porto e poi riportano tutti oltre il fiume. Mentre gli altri proseguono per Istanbul, Ahmed, ammalato e sempre senza scar-pe, non ce la fa. Viene trovato quasi assi-derato da soldati turchi che, portatolo in

caserma, lo rifocillano, lo scaldano e lo assistono. Poi lo accompagnano, con un paio di scarpe nuove, alla stazione ferro-viaria, dove prende il treno per tornare ad Istanbul.Un altro mese ad Istanbul, mangiando quando capita e dormendo per strada. De-cide di cedere all’illegalità: per qualche giorno, alla mattina presto, riesce a rubare un pane da una cesta posta fuori dalla por-ta di un ristorante. Poi qualcuno gli sug-gerisce di andare ad Izmir perché da quel porto partono le navi per l’Europa. Riesce ad arrivarci e si nasconde, con molti al-tri, nelle colline che si trovano alle spalle del porto. I boschi sono pieni di gente che aspetta. Mangia quello che gli altri gli re-galano. E aspetta anche lui.Poi, una notte, vede da lontano che un poliziotto di guardia ad uno degli ingres-si del porto si è addormentato. Una cor-sa precipitosa giù dalla collina e riesce ad entrare. Sceglie un camion a caso e si nasconde tra le ruote. Quando l’autista si addormenta, sale sul tetto, taglia la coper-tura e s’intrufola dentro.Ovviamente nel punto in cui lui entra non c’è carico per cui fa un volo di due me-tri e si ammacca. Per fortuna il camion trasporta asciugamani che gli servono da giaciglio e coperte. I controlli al porto di Izmir non lo scoprono ed inizia quindi la sua crociera verso la vita. 8 giorni dura il viaggio. 8 giorni senza bere né mangiare. Quando capisce che il viaggio è terminato ed il camion è a terra, decide di uscire. Non sa dove è, in quale nazione, in qua-le città. Esce, fuori piove, e appena sceso dal camion si accascia a terra ed inizia a bere da una pozzanghera. È qui che vie-ne trovato dalla polizia doganale. Viene portato in caserma dove viene asciugato, riesce a mangiare e bere. Si sente final-mente trattato con umanità. Deve passare una notte lì, poi dopo i controlli viene af-fidato ad un centro di accoglienza. Sono passati sei anni da quando è partito dalla Mauritania.Grazie all’ICS di Trieste avvia le pratiche per poter ottenere l’asilo politico. Decide di mettersi subito a studiare l’italiano in attesa del responso della Commissione per i rifugiati. Ottiene finalmente il per-messo di soggiorno.Da qualche anno ormai Ahmed lavora presso un’azienda a Monfalcone. Si occu-pa di barche. Ha trovato qui il posto che cercava e l’affetto e l’apprezzamento da cui è circondato forse iniziano a ripagarlo della sua odissea. Benvenuto a Monfalco-ne Ahmed. ❒

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18 • • gennaio 2009M T

MONFALCONE international

Ho conosciuto A. nel 2001 quando si è iscritto in prima media, allora era uno dei due alunni bengalesi

della scuola. Si esprimeva in un italiano approssimativo ma efficace e mi aveva colpito subito per l’allegria, la curiosità e la voglia di mettersi in gioco. Per tre anni ha partecipato al laboratorio teatrale e a diverse attività con entusiasmo. Ades-so frequenta la quarta superiore, talvolta passa a trovarmi a scuola e mi racconta i suoi successi. Quando gli ho proposto un’intervista, ha accettato immediata-mente, sorridendo, come sempre. A. è un ragazzo aperto, schietto, ironico e positi-vo, racconta con orgoglio e soddisfazione il percorso che lui stesso definisce:“la mia integrazione”. Raccontami un po’ la tua storia, da quanto sei in Italia?Ho 17 anni e sono a Monfalcone da 9, mio padre era in Italia da qualche anno, poi ha trovato lavoro in cantiere, si è trovato bene e ha deciso di trasferire la famiglia qui.Ricordi le tue prime impressioni?È stato molto bizzarro, quando vivevo in Bangladesh pensavo che non ci fosse altro, arrivato a Monfalcone mi guardavo attorno, tutto era diverso, le strade, le case, i mezzi pubblici, la gente...le donne... non avevo mai visto una donna in minigon-na, mi ha fatto molta impressione, da noi sono tutte coperte...qui era tutto diverso...mi chiedevo “Ma dove sono arrivato?”Poi i tuoi genitori ti hanno iscritto a scuola...Sì, in quarta elementare, con bambini più grandi di me di un anno perché le altre classi erano troppo numerose, ma non è stato un problema.Ti sei trovato in classe con bambini ita-liani, le maestre parlavano italiano...tu cosa capivi?Niente, neanche una parola ma la scuola aveva preso un ragazzo del Bangladesh che parlava un po’ di italiano. Veniva un paio di volte la settimana, solo per me, non c’erano altri bambini bengalesi nella scuola e credo nemmeno in città, penso di essere stato il primo o uno dei primi. Il ragazzo mi aiutava nella traduzione e faceva anche qualche lezione di cultura bengalese agli altri bambini. Che difficoltà hai incontrato?Di comunicare, di integrarmi, insomma

tutte le difficoltà che può avere un bam-bino normale ma come se fosse appena nato: sa camminare, muoversi, mangiare, ma non sa nient’altro ... non capisce...Come si comportavano i bambini nei tuoi confronti e come ti facevi capire?Erano molto gentili e bravi, mi aiutavano a fare amicizia e mi insegnavano le paro-le, per parlare usavo anche i gesti e un po’ d’inglese, i bambini mi capivano e tradu-cevano alle maestre.In sostanza i tuoi compagni di classe hanno mediato la comunicazione fra te e gli adulti?Sì, esatto, sono stati fondamentali.Quindi la scuola elementare è stata una bella esperienza?Sì, molto... mi ha aiutato a superare tan-ti ostacoli, anche i momenti più difficili, litigi o incomprensioni, sono diventati occasioni per integrarmi... ero da solo quindi ho cercato di essere disponibile, comprendere, insomma non chiudermi nel mio mondo... non avevo altri bambini bengalesi a cui chiedere aiuto quindi ho dovuto farcela da solo, un po’ alla volta mi hanno capito e accolto.Che cosa intendi per integrazione? È un termine che usi molto.Credo che uno straniero debba cercare di capire il paese in cui si trova, imparare ciò che gli serve, cercare di gestire le diffi-coltà e soprattutto farsi conoscere e voler conoscere.È difficile, per te, capire questo modo di vivere così diverso?All’inizio non capivo nulla poi, un po’ alla volta, ho imparato, osservando e so-prattutto comunicando con tutti quelli che conoscevo.Hai mantenuto la tua cultura e convivi con quella locale, hai imparato la lingua, frequenti ragazzi italiani, quindi gestisci bene questi due mondi, come fai?È difficile da spiegare, cerco di mantenere la mia cultura e anche di integrarmi nel-l’ambiente in cui vivo, trovare un equili-brio non è sempre facile ma credo di riu-scirci abbastanza bene.Torniamo alla scuola, com’è stata l’esperienza alle medie?Difficile, perché alle elementari c’erano molti momenti di gioco ma alle medie dovevi studiare, erano passati solo due anni e il mio italiano era ancora incerto, fortunatamente sono stato molto aiutato,

ho seguito corsi pomeridiani di lingua e di recupero organizzati dalla scuola e tutti mi davano una mano.Ci sono stati momenti importanti, oc-casioni e opportunità che la scuola ti ha offerto sia per facilitare il processo d’integrazione, di cui parli, sia per per-fezionare la lingua?All’inizio mi sono iscritto a diversi la-boratori: informatica, aeromodellismo poi, un po’ per caso, mi sono iscritto al laboratorio teatrale, è stato molto im-portante, prima non sapevo cosa fosse il teatro, è stata una vera sorpresa. Il laboratorio era frequentato da tanti ra-gazzi della scuola: era molto divertente, imparavo un sacco di cose e soprattutto dovevo parlare.Se non ricordo male, hai frequentato il laboratorio teatrale per tre anni, quale spettacolo ti è rimasto nel cuore?Quello del primo anno che ci ha fatto vincere una rassegna regionale e ci ha permesso di partecipare alla rassegna nazionale del teatro della scuola nelle Marche; era un bellissimo gruppo... Lo spettacolo s’intitolava “Gatti” e raccon-tava le vicende di due gruppi di gatti: quelli di strada e quelli di casa abituati alle comodità e al cibo in scatola. Era un po’ come la mia storia, i gatti randa-gi erano considerati “diversi” mentre i gatti di casa per conoscere il mondo do-vevano uscire, esplorare... I due gruppi non comunicavano fra loro ma quando uno dei gatti di casa esce, scopre un al-tro mondo, impara a cacciare, vive la notte, s’innamora e finalmente i due gruppi si conoscono e scoprono di non essere poi così diversi.In questo momento si parla molto della Legge Gelmini e delle “classi ponte”. Tu che cosa ne pensi?Io credo che non sia giusto pensare a classi ponte per gli stranieri, ho vissuto e vivo la mia esperienza scolastica con i ragazzi ita-liani e posso dire che s’impara molto di più e poi come dovrebbero essere queste classi di ragazzi stranieri? Nazionalità diverse che tra loro non hanno una lingua comune? Una gran confusione... se non comunichi non impari; studio inglese da otto anni e davvero ne so molto poco, posso stare ore sui libri ma se non c’è comunicazione lo studio serve a poco... Anch’io ho protesta-to contro il decreto Gelmini pensando a

A scuola di integrazioneIntervista a un ex alunno

[di Eva Demarchi]

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gennaio 2009 • • 19M T

MONFALCONE international

mio fratello, vorrei che lui avesse le stesse opportunità che ho avuto io.So che parli il dialetto bisiaco.Sì, lo parlo da tre anni, ho cominciato pia-no piano alle medie poi mi sono perfezio-nato grazie agli amici. Mi piace molto il dialetto, mi viene spontaneo, lo parlo con i ragazzi che frequento, mi sembra più amichevole... Anche mio fratello, che è nato qui, lo parla, quando viene a casa da scuola mi dice: “Andemo a magnar?” Hai molti amici italiani?Sì ho tantissimi amici, sono contento e molto fiero di conoscere tanti italiani, molti ragazzi bengalesi non hanno questa possibilità perché non possono o non vo-gliono, adesso la comunità è molto gran-de: sono contento per loro perché hanno trovato un lavoro e hanno migliorato la loro vita ma molti ragazzi bengalesi han-no rapporti solo tra loro e forse l’integra-zione è molto più problematica oggi di quando sono arrivato io.Prova a metterti nei panni di un mon-falconese che nel giro di pochi anni vede la città cambiare volto, arrivano

molti bengalesi e altri stranieri: quale pensi che sia la reazione? È vero, la città è molto cambiata e anche rapidamente, penso che ci sia un po’ di paura e di diffidenza perché quando non conosci le persone cerchi di starne un po’ alla larga. Anche se a Monfalcone non credo sia successo nulla di grave che ha coinvolto bengalesi, immagino che un po’ di fastidio ci sia... il pericolo è pro-prio l’isolamento. Credo che i figli dei bengalesi possano rompere questo isola-mento, i ragazzi frequentano la scuola, molti nascono e nasceranno qui e spero che impareranno, come me, a convivere e a integrarsi. I ragazzi possono aiutare le famiglie a entrare in comunicazione con gli italiani.I tuoi genitori sono contenti che fre-quenti i ragazzi italiani?Sì, conoscono tutti i miei amici ed io co-nosco i loro genitori, anche i genitori tra loro si conoscono; c’è stata comunicazio-ne anche attraverso il cibo, è capitato che i miei cucinassero per i genitori dei miei amici e alle elementari spesso portavo

il cibo, che mamma cucinava, per tutti i miei compagni.Pensi di tornare in Bangladesh?Non lo so, vorrei finire gli studi, mi man-cano due anni, poi non so se potrò con-tinuare. Papà vorrebbe tornare a casa, lasciare qui me e mio fratello e magari ve-nire in Italia ogni tanto... Credo che avrei qualche problema a tornare in Banglade-sh: trovare lavoro, comunicare, leggere e scrivere.Vuoi dire che hai difficoltà con la tua lingua?Sì, per tanti anni ho studiato, letto, scritto e parlato in italiano, i primi due anni non ho avuto contatti con bambini bengalesi... mi dispiace di avere un po’ perso la mia lingua madre, a volte mi sembra di co-noscere meglio l’italiano e il bisiaco del bengalese! A scuola come va?Bene, sono soddisfatto, in questi quattro anni di superiori ho ottenuto ottimi risul-tati e se ne avrò la possibilità mi piacereb-be continuare a studiare e trovare un buon lavoro. ❒

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20 • • gennaio 2009M T

Stranieri in classe

Davide Zoletto, filosofo e ricerca-tore di Pedagogia Generale presso l’Università di Udine, in “Stranie-

ro in classe” afferma che “l’integrazione e l’intercultura non sono qualcosa che riguarda gli stranieri, ma riguardano tut-ti”, tutta quella società che è necessario ricreare insieme poiché non basta convi-vere e tollerare, occorre mettersi in gioco

continuamente e per farlo è necessario sperimentare”. Il documento dell’ex mi-nistro della Pubblica Istruzione Fioroni, in riferimento alle nuove indicazioni na-zionali per la scuola dell’obbligo, sottoli-neava che “la promozione e lo sviluppo di ogni persona devono stimolare in maniera vicendevole la promozione e lo sviluppo delle altre persone: ognuno impara me-glio nella relazione con gli altri.”Scrive ancora Zoletto: “il primo modo per costruire davvero una scuola più ac-cogliente è quello di sentirsi noi, da in-segnanti, stranieri in classe: non dare per scontato nulla delle nostre procedure, dei nostri metodi, dei nostri contenuti, dei

nostri contesti per poterli re-imparare (e reimmaginare) insieme ad allievi e allieve. Facendo ricerca assieme. Quasi dovessimo esercitarci di continuo a una specie di au-tostraniamento che non può mai diventare metodo, ma che rimane proprio per questo alla base della nostra responsabilità di edu-catori”. Ha ragione Zoletto, sentirsi stra-nieri nel proprio luogo costringe a ripensa-

re, riprogettare, ricreare, spostare il punto di vista da quello proprio all’al-trui altrimenti la convi-venza diventa chiusura, paura, fastidio, senso di perdita dell’identità e, nella migliore delle ipo-tesi, tolleranza passiva.

Da anni il confronto con gli alunni stranieri e le loro famiglie ha costretto tutta la co-munità scolastica a una riflessione faticosa ma ricca di nuove opportunità. Forse non tutti sanno che, a scuola, la di-mensione interculturale è prassi, nei pro-cessi educativi.Forse non tutti sanno che l’ingresso de-gli alunni stranieri nelle nostre scuole ha arricchito l’offerta formativa mettendo in atto non solo attività di apprendimento della lingua italiana come L2, ma anche processi di integrazione, convivenza, cit-tadinanza attiva, solidarietà, conoscenza di diritti, molto prima che l’insegnamento della Costituzione fosse formalizzato dal-

la Legge Gelmini...Forse non tutti sanno che gli alunni stra-nieri sono tali solo per noi adulti e che i ragazzi tra loro convivono e si relaziona-no senza problemi; quando questo non accade sono le parole degli adulti che i bambini usano per offendersi...Forse non tutti ricordano che: “Per im-parare bene una lingua bisogna mettersi “in situazione” e quanto più si è costret-ti a comunicare nella nuova lingua tanto più velocemente si impara” e non saranno certamente le “classi ponte” multilingui-stiche ed eterogenee per età e provenienza (ma prive di ragazzi italiani) ad accelerare il processo di apprendimento della lingua da parte degli alunni stranieri... Men che meno potranno favorire l’integrazione!La scuola è stata, e lo è tuttora, un labo-ratorio permanente di educazione-for-mazione ma anche di ospitalità; scrive ancora Zoletto: “in una scuola in cui tutti – insegnanti e allievi, stranieri e italiani – si scoprono ad un tempo ospitanti ed ospitati, l’ospitalità può diventare una di-mensione che caratterizza la quotidianità della vita scolastica”. È quanto mai urgente, però, che la “di-mensione interculturale” esca necessaria-mente dalle aule per diventare sempre di più tema politico in un momento in cui, a livello nazionale e locale, il dibattito sulla relazione tra culture si fa ogni giorno più aspro. ❒

SCUOLA

Forse non tutti sanno

che gli alunni

stranieri sono tali

solo per noi adulti

[di Eva Demarchi]

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gennaio 2009 • • 21M T

Università: si taglia il futuroArt. 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti.”

I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo di-ritto con borse di studio, assegni alle fa-miglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. Costituzionalità è stata la parola pronun-ciata dal Prof. Peroni, Magnifico Rettore dell’ Università degli Studi di Trieste, nel suo discorso durante l’assemblea tenutasi in Piazzale Europa il 22 ottobre scorso, primo grande evento che ha mobilitato la popolazione universitaria nel suo com-plesso, contro la L.133/2008. La L.133/08 è una legge di conversione del decreto legge 112/08, nel quale sono confluiti i più disparati ambiti d’interven-to. Importante è il fatto che l’atto normati-vo in questione è previsto “in casi straor-dinari di necessità e urgenza” (ex art. 77 della Costituzione), casi che per quanto riguarda università e ricerca non sussisto-no; verrebbe da chiedersi che valore abbia la Costituzione. Le particolarità attorno a questa riforma, se di riforma si può parla-re, non si esauriscono a questi due punti, ma ce ne sono altrettanti che fanno pensa-re a una fuga dal dialogo. La L.113/08 è composta da 85 articoli, quelli inerenti il mondo universitario e la ricerca sono cinque, dei quali l’art. 16 e l’art. 66 sono stati oggetto di maggiori contestazione. L’art. 16 prevede la facoltà di trasforma-zione in fondazioni delle università, preve-dibilmente con minori possibilità concrete di tutelare il diritto allo studio (ad esempio con un incremento incontrollato delle tas-se universitarie) e una minore indipenden-za della ricerca maggiormente influenzata dal finanziatore privato, la sopravvivenza degli atenei sarà, infine, maggiormente le-gata alla disponibilità di risorse private nel territorio di riferimento.Inoltre la trasformazione sarà eventual-mente deliberata dal Senato accademico a maggioranza assoluta (50% più uno) e non più qualificata, garantendo così an-cora una minore rappresentatività della democrazia.L’art. 66 riguarda il taglio del finanzia-mento pubblico, attraverso il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) in maniera incrementale. I tagli, inoltre, si applicano a prescindere da una valutazio-

ne di efficienza e qualità degli atenei. Attualmente il FFO copre le spese per il funzionamento e le attività istituzionali dell’università, ivi comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non do-cente, per l’ordinaria manutenzione del-le strutture universitarie e per la ricerca scientifica, ad eccezione della quota de-stinata ai progetti di ricerca di interesse nazionale. Cosa molto importante è il legame che intercorre tra FFO e introiti provenienti dalle tasse studentesche, que-ste ultime, infatti, non possono superare il 20% dell’FFO. In totale nel quinquennio 2009/2013 il Fondo per il Finanziamento Ordinario delle Università Italiane subirà un taglio di 1 miliardo, 441 milioni e 500 mila euro, che si può esprimere in un valore dell’8% per l’ultimo anno considerato. Tale per-centuale non tiene però conto dell’indice d’inflazione (ad esempio per l’adegua-mento salariale), altrimenti si potrebbe azzardare una cifra attorno al 20%.Altro grande problema, che riguarderà tutte le amministrazioni pubbliche, è il blocco del turnover (ovvero la sostituzio-ne, mediante nuove assunzioni, del perso-nale che ha cessato il rapporto di lavoro), per quanto concerne le università la mate-ria è trattata sempre nell’art. 66.In tale articolo è prevista la possibilità per le università di effettuare nuove assunzio-ni a tempo indeterminato limitatamente al 20% dei pensionamenti dell’anno prece-dente per il triennio 2009/2011 e al 50% nel 2012. Ciò significa che, ogni cinque pensionamenti, solo un dipendente potrà ottenere un contratto a tempo indetermi-nato, indipendentemente dalla mansione ricoperta. Si parla infatti di dipendenti in termini generici e non di assunzioni nella stessa categoria.Ad aggravare il tutto si è aggiunto l’ulti-mo decreto (D.L. 180/08), che in uno dei suoi punti impone agli atenei che supera-no il limite del 90% nel rapporto stipendi/FFO, il blocco totale del turnover. Ovvia-mente i tagli previsti all’FFO porteranno la maggior parte degli atenei a sfiorare tale limite.Questi sono i tre punti di maggior impatto su cui il mondo dell’università e della ri-cerca si sta battendo e sui quali, tornando alla nostra realtà, il Magnifico Rettore ha parlato in prima persona durante le due

assemblee che hanno riempito il Piazzale e nel “salotto” dell’aula magna all’inau-gurazione dell’ anno accademico.Il Prof. Peroni, replicando alle afferma-zioni di “bilanci fuori controllo” e “conti in rosso” in riferimento all’ateneo giulia-no, ha fatto innanzi tutto autocritica in ri-ferimento alla pregressa carente capacità di programmazione, nel senso di un’ina-deguata prognosi della curva stipendiale. Quest’ultima, peraltro, chiama in causa un ulteriore e distinto fattore esogeno, cioè lo scatto annuale degli stipendi dei docenti, per effetto di norme contingenti e lo Stato non ne assicura la copertura alle università, come avviene per il personale tecnico e amministrativo.Tale meccanismo costringe le università a reperire all’interno del loro budget i sud-detti importi, spingendole verso la soglia del 90% .Sono ormai troppi anni che il mondo del-l’università necessita di una riforma e si è sempre rimasti ad aspettare che arrivasse dal cielo. Ora una riforma non c’è, perché come detto in precedenza, di riforma non si può parlare, ma ci sono i presupposti per creare dei tavoli di lavoro partecipati da chi vive l’università. Non si tolgono gli sprechi con i tagli, perché se i primi sono il frutto di alcuni gruppi di interesse, quelli che pagheranno i tagli saranno gli estranei a questi gruppi. Togliere i finanziamenti alla ricerca con-tribuisce solamente a una ripresa futura ancora più lenta. Domandiamoci perché il nostro Bel Paese è sempre tra i fanalini di coda della crescita europea e osserviamo i fondi destinati alla ricerca. Con i tagli si va incontro a una riduzione dell’offerta didattica, a un taglio dei servi-zi agli studenti, a un graduale decadimen-to della qualità oltre che della quantità di ricerca e una conseguente diminuzione della competitività. Riformare si deve, sicuramente, ma è bene che si riformi prima che non ci sia più nulla da riformare. Le manifestazioni, le assemblee, le lezioni pubbliche in piazza e in stazione, la coesione vista in questo periodo nelle università fa capire che la volontà di migliorare c’è, perché è impor-tante che la prima spinta venga dall’inter-no, dall’università stessa, perché nessun medico può aiutare a guarire chi non desi-dera guarire. ❒

[di Luca Buzzulini]

SCUOLA

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22 • • gennaio 2009M T

Il laboratorio Fare Teatro del Comune di Monfalcone: un’esperienza necessaria

Il Laboratorio Fare Teatro del Comu-ne di Monfalcone è giunto quest’anno alla sua decima edizione. Si tratta di un

laboratorio non accademico rivolto ai gio-vani, nato nel 2000 da una mia proposta, e che, da allora, organizzo e conduco per l’Assessorato alle Politiche Giovanili e l’Assessorato alla Cultura. Ha sempre avuto come duplice obiettivo quello di coinvolgere i giovani in un concreto approccio sperimentale ai linguaggi teatrali, da un lato; e dall’altro di prepararli ad una più attenta visione di spettacoli professiona-li, verso un’apertura alla cultura teatrale in senso più esteso. Il tutto cercando di aderire alla realtà contemporanea, con proposte fi -nali di rappresentazione sempre vicine alle necessità del nostro vivere qui. Grazie alla fi ducia che mi ha concesso il Co-mune, il percorso di questi anni si è quindi affi ancato alle stagioni del nostro Teatro, favorendo l’approfondimento di alcuni spet-tacoli con incontri e stage intensivi condotti dagli attori ospiti, cioè da alcuni tra i più si-gnifi cativi nomi della nostra scena contem-poranea. Ma anche il mio lavoro continua-tivo si è avvalso spesso dell’esperienza più specifi ca di altri artisti del panorama teatrale italiano e regionale: attori, registi, danzatori, musicisti, scrittori.Ripensando a tutti quegli incontri indimenti-cabili, e al lavoro fi n qui svolto, mi accorgo di ricordare perfettamente i quasi 200 ragaz-zi con cui ho lavorato: alcuni sono rimasti legati al laboratorio cominciando ad acqui-sire anche una certa autonomia propositiva; altri sono entrati a tutti gli effetti nel mondo del teatro, anche superando selezioni ad ac-cademie d’arte drammatica (non solo italia-ne); altri hanno semplicemente portato con sé quest’esperienza come un prezioso com-pagno di viaggio. Cercando di indagare meglio sul perché tutto ciò sia stato possibile in questa piccola città, credo di avere trovato una sottile corrispon-denza alla mia curiosità, nella pubblicazione che raccoglie e festeggia i 20 anni di attività del Teatro Comunale di Monfalcone (edita nel 2004), dove lo storico e critico teatrale Roberto Canziani, con l’acuta sensibilità che lo contraddistingue, espone un’analisi della recente storia culturale della nostra città, a partire dall’ambizioso progetto di avvio del-

la primissima programmazione di un Teatro Comunale nel 1983, che ha portato fi no a far considerare oggi il nostro cartellone tra i più signifi cativi della regione. Nel 1983, quando veniva avviato quel pro-getto culturale, io ero a Milano: 23enne stavo frequentando l’ultimo anno dell’Ac-cademia dei Filodrammatici, felice di essere altrove ad abbeverarmi di esperienze impen-sabili allora non solo in questa città, ma an-che nell’intera nostra regione, felice di avere avuto l’opportunità di seguire altrove la mia passione, pur tra mille incognite e diffi coltà pratiche.Dopo il diploma all’Accademia e l’inseri-mento nella giungla del libero professioni-smo teatrale, ha iniziato tuttavia a farsi stra-da in me – ricordo - una strana “nostalgia”. Fermo restando l’ovvio, intimo, sentimento di chi “emigra”, pur per seguire un percor-so scelto e privilegiato, ho dovuto decifrare meglio quella nostalgia e mi sono resa conto che conteneva anche un bisogno profondo di ri-comprendere le mie radici, altrimenti il mio girovagare creativo pareva rimanere vago e sterile.È che lo stesso lavoro teatrale, essendo un’attività principalmente nomade, impone un confronto continuo - e non superfi cia-le - con persone di tutte le provenienze e questo esige una maggiore consapevolezza delle proprie origini, del proprio patrimonio culturale e quindi emozionale, perchè sono questi poi gli strumenti di lavoro: maggiore è la coscienza della propria storia personale, maggiore diventa la presenza comunicativa in scena. E maggiore diventa la nostra con-sapevolezza di esseri umani, abitanti legitti-mi di questo affollato pianeta. E quindi, dopo una decina d’anni, eccomi di nuovo nei luoghi natii a cercare di riformu-lare la mia identità.Ma quale “identità” si eredita da que-sta città? Vorrei ritornare all’articolo sopra citato e riportarne qui l’incipit. Così scrive Can-ziani:“Come in un’Italia in miniatura, la geo-grafi a del Friuli Venezia Giulia ripete in scala ridotta quella del paese. Una capi-tale istituzionale, Trieste, e una impren-ditoriale, Udine, un versante di cicatrici, quello di Gorizia, e uno in espansione,

Pordenone. Un meridione votato al turi-smo, la costa di Lignano e di Grado. Monfalcone non trova corrispondenza in questo gioco di simmetrie. Centrale e al tempo stesso eccentrica, Monfalcone vive un’identità particolare, che la rende diversa. Città operaia, si è data la missione di polo culturale. Città senza qualità, svetta ad un certo punto per l’originalità delle iniziative, molte delle quali sono nate e nascono attor-no al suo teatro. Bene, pur con una punta di stizza, con queste righe è come se avessi avuto una risposta ai miei perché. Ecco perché mi è capitato di ritornare “in patria” a propor-re un progetto teatrale. Ecco perché sono riuscita a “profetizzare” qualcosa qui, nonostante il saggio proverbio che tutti conosciamo ne ribadisca l’impossibilità. Ecco perché il Comune di Monfalcone ha appoggiato con entusiasmo questo proget-to. Ecco perché un progetto sperimentale rivolto ai giovani ha assunto poi un valore di molto superiore agli intenti iniziali.Vorrei ricordare che questo nostro lavoro ha prodotto alcuni spettacoli che sono sta-ti accettati anche a manifestazioni teatrali molto importanti, come il “Mittelfest” nel 2005, per la prima volta diretto da Moni Ovadia (con PROGETTO CANTIERE, due atti unici sulla storia passata e presente del nostro cantiere navale), o ancora la rassegna di teatro giovanile “Errare Humanum Est” al Teatro Testoni di Bologna nel 2007 (con EXPLICIT?, un’intensa azione teatrale sul tema della guerra a partire dall’Antigone di Sofocle). Le ottime recensioni ricevute indicavano come punto di forza del nostro lavoro pro-prio l’adesione consapevole al pensiero di una comunità, che – dicevano - permette di riportare l’esperienza teatrale al centro di quella necessità comunicativa insita negli spettacoli di impegno civile. Sentirsi dire queste cose, pensando poi che in scena c’erano giovani monfal-conesi, non professionisti, ma altret-tanto efficaci, che per di più avevano contribuito a costruire ogni parte dello spettacolo, può far pensare che davvero questa non sia una città qualsiasi, ma un luogo particolare e creativamente fertile. ❒

TEATRO

[di Luisa Vermiglio]

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gennaio 2009 • • 23M T

Il museo del rock: dinosauri che non pensano alla pensione

Negli ultimi 10 anni, ovvero con l’entrata della generazione dei nati negli anni ’40 e ‘50 nel periodo dei

50-60 anni, si è sempre più acutizzato il fenomeno di tour, reunion e nuove pub-blicazioni di gruppi ormai considerati “storici”. Parallelamente a tutto ciò, vi è sempre una maggiore richiesta di questo tipo di avvenimenti. Perché tutto questo? Per svariati motivi, sia perché queste for-mazioni sono entrate ormai nella leggen-da, essendo spesso state apripista o veri e propri fondatori di determinati generi e sia perché spesso, non c’è un’adeguata “con-correnza” verso questi “colossi”. Così gruppi che hanno subito un declino fi nito il loro periodo d’oro, come poteva essere la Summer Of Love dei ’60, la creatività “progressiva” dei ’70 o l’”heavy-tronic”, heavy metal ed elettronica, degli anni’80 oggi vivono una nuova giovinezza, spes-so una pubertà dai capelli bianchi, i chili di troppo e le ugole calanti. Detto ciò, ci troviamo spesso a spendere fi or di quattrini per vedere tour di addio o comunque concerti di artisti per cui potrebbe essere l’”ultima volta”. Che dietro ci sia solo lucro che fa leva suoi nostri cuori di fan? A volte forse è così, ma talvolta le collaborazioni date per più improbabili nascono anche dalla sempli-ce voglia di riprovare la vecchia gloria e i successi vissuti in passato o forse, più semplicemente dalla voglia di suonare con vecchi amici e dalla passione di chi ha votato la propria esistenza alla musi-ca. Così si avverano reunion date per im-possibili, come quella dei Queen con alla voce, a sostituire lo scomparso Mercury, il grande vocalist Paul Rodgers, ex Free e Bad Company; quella dei Police; quella dei Van Halen con l’ex frontman David Lee Roth dopo ben 23 anni di assenza o quella incredibile, viste le vicissitudini fra i membri, dei Pink Floyd al Live 8 del 2005, quest’ultima purtroppo mai più re-plicabile, data la prematura scomparsa del tastierista Richard Wright, nel settembre di quest’anno. Sicuramente un altro grande incentivo per il pubblico pagante è proprio la pau-ra che questi arzilli, oramai, “vecchietti”, non riescano ad effettuare altri tour o per l’avanzare dell’età o per litigi che conge-lino di nuovo le vita di queste band, ra-

gion per cui, nasce la psicosi della paura di avere solo un’ultima possibilità per vederli all’opera, sintomo che conduce a imprese folli per ottenere i biglietti ad ogni costo, facendo anche magari centi-naia di chilometri.Non dimentichiamoci che l’alone di leg-genda che circonda alcune formazioni ba-sta a trascinare migliaia e migliaia di fan in palazzetti, arene e stadi, con affl uenza tale da far dimenticare le decadi passate dalla gloria. Esemplare in questo caso, il fantomatico tour mondiale dei Led Zep-pelin, che se si svolgesse, attirerebbe più persone in una sola volta, di quante ne possa attirare il Papa. Da qui a volte scaturisce l’avidità di manager, pro-moter e dei gruppi stessi, che cercano di intascare il più possibile con costi di biglietti stratosferici. Il lato economico infatti può essere un pallia-tivo anche per storici dissidi e antipatie fra compagni di grup-po.Mentre ci go-diamo quindi il colpo di coda della grande c a r o v a n a del rock fra i suoi lustri e le sue contraddi-zioni, ver-rebbe da pensare a che succe-derà quando questa gene-razione di mu-sicisti dotati di strabiliante talento se ne sarà andata, vivremo solo di tribu-te band nostalgiche per farci rivivere quelle sbia-dite perle musicali? Fortunatamente negli ulti-mi anni la scena rock mon-diale ha proposto gruppi

interessanti, legati comunque con le realtà stilistiche che li hanno preceduti. Così fra le nuove leve si segnalano gli inglesi The Darkness, ora divisi in Stone Gods e Hot Leg; i The Answer e i Muse; gli scozze-si Franz Ferdinand, gli americani White Stripes, Mars Volta, The Strokes, Interpol e gli australiani Jet e Airbourne.Insomma, sotto l’ala protettrice dei “grandi vecchi”, sembra che sino sboc-ciati piccoli fi ori che forse, in futuro, diventeranno grandi piante.Il rock forse non sta troppo bene, ma c’è da aspettare ancora a lungo per la data del funerale. ❒

A TU PER TU CON...

Rubrica a cura

di Massimiliano

Moschin

di quante ne possa attirare il

Da qui a volte scaturisce l’avidità di manager, pro-moter e dei gruppi stessi, che cercano di intascare il più possibile con costi di biglietti stratosferici. Il lato economico infatti può essere un pallia-tivo anche per storici dissidi e antipatie fra compagni di grup-

Mentre ci go-diamo quindi il colpo di coda della grande

questa gene-razione di mu-sicisti dotati di strabiliante talento se ne sarà andata, vivremo solo di tribu-te band nostalgiche per farci rivivere quelle sbia-dite perle musicali? Fortunatamente negli ulti-mi anni la scena rock mon-diale ha proposto gruppi

Stripes, Mars Volta, The Strokes, Interpol e gli australiani Jet e Airbourne.Insomma, sotto l’ala protettrice dei

gennaio 2009 • 23MT•T•MTM

Da qui a volte scaturisce l’avidità di manager, pro-moter e dei gruppi stessi, che cercano di intascare il più possibile con costi di biglietti stratosferici. Il lato economico infatti può essere un pallia-tivo anche per storici dissidi e antipatie fra compagni di grup-

strabiliante talento se ne sarà andata, vivremo solo di tribu-te band nostalgiche per farci rivivere quelle sbia-dite perle musicali? Fortunatamente negli ulti-mi anni la scena rock mon-diale ha proposto gruppi

Insomma, sotto l’ala protettrice dei “grandi vecchi”, sembra che sino sboc-ciati piccoli fi ori che forse, in futuro, diventeranno grandi piante.Il rock forse non sta troppo bene, ma c’è da aspettare ancora a lungo per la data del funerale. ❒

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24 • • gennaio 2009M T24 M gennaio 2009gennaioT gennaio

LUCA STERLE, cantante e fl autista storico del mandamento

M. M. - Ciao Luca, partiamo con la domanda di rito, come ti sei av-vicinato al mondo della musica?

L.S. - Tutto è iniziato l’ultimo giorno di scuola dell’anno scolastico ‘82/’83, in se-conda media, per via di un festino; fi no a quel momento non avevo alcun interesse musicale, ma quel giorno un compagno di classe portò varie cassette fra cui “Back in black” degli AC/DC. Sentire quel di-sco fu come una folgorazione. Mi ricordo che due o tre giorni dopo quell’ascolto sono andato a comprare quella cassetta e da lì è cominciato tutto un percorso. Poi ho conosciuto vari coetanei, tra cui Ro-berto Gattolin, un bravissimo musicista, che mi ha fatto scoprire fra i tanti Black Sabbath, Deep Purple e Led Zeppelin. Ho cominciato così ad ascoltare molto Heavy Metal e Punk, ho iniziato un qualcosa di romantico alla scoperta di questo universo inesplorato, alla continua ricerca di dischi nuovi da scoprire.M.M. – Chi ha più infl uenzato il tuo sti-le? L.S. – Nel canto è palese, sicuramente Ozzy Osbourne. Anche negli inediti dei miei gruppi si sente quell’impronta, del resto penso che se si è innamorati di un certo stile sia inevitabile. Poi mi piacciono cantanti come Robert Plant dei Led Zeppe-lin, Ian Gillian dei Deep Purple o andando in campo progressive Peter Gabriel nel periodo Genesis e Peter Hamill dei Van Der Graaf Generator. Per quanto riguar-da il fl auto traverso, chiaramente uno dei primi amori sono stati i Jethro Tull di Ian Anderson, senza dimenticare comunque il progressive italiano degli anni ’70, in cui il fl auto spadroneggiava in un gruppo come i Quella Vecchia Locanda, per citarne uno. M.M. – Fra tutte le esperienze che hai avuto quali hanno segnato una tappa importante nel tuo percorso di vita ar-tistico?L.S. – Sicuramente due anni fa, quando coi Rebus abbiamo avuto la possibilità di andare a suonare in Ungheria tramite il contatto di un nostro amico che lavora per una ditta di import-export fra Italia e Ungheria. Gli avevamo dato “Acroterius”, il nostro secondo disco e lui lo aveva fatto sentire a dei suoi conoscenti ungheresi a cui è piaciuto al punto da organizzarci una data a Szeged, dove abbiamo suonato in un club davanti a 250 persone. Abbiamo

ricevuto una accoglienza davvero caloro-sa che ci ha dato una soddisfazione tale da compensare le 22 ore totali di viaggio fra andata e ritorno. Un’altra esperienza che sta nascendo sempre coi Rebus e che spero possa portare a qualcosa di positivo è che abbiamo avuto un contatto, tramite inter-net, con un grosso giornalista del settore musicale con cui dobbiamo incontrarci di persona per cercare di avere la possibilità di poter incidere un disco a tiratura nazio-nale.M.M. - Tornando al presente, in che si-tuazioni possiamo quindi vedere Luca Sterle dal vivo?L.S. – Come detto coi Rebus o con l’altro gruppo che ho, le Carogne, con cui suono un Hard Rock più moderno, imbastardito anche un po’ col Punk. Altra situazione è coi Sabra Cadabra, con i quali faccio pre-valentemente cover dei Black Sabbath, ma questa situazione è per puro divertimento. M.M. – E che ne pensi della nostra sce-na locale?L.S. – La scena locale propone gruppi di vario genere, il problema comunque è che non essendoci spazi per suonare, ci sono poche possibilità di conoscere tutte le real-tà musicali locali, che sono molte e varie-gate.M.M. – Secondo te perché permane que-sta situazione di diffi coltà a suonare?L.S. – Sicuramente, parlando di Monfalco-ne città, c’è un problema da parte dell’am-ministrazione comunale, perché io penso che un assessore alla cultura abbia come dovere quello di monitorare la scena locale e sono sicuro al 100% che non ha assolu-tamente idea di quanti gruppi o situazioni musicali esistono nel monfalconese o nel territorio del mandamento. Un gruppo composto da noi musicisti in un breve fu-turo darà vita a un’associazione, perché ci rendiamo perfettamente conto che è l’uni-co modo per andare ad interagire su queste dinamiche negative. Chiederemo un in-contro con l’assessore per richiedere degli spazi, sia per esibirsi dal vivo sia per aver delle sale prove, visto che in città vi sono dei posti sfi tti o inutilizzati che, con un po’ di olio di gomito da parte di noi musicisti, potremmo rimettere a posto e ricavandone dei locali adatti. Ritengo che sia necessario per promuovere un minimo la cultura lo-cale e quella giovanile. Questa associazione poi avrebbe come

fi ne anche quello di raccogliere intorno a sé gente che supporti la scena locale e ascoltatori. Ma devo dire la verità, in Bi-siacaria spesso piuttosto di fare un piccolo spostamento attraverso il mandamento, ci si limita a restare nei baretti del centro ad ascoltare musica da discoteca o messa su coi cd dai famosi dj, che vanno addirittura in giro a dire che loro suonano e, le stesse persone poi si lamentano che a Monfalco-ne o dintorni non c’è niente. È chiaro che già è diffi cile trovare da suonare e se poi in un locale hai davanti 10 persone comin-ci purtroppo ad non avere credibilità, poi ci sono problemi con le forze dell’ordine per le varie telefonate di anonimi cittadini sensibili a problemi di decibel; insomma ci vorrebbe un po’ di tolleranza per mantene-re viva la scena locale, perché permangono ancora purtroppo i luoghi comuni secondo cui i capelloni non sono altro che drogati, casinisti, estremisti di politica e tutto ciò che comporta la mitologia che si trascina dagli anni ’70.M.M. – Per concludere, cosa consiglie-resti a chi vuole affacciarsi al panorama musicale e vuole esprimere le proprie emozioni in musica o solo divenirne ascolatore?L.S. – Sicuramente ci sono molti inse-gnanti per imparare il necessario, ma ci vorrebbe un approccio alla musica basato un po’ più sul dialogo, ci vorrebbe che fos-se proprio più un fatto culturale, di scam-bio fra persone. Chiunque ad esempio può venire da me a chiedermi un consiglio, per questioni di esperienza non perché io ab-bia meriti o altro, o delle dritte per ascol-tare qualche gruppo, ci sono un sacco di cose interessanti da scoprire che, spesso restano nascoste. Riguardo a chi suona il mio consiglio è di tenere sempre i piedi per terra e farlo innanzitutto per piacere personale. Se poi si cerca di fare il sal-to di qualità, provando a fare pezzi pro-pri, continuare a lavorare sempre a testa bassa e con convinzione, perché come ha detto Vittorio De Scalzi dei New Trolls, i gruppi di oggi al primo rifi uto di una casa discografi ca si sfasciano. Bisogna credere in quello che si fa, i Black Sabbath hanno avuto 17 rifi uti da case discografi che pri-ma di fare il primo disco e si è visto dove sono arrivati. ❒

di Massimiliano Moschin

A TU PER TU CON...

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gennaio 2009 • • 25M T

DobiaLab tra sperimentazione e comunicazione Rifl essioni con Enrico Saba (vicepresidente dell’associazione e responsabile del settore audiovisivo)

Il centro è attivo dal 1992 come sede dell’associazione “Gruppo Area di Ri-cerca” mettendo a disposizione sale

prove e laboratorio fotografi co. Nel 2001 c’è stato un cambio di gestione e di nome che, riconoscendo una con-tinuità con la gestione precedente, ha affi ancato al nome originario dell’asso-ciazione il nome Dobialab con cui oggi il centro è conosciuto; un arricchimento più che un cambiamento, sul presuppo-sto di creare rete tra più realtà possibili tra quelle attive sul territorio, con l’idea che la musica possa essere un elemento trainante ma non esclusivo, vista l’ete-rogeneità degli interessi e delle proposte anche in ambito performativo, fi lmico e nelle arti visive. L’attività del centro si inserisce nel con-testo delle politiche giovanili per favori-re iniziative autogestite senza particolari limiti imposti dalle istituzioni. In questo senso DobiaLab è un’iniziativa rara, non solo per le energie creative condivise e la capacità sociale e culturale aggregativa, quanto soprattutto per il tipo di rappor-to con il mondo politico che riconosce la validità e il metodo della proposta culturale, cosa che altrove incontra più ostacoli, imposizioni e diffi coltà buro-cratiche.La musica è uno dei principali fattori ag-greganti e di spinta sia dal punto di vista creativo che di usufruizione. Sempre at-tiva la sala prove, che dà la possibilità di suonare ed esprimersi a parecchi gruppi di differenti orientamenti musicali, cer-cando di favorire chi ha un repertorio proprio rispetto alle cover band. Il tentativo di DobiaLab infatti è quello di mettere insieme le persone e stimo-larle in proposte creative originali in un momento in cui la voglia di fare qualcosa di collettivo non è molto sentita e preva-le un senso individuale nella produzione culturale, talvolta posto anche in termini competitivi.Per far questo cerchiamo di collegare l’aspetto trainante musicale ad altre for-me espressive che possono, di volta in

volta, essere quelle fi gurative, espositi-ve, pittoriche, produzione video, reading, proiezione di fi lm o performance teatrali.Questo continuo mettere a confronto gli artisti ha portato negli anni ad un sacco di collaborazioni con le realtà provenienti dal territorio. DobiaLab, in questo senso, non è un universo chiuso ma una rete di relazioni che si estende il più possibile e che genera in media un evento a setti-mana nella sede, oltre ad altre numerose collaborazioni e iniziative organizzate in altri luoghi.Ci riteniamo parte di un territorio ed in questo ambito esteso cerchiamo di movimentare la realtà fornendo idee e voglia di fare. Abbiamo collaborato più volte con “Amianto mai più” e abbiamo sempre cercato di far vivere una rete in-ter-associativa, grazie alla quale siamo in stretto contatto con oltre una decina di associazioni particolarmente attive sul territorio.Per territorio intendiamo un approccio a più livelli dove lo stesso può essere inteso come la bisiacaria, la regione, o in maniera più estesa anche l’area slo-vena, croata e del Veneto orientale.Indicativo di questa tensione a creare è la Dob Orchestra. In qualche maniera Do-biaLab è sempre stata un riferimento per quell’area di jazzisti interessati più alla sperimentazione che ad una proposta, per così dire, ortodossa all’interno della sce-na jazz italiana. In questo senso il Friuli Venezia Giulia è probabilmente una tra le zone più all’avanguardia e DobiaLab un epicentro grazie alla presenza di artisti importanti come Giovanni Maier e Gior-gio Pacorig.Le cose nascono dal background cultura-le dei singoli con un’attitudine che ricalca molto quella del vecchio punk: ho voglia di fare qualcosa e la faccio qui. La voglia di dar spazio a cose differenti dà, conse-guentemente, la cornice e la concretezza alle idee.Fattore importante è che non si paga un biglietto d’ingresso alle iniziative. Questo per sottolineare che non si vuole una rela-

zione di mercato, di usufruizione passiva, ma si ricerca la co-partecipazione di chi viene, anche solo per assistere, agli even-ti. Il creare insieme un momento positivo nella nostra vita.Ovviamente c’è una ricerca nel proporre artisti poco conosciuti e sondare l’humus creativo, e magari gli stessi nel giro di poco tempo riescono ad avere un’atten-zione rilevante.DobiaLab ospita spesso djset della Me-troline, realtà che raggruppa artisti dal-l’Inghilterra al Friuli. La mentalità che vogliamo demolire è quella di chi pensa che qualcosa fatto a Londra o Parigi è in-teressante “per principio”, mentre la stes-sa riproposta in zona “no”. Non possiamo fare a meno di notare che i giovani della bisiacaria sono un po’ confusi su questo aspetto mentre nella bassa friulana vi è un interesse più profondo e spontaneo nel-l’approccio.Monfalcone in particolare paga lo scotto dell’idea di essere una m...a e di conse-guenza tutto ciò che viene proposto è una m...a. E invece non è così: o si va via dalla città, come fanno tanti, oppure è neces-sario mettersi in gioco in prima persona per cambiare le cose che realmente non vanno e superare gli ostacoli dei luoghi comuni. In questo modo abbiamo presentato cen-tinaia di artisti, tra i quali BelgradeYard Soundsystem, Bachi da Pietra, Ovo, Re-sistance In dub, Warrior Charge, Radikal Dub Collective, Wu Ming, Pino Rove-redo, Frank Bretschneider, Anna Pontel, Gabriele Bonato, Manuel De Marco, ed altri da Giappone, Slovenia, Croazia, Serbia, Francia, Islanda, Usa, ed è bello vedere come autori che hanno anche un grosso riscontro di vendite vengano in maniera gratuita o quasi dimostrando una certa visione d’intenti con il nostro modo di proporre le cose.Parti delle performance le mettiamo an-che su You Tube linkandole al nostro sito web (www.dobialab.net) come volontà di utilizzare quanti più canali di comunica-zione possibili. ❒ di Massimiliano Moschin

CULTURA

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Arbitro in terra nel bene e nel maleDopo più di dieci anni di lotte per avviarli, stanno per iniziare i processi per stabilire le responsabilità che hanno determinato la tragedia amianto nel Monfalconese. Sarà vera giustizia?

La vittoria suscita fasci-no, la sconfi tta impri-me un peso. Moltitudi-

ni di genti accorrono a farsi ammantare dalla prima e nessuno sembra disposto a farsi carico del peso della seconda. È sempre così, sul carro del vincitore tutti son disposti a salire. Nell’ul-timo mese del 2008, dopo tanti anni e tante lotte, fi -nalmente s’apprende che la procura della Repubblica di Gorizia dovrà dar corso e seguito ai processi che individueranno i responsa-bili della strage amianto nel Monfalconese. Dovrebbe trattarsi del più grande pro-cesso mai avviato in Italia per cause di lavoro. Qual-che settimana prima, un magistrato del tribunale di Gorizia lamentava a mez-zo stampa, come amano fare un po’ tutti i giudici, l’enormità del carico del lavoro che i circa 1900 casi di per sé comporteranno in rapporto all’esiguo numero di giudici. Legittime preoc-cupazioni? Sì, certo la mole di lavoro a cui andranno incontro i giudici sarà ri-levante, ma è morale che un giudice, dopo anni di ritardi, percepisca persone e lutti in termini di carichi di lavoro? No, non lo è af-fatto.Fu Norberto Bobbio a intro-durre prima nella teoretica e poi nella politica stessa, la necessità di distinguere tra diritto e morale. Si trat-ta di quella distinzione in

consapevolezza della qua-le possiamo esprimere una condanna precisa verso i responsabili dei 158 morti per Cvm a Porto Marghe-ra benché la giustizia dei giudici abbia assolto gli imputati. Invero, proprio perché intellettualmente privo della capacità di di-stinguere tra diritto e mo-rale, l’onorevole Di Pietro può affermare che il pro-prio intraprendente fi gliolo non ha commesso nulla di penalmente rilevante e per-tanto deve essere lasciato in pace. Se invece Di Pie-tro fosse capace di questa distinzione, saprebbe che non tutto ciò che è legale è altresì morale e si asterreb-be o dal difendere a spada tratta il proprio rampollo o dall’autorappresentarsi come il campione della mo-ralità nazionale. Tutta la vi-cenda processuale scaturita dall’utilizzo sconsiderato dell’amianto è caratteriz-zata da scelte intraprese in assenza della capacità di distinguere tra diritto e mo-rale. Non fosse stato così, non avremmo assistito a tutti questi deliberati ritardi e non sarebbe stato neces-sario che tutto dipendesse dalla lotta ultradecennale dell’Associazione esposti amianto di Monfalcone che forse non le avrà imbroccate tutte, ma che certamente ha compiuto un lavoro enorme per rendere consapevole almeno una parte delle isti-tuzioni della portata della

tragedia in corso. Tuttavia, molto resta da fare perché non si è ancora ben com-preso un dato fondamenta-le: stiamo parlando di circa 1900 casi? No, il numero di vittime che un’even-tuale sentenza favorevole dovrebbe moralmente ri-conoscere è molto più alto. Perché? È presto detto: si sa che la prima nave varata a Monfalcone fu il pirosca-fo Split, nel 1908, da allora l’amianto è stato utilizza-to per decenni su decine e decine di navi e sommer-gibili prima di arrivare alla legge di messa al bando. Sappiamo anche che nessu-no pagherà per i morti dei prossimi anni, un po’ per i termini di prescrizione che scadranno inesorabilmente e un po’ per il ciclo biologi-co della vita a compimento del quale ci saranno ancora decessi per amianto ma non più responsabili. Ecco per-ché questo processo non è affatto, e non lo è mai stato, una questione privata cir-coscritta ai familiari delle persone decedute. Questo dovrà essere un processo orientato a rendere giusti-zia ad una comunità ferita che nessuno ha il diritto di rappresentare in via esclusi-va come pur pretenderebbe chi vorrebbe trarne, in caso di esito processuale soddi-sfacente, vantaggi pubblici o privati, personali o per il partito. I casi sono due: o ci si dichiara parte civile o si continua ad essere part-

ner pubblico delle realtà economiche coinvolte nel processo; o si continua ad arrogarsi meriti o si am-mette molto chiaramente che prima di intervenire co-munque si è atteso almeno un anno più del necessario e sono occorse migliaia di cartoline di sollecito non-ché un intervento puntuale del Presidente della Re-pubblica; o si continua a reputare adeguati i liberi professionisti schierati po-liticamente o ci si guarda in giro per cercare qualcosa di meglio di ciò che può espri-mere una provincia piccola e il piccolo provincialismo. Come sempre: delle due, l’una. Adesso tutto sta per iniziare. Vada come vada, comunque partirà un pro-cesso di attribuzione di re-sponsabilità rispetto un nu-mero di persone, molto più alto di quello uffi ciale, che sono morte perché venute a contatto con l’amianto du-rante la loro vita lavorativa. Vada come vada, un giudi-zio morale di colpevolezza, collettivo ed unanime, ha costretto degli uomini che si chiamano giudici ad av-viare i processi. Vada come vada, questo percorso fi na-lizzato ad ottenere giusti-zia riguarda tutti, nessuno escluso e, a prescindere da cosa decideranno i giudici, dovrà bastare a risarcire moralmente una comunità percorsa per almeno cinque generazioni da una tragedia enorme. ❒

[di Tiziano Pizzamiglio]

AMIANTO

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gennaio 2009 • • 27M T

L’uomo neroCambia tutto, ti pare che tutto si ri-

peta giorno dopo giorno uguale, che resti quello che è per anni,

ma un giorno, un giorno qualsiasi, scopri che non è più così. Ti circon-dano altre facce, facce sconosciute, quelle conosciute sembrano scom-parse o diventate altro da quelle che erano, compresa la tua, che quando passi davanti a uno specchio ti scruta anche lei quasi irriconoscibile.

Arrivano dai posti più lontani della terra, maschi in prevalenza, per se-dersi comodi sulle panchine dei tuoi giardini pubblici, delle tue piazze, per tappezzare con la loro pelle scura le strade del centro. Mica sgobbano al cantiere e basta, nelle intercape-dini delle navi dove i nostri operai non vogliono più infi larsi: fi nito il turno di lavoro te li trovi sparpagliati dappertutto, a fi ccarti addosso i loro occhi. Chissà poi cosa riservano alle ragazze che girano con tutta quella chincaglieria in mostra. Fortuna che parlano una lingua incomprensibile. Pensi. È cambiata anche l’aria del-le strade, compresa quella della via dove abiti, è l’odore delle loro cuci-ne. Inconfondibile.

Infi ne una mattina l’odore te lo tro-vi sul pianerottolo di casa, appena si apre la porta dell’ascensore. C’era trambusto per le scale, un vociare fi tto che saliva. Ansimanti e sudati portavano su i mobili, materassi su materassi, come formiche. Un mez-zo saluto loro, un mezzo saluto tu. Sbirci dalla porta aperta di fronte alla tua: una donna in un sari troppo sgargiante traffi cava ai fornelli, due bambini le sgambettavano intorno dentro i loro pannolini, come fatti di cioccolata. E mentre entravi in casa, uno, quello che sembrava il capo, vo-leva forse aiutarti a portare una borsa della spesa, gli hai fatto capire che

no, non serve, che ce la fai da sola a portare tutte e due.

Sì anche ti salutano i nuovi inquilini. Ma solo sulle scale, per strada diven-ti invisibile. Comunque ora li vedi ogni giorno, sono tanti, non capisci neanche quanti sono in quell’appar-tamento da dove escono ed entrano continuamente. Se ti svegli alle quat-tro della mattina, per l’insonnia, già traffi cano in cucina. Poi senti quando escono, quando partono per il turno delle sei al cantiere. L’ascensore ti passa in testa. Così ti svegli comple-tamente. Sì non puoi restare a letto, ti alzi, fai il caffè. Poi non ti resta che attaccare con le pulizie. Non servi-rebbe, è già tutto pulito, ma devi pur fare qualcosa in quelle ore. I negozi aprono tanto più tardi, alla tele non c’è mai niente, così accendi tutte le luci e cominci a riassettare, fai il let-to, avvii la lavastoviglie semivuota e ti accendi la prima sigaretta.

Sì, è cambiato tutto nella nostra vita. Ma non come si voleva, e pensare che ti lamentavi dei trasfertisti... Così la Rita quando passa per il caffè. Alle otto. Che occorre adattarsi, far storie è peggio, specie se sei sola. Dice. Che dovresti trovare qualcuno, un uomo per casa serve... Insiste. Non ha senso ripeterle che ne avevi due, che non li hai mandati via tu, ripeterle che Edo ha trovato un’altra, e Marco è cresciuto. E che è stato un caso l’ar-rivo contemporaneo dei trasfertisti del piano di sotto, non una punizione divina. La Rita non capisce. Sì, due famiglie, rumorose, un mucchio di loro. Italiani certo, anche loro qui per lavorare al cantiere, certo stranieri anche più degli extracomunitari. Che parlano solo tra loro, a squarciagola, specie per le scale, certo una tribù, come i bangla: porte sempre aperte anche loro, un via vai continuo per le scale. E odore di fritto per le scale,

certo. Tu. Senza acredine.

Bastavano loro, non ti servivano an-che i bangla, no? Ti replica ogni volta la Rita: I trasferisti mangiano sempre, è il loro debole, assieme alla tele a tutto volume. Insiste. Visto che ne ha una tribù anche lei nel suo condomi-nio. Mica come noi che siamo sem-pre a dieta. Tu, ironica. Comunque l’ansia non te la dà quel che succede nei condomini, no? Insinua la Rita: Lì chiudi la porta di casa e te li tieni fuori tutti, cioè il problema ce l’hai quando esci, impossibile incontrare qualcuno che conosci quando esci. Sì Rita. Pensi al peggio. Lei. Le strade oramai non sono di nessuno. Fuori può davvero succederti di tutto. Dice che occorrerebbero telecamere in ogni strada, e una centrale di control-lo operativa notte e giorno. Che anzi dovrebbero attaccarci le telecamere in fronte e sulla nuca per garantirci l’incolumità.

Tu però non sei come la Rita. Un giorno hai lasciato fare a quello che sembrava il capo dei dirimpettai, così lui ti ha portato in casa le borse della spesa. Erano pesanti, ma lui sembra-va contento, sorrideva. Gli hai offer-to un caffè. Ha accettato. È più alto degli altri, si veste come noi. Parla italiano bene. E dopo che si è fatto la macchina mi ha invitato anche fuori. Mi ha solo chiesto se lo potevo aspet-tare dietro la pizzeria del Kinemax. Non vuole storie con i suoi. Neanche io voglio storie. Devo ammettere che è un bell’uomo, intelligente, però an-cora non ho detto alla Rita che ci ve-diamo da mesi. Con lei continuo con i soliti discorsi. Ho cinquanta anni e posso fi nalmente fare quello che vo-glio. Sento meno gli odori sulle scale, e mi va di sentire gente che parla ol-tre la porta di casa. Magari una volta lo faccio dormire da me.

Gianni Spizzo

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28 • • gennaio 2009M T

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