Mourinho Cap 1

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CAPITOLO I UN NUOVO CHELSEA Dietro ai soldi del proprietario russo, José Mourinho scopre una mediocre squadra del calcio inglese. L’allestimento della squa- dra, immaginata dall’allenatore portoghese, non è stata l’unica sfida proposta dal Chelsea. Era necessario reinventarla.

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CAPITOLO IUN NUOVO CHELSEA

Dietro ai soldi del proprietario russo, José Mourinho scopre unamediocre squadra del calcio inglese. L’allestimento della squa-dra, immaginata dall’allenatore portoghese, non è stata l’unicasfida proposta dal Chelsea. Era necessario reinventarla.

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Il calcio ha un idealismo a sé. Nonostante i soldi a disposizione,bisogna in primo luogo avere un’idea di quello che si vuol fare.Prima di Mourinho, il Chelsea aveva fondi sufficienti per com-prare tutti i giocatori che voleva; dopo Mourinho, si è procura-to il cemento che mancava per unire i mattoni nella costruzio-ne di una grande squadra. Nel calcio, l’inizio è sempre il mo-mento più difficile. Un semplice errore di percorso può rovina-re un investimento di milioni. Fino all’arrivo di Mourinho, il pro-prietario della squadra aveva i soldi, ma gli mancava il criterio:un conto bancario in cui, muniti di buon senso, si facciano tut-ti i depositi. Dopo Mourinho, il Chelsea – o, per meglio dire, Ro-man Abramovich – non ha più sperperato fortune nell’acquistodei Mutu, dei Crespo o addirittura dei Johnson. Nonostante lechiacchiere della stampa inglese, Mourinho ha riportato ordinenel Chelsea. Guadagnare di più, spendere di meno. E oltre a co-struire una squadra, ha anche dovuto tirare su le fondamenta diuna nuova società, un nuovo Chelsea.

Il centro del mondo

«Quando sono arrivato [al Chelsea], mi sono subito resoconto che erano necessarie due cose: organizzare unasquadra vincente, per la quale bisognava acquistare buo-ni giocatori, e costruire una nuova società, ma per far que-sto c’era bisogno di ben più che uno stadio. Il Chelsea ave-

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va il potenziale finanziario, proveniente dagli investimen-ti del patron, ma non aveva quelle altre cose che posseg-gono le squadre che lottano per raggiungere grandiosiobiettivi: centro sportivo, cultura di squadra e spirito vit-torioso. L’arrivo di Abramovich ha coinciso con la rina-scita del Chelsea. Credo che le insinuazioni sui propositiche lui aveva sulla squadra siano ingiuste perché, senza isuoi soldi, ma soprattutto senza il suo impegno, non sa-rebbe stato possibile vincere tutti quei titoli in così pocotempo. Senza il suo entusiasmo, talvolta quasi infantile,non sarebbe stato possibile costruire una nuova società.L’esempio migliore è il centro sportivo di Cobham.

Un solo aggettivo per definire la casa del Chelsea: spetta-colare. Il sogno di qualunque mister è di avere ottime con-dizioni di allenamento. A Cobham non manca nulla. Tut-to quello che laggiù si vede è opera di Abramovich, nondi José Mourinho. L’inaugurazione del centro è anche unavittoria del Chelsea, importante per il futuro della squadracome la conquista di un campionato, perché ci sono cam-pi per l’allenamento, campi per la prima squadra, per la

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squadra di riserva, per i più giovani e ne restano ancheper le partite tra scapoli e ammogliati. Ci sono campi pertutti i gusti e di tutte le dimensioni, sintetici o no, struttu-re d’appoggio favolose, un centro d’allenamento moltoben disegnato sull’esempio del modello olandese, di ta-glia XXL, però; insomma, un centro al livello dei miglioridel mondo, che sarà il futuro del Chelsea. Sono solito di-re che non è un centro di allenamento, ma quasi un lati-fondo. In questo spazio potrebbe nascere una città. Perchi ama veramente il calcio, allo stato puro, per chi amal’allenamento, per chi è fanatico, come me, delle condi-zioni logistiche, è quasi il paese della cuccagna. E tutto èstato possibile grazie all’impegno di Abramovich nel co-struire una squadra migliore, una squadra vincente e unasquadra che non dipenda troppo da continue iniezioni didenaro suo.È ovvio che quando è arrivato, prima di me, la priorità ri-guardava l’acquisto di giocatori, perché costruire unastruttura richiede sempre più tempo che mettere su unasquadra. Chiaramente dipende dai fattori fisici di tale co-struzione poiché non è possibile tirar su un centro comequello di Cobham in pochi mesi e non è possibile recupe-rare un ritardo decennale in poco tempo. Allora, deciseche il primo passo sarebbe stato l’acquisto di giocatori,ecco la ragione del suo primo consistente investimentonella squadra di calcio e nella contrattazione di buonielementi.Contrariamente a quanto sostenuto dalla propaganda spic-ciola, non è stato con me che sono avvenuti gli ingaggistratosferici, poi rivelatisi inutili, se non addirittura dan-nosi per la squadra: calciatori ingaggiati a destra e a man-ca, come se le vittorie si potessero comprare di diritto. Nelcalcio il successo non si compra; il successo si suda e chinon lo capisce, non capisce neanche le difficoltà del cal-cio attuale. I soldi sono utili, ma solo se investiti con cri-

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terio. Utilizzati diversamente sono inutili, se non danno-si. So quel che si dice fuori da Stamford Bridge: che perMourinho il lavoro è facile perché gli basta chiedere ungiocatore e il libretto d’assegni del proprietario fa il resto.Non sono d’accordo; ogni centesimo speso nell’acquistodi un giocatore fa aumentare le responsabilità, perché senon rende il giorno dopo ho tutti addosso a darmi dell’in-competente, dato che le persone hanno la tendenza a va-lutare un calciatore non per il suo valore, ma per il suocosto. I giocatori del Chelsea e il suo allenatore sono sem-pre al vaglio dei critici, dei tifosi, dei giornalisti, di tutti,perché se la squadra ha speso una fortuna per metterlisotto contratto, è perché il loro valore calcistico deve es-sere proporzionato al costo. Essere allenatore del Chelseanon è un lavoro facile, ma è stimolante. È la sfida di unavita ed è sempre preferibile che scrivere, tutte le settima-ne, cronache sui giornali. A molti soldi corrispondonograndi responsabilità, e tra le mie, nel Chelsea, c’è quelladi saperli spendere. L’ho già detto ai miei dirigenti: la so-cietà non può continuare a pagare lo scotto di avere unproprietario ricco che può concedere qualunque ingaggioci venga in mente, arricchendo anche le altre squadre.Questo crea una concorrenza che il Chelsea non si devepermettere. Quando pagammo più di 30 milioni di europer Essien – un giocatore fantastico e uno dei migliori af-fari del calcio inglese degli ultimi anni – stavamo rinfor-zando la nostra squadra e, al contempo, quella del Lyon.Tutto quel denaro, seppur ben speso, ci si può ritorcerecontro perché è ovvio che il futuro Lyon – e questa è unasquadra che attacca il mercato con criterio – sarà certa-mente più forte, ne uscirà consolidato.Riuscite a immaginare che cosa avrei fatto io, se fossi sta-to ancora allenatore del Porto, con 50 milioni di euro dainvestire nella squadra dopo il trasferimento di RicardoCarvalho e Paulo Ferreira al Chelsea? Non ho dubbi che

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l’anno seguente avremmo avuto una squadra ancora piùforte di quella che vinse la Coppa dei Campioni. A me sem-bra perverso, nell’attuale rapporto tra il Chelsea e le altresocietà, che tutti sembrino non sapere, o facciano finta dinon sapere, che tutti quei soldi ci si possono ritorcere con-tro. Il mio lavoro consiste anche nello stimolare la socie-tà a ingaggiare giovani talenti, a formarli, a metterli suuna rampa di lancio per la prima squadra. Per questo di-co che il centro di Cobham, a pieno ritmo, oggi può vale-re come un Drogba o uno Shevchenko, ma domani varràdieci volte tanto. E per questo devo rispettare i tifosi, i di-rigenti e, in particolar modo, il proprietario di questa so-cietà perché tutti vogliono un Chelsea che punti sulla for-mazione».

Uno degli obiettivi del denaro nel calcio è di venire speso pertenere il mercato in movimento. Ma quando Abramovich è ar-rivato al Chelsea, ha esagerato. In un solo anno ha reso miliona-rie molte società, non soltanto la sua. Ha speso più di 300 milio-ni di euro prima dell’arrivo di Mourinho a Londra, pagando i de-liri di un allenatore e gli interessi dei procuratori. Ha polveriz-zato tutti i record di ingaggio in Inghilterra, pagando Drogbaquasi 40 milioni di euro, dieci più di quanti era stato pagato VanNistelrooy al Manchester United alcuni anni prima. Con un pa-ragone facile e trito, si può dire che Abramovich ha speso, in so-li 12 mesi, tanti soldi quanti Alex Ferguson in dieci anni con iRed Devils. Ma è vero che, a sua volta, l’allenatore scozzese nonè proprio un esempio di virtù a buon mercato. Anzi, quando ac-cettò di pagare un assegno di 50 milioni di euro per un difenso-re – Rio Ferdinand –, si capì subito che tutti avevamo un Abra-movich dentro di noi. Basta avere soldi da spendere. Una di que-ste persone è José Mourinho che, nonostante tutto, ha la prete-sa di trasformare il Chelsea in un club normale. Nel mondo delcalcio ci sono due tariffe: una regola il mercato e l’altra defini-sce il prezzo, ammesso che l’acquirente sia la società di Abra-

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movich. L’allenatore portoghese è una specie di libretto di ri-sparmio per il milionario russo.

Il forziere di Abramovich

«Prima che arrivassi al Chelsea, la società aveva spesomolto e guadagnato poco. Dopo tre anni a Stamford Brid-ge, posso dire, con orgoglio, che la società ha speso menoe ha guadagnato di più. Questa sarà la tendenza: guada-gnare sempre più e spendere sempre meno. È il mio impe-gno e la mia sfida, e per questo non posso mandar giù co-loro che dicono che José Mourinho non lavora per co-struire il successo perché lo può comprare. Il fatto curio-so è che gli stessi che proclamano questa verità assolutadimenticano l’investimento fatto per molti anni dal Man-chester United. Quanto è costato Rio Ferdinand? A che co-sa pensano queste persone quando viene data la notiziache il Liverpool di Rafael Benítez ha a disposizione 100milioni di euro per gli ingaggi della stagione seguente? Iodico che non pensano, perché il Liverpool da più di diecianni non si aggiudica uno scudetto e sarebbe un bene pertutti se lo vincesse. Non dubito che l’allenatore del Liver-pool investirà con successo quei soldi perché, come me,ha vinto in ambienti più avversi e in condizioni più preca-rie. Quando ha vinto il campionato in Spagna, con il Va-lencia, aveva soldi da investire nella squadra, ma se para-gonati a quelli del Real Madrid dei galáctico, erano spic-cioli. Con quegli spiccioli ha vinto due volte in tre anni eha conquistato la coppa UEFA. Ha vinto anche la ChampionsLeague con il Liverpool, con una squadra che aveva uncosto inferiore rispetto alle favorite.Cito l’esempio di Benítez perché, come me, nella prossimastagione avrà una sfida da affrontare, come ho già fattoio. La responsabilità di vincere andrà aumentando, la pres-

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sione diventerà quasi insopportabile e avrà davanti unobiettivo assai più schiacciante di quello attuale. Tutti glichiederanno quello che adesso chiedono al ManchesterUnited o al Chelsea. Che vinca tutto, o che per lo menofaccia lo sforzo di conquistare tutte le coppe, perché l’in-vestimento nella squadra deve avere un ritorno. E, nelcalcio, il ritorno sono le vittorie. Sono finiti i bei tempi incui si lottava per un obiettivo qualunque, potendo gesti-re il riposo dei giocatori a seconda degli interessi momen-tanei della squadra, perché non tutti erano sui tabelloni alottare per la vittoria. È questo a farci crescere come alle-natori e come squadra. Il prossimo campionato si vedràcome se la caveranno il Liverpool e il suo allenatore in que-sta nuova sfida in cui si lotta per vincere tutte le partite.Perché se non ce la facessero, tutti diranno che la stagio-ne è stata un disastro.Proprio quello che è successo a me, quando il Chelsea haperso punti sul Manchester United e, per mesi, tutti han-no avuto il diritto di dire la loro. Dicevano che avevo per-duto il dono, la magia, che il Chelsea non dominava più.E tutto solo perché in campionato la squadra era in diffi-coltà, con vari giocatori infortunati; tutti mi volevanocrocifiggere, prevedendo una stagione priva di titoli. Perquesto, Liverpool, benvenuto in questo ammirevole nuo-vo mondo, in questo spettacolo quasi giornaliero di sfidu-cia, incertezza e pressione, molta pressione per vincere».

Chi arriva a Cobham col treno, venendo da Londra, quandoscende alla piccola stazione della cittadina che ospita il centrosportivo del Chelsea, si guarda intorno e trova, nello stretto pe-rimetro visivo, campi su campi di calcio. Da lontano, si scorgeanche un edificio non ancora finito, che promette di essere unarara combinazione tra lusso asiatico e funzionalità inglese. Ac-canto, temporaneamente, sono stati costruiti due prefabbricatiche accolgono una squadra di campioni del calcio mondiale, in

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uno spazio angusto, ma che i giocatori accettano obbediente-mente come il ruolo che spetta loro nella costruzione della so-cietà futura. Nonostante ciò, gli spogliatoi sono decenti, gli im-pianti dignitosi e l’ambiente professionale. In netto contrastocon le condizioni in cui si trovavano i giocatori del Chelsea treanni fa, quando si riunivano negli spogliatoi di una scuola pri-vata che fecero venire i capelli dritti a José Mourinho.

Il maestro del dettaglio, l’apostolo della perfezione era soprag-giunto nel regno dell’improvvisazione. Furono mesi passati a ri-muginare su tanta imperfezione e solo l’arrivo di Peter Kenyonal Chelsea, prima ancora dell’ingaggio dell’allenatore, rese quelcalvario sopportabile, ma per poco. Il direttore esecutivo, prove-niente dal Manchester, aveva già definito che il primo grandeinvestimento di Abramovich doveva essere uno spazio dove co-struire il futuro centro sportivo. E il milionario non ha compra-to uno spazio, ma un latifondo. È qui che Mourinho prepara lesue famose pozioni di talento e psicologia con cui distrugge leverità più inossidabili del calcio.

Il gran Kenyon

«Chi guardi oggi il Chelsea e ricordi che cosa era la squa-dra due o tre anni fa, lo troverà irriconoscibile. È cambia-to tutto, dalle condizioni di allenamento al modo in cui tut-ti lo consideravano. Non è più la squadra di un quartierechic di Londra; è una squadra che ha tifosi in tutto il mon-do, che si prepara tutti i giorni per egemonizzare il calcioinglese ed entrare nella hall of fame del calcio europeo. Intre anni molte cose sono dovute cambiare.Mi ricordo le condizioni in cui ci allenavamo al principio.È stato difficile spiegare a quei giocatori, che erano giun-ti insieme a me al Chelsea, che la società che elargiva sti-pendi favolosi non aveva un centro sportivo decente, a-datto a un livello di altissima competizione. Come face-

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va una squadra che si allenava sull’erba di un campo af-fittato a una scuola a competere con le grandi società delcampionato inglese? Certi giocatori, tra i quali alcuni por-toghesi arrivati con me, che venivano dal Porto (campio-ne europeo) e anche dal Benfica, all’inizio si stupirono e,forse, avranno anche pensato di essere capitati nel filmsbagliato.

Ci allenavamo su un campo che stava proprio accanto al-l’Holiday Inn di Heathrow, in alcuni impianti affittati dalChelsea, con tutto quello che comporta una struttura delgenere, cioè il campo serviva anche agli studenti e cosìdovevamo adeguare il nostro piano settimanale di allena-mento agli orari lasciati liberi. Gli spogliatoi erano quellitipici delle scuole, molto simili a quelli del mio liceo a Se-túbal, quando ero ancora studente, piccoli e quindi senzala possibilità di riunire tutti i giocatori insieme, ma li do-vevamo distribuire su quattro. Erano condizioni difficili,quasi inenarrabili; ogni giocatore aveva un gancio perappendere i vestiti – io ci scherzavo sopra, dicendo che laprima cosa che dovevano fare quando arrivavano era di

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mettere il Rolex al gancio. E così c’erano cinque o sei gio-catori per spogliatoio. E quando arrivai, per lo meno aquanto mi è stato raccontato, con Ranieri, c’era già statauna piccola evoluzione, dato che prima, ai tempi di GlennHodle, se l’allenatore aveva bisogno di fare una telefona-ta doveva andare al telefono pubblico, quello a monete,perché il mister del Chelsea non aveva altra possibilità.Quel telefono era il suo ufficio e questo era il Chelsea.Questa era anche la società che trovai, seppur in una fasediversa di sviluppo, in cui esistevano un notevole poten-ziale economico e la volontà di Abramovich di cambiaretutto.Un po’ prima di me era arrivato Peter Kenyon, un dirigen-te professionista di grandi capacità, completamente co-struito al Manchester United, una società modello, da ci-ma a fondo, e, quindi, il mio arrivo aggiunse altri princì-pi alla formulazione e al disegno di una società comple-tamente differente. Devo dire che l’ingaggio di Peter Ke-nyon fu tra i più importanti della storia della società, poi-ché fu lui a fare la prima diagnosi della situazione delChelsea; fu lui che disse al patron che non si potevanovincere campionati in quelle condizioni di allenamento e,anche per me, fu cruciale che lui fosse arrivato un po’ pri-ma, fungendo da ammortizzatore, perché il lavoro per laricostruzione della società era già stato avviato.Si tratta, effettivamente, di un grande dirigente, munitodi un’incredibile sensibilità per cogliere gli umori di unasquadra di calcio, per risolvere i problemi dei giocatori econ la lucidità per capire di che cosa c’è bisogno per co-struire il successo. A questi livelli, è forse il miglior diri-gente del calcio inglese e, sicuramente, uno dei miglioriin ambito europeo, e non è casuale che abbia collaboratocon la UEFA per alcuni progetti di consolidamento dell’im-magine globale del football. Un signore, un amico e ungrande professionista, senza il quale non sarebbe stato

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possibile raggiungere il successo ottenuto col Chelsea incosì breve tempo. Per coloro che ritengono che il calciosia solo quel che si vede sul campo, una miscela istanta-nea di talenti e basta, Peter Kenyon è la prova inconfuta-bile che le vittorie cominciano molto prima dell’allena-mento e delle partite. Cominciano negli uffici, dove tutti so-no alla ricerca della ricetta giusta per combinare astuzia,conoscenza e sensibilità. Questo è il dirigente che rendefelice la vita di un allenatore; nel caso specifico, in Inghil-terra, di un manager».

Uno dei principali problemi con cui José Mourinho si trovaa confrontarsi è il suo successo. Non perché sia troppo fragoro-so, ma, talvolta, perché venuto prima del previsto. Il calcio ha isuoi tempi per la costruzione del successo. Nulla accade perchélo si desidera molto e per influssi continui di positività. Se pen-sate che il successo si possa trovare in sacchettini di polvere eche basti aggiungere la giusta quantità di una verità liquida, vistate sbagliando. Soprattutto nel calcio inglese, da più di centoanni gli antenati di questo sport hanno scoperto che, per arriva-re alla vittoria, ci vuole ben altro che fare piazza pulita. JoséMourinho ha portato al Chelsea, andando a inficiare tutte le fia-besche teorie sul modo in cui le cose accadono in Inghilterra,l’idea illusoria che il successo possa anche arrivare prima di tut-to il resto. Dopo Mourinho, c’è una specie di ottimismo quasiidealizzato che il mondo assorbe come la panacea che curerà lamancanza di tempo delle nostre vite. Dentro di noi comincia aesserci un Mourinho nascosto, che ha fretta di vincere, ed è que-sto che disturba i detrattori dell’allenatore, perché lui comparenelle loro vite, sgomentandoli all’idea che di Mourinho ce ne siauno solo. E anche così, vittima di se stesso.

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Successo contro Mourinho

«Nel Chelsea forse mi preoccupa di aver vinto troppo pre-sto. Sento, talvolta, di essere stato vittima del mio stessosuccesso. Le vittorie in campionato, nelle coppe, hannoun significato speciale nella mia carriera, ma forse sonoarrivate prima del tempo. Di solito, le persone guardanoal Chelsea come a una società ricca, pensando che il de-naro del proprietario possa comprare questo mondo e an-che quell’altro, se necessario. Ho già spiegato come questoci si possa ritorcere contro sul campo, ma che è anche unapotente arma d’attacco fuori dalla società. Poiché nessu-no conosce le condizioni in cui abbiamo dovuto costrui-re le nostre vittorie e poiché si sono realizzate contro tut-te le aspettative e i più saggi comandamenti calcistici, siè diffusa l’idea che per il Chelsea il successo non sia unaconquista difficile.Me ne sono ricordato alcuni mesi fa, quando il Valencia èvenuto in trasferta a Stamford Bridge per giocare con noinella Champions League. Mi aspettavo una stampa spa-gnola aggressiva e pronta a sollevare polveroni che avreb-bero reso più tesa la partita. Durante la conferenza stam-pa, alla vigilia della partita, un giornalista spagnolo mi haprovocato, insinuando che il Chelsea aveva ospitato i gio-catori del Valencia in uno spogliatoio ritenuto inadegua-to, con soltanto uno specchio e tre docce. Non mi piace-va la piega che stava prendendo la faccenda e ho sentitodi dover spegnere la polemica sul nascere. Se non l’avessifatto, il giorno dopo tutta la stampa spagnola avrebbe gri-dato allo scandalo, proiettando nel mondo un’immaginemolto negativa del Chelsea. Non potevo accettare che suc-cedesse, anche perché tutti vengono ben accolti nella no-stra società e così ho interrotto la conferenza e sono usci-to dalla sala. Ho semplicemente detto: “Aspettate dieci mi-nuti”. L’ho fatto con aria scherzosa, ma dentro di me ri-

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bollivo perché già sapevo che erano tutte menzogne. E poisono io quello che ha la fama di fare elucubrazioni men-tali. In breve, sono arrivato allo spogliatoio in questione,mi sono informato presso persone di fiducia del Chelsea esono tornato piano piano dove i giornalisti mi aspettava-no. Be’, che aspettassero perché era un’insinuazione gra-ve e poteva danneggiare l’immagine della società. Appe-na tornato, ho guardato il giornalista che mi aveva fattol’osservazione, in modo da non fargli avere nessun dub-bio su quanto stavo per dire: “Sono stato negli spogliatoidel Valencia e posso garantire che [quanto lei ha detto]non è vero. Ci sono tre specchi e dieci docce”. Confesso diaver provato una grande soddisfazione per quello che ave-vo fatto. Non sarebbe passata impunemente la calunniaspagnola che il Valencia era stato male accolto dal Chel-sea perché noi rispettiamo gli avversari e li trattiamo tut-ti bene. Per un attimo mi fermo a pensare a quello cheavrebbero detto gli stessi giornalisti se avessero visto lecondizioni in cui ci allenavamo noi, all’inizio, in quellascuola vicino a Heathrow.Grandi campioni, i miei giocatori, grande carattere e gran-de disponibilità ad accettare la sfida di fare di questa so-cietà una delle maggiori al mondo. Senza questi giocato-ri non sarebbe stato possibile vincere in così poco tempo,creare esternamente l’illusione che le cose avvengono na-turalmente. Ma è così che dall’esterno ci vedono: una so-cietà che ha tutto soltanto perché il proprietario è ricco. Iosento che, in condizioni normali, il Chelsea di Mourinho,forse, avrebbe potuto vincere una coppa qui, una lì, avrem-mo dovuto recuperare il ritardo che avevamo, e continuia-mo ad avere, nei confronti delle altre grandi squadre, conancora qualche tappa da bruciare, in attesa di inaugurareil nostro centro sportivo, e tutti sarebbero stati felici, per-ché in Inghilterra non c’è solo il miglior campionato delmondo, ma ci sono anche i migliori dirigenti, quelli che

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capiscono che il calcio non è una cosa semplice – anchese poi tutti, ma proprio tutti, hanno un’opinione, solita-mente sicura e infallibile – e io avrei avuto tutto il temponecessario per reinventare il Chelsea. In fondo è quelloche ho fatto, e il miracolo più grande è di essere riuscito afare tutte e due le cose allo stesso tempo: far vincere que-sta squadra e aver preso parte alla rinascita.Non ho avuto neanche l’opportunità che hanno avuto al-tri miei colleghi di ricominciare da zero; non ho avutol’opportunità di lavorare a medio-lungo termine, comeritengo sia propizio per un allenatore che voglia lasciarequalcosa di compiuto in una squadra, come Arsène Wen-ger, un allenatore molto apprezzato dal giornalista che miha proposto questo libro. E io sono il primo a condivide-re l’ammirazione per l’allenatore dell’Arsenal perché faun ottimo lavoro di valutazione e formazione dei gioca-tori, e questo accade anche perché Arsène Wenger è mol-to intelligente e ha una politica comunicativa diversa dal-la mia. Anch’io penso di essere intelligente, ma non pre-tendo di esserlo come lui, e quindi mi distinguo per l’im-magine che proietto verso l’esterno e questo dipende dal-le nostre possibilità di lavoro. Io lavoro nel presente concondizioni che vengono dal passato, mentre lui lavoranel futuro con condizioni che venivano dal presente. Lui,però, può giocare in difesa nella sua comunicazione, dalprincipio alla fine, mentre io mi devo mettere in una situa-zione difficile, usando la comunicazione in modo stru-mentale, come fattore motivazionale per la mia squadra.Quando dico che il mio giocatore è il migliore del mondo,corro dei rischi. Rischio la mia reputazione, rischio di ve-nire considerato un pazzo, mentre Arsène Wenger puòcontare su una situazione più stabile che gli permette distare sulla difensiva con i media e con tutto il mondo fuo-ri dall’Arsenal. Non c’entra niente con le nostre caratteri-stiche personali, le nostre idiosincrasie, né con le nostre

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scelte, ma con la natura delle squadre in cui lavoriamo. Epoi, è chiaro, le casse di risonanza sono diverse. In questastagione ho giocato partite estremamente delicate per ilChelsea con tre giocatori sotto i vent’anni e nessuno, maproprio nessuno, lo ha notato. Basta, invece, sentire quel-lo che dicono i commentatori sul miracolo della moltipli-cazione dei talenti dell’Arsenal. E nessuno si ricorda cheDiarra è costato al Chelsea un milione di euro, pagati arate, e in funzione del numero di partite che giocherà inprima squadra, nessuno parla di Obi Mikel, sperduto nelcampionato norvegese. Ma se l’Arsenal perde con questoo con quello, gli viene sempre fornito un paracadute daicommentatori perché è una squadra giovane, una squa-dra del futuro, una squadra che ha bisogno di tempo. AlChelsea, però, nonostante i nostri ragazzini, non è dato diusufruire di quel tempo perché non glielo danno. Il fattoè che Arsène Wenger è riuscito a costruirsi con molta in-telligenza uno spazio e, da questo punto di vista, tutti glidevono riconoscere un indiscutibile merito».