Monologhi

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Friedrich D.E. Schleiermacher MONOLOGHI A cura di Ferruccio Andolfi DIABASIS la ginestra DIABASIS la ginestra «Così si è affacciata alla mia mente quella che ora costituisce la mia intuizione più alta. Mi è divenuto chiaro che ogni uomo deve rappresentare l'umanità a modo proprio, con una mescolanza particolare dei suoi elementi». 12,00 Friedrich D.E. Schleiermacher MONOLOGHI DIABASIS I Monologhi (1800) contengono il nucleo del pensiero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni interiori, scandite in cinque parti («riflessione», «sondag- gi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»). Insieme ai Discorsi sulla religione offrono un documento significativo dell'individualismo della cultura romantica. L'individualismo viene temperato dal presupposto che le singole manifestazioni dell'animo religioso o morale possano comporsi in un tutto armonico. L'orizzonte en- tro cui Schleiermacher si muove è "idealistico": e tuttavia egli pone l'esigenza, in tacita polemica con Fichte, di una ricongiunzione di filosofia e vita. L'altro grande inter- locutore dei Monologhi è Kant. In polemica con lui ogni elemento imperativo e giuridico viene bandito dall'etica, come ogni soggezione a una legge, fino alla stupefacen- te dichiarazione: «non conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza». Nelle pagine dell'opera si trovano anticipate molte figure che sarebbero state svolte nel se- colo XIX dagli esponenti del cosiddetto «individualismo della differenza»: dalla «peculiarità» di Stirner allo «spirito libero» di Nietzsche fino al concetto di «legge individua- le» formulato da Simmel. Friedrich D.E. Schleiermacher (Breslau 1768-Berlino 1834) fu educato nella Comunità pietista dei Fratelli mora- vi, dove si aprì a più vasti interessi umanistici. Negli ultimi anni del Settecento frequentò a Berlino i circoli romantici, collaborando con la rivista Athenaeum dei fratelli Schle- gel. Pastore luterano, inaugurò la tradizione della teologia liberale. I Discorsi sulla religione (1799) sono la sua opera più importante e radicale di filosofia della religione. I Mo- nologhi (1800) e le Linee fondamentali di una critica delle teorie morali (1803) costituiscono un contributo decisivo per un'etica non imperativa e individualizzata. Nel 1808 divenne predicatore assai apprezzato nella Chiesa della Trinità di Berlino e nel 1810 professore di teologia all'Uni- versità di Berlino. Nel 1821-1822 apparve la sua opera maggiore di teologia sistematica, la Dottrina della fede. Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia della storia all'Uni- versità di Parma, si occupa dei rapporti tra umanesimo e individualismo, con particolare riguardo alla storia del secolo XIX. Dirige «La società degli individui», quadrime- strale di teoria sociale e storia delle idee. Con Edizioni Dia- basis ha pubblicato Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (2004) e curato i volumi: Friedrich Nietzsche filosofo morale, di Georg Simmel (2008), La rivoluzione di Gustav Landauer (2009) e Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione di Jean-Marie Guyau (2009). 9 Schleiermacher_7mm.indd 1 Schleiermacher_7mm.indd 1 3-02-2011 9:32:43 3-02-2011 9:32:43

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I Monologhi (1800) contengono il nucleo del pensiero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni interiori, scandite in cinque parti («riflessione», «sondaggi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»). Insieme ai Discorsi sulla religione offrono un documento significativo dell'individualismo della cultura romantica. L'individualismo viene temperato dal presupposto che le singole manifestazioni dell'animo religioso o morale possano comporsi in un tutto armonico.

Transcript of Monologhi

Page 1: Monologhi

Friedrich D.E. SchleiermacherMONOLOGHIA cura di Ferruccio Andolfi

D I A B A S I S l a g i n e s t r a

D I A B A S I S l a g i n e s t r a

«Così si è affacciata

alla mia mente

quella che ora costituisce

la mia intuizione più alta.

Mi è divenuto chiaro

che ogni uomo

deve rappresentare

l'umanità a modo proprio,

con una mescolanza

particolare

dei suoi elementi».

€ 12,00

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I Monologhi (1800) contengono il nucleo del pensiero

etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni

interiori, scandite in cinque parti («rifl essione», «sondag-

gi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»).

Insieme ai Discorsi sulla religione offrono un documento

signifi cativo dell'individualismo della cultura romantica.

L'individualismo viene temperato dal presupposto che

le singole manifestazioni dell'animo religioso o morale

possano comporsi in un tutto armonico. L'orizzonte en-

tro cui Schleiermacher si muove è "idealistico": e tuttavia

egli pone l'esigenza, in tacita polemica con Fichte, di una

ricongiunzione di fi losofi a e vita. L'altro grande inter-

locutore dei Monologhi è Kant. In polemica con lui ogni

elemento imperativo e giuridico viene bandito dall'etica,

come ogni soggezione a una legge, fi no alla stupefacen-

te dichiarazione: «non conosco più quel che gli uomini

chiamano coscienza». Nelle pagine dell'opera si trovano

anticipate molte fi gure che sarebbero state svolte nel se-

colo XIX dagli esponenti del cosiddetto «individualismo

della differenza»: dalla «peculiarità» di Stirner allo «spirito

libero» di Nietzsche fi no al concetto di «legge individua-

le» formulato da Simmel.

Friedrich D.E. Schleiermacher (Breslau 1768-Berlino

1834) fu educato nella Comunità pietista dei Fratelli mora-

vi, dove si aprì a più vasti interessi umanistici. Negli ultimi

anni del Settecento frequentò a Berlino i circoli romantici,

collaborando con la rivista Athenaeum dei fratelli Schle-

gel. Pastore luterano, inaugurò la tradizione della teologia

liberale. I Discorsi sulla religione (1799) sono la sua opera

più importante e radicale di fi losofi a della religione. I Mo-

nologhi (1800) e le Linee fondamentali di una critica delle

teorie morali (1803) costituiscono un contributo decisivo

per un'etica non imperativa e individualizzata. Nel 1808

divenne predicatore assai apprezzato nella Chiesa della

Trinità di Berlino e nel 1810 professore di teologia all'Uni-

versità di Berlino. Nel 1821-1822 apparve la sua opera

maggiore di teologia sistematica, la Dottrina della fede.

Ferruccio Andolfi , docente di Filosofi a della storia all'Uni-

versità di Parma, si occupa dei rapporti tra umanesimo

e individualismo, con particolare riguardo alla storia del

secolo XIX. Dirige «La società degli individui», quadrime-

strale di teoria sociale e storia delle idee. Con Edizioni Dia-

basis ha pubblicato Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt

(2004) e curato i volumi: Friedrich Nietzsche fi losofo morale,

di Georg Simmel (2008), La rivoluzione di Gustav Landauer

(2009) e Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione

di Jean-Marie Guyau (2009).

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LaGinestra

Collana diretta da Ferruccio Andolfi e Italo Testa

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Il volume è stato pubblicato con il contributodella Fondazione Cariparma

Si ringraziano Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma

per la gentile collaborazione

In copertinaGinestre di Carlo Mattioli

Monologen

Traduzione di Ferruccio Andolfi

ISBN 978 88 8103 751 3

© 2011 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 - 42121 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

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D I A B A S I S

Friedrich D.E. Schleiermacher

MONOLOGHIUN DONO DI CAPODANNO

A cura di Ferruccio Andolfi

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Il manifesto dell’etica romantica, Ferruccio Andolfi

Offerta

I. Riflessione

II. Sondaggi

III. Mondo

IV. Prospettiva

V. Gioventù e vecchiaia

Note

Questo volume

7

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Friedrich D.E. Schleiermacher

MonologhiUn dono di Capodanno

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Religione ed etica

I Monologen (1800) sono presentati dal loro autore come un«dono di Capodanno» offerto ad anime affini nel momento sim-bolico della svolta del secolo. Essi contengono il nucleo del pen-siero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni in-teriori, scandite in cinque parti («ri flessione», «sondaggi», «mon-do», «prospettiva», «gioventù e vec chiaia»), e non in quella siste-matica, che presto Schleiermacher avrebbe adottato, del trattatoo della lezione accademica. Insieme ai Discorsi sulla religione, ap-parsi l’anno precedente, documentano la fase più propriamente‘roman tica’ del percorso del teologo berlinese: se è vero che al-cuni dei suoi scritti posteriori (dalla Kritik der bisherigen Sittenlehre

alla Glaubenslehre) conterranno definizioni più precise dei termi-ni usati e argomentazioni più stringenti, non raggiungeranno tut-tavia la persuasività oratoria di quei due saggi, che appaiono tut-tora al lettore d’oggi carichi di una particolare suggestività.

Più in particolare l’opera costituisce un documento significa-tivo dell’in dividualismo morale della cultura romantica, non di -ver sa mente da come i Discorsi contenevano un riconoscimentodella legittimità degli innumere voli modi individuali di rappor-tarsi religiosa mente all’Assoluto, al di là di ogni codificazioneconfessionale. L’indivi dualismo, in entrambi i casi, viene tem-perato dal presupposto che le sin gole manifestazioni dell’animoreligioso o morale possano comporsi in un tutto armonico. For-se ciò è da riportare alle stesse esperienze che dischiu sero aSchleiermacher l’intuizione del valore della individualità: dap-

Il manifesto dell’etica romanticaFerruccio Andolfi

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prima la vita religiosa nella comunità di Herrnhut, e poi la fre-quentazione dei cir coli romantici dominati da una intensa for-ma di «socievolezza» (Gesellig keit).

Prima di addentrarci in una ricostruzione della linea argo-mentativa di queste meditazioni, occorrerà dire qualcosa a pro-posito del nesso tra le due opere, ovvero del modo in cuiSchleiermacher concepisce il rapporto tra la dimensione reli-giosa e quella morale. Nei Discorsi egli mette in guardia da ogniconfusione: l’animo religioso non si occupa di questioni metafi-siche né è interessato all’agire morale. Nel suo atteggiamento,pre va lent emente passivo, esso percepisce, attraverso gli organidell’«intui zione» e del «sentimento», l’Assoluto al quale appar-tiene (l’espressione «sen timento di dipendenza» apparirà più tar-di, nella Dottri na della fede). Nei Monologhi, che sono dedicati allaspiegazione del feno meno della mo ra lità, tutto appare vice versacome compito che si rivolge al volere. Eppure tra questi due mo-di di tratta zione non esiste contraddizione. Il territorio della mo-rale, pur nella sua indubbia autono mia, resta avvolto da un’aurasacra. Il raggiungi mento della «coscienza dell’u ma nità» e la ri-cerca, in es sa, della specificità del proprio compito avven gonoin un’atmosfera «de vota», che ricorda appunto la prima forma -zione del teologo nella co munità dei Fratelli moravi1.

La dedica

Lo spirito dell’opera è già tut to intero nella pagina dedicatoriache presenta questo sondaggio nella propria interiorità come undono prezioso che può aprire anche all’altro che lo riceve la stra-da della scoperta del proprio sé. La visione, che è insieme un’af-fer mazione, dell’individualità propria non solo non contraddi-ce l’emergenza di altre spiccate individua lità, come un indivi-dualismo più volgare ci ha abituati a pensare, ma la produce percontagio. Chi è in grado di apprezzare il dono ne trae uno sti-

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molo per le proprie forze vitali e una gioia duratura. Il raccogli-mento in se stessi è il presupposto necessario di ogni autenticodono ed è insieme finalizzato a questa apertura altruistica. Dal-le prime battute dell’opera il suo autore annuncia che intendepensare questi due momenti come inseparabili.

Il mondo come comunità degli spiriti

La tonalità dei monologhi avrebbe potuto suggerire di tra-durre il titolo del primo di essi, Die Reflexion, con “meditazione”.Ma sebbene questo significato non sia assente, come prova an-che la modificazione del titolo nella terza edizione dell’opera (Be-

trachtung), ho preferito mantenere il termine «riflessione», che al-lude alla tesi, sviluppata appunto in questo primo monologo, se-condo cui il mondo esterno riflette il nostro essere interiore.

L’evento del Capodanno è un invito a meditare, come mo-mento simbolico che richiama al fatto che ogni attimo nel corsodella vita ha una connessione diretta con l’Eterno e l’Infinito epuò costituire l’occasione per una fuoriuscita dal tempo e dallesue leggi. In tali circostanze il fervore delle opere tace e ci si ap-presta a inutili contemplazioni e fantasticherie, sacrificando l’o-perosità a cui indulgono gli «schiavi del tempo».

La prospettiva mondana di chi considera il mondo la cosaprincipale e riserva allo spirito un piccolo spazio al suo internoviene capovolta a favore dello spirito, «prima e unica realtà», checrea il mondo come pro prio specchio. L’impressione di essereplasmati dal mondo è ingannevole, non c’è nulla di provenientedal mondo che operi effetti su di me, gli stessi sentimenti chesembrano derivare dal mondo fisico risultano dalla mia liberaazione. Tuttavia questo primato dell’io non comporta alcunapretesa di onnipotenza. L’essere finito e individuale non si muo-ve nel vuoto, si confronta pur sempre con un mondo che gli èdato, lo plasma ed esercita un’influenza su di lui. Ma questo da-

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to non è altro che l’eterna comunità degli spiriti, che agisconol’uno sull’altro. La necessità nasce appunto da questo gioco diinterazioni e limitazioni. Un interprete autorevole come Frie-drich Michael Schiele ha osservato che dove Schleiermacher siesprime in modo appropriato, non riconosce come reale alcunaltro mondo che quest’unico «mondo degli spiriti»2. È su questoavanzato terreno di un mondo spirituale risultante dall’azione dimolti che viene cercata una soluzione al classico problema di unaconciliazione tra libertà e necessità.

L’accordo tra questi due momenti può essere cercato in unaduplice direzione: o sottolineando come le circostanze esterioricostituiscono non solo vincoli ma anche opportunità di cresci-ta per un soggetto sempre attivo – sarà questo ad esempio il mo-do in cui Marx interpreta la relazione «dialettica» tra i singoli uo-mini e le circostanze materiali della loro vita, sotto il segno di unatrasformazione «rivoluzionaria» – oppure mostrando come lospirito costituisce esso stesso determinazioni fisse, leggi neces-sarie, senza uscire dal proprio terreno, sulla base di limi ta zioniche nascono dal semplice intreccio delle azioni di molteplici sog-getti (spiriti) interagenti. Probabilmente i due modi di conside-rare le cose, convenzio nalmente definiti ‘materialistico’ e ‘ spiri-tualistico’, non sono total mente incompatibili, se si bada al fattoche entrambi vogliono tematizzare, sia pure con accenti diversi,i limiti che il soggetto incontra sul terreno dell’azione. Le affini-tà sono oscurate da presupposti metafisici opposti. E tuttavia l’i-dea (marxiana) di un’essenza umana, reinterpretata materialisti -ca mente, potrebbe integrare utilmente quella (schleiermache-riana) di una comunità di spiriti che si definiscono e limitano re-ciprocamente, circo scri vendo l’ambito delle possibilità umane.

L’idealismo di Schleiermacher è del resto temperato dall’ideache non esista alcuna cesura tra le forme più elevate del pensie-ro e la vita empirica, tra la vita della mente e l’agire esteriore, cheè inseparabile dalla coscienza («il tuo essere… non può prescin-

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dere, senza distruggersi, dal suo agire né dal sapere di codestoagire»). La sua saggezza è diversa da quella di chi esorta a con-tentarsi di un’unica cosa, la contemplazione di se stessi, conce-pita come alternativa a qualsiasi occupazione mondana.

Questo modello di stare nel mondo trascendendolo ad ogniistante ispira anche la concezione dell’immortalità adombrata altermine del primo monologo, in continuità con i Discorsi. Agliuomini che «si contentano» di cercare l’immortalità dopo il tem-po, anziché accanto ad esso, Schleier macher raccomanda di dareinizio già ora alla loro vita immortale, nell’incessante movimen-to che dalle opere di questo mondo li porta alla contemplazionedi se stessi.

Storia di una conversione

La seconda meditazione è quella che contiene, nella formapartico larmente efficace della confessione del percorso com-piuto da un’anima, i motivi più caratteristici dell’etica schleier -ma cheriana.

L’attingimento di una chiara «coscienza dell’umanità» che ri-siede in noi e ci solleva oltre il livello dell’animalità è rappresen-tato come accesso a un «terreno consacrato». Questo passaggioè descritto come risultato di un’unica libera decisione piuttostoche di tentativi di applicare regole, al modo quindi di una sorta di«conversione» che rende irrevocabile lo stato di illuminazioneraggiunto. Schleiermacher si richiama alla propria esperienzapersonale, rievocando il tempo di questa prima decisiva scoper-ta, dovuta più a contatti con uomini viventi che all’insegnamen-to dei filosofi. Gli anni trascorsi come precet tore, tra il 1790 e il1793, nel castello di Schlobitten presso la famiglia von Dohna loavevano infatti iniziato a una vasta e variegata esperienza del -l’umano, di cui egli serba vivo ricordo. Una predica del capo-danno 1792 e uno scritto «sul valore della vita» di poco poste-

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riore, pubblicato da Dilthey in appendice al suo Leben Schleier ma -

chers, sviluppano questo tema e possono essere considerati unpreludio ai Monologhi3.

Ma in questi ultimi la coscienza dell’intera umanità, già di persé liberatoria in quanto rende inutile una coscienza (Gewissen) an -gu stamente prescrittiva, cede subito il passo a una nuova sco-perta, che è ap profondimento ma anche rovesciamento della pri-ma: quella della indivi dua lità incomparabile di ciascun essere.Ancora autobiograficamente Schleier macher ricorda di essersicontentato per lungo tempo della sola ragione e dell’«uguaglianzadi un’unica essenza», da cui aveva creduto di poter far discende-re un medesimo diritto e una medesima moralità. Una nuova il-luminazione o «rottura» lo conduce alla sua intuizione più alta,per cui «ogni uomo deve rappresentare l’umanità a suo modo,con una me scolanza particolare dei suoi elementi». Se l’umanitàgli era comparsa nella quiete della vita di Schlobitten, il valoredell’individualità gli si manifesta a Berlino, tra gli innovatori ro-mantici che comincia a fre quen tare; o forse meglio questi nuovicontatti lo aiutano a elaborare in principi etici le esperienze cheaveva fatto molti anni prima nella Co munità dei fratelli, dove«aveva imparato a conoscere una ricca vita di pietà indivi dual -mente diversificata»4.

Cultura dell’io e socievolezza

Tuttavia questa «scoperta» che ogni uomo deve rappresenta-re l’umanità a modo proprio e non sottoporsi a un «dovere» uni-versalmente cogente si colloca all’interno della persua sione,umanistica e religiosa, che tutte queste differenti manifestazionirappresen tino l’estrinsecazione dell’in finito potenziale dell’u-manità e siano pertanto compatibili e attinte proprio per con-fronto con le altre possibili combina zioni. Per questo viene at-tribuita tanta importanza, qui come nel Saggio di una teoria del com -

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porta mento socievole (1799)5, alla socievolezza come mezzo indi -spensabile per la propria for ma zione (Bildung). «Io mi penso inmille diverse configurazioni per distinguere meglio quella che miappartiene».

La storia del proprio io, insieme all’opinione degli amici piùintimi, permette a chi attende alla propria formazione di scor-gere il profilo del suo essere caratteristico, che è insieme un com-pito. L’identità così raggiunta costituisce un solido elemento dacui egli non si allontana più. Tra le infinite vocazioni Schleier-macher distingue due tipi principali. C’è chi come lui privilegial’otium concentrandosi sul processo della formazione di sé (Bil-

dung) e chi invece esprime la propria natura creativa in opere ar-tistiche. Al confronto tra questi due generi di esistenza egli era in-dotto dalla frequenta zione dei circoli romantici. Si può anchesuppor re che la distinzione tra i due percorsi e l’affermazioneche «chi vuole raggiungere qualcosa in un ambito deve rinun-ciare all’altro» costituissero una sorta di risposta alle sollecita-zioni che riceveva da Schlegel ad impe gnarsi direttamente inqualche attività artistica produttiva. L’avversione per la produ-zione era la più grande mancanza di Schleiermacher agli occhidell’amico, che scriveva: «Io lo spingo e lo tormento tutti i gior-ni», ma doveva infine ammettere di non trovare in lui «nessunvero interesse a fare qualcosa»6. Nei Discorsi sulla religione questa«lacuna», cioè l’incapacità di percorrere la via che conduce allareligione attraverso «il senso dell’arte», era stata ammessa dallostesso Schleiermacher come un tratto profondo del suo essere,da trattare tuttavia «con rispetto»7.

Da questa opzione fondamentale deriva anche un diversorapporto con la socialità: mentre l’artista opera in solitudine, ilmetodo di chi persegue la propria formazione esige la comu-nione con gli altri spiriti, in vista della contemplazione compa-rativa delle varie figure che l’umanità ha assunto e di una costru-zione di sé attraverso un continuo «scambio del dare e ricevere».

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L’apertura della mente a tutto ciò che non si è, la presenza di ami-ci ed esseri amati, è essenziale alla via intrapresa da Schleierma-cher. La mancanza d’amore, cioè lo squilibrio tra il dare e il rice-vere, sarebbe per lui distruttivo. Significherebbe ritornare, ina-riditi, sotto il giogo della legge e del dovere.

Bisogna guardarsi tuttavia dal disperdersi nella comunicazio-ne. Sarebbe assai poco rispettoso del l’a mico riversare su di luiconfidenze su argomenti insignificanti o anche metterlo a partedi aspetti del proprio sé di cui non si sia già venuti in chiaro perproprio conto. Un effettivo dono suppone una qualche prelimi-nare presa di possesso di sé nel raccoglimento. In un appunto didiario riportato da Dilthey, Schleiermacher così ironizza sullavirtù convenzionale della Offenheit (apertura, schiettezza): «Aper-to è chi dell’essere più triviale fa il dominatore di se stesso, o an-che chi è fatto solo di porte e finestre»8.

Il concetto di amicizia si connette strettamente con quello diun riconoscimento reciproco della propria Eigenheit. La vera ami-cizia esclude ogni sentimento im puro di tipo utilitario o com-passionevole. Anche per questa idea di una as so ciazione di ani-me elette Schleiermacher si pone all’interno di un tradi zione checonduce nella direzione delle amicizie stellari di Nietzsche e del-la «libera socialità» di Simmel. La Geselligkeit ha certo un caratte-re più ludico e superficiale dell’amicizia, che sostituisce al gustoper l’«osser vazione» dei caratteri un più impegnativo «senti-mento», ma intrattiene con essa uno speciale rapporto: le ri-unioni socievoli sono luoghi di formazione di amicizie e, perconverso, queste possono divenire la base di legami socievoli.Ad en tram be il teologo berlinese assegna una valenza etica9.

La meditazione sull’amicizia non è priva tuttavia di una notadolente, che dipende d’altronde dall’altezza stessa dell’ideale acui l’autore tende. Una comunione perfetta può essere appros-simata solo in modo imperfetto, perché ciascuno vive innanzi-tutto nel proprio mondo. Grazie alla sensibi lità e all’amore la

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comprensione reciproca delle personalità potrà compier si, finoa un certo grado, in una progressione infinita, che la morte s’in-ca richerà comunque di interrompere. L’ama rezza è però subitotemperata dall’aspettativa di tornare, uscendo dal mondo, nel se-no dell’Infinito.

Le istituzioni etiche

Il terzo monologo si apre con una critica dell’immagine illu-ministica del mondo coltivata dalla generazione attuale. L’uomomaturo o l’umanità che si crede uscita da uno stato di minoritàtessono l’elogio del mondo, obliando ciò che fino a quel mo-mento era desiderato. Quest’elogio lascia trasparire una viltà del-l’anima, che rinuncia in nome di un miglioramento del mondoche si suppone già avvenuto a speranze più ardite.

L’accresciuto dominio dell’uomo sulla natura è indubbio:Schleier macher dichiara di condividere il sentimento di una co-munione delle generazioni che compiono in successione, comeun unico organismo, le opere intraprese da quelle precedenti.Tuttavia l’innalzamento progressivo del benessere, fosse pure abeneficio di tutti, non lo soddisfa. Neppure per il bene altrui sipuò accettare di dedicare tutte le proprie forze a ciò che non siaccetterebbe come meta suprema per se stessi. Questa meta nonpuò essere altro che una comunione di spiriti affini, ma per co-stituirla non giova nessuno degli strumenti utili a soddisfare i bi-sogni materiali.

Un processo degenerativo insidia la comunità spirituale quan-do è posta al servizio di quella terrena. Ciò si verifica sia nelleamicizie come nell’amore coniugale, dove dominano il calcoloe i rapporti utilitari. Lo Stato stesso, che dovrebbe procurare aisuoi membri il grado più elevato di vita, è concepito come unmale necessario, che si apprezza a misura che la sua azione di-viene meno percepibile10. Nelle istituzioni l’uomo cerca soltan-

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to, mediante i limiti posti dal diritto, la possibilità di esplicare inmodo sicuro le proprie limitate risorse, e non quella di poten-ziare la propria formazione interiore, che in quelle comunità cre-de anzi di incontrare un ostacolo.

Ma altre forme associative sono possibili e forse anche pros-sime a realizzarsi, benché ancora non se ne abbia un’idea preci-sa se non tra i pochi o molti spiriti affini che presentono un mon-do migliore. Schleiermacher ha la fiera coscienza di appartenerea codesta schiera di «congiurati per un mondo migliore» e ne dàl’annuncio. Per questi eletti il reciproco riconoscimento non èsemplice, ma Schleiermacher esprime la fiducia che essi malgra-do tutto possano alla fine palesarsi l’uno all’altro.

L’esile accenno alle forme etiche di questo terzo monologosi sarebbe sviluppato più tardi in una trattazione sistematica eoggettiva, che tuttavia non tradisce le intuizioni principali delloscritto giovanile. Le istituzioni sociali continuano ad essere pen-sate sul modello della più naturale di esse, la famiglia, che con-tiene germinalmente gli elementi di tutte le altre. Esistono per ilsingolo individuo etico e non come fini a sé a cui l’individuo deb-ba subordinarsi. È significativo che al di là dello Stato, della Chie-sa e della comunità del sapere l’ultima sfera dell’eticità sia iden-tificata con la libera socialità (Geselligkeit), che abbraccia relazio-ni puramente individuali. Se nello Stato i sudditi sono uguali, nel-la socialità quanti ne partecipano conservano la propria specifi-cità. Questo ingrediente del sommo bene resta inaccessibile aun’etica universalistica che bada piuttosto alla somiglianza dellesingole persone morali11. D’altra parte la valorizzazione dell’in-dividualità consente di conferire un nuovo spirito anche alle for-me etiche che attualmente la reprimono.

A questa più articolata concezione delle forme etiche corri-sponde un’articolazione della riflessione sui doveri dell’indivi-duo, che cerca di contemperare l’obbligo fondamentale che que-sti ha di realizzare la propria specifica vocazione con quello di

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seguire la propria via all’interno di un contesto comunitario12. Ilcompito morale, che in prima istanza era stato immaginato comegravante sulle spalle di un singolo uomo, va pensato nella sua in-terezza, come un’impresa collettiva del genere umano e l’indivi-duo va concepito come parte di una comunità. La formula deldovere viene di conseguenza così variata: «ogni singolo indivi-duo faccia ogni volta, con la sua forza morale interiore, il massi-mo possibile per assolvere in comunione con tutti l’intero com-pito morale». L’equilibrio tra i due momenti, personale e socialedella vita morale, viene garantito a condizione che per un verso,nel riconoscere la propria identità con gli altri, il singolo non ven-ga mai meno all’esigenza complementare di rispettare la propriaparticolare indole, e che per altro verso in questa fedeltà egli cer-chi continuamente l’accordo con gli altri, evitando il rischio diuna vita completamente «sfrenata». La relazione non è però deltutto simmetrica, poiché «la comunità esiste soltanto in virtù delcostante agire in essa degli individui» – come loro «azione», diceSchleiermacher anticipando un motivo che sarà tipico della so-ciologia simmeliana. È in definitiva l’individuo a riconoscere conun libero atto di volontà lo stato comunitario, ponendosi così asua volta al di sopra di esso.

Uno sguardo in avanti: il destino e la decisione

In che cosa si fondano le speranze che Schleiermacher haespresso con tanta forza nei monologhi fin qui considerati? Nonsull’attesa dell’intervento di una superiore provvidenza, alla qua-le si appellano gli uomini convenzionalmente religiosi. La Aus-

sicht della quarta meditazione lo esclude, come esclude che qual-sivoglia «destino» possa prendersi gioco delle decisioni dell’uo-mo. A condizione naturalmente che si tratti realmente di deci-sioni, e non di un inconsistente avvicendarsi di sensazioni e de-sideri. Seguendo il filo della propria formazione, a partire da quel

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primo atto originario della volontà che lo costituisce, l’uomo re-sta padrone di sé, si sottrae a ogni potenza estranea. Se questacostituzione dell’io era fatta risalire, nei Discorsi, all’intuizione e alsentimento dell’universo, ora nei Monologhi si scopre che essa co-incide con un atto libero della volontà, che mi induce a «diven-tare sempre più quel che sono». Finché resto aderente a questoessere determinato nessuna circostanza esterna può davvero do-minarmi, e viene piuttosto rimodellata sul calco di questo esse-re. L’impressione di subire il peso oppressivo del destino nascesolo dalla messa in comune della libertà. Ma tutto ciò che pro-viene dall’agire comune degli uomini deve pur sempre passareattraverso la mia libertà, o la mia peculiarità. L’azione che a ognimomento sono capace di intraprendere mi dà la certezza di di-sporre di me stesso. Gli altri avrebbero potuto reagire in modoattivo alla violenza esterna: se non l’hanno fatto è perché nonl’hanno veramente voluto.

Per mostrare come ciò sia possibile Schleiermacher si appel-la alla sua esperienza personale di liberazione dalle angustie del-la vita comunitaria e più in generale dalla falsa concezione mo-rale fino ad allora professata. Egli si dichiara convinto di aver fi-nalmente raggiunto una propria salda peculiarità da cui non sistaccherà più e alla quale non sarà difficile connettere tutte le fu-ture acquisizioni di una cultura multiforme.

In questo quadro di certezze esistono tuttavia elementi inde-finiti, aspettative concernenti aspetti cruciali dell’esistenza, qua-li la scelta dell’a mata o la paternità, rispetto ai quali il proprio vo-lere potrebbe trovarsi limitato dalla «libertà altrui« o dal «corsodel mondo». Schleier macher confida che la forza della volontàpossa superare molti ostacoli, ma il suo argomento decisivo èche, se anche lo sforzo fosse vano e tutto ciò che è desideratofosse negato, nulla riuscirebbe comunque ad opporsi davveroalla crescita della sua vita interiore». Se non altro la forza divinadella fantasia mette al riparo da ogni smentita della realtà.

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Questo nucleo profondo e immutabile di se stesso è anche ciòper cui Schleiermacher vuole essere apprezzato dagli altri e percui reclama la loro considerazione. La comunione spirituale che siinstaura grazie al ricono scimento reciproco del valore fonda-mentale che ciascuno incarna è capace di vincere la distanza e an-che la morte. «Non ho mai perduto nessuno che mi sia stato caro».

Di fronte alla morte degli amici la sicurezza di Schleiermachersembra tuttavia per un momento incrinarsi. È vero che per uncerto verso gli amici non muoiono perché continuano ad eserci-tare una permanente influenza su chi li ha avuti cari, il quale ac-coglie in sé la loro vita. Ma è altrettanto vero che è ormai impos-sibile esercitare un’azione su di loro. In questo senso ogni amicoche scompare è come se privasse chi gli sopravvive di una partedella propria vita e quasi lo ‘uccidesse’. È questa una rappresen-tazione sottile e profonda del morire, inteso come un impoveri-mento delle relazioni e delle capacità di influenza sugli altri.Schleiermacher ha trascritto questo passaggio del testo, come ri-corda in una lettera alla sorella Charlotte, da un «piccolo libret-to», in cui aveva preso nota di quest’idea, da lui stesso definitaoscura ma penetrante13.

Subito dopo Schleiermacher introduce però anche una di-versa idea della morte: quella di una meta necessaria per ogni es-sere che abbia portato a compimento la propria individualità e acui non resti più aperto quindi nessun progresso possibile. Mal-grado l’alta considerazione che egli ha di se stesso e degli spiritia lui affini, si rende conto che una condizione di assoluta perfe-zione appartiene propriamente solo a dio. Questo lo porta vici-no a un pensiero inespresso, che più tardi Feuerbach avrebbesvolto in una direzione a dire il vero assai poco religiosa: un es-sere totalmente perfetto, che non abbia bisogno di nulla, non habisogno neppure di esistere, l’esistenza è una caratteristica esclu-siva dell’essere bisognoso.

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MonologhiUn dono di Capodanno

Friedr ich D.E. Schle ier macher

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Un uomo non può offrire al suo simile dono più prezioso deldialogo che ha condotto con se stesso nell’interiorità del proprioanimo, con esso gli procura infatti quanto c’è di più grande, lavisione aperta e imperturbata di un essere libero. Nessun donoè più duraturo, poiché nulla può distruggere in te il godimentoche una volta quella visione ti ha procurato; e la sua intrinsecaverità le assi cura il tuo amore, di modo che torni volentieri a con-templarla. Nes sun dono riesci a proteggere con maggior sicu-rezza dalle brame e dalla malizia altrui, poiché esso non è cir-condato da alcun elemento accessorio che possa prestarsi ad usio abusi, o suscitare desideri sensibili. Se qualcuno, in disparte,guarda di traverso questo tesoro e gli attribuisce tratti ridicoli,che i tuoi occhi francamente non vedono, fa sì che questo vanomotteggio non ti sottragga la gioia, co me non mi induce a rim-piangere di aver condiviso con te ciò che possedevo.

Accetta il dono, tu che sei in grado di intendere il pensiero delmio spirito! Il tuo canto accompagni il gioco sonoro dei mieisen timenti, e la scossa che ti trasmette il contatto con il mio ani-mo sia uno stimolo rinfrescante anche per la tua forza vitale.

Offerta

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Gli uomini temono di guardare entro se stessi, e molti trema-no servilmente quando alla fine non possono eludere la doman-da: che cosa ho fatto? che cosa sono diventato? chi sono davve-ro? Si tratta per essi di una faccenda angosciosa e di esito incer-to. Credono che un uomo possa conoscere più facilmente gli al-tri che se stesso, e pensano di agire con lodevole modestia se, do-po la più severa indagine, si riservano la possibilità di un erroredi valutazione. Eppure è solo la volontà che nasconde l’uomo ase stesso; il giudizio non può errare se egli rivolge lo sguardo real-mente a se stesso. Ma questo è appunto ciò che molti non pos-sono né vogliono fare. La vita e il mondo li tengono totalmentesoggiogati e, con lo sguardo deliberatamente orientato a nonpercepire altro, in quelle realtà non riescono a vedere se non ilvago e ingannevole riflesso di se stessi. L’altro posso conoscer-lo solo dalle sue azioni, perché il suo agire interiore non lo vedomai. Che cosa propriamente voglia non posso mai saperlo im-mediatamente; posso solo confrontare tra loro le sue azioni, ededurre, senza alcuna certezza, a quale fine sono dirette e da qua-le spirito sono mosse. Ma non è forse una vergogna che qualcu-no guardi se stesso come un estraneo guarda un estraneo? chenon sappia nulla del proprio agire interiore, e si reputi acuto so-lo per il fatto di saper cogliere la decisione finale che mette capoall’atto esterno, insieme al sentimento che l’accompagna e all’i-dea che l’ha immediatamente preceduta e orientata? Come potràpretendere di conoscere gli altri e se stesso? Che cosa può gui-dare le sue oscillanti congetture, che dall’esterno inferiscono l’in-

Sondaggi

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terno, se in nessun caso cruciale può basarsi su qualcosa di im-mediatamente certo? Il presentimento sicuro dell’errore generaansia; l’oscuro sospetto di essere colpevole gli stringe il cuore, ei suoi pensieri vagano inquieti, per timore di quella piccola par-te di autocoscienza che gli uomini recano con sé, degradata alruolo di un severo educatore1, e che spesso devono ascoltare dimalavoglia.

Gli uomini hanno certo buone ragioni di preoccuparsi, se esa-minano onestamente l’attività interiore che sta a fondamentodella loro vita: in essa spesso non riuscirebbero a riconosceretraccia d’umanità, e vedrebbero la coscienza morale2, cioè la con-sapevolezza che l’umanità ha di se stessa, gravemente oltraggia-ta. Infatti chi non ha riflettuto sul suo agire precedente, non puòneppure dare garanzie che in quello a venire si rammenterà di farparte dell’umanità e si mostrerà degno di essa. Se ha spezzato giàuna volta il filo dell’autocoscienza, se si è abbandonato ancheper una sola volta a rappresentazioni e sentimenti che condividecon gli animali, come potrà esser certo di non essere precipitatonella più grossolana bestialità? Contemplare l’umanità in se stes-si, e, una volta che la si è ritrovata, non distogliere mai lo sguar-do da essa, è l’unico mezzo sicuro per non sviarsi dal suo sacrosuolo. Questo è il legame3 interno e necessario tra l’agire e il con-templare, che rimane inesplicitato e misterioso solo per gli uo-mini sciocchi e ottusi4. Un operare veramente umano producela chiara coscienza dell’umanità che risiede in me, e questa co-scienza non tollera alcun altro agire se non quello che è degnodell’umanità. Chi non riesce ad elevarsi a questa nitida visionedelle cose è spinto vanamente qua e là da oscuri presentimenti.Invano egli viene educato e condizionato mediante abitudini, in-vano escogita mille artifici e prende decisioni per reintrodursi dinuovo a forza nei confini dell’umanità. Le sacre barriere non siaprono, egli rimane su un terreno non consacrato e non puòsfuggire alle persecuzioni della divinità irata né al sentimento

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vergognoso di essere esiliato dalla propria patria. È sempre unvano gioco e un’intrapresa inutile dare regole e fare tentativi nelregno della libertà. Per essere un vero uomo si richiede un’unicadecisione libera: chi l’ha presa una volta rimarrà tale per sempre;chi smette di esserlo, non lo è stato mai5.

Ripenso ancora con gioia e fierezza al tempo in cui trovai l’u-manità e mi resi conto che non l’avrei mai più perduta. Da den-tro6 giunse a me quest’alta rivelazione, e non fu prodotta da al-cuna dottrina della virtù né dai sistemi dei sapienti. La lunga ri-cerca, che né l’una né gli altri erano in grado di soddisfare, fu co-ronata da un attimo luminoso; nell’azione la libertà dissolse glioscuri dubbi. Posso ben dire che da allora non ho mai più ab-bandonato me stesso. Non conosco più quel che gli uomini chia-mano coscienza, nessun sentimento mi tormenta né ho bisognodi ammonimenti7. Da allora io non perseguo neppure questa oquella virtù, né gioisco di questa o quella azione, come fanno co-loro nella cui fuggevole vita appare, solo isolatamente e a tratti,qualche dubbia testimonianza della ragione. In silenziosa pace ein inalterabile semplicità reco in me ininterrottamente la co-scienza dell’intera umanità. Spesso mi soffermo a considerare,volentieri e con animo leggero, il mio agire in tutti i suoi aspetti,e sono sicuro che in esso non troverò mai nulla che l’umanitàdebba rinnegare. Se questa fosse l’unica cosa che richiedo a mestesso, da quanto tempo avrei potuto trovar pace e, nella com-piutezza raggiunta, attendere la fine! Infatti la mia certezza è ir-removibile, e mi sembrerebbe una colpevole viltà, estranea almio spirito, se volessi attendermi solo da una vita più lunga uncompimento più pieno, e se volessi dubitare che possa accadereancora qualcosa che sia in grado di farmi cadere dalle altezze del-la ragione nella pura animalità. Ma dubbi, a dire il vero, ne ho an-cora: non appena ho raggiunto una meta, ne sorge dinanzi a meun’altra più elevata, e poiché mi appare ora più ed ora meno at-traente, la riflessione su me stesso non sempre sa indicarmi per

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quale via posso avvicinarmi ad essa, e a che punto mi trovo, dimodo che il giudizio vacilla. Tuttavia esso diventa più sicuro e siconferma sempre più quanto più spesso ritorno alla originariaricerca di me stesso. Ma se anche fossi ancora lontano dalla cer-tezza, io vorrei comunque continuare a cercarla, in silenzio e sen-za lamentarmi: poiché più forte del dubbio è la gioia di aver tro-vato quel che devo cercare, e di esser sfuggito alla follia comune,che inganna molti dei migliori per tutto il corso della loro vita, eimpedisce loro di innalzarsi ai veri vertici dell’umanità. Per lun-go tempo bastò anche a me aver trovato la sola ragione, e ado-rando come unico e supremo valore l’uguaglianza di un’unica es-senza8, credetti che ci fosse un solo diritto per tutti i casi, che pertutti l’agire dovesse essere il medesimo, e che uno si distingues-se dall’altro solo perché a ognuno è assegnata una certa condi-zione e un posto suo proprio. Fui convinto che l’umanità si ri-velasse diversa solo nella molteplicità delle azioni esterne, e chel’uomo, il singolo uomo, non fosse un essere conformato in unmodo particolare, bensì solo un elemento, e ovunque il medesi-mo elemento, della totalità.

Così procede l’uomo! Quando arriva a disprezzare l’indegnaparticolarità della vita animale sensibile e acquista la coscienzadell’umanità in generale, sottoponendosi al dovere, non subitoè capace di elevarsi anche alla superiore individualità della pro-pria formazione e moralità, né di intuire e comprendere la na-tura9 specifica che la libertà sceglie per se stessa. La maggioran-za degli uomini si mantiene, ondeggiante, a un livello medio in-definito, e rappresenta l’umanità in una forma invero assai gros-solana, per la semplice ragione che non arriva a concepire l’ideadella propria esistenza superiore. Io, invece, sono stato total-mente preso da quest’idea. Il sentimento della libertà, da solo,non mi acquietava; inutile mi parve la personalità e l’unità dellacoscienza che scorre in me senza alcun punto fermo, e mi sentiispinto a cercare qualcosa di valore morale più elevato, a cui essa

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accenna. Non mi bastava più vedere l’umanità in rozze masseinformi, che interiormente sono del tutto identiche, e solo este-riormente, per attrito o contatto10, danno luogo a fenomenitransitori e fugaci.

Così si è affacciata alla mia mente quella che ora costituisce lamia intuizione più alta. Mi è divenuto chiaro che ogni uomo de-ve rappresentare l’umanità a modo proprio, con una mescolan-za11 particolare dei suoi elementi, affinché essa possa manife-starsi in ogni modo possibile, e si realizzi tutto ciò che può sca-turire12 dal suo seno, nella pienezza dell’infinità. Questo sempli-ce pensiero mi ha elevato e separato da tutto ciò che di comunee di informe mi circonda, facendo di me un’opera della divinitàche può rallegrarsi di avere una figura e una conformazione deltutto speciale; e la libera azione13 che lo accompagnava ha rac-colto intorno a sé e ha legato intimamente gli elementi della na-tura umana in una esistenza particolare. Se da quel momentoavessi riflettuto incessantemente su quel che c’è di proprio nelmio agire come ne ho sempre riguardato il lato umano in gene-rale; se fossi divenuto cosciente di ogni mio operare e delle limi-tazioni implicate da ogni atto libero, e avessi ben considerato,con fermezza, l’ulteriore sviluppo e ogni espressione della mianatura: non potrei nutrire alcun dubbio su quale ambito di uma-nità mi appartenga, né su dove debba cercare il principio comu-ne dell’estensione del mio spirito come dei suoi limiti. Dovreiessere in grado di misurare esattamente il contenuto del mio es-sere, conoscere punto per punto i miei limiti, e sapere profetica-mente che cosa posso ancora essere e diventare. Se non che l’uo-mo giunge solo tardi e con difficoltà a una piena consapevolez-za della propria natura peculiare; non sempre osa concentrarsisu di essa, e preferisce piuttosto rivolgere lo sguardo al patrimo-nio comune dell’umanità, attaccandosi ad esso con amore e ri-conoscenza. Spesso, scambiando la dimensione sensibile conquella spirituale, egli si chiede dubbioso se debba separarsi da

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quel patrimonio come un essere a se stante, nel timore di rica-dere nella vecchia colpevole limitatezza, ovvero nell’angusto am-bito della personalità esterna; e solo tardi impara ad apprezzaree a far uso del suo altissimo privilegio. Così, tra questi dubbi, lacoscienza è destinata a rimanere a lungo vacillante; le aspirazio-ni più proprie della natura spesso restano inosservate, e quandoi suoi limiti si manifestano, lo sguardo passa oltre con eccessivafacilità, e si fissa solo sull’universale, dove l’individuale si rivelasolo per negazione. Potrei già contentarmi del fatto che la vo-lontà ha domato l’indolenza e che l’esercizio ha affinato lo sguar-do al punto che ormai ben poco gli sfugge. Dovunque mi capi-ta di agire secondo il mio spirito e intendimento, la fantasia mipresenta mille altri modi di agire, secondo un diverso spirito eintendimento, a chiara prova della mia libera scelta, ovvero di co-me si possa agire diversamente senza ledere le leggi dell’umani-tà; io mi penso in mille diverse configurazioni per distingueremeglio quella che mi appartiene.

Tuttavia, siccome quest’immagine non mi si profila ancoracompiuta in tutti i suoi tratti, e la connessione ininterrotta di unachiara coscienza non me ne garantisce ancora la verità, la con-templazione di me stesso non può avvenire ancora in una dispo-sizione di animo sempre uguale e serena. Spesso essa deve pas-sare in rassegna espressamente tutti gli atti e le aspirazioni, la sto-ria intera del mio io; e non può trascurare l’opinione degli amiciche ho lasciato volentieri accedere alla mia vita interiore, quandola loro voce si discosta dal mio proprio giudizio. In verità mi sem-bra di essere lo stesso uomo di quando cominciò la mia vita mi-gliore, ma di esserlo in modo più saldo e determinato. D’altron-de come potrebbe mai un uomo, dopo aver raggiunto un’esi-stenza propria e indipendente, nel bel mezzo del suo divenire edella sua formazione, assumere all’improvviso una natura di-versa, ed esprimere un altro aspetto dell’umanità, senza aver por-tato il precedente alla sua massima perfezione? come potrebbe

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anche solo volerlo? o come potrebbe accadergli senza che eglilo sappia? O non ho mai compreso me stesso, o sono ancoraquel medesimo io che credevo di essere, e ogni apparente con-traddizione, quando sia stata risolta dalla riflessione, mi mostre-rà con sicurezza dove e come si nascondono e si intrecciano glielementi estremi del mio essere.

La duplice vocazione dell’uomo sulla terra indica, mi sembra,una grande linea di separazione tra le diverse nature. Son due co-se assolutamente diverse14 plasmare, da un lato, la propria uma-nità in una figura nettamente delineata, e rappresentarla nei pro-pri molteplici atti, e, d’altro lato, proiettarla all’esterno produ-cendo opere artistiche, in modo che tutti possano vedere ciò chesi intende mostrare. Solo chi si trova ancora al livello più basso,nel vestibolo dell’individualità, e, per timore di limitarsi, rifiuta didare una netta definizione di se stesso, può voler conciliare ledue vocazioni, con il risultato di raggiungere ben poco in en-trambe. Chi vuole raggiungere qualcosa in un ambito deve ri-nunciare all’altro; solo alla fine15 del cammino c’è un passaggiodall’uno all’altro, accessibile solo a quei vertici di perfezione chel’uomo raramente raggiunge. Come potrei avere dubbi su qualedei due è caduta la mia scelta? Ho sempre evitato16 di perseguirele opere dell’artista mentre ho afferrato con fervore tutto ciò chegiova alla mia formazione e ne accelera e rinsalda l’andamento.L’artista va a caccia di tutto ciò che può diventare segno e sim-bolo dell’umanità; scava il tesoro della lingua, trae un mondo dalcaos dei suoni, cerca un senso segreto e un’armonia nel bel gio-co di colori della natura. In ogni opera che gli si presenta sondagli effetti prodotti dalle singole parti, la legge e la composizionedel tutto, e trae maggior godimento dal recipiente artistico chedal suo prezioso contenuto. Poi si formano in lui nuovi pensieriper nuove opere, si alimentano segretamente nel suo animo, ecrescono coltivate in lui in silenzioso nascondimento. Il suo ze-lo non ha mai sosta, progetti ed esecuzioni si susseguono, l’eser-

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cizio migliora sempre più, instancabilmente, le capacità, e il giu-dizio, man mano che matura, tiene a freno e disciplina la fantasia.Così la natura creativa si dirige verso la meta della perfezione.

Ma tutto questo l’ho intuito solo grazie al sentimento, perchéè estraneo al mio pensiero. Da ogni opera d’arte si irraggia perme l’umanità che vi si riflette, assai più luminosamente che l’ar-te dell’artista. Questo io lo colgo solo a fatica in una considera-zione successiva, fino a riconoscere solo un poco la sua essenza.Io lascio libera la libera natura, e quand’essa mi offre i suoi bei se-gni pieni di significato, risveglia in me sensazioni e pensieri, sen-za che per questo mi senta forzato a dar loro forma, in manieradiversa e più definita, in un’opera mia propria. Non aspiro a por-tare alla perfezione17 il materiale su cui imprimo la mia impron-ta. Perciò rifuggo dall’esercizio, e se a volte accade di rappre-sentare nell’azione ciò che risiede nel mio intimo, non m’im-porta che l’atto si rinnovi spesso in forme sempre più belle ecomprensibili. Il libero otium è la mia divinità prediletta. È in es-so che l’uomo impara a comprendere e definire se stesso; in es-so il pensiero trova la base della propria forza, e domina poi fa-cilmente su tutto, quando il mondo lo sollecita anche ad agire.Per questo io non posso neppure costruire in solitudine comel’artista; in solitudine si inaridiscono i succhi del mio animo es’arresta il corso dei miei pensieri. Io devo proiettarmi al di fuo-ri di me in qualche sorta di comunione con altri spiriti per vede-re quali generi di umanità esistono, quale mi resta estraneo e qua-le può diventare mio proprio, e per definire sempre più ferma-mente il mio essere attraverso lo scambio del dare e ricevere. Lasete sempre inappagata di seguitare a plasmare incessantemen-te il mio essere non consente di dare anche un compimentoesterno al mio agire, alla comunicazione della vita interiore. Milimito a collocare l’azione e il discorso nel mondo, e non mi dòcura se anche gli spettatori non sono in grado di penetrare con laloro mente attraverso la ruvida scorza e di scoprire felicemente,

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anche nelle realizzazioni più imperfette, il pensiero che le ani-ma, il mio proprio spirito. Non mi resta né il tempo né la vogliadi far domande: devo perfezionare ancora, se possibile, nella miabreve vita, il mio proprio essere, a partire dal punto in cui mi tro-vo, mediante nuovi pensieri ed azioni. Animo ben poco artisti-co, odio già il fatto di ripetere due volte la stessa cosa. Per questopreferisco fare tutto in compagnia di altri: quando medito, op-pure contemplo, o assimilo qualcosa di estraneo, ho bisogno del-la presenza di qualche essere amato, di modo che all’agire inte-riore faccia subito seguito la comunicazione, e possa accordar-mi senza difficoltà con il mondo grazie al dolce e gradevole do-no dell’amicizia. Così è stato finora, e così è tuttora, e io sonoancora così lontano dalla mia meta che dubito di poterla mai rag-giungere. Qualunque cosa dicano i miei amici, ho certamente ra-gione di escludermi dal sacro territorio degli artisti. Rinunciovolentieri a tutto ciò che essi mi concedono a condizione di tro-varmi meno imperfetto di quanto essi credono nel campo in cuimi sono collocato.

Apriti a me ancora una volta, o visione del vasto dominio del-l’umanità abitato da coloro che aspirano solo a formare se stes-si, e a rappresentare se stessi in un agire vario senza produrreopere durature! Apriti ancora una volta e fammi vedere se mispetta o meno in quel dominio un posto mio proprio; se in mec’è concordia o se qualche interna contraddizione impedisce chela mia immagine costituisca una unità conclusa, facendo sì che ilmio essere, invece di raggiungere la perfezione si dissolva, comeun progetto mal riuscito, in un vuoto nulla. Ma no, non devo te-mere, nessun triste sentimento18 si agita all’interno della mia co-scienza! Riconosco come tutto ciò s’intreccia in me a formareuna vera totalità; non sento alcun elemento estraneo che mi op-prima, non mi manca nessun organo, nessuna delle nobili mem-bra necessarie alla mia propria vita. Chi vuole costruirsi in un es-sere determinato, deve avere la mente19 aperta a tutto ciò che lui

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stesso non è. Anche qui20, nell’ambito della più elevata moralità,regna la medesima precisa relazione tra azione e contemplazio-ne. Solo se nell’atto presente l’uomo è cosciente della propria in-dividualità, può esser sicuro di non lederla nel suo prossimo at-to; e solo se esige fermamente da se stesso di contemplare l’u-manità intera, o di contrapporre la propria realizzazione di essaa ogni altra, può conservare la coscienza della propria peculiarenatura: ogni singolarità infatti viene conosciuta solo per con-trapposizione. La condizione suprema del proprio perfeziona-mento in una cerchia determinata è una sensibilità universale21.Ma questa come potrebbe sussistere senza amore? La terribilesproporzione tra dare e ricevere riuscirebbe distruttiva per l’ani-mo al primo tentativo di formarsi senza amore, sviandolo dalsuo cammino, e porterebbe a completa rovina o farebbe caderenell’abiezione22 chi volesse diventare a quel modo un essere in-dividualizzato. Sì, amore, tu sei la forza d’attrazione del mondo!Nessuna vita propria e nessuna formazione è possibile senza dite, senza di te tutto è destinato a dissolversi in una rozza massainforme! Coloro che non desiderano essere altro che questo nonhanno bisogno di te: ad essi basta la legge e il dovere23, un agireuniforme e la giustizia. Il sacro sentimento sarebbe per essi un te-soro inutilizzabile: per questo lasciano inselvatichire, senza col-tivarlo, quel po’ di amore che è stato loro concesso; discono-scendo ciò che è sacro, lo gettano con incuria nel patrimonio co-mune dell’umanità, che deve essere amministrato secondo un’u-nica legge. Per noi invece sei il principio e la fine di ogni cosa:senza amore non c’è formazione individuale, e senza una pro-pria formazione non c’è perfezione nell’amore; l’una completal’altro, ed entrambi crescono insieme inseparabilmente. In mesento unite queste due supreme condizioni della moralità! Sen-sibilità e amore sono diventati una cosa sola in me, ed entrambisi elevano sempre più in alto, a chiara testimonianza che la vita èfresca e sana e che la mia formazione diventa sempre più salda.

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C’è forse qualcosa a cui la mia sensibilità potrebbe restare chiu-sa? Coloro che non avrebbero difficoltà ad innalzare il primo checapita a virtuoso ed esperto nel campo della scienza, non fannoche lamentarsi perché non mi impongo alcuna limitazione, equando sembra che voglia dedicarmi a qualcosa con serietà, de-ludo ogni speranza. Infatti, dicono, quando ho raggiunto un cer-to punto di vista, il mio spirito volubile si affretta subito, al mo-do usato, verso altri oggetti. Oh, potessero lasciarmi in pace unabuona volta e comprendere qual è la mia destinazione, che nonposso coltivare la scienza24 visto che mi propongo di coltivare25

me stesso! Mi concedano di tener aperta la mente a tutto ciò cheessi si affaccendano a fare, e considerino almeno degno dei lorosforzi quel che costituisco in me grazie alla contemplazione delloro agire. Coi loro lamenti essi danno una testimonianza a miofavore; altri, al contrario, che pur di diversa natura aspirano co-me me a penetrare nel cuore dell’umanità, lamentano che in fon-do la mia mente sarebbe limitata26, nel senso che potrei passareindifferente27 di fronte a molte cose sacre, e corrompere, per va-na smania di polemica, la imparzialità e profondità del mio sguar-do. Sì, in effetti io passo di fronte a molte cose, ma non resto in-differente; discuto, sì, ma solo per mantenere imparziale losguardo. Così e non diversamente devo agire, a modo mio, sfor-zandomi sia di riempire che di ampliare la mia mente. Quandos’impadronisce di me il sentimento di qualche manifestazionedell’umano che mi è ancora ignota, la prima cosa che metto inquestione non è se esista, bensì se sia, e sia solo, quale appare incolui nel quale l’ho vista per la prima volta. Il mio spirito, che siè risvegliato tardi, nel ricordare quanto a lungo ha sopportato ungiogo estraneo, teme sempre di ricadere sotto il dominio di opi-nioni altrui; e ogni volta che un nuovo oggetto gli rivela la pre-senza di nuova vita, esso si appresta, con le armi alla mano, a con-quistare anzitutto la propria libertà per non dover ricominciarenulla, come prima, sotto la schiavitù dell’educazione. Non ap-

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pena ho raggiunto la mia propria visione delle cose, il tempo del-le dispute è già bello e passato; io lascio sussistere volentieri ognialtra visione accanto alla mia, e la mia mente porta pacificamen-te a compimento il compito di interpretarla e di penetrare nellasua specificità.

Così quel che spesso potrebbe sembrare un limite della miasensibilità è solo il suo primo movimento. Essa ha dovuto espri-mersi spesso in questo modo, in quel bel periodo della vita in cuitante cose nuove mi hanno colpito, ed altre, che fino allora ave-vo solo presentito oscuramente, e per le quali avevo lasciato inme uno spazio vuoto, mi sono apparse in piena luce! Spesso hadovuto confrontarsi in modo ostile con quegli stessi uomini cheerano all’origine della mia nuova visione. Io ho assistito a ciò se-renamente, confidando nel fatto che avrebbero capito quandoinfine la loro mente sarebbe penetrata nella profondità del mioessere. Spesso neppure gli amici mi hanno compreso, quand’iopassavo pacificamente, senza far polemiche ma anche senzaprender partito, dinanzi a ciò che essi abbracciano immediata-mente con fervore ed entusiasmo. L’intelligenza non può ap-prendere tutto in una sola volta, ed è vano per essa voler adem-piere il suo compito in un solo atto; questo compito si prolungaall’infinito in due direzioni28, e ognuno deve avere un modo pro-prio di unirle e di realizzare così il tutto. Quando qualcosa dinuovo colpisce il mio spirito, mi è precluso penetrare subito,d’impulso, nel cuore della cosa e conoscerla alla perfezione. Untale procedimento non sarebbe in linea con quella equanimitàche è la nota fondamentale dell’armonia del mio essere. Se io iso-lassi qualcosa a questo modo sarei trascinato fuori del centrodella mia vita, e quando penetrassi una cosa resterei estraneo adogni altra, senza arrivare a possedere davvero la prima. Da prin-cipio devo depositare ogni nuova acquisizione nell’intimo delmio animo, e poi proseguire il consueto gioco della vita coi suoisvariati atti, acciocché il nuovo si mescoli con il vecchio e venga

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in contatto con tutto ciò che già era in me. Solo operando a que-sto modo riesco a prepararmi la via per una visione più profon-da e più intima. La contemplazione e la pratica29 devono alter-narsi più volte, prima che io possa rallegrarmi di aver penetratoe approfondito interamente qualcosa. Così e non altrimenti pos-so mettermi all’opera, se non voglio offendere il mio intimo es-sere, poiché in me l’autoformazione e l’attività della mente de-vono mantenersi in equilibrio in ogni momento. Perciò avanzolentamente, e dovrò vivere a lungo prima che riesca ad abbrac-ciare tutto in egual misura; tuttavia, qualsiasi cosa abbracci, re-cherà la mia impronta30, e, qualsivoglia parte dell’infinito terri-torio dell’umanità i miei sensi abbiano afferrato, essa si confor-merà anche in egual misura come qualcosa di mio proprio e tra-passerà nel mio essere.

Oh quanto più ricco è divenuto il mio essere! Quale bella co-scienza del valore interiore, quale sentimento elevato della vita edell’esistenza propria coronano la riflessione su me stesso, quan-do mi soffermo sul godimento di tanti giorni felici! Non fu vanal’attività silenziosa, che vista da fuori pareva una vita di ozio ino-peroso31: ha promosso egregiamente l’opera interna della miaformazione. Questa non sarebbe progredita tanto con una con-dotta e un’occupazione sbagliata, inadeguata alla mia propria na-tura, e ancor meno con una sensibilità limitata32. È un vero pec-cato che l’intima essenza dell’uomo sia così misconosciuta an-che da coloro che ben potrebbero e meriterebbero di ricono-scerla per ogni dove. È un peccato che anche tra costoro siano intanti a confondere l’agire interno con il fare esteriore, credendodi riconoscere tanto l’uno che l’altro, in ogni singolo caso parti-colare, a partire da frammenti isolati, e immaginando contrad-dizioni là dove viceversa tutto concorda. Il carattere proprio delmio essere è forse così difficile da scoprire? Questa difficoltà im-pedisce forse per sempre che il desiderio più amato del mio cuo-re si palesi sempre più a tutte le persone degne? Sì, anche ora,

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mentre contemplo profondamente la mia natura intima, mi con-fermo di nuovo nella convinzione che è questo l’impulso che mimuove più fortemente di ogni altro. Così stanno le cose, benchémi si dica spesso che sono chiuso in me stesso33 e che respingospesso con freddezza le sacre offerte di amore e di amicizia. Cer-tamente non mi sembra necessario parlare di ciò che ho fatto oche mi è accaduto; considero troppo insignificante ciò che di meappartiene al mondo per soffermarmi su di esso con coloro acui farei conoscere volentieri il mio intimo. E neppure parlo diciò che giace in me ancora oscuro e informe e manca ancora diquella chiarezza che sola lo rende mio. Come potrei offrire all’a-mico ciò che ancora non mi appartiene? Perché dovrei nascon-dergli ciò che sono realmente? Come potrei sperare di comuni-care senza malintesi ciò che io stesso ancora non comprendo?Non si tratta di riservatezza o di mancanza di amore, ma di quelsacro rispetto senza il quale l’amore non è nulla, della delicata at-tenzione a non profanare e a non intricare inutilmente i valorisupremi. Non appena mi sono appropriato di qualcosa di nuovoed ho fatto qualche progresso sul piano della cultura o dell’indi-pendenza personale, non mi affretto forse ad annunciarlo, con leparole e le opere, all’amico, di modo che possa condividere lamia gioia e, percependo la crescita della mia vita interiore, trarnelui stesso profitto? Amo l’amico come me stesso: appena rico-nosco qualcosa come mio, gliene faccio dono. È vero che nonpartecipo a ciò che egli fa o che gli accade come la maggior par-te di coloro che si definiscono suoi amici. Le sue opere esternemi lasciano senza ansie e preoccupazioni di sorta, una volta checomprendo l’interiorità da cui derivano e so che devono esserequali sono perché egli è quello che è. Non danno alimento néimpulso al mio amore, non hanno nulla a che fare con esso. Ap-partengono al mondo e devono adattarsi alle leggi della necessi-tà, con tutto ciò che ne consegue. Ma qualunque cosa ne segua,qualunque cosa accada all’amico, egli saprà trattarla con una li-

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bertà degna di lui. Il resto non mi interessa, contemplo tranquil-lamente il suo destino come riguardo il mio. Chi potrà conside-rare fredda indifferenza un simile comportamento? Il fonda-mento su cui poggia il rispetto verso me stesso e il sentimentodella libertà è la chiara consapevolezza del contrasto esistentetra il mondo e l’uomo: devo forse attribuirla meno al mio amicoche a me stesso?

Ciò di cui mi faccio maggior vanto è che in me amore e amici-zia hanno sempre avuto una nobile origine, senza mescolarsi maia sentimenti volgari; mai frutto dell’abitudine o di fiacchi senti-menti, sono sempre un atto di pura libertà e si indirizzano unica-mente verso l’essere più proprio dell’uomo. Sono sempre rima-sto chiuso a quei sentimenti volgari: un beneficio non mi ha maiindotto all’amicizia, né la bellezza all’amore, né la compassione siè impadronita di me al punto che attribuissi merito alla sfortunae mi rappresentassi il sofferente diverso e migliore di quello cheè. Così nel mio animo è restato spazio per l’amore e l’amicizia ve-ra, e mai si estingue il mio desiderio di riempirlo in modo sem-pre più perfetto e vario. Dovunque noto qualche disposizione auna individualità originale, di cui sensibilità e amore fornisconole più alte garanzie, lì c’è anche per me un oggetto d’amore. Vor-rei abbracciare con amore ogni essere particolare, dalla gioventùpiù schietta, in cui germoglia la libertà, fino alla forma più matu-ra e compiuta di umanità. A coloro che considero di tal natura, ri-volgo dentro di me un saluto d’amore, anche se questo atto restasolo accennato, perché non c’è concesso altro che un fuggevoleincontro. Né concedo mai a un uomo la mia amicizia misuran-dolo secondo qualche criterio mondano o secondo la sua appa-renza esterna. Il mio sguardo vola oltre il mondo e il tempo, e ri-cerca la grandezza interna dell’uomo. Se la sua intelligenza abbiagià compreso poco o molto, fin dove sia avanzato nella propriaformazione, quante opere abbia creato o comunque compiuto,tutto ciò non lo posso determinare e, se manca, posso consolar-

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mi facilmente. La peculiarità del suo essere e le relazioni di que-st’essere con l’umanità è ciò di cui vado in cerca; e lo amo nellamisura in cui riconosco quella sua individualità e intendo quellerelazioni; anche se, beninteso, posso dimostrargli tale amore so-lo a patto che egli mi intenda. Ahimè, quante volte invece è tor-nato indietro incompreso! Il linguaggio del mio cuore non fu per-cepito, quasi che io fossi restato muto, e i destinatari del mio amo-re credettero che fossi realmente muto.

Molte volte gli uomini percorrono strade vicine, e tuttavianon si avvicinano l’uno all’altro. Invano uno, presago della pre-senza di un amico, chiama e desidera un incontro amichevole;l’altro non ode. Spesso gli opposti arrivano a toccarsi, uno pen-sa che sia per sempre, mentre l’incontro dura solo un momento.Un movimento in senso opposto li strappa l’uno all’altro, e nes-suno comprende dove sia finito l’altro. Questo è accaduto spes-so al mio desiderio d’amore: non sarebbe una vergogna se allafine esso non fosse maturato34 e la mia troppo facile speranzanon fosse svanita cedendo il posto a una saggezza ricca di pre-sentimenti? «Questi comprenderà di te un certo aspetto, e que-gli un aspetto diverso; con quest’amore puoi abbracciare il pri-mo, ma guardati dal manifestarlo all’altro»: così mi suggeriscespesso la moderazione35, ma spesso invano. L’impulso internodel cuore non lascia spazio alla prudenza; ancor meno mi per-mette di nutrire l’orgogliosa pretesa di porre limiti agli altri uo-mini e al sentimento con cui corrispondono a me e al mio amo-re. Io divento sempre più esigente, faccio sempre nuovi tentati-vi, e vengo subito punito dalla mia avidità, spesso perdendo, neltentativo, quello che avevo ottenuto. Ma all’uomo che attendealla propria personale formazione non può accadere nulla di di-verso, e che a me le cose vadano a questo modo è solo la provapiù certa che io attendo alla mia formazione. Solo un individuosimile unisce in sé in un modo particolare diversi elementi del-l’umanità. Egli appartiene a più di un mondo36. Come potrebbe,

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muovendosi nello stesso cammino di un altro, che è a sua voltaun individuo a sé, restare sempre in prossimità dell’altro? Al pa-ri di una cometa, l’uomo colto collega molti sistemi cosmici, simuove intorno a parecchi soli. Ora lo guarda gioiosamente unastro che mira a conoscerlo, mentre egli si piega amichevolmen-te verso di lui e gli si avvicina; poi l’astro lo vede trascorrere dinuovo in spazi lontani, con un sembiante mutato, sì che dubitache egli sia ancora il medesimo. Ma questi ritorna in rapida cor-sa, e di nuovo si approssima all’astro con amore e amicizia. Do-ve si trova il bell’ideale di un’unione perfetta, di un’amicizia chesia ugualmente perfetta da entrambe le parti? Solo dove la sensi-bilità e l’amore sono cresciuti in uguale misura, e quasi oltre ognimisura. Ma allora insieme all’amore anche gli individui stessi so-no giunti a perfezione, e suona l’ora – ahimé, per tutti essa suo-na prima del tempo37 – di uscire dal mondo38 e di riconsegnarsiall’infinito, tornando nel suo seno.

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Questo libro

di Friedrich D.E. Schleiermacher

nono della collana La Ginestra

nata dall’amicizia e dal lavoro comune

individuale e solidale

tra l’Associazione omonima

e le Edizioni Diabasis

viene stampato nel carattere Garamond

su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni

dalla tipografia Sograte

di Città di Castello

nel gennaio dell’anno

duemila

undici

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