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2 MODULO 1: Prevenzione, disagio e adolescenza INTRODUZIONE…………………………………………………………….Pag. 3 LEZIONE 1……………………………………………………………………Pag. 6 Rappresentazioni del disagio e dell’adolescenza (Franco Floris, direttore responsabile della rivista Animazione sociale) Se la comunità fa spazio agli adolescenti (Franco Floris, direttore responsabile della rivista Animazione sociale) Metodologie di intervento: il lavoro in rete (Michele Gagliardo per molti anni responsabile dell’Università della strada ed ora coordinatore del Piano Giovani) LEZIONE 2……………………………………………………………………Pag. 31 Gli orientamenti culturali e metodologici sulla prevenzione alle dipendenze (di Michele Gagliardo) LEZIONE 3……………………………………………………………………Pag. 38 La prevenzione: dall’ansia del dover tentare comunque qualcosa all’incontro in una dimensione simbolica (di Michele Gagliardo) La relazione educativa (di Michele Gagliardo) LEZIONE 4……………………………………………………………………Pag. 44 Le fatiche del vivere in società complesse (di Michele Gagliardo) ALLEGATI:…………………………………………………………………..Pag. 47 L ’ASCOLTO E L’OSSERVAZIONE NELLA PROGETTUALITA’ DIALOGICA di Francesco d’Angella, Franca Olivetti Manoukian…………………………..Pag.47 ANIMAZIONE COME PROCESSO CHE DA’ SIGNIFICATO ALL’ESISTENZA di Franca Olivetti Manoukian….…………………………………………….Pag. 59 Dall’io al noi per tornare all’io-L’animatore tra esperienza e teoria sui gruppi Intervista ad Armando Bauleo a cura di Paola Scalari e Francesco Berto…Pag. 64 SETTE PENSIERI SULL’EDUCARE di Andrea Canevaro…………………..Pag. 74 BIBLIOGRAFIA I MODULO…………………………………………….…Pag. 79

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MODULO 1: Prevenzione, disagio e adolescenza INTRODUZIONE…………………………………………………………….Pag. 3 LEZIONE 1……………………………………………………………………Pag. 6

Rappresentazioni del disagio e dell’adolescenza (Franco Floris, direttore responsabile della rivista Animazione sociale) Se la comunità fa spazio agli adolescenti (Franco Floris, direttore responsabile della rivista Animazione sociale) Metodologie di intervento: il lavoro in rete (Michele Gagliardo per molti anni responsabile dell’Università della strada ed ora coordinatore del Piano Giovani)

LEZIONE 2……………………………………………………………………Pag. 31 Gli orientamenti culturali e metodologici sulla prevenzione alle dipendenze (di Michele Gagliardo)

LEZIONE 3……………………………………………………………………Pag. 38 La prevenzione: dall’ansia del dover tentare comunque qualcosa all’incontro in una dimensione simbolica (di Michele Gagliardo) La relazione educativa (di Michele Gagliardo)

LEZIONE 4……………………………………………………………………Pag. 44 Le fatiche del vivere in società complesse (di Michele Gagliardo)

ALLEGATI:…………………………………………………………………..Pag. 47 L ’ASCOLTO E L’OSSERVAZIONE NELLA PROGETTUALITA’ DIALOGICA di Francesco d’Angella, Franca Olivetti Manoukian…………………………..Pag.47 ANIMAZIONE COME PROCESSO CHE DA’ SIGNIFICATO ALL’ESISTENZA di Franca Olivetti Manoukian….…………………………………………….Pag. 59 Dall’io al noi per tornare all’io-L’animatore tra esperienza e teoria sui gruppi Intervista ad Armando Bauleo a cura di Paola Scalari e Francesco Berto…Pag. 64 SETTE PENSIERI SULL’EDUCARE di Andrea Canevaro…………………..Pag. 74 BIBLIOGRAFIA I MODULO…………………………………………….…Pag. 79

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INTRODUZIONE di Luigi Ciotti Il cambiamento epocale che stiamo vivendo ci ha imposto grandi riflessioni: tutto questo è avvenuto in un orizzonte culturale che non hanno costruito i nostri ragazzi ma che abbiamo costruito noi adulti, e questo orizzonte culturale dal quale siamo bombardati tutti e tutti i giorni, è un orizzonte culturale in cui la prestazione, l’apparire, l’immagine, la ricchezza, il potere, il possesso, sono gli elementi centrali. Ai ragazzi da una parte è offerto questo orizzonte culturale e dall’altra una vita reale che è fatta di sacrifici, di battute d’arresto, di mancanza di lavoro, di problemi, di fatiche e di frustrazioni. Tra questi due poli opposti si forma un corto circuito che fa crescere il numero di persone che ha paura, che tende verso la trasgressione, la fuga, verso forme di evasione e dipendenza. Allora che fare? Io credo che la grande proposta oggi da fare, a tutti, giovani ed adulti, è quella di avere il coraggio di essere inadeguati, essere inadeguati a quell’orizzonte culturale che ci sta rovinando e travolgendo tutti. Dobbiamo sconfiggere l’ottica dell’iperprestazione, la cultura del “bello e perfetto” , riconquistando il senso della propria fragilità. Questo implica la coscienza del proprio limite rispetto a quell’orizzonte ma anche, e soprattutto, il recupero della centralità della persona, della dimensione umana, delle relazioni, della vera partecipazione. Credo sia importante più che mai oggi nella società dell’iperprestazione educare i giovani all’errore, a far fronte alle frustrazioni. I ragazzi riflettono in parte i pregi e i difetti del mondo adulto. Molti infatti fanno fatica a gestire le frustrazioni, a confrontarsi con i limiti, ad accettare il proprio errore e il limite altrui. Crescono in una società che educa al consumismo di tutto, anche di se stessi e i messaggi di giovani rampanti, bravi, sicuri, belli e ricchi, fanno crescere il bisogno di essere sempre all’altezza, di avere successo, e la voglia di consumarsi per le cose senza preoccuparsi di dare un senso, un significato a se stessi. E’ importante per un educatore leggere questi cambiamenti, queste trasformazioni, ed educare a leggere le trasformazioni e i cambiamenti affinché i giovani siano cittadini coscienti e responsabili. Prevenire non vuol dire rinchiudere nella paura, perché la paura non educa e non riesce neanche a prevenire. La paura favorisce squilibri, curiosità, ansie, insicurezze, chiusura. La via della prevenzione è dare al ragazzo gli strumenti perché sia in grado di leggere la realtà con la sua testa. Le persone in crescita non hanno bisogno di tante lezioni e morali, hanno bisogno di testimoni concreti vicini, presenti, che li accompagnino e gli facciano conoscere la grammatica della vita. C’è un enorme bisogno di adulti che si impegnino a creare le condizioni perché i giovani possano crescere dentro. Di adulti che accompagnino i loro percorsi di crescita, anche avendo idee diverse, che li accompagnino nelle loro domande. Li accompagnino però, non li portino. I giovani non ci chiedono di essere d’accordo con loro, non hanno bisogno di adulti che scimmiottino il loro gergo, creato peraltro proprio per distinguersi e creare un proprio spazio anche nella lingua, non ci chiedono di amare le stesse trasmissioni o gli stessi film o di ascoltare la loro stessa musica. Ci chiedono però di ascoltarli, di non barricarci dietro un diverso linguaggio o una diversa cultura generazionale, ma di cercare invece strade sempre nuove per comunicare. Hanno bisogno di adulti che

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gli diano fiducia, che creino nella scuola e fuori della scuola ambienti formativi in cui i loro bisogni possano essere riconosciuti insieme alle loro responsabilità. In cui gli studenti si sentano riconosciuti cittadini della comunità a cui appartengono. Per far questo abbiamo quattro chiavi: ∗ Riconoscere ai giovani le loro competenze, incontrarli, mettere sempre al centro

la persona nella sua specificità, con il suo linguaggio e la sua cultura. - accompagnare e non portare. Acquisire quella flessibilità interna che rende

possibile all’educatore il porre in discussione il suo percorso nel momento in cui nella relazione emergano risorse non previste e stimoli da parte dei ragazzi per cambiare direzione. Spesso sono gli educati ad indicare all’educatore le strade giuste di un percorso di formazione.

- non dare solo risposte tecniche ma sapersi mettere in gioco, non barricarsi nelle proprie paure, nel timore di non essere all’altezza, di non essere capace, rifiutando il nuovo e cercando sicurezze nei percorsi da sempre seguiti.

∗ partire dal positivo, non dai problemi. Non lavorare per la prevenzione da ma per la

promozione di educando gli stessi ragazzi a diventare “trasmettitori” tra pari, moltiplicatori.

. dare spazio ai vissuti e alle emozioni

. usare linguaggi diversi per comunicare.

. porre molta attenzione alla dimensione del reale: trovare strumenti opportuni per vivere il reale, per combattere la fuga nel virtuale, recuperando la realtà nella relazione educativa.

Gli studiosi ci dicono che nel 1987 il numero di vocaboli usati nel mondo giovanile erano 1600, nel 2000 il numero di vocaboli sono solo 600. Nessuno vuole demonizzare la televisione o gli strumenti della grande comunicazione ma prendiamo coscienza insieme che la tv parla ma non comunica, non c’è esercizio di parola. Nonostante i nuovi strumenti, apparentemente di grande comunicazione, mai come in questo momento noi viviamo la povertà della comunicazione. Nell’era delle grandi comunicazioni, noi siamo poveri di vera informazione. Allora non ci si può non chiedere se ci possono essere anche altri strumenti per rompere quella distanza di povertà di comunicazione, per parlare con i ragazzi, con la gente. Noi crediamo che tutto possa essere messo in gioco in questo senso e in questa direzione, ma qui viene il nodo. Alla fine degli anni ottanta è avvenuto un grande cambiamento: c’è chi ha preso coscienza e c’è chi ancora oggi ancora non ne prende coscienza. Il grande cambiamento epocale nel mondo giovanile è stato questo: in quegli anni è nata la nuova musica tecnologica, è nata una nuova cultura, sottocultura sotto alcuni aspetti, sono fioriti nuovi linguaggi, un nuovo modo di gestire il tempo libero. I giovani si sono riappropriati della notte, ma soprattutto, in una situazione particolare, si sono diffuse le nuove droghe chimico-sintetiche. In quegli anni si sono andati affermando nuovi stili di vita e di consumo, altre forme di dipendenza che non devono confondersi con la tossicodipendenza. Consumi estremamente compatibili

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con una vita normale ma che denunciano con il loro affermarsi le zone d’ombra della normalità, come le denunciano l’anoressia e la bulimia, altre forme di dipendenza, di fatica, di insofferenza, di ricerca, che non devono essere sottovalutate. Non ignorare questo cambiamento significa ad esempio aprire spazi di parola, ma non solo di parola, con gli adolescenti su temi come il divertimento, il piacere, lo star bene in gruppo, il rischio, la trasgressione, la paura, la notte come dimensione nella quale cambiare identità e vivere ciò che non si può essere e fare di giorno. Ma significa anche aprirsi all’uso di linguaggi diversi di comunicazione, tra i quali il linguaggio gestuale abbia il suo spazio. Valorizzare nel modo giusto il ballo, la musica, il bisogno di una comunicazione più autentica e più diretta. I giovani tra i 14 e i 28 anni in Italia sono 9 milioni, le discoteche in Italia sono 5 mila, 300 sono le discoteche di tendenza, ci lavorano 150 mila persone tanto per dare un dato importante, se ci sono dei locali criminali dopo un po’ vengono eliminati, ma non è tutto sporco. Bisogna chiedersi cosa fare in senso propositivo, come molti se lo stanno chiedendo, gli stessi gestori delle discoteche, insieme alla bella musica, quella musica dei ragazzi, del ballo, del segno della festa. E’ necessario riempire di contenuti e dare una mano ai nostri ragazzi, anche isolando i criminali. Quali altri spazi possiamo costruire con i nostri ragazzi oggi? Di fatto, è stimato che nel venerdì, il sabato e la domenica sera, di quei 9 milioni di quella fascia d’età vanno in discoteca punte minime che vanno da 3 milioni e mezzo a 5 milioni e mezzo di giovani. E’ un dato ed è su questo dato che noi dobbiamo chiederci come possiamo costruire e portare contenuti e riflessione per non rimanere schiacciati, noi e loro, dentro quell’orizzonte culturale.

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LEZIONE 1 RAPPRESENTAZIONI DEL DISAGIO E DELL’ADOLESCENZA di Franco Floris Attraverso quali «occhiali» viene osservata l’adolescenza? Questo interrogativo getta non pochi sospetti sulle modalità di lettura dell’adolescenza. Sospetti che nascono dalla presa di coscienza ormai diffusa, ma poco esercitata, che nessuna lettura è neutrale perché — in ogni caso — si mettono in gioco le proprie precomprensioni, se non i propri pregiudizi. Va quindi ribadita la parzialità di ogni lettura e rimessa in discussione la pretesa che «oggettivamente» le cose stiano così. Alcune ottiche di lettura in tal senso possono essere richiamate e rilette criticamente. Una prima ottica è quella che affronta l’adolescenza a partire dai condizionamenti della società, al punto che si parla degli adolescenti come se fossero quasi per intero determinati dall’ambiente. Le eventuali colpe, si diceva e si dice, sono del sistema, della società, dimenticando che in tal modo si finisce per non credere negli adolescenti e nella loro libertà di scelta e, di conseguenza, o si svaluta e banalizza ogni loro comportamento o lo si guarda con uno sguardo benevolo, se non complice. Si dimentica che l’assunzione soggettiva degli influssi e dei condizionamenti e la risposta alla loro pressione vengono autonomamente elaborate, al punto che è corretto parlare di un ventaglio di adolescenze, simili eppure diverse, che pur confrontandosi sugli stessi problemi e condividendo alcune intuizioni si orientano a stili di vita diversi. Una seconda lettura è quella che si limita a ribadire le grandi acquisizioni delle psicologie dell’adolescenza, con il rischio che i problemi di questa generazione di adolescenti non vengano specificati rispetto a quelli di venti o trent’anni fa. Fermo restando il contributo della psicologia, non si può non partire dal come questa generazione sta vivendo i suoi problemi, le sue tensioni, le sue ricerche, interagendo — per lo più inconsapevolmente — con questa società e con questa cultura. Non è sufficiente rifarsi ai pur importanti «compiti di sviluppo» per comprendere gli adolescenti di oggi. Come tutti gli esseri umani, gli adolescenti sono soggetti sociali e culturali e il loro approccio alla realtà nasce dall’interazione continua con l’evolversi della società — come insieme delle relazioni tra individui e gruppi, con posizioni di marginalità o di centralità, con ruoli attivi o passivi, con risorse insufficienti o sovrabbondanti — e della cultura — come insieme di diversi modelli di vita, mondi valoriali, regole non dette alla base dei comportamenti e rispondenti a immagini di uomo diversificate, con continue contaminazioni e conflitti tra le varie subculture. Una terza ottica di lettura insufficiente è quella caratterizzata dalla polarità «giovani come problema/giovani come risorsa», che può dare luogo a due esasperazioni pericolose: da un lato quella che riduce i giovani a «problema» e porta a descrizioni segnate da atteggiamenti di sfiducia, svalutazione critica se non distruttiva di quel che loro fanno o pensano; dall’altro quella che enfatizza i giovani come «risorsa», trascurando tanto i problemi che storicamente essi stanno vivendo (una società che li tiene ai margini è incline a deresponsabilizzarli, non offre spazi in cui possano esercitare il loro potenziale costruttivo) quanto la risposta reattiva che essi per lo più danno a questi problemi (una tendenza a chiudersi in gruppi tribali, con i loro riti e

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miti particolaristici, con atteggiamenti di passivo adattamento alla società, lontani da una qualche discussione critica del disegno di base — e dunque dei rapporti di inclusione ed esclusione — della società). Se vedere i giovani come problema, oltre che riduttivo, è distruttivo di ogni possibilità di interagire in un clima di fiducia, dimenticare che ogni generazione ha i suoi problemi e scommettere solo sulla loro «parte buona» è mistificante. I giovani non vanno ridotti a problemi, ma non bisogna dimenticare che problemi — anche drammatici — ne incontrano nel loro tentativo di dare risposta alle sfide che la vita oggi pone. Se si vuol agire in un’ottica di animazione, non si può mai partire dai problemi, ma neppure dalla loro negazione. Si può andare oltre queste ottiche di lettura? La strada che l’animazione indica porta a osservare gli adolescenti come degli esploratori all’interno di una cultura che si evolve generando frammentazioni, conflitti, diversificazioni, ramificazioni, ma anche sempre nuovi dialoghi fra diversità, intrecci valoriali inediti, nuovi mondi possibili. Nella loro esplorazione gli adolescenti sperimentano le tensioni, le ambiguità, le conflittualità in cui ci si dibatte. Tali tensioni nascono dal grembo delle contraddizioni ed esasperazioni in cui è venuta a cadere la generazione precedente, e a partire da queste la nuova generazione cerca dei sentieri per andare oltre. Ma nascono anche dalle nuove sfide davanti a cui l’umanità non è ancora attrezzata perché troppo «giovane» rispetto ai nuovi problemi, ai nuovi strumenti, alle possibilità offerte dall’esplosione della tecnica, dallo sviluppo dell’economia globale come dall’incontro tra culture diverse. Di fronte a questa situazione, muovendosi nell’ottica dei temi generatori di Paulo Freire, l’animazione scommette che ogni epoca storica nel fare i conti con le sue contraddizioni lavora per individuare dei sentieri che portino oltre, delle intuizioni su cui valga la pena sperimentarsi, dei salti di qualità che facciano uscire dalle ambivalenze, ma in fondo senza perdere la ricchezza che tali ambivalenze e polarità si portano dentro. Il vero campo di lavoro viene allora a essere determinato da ambivalenze e polarità fra le quali non si può scegliere e che — spesso — sono tra loro irriducibili. Come far convivere ciò che è irriducibile? Come tenere alta la dialettica fra gli opposti in modo che possa emergere qualcosa di innovativo, quelli che Freire chiama i «temi generatori», cioè alcune intuizioni di futuro, capaci di intrecciarsi e fecondarsi tra loro generando a grappolo ulteriori possibilità di futuro, ancora da costruire e per nulla garantito, fino a tratteggiare nuovi disegni di vita sociale? Parlare di temi generatori, tuttavia, non è sufficiente. Essi si danno concretamente, ma non sempre consapevolmente: sono luoghi di ricerca, dove però la ricerca è presente per lo più allo stato di intuizione germinale. C’è bisogno di alcune «condizioni» ambientali e soggettive perché possa svilupparsi, cioè irrobustirsi sul piano della passione individuale, ma ancor di più su quello della condivisione collettiva, attraverso processi di intersezione e contaminazione sia all’interno del mondo giovanile sia — e ancor di più — all’interno di un confronto dialogico con altre modalità culturali del vivere. Le intuizioni generatrici arrivano così a pervadere

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di una loro tonalità culturale, tipica di questa generazione, il modello di vita e di sviluppo. Senza questo, il rischio più plausibile, dopo qualche maldestro tentativo di andare oltre, è di ricadere nelle contraddizioni accettando di vivere divisi fra le tensioni o parti che finiscono per attraversare le persone. Il rischio è che le «parti» — alcune delle quali sono gravide di futuro, altre di regressione — non si incontrino, non si confrontino, non si fecondino, non generino. Il rischio è di venire risucchiati dalla parte regressiva dell’ambiente sociale e del proprio sé rinunciando a diventare soggetti autonomi, capaci di protendersi verso modelli di vita costruiti sul terreno tratteggiato dalle tensioni generatrici dell’oggi. La scommessa consiste nell’avere un approccio all’adolescenza e ai suoi temi generatori segnato fortemente dalla scelta di riconoscerli sempre — anche nelle situazioni più drammatiche — come soggetti attivi, ricercatori tenaci, ma anche dalla scelta di non rassegnarsi alle loro inconcludenze, ai loro passi falsi, alle loro regressioni quando si tratta di inoltrarsi nei «sentieri» che è possibile delineare solo ponendosi in ascolto dei temi generatori di «questi adolescenti». Dire quali siano questi temi generatori non è facile, anche perché essi si danno localmente, in situazione. È in ogni contesto giovanile che essi vanno lasciati emergere. Eppure si può anche dire che alcuni temi generatori sono oggi «vissuti» da molti adolescenti nei più diversi contesti, anche se il loro ascolto, il loro riconoscimento e la loro valorizzazione da parte degli adolescenti, e soprattutto da parte dei loro mondi formativi, danno spazio a subculture giovanili diverse. Detto questo, è importante arrischiarsi nel tratteggiarne alcuni, altrimenti non si riesce a trovare quel terreno di ricerca, quel luogo di conversazione e confronto, quella piazza in cui far confluire le diverse esperienze, che altro non è che il terreno dell’educare. Il terreno in cui i giovani sono contemporaneamente portatori di problemi e di risorse, ricche di intuizioni generatrici di futuro. Io e noi Un primo tema generatore va ricercato nella tensione tra «io» e «noi», tra possibilità di essere soggetto autonomo, geloso del proprio modello di vita, e possibilità di essere — allo stesso tempo — un noi, cioè un soggetto che accetta una qualche interdipendenza con altri soggetti e in questa interdipendenza non si sente ferito nella sua autonomia, anzi si sente potenziato nella sua soggettività. È innegabile che questa tensione sia tipicamente moderna e postmoderna, nel momento in cui si è maturato un sempre più consapevole diritto alla soggettività, liberandosi dalle imposizioni delle appartenenze sociali e culturali che finivano per «programmare» in modo rigido il soggetto. Viceversa assistiamo oggi all’esasperazione narcisistica della soggettività, al culto della propria autonomia individuale. Un fenomeno che rimanda anche all’affievolimento dei legami sociali, alla crisi delle ideologie e delle appartenenze, alla crisi dei processi politici e dunque del sentirsi rappresentati nell’orientare le grandi scelte della società. Continuamente si rischia di rinchiudere la propria soggettività all’interno di gruppi omogenei con legami affettivi molto stretti, a forte inclusività, fino a ritrovare la propria soggettività in forme tribali che sembrano il

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prolungamento dell’io narcisistico. Dall’altra, tutto questo insieme variegato di fattori porta a una nuova consapevolezza del legame profondo, irriducibile, primordiale che ci lega agli altri e alla stessa natura, consapevoli sempre di più di essere appartenenti (addirittura con esasperazioni panteistiche) a un qualche insieme fusionale. Lo stesso continuo sperimentarsi in gruppo, con tutte le alterne vicende che esso comporta, è segno di questa ricerca: come essere contemporaneamente io e noi? È questo un interrogativo tutt’altro che astratto con cui il lavoro di animazione è chiamato a confrontarsi. La tensione tra io e noi può diventare luogo generatore di un modo nuovo di vivere l’essere coppia, l’essere gruppo, l’essere comunità. La scommessa è che gli adolescenti siano alla ricerca dentro tale tensione e che abbiano bisogno di qualcuno che faccia un pezzo di strada con loro, senza troppe complicità ma costruendo su quello su cui loro stanno provando a costruire, stimolando a non arrendersi, a sperimentare e rielaborare. Giorno e notte Un secondo tema generatore può essere ricercato nella tensione tra giorno e notte, come nella tensione tra feria e festa. C’è una forte attenzione a riscoprire la notte e la festa, consapevoli che ciò che si può sperimentare nella notte come nella festa sia qualcosa di antropologicamente molto arricchente, per lo più in continuità/discontinuità con le attività diurne e dunque con il lavoro e con lo studio, con le relazioni quotidiane familiari, come con quelle con il proprio ambiente usuale di vita. Che cosa può dare la notte? La notte risponde intanto al distacco, al prendere le distanze dal giorno, anche se poi questo può portare a forme metacomunicative rispetto al giorno o a una semplice fuga da esso. La notte rimanda all’esplorazione di ciò che non si vede, al lasciarsi permeare dal mistero, dall’indicibile, a lasciarsi prendere da giochi simbolici quali la danza e la musica, a lasciarsi andare nello sperimentare stati di conoscenza altri, all’abbandonarsi al gioco misterioso che è l’incontro di coppia, allo sperimentarsi nel limite ponendo a rischio la propria esistenza, all’avventura come luogo in cui provare a delineare la propria soggettività. È sotto gli occhi di tutti il fatto che la tensione verso la notte, non meno che verso la festa, rischia di farsi scomposta, esasperata e tragica. Ma è anche vero che, tra tante ambivalenze, oggi la notte si rivela un momento antropologico forte. E la notte e la festa sono in tensione con il giorno e la feria, con tutto quel che questi comportano in fatto di legami e di regole sociali, di uso imprenditivo delle proprie risorse, di gioco dentro le molteplici appartenenze, di responsabilità collettiva. Al giorno e alla feria gli adolescenti non sembrano aver rinunciato, come luoghi in cui dire la loro esistenza, ma spesso li sentono più come un peso, qualcosa a cui non ci si può sottrarre o, anche, in cui si accettano dei compromessi o delle dipendenze rispetto alle proprie convinzioni che tocca alla notte e alla festa liberare. Come contaminare giorno e notte, feria e festa, in modo che i significati sperimentati nei miti e riti della notte e della festa possano pervadere il giorno, riscrivendo i criteri a partire dai quali riprogrammare criticamente gli impegni quotidiani, in cui spesso si vive espropriati, sottomessi a leggi economicistiche a cui non si annette significato? In altre parole, come ridefinire il giorno a partire dalla notte e come, viceversa,

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rielaborare nella notte interrogativi, sofferenze, intuizioni maturate lungo il giorno? E come far sì che l’essere cercante, che nella notte ha sempre visto un momento per «filosofare sulla vita», non si arrenda alle strumentalizzazioni mercantili che cercano di assorbirla per intero? E cosa sono la notte e la festa sottratte alla logica del consumo e alle implosioni narcisistiche individuali e di gruppo? Come si intravede, la tensione tra giorno e notte rimanda a una ricerca antropologica che può facilmente smarrirsi. Ma delinea anche un luogo di animazione molto stimolante. Desiderio e cura Una terza tensione generatrice può essere individuata tra desiderio e cura. L’esplosione del desiderio e l’abbandonarsi al suo evolversi nel tempo, affermando il diritto a continuare a esprimersi, a soddisfare bisogni, a trovare le tecniche che permettono di saziare tali bisogni, l’irrigidirsi odierno di individui e gruppi nella difesa rancorosa dei propri diritti, da una parte permette alle persone — ai giovani in particolare — di sperimentarsi senza limiti. L’unica regola sembrerebbe l’inseguire il moltiplicarsi dei desideri, senza mai vedere il mondo e le persone dalla parte dei diritti di base degli altri, a partire dal loro onore spesso calpestato proprio dall’esplodere dei propri diritti. Ciò che è possibile va sempre perseguito? E la tecnica è ciò che permette di realizzare il desiderio? D’altra parte, come non vedere nella sensibilità al desiderio una presa di distanza da modelli di vita rinunciatari, moraleggianti, in cui il soggetto doveva sacrificarsi, rinunciare ancora una volta a ogni appagamento esistenziale? È innegabile che la scoperta o riscoperta del desiderio sia oggi una forte spinta alla trasformazione delle esistenze. Una spinta che porta a forme esasperate di narcisismo individuale e di gruppo, alla perdita di una dimensione etica dell’esistenza, di una progettualità capace di farsi carico del «noi». Eppure, questo è il tempo in cui si riscopre l’aver cura dell’altro da sé attraverso forme che rimandano alla gratuità del dono, dunque attraverso un approccio che permette di vedere la propria autorealizzazione, personale e di gruppo, nel dono gratuito che non richiede contraccambio, ma pure genera un legame profondo, un’empatia grande che porta a farsi gratuitamente carico di, ad avere cura dell’altro in quanto altro. Da qui una diversa disponibilità ad assumere il limite come modo di canalizzare le proprie energie (la sublimazione) verso interessi di tipo collettivo — al livello della costruzione del noi — e una diversa sensibilità verso progettualità sociali che manifestino la scelta di aver cura della natura, o della persona con handicap, e dunque verso progettualità non efficientistiche, non più tecnocratiche. La tensione fra desiderio e cura delinea un’area di ricerca esistenziale stimolante, ma, ancora una volta, senza un adeguato percorso di animazione i due poli della tensione finiscono per separarsi nuovamente invece di riformularsi reciprocamente. Dopo alcuni tentativi, infatti, gli adolescenti rischiano da una parte di lasciare esplodere il loro desiderio o di coniugarlo con il proprio narcisismo, senza individuare il perché impegnarsi nel canalizzare le proprie energie esplosive in una progettualità in cui l’aver cura è luogo in cui il desiderio trova profondo appagamento; dall’altra rischiano di ridurre l’aver cura e la responsabilità attiva che ne segue a un comando

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esteriore, al quale non ci si può sottrarre, ma in cui non si trova soddisfazione esistenziale, ma soltanto un peso, un sacrificio, un’imposizione sociale, un ricatto mercantile.

Sospensione e mistero Una quarta tensione può essere quella esistente fra sospensione del domandarsi e apertura al mistero, dove senso e non senso si incontrano in modo indecidibile. La sospensione del domandarsi ha significati ambivalenti, perché se da una parte sconfina nella rinuncia a essere animali culturali, dunque soggetti che si interrogano sul significato delle proprie avventure (in quanto tutto sembra rifluire nell’assurdo, in ciò che non può essere detto e dunque su cui bisogna tacere), dall’altra riassume un insieme di sensazioni che spingono al silenzio, al distacco, alla rinuncia a una parola che banalizza, al discorso che rischia di tradire. L’altro versante della tensione è quello dell’affacciarsi al mistero come qualcosa che si attraversa in ogni momento e come dimensione che va sperimentata. La ricerca di appartenenze segrete, di linguaggi esoterici, di gruppi orientaleggianti o new age, il consumo di sostanze che permettono di accedere a stati di coscienza inesplorati quotidianamente, sono espressione di un’attenzione al mistero intensa, anche se poi questa parte del sé fatica a dialogare con le altre parti maggiormente integrate in letture e approcci pragmatici, tecnologici, con la vita di ogni giorno. Luoghi di ricerca e di ricomposizione Scommettere sull’esistenza di temi generatori tra gli adolescenti è una precisa scelta di campo, in contrasto — come si è detto — con i molti luoghi comuni con cui si rappresentano e si valutano le nuove generazioni. Solo che, come è facile intuire, la ricerca intorno a tali temi è molto faticosa, proprio mentre è gravida di speranze inedite. Una ricerca faticosa perché, usciti dalle certezze delle grandi ideologie e di una religione che pretendeva di avere una risposta su tutto, si naviga nell’incertezza, con pochi e deboli punti di riferimento. Ma stranamente, proprio la fine di tali certezze ideologiche o religiose libera la possibilità di un’intensa e appassionante ricerca. In fondo c’è maggiormente spazio per la ricerca e la complessità della vita sociale. E il meticciato culturale, verso cui la globalizzazione sta incamminando l’umanità, se rischia di travolgere ogni forma di cultura locale, apre anche nuovi spazi, permette di individuare sentieri nuovi di ricerca nella «foresta culturale». Le contaminazioni sono maggiormente possibili e maggiormente feconde, a patto che si resista nella ricerca: non si cada cioè in un insano relativismo, in una tolleranza intollerante che si arrocca e assolutizza il proprio punto di vista, né ci si arrenda a modelli di vita ispirati all’economicismo che tende a pervadere per intero la vita delle persone e a regolare con le sue logiche mercantili le relazioni tra gruppi sociali, mettendo in crisi la consistenza del legame sociale nelle diverse comunità locali. Ma non si può negare che, soprattutto per gli adolescenti, tale ricerca sia faticosa, con il rischio di essere inconcludente, in quanto il rifiuto di alcuni modelli di vita non sempre riesce ad approdare all’individuazione di modelli di vita, se non alternativi in modo radicale, almeno capaci di restituire un poco di senso alla propria e altrui

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esistenza. Non si può quindi negare che la ricerca rischi di ricadere su se stessa, di implodere in modo tragico, generando scetticismo, relativismo, non senso. Le possibilità enormi offerte oggi dalla società complessa e dalla cultura complessa, dove la complessità è anche indice di ricchezza e di possibile generazione di mondi nuovi, rimandano, per quel che riguarda gli adolescenti — ma non solo loro —, a luoghi e processi di ricomposizione delle diverse rappresentazioni culturali, dei diversi modelli di vita, delle diverse appartenenze, delle diverse progettualità. Per ricorrere a un’immagine, la ricomposizione rimanda all’intelligente e paziente opera del mosaicista che inventa disegni e li realizza utilizzando pietre non solo di diverso colore, ma anche provenienti da terre diverse. La ricomposizione non nega ma valorizza la complessità, impegnandosi in disegni inediti, quei disegni appena tratteggiati dai temi generatori in cui si cerca di far incontrare e scontrare polarità opposte, senza rinunciare a nessuna delle due, come luogo dove il nuovo può scaturire. Un lavoro prezioso, oggi più indispensabile di ieri, quando spesso bastava accettare l’esistente sociale e culturale, ma rispetto al quale sembrano mancare condizioni ambientali sufficienti. La sensazione è che non ci siano oggi dei crocevia dove esercitarsi in questa azione di scoperta, valorizzazione e intreccio delle proprie parti e dei temi generatori. In tal modo si rischia di rimanere con più parti scomposte tra loro, generando non poca sofferenza, e si rischia di vivere contemporaneamente più vite che tra loro non comunicano, anzi spesso sono in contraddizione, compromettendo — a volte in modo grave — la capacità delle persone di animare dialoghi e intrecci nella loro esistenza e dunque di rintracciare un qualche filo rosso con cui intessere una personale trama di esistenza. Con il rischio di lasciarsi vivere, di essere posseduti ed espropriati dagli eventi, di dipendere da quello che succede fuori e dai propri umori del momento. Tentativi di ricomposizione Non è che oggi manchino momenti anche intensi di ricomposizione. La stessa scommessa finora avanzata che il mondo giovanile sia animato da tensioni generatrici va in questa direzione. Eppure alcune osservazioni vanno fatte. La ricomposizione sembra diventare spesso un’impresa di Sisifo da parte di singoli adolescenti, protesi a difendere la loro autonomia e a elaborare un personale fascio di idee. Con il rischio che la ricerca individuale, non avendo sufficienti contrappesi rispetto alle pressioni ambientali e sufficienti stimoli per resistere nella faticosa impresa, imploda su se stessa o si lasci appunto possedere da logiche ispirate a criteri economicistici o di esasperazione dell’individualismo. Più spesso la ricomposizione avviene a livello delle tribù culturali in cui la società è frantumata e che tendono a includere con legami forti i propri membri fino a depotenziare la loro soggettività (a questo punto i figli sono un clone dei genitori), generando un forte senso di difesa dei diritti tribali, a scapito dei diritti di chi della tribù non fa parte. Come non pensare che la società dei due terzi si stia organizzando tribalmente, con le tribù intente a costruire muri e difese? In ogni caso sembra che l’unico luogo di ricomposizione — che, come si intuisce, comporta tagli vistosi rispetto alla complessità dei problemi — sia un microsociale che gioca in difesa, un

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microsociale arrogante, spesso rancoroso, con una rigidità selettiva rispetto ai messaggi e alle invocazioni di aiuto in circolazione e dunque con quella paradossale tolleranza intollerante che caratterizza le tribù, in base alla quale tutte le tribù hanno diritto a esistere, ma in fondo l’unica verità è quella della mia tribù. Le contaminazioni, gli intrecci, le interazioni alimentate da curiosità culturale, le fecondazioni reciproche non sembrano all’orizzonte. Non si può neppure negare che spesso gli adolescenti cerchino una ricomposizione di fatto nelle terre di nessuno, nei «non luoghi» dove le voci del tempo presente e della storia dell’umanità giungono fioche e un’intera generazione si ritrova quasi sola nel rielaborare il proprio continuo andirivieni o girovagare nella vita sociale. I non luoghi diventano spesso gli unici crocevia culturali in cui gli adolescenti possono ritrovarsi. Crocevia poco «sociali», non animati da elementi catalizzatori che permettano a messaggi ed esperienze di incontrarsi generando qualcosa di nuovo. Ma spesso, va ricordato, sono gli unici luoghi in cui i temi generatori di questa generazione emergono, anche se diventa difficile lavorarci sopra perché inaugurino nuovi mondi possibili. D’altra parte spesso le istituzioni, delegate a essere per tradizione i luoghi di rielaborazione dell’esistenza, non riescono a svolgere la loro funzione. Non riesce a esserlo la famiglia, non riesce a esserlo la scuola, non riesce a esserlo la Chiesa, che nel passato aveva quasi un monopolio in tal senso. Alcuni interrogativi E dunque? Sono almeno quattro gli interrogativi che si pongono. Il primo: sono possibili luoghi di ricomposizione segnati dalla possibilità di far emergere i temi generatori e di essere laboratori di ricerca, più che ospedali ortopedici oppure supermercati, dove c’è pur sempre una qualche merce che pretende di essere la risposta ai bisogni? Il secondo: possono esistere luoghi di ricomposizione che si aprano alla valorizzazione della complessità sociale e culturale, rifuggendo da chiusure tribalistiche, ma anche capaci di mettere in discussione i rischi di omologazione sottesi all’imperante economicismo che sacrifica l’esistenza ai criteri del successo nella competizione sociale? Il terzo: possono esistere luoghi dove la ricerca a partire dai temi generatori è possibile per tutti, in quanto i linguaggi che vengono utilizzati sono praticabili da tutti e non solo dai soggetti più sensibili alla discussione teorica e al confronto analitico delle idee, come alla critica sociale e politica? Il quarto: sono possibili luoghi di ricomposizione in cui si possa sperimentare, sulla base di una libera scelta e dunque al di fuori di ogni imposizione, il legame sociale e dunque un’appartenenza che non renda prigionieri, ma permetta di vivere nel micro quelli che sono i processi sociali e culturali più vasti e dove dunque ci siano le condizioni per lavorare a nche sull’insieme di regole sociali che sono le istituzioni, fino a dar vita consapevolmente a nuove istituzioni e a rigenerare quelle esistenti, rigenerando insieme il tessuto di base della comunità locale in cui si vive?

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SE LA COMUNITA’ FA SPAZIO AGLI ADOLESCENTI di Franco Floris La sensibilità sociale, culturale e politica dell’animazione porta a vedere le vicende dei singoli gruppi dentro un più vasto processo di logoramento e di rigenerazione della comunità locale. Questo non per dimenticare i destinatari principali del proprio intervento, ma perché è improduttivo separare il gruppo dal suo ambiente: è nell’ambiente che il gruppo, se da una parte incontra contraddizioni e sfiducia nei suoi confronti, dall’altra trova risorse per procedere, a patto — come vedremo — che sia aperto a sempre nuovi stimoli e capace di «chiusure» verso l’ambiente per attivare al suo interno rielaborazioni autonome, in modo che le risposte alle provocazioni non siano quelle imposte da agenti esterni, ma siano risposte critiche — quanto basta — e creative. Più da vicino, un gruppo cresce se trova una disponibilità all’ascolto esplicito, all’intreccio di significati, se non da parte di tutto l’ambiente, di fatto frammentato e conflittuale, almeno da parte di soggetti e gruppi portatori di stimoli significativi — non necessariamente in sintonia con il sentire del gruppo, il quale invece può apprendere molto dalla dissonanza e dallo stesso conflitto con chi manifesta una cultura diversa. Il senso del lavoro di animazione deve essere riconosciuto e rispettato, anche se non sempre capito e condiviso fino in fondo, dai diversi attori sociali, in particolare dai decisori pubblici. Solo un continuo e rinnovato consenso della comunità è in grado di sostenere il gruppo nelle sue vicissitudini. Ma il consenso non si alimenta con un ingenuo compiacimento per quel che fanno i giovani, ma con la presa di coscienza che la crescita sociale e culturale dei giovani è connessa alla vivacità dell’ambiente. Se la comunità locale non lavora sui temi generatori che la abitano in profondità, al punto che non è sollecitata a porsi domande, percepire attese e decidere urgenze, il percorso degli adolescenti rischia l’asfissia e la morte prematura. In una comunità morta socialmente e culturalmente, diventa troppo gravoso per gli adolescenti, anche se non impossibile, essere inventivi e costruttivi. Tutto questo viene a tradursi in un percorso di base dell’animazione giovanile nella comunità locale. Percorso che vede protagonisti da una parte animatori e adolescenti e dall’altra i diversi attori sociali e i decisori pubblici.

PRIMA FASE: DALL’ESPLORAZIONE CULTURALE E POLITICA AL CONTRATTO DI ANIMAZIONE La prima fase porta, dopo un primo incontro con i vari interlocutori di un progetto di animazione, a individuare aree di interazione di significati in cui i vari attori sociali possano riconoscersi per dare un senso al progetto e delinearne le grandi finalità — quelle finalità che costituiscono il vincolo, ma anche lo spazio sociale, in cui si può costruire. L’esito della prima fase del percorso è il «contratto sociale», che dà senso e permette di avviare il progetto di animazione indicandone le grandi finalità e i grandi criteri di passaggio all’azione, in un clima di profondo rispetto per il lavoro degli animatori, i quali, interagendo con gli adolescenti, dovranno di volta in volta individuare obiettivi e strategie d’azione nell’alveo delle grandi finalità inscritte nel

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«contratto». Un contratto sociale che, come si è visto, ha fatto incontrare diversi attori: giovani, animatori, amministratori, rappresentanti di associazioni, cittadini sensibili alle sfide che incontrano gli adolescenti e sono disposti a fare un pezzo di strada al loro fianco. Come si intuisce, non si tratta di un «contratto» firmato una volta per sempre.

Una progettualità sociale La base più adeguata per un percorso di animazione è una «progettualità sociale», espressiva di un vivace dialogo culturale e politico all’interno della comunità locale. Muoversi in questa logica è prendere le distanze da altri due approcci progettuali. È rifiutare, in primo luogo, una progettualità di settore affidata a tecnici o professionisti, ai quali si delega il perché e il come del progetto. È rifiutare, in secondo luogo, una progettazione a tavolino, lontana dalla mischia dei problemi locali, o preconfezionata, anche se fatta utilizzando altre esperienze, di per sé stimolanti ma senza presa se trasportate in un altro contesto. Gli attori in gioco sono persone, con le loro ambivalenze e conflittualità, ma sono soprattutto delle «culture», cioè dei modi diversificati di leggere i fatti, ordinare criteri di valutazione, progettare risposte alla luce di particolari valori. In altre parole, i vari attori sono anche (piccoli) mondi culturali non sempre facili da aprire alla comunicazione, non sempre sensibili ad altri punti di vista. Una prima fatica è allora l’esplorazione paziente, l’ascolto empatico, l’accoglienza rispettosa, la ricerca e la valorizzazione di intersezioni e di differenze dentro la cultura della comunità. Le culture in gioco sono tre — oltre a quella di cui sono testimoni gli animatori — e con ognuna di queste gli animatori sono chiamati a interagire in vista del possibile «contratto di animazione»: la cultura degli adolescenti, la cultura dei leader sociali e culturali, la cultura dei decisori politici locali.

La ricerca di un contratto con gli adolescenti Ci sono anzitutto gli adolescenti, con le loro domande più o meno sofferte e con le loro intuizioni generatrici. I diversi «giri» di adolescenti sono micromondi culturali, spesso contigui ma non interagenti con altri micromondi adolescenziali e, soprattutto, con i mondi culturali degli adulti. L’avvio del percorso è possibile se un qualche esploratore culturale — l’animatore — va alla ricerca dei temi generatori locali che animano gli adolescenti. Entrarci dentro, accoglierli con una profonda empatia e con un forte atteggiamento di conferma esistenziale vuol dire delineare dove il mondo degli adolescenti e quello degli animatori possono intersecarsi. Parlare dell’animatore come esploratore culturale, che va a cercare le diverse tribù e le frequenta con la sensibilità di chi è appassionato ad altre culture, permette di insistere sulla necessità di non limitarsi al semplice elenco di bisogni attraverso ricerche quantitative standardizzate, questionari prefabbricati ed elaborazioni che spesso confermano dati risaputi, senza individuare intersezioni di significati che lascino vedere non solo problemi, ma soprattutto intuizioni generatrici su cui costruire. Per rilevare queste intuizioni occorre scendere in profondità, frequentando con continuità gli adolescenti, annotando i significati

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emergenti e provando a ricostruirli con intelligenza e rispetto, in dialogo con loro. Solo in questo modo si delinea — e non sempre — il «terreno» entro cui può avere luogo l’animazione. Dato poi che il mondo giovanile non è uniforme, ma è piuttosto un insieme di zolle culturali in movimento, con continui avvicinamenti e allontanamenti, fin dai primi contatti, mentre tenta di costruire una mappa delle tribù, l’animatore-esploratore evita di lasciarsi catturare da alcuna tribù, perché questo gli impedirebbe di esplorare le altre, bloccando fin dal nascere la possibilità di un’animazione allargata ai vari giri giovanili. Come si intuisce, le prime esplorazioni devono confluire nella possibilità che, a partire dalle intersezioni tra mondo culturale degli animatori e mondi culturali degli adolescenti, si possa arrivare a un «patto di animazione», il cui contenuto è dato dalla fiducia reciproca e dalla disponibilità a interagire, decidendo passo dopo passo il da farsi.

L’intersezione con le culture della comunità Ma non basta aver individuato queste irrinunciabili intersezioni. Occorre che una parte dei significati che animano la comunità locale — espressi sia dalla sua leadership sociale e culturale che dai decisori pubblici — vengano a sovrapporsi con quelli degli animatori e quelli degli adolescenti. Non sarà mai una sovrapposizione totale — che non avrebbe senso, perché impedirebbe alle nuove generazioni di essere produttori autonomi di cultura —, ma una qualche intersezione deve esserci. Non è solo un gesto strategico da parte degli animatori il fermarsi a lavorare con i pubblici amministratori e con soggetti e gruppi che incarnano una leadership sociale e culturale per avviare una «progettazione sociale», disponibili ad apprendere gli uni dagli altri e quindi a favorire cambiamenti nell’intera comunità. Sottovalutare un approccio sociale alla progettazione può portare a incomprensioni profonde e a crisi di rigetto. Degli adolescenti, ancor prima dell’avvio del progetto di animazione, si sono occupati e si occupano in tanti, quasi sempre limitandosi a lavorare per la propria associazione o per il proprio gruppo. Ma, così facendo, ogni giro giovanile (a livello sportivo, religioso, culturale, musicale) rischia l’asfissia, in quanto solo un’interazione tra gruppi e una progettualità su alcuni aspetti condivisa permette di connettersi con altre risorse e di generarne di nuove, valorizzando luoghi, persone, iniziative che spesso rimangono ai margini della comunità. Non è facile uscire dagli steccati. Purtroppo l’esito è l’incapacità di una comunità di rigenerarsi e l’abbandono delle nuove generazioni a se stesse, mentre i responsabili di gruppi e associazioni si affaticano a rafforzare la loro organizzazione, pensando che il futuro della comunità coincida con la crescita della loro organizzazione.

L’imporsi di un’impresa sociale locale Ma una comunità non è solo questa logica egocentrica, di corto respiro, in cui rischia di rinchiudersi l’associazionismo locale. In quasi tutte le comunità resiste un «desiderio collettivo» che porta a investire sulle nuove generazioni. Fare animazione

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è portare alla luce questo desiderio e i temi generatori connessi, fino alla consapevolezza che in una situazione complessa come una comunità locale nessuno è in grado da solo di orientare, dirigere né, tanto meno, imporre. Piuttosto, una volta percepito l’essere «parte», diventa possibile attivare «imprese sociali» locali, a cui partecipano le diverse parti in gioco, anche se non a diretto contatto con gli adolescenti. Parlare di impresa sociale o, meglio ancora, di intrapresa sociale rimanda alla ricerca di una diversa qualità di respiro sociale nella comunità. In altre parole, rimanda alla pubblica discussione della qualità di vita nella comunità, reagendo all’affievolirsi del legame sociale, al senso di impotenza, all’abbandono dei giovani a se stessi, al rifugio nella delega ai professionisti, per ricostruire invece un tessuto di interazioni, a partire da una ritrovata passione sociale: investire sui giovani. L’impresa sociale è allora un modo di ridefinire l’orizzonte e le finalità del fare comunità attorno al suo investimento sulle nuove generazioni, sulla base della scommessa che una comunità diventa tale se investe sui giovani. Tutto questo non avviene senza conflitti, senza momenti di scontro, in quanto le finalità dei diversi attori non rispondono sempre alla stessa idea di legame sociale, di solidarietà, di difesa degli ultimi, di investimento sui giovani. Ma se i legami sono costruiti in una logica di impresa sociale, è possibile apprendere anche dai conflitti.

Un tavolo di politica dell’animazione La logica dell’impresa sociale rimanda alla costituzione di organismi di partnership. C’è partnership dove ci sono attori plurimi, portatori di culture diverse che, proprio in quanto tali, decidono che è il momento di interagire per dare vita a un nuovo organismo che nasce da interazioni sempre più autentiche, nelle quali si esce dalle fredde opposizioni e si interagisce anche personalmente, fino a condividere significati e ad alimentare una progettualità, per alcuni versi, espressiva di quel desiderio collettivo che anima la comunità. In questa prima fase diventa importante attivare una sorta di «tavolo di politica di animazione», cioè un gruppo di sostegno sociale, politico e culturale del progetto, costituito attraverso l’invito a parteciparvi rivolto a un certo numero di persone interessate e sufficientemente rappresentative dei diversi ambiti associativi e politici della comunità, capaci di condividere l’idea che l’animazione deve rimanere un percorso autonomo, sottratto a ogni strumentalizzazione di parte, pur sapendo che avviare un progetto di animazione è un gesto forte nella politica locale. Comprensibilmente è un tavolo a geometria variabile, nel senso che si allarga e si stringe, a seconda dell’evolversi del progetto, ma soprattutto per garantire nel tempo continuità e ricambio fra i partecipanti. Consapevole dell’autonomia del percorso di animazione, il tavolo di sostegno politico elabora e rielabora il senso del progetto, man mano che questo si evolve, con un confronto critico e costruttivo rispetto agli ostacoli che incontra, soprattutto quando metterà in discussione poteri già consolidati e punti di vista di culture dominanti. Nel rispetto dell’autonomia del percorso di animazione, il «tavolo» ricerca con i gruppi giovanili un confronto sulla base dei problemi e delle sfide in cui ci si trova

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tutti coinvolti, in modo che i giovani possano sentire di avere una sponda autorevole e disinteressata con cui fare il punto su problemi, valutare esperienze, far emergere contraddizioni, maturare alleanze non compiacenti, programmare con competenza.

SECONDA FASE: DAL LAVORO DI GRUPPO AL RETICOLO FRA GRUPPI Una volta firmato — per lo meno simbolicamente — una sorta di contratto sociale di animazione, capace di dare senso al progetto e di indicarne le grandi finalità e strategie, si entra in una seconda fase, quella che porta all’attivazione di uno o più gruppi di adolescenti e all’attivazione di interazioni fra i diversi gruppi. Di conseguenza, se nella prima fase, mentre comincia a immergersi nel mondo giovanile, l’animatore esprime la sua competenza nel sapersi muovere all’interno della comunità locale nelle sue diverse espressioni, ora è chiamato a esprimere la sua competenza nell’esplorare i diversi gruppi giovanili e nel sostenerli nel loro autonomo sviluppo. Comprensibilmente dovrà dedicarsi più da vicino all’attivazione, preferibilmente con l’aiuto di animatori volontari espressivi delle risorse spesso inesplorate della comunità, di uno o più piccoli gruppi di adolescenti, aiutandoli a evolversi lungo le fasi delineate nell’articolo precedente. Un animatore pertanto che sia esperto della conduzione di un piccolo gruppo — e su questo verrà anzitutto valutato il suo lavoro da parte della comunità locale —, ma che sia anche esperto dell’interazione fra i diversi gruppi.

Una cittadinanza per tutti i gruppi I diversi gruppi vanno accompagnati nel loro autonomo sviluppo, in quanto ognuno è portatore di stimoli, messaggi culturali, modalità attraverso cui affrontare i problemi. Non tocca all’animatore valutare le diverse culture, ma piuttosto riconoscere la loro cittadinanza e sollecitarle a interagire con le altre culture giovanili e con l’ambiente, sapendo che l’incontro fra culture — anche se venato di conflittualità — porta al loro arricchimento. L’attenzione allo sviluppo di una pluralità di gruppi permette di cogliere maggiormente lo sfondo culturale dell’animazione, in particolare nella difesa del diritto di ogni cultura giovanile a evolversi e — ancora di più — a incontrarsi e contaminarsi con altre culture. In altre parole, partendo dal presupposto che le culture chiuse in se stesse o emarginate nel proprio ambiente (o entrambe le cose) rischiano di evolversi come culture tribali, rigide, incapaci di fare i conti con la complessità e incapaci di apprendere, l’animazione in una comunità locale evita di chiudersi in un unico giro di adolescenti. Tanto più che non è detto che quel giro sia significativo per gli altri. Se dunque l’animazione per forza di cose è impegnata a creare un qualche gruppo, è anche attenta a verificare che la cultura di quel gruppo sia rappresentativa per gli altri giovani, e a diventare il luogo in cui possono incontrarsi, con alterne vicende, più gruppi. Anche in questo l’animazione è un laboratorio della comunità, nella sua volontà, non sempre esplicitata, di riconoscere le culture periferiche e non emarginarle, fino a

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proporre loro di interagire e dunque di muoversi verso il centro, sapendo che in questo modo esse accettano di contaminarsi e, in tal modo, di evolversi.

Un tavolo di coprogettazione tra gruppi Diventa importante, in questa fase, l’attivazione di un luogo di incontro e di coprogettazione tra i gruppi giovanili, almeno fra quelli desiderosi di muoversi con un doppio movimento: verso il centro e verso la periferia. Verso il centro, in quanto sentono il bisogno di ritrovarsi e ascoltarsi, discutere e protestare, progettare e agire insieme, avere un volto nella comunità e sperimentare successo al suo interno. Verso la periferia, in quanto sentono anche il bisogno di salvaguardare la loro autonomia e il loro piccolo mondo culturale che, in effetti, interagendo con gli altri ritorna nella sua «riserva» con un diverso bagaglio culturale, sociale e politico. Questo tavolo fra gruppi, non meno che il tavolo della politica dell’animazione delineato nella fase precedente, avrà delle configurazioni molto variabili, mai definite una volta per sempre, e modalità operative che potranno essere delineate solo con i gruppi che, lungo l’evolversi della piccola storia locale dell’animazione, entreranno e usciranno, si sentiranno rappresentati o meno dal tavolo, nel continuo andirivieni tra centro e periferia. Lavorare sul reticolo dei gruppi facendo crescere un tavolo dove i giovani possano discutere, programmare, attivarsi sul territorio, ribadisce l’idea di sviluppo della comunità locale alla base dell’animazione, vista non come sovrapposizione totale dei significati e, di conseguenza, come intreccio di legami forti e di forti interdipendenze, ma come un organismo che cresce allargando le intersezioni, rispettando — a volte dolorosamente e non senza conflitti — le aree di diversificazione e quindi i legami e le appartenenze deboli. Creare le condizioni per cui i gruppi si sperimentino come reticolo a legami deboli permette loro di sentirsi stimolati, ma anche rispettati nell’evolversi con un proprio passo. In questo modo è possibile tener ferma la scommessa che il gruppo è un’esperienza decisiva nell’adolescenza, in quanto è il luogo in cui elaborare i temi generatori, ma senza pretendere di uniformare i giri giovanili a un unico modello di gruppo. Così facendo, l’animazione offre a tutto il «reticolo» dei giri giovanili la possibilità di sperimentare legami innovativi nel partecipare a un’impresa sociale in cui tutti sono protagonisti e in cui si può arrivare alla scoperta che giovani si diventa «inventando un paese», un paese e una comunità diversi da quelli del passato. Da ultimo va aggiunto che questo movimento tra centro e periferia, tra progettualità comune e percorsi diversificati facilita l’emergere di leadership giovanili significative, capaci di azione costruttiva all’interno dei gruppi e dei reticoli e, forse, anche di ricambio politico nella comunità.

Un movimento di animatori, garanzia di apertura Difficilmente c’è animazione in una comunità se in questa fase non si crea un locale movimento di animatori sia professionisti che volontari. A parte il fatto che un’alleanza tra animatori permette di fronteggiare meglio le fatiche nell’attivare il protagonismo degli adolescenti (fatiche che nascono da diffidenze — se non da

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gelosie e conflitti — tra associazioni tese a rafforzare se stesse, pensando che da questo dipenda il futuro della comunità), l’importanza della partnership tra animatori sta nel fatto che i gruppi giovanili sentono di poter contare su un certo numero di persone interessate al bene comune dei giovani e della comunità, in quanto con loro è possibile stabilire un clima di dialogo, dove non prevale la tolleranza passiva o il gioco al ribasso, ma il rilancio critico e appassionato rispetto alle comuni responsabilità. È decisivo che nella cultura professionale dell’animatore del progetto sia chiaro un disegno di socialità in cui professionisti e cittadini volontari si ritrovano dalla stessa parte, alleati rispetto a un compito comune, con competenze diverse da valorizzare e integrare. L’animatore, ancora una volta, sa che una sua funzione professionale è stimolare la comunità a generare risorse per far fronte alle sfide che incontra. Del resto l’animazione non prevede un aumento esponenziale degli animatori professionisti, ma la valorizzazione degli animatori volontari. Il confronto tra professionisti e volontari è di stimolo per entrambi, in quanto così possono contaminarsi culture sociali differenti, motivazioni e storie di vita diverse, superando i pregiudizi dei volontari, che non credono che l’animazione possa essere una professione, e i pregiudizi dei professionisti, che spesso non accettano che tra i volontari ci siano animatori competenti. In questa direzione l’animatore del progetto, più che cercare contatti troppo diretti con i diversi giri giovanili organizzati, valorizza gli altri animatori e sostiene quanti intendono attivare nuovi gruppi a livello sportivo, ricreativo, religioso, culturale. Creare una rete di animatori, perlopiù cercando di facilitare l’ingresso di altri, moltiplica le risorse, in quanto saranno gli animatori a sostenere i giovani e il tavolo di coprogettazione, nel tentativo di buttare giù gli steccati, interagire, inventare iniziative comuni. Tocca a questo reticolo di animatori, mentre facilita nei gruppi il senso di appartenenza alla comunità locale, aiutarli a sporgersi progressivamente verso l’esterno, alla ricerca di stimoli in grado di aiutare gli adolescenti a maturare nuovi punti di vista per valutare — criticamente e costruttivamente — anche la propria comunità. Questa alleanza permette poi che i diversi gruppi di adolescenti non si chiudano al loro interno e non si distinguano troppo tra loro, ma si aprano a nuovi interessi e funzioni dentro la comunità. Il rischio è che, diversamente, si arrivi a un pericoloso etichettamento fra gruppi, impedendo loro di evolversi (così come l’etichettamento di una persona finisce per farla cadere nel principio della profezia che si autoavvera). Ma non è solo la chiusura a preoccupare; preoccupa di più il fatto che l’eccesso di distinzione, etichettamento e fronteggiamento tra gruppi impedisce l’aprirsi a interessi nuovi, a nuovi modi di agire, a una partecipazione diversa alla vita della comunità. E impedisce ai singoli di passare da un gruppo a un altro per rispondere a nuove domande ed esigenze soggettive. E così, per fare un esempio, alla scelta del volontariato gli adolescenti possono arrivare da percorsi personali e di gruppo molto diversi, ma a patto che gli steccati tra i diversi giri siano continuamente abbattuti con la mediazione degli animatori e che intorno allo stesso compito riescano ad allearsi

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uno o più gruppi. Altrimenti il volontariato diverrà terreno privato di una minoranza, impedendo ad altri di avvicinarsi e assestarsi in uno dei luoghi principi del rigenerarsi di una comunità (perché una comunità che non alimenti il volontariato porta in se stessa segni di morte).

TERZA FASE: DALLA CENTRATURA SU AZIONI PROGETTUALI ALLA CRESCITA DEL SENSO DI POTERE Man mano che rinasce un clima di fiducia tra giri di adolescenti e fra questi e una certa parte del mondo adulto, diventa possibile sia a livello di gruppo che di intergruppo concentrarsi sul «compito», sul fare. In effetti man mano che la fiducia aumenta, attraverso percorsi di «crisi» che portano all’accoglienza degli altri nella loro diversità, si formano spazi in cui possono emergere significati che invece un’interazione superficiale non avrebbe fatto nascere. Si può entrare in un’ottica di progettazione che chiede a diversi attori di interagire, dialogare senza paura delle diversità, programmare e agire, consapevoli che il successo di tutti è il successo di ognuno.

La produzione di beni comuni È il momento in cui si cominciano a progettare e realizzare le prime iniziative, le prime azioni a livello di gruppo e soprattutto — per quel che interessa in questo percorso — di intergruppo. Particolare importanza viene ad avere il successo di iniziative in cui possono riconoscersi un certo numero di gruppi — in quanto sono state individuate, decise, organizzate, gestite con la partecipazione di tutti e in cui si è potuta esprimere la scelta di produrre un qualche «bene comune». In realtà, è al livello del reticolo dei gruppi e della loro iniziativa che gli adolescenti possono percepire cosa sia uscire da una logica privatistica per entrare in una logica di produzione di beni comuni, di beni pubblici, in quanto sono di tutti e di nessuno in particolare e in quanto sono costruiti da un organismo di ordine superiore al singolo, alla coppia e allo stesso gruppo omogeneo, per dare spazio alla partnership fra diversi. Si incomincia ad afferrare come la vita umana possa mettere in gioco delle passioni non più individualistiche e neppure soltanto tribali, e dunque di parte, ma passioni sociali, tese a generare e rigenerare tessuto sociale e tese a far sì che il nuovo organismo — formato dall’interazione tra gruppi perlopiù in connessione con altri gruppi sociali — sia generativo. Non si deve tuttavia avere un’idea troppo forte dei beni comuni e della loro produzione. Al centro del bene comune non c’è un’attività piuttosto che un’altra. Se è bene comune dar vita a un volontariato giovanile con i portatori di handicap, lo è anche organizzare una festa dei giovani in cui i diversi gruppi accettano di sedersi attorno a un tavolo, ragionano sul senso dell’iniziativa, accettano la sfida del produrla insieme, senza delegarla ai professionisti o allo stesso animatore. La produzione di un bene comune è legata al processo — all’intrapresa sociale — più che all’attività o anche al «successo» dell’attività.

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Il sostegno alle iniziative periferiche La ritrovata progettualità in una logica di animazione, mentre stimola iniziative che portano i singoli e i gruppi a una sorta di centro, sostiene il moltiplicarsi e il successo di iniziative autonome, a volte periferiche, in cui possa esprimersi il protagonismo di tutti i gruppi, da quelli con una lunga storia alle spalle a quelli allo stato nascente e forse periferici anche rispetto al movimento creato dall’animazione. Se le iniziative portate avanti dai gruppi che più da vicino si ritrovano nel percorso di animazione hanno un forte impatto simbolico come rottura dei vecchi schemi di indifferenza giovanile, di accentuato e geloso tribalismo, di passività di fronte a iniziative decise e organizzate dall’alto, il sostegno trasparente e critico a iniziative autonome — e forse discordanti — ribadisce che non ci si vuole sostituire ai gruppi esistenti, in particolare alle associazioni, ma si intende potenziare tutti i gruppi, permettendo loro di sentirsi partecipi di un movimento articolato che pone al centro il protagonismo degli adolescenti nella comunità e l’attivazione, anche a livello di singoli gruppi, di iniziative che mirano a produrre un qualche bene comune aperto a tutti i giovani e all’intera comunità. In fondo la comunità giovanile cresce se da più parti cresce la cultura del produrre beni comuni, capaci non solo di offrire a tutti i giovani un servizio o una prestazione, ma di tessere legami sociali o consolidarli, accrescendo il senso di appartenenza, di avventura comune, proprio mentre ogni gruppo difende la propria autonomia.

L’esercizio democratico del potere L’incremento delle iniziative porta a una diversa percezione del potere in gioco dentro i gruppi e dentro la comunità, dove per potere si intende la forza che è in grado di imprimere una svolta agli eventi, quelle decisioni che canalizzano le energie, per lo più impegnando individui e gruppi a perseguire insieme l’azione prescelta. Fare i conti con il potere è possibile solo dove si siano sviluppate interazioni autentiche a livello di intergruppo. Il potere nasce nel momento in cui i legami affettivi nel gruppo e nell’intergruppo producono quel bene sociale che è il «senso del noi», un senso che è capace di dare significato alla vita dei singoli e a cui, pertanto, non è facile rinunciare. Al punto che si è disposti a pagare un prezzo affinché quel bene non vada perduto. Lo stesso può dirsi del bene sociale che il gruppo sperimenta nel momento in cui mette in atto un’impresa collettiva in cui tutti sono partecipi. A quel punto essa diventa un bene irrinunciabile. In questa direzione l’animazione porta a far nascere il potere e a esercitarlo in modo democratico per produrre insieme dei beni pubblici e per produrre insieme delle istituzioni, cioè delle regole che permettano a un insieme di persone di coalizzarsi per produrre tali beni. Il potere, d’altra parte — proprio in quanto tende a generare istituzioni —, chiede istituzioni in cui potersi esercitare. Fuori dal gioco di parole, l’animazione tende a generare istituzioni locali in cui gli adolescenti possano esercitare del potere, tanto più che è solo esercitando del potere democraticamente che i gruppi sono disponibili non solo a spendersi, ma anche ad apprendere e cambiare. In altre parole, il gestire del potere genera disponibilità ad apprendere e a cambiare. Ovviamente il processo di

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entrata nel potere può avvenire non solo generando ex novo istituzioni, ma anche inserendosi da protagonisti dentro istituzioni, a condizione che siano in parte plasmabili dagli adolescenti proprio mentre offrono la naturale resistenza al cambiamento tipica di ogni istituzione. In ogni caso l’animazione tende a far sì che persone e gruppi apprendano a costruirsi animando istituzioni.

QUARTA FASE: DAL PROTAGONISMO GIOVANILE A UNA DIVERSA CULTURA DI COMUNITÀ La fase successiva dell’animazione è quella in cui la comunità apprende dal percorso degli adolescenti, attraverso una rielaborazione culturale delle esperienze e del loro potenziale innovativo — in modo da dare dignità culturale al percorso — e in vista di una ripresa di discussione pubblica intorno ai temi cruciali della cittadinanza, dei diritti e della qualità di vita, delle politiche che devono orientare il futuro della comunità. Così facendo, il percorso si connette al suo punto di partenza: la progettualità sociale, la quale ora può alimentarsi a quel percorso che ha generato. In questa fase la funzione di animazione ritrova una delle sue «anime», quella del far cultura e del produrre cambiamento nella comunità facendo cultura, a partire dalle iniziative e, più in generale, dal protagonismo delle nuove generazioni. Fino, come vedremo, a fare del percorso di animazione lo stimolo che permette alle nuove generazioni di attivare al loro interno una discussione profonda, sempre più competente e appassionata, sulla qualità della cittadinanza, e di attivare uno o più laboratori di cittadinanza per la comunità locale, in cui i giovani possano inserirsi da protagonisti. A sua volta l’animatore può esprimere la sua competenza sostenendo la comunità nell’attivare un processo di apprendimento in cui le intuizioni generatrici della comunità possano incontrarsi con quel che l’esperienza dei giovani ha fatto toccare con mano, fino al punto in cui i diversi attori sociali riescono a ritrovare una passione di comunità e dunque di appartenenza, discussione critica, scelta di produrre beni di comunità, cura appassionata delle istituzioni locali come beni irrinunciabili e non strumentalizzabili da nessuno. Come si intuisce, non si tratta per l’animatore di saper vendere, ricorrendo alle migliori tecniche di marketing, il proprio operato con i giovani, ma di attivare un percorso che porta gli adulti a rielaborare il senso del «fare paese» o del fare comunità e a narrarsi in modo diverso, dando spazio a quel desiderio collettivo che era emerso nella scelta preliminare di investire sulle nuove generazioni come modo originale di diventare o rinascere comunità.

La produzione di una cultura della cittadinanza Sono i giovani a essere chiamati a fare cultura a partire dalle loro esperienze. Fare cultura vuol dire anzitutto generare miti e racconti mitici collettivi — in cui l’intera comunità sia coinvolta in modo che possa farli diventare suoi — in cui viene ripensata l’esperienza maturata non tanto attraverso resoconti freddi, linguaggi amministrativi burocratici o anche giornalistici, ma in forma di racconti che scaldano il cuore e generano passione, in quanto svolti a quei crocevia dove possono

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incontrarsi i temi generatori (intorno ai quali si dibatte l’«essere cercanti» degli adolescenti) e le scoperte fatte nelle diverse iniziative di animazione. L’esperienza fatta la si vuole comunicare in modo seduttivo alla comunità, perché la rigeneri. Quel che spesso rimane del percorso è un insieme di racconti mitizzati, comprensibilmente centrati più sull’esaltazione che non sul resoconto delle difficoltà. In questo modo l’animazione alimenta i miti intorno a cui ogni comunità è costituita (miti che la portano a essere «questa comunità» e non un’altra), consapevole anche del fatto che essi hanno la capacità di scatenare una loro forza generatrice di scoperte e passioni ogni volta che qualcuno nel tempo vi entra in contatto. A partire dalle iniziative e dal loro intreccio come dal ritrovarsi fra giri giovanili diversi, stimolati dal confronto con i messaggi provocatori provenienti da fuori della comunità, i gruppi giovanili fanno cultura se hanno il coraggio di fermarsi, rielaborare, rilanciare domande intrise di esperienza, intrecciare significati, mettere a nudo contraddizioni, discutere senza paura di allargarsi a un ridisegno della società, aprirsi a testi significativi non meno che a testimoni viventi. Le modalità organizzative possono essere variegate, ma in comune hanno la percezione che tale rielaborazione è un passo decisivo rispetto al proprio insopprimibile bisogno di esseri cercanti. Particolare importanza viene ad avere la capacità di alternare chiusure autopoietiche, in cui possono accadere invenzioni e scoperte inedite, e apertura all’ambiente circostante dove circolano messaggi. In altre parole, l’orientamento sociale, culturale e politico degli adolescenti in questa fase del percorso tende a esplorare i mondi culturali vicini e lontani, per aprirsi a nuove culture e nuovi modelli di sviluppo capaci di offrire ulteriori punti di vista — in sintonia o anche in dissonanza rispetto a quelli scoperti e condivisi nell’animazione. In questo ambito, la capacità di connettersi ai diversi «santuari della cittadinanza» è essenziale: tocca quindi all’animatore, collegandosi con intelligenza alla leadership culturale della comunità, mettere in contatto con mondi altri che offrano provocazioni che rilanciano una ricerca già iniziata. È a questo livello che l’animazione svela quel processo ermeneutico che la porta a valorizzare le intuizioni degli adolescenti, ma le ritiene non sufficienti per dar vita a un discorso sociale e culturale di forte respiro, se queste non vengono a incontrarsi, contaminarsi, fecondarsi, riformularsi, provocate e alimentate da stimoli culturali provenienti dal pensiero dell’umanità.

L’appropriazione da parte della comunità Le rielaborazioni degli adolescenti — a loro volta — vanno assunte e riformulate all’interno della comunità locale. È un passaggio a cui l’animazione attribuisce cruciale importanza: il «successo» dell’animazione va valorizzato e visto come successo della comunità. Da parte sua la comunità deve trovare spazi e tempi in cui attribuire significato alle esperienze degli adolescenti, in modo che esse entrino nel suo patrimonio culturale. Ma una comunità è disposta ad apprendere se il percorso di animazione, fin dal suo inizio, si è presentato come espressione se non di tutta, almeno di una parte

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significativa della comunità. Se l’animazione è stata fin dall’inizio — o è diventata — espressione di un’iniziativa privatistica, gestita gelosamente da un certo giro culturale e sociale contro altri giri, è certamente difficile per la comunità trovarvi uno stimolo per ripensarsi lasciandosi provocare dagli esperimenti delle nuove generazioni. Una comunità è disposta ad apprendere, in secondo luogo, se i racconti dell’animazione non si limitano a confermare la cultura già esistente e le sue pratiche e dunque i modi di vivere della comunità, perché in questo caso non ci sarebbe nulla da apprendere. Forse la comunità potrebbe sentire i racconti dell’animazione come suoi, ma questo non è foriero di nuovi mondi possibili. In fondo la comunità continuerebbe a muoversi secondo le regole già elaborate e un cambiamento entro le regole è solo un cambiamento apparente. Allo stesso modo la comunità non apprende se i racconti dell’animazione sono portatori di una sorta di controcultura, estranea alla sua storia e alla sua avventura nel tempo. Quando infatti l’animazione si pone come controcultura, dopo qualche probabile successo dovuto alla novità dell’iniziativa, viene emarginata. Al massimo rimane un angolo di controcultura chiuso in se stesso. Invece una comunità trova terreno fecondo per apprendere se nei racconti dell’animazione trova elementi che da una parte confermano la sua cultura distintiva di comunità, ma dall’altra la sollecitano a contaminare i suoi valori profondi con i nuovi valori messi in gioco dall’animazione, in modo che la nuova sintesi alimenti nuovi grappoli di idee, nuovi progetti, nuova imprenditorialità sociale e culturale. Più da vicino, la comunità è disposta ad apprendere se ha al suo interno dei «laboratori di cittadinanza», ovvero luoghi di ricomposizione di elementi che si radicano nella sua storia — e che oggi vengono a riformularsi a contatto con nuove sfide —, di elementi esterni alla comunità capaci di provocarla e metterla in discussione, di riflessioni offerte dal mondo dei giovani. Di conseguenza, la comunità apprende se al suo interno è viva la curiosità, la ricerca, il dibattito, l’imprenditività sociale. L’animazione sollecita i diversi laboratori di cittadinanza alla discussione pubblica di quel che è una comunità locale in una logica di dono e di cura, di quel che è una cittadinanza che pone al centro la fatica delle fasce più deboli, di quel che è un modello di sviluppo sociale in cui al centro rischia di stare il solo criterio economicistico, di quel che è una qualità di vita in cui i singoli e i gruppi possono alimentare il loro essere alla ricerca e quindi capaci di immaginare nuovi mondi possibili.

L’innesco di un nuovo circolo virtuoso C’è una fase successiva del percorso ed è quella che — nel volgere di pochi anni — porta l’animazione ad avere il fiato corto, e non per sterilità di idee o intuizioni, ma perché mentre chi fa l’animazione tende a ripetere i suoi percorsi — all’interno di un circolo virtuoso in cui si incrementa ciò che ha avuto fino a quel momento successo —, facilmente una nuova generazione di adolescenti si è dislocata diversamente in termini culturali rispetto a quella precedente, assestandosi su nuovi territori, nuove

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pratiche, nuovi temi generatori. A questo punto il circolo da virtuoso diventa vizioso, marginale rispetto al corso degli eventi. Di conseguenza, l’animazione, senza perdere il patrimonio che ha accumulato, è chiamata a uscire dal circolo vizioso che la porta a reiterare il passato per inoltrarsi virtuosamente in quei terreni inesplorati dove, a partire da un ascolto di nuovi temi e da una profonda empatia con le «nuove» generazioni, si cerca di arrivare a un patto di animazione, arricchito dal di dentro per i significati che cerca di intrecciare. È questa un’operazione indubbiamente complessa, difficile, a cui però l’animazione non può sottrarsi se vuole garantire una continuità progettuale tra generazioni, senza vedere nuovamente vuoti i «luoghi» dell’animazione, in attesa di riprendere da capo il cammino con nuovi adolescenti. Inizia un nuovo ciclo, un nuovo percorso. Ancora una volta, la nuova avventura non potrà essere solo l’avventura di uno o più animatori, ma di una comunità che si rigenera investendo sui giovani. Tocca all’animatore però ripensare il suo viaggio da esploratore culturale muovendosi tra la cultura o le culture dei nuovi giovani, la cultura dei decisori pubblici, quella espressa dalla leadership sociale e culturale della comunità, sapendo di avere un patrimonio capace di alimentare un nuovo patto che sappia lasciarsi contaminare da nuovi stimoli, lasciando nella penombra un passato forte e glorioso. Con la speranza che si riesca ad arrivare a un nuovo contratto di animazione con i giovani, frutto ancora una volta di un clima di fiducia reciproca e di alcuni significati che si intersecano, disponibili a rispettare la libertà di ognuno e a decidere passo dopo passo il verso dove andare. L’augurio è che il percorso di animazione abbia generato degli animatori, in particolare dei giovani animatori volontari, che sappiano a loro volta accettare con passione, ricchi dell’esperienza maturata, di fare un pezzo di strada con i nuovi adolescenti. Da sempre infatti l’animazione ha scommesso sui giovani come animatori degli adolescenti.

IL LAVORO IN RETE di Michele Gagliardo Parlare di lavoro di rete è parziale e riduttivo, in quanto non si tratta solamente di una modalità operativa, di un modo di lavorare; fondamentalmente la rete è una mentalità, un modo di pensare per meglio comprendere la pratica del lavoro sociale, la realtà con cui si viene in contatto. È un modo di pensare che nasce dalla continua riflessione sulla sofferenza e sul disagio che la quotidianità operativa ci impone, è quindi un intreccio che consente di far interagire pensiero e azione in un continuo costruirsi reciproco. Riflettere sulla realtà che quotidianamente incontriamo assumendo una mentalità di rete significa utilizzare approcci sostanzialmente di tipo qualitativo, che ci permettono di: . assumere una pluralità di punti di vista; . cogliere quanto di unico e originale vivono i soggetti. È’ una mentalità attraverso la quale siamo chiamati a connettere, a collegare, superando, così, alcune contrapposizioni che hanno caratterizzato lo scenario del

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lavoro sociale, ad esempio tra pubblico e privato, tra formale e informale, tra professionisti e volontariato, tra operatori e utenti. Ma in modo particolare sono due le separazioni che, sulla base di quanto detto in precedenza, connotano il lavoro di rete come esperienza di connessione. Il superamento della ripartizione presente nel lavoro, tra lavoro individuale, di gruppo, di comunità. Essendo un approccio integrato si posiziona simultaneamente su tutti e tre i livelli, superando la spaccatura tra «parte e tutto». Non si considerano gli individui da un lato e la comunità dall’altro come oggetti da modificare, ma come elementi interdipendenti del sistema sociale, in una relazione nella quale il modificarsi dell’uno consente il modificarsi dell’altro. Il superamento di una troppo netta differenza tra cura (assistenza, riabilitazione) e sviluppo (prevenzione, promozione). Si può fare prevenzione anche attraverso la cura (effetti indiretti). Utilizzando l’approccio di rete, il disagio attraverso cui si esprime la fatica di vivere delle persone, viene letto come sintomo, come indicatore di quanto avviene nella società più allargata; per cui queste manifestazioni non vengono considerate come entità a sé stanti, espressione di problemi personali, disadattamento individuale, disfunzione esclusivamente familiare, ma come segno di una crisi più ampia che riguarda l’adattamento delle persone nei confronti degli altri, dell’ambiente, crisi di senso e di rapporti. Utilizzando un approccio di rete e quindi considerando l’individuo nel suo ambiente e considerando l’ambiente stesso, si possono cogliere altri modelli di comportamento, altre soluzioni, ricche di significato per persone e contesti. Disporsi in una «dimensione mentale a rete» permette di: descrivere e far descrivere; leggere e far leggere; agire e far agire una parte della realtà relazionale. I servizi divengono capaci di nuove letture dei problemi e delle possibilità di intervento; superano quella tensione all’autoconservazione che spesso connota le «grandi istituzioni» rendendole statiche e ripetitive, capaci solo di ratificare il cambiamento già avvenuto, trasformandosi in promotrici, capaci di favorire e accompagnare lo slancio verso l’innovazione dinamica e il cambiamento. Diviene allora fondamentale ricercare «ciò che un individuo indica e vive come significativo, rispetto alle persone che incontra oggi e nella sua storia, che hanno dato un senso a una lettura di sé nel tempo e nello spazio». Introducendo elementi quali il tempo, lo spazio, i significati, comprendiamo immediatamente quanto, nel lavoro di rete, sia alto il grado di soggettività (rappresentazione) e come la rete non sia una struttura statica, immutabile, definita una volta per sempre, ma un organismo vivente che muta nel tempo. Quindi è indispensabile cogliere gli individui nella dinamicità della relazione con gli altri e con il contesto; in quanto è proprio all’interno di questa relazione che si costruiscono le rappresentazioni e le immagini di sé, degli altri e del contesto. Azzardando, sulla base di questi presupposti, una definizione di rete potremmo affermare che: «La rete è un modo per definire il dare significato (alle relazioni, alle

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persone, ai contesti) e il ricevere significato (dalle relazioni, dalle persone, dai contesti) di un individuo, di un gruppo e del loro ambiente». Relazioni, persone, contesti non possono essere dimenticati; non sono semplici clienti da soddisfare nei servizi e con servizi sempre nuovi, ma protagonisti fondamentali dell’intervento sociale, in mancanza dei quali non è possibile immaginare letture o progettualità reali e realizzabili: quindi utilizzare un approccio a rete significa anche arginare la proliferazione dei servizi a cui da anni stiamo assistendo per sostituirla gradualmente, dove è possibile, con strategie di pensiero e di azione che prevedano una maggiore partecipazione dei soggetti che vivono i territori sui quali si svolge la nostra azione. In questa prospettiva è facile intuire come due elementi fondamentali del nostro lavoro debbano cambiare radicalmente: progettazione e valutazione devono assumere una dimensione dialogica, contestualizzata e maggiormente attenta alla dinamicità delle relazioni e dei contesti.

Le pratiche del lavoro di rete Nella nostra realtà italiana sono presenti alcune pratiche relative al lavoro sociale di rete: qui di seguito faremo una ricognizione di questi orientamenti metodologici, configurando quattro modelli di lavoro.

Lavoro di rete a indirizzo terapeutico Conosciuto anche come «terapia di rete», considera la rete di un individuo come una realtà «curabile» e «curante»; la rete non è quindi l’oggetto di lavoro dell’operatore, ma il soggetto capace di generare risposte adeguate alle fatiche dei suoi componenti. La terapia di rete pone la sua attenzione al livello delle interazioni e delle relazioni: grazie agli scambi di tipo informativo, materiale, affettivo, che avvengono all’interno della rete tra i diversi componenti, si producono nuovi scambi che danno vita all’esperienza del senso di affiliazione e di appartenenza empatica, attenta ai vissuti, alle rappresentazioni, ai significati, agli affetti, a tutto quanto costruisce la «cultura della rete» che incide sia sul pensiero, sia sul parlare, sia sull’agire collettivo. L’operatore con il suo intervento produce e fa accadere eventi significativi per far vivere la rete, per farle recuperare i legami iniziali, rendendola struttura visibile e vitale (ripristinando le sue funzioni), capace di assumere collettivamente il sintomo, accrescendo la sua consapevolezza rispetto alla possibilità di risolvere con energie proprie nuovi problemi.

Lavoro di rete come disegno organizzativo Conosciuto anche come «lavoro di territorio». Le realtà presenti sul territorio si configurano, quando organizzate, come risorse per il contesto e l’ambiente nel quale sono collocate. Per realtà sono da intendersi sia i servizi istituzionali pubblici e privati, che la rete di rapporti, i gruppi e le aggregazioni naturali. Ovviamente l’attività dell’operatore è focalizzata sulla dimensione organizzativa, attraverso una funzione di ordinatore: egli orienta e connette i soggetti della rete.

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Lavoro di rete come intervento di comunità Conosciuto anche come community care o social networking. L’ambiente biologico è correlato a quello fisico, mettendo in relazione il benessere fisico (persone) con quello biologico (ambiente). Il soggetto del lavoro di rete diviene evidentemente la comunità locale che si fa carico, a partire da una situazione individuale o di gruppo, di attivare strategie e risorse interne di soluzione. Oltre al singolo individuo e al suo problema esiste anche la comunità, intesa come rete significativa di relazioni. Con l’allentamento dei legami comunitari e il depotenziamento della solidarietà naturale siamo in presenza di una società sempre meno attraversata da sentimento comune: ma se non esiste la comunità, esistono sicuramente «le comunità», come luoghi e aggregati di empatia più circoscritti; quindi come operatori siamo chiamati a individuare quelle che sono le comunità con cui costruire percorsi di lavoro. L’operatore è un costruttore di reti, che rende possibile l’instaurarsi di legami significativi che modificano le reti, producono relazioni dotate di senso, hanno effetto sulla funzione che la rete ha sul singolo.

Lavoro di rete come rapporto tra reti primarie e secondarie Conosciuto anche come «intervento di rete». Si pone attenzione al cambiamento tra reti primarie e reti secondarie, privilegiando i rapporti «faccia a faccia» significativi nelle storie delle persone o che possono divenire tali. Si tratta quindi di lavorare affinché si possano aprire degli spazi di relazione e connessione tra i soggetti che compongono la rete primaria di un individuo o di un gruppo e i soggetti che fanno parte della rete secondaria o rete dei servizi pubblici e privati. Il livello al quale si colloca l’intervento è quello delle relazioni e della cultura della rete. L’operatore orienta e guida le relazioni, scoprendo la cultura (linguaggi) e le dinamiche della rete, aprendo spazi significativi di interazione con soggetti della rete secondaria, con la quale si attiveranno processi di messa in comune dei problemi, la loro riformulazione, facendo prendere corpo all’idea di appartenere a un sistema complesso in grado di prendersi cura delle differenti situazioni di fatica.

Le strategie nel lavoro di rete Oltre alle questioni che riguardano i modelli attraverso i quali si traduce l’approccio al lavoro di rete, è fondamentale acquisire consapevolezza relativamente alle possibili metodologie che permettono di rendere operativo il lavoro di rete e di valorizzare, nella pratica quotidiana, tutte le prassi che già applichiamo che si collocano in una prospettiva di lavoro di rete. Le strategie applicabili sono tre, vediamole brevemente. Strategie di supporto a reti esistenti Si tratta di intervenire sostenendo quelle situazioni nelle quali esistono già dei legami, delle obbligazioni affettive stabili, per rendere possibile o più probabile la continuità di queste relazioni. In questa prospettiva l’intervento è caratterizzato

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dall’introduzione di elementi esterni di supporto o dall’attivazione di agiti che consentano il miglioramento della qualità dei rapporti. Ritroviamo tre categorie di intervento: servizi per offrire periodi di «tregua» (ad esempio garantendo momenti di riposo alle famiglie che hanno al loro interno figli portatori di handicap); inserimento di volontari (per sostenere in alcune funzioni gruppi o nuclei familiari); offerta di momenti di incontro (è una modalità operativa più avanzata, che si basa sull’offerta di opportunità di incontro, scambio e formazione per le persone che si occupano delle situazioni di difficoltà).

Attivazione e coordinamento di reti a «breve periodo» per la soluzione di problemi Gran parte delle azioni degli operatori sono rivolte alla soluzione di problemi specifici: situazioni di crisi o situazioni straordinarie che investono temporaneamente una parte della vita delle persone. In queste occasioni è utile un lavoro di «regia» finalizzato alla messa in moto di risorse, in una rete pensata per la situazione specifica con figure e tecniche collegate e attivate esclusivamente per quel problema. Si tratta quindi di «tessere» attorno a un problema un reticolo di connessioni, circoscritte e provvisorie, che attivino soluzioni specifiche per quel momento e per quelle persone: quando la situazione è stata superata la rete si scioglie e ciascuno torna al proprio posto.

Attivazione di reti stabili a lungo periodo Ci sono altri problemi sociali che necessitano di reti più complesse, più stabili e ampie nel tempo. Sono reti che si strutturano tra formale e informale, come ad esempio i gruppi di auto-aiuto; i gruppi composti da utenti e loro familiari; come reti istituzionali più complesse quali i coordinamenti territoriali. Sono strutture necessarie quando il problema è contemporaneamente quello di cogliere i propri comportamenti, il bisogno di rielaborazione di se stessi, o di ricostruire un proprio stile di vita. Queste reti sono allo stesso momento, da un lato, «indifferenziate», cioè generalizzate e adatte a una classe di problemi omogenei (tossicodipendenza, alcolismo, ecc.); dall’altro devono essere in grado di attivare risposte a livello personale, entrando in sintonia con i bisogni individuali.

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LEZIONE 2 Gli orientamenti culturali e metodologici sulla prevenzione alle dipendenze di Michele Gagliardo (riflessioni prodotte e condivise in un percorso di ricerca-formazione coordinato dall’Università della Strada del Gruppo Abele a cui hanno partecipato una trentina di operatori sociali) Il lavoro di ricerca, che ha coinvolto gli operatori del Pubblico e del privato sociale delle province piemontesi aventi un ruolo di responsabilità nei progetti di prevenzione, è stato caratterizzato da una duplice attenzione: da un lato, si è cercato di fare il punto della situazione sui progetti attivati dagli enti rappresentati; dall’altro, si è tentato di costruire una mappa concettuale dei principali elementi (rispetto a contenuti, metodi, strumenti, attori) dell’intervento preventivo. Per ciò che concerne la prima dimensione, i diversi progetti presentati sono stati riletti attraverso sei categorie di analisi costruite con i corsisti. Categorie di analisi dei progetti di prevenzione Gli oggetti dell’attività preventiva. Gli oggetti che stimolano l’attivazione dei progetti sono sempre connessi a fenomeni o a eventi di carattere straordinario, al tempo stesso lontani sia dalla vita quotidiana dei cittadini sia dalla prassi operativa dei servizi. I progetti, quindi, assumono anch’essi questa caratteristica di «straordinarietà», appaiono scollegati dalla progettualità complessiva delle organizzazioni e pensati in relazione a un evento speciale che sovente appare essere il finanziamento ministeriale. I destinatari. I progetti si rivolgono a tipologie di destinatari assai eterogenee: alcuni interventi coinvolgono tutta la popolazione, altri solo la fascia degli adulti, altri interessano categorie particolari (insegnanti, giovani a rischio), altri infine definiscono con estrema precisione un target specifico (ad esempio, la fascia da zero a dodici anni). Questa alta differenziazione si pensa possa essere rappresentativa di una situazione caratterizzata da una forte diversità nel concepire l’approccio culturale e, di conseguenza, operativo alla prevenzione. Gli interventi attivati. Anche gli interventi sono estremamente variegati, a conferma della differenziazione nelle filosofie preventive dei servizi. Si possono individuare: borse lavoro, interventi nella scuola, formazione genitori, laboratori, centri giovani, Cic (Centri di Informazione e Consulenza), lavoro/animazione di strada, teatro, Informa Giovani, ludoteca, scambi internazionali, alternanza scuola/lavoro, mediazione dei conflitti, consultorio adolescenti, formazione formatori di genitori, produzione di materiale informativo. L’organizzazione nei servizi promotori. Il modello organizzativo prevalente risente ancora di un’impostazione fondata sull’autoconservazione dell’istituzione e sul ruolo determinante degli operatori: non si sono rilevate sostanziali differenze tra le organizzazioni appartenenti al privato sociale o all’Ente pubblico. L’assetto organizzativo è apparso di estrema importanza in quanto da esso traspare quella che si pensa debba essere la modalità e la qualità delle relazioni su un territorio; chi si deve occupare di che cosa; chi è competente; quali sono i soggetti che si ritengono

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possibili interlocutori per attivare processi atti a modificare e migliorare la qualità della vita nei contesti abitativi. La valutazione. Quando è presente, la valutazione appare orientata a evidenziare elementi di tipo quantitativo, attraverso l’utilizzo di strumenti tipicamente logico-razionali, numerici, anche quando i soggetti coinvolti e gli oggetti trattati rimandano a dimensioni più qualitative, come la ricerca del senso e del significato dei progetti. È quindi emersa la difficoltà connessa al costruire accordi con i soggetti politici che paiono, dalla narrazione dei partecipanti, portatori di esigenze legate alla visibilità e alla entità numerica degli interventi messi in atto. La rete attivata dal progetto. L’intervento di rete è presente in modo fondamentale nelle dichiarazioni di intenti e negli obiettivi di tutti i progetti; è una caratteristica imprescindibile in tutti gli interventi che si sono analizzati. Dal punto di vista prettamente operativo, si è rilevato che tale modalità operativa è presente esclusivamente nella forma del «lavoro organizzativo a rete» tra i servizi del pubblico e del privato coinvolti negli interventi. La rete risulta essere ricondotta a una questione che concerne il livello strutturale, tecnico del rapporto tra le organizzazioni, lasciando assolutamente non considerata tutta la dimensione del lavoro di rete come «modalità di pensiero integrato» nel lavorare nella prevenzione. Ciò che viene escluso è invece elemento fondamentale nei progetti, caratteristica che consente ai soggetti istituzionali e organizzati di prefigurarsi una gamma amplissima di clienti, di soggetti, di approcci alla lettura e all’intervento da attuare. Da queste prime considerazioni, appare visibile come la ricerca condotta abbia permesso di dare il via a una vastità di piste di riflessione e di delineare interessanti prospettive operative trattate concretamente nei moduli successivi. Tra queste, prima fra tutte, l’importanza di elaborare una strategia preventiva maggiormente attenta al lavoro con la comunità locale e finalizzata a costruire letture e descrizioni di problemi e desideri, a vedere soluzioni possibili, a offrire competenze. Elementi dell’intervento preventivo Entrando poi nel merito dei contenuti relativi alla prevenzione sono emersi alcuni elementi che possono essere di aiuto per reinterpretare una ipotesi di approccio culturale e metodologico, attenta alle caratteristiche del mondo di oggi. In primo luogo appare necessaria una attività di confronto attorno a ciò che i diversi soggetti coinvolti nel progetto pensano dei giovani: solo avendo ben chiaro da quale presupposto si parte, si riesce a definire dove e come arrivare in termini di risultati possibili. Oggi sembra essere cruciale pensare ai giovani come a una generazione di «ricercatori», di persone che si muovono, quindi, internamente a una tensione tra la ricerca e la sperimentazione, svolte attraverso l’utilizzo di molteplici linguaggi. È una ricerca che procede in un contesto caratterizzato da mancanza, contraddizioni, fatica, ma anche da possibilità e competenza. Questa prospettiva di pensiero ci permette di credere che oltre le difficoltà vissute dai giovani, è possibile e vale la pena lavorare interagendo con loro. Per fare questo è necessario attivare ampi spazi di ascolto e di

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confronto: incontrare i loro punti di vista, le loro rappresentazioni della realtà, quelli che loro definiscono problemi, quelle che sono le risorse da loro riconosciute. Fare prevenzione significa, quindi, attivare un lavoro che in prima istanza è orientato a costruire le condizioni affinché sia possibile partecipare ed essere rappresentati nei luoghi della progettazione, essere riconosciuti come competenti nei contenuti della progettazione e della lettura dei contesti e dei problemi. Una competenza che poi deve essere accompagnata fuori dalla dimensione individuale, dall’occuparsi di ciò che è specificatamente personale, per incontrare gli altri e aprirsi alla realtà esterna, al territorio, alla città più allargata, per creare piccole e grandi azioni collettive, capaci di idee e significati riconoscibili e condivisi, capaci di acquisire potere nell’interazione con gli altri interlocutori istituzionali. Solo a queste condizioni si può attivare un percorso attraverso il quale definire che cosa realmente interviene per migliorare la qualità della vita e dei rapporti nei differenti contesti territoriali; attivando percorsi di operatività possibili, condivisi e significativi per quel dato contesto; altre procedure non partecipative rischiano di sancire una forte distanza tra chi progetta, chi attua e chi è destinatario, ponendo le basi per dei risultati di scarso rilievo. La progettazione degli interventi preventivi Come prima fase del lavoro di ricerca e formazione si è cercato di identificare le caratteristiche, rintracciate dai partecipanti, della progettazione degli interventi nei quali loro stessi erano direttamente coinvolti: a questo proposito è parsa evidente una fondamentale connotazione, la «separazione» che intercorre a diversi livelli tra: chi progetta e chi esegue; chi progetta e i destinatari; il pensiero, l’ideazione e l’azione. Tutto ciò porta con sé, come conseguenza, una bassissima identificazione nei progetti da parte sia degli operatori sia dei destinatari, indebolendo notevolmente gli interventi preventivi. Questa caratteristica è strettamente legata al pensare alla progettazione come a un’attività lavorativa dotata di «assolutizzazione», cioè di un’attività nella quale il progettista può dire con sicurezza qual è il problema, quali obiettivi, quali strategie mettere in atto. È il modello progettuale della razionalità assoluta, sequenziale e rigido, caratterizzato da: ?? una separazione forte tra le parti del lavoro (ricerca, progettazione, azione e

valutazione); ?? una separazione forte tra chi progetta, chi attua e chi è destinatario; ?? un’idea di contesto chiuso, separato dal resto dell’ambiente, non passibile di

interferenze, imprevisti e modificazioni; un unico ed esatto modo di fare le cose. È comprensibile quanto questo modello progettuale molto utilizzato sia assai debole se applicato nei contesti del lavoro sociale, fortemente caratterizzato da continue modificazioni, da incertezza e frammentarietà, dalla necessità di coinvolgimento e identificazione dei soggetti nei progetti; un modello possibile solo in contesti in cui sia necessaria una alta ripetitività delle procedure per l’esigenza di rendere perfetti e sempre uguali alcuni agiti tecnico-specialistici.

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In questa direzione è emerso come alcune realtà si siano organizzate per avvicinare l’attività progettuale alle caratteristiche del contesto sociale, per assumerne la complessità e l’articolazione. Da qui sono emersi due modelli di progettazione. Un primo modello definibile «della razionalità limitata» o del «problem solving» ha assunto la complessità muovendosi nel tentativo di semplificarla, procedendo in una attività di frammentazione del problema in tanti piccoli sotto-obiettivi tra loro in sequenza. È una metodologia che riduce la complessità ma senza affrontarla: separare i problemi disarticolandoli non permette di trovare letture e soluzioni capaci di cogliere il significato complessivo che certi eventi hanno per l’interezza delle persone e dei contesti. Si ha solamente l’idea di lavorare nella complessità, ma ne affrontiamo solo alcune sue parti, operando poi un comportamento che si ritiene scorretto di non attenzione alla dimensione complessiva dei fenomeni, delle storie, delle persone. Il secondo modello progettuale attorno al quale si è ragionato fa riferimento a una dimensione dialogica, di costruzione comune: il contesto non è separabile dalle modificazioni e dalle interconnessioni con l’esterno ed è descrivibile solo attraverso un lavoro di continua costruzione tra i soggetti, singoli o organizzati, che «abitano» quel territorio. Il problema, gli obiettivi, le strategie di lavoro, gli elementi connessi alla valutazione, non vengono decisi dal solo progettista, ma sono il frutto di una costruzione comune. Solo in questo modo è possibile ottenere una maggiore identificazione dei soggetti e la definizione attenta e realistica dei problemi e delle strade risolutive. La dimensione partecipativa permette di individuare realisticamente le modificazioni capaci di migliorare significativamente la vita dei soggetti che vivono il territorio. Gli operatori esercitano una loro competenza che è orientata alla dimensione tecnico-metodologica, mentre gli altri soggetti interagiscono esercitando una competenza sui contenuti e sulle strategie. In questa direzione il gruppo ha poi lavorato tentando di identificare una serie di indicatori attraverso cui distinguere la «qualità» degli interventi di prevenzione; questi in sintesi sono: ?? la capacità di attivare domande tra i soggetti; ?? l’attivazione e la tutela di spazi di negoziazione e contrattazione tra i diversi attori

coinvolti nelle attività; ?? l’attenzione a favorire spazi di visibilità, attorno ai dati, alle domande, alle

caratteristiche, ecc.; ?? la capacità di immaginare e vedere più soluzioni possibili; ?? l’apertura dei progetti con spazi attenti ad accogliere l’imprevisto; ?? il lavorare affinché l’organizzazione nella quale si opera modifichi la sua struttura

in relazione ai soggetti e ai problemi che incontra; ?? il far interagire pensiero e azione; ?? l’attenzione ai processi attivati e attivabili e non solo ai risultati. Dopo la discussione attorno alle questioni sopra riportate, il gruppo ha sostenuto, in totale accordo, la necessità e l’attuale importanza di acquisire competenze nella

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progettazione di tipo partecipativo o dialogico, apparse come le uniche in grado di abilitare alla gestione della complessità del contesto e di favorire la crescita delle persone e l’identificazione delle stesse negli interventi.

La valutazione degli interventi preventivi Il tema della valutazione degli interventi è un tema di fondamentale importanza, riportato dagli operatori come indispensabile all’interno di ogni percorso di formazione simile al nostro. C’è una questione problematica alla base di tutta questa enfasi, ed è l’estrema genericità delle richieste dei formandi in ordine a tale parte del lavoro. Da ciò emerge che attorno alla valutazione, non solo si riscontra una bassa attenzione operativa, ma si evidenzia come questa sia accompagnata e forse originata da uno scarso investimento in termini di pensiero: sulla progettazione si fa un gran parlare, ma in effetti si riflette pochissimo. Quello che si è cercato di avviare, in queste due giornate di lavoro, è proprio uno spazio nel quale riflettere sul valutare, rintracciando le domande e i nodi che caratterizzano l’esperienza lavorativa quotidiana, oltre che individuare alcuni elementi distintivi di base della valutazione. In primo luogo il gruppo di lavoro ha evidenziato come la valutazione non può essere scollegata dalla progettazione, ma come la prima sia intrecciata alla seconda e da essa resa significativa: il modello di progettazione individuato e agito definisce il modello, gli strumenti e gli indicatori della valutazione. Non è pensabile utilizzare, ad esempio, un approccio alla progettazione di tipo direttivo e poi pensare di valutare il lavoro ricercando i parametri della partecipazione; tutto ciò è un sogno, è realisticamente impossibile. Se si utilizza un approccio dialogico, allora anche la valutazione potrà cercare di rendere evidenti questioni che hanno a che fare con la partecipazione in relazione alle sue differenti forme, strategie, contenuti e livelli. Come secondo contenuto si è affermato quanto la valutazione debba essere considerata come occasione di apprendimento dall’esperienza; la valutazione è uno strumento che deve permettere agli attori coinvolti nell’intervento di imparare dagli eventi trascorsi e attivati per muoversi nel contesto e partire da nuove consapevolezze. Valutare per apprendere, per imparare dalle cose fatte, dai vissuti provati e scambiati, permette di superare, da un lato, l’ansia e il timore spesso presenti attorno alla valutazione, legati alla rappresentazione del dover verificare se si è «fatto bene», se il progetto ha funzionato; dall’altro lato permette di pensare alla quotidianità, al proprio lavoro, alle relazioni come strumenti di conoscenza, che ci aiutano a crescere e a capire, in relazione agli obiettivi pensati, dove si è arrivati e come muoversi per avvicinarsi maggiormente a essi. Il problema non è quindi se si è raggiunto o meno l’obiettivo, ma cosa fare, rispetto a dove si è arrivati, per avvicinarsi maggiormente. Questo è ulteriormente avvalorato partendo dal presupposto che tra il pensiero e l’azione si riscontrano sempre delle differenze; la valutazione non deve «sanzionare» il non raggiungimento degli obiettivi (questo nella realtà non è possibile per il motivo detto prima), ma di dirci dove siamo e come possiamo muoverci per avvicinarci al risultato ipotizzato.

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Come terza questione si è tentato di comprendere come trattare l’oggetto dell’apprendimento valutativo. È emerso che esso non può essere «decontestualizzato», ma va riferito a una specifica realtà e avere un’utilità per le esperienze e le persone che in essa sono coinvolte. Diviene allora fondamentale definire con modalità dialogica anche gli oggetti della valutazione, ciò che dovrà essere elemento di apprendimento. A tal fine, è possibile identificare alcune «variabili-guida«, attraverso le quali operare la identificazione degli oggetti della valutazione: ?? i clienti; ?? la filosofia di intervento del servizio; ?? gli spazi di valutazione; ?? i luoghi di valutazione; ?? la struttura organizzativa del servizio. Non va dimenticato inoltre che, come in fase di progettazione, anche nella valutazione è fondamentale salvaguardare la dimensione contrattuale, ovvero la possibilità di negoziazione tra gli attori dell’intervento: la valutazione sarà così il frutto di una negoziazione tra diversi interlocutori, che porteranno descrizioni differenti della realtà e della situazione del lavoro in fase di attuazione. La prevenzione: dall’ansia del dover tentare comunque qualcosa all’incontro in una dimensione simbolica di Michele Gagliardo L’evento preventivo diviene spesso espressione delle inquietudini degli adulti circa i rischi che possono essere vissuti dai giovani, una preoccupazione che non si apre a una ricerca di senso, ma che si fonda su punti di vista già definiti e ben radicati, pre-costituiti, frutto di un pensiero che assume valenze giudicanti. In questo contesto, tutto è già conosciuto come parte di un quadro statico e immutabile, rispondente a esigenze di controllo e di conservazione dei sistemi di cambiamento e di relazione sociale. Ecco allora che, nella concretizzazione di tali pensieri, si progettano alcune tipologie di interventi preventivi: incontri esclusivamente a carattere informativo, nei quali il benessere è dato dalla conoscenza e dal possesso di informazioni e la relazione è connotata dal trasferimento delle stesse, percorsi che tematizzano varie espressioni di malessere, quali le dipendenze, il bullismo o altro, proposte destinate a gruppi o classi che vengono descritte dagli adulti come ‘particolari’ o ‘difficili’. Sono progetti che si immaginano riproponibili in differenti contesti, perché frutto della descrizione di una realtà che si pensa oggettiva e, come tali, esportabili in situazioni diverse. Spesso vengono dati in gestione a un esperto o a un leader carismatico; a figure di questo tipo vengono sovente affidate le speranze di risoluzione della situazione o del problema, in una rappresentazione quasi ‘magica’ della prevenzione. La relazione che si costruisce, in contesti preventivi come quelli appena citati, è una <relazione d’esemplarità>, come la definisce C. Bucciarelli, insostenibile in quanto presenta l’adulto nel ruolo di personaggio e non di persona, di ‘testimone privilegiato’, che ripropone esperienze, contenuti e interpretazioni valide per lui ma, proprio per questo, non riconducibili e accettabili dalla soggettività di ciascun giovane che incontra. L’adulto che diviene personaggio rende visibile un sé

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frutto di una costruzione innaturale, artificiale, non si presenta per ciò che è nella realtà, ma per come vuole essere o per come dovrebbe essere. Sempre C. Bucciarelli, approfondendo la sua riflessione, sostiene che <Adottare con gli adolescenti un atteggiamento educativo che si rifà alla relazione d’esemplarità…significa mettere in opera una concezione del mondo in cui lo scopo da raggiungere è presentato come già realizzato>: tutto è stabilito, in modo tecnico e razionale, attraverso percorsi definiti, strutture già organizzate, alle quali non resta che adattarsi o identificarsi. La quotidianità si svuota del suo valore creativo, per assumere la connotazione di luogo della riproduzione, dell’assimilazione e dell’omologazione, di spazio nel quale le persone non si ritrovano, ma si perdono, perché private dell’esperienza fondamentale del partecipare in maniera attiva e creativa al progetto del proprio futuro. Albert Einstein sosteneva che <L’immaginazione è più importante della conoscenza. Sollevare nuove questioni, discutere nuove possibilità, considerare i vecchi problemi da un nuovo punto di vista: tutto questo richiede immaginazione creativa e rappresenta un reale progresso nella scienza>. Un’indicazione geniale che permette di dare corpo all’idea di un incontro intergenerazionale che abbia la possibilità di realizzarsi prima di tutto sul piano della dimensione rappresentativa e simbolica, in un contesto in cui sperimentare la potenza generatrice del pensiero creativo, della fantasia, dell’immaginazione. Assumendo tale prospettiva, l’azione dell’interpretare lascia spazio al gesto creativo del ricercare per portare alla luce, far emergere significati, fatiche e visioni soggettive che, in una situazione dialogica, permettono di costruire proiezioni complesse del rapporto che ciascuno ha con la realtà per lui significativa e significante. Nulla è già determinato, anche se gli eventi sembrano riproporsi con strutture e organizzazioni conosciute. Si possono rintracciare, in ogni situazione, dimensioni nuove, a tutti inesplorate. E’ l’azione del ricercare, e in particolare del ricercare in luoghi e attorno a oggetti inesplorati, che favorisce l’incontro tra persone accomunate dalla passione, dalla competenza relativa a una situazione che le lega nella vita. Proprio perché in relazione alle attuali culture giovanili è difficile pensare di poter possedere chiavi di lettura e interventi definitori, la cosa che pare essere più saggia da fare è dialogare con esse; lasciare da parte l’impazienza di passare subito all’azione, del fare perché <comunque qualche cosa la si deve tentare>, ritrovandosi poi attraversati da vissuti di impotenza, incompetenza o insoddisfazione. Può essere utile concentrare l’attenzione sui processi di costruzione del modo in cui ci si rappresenta un avvenimento, per delineare nuove e possibili visioni degli eventi sociali. La non conoscenza, o meglio, il desiderio di comprendere e la consapevolezza che il progresso della conoscenza è il risultato di una concatenazione di eventi creativi relazionali, divengono coordinate fondamentali per muoversi in contesti preventivi. L’attenzione si sposta, quindi, dai risultati, dai semplici contenuti, dalla preoccupazione del raggiungimento dell’obiettivo a un continuo lavoro di elaborazione attorno ai processi attivati, ai significati scambiati, alla progettualità generata all’interno dell’agire esplorativo.

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LEZIONE 3 La relazione educativa di Michele Gagliardo Nella maggior parte dei progetti e degli interventi che hanno i giovani come interlocutori, la relazione occupa una posizione centrale, uno spazio determinante. L’aumento dei fattori di complessità, le difficoltà di lettura e comprensione da parte del mondo adulto, la percezione di perdita di contatto tra le generazioni hanno contribuito a individuare nella relazione uno degli aspetti fondamentali e peculiari degli eventi educativi e preventivi. Non in ultimo, va ricordato il graduale impoverimento dei contesti naturali di riferimento, come la famiglia o tutti quegli ambienti che contribuivano alla crescita individuale e sociale offrendo orientamenti culturali e valoriali. Il venir meno di tali condizioni ha spostato l’investimento dall’esperienza della ricerca di eventi dotati di senso evolutivo interni a luoghi altamente significativi, alla enfatizzazione della relazione. Come se si fosse perso di vista ciò che l’esperienza relazionale dovrebbe incarnare: essa è passata da strumento dell’educare a inconsapevole fine ultimo della storia degli incontri intergenerazionali. Si investe molto sul modo in cui entrare in relazione con le nuove generazioni, sulla costruzione della relazione, rischiando di lasciare in secondo piano i motivi per i quali ha senso costruire quella storie e quell’incontro. Provando a riflettere su alcuni dei progetti con adolescenti e giovani messi in opera in questi ultimi anni, si può desumere come una parte preponderante di essi venga dedicata all’osservazione, o a quella parte del lavoro che assume la denominazione di mappatura, utili alla costruzione della relazione, esprimendo poi non poche difficoltà nel governare il passaggio, che rappresenta la parte determinante dell’intervento, da queste pre-condizioni a eventi che conducano al raggiungimento delle finalità individuate. Gli educatori adulti appaiono in molte circostanze poco consapevoli di quanto la trasformazione da parte a tutto della relazione comporti una serie di complicazioni e conseguenze connesse al cosiddetto coinvolgimento, cioè alle implicazioni sul piano personale ed emotivo che una forte esposizione alla relazione porta con sé. A tal proposito si possono riscontrare alcuni atteggiamenti frequenti, risultato dei processi di difesa messi in atto dagli educatori. Da un lato, il timore di farsi prendere dagli sviluppi emotivi dell’incontro può spingere a collocarsi in una posizione di lontananza dall’oggetto della preoccupazione. Si individuano confini molto netti che, facendo particolarmente leva sul ruolo, sulla professionalità e sulla dimensione tecnica a questi ultimi collegata, creano uno spazio fisico e psichico di distacco. Un atteggiamento che implica una esplicita negazione della dimensione emotiva quale aspetto del proprio lavoro: <le mie vicende personali, i miei stati d’animo non devono trasparire, un buon professionista non si deve far coinvolgere dalle situazioni che affronta>; questa può essere una tra le più frequenti affermazioni che si fanno e che rischiano di attivare vissuti di onnipotenza, accompagnati dall’illusione che i sentimenti possano non essere una parte del lavoro di un educatore. Dall’altro lato, si può riscontrare una profonda immersione nella dimensione emotivo - affettiva, al punto di costruire situazioni relazionali connotate da una sensibile vicinanza, a volte quasi di sovrapposizione, al punto che il rischio ipotizzabile è

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rappresentato dalla difficoltà di percepire l’altro come identità a sé stante, finendo per sostituirsi a lui o lei nello sviluppo dei propri compiti evolutivi: i confini si fanno sempre più labili e incerti, fino a percepire un vissuto di impotenza che blocca le funzioni creative e attive. Nell’incontro educativo tra adulti e giovani, le emozioni dovrebbero essere pensate come veri e propri oggetti di lavoro e, come tali, elementi da osservare e trattare con strumenti adeguati, al fine di progettare una relazione capace di condurre al raggiungimento di una nuova condizione, segno di una differenza e quindi generatrice di apprendimento e sviluppo evolutivo. L’attenzione a considerare le implicazioni di tutte le dimensioni appena citate, può aiutare l’adulto a superare l’illusione e la preoccupazione di dover e poter superare ogni cosa: una chimera che appartiene all’uomo esperto del mondo della tecnologia, uomo che non riconosce il senso dei suoi limiti e delle sue debolezze, rischiando di ridurre l’evento educativo relazionale a un puro fatto tecnico, caratterizzato dalla separazione tra la relazione e gli altri aspetti del processo. E’ accaduto che, nel corso di una riunione tra insegnanti del biennio di una scuola superione di una grande città dell’Italia settentrionale, una docente descrivesse una situazione per lei particolarmente difficile vissuta in classe. Raccontò la sua difficoltà di riportare il gruppo degli allievi a una condizione di disciplina accettabile e il fatto che, a seguito di questa incapacità, fosse scoppiata a piangere. La scelta, quella di parlare dell’accaduto con i colleghi, si rivelò errata perché questi la criticarono con durezza, sostenendo che ritenevano impossibile pensare a un’insegnante che ‘cede’ scoppiando in lacrime di fronte alla classe: la situazione non può mai sfuggire di mano a un professionista esperto, bisogna conoscere strumenti e tecniche per uscire da ogni situazione critica. Ma la tecnica non può essere superiore alle persone e ai fini in questione: se quanto accaduto a quell’insegnante si fosse trasformato in oggetto di confronto propositivo tra educatori e tra educatori e insegnanti, con l’obiettivo di capire qualche cosa in più di sé e del modo in cui vivere e progredire insieme, sarebbe stato possibile fare un passo verso la comprensione reciproca e la definizione di una ipotesi rinnovata di percorso, attento ai soggetti e alle loro più svariate sfaccettature. Se la relazione non viene pensata quale mezzo per permettere il verificarsi di altri eventi significativi, si viene privati della possibilità di riflettere sulle peculiarità di detto strumento. Si rischia, ad esempio, di non percepire in maniera adeguata il valore insito nel definire il modo in cui collocarsi all’interno dell’incontro, della distanza da assumere, cosa che permette di utilizzare il posizionarsi più o meno ‘vicino’ o più o meno ‘lontano’, in funzione di ciò che si sta vivendo, del momento in cui ci si trova, della situazione dei soggetti coinvolti e del dove si vuole arrivare. I criteri assunti per decidere appaiono spesso non confrontati con i vincoli che caratterizzano il contesto e le persone che lo vivono; è come se si trattasse di scelte alle quali si giunge operando una valutazione sulla relazione in generale e non su quelle precise, specifiche relazioni, sulla loro funzione e sullo spazio nel quale esse avvengono.

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In seguito a queste considerazioni può essere interessante, pensando all’incontro tra giovani e adulti in contesti educativi, tentare di elencare e descrivere, seppur brevemente, le funzioni della relazione che, all’interno del mutato contesto sociale e culturale, aprano a spazi ed eventi significativi per le persone e gli ambienti di vita. Uno dei rischi descritti in apertura di questo capitolo, connesso all’impegno pedagogico, è che se si è privi di una tensione precisa, tutto può apparire educativo. E se tutto è educativo, allo stesso modo, nulla lo è veramente. Ricercare quelli che sono stati denominati ‘compiti della relazione educativa’, aggiornando l’elenco essenziale qui di seguito descritto, permette di cogliere quando e cosa dota la relazione di una tensione di tipo educativo, potenziando enormemente l’incontro intergenerazionale. La relazione come mezzo per riportare al reale Si è potuto ampiamente osservare come una delle caratteristiche dominanti dell’attuale ambito sociale e culturale sia la continua proposta e ricerca di contesti e situazioni definibili virtuali. Quel rifugiarsi o proiettarsi in un mondo alternativo, raggiungibile a volte attraverso l’uso di sostanze chimiche, a volte transitando in spazi e luoghi particolari, in altre circostanze spingendosi con la mente in confini altri. Ma si è visto anche come parte degli atteggiamenti del mondo adulto - in particolare nei momenti in cui pensa di potersi relazionare con un giovane generico, quello descritto oggettivamente dalle ricerche, o nelle situazioni in cui rappresenta un’immagine di adulto impossibile da realizzare -, contribuiscano a generare situazioni irreali, non appartenenti al quotidiano e alla sfera delle cose possibili. Appare allora importante che, grazie a uno degli strumenti fondamentali dell’evento pedagogico, la relazione, si possano costruire e ricostruire situazioni reali, attente al ricondurre alla realtà, in tutte le sue forme e componenti. Nella progettazione di nuovi servizi, nelle scelte metodologiche e degli strumenti, nell’individuazione degli atteggiamenti da assumere nell’incontro, occorre domandarsi se quanto sta accadendo tra i soggetti in gioco aiuti o meno ad avvicinarsi alla realtà, a comprenderla, nei suoi aspetti buoni e in quelli più complicati. L’esperienza del crescere in una società complessa implica un rapporto con l’esperienza dell’incertezza e della frammentazione. Non sono molte le cose che possono essere date per acquisite, le continue trasformazioni fanno sperimentare un senso di precarietà e di instabilità. L’uomo, stimolato e attratto da una moltitudine di fattori, vive di sé un’esperienza frammentata, non identità uniche, ma multiple. Una relazione attenta alla dimensione reale fa i conti con questi aspetti e apre i soggetti ad acquisire le competenze necessarie a vivere e progettare considerando e partendo da situazioni incerte e frammentate. Solo se la realtà è fermamente presente nel lavoro pedagogico, si possono individuare le condizioni e gli spazi del possibile che permettono alle persone di trovare un proprio modo per sostare nel mondo reale, pensandosi in un futuro, quali adulti del mondo degli uomini che come tali faticano e gioiscono, ma sempre confrontandosi nella complessa dinamica tra potenzialità e vincoli.

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La relazione quale spazio di ricerca Mantenere viva la tensione a ricercare permette alle persone di percepirsi in continua evoluzione e all’interno di un processo di crescita che non finisce mai di offrire apprendimenti e occasioni di appassionanti avventure. Ricercare significa potersi sperimentare in contesti continuamente differenti e, per questo, già occasione di sviluppo, di ridefinizione di regole, norme, rapporti tra le persone e con gli oggetti. L’abito mentale, la predisposizione alla ricerca consente di non dare mai per scontato il proprio sapere. Ricercare è quindi espressione alta della propria vitalità e del proprio potenziale creativo. La relazione che vuole assumere una propensione educativa non può esimersi dall’investire nel tenere sempre aperto uno spazio di ricerca, dal lasciarsi attraversare dalla scintilla della curiosità e del dubbio. Tale atteggiamento spinge a interrogarsi, attraverso la relazione, sul senso e sul significato di ciò che le persone vivono e provano nella loro vita di individui, professionisti e soggetti collettivi. Un oggetto di ricerca, questo, che dovrebbe contraddistinguere l’uomo e in particolare l’uomo del nostro nuovo secolo che, trovandosi in una situazione di <spazio improvvisamente libero> (23), come sottolinea Elisabeth Lukas, è nella necessità di darsi continuamente un orientamento. La questione cruciale del nostro tempo, per chi vuole accompagnare i giovani ad affrontare la complessità del vivere, non è tanto e non solo quella di ricercare il modo in cui eludere le fatiche; piuttosto, si tratta di sostenerli nel difficile compito dell’attribuire un significato alle situazioni difficilmente comprensibili e accettabili. La relazione come apertura alla dimensione progettuale Il tempo è, nella cultura contemporanea, un nodo determinante. L’impressione che si ha è quella della difficoltà di viverne gli aspetti tridimensionali: si vive spesso solo una delle tre dimensioni del tempo, il presente. La logica del ‘tutto e subito’, che non appartiene solo ai giovani o ai consumatori di sostanze stupefacenti ma è un tratto distintivo della nostra cultura, spinge gli individui a una vita schiacciata sul ‘qui e ora’, privandolo del contatto con le altre dimensioni del tempo. Un uomo privato del suo passato, delle suo radici, della sua storia, dei suoi legami culturali e naturali è una persona che può vivere la fatica di dare senso alle vicende quotidiane; il ‘tutto e subito’ rischia quindi di essere fine a sé stesso, disancorato da un qualsiasi barlume di processo di attribuzione di significato. A ciò si aggiunge il fatto che non ci si percepisce in una dinamica futura, bisognosa di essere orientata da una prospettiva progettuale. La relazione educativa può essere tale se riesce a costruire uno sguardo prospettico e progettuale sul futuro. Ma per fare questo è indispensabile una attenzione a tutte tre le dimensioni del tempo: passato, presente e futuro. Oggi si è in relazione a ciò che si è stati nel passato; queste sono anche le condizioni attraverso le quali si può costruire il proprio futuro. Pensarsi in una prospettiva progettuale significa sentirsi protagonisti delle proprie scelte vitali, competenti per il proprio futuro, desiderosi del proprio futuro. Si è parte di una traiettoria, di un progetto, nel quale si desidera con forza il raggiungimento degli obiettivi e delle mete definite. Quando si costruisce un progetto per un qualche cosa che si desidera, si possono scorgere difficoltà e ricercare

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gli strumenti per superare i problemi: la vita assume una tensione futura, nella quale l’oggi acquisisce senso dal passato ed entrambi aiutano a costruire un domani che, per quanto appena delineato, diviene possibile. La relazione generatrice di uno spazio etico Appare evidente in molte situazioni educative tra giovani e adulti, quanto la relazione si sia sempre più connotata con una prospettiva di tipo affettivo, in una sorta di new age dell’educazione. I tempi ridotti di convivenza, insieme al timore di rompere quel gratificante equilibrio relazionale, hanno spinto gli adulti ad allentare quell’atteggiamento ‘etico’ tipico dei contesti educativi delle passate generazioni. I divieti, le posizioni differenti si riducono sensibilmente; i giovani non si trovano di fronte una linea precisa su ciò che si può o non si può fare, su alcuni irrinunciabili punti di vista. Tutto è possibile e tutto rischia di essere permesso o passare come tale. Ciò che conta è la relazione e la dimensione affettiva. Passano in secondo piano norme, valori, principi. Si corre così il rischio di una significativa diminuzione dell’esperienza del ‘dolore mentale’, vivendo una specie di esperienza anestetizzata. Gli adulti che educano considerano, per il proprio lavoro, le potenzialità e gli aspetti positivi dei giovani tralasciando, invece, le parti complicate, problematiche. In questo senso, da un lato, si opera una separazione o meglio un non riconoscimento delle parti oscure, difficili e, dall’altro, non si accompagnano i giovani a sperimentarsi con le situazioni conflittuali, oppositive; si amplifica la sofferenza del conflitto, che non si è quasi mai vissuto, non li si aiuta a percepirsi quali soggetti indipendenti alla ricerca di un proprio spazio e di un proprio tempo di vita autonoma. A questo proposito è auspicabile che la connotazione educativa di una relazione derivi anche dalla possibilità di vivere l’esperienza del conflitto, della gestione di situazioni nelle quali si sperimenta anche la normatività dell’adulto, dell’accompagnamento verso il sentimento di un sé effettivamente unico e altro. Una relazione che apre verso il collettivo Nel modo in cui comunemente si intende l’educazione e, quindi, anche in molte delle situazioni educative, si pensa all’evento relazionale come a una esperienza specificatamente duale, chiusa nella dinamica uno a uno: tutto si gioca nella relazione tra l’adulto e il giovane, in una visione pedagogica che esclude i soggetti da una parte essenziale della loro vita, ovvero il rapporto con il contesto di vita e con le persone che lo abitano. Oltre a ciò, intendere la relazione da un ottica duale significa immaginare che tutto ciò che può succedere, succede o meno in funzione di ciò che quell’adulto riesce a fare nella relazione. E’ una rappresentazione assai discutibile. Il cambiamento, la trasformazione delle situazioni può avvenire per moltissimi fattori che non sono riconducibili in modo esclusivo all’impegno dell’educatore. In secondo luogo, perdere il contatto con le persone e il contesto che risultano significativi per il giovane, significa privare la persona di ciò a cui attribuisce significato e da cui acquisisce senso vitale. La relazione educativa è quindi strumento attento a muoversi con i singoli e con i gruppi all’interno dei quali le persone sviluppano appartenenze e legami significativi: parte da loro, ha loro come riferimento, tenta di produrre sviluppi concreti che possano ritornare su essi.

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Affinché questo sia possibile gli educatori devono sviluppare una competenza oggi indispensabile: la comprensione e l’uso di linguaggi espressivi differenti. Il linguaggio è l’espressione più alta della cultura; le nuove culture giovanili si esprimono con forme, modi e in luoghi assai particolari che richiedono molto investimento per gli adulti. Si studiano e si utilizzano linguaggi nuovi per cogliere e far cogliere significati, per capire e farsi capire, per comunicare, per cambiare. La relazione educativa, allora, diviene tale se, attraverso l’uso di linguaggi differenti semplici o evoluti, aiuta i giovani a comprendere la cultura e il contesto di appartenenza e a pensarsi come parte di una vicenda collettiva per la quale vale la pena investire delle energie proprie.

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LEZIONE 4

Le fatiche del vivere in società complesse di Michele Gagliardo <Incominciai a scoprire che non sempre la realtà era accettabile e cominciai così a vivere come una doppia vita. Da un lato c’era il reale con tutti i suoi problemi,

dall’altra c’era un mondo fantastico che mi ero creato e in cui mi rifugiavo>. (da D. Cravero, Il piacere di vivere, Associazione Solidarietà Giovanile, Torino 1993) Leggendo queste parole si rimane colpiti dalla lucidità con cui l’autore descrive la fatica di vivere in una realtà che genera sofferenza. E’ un vissuto che si accompagna a molte esperienze in un contesto sociale e culturale come quello che caratterizza le civiltà occidentali: una realtà difficile, spesso inaccettabile, che produce problemi, sofferenze, disorientamento. Ed è un rapporto con il mondo che comunque non si può perdere, non si vuole perdere perché stare fuori sarebbe insostenibile: meglio fare parte della categoria degli inclusi, di quelli che stanno dentro, accettando condizioni, percorsi o esperienze, anche molto dolorose. O dentro o fuori, un confronto tra due poli che non ammette alternative: in una società come la nostra, che ha consacrato il primato della tecnica, del pensiero razionale e lineare, e in cui tutto si fonda sulla ripetizione di procedure standardizzate, prescritte, non ci sono possibilità di percorrere strade ‘altre’, non c’è spazio per ciò che non è prevedibile o addirittura già previsto. C’è, in sostanza, un solo modo per pensare, descrivere e fare le cose, il modo giusto, quello prescritto: fare e pensare come si dovrebbe fare e pensare. Sono queste le vie privilegiate dell’integrazione: la subordinazione del sé a un tutto prescrittivo e omologante. Negare sé stessi nell’espressione della propria individualità, nell’atto creativo e speciale del pensare e dell’agire soggettivo. Integrazione, oggi, come esperienza dell’essere estranei a sé stessi; dentro il contesto, ma fuori da sé. Un’esperienza che produce lacerazioni e separazioni difficilmente sopportabili e nel corso della quale per molti l’unica possibilità è agire un’ulteriore scissione: quella tra vita pubblica e vita privata. Accanto a una realtà inaccettabile trova spazio un mondo virtuale, quello che potenzialmente si desidera, ma che non è praticabile e nel quale, da un lato, ricercare risposte al dolore della separazione e dall’altro, sperimentare in modo spinto l’espressione creativa, comunicativa di sé: in tempi e spazi difficilmente percorribili dai rappresentanti del mondo alienante, con linguaggi e codici comunicativi estremamente particolari. U. Galimberti, a tale proposito, riflette sull’attuale sviluppo dell’uso di droghe di sintesi tra i giovani, sostenendo che <…Nel consumo di droga c’è la ricerca di anestesia rispetto all’insopportabilità del tasso di angoscia che proviene dalla mancanza di comunicazione della mia soggettività> (da U. Galimberti, Se la soggettività non può dirsi, in Animazione sociale, n. 4, 1997) .

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In questa ricerca e sperimentazione, le sostanze chimiche possono giocare un ruolo importante: l’incontro con il piacere, la possibilità di risposte immediate al bisogno di contatto con sé e con gli altri, esperienze mentali insolite, lo stimolo alla curiosità dello sperimentare, alternativa potente all’appiattimento e all’omologazione. L’uso di risposte chimiche spesso rende complesso ogni percorso di ricerca differente, accrescendo, a volte, l’insopportabilità della sofferenza. Ma non solo l’assunzione di prodotti sintetici rappresenta un’esperienza artificiale per le persone; innaturali sono considerabili anche alcuni dei processi d’integrazione che l’attuale contesto sociale offre, come pure lo sono quegli interventi preventivi mediati dagli stessi dispositivi sociali decisivi nel generare le condizioni che, invece, si vorrebbero contrastare. Ad esempio, quei progetti poco attenti alle differenze e alla soggettività di giovani e adulti, le proposte che non facilitano la sperimentazione di una produzione creativa collettiva e l’elaborazione dei significati a essa collegati, tutte le circostanze caratterizzate da una spinta verso l’omologazione attraverso la ricerca o la prescrizione della soluzione o del comportamento ritenuto, comunemente, perfetto, i progetti che fondano la loro certezza di riuscita nella ripetizione continua di procedure prestabilite, connotandosi più come eventi tecnici, ingegneristici, che preventivi. A questo punto si è di fronte al secondo paradosso: se, da un lato, il contesto sociale offre percorsi di integrazione che, per la loro forma, spingono alcune persone all’esperienza drammatica e schizoide della disintegrazione interna e della separazione dal contesto, dall’altro, la prevenzione, focalizzando la sua attenzione sulle sostanze e sulla liberazione dall’uso delle stesse con percorsi uniformati ai codici sociali appena descritti rischia di inasprire la frattura tra mondo interno ed esterno. Se si investe per accompagnare i giovani a emanciparsi da alcuni comportamenti ritenuti problematici, senza mutare le forme della relazione tra giovani e adulti, tra i giovani e il mondo, si generano situazioni preventive incapaci di modificare i contesti di esperienza, gli spazi vitali nei quali gli adolescenti possono sperimentare e sperimentarsi. Viene amplificato il sentimento di sofferenza, in quanto non si investe nella ricerca creativa di percorsi insoliti, atti a concretizzare stimolanti e appassionanti eventi, nei quali quel virtuale non praticabile, assume la connotazione di possibile e per questo desiderabile. Ciò che prima era un’illusione può diventare un progetto: spazio e tempo del reale che permette alla dimensione pubblica e a quella privata di incontrarsi in modo costruttivo. Se la prevenzione lavora per demolire quegli atteggiamenti che permettono ad alcuni giovani di perseguire il bisogno di integrazione, senza investire, parallelamente, nella sperimentazione e progettazione di situazioni che rendano maggiormente vivibile la realtà quotidiana, si corre il rischio che l’insostenibilità della situazione si esasperi, portando al raggiungimento di obiettivi opposti a quelli desiderati, cioè a un aumento del valore del virtuale e delle vie chimiche e anestetizzanti. In gioco non c’è il cosa è necessario fare -un obiettivo prefigurato a cui tendere -, ma il come, ovvero la forma dell’incontro tra generazioni e le regole che la governano. <Vedi, io mi sento un po’ un cane randagio, legato a tutto e legato a niente.

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A volte mi lego a un posto, a una persona, a una cosa ma poi… Io non mi sento di appartenere a un posto a una persona a una cosa. …Se penso a queste cose, è perché quando penso a me stesso, penso a un gran pasticcio, a un terribile garbuglio. Allora vorrei cercare nel mondo uno spazio mio per girarmi nei miei pasticci… (da D. Cravero, op. cit.) Vivere dentro un gran pasticcio, percepire l’incostanza del sentirsi legati a tutto e a niente: sono cose che esprimono, nel linguaggio della civiltà tecnica, incertezza, fragilità, debolezza; tutte condizioni da superare per tendere a certezze, solidità e determinazione. Si prefigura un percorso che porta in sé la rappresentazione di un adulto idealizzato, le cui caratteristiche appartengono più alla virtualità che alla realtà. Con questi presupposti si lavora su ciò che non c’è, sul fare finta che…, proponendo modelli assolutamente irraggiungibili fondati, come si affermava in precedenza, sul come dovrebbe essere. Per un adulto, vivere la relazione con i giovani assumendo un atteggiamento di profonda attenzione alle forme dell’incontro può allora voler dire anche tentare di dare senso e dignità alle fragilità e alle incertezze, aiutando i giovani a esprimerle e accoglierle come parti fondanti il sé e non come oggetti problematici da allontanare. Ciò permetterebbe di attivare un clima di intenso contatto con sé stessi, nel quale apprendere a pensarsi caratterizzati allo stesso modo dalla forza come dalla debolezza, dalle certezze come dalle incertezze. Aprire un dialogo con queste e altre dimensioni permette, conoscendole, di trattarle e quindi di considerarle come vincoli, come i nodi che, tra le altre cose, legano gli individui alla loro realtà, definendone significativamente il rapporto. A queste condizioni si può presupporre di dare vita a situazioni preventive nelle quali contenuti e prospettive si discutono e si immaginano in considerazione di tutti i molteplici fattori che connettono gli individui alla realtà, determinandone la descrizione, fornendo in tal modo un contributo sostanziale al riempire di senso il quotidiano. In esso si possono così rintracciare strumenti e risorse (personali, collettive e istituzionali) per accompagnare nel difficile compito di vivere in un contesto sociale e culturale che sempre di più smarrisce la sua dimensione umana.

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ALLEGATI:

L’ascolto e l’osservazione nella progettualità dialogica

Francesco d’Angella, Franca Olivetti Manoukian

La progettazione sociale è una specifica forma di produzione culturale, in quanto facendo interagire mondi culturali diversi apre a inedite possibilità. Centrali diventano la percezione delle diversità e la messa in discussione delle proprie rappresentazioni, ma soprattutto la scoperta di intersezioni fra significati come luogo in cui si rigenera la progettualità. Un lavoro che chiede a chi esercita il potere l’ascolto e l’osservazione delle progettualità quotidianamente in gioco. Nei procedimenti di progettazione, in particolare in quelli che riguardano situazioni organizzative e sociali, sono spesso previste e raccomandate fasi di analisi e di rilevazione preliminari. Esse dovrebbero permettere (secondo alcuni, garantire) un’adeguata formulazione di una «diagnosi», di un quadro chiaro e definitivo dei problemi in gioco da affrontare e risolvere con una ristrutturazione organizzativa o con interventi formativi.

Per poter raggiungere descrizioni ben individuate, evidenti, razionalmente fondate, si ricorre in genere a parametri numerici, sottovalutando il fatto che le cifre, comunque, esprimono aspetti molto limitati della realtà e soprattutto danno indicazioni generiche e sommarie, non così attendibili da guidare scelte strategiche o operative.

Le cifre piacciono perché sembrano portatrici di una razionalità forte che necessariamente e indiscutibilmente ottiene consensi massimi, anche se non entusiasti. È come se veicolassero rappresentazioni dei problemi piuttosto semplici, tuttavia chiare ed efficaci su cui può essere facile convogliare adesioni per la riprogettazione, per gli esiti finali auspicati e per i modi di ottenerli.

Le ipotesi che orientano verso una «progettualità dialogica» o interattiva tendono a prendere distanza da questo approccio. Come è stato sottolineato, la realtà organizzativa non può essere totalmente e compiutamente compresa, ma al tempo stesso è cruciale che le rappresentazioni dei problemi non siano troppo semplificate, che si riconosca l’esistenza di diverse rappresentazioni e si riescano anche a vedere i problemi irrisolvibili.

È importante arrivare a rappresentazioni convergenti dei problemi, ma non è detto che ci si riesca e la condivisione non può essere totale e non è mai data una volta per tutte. Nelle situazioni coesistono diverse razionalità e non è immediato cogliere quella che offre maggiori aperture e valorizzazioni. La progettazione e riprogettazione diventa pertanto un percorso che non ha tappe certe e precostituite, ma che si snoda con flessibilità e leggerezza tra molte sollecitazioni e altrettante contraddizioni.

Operare nelle organizzazioni dei servizi con questa prospettiva richiede appunto interazioni intense e continue con una realtà che non si piega puntualmente e immediatamente a ciò che viene definito per legge, delibera o regolamento, ma che va decifrata e scoperta: per questo diventano cruciali l’osservazione e l’ascolto.

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Osservazione e ascolto sono due parole generiche e polisemiche la cui comprensione può apparire immediata perché sono termini frequentemente usati nel linguaggio quotidiano. È importante allora precisare a che cosa si fa riferimento e in quale quadro teorico ci si colloca per evitare fraintendimenti e banalizzazioni.

Una prima notazione semantica può aprire la via: ascolto e osservazione sono espressioni collegate all’uso di organi di senso da parte di un soggetto che è in relazione con altri e con altro e che è in qualche modo implicato in processi di conoscenza o, meglio, di apprendimento (1).

L’orecchio e l’occhio nella nostra cultura sono organi che non danno solo sensazioni, ma mettono anche in contatto con dimensioni emotive: tradizionalmente i messaggi artistici ci arrivano attraverso ciò che ascoltiamo e vediamo.

Ricorrere a parole come ascolto e osservazione rispetto alla progettazione immette immediatamente entro un quadro di riferimento teorico che sottolinea che la conoscenza nel sociale avviene nella relazione, che il soggetto conoscente è parte viva della realtà da conoscere e si accosta ad essa avendo e suscitando emozioni. È questa collocazione — sempre mischiata, sempre intrisa di ambivalenze e di definizioni che tentano di eliminarle — che rende così ardui i processi di ascolto e osservazione. In questo articolo ci si propone di indicare e di approfondire difficoltà e opportunità che possiamo incontrare in particolare nei servizi.

Le culture negli ascolti e nelle osservazioni L’ascolto e l’osservazione dei fatti e degli eventi sono processi necessari

per costruire le rappresentazioni dei problemi. Attraverso l’ascolto e l’osservazione i diversi attori organizzativi possono raccogliere una serie di informazioni necessarie per costruire una lettura dei problemi relativi a un servizio e riprogettarne gli obiettivi possibili.

È possibile sostenere che gli uomini costruiscono il mondo a seconda delle loro modalità di «vederlo» e «sentirlo». Tale costruzione è un processo di scomposizione, composizione, segmentazione e aggregazione dei mondi costruiti.

Composizione e scomposizione. Fabbricare mondi consiste in gran parte, anche se certo non esclusivamente, in uno smontare e rimettere insieme, spesso combinati tra loro: per un verso, nel dividere interi in parti e operare partizioni di generi in sottospecie, nell’analizzare complessi in componenti, nel tracciare distinzioni. Queste composizioni o scomposizioni vengono normalmente effettuate o facilitate o consolidate applicando etichette: nomi, predicati, gesti, immagini, e via dicendo. Così, ad esempio, eventi temporalmente distinti vengono messi insieme sotto un nome proprio o identificati con ciò che costituisce «un oggetto» o «una persona».

Peso e importanza. Alcuni dei contrasti più impressionanti di accento si verificano nelle arti. Molte differenze tra ritratti di Daumier, Ingres, Michelangelo, Rouault, dipendono dall’accentuazione di certi aspetti. Ciò che vale come messa in rilievo è, naturalmente, un allontanamento dall’importanza relativa accordata ai singoli aspetti nel modo usuale del nostro vedere quotidiano. Con il mutare degli interessi e nuovi punti di vista, varia il peso visivo di aspetti quali il volume, il tratto, la postura o la luce, e il mondo regolato di poco tempo prima appare stranamente perverso — un paesaggio realista di un calendario di poco tempo fa diventa un’orribile caricatura.

Eliminazione e integrazione. Ancora, la costruzione di un mondo a partire da un altro comporta di solito eliminazioni e integrazioni anche notevoli — vere e proprie soppressioni di vecchi materiali e immissioni di nuovi. La capacità che possediamo di «tralasciare» elementi è praticamente illimitata, e quel che accogliamo consiste, di solito, in frammenti e indizi significanti che richiedono una massiccia integrazione (2).

Le modalità degli attori di «vedere» e «sentire» i fenomeni organizzativi attivano dunque le composizioni, le scomposizioni, le segmentazioni e le aggregazioni dei molteplici indizi presenti nella quotidianità dei processi lavorativi.

Nelle comunicazioni tra gli educatori, i dirigenti e i consulenti si propongono versioni e visioni dei diversi funzionamenti organizzativi a cui ciascun attore è ben affezionato; i «vecchi mondi», di cui parla Goodman, possono essere esposti e giustapposti per rimanere fermi sulle proprie posizioni, ma possono essere anche l’avvio per «fabbricare nuovi mondi». Per comprendere come sia possibile «fabbricare nuovi mondi» è importante esplorare i processi, spesso inconsapevoli e impliciti, dell’ascolto e dell’osservazione dei contesti lavorativi.

Si è detto come spesso si sia soliti pensare che l’ascolto e l’osservazione siano atteggiamenti semplici e spontanei. Il fatto stesso che si usino espressioni legate agli organi di senso (l’occhio e l’orecchio) ce li fa

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immaginare come processi naturali, quando in realtà si tratta di processi culturali.

Gli operatori sociali di un servizio osservano e ascoltano i funzionamenti organizzativi attraverso quadri culturali di riferimento. Sono questi quadri culturali introiettati, che strutturano le mappe cognitive ed emotive, che consentono di orientarsi nella molteplicità degli indizi e delle tracce presenti nella quotidianità dei contesti lavorativi. Sono le culture organizzative, quelle professionali e individuali dell’educatore, dello psicologo, del medico, che costruiscono le mappe per rintracciare, selezionare, classificare i fenomeni che condizionano l’andamento di un consultorio, di un SERT o di un ospedale (le stesse categorie di utente, bisognoso, svantaggiato sono modalità di classificazione dei soggetti che si rivolgono ai servizi). Le mappe sono come delle cornici che «mettono le persone in grado di localizzare, percepire, identificare ed etichettare gli avvenimenti nella loro vita e nel mondo» (3).

È importante tenere presente ed essere consapevoli che «ogni sistema di classificazione è in un certo senso arbitrario: includiamo degli oggetti sotto la stessa classe non perché sono intrinsecamente simili, ma li consideriamo simili perché guardiamo il mondo attraverso un certo sistema classificatorio. Non stupisce dunque che i sistemi di classificazione variino nel tempo e nello spazio, da società a società» (4).

Le arbitrarietà dipendono dalle culture delle istituzioni e delle organizzazioni. Queste «orientano in modo sistematico la memoria degli individui e incanalano le nostre percezioni entro forme compatibili con le relazioni da esse stesse autorizzate. Fissano processi che sono essenzialmente dinamici, celano la loro influenza e suscitano le nostre emozioni ad un livello prefissato su temi stabiliti» (5).

Ad esempio, le mappe usate dagli educatori di un centro di aggregazione per osservare e ascoltare sono costruite dalle culture apprese lungo il corso della vita; queste culture sono un reticolo ricco di connessioni emotive e cognitive, di operazioni logiche, di figure retoriche, osservazioni fattuali, giudizi etici, seduzioni estetiche, situazioni contestuali, decisioni economiche. Sono le mappe che selezionano gli indizi utili, indispensabili per riprogettare i servizi, e che scartano, omettono gli aspetti non ritenuti significativi.

In questo senso, ogni mappa è un punto di vista, una prospettiva di ascolto e di osservazione su una molteplicità di segnali e indizi coesistenti. La questione cruciale è relativa al fatto che le mappe possono ostacolare o promuovere, aprire o chiudere la costruzione di progettualità condivise e innovative a seconda della loro possibilità di facilitare l’incontro di altri «sguardi».

Le mappe per ascoltare e osservare Nella progettazione per comprendere e interpretare i fenomeni organizzativi è

possibile individuare diversi modi di ascoltare e osservare i contesti lavorativi. Questi modi, a seconda delle culture organizzative, professionali e personali di riferimento, sono orientati a descrivere, classificare, spiegare o a scomporre, circoscrivere e risolvere, oppure, ancora, a rilevare, riflettere e riconoscere. In questa parte dell’articolo si cercherà di analizzare le mappe attivate dagli operatori nella ricognizione dei problemi organizzativi di un SERT, di un consultorio, di un ospedale, per poter ri-progettare il Servizio.

Descrivere, classificare, spiegare. Le culture tradizionali-classiche (6) del

pensiero organizzativo affermano che le organizzazioni sono costruzioni razionali-ingegneristiche per raggiungere determinati scopi e finalità. Le culture tayloristiche e fordiste della progettazione orientano e influenzano le rilevazioni dei contesti lavorativi; le ricognizioni sono finalizzate a individuare gli scarti, a descrivere esaustivamente, a spiegare razionalmente e «oggettivamente» i fenomeni e i processi osservati e ascoltati.

La rilevazione dei fattori che impediscono la riuscita ottimale delle prestazioni del Servizio è affidata al consulente esterno, agli esperti della progettazione. Attraverso la descrizione e la spiegazione dei fenomeni, dovranno progettare le procedure ottimali per raggiungere gli obiettivi prestabiliti. Ad esempio, l’indagine sui fattori che determinano una diminuzione dei giovani nei centri di aggregazione giovanile deve essere supportata da una metodologia capace di garantirne l’oggettività e la scientificità; prima di iniziare la

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«discesa sul campo» è necessario quindi costruire «a priori» griglie e protocolli di osservazione, a garanzia della neutralità dell’indagine e quindi della sua correttezza. In questo modo l’ascolto e l’osservazione sono prescrittivi; indipendentemente dal tipo di organizzazione, di prestazione, di contesto lavorativo, le griglie pre-scrivono i tempi, i modi, gli oggetti da «vedere» e «sentire». Consentono di classificare, identificare, misurare i fenomeni che possono ostacolare l’efficacia e l’efficienza di un SERT, di un intervento chirurgico, di una catena di montaggio.

Le culture organizzative classiche sono condizionate dai saperi delle scienze esatte, come la matematica e la fisica. Attraverso questi saperi si costruiscono protocolli di osservazione capaci di descrivere e inquadrare razionalmente i fenomeni organizzativi.

All’interno di un reparto ospedaliero un’azione può considerarsi spiegata quando è possibile rintracciare le ragioni, le cause, le connessioni dei fenomeni. In questa ricerca si tratta di eliminare ogni «piega» capace di interrompere la linearità dei processi, delle comprensioni, delle connessioni causali. La spiegazione dei fenomeni osservati e ascoltati consente di raggiungere una definizione delle procedure corrette del lavoro e quindi progettare-pianificare i diversi funzionamenti organizzativi. Per spiegare è necessario descrivere dettagliatamente le parti che compongono un processo. Una metafora degli ascolti e dell’osservazione prescrittivi centrati sulla descrizione analitica e consequenziale è possibile rintracciarla nel testo di Pirsig:

Ai fini dell’analisi razionale classica una motocicletta si può scomporre in base alle sue parti o in base alle sue funzioni.

Se la si scompone in base alle sue parti, la distinzione fondamentale è quella tra apparato propulsore e apparato di marcia.

A sua volta l’apparato propulsore si suddivide in motore e sistema di trasmissione. Il motore è una struttura chiusa che contiene una macchina termica, un sistema di alimentazione

aria-carburante, un sistema di accensione, un sistema retroattivo di distribuzione e un sistema di lubrificazione.

La macchina termica è composta di cilindri, pistoni, bielle, albero a gomito e volano. Le componenti del sistema di alimentazione, che fanno parte del motore, consistono in serbatoio

del carburante e filtro, filtro dell’aria, carburatore, valvole e tubi di scappamento. Il sistema di accensione consiste in alternatore, raddrizzatore, batteria, bobina e candele.

Il sistema di distribuzione è composto da: catena della distribuzione, albero a camme, punterie e spinterogeno. Il sistema di lubrificazione consiste in: pompa dell’olio e canali di distribuzione dell’olio nel

corpo motore. Il secondo, il sistema di trasmissione, consiste in una frizione, un cambio e una catena. L’apparato strutturale che accompagna l’apparato propulsore consiste in un telaio che include i

pedalini, il sedile e i parafanghi; lo sterzo, gli ammortizzatori anteriori e posteriori; le ruote; le leve e i cavi di controllo; le luci e il clacson; il tachimetro e il contachilometri.

E così abbiamo una motocicletta scomposta secondo le sue parti. Per sapere a cosa servono le parti è necessaria una suddivisione in base alle funzioni tra cui si distinguono le funzioni di marcia normali e le funzioni speciali controllate dal guidatore.

L’analisi di quasi tutte le parti che ho citato potrebbe essere ampliata all’infinito (7).

La metafora mette bene in evidenza come la descrizione sia finalizzata a collocare ogni parte osservata all’interno di un sistema complessivo che ne definisca la funzione e il rapporto con gli altri «pezzi». La descrizione, quindi, deve fornire una spiegazione razionale ed esaustiva dell’azione.

Attraverso l’esplorazione si tratta di rintracciare se vi siano delle congruenze tra i mezzi e i fini, tra i risultati e le risorse impiegate, tra i piani di lavoro e le azioni. Nella ricerca delle congruenze vi è la necessità di individuare «lo scarto» tra le prestazioni e gli standard predefiniti, tra le azioni e le procedure. Lo scarto è l’errore da ricondurre all’interno del «piano» di lavoro.

Un altro assunto dell’ascolto-osservazione costruito dalle culture organizzative tayloristiche è la convinzione che per comprendere, poniamo, le difficoltà di integrazione tra la cooperativa che gestisce il servizio di assistenza domiciliare e i servizi socio-assistenziali sia necessario attivare un check-up completo del servizio perché solo in questo modo è possibile ri-progettare l’organizzazione del lavoro. In questi processi esplorativi si approntano sofisticati strumenti di osservazione e di ascolto — alla base c’è infatti la convinzione che se si costruisce una fotografia esaustiva, una «mappatura» di tutte le parti che compongono il servizio, sia possibile individuare i problemi che ostacolano l’integrazione e quindi ri-progettare le modalità di erogare l’assistenza domiciliare. Si raccoglie così una quantità

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enorme di informazioni, si utilizzano molteplici metodologie qualitative e quantitative. L’esaustività della descrizione è la garanzia per poter costruire progettazioni di successo. È necessario conoscere tutto prima di agire. Nella pratica quotidiana questo atteggiamento lo si trova nelle espressioni: «è necessario fare una fotografia dei servizi», «dobbiamo fare un’indagine a tappeto» oppure «non ci deve scappare nessun dettaglio».

I protocolli, le griglie, proprio perché prescrivono cosa osservare e come osservare, consentono di dare visibilità a oggetti di lavoro invisibili-intangibili (8), quindi di difficile definizione. La prescrizione degli ascolti e delle osservazioni consente agli operatori di poter intervenire nella realtà in modo da cogliere, all’interno di situazioni lavorative spesso confusive, degli aspetti che li aiutino a ridefinire e a controllare il proprio lavoro. È come se si sentisse l’esigenza, per poter individuare i contenuti del proprio lavoro, di essere «sistemati», di essere situati in una posizione da cui sia facilitata la visione e, anche, di essere parte di un sistema che offra forme e percorsi di esplorazione ordinati e collegati tra loro, indicazioni (simboli) facilmente traducibili, al limite automatismi. Il contatto degli operatori con le multiformità e la densità delle situazioni lavorative in un SERT o in consultorio è mediato da una struttura esplorativa protettiva, che fornisce saperi già interpretati, solidi e razionali, ed è capace di sostenere costruzioni chiare e precise degli oggetti di lavoro. Le griglie per osservare e ascoltare sono predisposte dagli esperti che possono essere i consulenti esterni o chi ha un ruolo apicale nell’organizzazione; sono questi i garanti di una certa procedura, ma anche coloro che dovranno trattare i materiali «visti» e «sentiti» per poter ridefinire una efficiente ed efficace pianificazione.

Scomporre, circoscrivere e risolvere. La cultura organizzativa che considera le

organizzazioni come sistemi aperti alle turbolenze dell’ambiente e attraversati da livelli elevati di incertezza (9) abbandona l’idea della possibilità di giungere a spiegazioni logico-deduttive esaustive e totali dei fenomeni lavorativi. Le organizzazioni sono rappresentate come sistemi complessi nei quali gli operatori, i consulenti, i dirigenti possono attivare solo ricognizioni limitate e parziali sui funzionamenti organizzativi. Infatti, «se il progettista dovesse vagliare continuamente tutti i dati per poter definire la soluzione ottimale ai problemi, si troverebbe costantemente in una situazione di stallo e di impasse totale» (10) e quindi non potrebbe attivare alcun processo di progettazione.

La parzialità, la limitazione, la riduzione, la specializzazione, la scomposizione sono alcuni dei modi con cui rilevare e affrontare le questioni che impediscono il buon funzionamento di un servizio. Ecco una metafora efficace per comprendere questa prospettiva esplorativa:

Guardiamo una formica che avanza faticosamente su una spiaggia solcata dal vento e dalle onde. Va dritto, poi gira a destra per scalare agevolmente una ripida duna, aggira un ciottolo, si ferma un momento per scambiare informazioni con una consorella. Così, tra interruzioni e deviazioni, trova la strada di casa. Per non dare ai suoi scopi carattere umano, traccio su un foglio l’itinerario da lei seguito. È una sequenza di segmenti irregolari, ad angolo — non una passeggiata casuale, perché la sequenza rileva un senso di direzione sottinteso, un tendere ad uno scopo.

Mostro il tracciato, senza nessuna spiegazione, ad un amico. Di che percorso si tratta? Di un bravo sciatore, forse, che facendo lo slalom scende per un pendio ripido e roccioso. Oppure di una barca che, andando controvento, cerca la rotta in un canale pieno di scogli o secche. Forse si tratta di un percorso in uno spazio più astratto: la ricerca di uno studente che vuol dimostrare un teorema di geometria. (...) Perché la linea non è retta? Perché non va direttamente dal punto di partenza alla destinazione voluta? Nel caso della formica (e questa volta anche negli altri esempi) conosciamo già la risposta. Il soggetto ha un’idea generica del luogo in cui si trova la sua meta, ma non può prevedere tutti gli ostacoli che lo dividono da essa. Deve quindi adattare più volte il suo comportamento alle difficoltà che incontra e spesso aggirare ostacoli altrimenti insuperabili. I suoi orizzonti sono molto limitati, quindi egli affronta ogni ostacolo nel momento in cui vi si imbatte; tenta diverse vie per attraversarlo o aggirarlo, senza preoccuparsi troppo degli ostacoli futuri. È facile intrappolarlo in una serie di giri inutili (11).

La formica deve fare i conti con un contesto di azione incerto e imprevedibile, non è possibile per lei fissare una visione «totale» dell’ambiente. Volta per volta, a seconda degli ostacoli che incontrerà, potrà rilevare, considerare e circoscrivere i dati per definire le strategie e le decisioni utili a raggiungere soluzioni soddisfacenti ai suoi problemi. Il suo punto di vista è sempre limitato e parziale.

Le culture organizzative che considerano le situazioni lavorative come complesse, turbolente e incerte sostengono l’idea che — per osservare e

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ascoltare il cattivo funzionamento di un consultorio, il fallimento di un progetto riabilitativo, ecc. — sia necessario suddividere le questioni problematiche in parti e sezioni ben precise in modo da individuare i saperi professionali adeguati per trattarle.

La diagnosi è quindi possibile se si scompongono i diversi sintomi; per ogni sintomo vi sono dei saperi specialistici capaci di trattarlo efficacemente.

Questo approccio tende a porre in prima linea l’idea che per comprendere i problemi e quindi ri-progettare un servizio siano necessarie delle competenze tecniche specifiche; per questo insiste molto ed enfatizza le dimensioni della specializzazione delle conoscenze. Ascolti e osservazioni sofisticati e specialistici consentono a educatori, dirigenti, medici di arrivare a diagnosi che permettono nel più breve tempo possibile l’individuazione dei problemi che rendono inefficienti e inefficaci i funzionamenti organizzativi. Gli ascolti e le osservazioni sono finalizzati a ripristinare l’equilibrio dell’organismo.

Le conoscenze, le norme e i valori socialmente accettati e riconosciuti delle professioni consentono di individuare in modo più specifico che cosa e come osservare e ascoltare. Quanto più la professione è socialmente forte e costituita, tanto più l’insieme di conoscenze e di azioni è scientificamente provato e tradotto in istruzioni e procedure operative che devono essere trasmesse e interiorizzate adeguatamente. Attraverso le competenze professionali si può contare su rappresentazioni ben solide degli oggetti di lavoro che non solo orientano e sostengono l’azione con il supporto di regole codificate, ma assicurano anche collocazioni sociali e credibilità: questo vale in particolare se le competenze vengono derivate dall’appartenenza a una comunità scientifica che garantisce strumentazioni e pratiche operative, ma soprattutto identificazioni con modelli culturali e posizioni ben visibili nel contesto sociale.

Rilevare, riflettere e riconoscere. Le culture organizzative orientate a

sostenere dei processi organizzativi reticolari a legame debole (12) promuovono e attivano dei processi esplorativi capaci di connettere, articolare e variare le modalità di ascolto e osservazione dei contesti lavorativi. L’estrema complessità e dinamicità dei contesti lavorativi implica rilevazioni dei contesti lavorativi continue e costanti. Inoltre nel processo di esplorazione per attivare la progettazione di un servizio tutti gli attori organizzativi sono dei «ricercatori esperti».

L’articolazione delle diverse modalità esplorative consente a educatori, psicologi, assistenti sociali di cogliere nella complessità, incertezza e ambiguità dei fenomeni organizzativi degli indizi e delle tracce utili e interessanti per attivare la progettazione di un servizio.

La quotidianità, l’inter-azione, l’imprevedibilità, il riconoscimento, la riflessione, lo scambio sono alcuni dei modi con cui esplorare i diversi contesti lavorativi. Un noto studioso dei processi organizzativi afferma:

L’ascolto, l’attenzione al quotidiano, costituiscono una priorità assoluta in qualsiasi tentativo di mobilitazione delle risorse umane o di modernizzazione dell’impresa. Se non si accetta l’idea semplice che i rapporti umani possono essere cambiati solo con ordini o regole, o con una spinta di entusiasmo persuasivo, la conoscenza concreta delle realtà vissute dagli attori operativi diventa allora indispensabile. (...) Questa conoscenza non ha nulla a che vedere con quella che emerge dai sondaggi d’opinione, sempre più vere e proprie caricature di un ascolto vero. Separate dal contesto, le risposte a domande astratte sono necessariamente superficiali e a volte retoriche. La vera conoscenza è diversa anche da quella che possono far emergere gli studi di motivazione, in quanto questi ci informano più sui problemi personali degli individui che su quelli posti loro dalla cooperazione con gli altri, dal funzionamento dell’impresa e dai giochi di potere a cui l’individuo si trova confrontato. Il vero ascolto è quello della vita di relazione di tutti i giorni. Le ricerche qualitative, che descrivono il modo in cui questa vita è vissuta, ce ne rivelano l’importanza e ce ne danno le chiavi di lettura. (...) La conoscenza che viene dall’ascolto non si limita a registrare risposte, emerge invece dal confronto di ognuna delle parti, dotata di una razionalità diversa, a volte contraddittoria (13).

Secondo Crozier per comprendere i fenomeni organizzativi è importante ascoltare e osservare la quotidianità dei processi lavorativi, aprendo i propri costrutti di conoscenza e di azione all’incontro con questioni riconosciute come tali, ossia come qualcosa di «grave, intralciato, spinoso, del quale non si è ancora trovata una soluzione» e che non è possibile far rientrare negli schemi abituali.

In questo senso non si tratta di utilizzare delle griglie di osservazione predefinite e prescritte dai responsabili del servizio per valutare e

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individuare lo scarto tra il modello ideale di una buona e corretta relazione educativa e il progetto realizzato, tanto meno di catalogare i problemi in modo da individuare i saperi professionali adeguati al loro trattamento. Ricorrere ai saperi forti delle professioni o rimanere legati ai protocolli e alle griglie di osservazione non consente di attivare una rilevazione capace di cogliere la specificità, la contingenza locale dei funzionamenti di un servizio. Entrare in contatto diretto con i differenti funzionamenti dell’organizzazione determina la complessità dell’ascolto e dell’osservazione; complessità prodotta dal reciproco influenzarsi e contaminarsi tra le «mappe» attivate dai diversi operatori per esplorare, rilevare e i fenomeni incontrati durante l’analisi dei processi lavorativi.

Una metafora efficace per comprendere i processi di ascolto e osservazione è un racconto di Weick in cui riporta una parte del resoconto di una spedizione del 1941 del biologo Steinbeck. Questi nel corso del viaggio rimase affascinato da una specie di pesce chiamata «mexican sierra». Il pesce è fatto come una trota, ha macchie blu brillante, misura dai 40 ai 60 centimetri, è sottile, è un nuotatore molto rapido, è classificato in modo simile allo sgombro anche se la sua carne è bianca, dolce e delicata, pesa fino a sei chili e si trova nella parte settentrionale del Mare di Corz.

Il mexican sierra ha 17 + 15 + 9 spine nella pinna dorsale. Possono essere contate facilmente. Ma se strappa forte la lenza tanto da far scottare le mani, se si tuffa verso il fondo e quasi scappa e alla fine viene su oltre la battagliola, con i colori che pulsano e la coda che percuote l’aria, ecco che si viene ad avere un modo di esternare i rapporti completamente nuovo: un’entità che è più della somma del pesce e del pescatore.

L’unico modo per contare le spine del sierra senza essere toccati da questa seconda realtà relazionale è sedere in laboratorio, aprire un vaso tremendamente puzzolente, togliere un rigido pesce incolore dalla soluzione di formalina, contare gli aculei e scrivere la verità (...). Abbiamo così registrato una realtà inattaccabile — probabilmente la realtà meno importante a riguardo sia nostro sia del pesce.

È bene sapere ciò che si sta facendo. L’uomo con il suo pesce in salamoia ha fissato una verità e registrato molte bugie. Il pesce non è di quel colore, non è così smorto e non ha quell’odore (14).

L’unico momento in cui è possibile conoscere l’identità del pesce è l’interazione tra il pesce e il pescatore, l’analisi in laboratorio non consente di conoscere l’animale acquatico.

La volontà di osservare il pesce in laboratorio esprime bene l’esigenza di voler utilizzare degli strumenti di osservazione e valutazione capaci di garantire «l’oggettività» delle conoscenze. La questione cruciale che Weick mette in luce è relativa al rapporto tra i quadri concettuali sottesi nelle mappe dell’ascolto e dell’osservazione e «l’oggetto» analizzato. La metafora sembra indicare che se l’osservatore rimane ancorato alla necessità di osservare e ascoltare seguendo il copione del questionario rischia di allontanarsi troppo dalla realtà e di cogliere gli elementi accettabili e comprensibili solo dalle proprie mappe esplorative. Attrezzarsi di griglie può essere in alcuni casi una corazzatura che impedisce al ricercatore di capire dati essenziali del sistema studiato, di percepirne l’intensità, di cogliere indizi e tracce che possono aiutarci a comprendere i processi lavorativi.

Le rilevazioni dei fenomeni che impediscono il buon funzionamento di un InformaGiovani, ad esempio, implicano un ascolto e un’osservazione capaci di «far parlare i fatti», di lasciarsi suggestionare, influenzare, orientare dai molteplici indizi ambigui, confusi, contraddittori che un contesto lavorativo produce, senza dover immediatamente applicare le griglie concettuali, i protocolli di osservazioni, i saperi specialistici (che consentono di semplificare, ridurre, controllare e classificare i fenomeni analizzati).

Inoltre è importante accettare i movimenti perturbanti, destabilizzanti, confusivi prodotti dai fenomeni organizzativi alle proprie «mappe» usate per ascoltare e osservare i processi lavorativi. Una metafora efficace per comprendere questi processi la si ritrova in Alice nel paese delle meraviglie:

Alice era sicura di non aver mai visto un campo di croquet così strano, tutto pieno di solchi e zolle: le palle erano dei porcospini vivi, le mazze dei fenicotteri vivi e i soldati dovevano piegarsi in due e fare leva sulle mani e sui piedi per formare gli archetti.

All’inizio la cosa più difficile per Alice fu maneggiare il suo fenicottero: le riuscì di tenerne serrato abbastanza agevolmente il corpo sotto il braccio, lasciando le zampe penzoloni, ma in generale, quando gli aveva fatto tendere bene il collo ed era sul punto di colpire con la testa il porcospino, quello si girava a guardarla in faccia con un’espressione talmente stupita che lei non poteva fare a meno di scoppiare a ridere. Quando poi arrivava a fargli abbassare la testa e stava per eseguire il tiro, si accorgeva con disappunto che il porcospino si era srotolato e se ne filava

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via. Oltre a ciò, c’era sempre un solco o una zolla che sbarrava la strada da qualsiasi parte volesse indirizzare il porcospino e, poiché i soldati piegati in due si raddrizzavano continuamente e si mettevano in marcia verso altre zone del terreno, Alice venne ben presto alla conclusione che si trattava proprio di un gioco molto difficile.

(Lewis Carroll, 1865)

Uno dei significati centrali della metafora è relativo al gioco di influenzamento e condizionamento tra i diversi attori: nel momento in cui Alice tenta di colpire il porcospino, il fenicottero si gira per guardarla in faccia con un’espressione talmente stupita che lei non può fare a meno di scoppiare a ridere. La protagonista, pur osservando attentamente il campo e la posizione del fenicottero, incontra tutta una serie di ostacoli imprevisti e imprevedibili che la condizionano fortemente nella possibilità di «colpire il bersaglio» (15).

È il gioco di reciproco influenzamento e contaminazione tra l’osservatore e l’osservato, tra l’ascoltatore e l’ascoltato a rendere complesso il processo di ascolto e osservazione. L’educatore, il consulente raccolgono e fissano lo sguardo su dati che li coinvolgono. Ci si sente co-implicati perché si osserva e si ascolta un contesto in cui l’operatore è emotivamente e affettivamente compromesso nei processi lavorativi. Gli influenzamenti e le contaminazioni reciproche tra i quadri concettuali dell’educatore che analizza la modalità delle persone di essere accolte nel SERT e i fenomeni osservati e ascoltati mettono definitivamente in crisi la possibilità di giungere a conoscenze «certe» e «oggettive» dei problemi del servizio. Evidenziano però anche un’altra questione cruciale dei processi di rilevazione: la possibilità di individuare nelle situazioni confuse, ambigue, contraddittorie, ingarbugliate, un «bandolo» della matassa, un filo che consenta di costruire delle rappresentazioni dei problemi capaci di attivare delle progettualità condivisibili.

Per trovare un bandolo della matassa in contesti lavorativi complessi, incerti e ambigui è importante saper attivare delle osservazioni poliedriche e degli ascolti polifonici capaci di riconoscere come nelle rilevazioni dei fattori che producono, ad esempio, un alto turnover degli operatori siano possibili diversi «fili» di analisi. Ogni filo produrrà delle conoscenze, aprirà degli sguardi che consentiranno di cogliere e intrecciare indizi, tracce diverse dei contesti lavorativi.

In questo senso si potranno ascoltare e osservare i molteplici aspetti in gioco nei processi lavorativi: le culture organizzative che istituiscono valori, norme, codici linguistici, mitologie e simboli; le culture professionali che definiscono i saperi praticati e agiti nelle azioni quotidiane; le storie delle persone che si rivolgono ai servizi e che condizionano le aspettative, i desideri; le condizioni socio-economiche del territorio in cui c’è il servizio.

Gli ascolti polifonici e le osservazioni poliedriche consentiranno di cogliere nelle rilevazioni dei contesti lavorativi aspetti e indizi utili per costruire una versione e una visione dei «fatti» capaci di attivare dei processi di progettazione. Gli ascolti polifonici e le osservazioni poliedriche valorizzano (16) e sono interessati a sperimentare più chiavi di accesso, più vertici di osservazione e ascolto. In questo modo si costruiscono delle comprensioni più articolate dei fenomeni quotidiani. Una metafora efficace per comprendere questo processo la si ritrova in un racconto di Calvino:

Quando c’è una bella notte stellata, il signor Palomar dice: – Devo andare a guardare le stelle. (...) La prima difficoltà è quella di trovare un posto dal quale il suo sguardo possa spaziare per tutta la cupola del cielo senza ostacoli e senza l’invadenza dell’illuminazione elettrica: per esempio una spiaggia marina solitaria su una costa molto bassa. Altra condizione necessaria è il portarsi dietro una mappa astronomica, senza la quale non saprebbe cosa sta guardando (...). Per decifrare la mappa al buio deve portarsi anche una lampadina tascabile. I frequenti confronti tra il cielo e la mappa lo obbligano ad accendere e spegnere la lampadina, e in questi passaggi dalla luce al buio egli resta quasi accecato e deve riaggiustare la vista ogni volta. (...) l’esperienza del cielo che interessa a lui è quella a occhio nudo (...). Occhio nudo per lui che è miope significa occhiali; e siccome per leggere la mappa gli occhiali deve toglierseli, le operazioni si complicano con questo alzare e abbassare (...). Quando si alza lo sguardo al cielo lo si vede nero, cosparso di vaghi chiarori; solo a poco a poco le stelle si fissano e dispongono in disegni precisi, e più si guarda e più se ne vedono affiorare. (...) Insomma il localizzare una stella comporta il confronto delle varie mappe e della volta celeste, con tutti gli atti relativi: levare e mettere gli occhiali, accendere e spegnere la lampadina, dispiegare e ripiegare la mappa grande, perdere e ritrovare i punti di riferimento (17).

Calvino afferma che per localizzare le stelle è necessario il confronto delle varie mappe e della volta celeste.

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È importante avere delle mappe per non smarrirsi nella molteplicità degli indizi, delle tracce, ma nello stesso tempo è necessario soffermarsi sui segnali, sulle suggestioni e indicazioni degli oggetti osservati e ascoltati.

Gli ascolti polifonici e l’osservazione poliedrica della realtà organizzativa si fondano su una rilevazione paziente e accurata degli elementi concreti resi visibili e ascoltabili dai discorsi degli operatori, dalle azioni quotidiane. L’esplorazione non ha lo scopo di raggiungere una classificazione dell’azienda, del territorio e dei suoi «mali» entro un quadro sistematico ed esaustivo. Deve avere l’intento di mettere in luce degli indizi, dei sintomi a partire dai quali è possibile costruire ipotesi interpretative articolate e dinamiche della realtà organizzativa — ipotesi che potrebbero consentire di attivare una progettualità maggiormente congruente con i contesti lavorativi e soprattutto condivisibile dagli operatori. Le osservazioni poliedriche e gli ascolti polifonici consentono di costruire delle rilevazioni che siano congruenti con le organizzazioni a legame debole attraversate da un’estrema incertezza, ambiguità, dinamicità dei processi lavorativi. Le rilevazioni sono finalizzate a costruire

(...) «costrutti transitori» (oggetti concreti, relazioni, significati, schemi, storie, perfino identità), che incorporano e «fissano» provvisoriamente alcune caratteristiche della situazione percepite come rilevanti. Tali costrutti mediano tra attori e mondo ed esprimono ciò che gli attori conoscono fino a quel momento. Essi sono dunque delle «entità di riferimento», dotate di una provvisoria coerenza interna, che aiutano gli attori a imprimere un ordine effimero, a fissare un significato destinato ad essere trasceso, ma tuttavia indispensabile agli attori per agire, per orientarsi nella situazione e per andare oltre la situazione. Spesso tali costrutti hanno caratteristiche di espedienti e di improvvisazioni, messi insieme con materiali di seconda mano o pezzi di scarto, con un’attività continua di bricolage: ciò avviene perché in situazioni incerte, instabili, e perpetuamente mutanti questa è l’unica cosa che è possibile fare, non si ha tempo per fare altro. E tuttavia questi artefatti o assetti intermedi sono veicoli dinamici di cognizione e «portatori» di senso (18).

La costruzione di ascolti polifonici e osservazioni poliedriche La possibilità di cogliere i molteplici indizi presenti nei processi

organizzativi attraverso ascolti polifonici e osservazioni poliedriche implicherà, in primo luogo, fare i conti con quanto siamo «affezionati» e «identificati» ai quadri di riferimento culturali sottesi alle nostre «mappe» esplorative e con la necessità di non ricorrere immediatamente ai saperi protettivi e difensivi. Ogni mappa permette di cogliere alcuni aspetti dei fenomeni organizzativi tralasciandone altri. Esse selezionano, escludono, includono i dati, gli indizi per poter riprogettare un servizio. Ogni mappa costruisce un mono-ascolto e una mono-visione dei fenomeni organizzativi. Spesso è il ricorso a quadri di riferimento collaudati e familiari, che appaiono come più solidi e stabili, più sostenuti dalle dimensioni istituzionali (delle organizzazioni o delle professioni), che impedisce di mettere in evidenza i nodi critici e porta a dividere quello che è giusto e quello che è sbagliato, quello che è conforme e quello che non lo è. «Critico» viene allora interpretato come cattivo piuttosto che come «né buono né cattivo, ma suscettibile di cambiamento». In quest’ultima accezione i nodi critici diventano invece aperture a riflessioni ulteriori che possono essere sviluppate introducendo altri quadri di riferimento concettuali. In questo processo di ascolto e osservazione non si tratta di valutare quanto è stato rilevato in rapporto a un modello prescritto (ideale) di operatività, ma piuttosto di cogliere dissonanze (19) che possono essere esplorate ricollegandosi a saperi, esperienze e culture presenti nell’équipe di lavoro, nelle organizzazioni. Nell’individuare le criticità emergono negli operatori differenziazioni e dissimmetrie, posizioni e linguaggi differenti, da qui fraintendimenti, scontri e dibattiti per affermare la validità dei propri punti di vista. Tuttavia è proprio questo «dibattito» a generare processi di progettazione dialogica.

Il confronto-scontro sulle mappe dei diversi attori è possibile se essi accettano di non rimanere ingabbiati e rigidamente identificati nei propri quadri culturali, se ci si distanzia dalle appartenenze e identificazioni alle culture organizzative e professionali. In questo processo si riconoscono, per quanto possibile, le culture organizzative, professionali e personali che strutturano le proprie prospettive di osservazione e ascolto. Ciò offre l’opportunità di entrare in contatto con le culture organizzative, professionali e personali che hanno strutturato il proprio modo di sentire e vedere.

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È proprio il riconoscimento delle culture introiettate e apprese lungo il corso della vita che ci consente di entrare in contatto con la presenza in noi, anche, di una pluralità di riferimenti culturali, di saperi, di esperienze — il che facilita la possibilità di riconoscere e accettare l’esistenza e la legittimità delle «altre» mappe esplorative. In questo processo di riconoscimento e legittimazione è possibile integrare le diverse mappe attivate dagli attori organizzativi nel servizio. Nelle organizzazioni il problema dell’integrazione

(...) diviene quello di rendere possibile per persone che abitano mondi diversi un incontro genuino e reciproco. Se è vero che, nella misura in cui vi è una consapevolezza generale, essa consiste nell’inter-azione di una massa disordinata di visioni non interamente commensurabili, allora la vitalità di quella consapevolezza dipende dalla creazione delle condizioni in cui avrà luogo questa interazione. E per questo il primo passo è sicuramente l’accettare la profondità delle differenze, il secondo il comprendere che cosa siano tali differenze e il terzo il costruire un tipo di vocabolario in cui esse possano essere formulate pubblicamente: in cui gli specialisti di econometria, gli epigrafisti, i citochimici e gli esperti di icone possano scambiarsi reciproci resoconti plausibili (20).

Attraverso le integrazioni si co-costruiranno delle nuove mappe; i diversi operatori, consulenti, responsabili si riconosceranno nelle mappe perché co-costruite attraverso il confronto-scontro. La co-costruzione non è però un processo volto a sommare e a giustapporre i diversi quadri concettuali, bensì è un processo creativo in cui si intrecciano, si mescolano e si producono nuovi modi di osservare e ascoltare i fenomeni organizzativi. La co-costruzione di nuove mappe consentirà di ridefinire rappresentazioni condivisibili dei problemi e quindi di attuare progettualità dialogiche.

Per attivare ascolti polifonici e osservazioni poliedriche è importante riflettere anche sui movimenti che l’ascolto e l’osservazione dei fenomeni attivano dentro di noi.

Ciò che permette di sopportare un’esperienza dolorosa sono l’interesse e la capacità di riflettere sui sentimenti che essa evoca in noi. Può succedere che ci sia bisogno di tempo e di spazio perché si possa considerare nella giusta misura la natura della sofferenza e se ne apprezzino adeguatamente i motivi. Questa riflessione sui sentimenti che proviamo ci consente sia di avere un’autentica esperienza che di afferrarne il significato, il che non può non portare ad una migliore comprensione di noi stessi e degli altri e, quindi, ad una crescita personale, oltre che ad una maggiore capacità di tollerare il disagio emotivo altrui (21).

Riflettere sui processi emotivi vuol dire tollerare il disagio emotivo prodotto dagli eventi e dalle situazioni osservate e ascoltate senza dover applicare immediatamente i quadri di riferimento culturali sottesi nelle mappe (22). La riflessione consente di tollerare e attivare la destabilizzazione delle visioni e versioni del mondo costruite sulla definizione del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto; dicotomie che non consentono di attivare progettualità dialogiche.

L’autorità e il potere L’ascolto polifonico e l’osservazione poliedrica partono dal presupposto che

per esplorare un fenomeno è necessario mettersi in contatto con le altre possibilità di comprensione e conoscenza degli oggetti osservati e ascoltati e con le questioni legate all’autorità e al potere di proporre e imporre le «visioni» e le «versioni» dei fenomeni organizzativi. Ma per mobilitare altre mappe è importante fare i conti con le routine dell’ascolto e dell’osservazione.

Le routine costituiscono, sia per i singoli individui che per le organizzazioni, risorse preziose per conseguire elevati livelli di efficienza ed efficacia. Esse permettono di realizzare delle economie cognitive. In situazioni che si ripetono in modo simile, fanno risparmiare tempo e sforzo mentale. Non sarebbe, infatti, possibile per un attore affrontare ogni situazione come se la incontrasse per la prima volta. Anche se i comportamenti routinari sono a volte fonte di stress, tuttavia non possiamo vivere senza routine (23).

Le routine dell’ascolto e dell’osservazione sono dei pre-giudizi che usiamo più o meno consapevolmente; esse attivano una selezione a partire dalle cose che ci sono famigliari.

Se da un lato rendono possibile gli ascolti e le osservazioni (24), dall’altro però l’utilizzo continuo e ripetitivo delle stesse prospettive di ascolto e osservazione delle dinamiche delle riunioni con i colleghi, dei colloqui con le famiglie degli utenti, ecc., produce conoscenze sempre uguali. In questo modo si diventa sordi ai segnali che ci provengono dalla quotidianità, incapaci di cogliere e valorizzare gli indizi che emergono dai diversi casi

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facendoli diventare indicazioni che orientino la progettazione di attività innovative. La metafora del sentiero-routine utilizzata da Lanzara esprime bene l’ambivalenza delle mappe:

Se da un lato il sentiero, in quanto espressione materializzata di ripetuti cammini che hanno avuto successo, è per noi una preziosa risorsa cognitiva che ci fa fare economie di ricerca e di tempo, dall’altro esso ci tiene quasi in ostaggio: ci offre sì la certezza, la tranquillità della sua traccia, ma ci vincola ad essa, ci fa pagare il prezzo di una perdita o riduzione di flessibilità cognitive. Infatti il sentiero ci connette alla meta finale e ci dà in ogni istante la certezza di essa, riducendo però la nostra capacità di orientamento locale. Se da un lato ci sconnette e ci protegge dalle contingenze locali, dall’altro, togliendoci sensibilità, ci disabitua ad un certo lavoro cognitivo (25).

Le routine degli ascolti e delle osservazioni possibili pongono alcune questioni cruciali sulla possibilità di attivare processi di progettazione dialogica. Se l’operatore rimane saldamente ancorato alle proprie cornici-mappe di ascolto e osservazione attraverso le quali seleziona, classifica, identifica i problemi che attraversano l’organizzazione, come può entrare effettivamente in contatto con altre costruzioni di problemi? Se ciascun operatore di un SERT rimane saldamente legato ai propri quadri culturali, come può attivare un processo di progettazione dialogica centrato sulla condivisione dei significati? Se rimaniamo ancorati alle routine dell’ascolto e dell’osservazione, come possiamo cogliere elementi, indizi non contemplati nelle nostre mappe? E quindi come possiamo attivare delle progettualità di cambiamento?

Uscire dalle proprie routine degli ascol- ti e delle osservazioni implica la possibilità di trasgredire i propri punti di vista, riconoscere gli sguardi dei colleghi, legittimare i punti di vista anche delle persone che non sono collocate ai vertici dell’organizzazione, costituire delle micro-organizzazioni capaci di sostenere l’ansia prodotta dall’inoltrarsi in territori sconosciuti, avere fiducia nel senso di rischiare interpretazioni inconsuete. La trasgressione, il riconoscere, il legittimare, la fiducia, il rischio sono tutte dimensioni che rimandano alle dinamiche dell’autorità e del potere nei servizi. Attraverso i dati ascoltati e osservati si argomentano, si raccontano e si legittimano le scelte progettuali come, ad esempio, una riformulazione dei livelli gerarchici. A seconda di come aggreghiamo, componiamo, selezioniamo e rileviamo, costruiamo una «visione» e una «versione» dei fenomeni organizzativi. Ogni «versione» e «visione» evidenzia e legittima alcuni aspetti del funzionamento organizzativo e ne tralascia altri, influenzando quindi più o meno consapevolmente i processi di progettazione. In questo senso quanto più ci assumeremo il potere di contaminare l’ascolto e l’osservazione dei fenomeni organizzativi, tanto più saremo in grado di partecipare ai processi di progettazione dei nostri contesti lavorativi.

(1) Nel verbo greco «vedere» ha la stessa radice di «sapere». (2) Goodman N., Vedere e costruire il mondo, Laterza, Bari 1988. In questo testo l’autore per

costruzione di mondi possibili intende mondi di significati e di senso che strutturano le nostre rappresentazioni della realtà. Per Goodman la «fabbricazione dei mondi» è intesa come processo attraverso il quale gli attori sociali si costruiscono una «visione del mondo», visione che serve per costruire e attribuire i significati alle inter-azioni.

(3) Weick K., Senso e significato nelle organizzazioni, Cortina Editore, Milano 1995, p. 118. (4) Douglas M., Come pensano le istituzioni, Il Mulino, Bologna 1990, p. 15. (5) Ibidem, p. 142. (6) Per i diversi riferimenti alla storia del pensiero organizzativo è possibile consultare Scott

R. W., Le organizzazioni, Il Mulino, Bologna 1985; Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, Milano 1989. Nell’ambito delle culture classiche del pensiero organizzativo in particolar modo Taylor F. W., Principi di organizzazione scientifica del lavoro (1911).

(7) Pirsig R. M., Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta, Adelphi, Milano 1990, pp. 79-80.

(8) Cfr. Brunod M., Il trattamento dei dati nella progettazione dei servizi, in «Animazione Sociale», 4, 1998.

(9) Uno dei maggiori rappresentanti di questo orientamento culturale è H.A. Simon. (10) Cfr. d’Angella F., Orsenigo A., Tre apprecci alla progettazione, in «Animazione Sociale»,

12, 1997, p. 58. (11) Simon H.A., Le scienze artificiali, ISEDI, Milano 1973, pp. 41-42.

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(12) Crozier, con Weick, è uno dei rappresentanti del pensiero organizzativo che ipotizza la presenza nelle organizzazioni di «logiche» d’azione organizzativa caratterizzate da una pluralità di significati e connessi debolmente.

(13) Crozier M., L’impresa in ascolto, Il Sole 24 ore Libri, Milano 1990, pp. 150-151. (14) Weick K., Organizzare. La psicologia sociale dei processi organizzativi, ISEDI,

Milano 1988, pp. 46-47.

(15) Cfr. Bateson G. e M. C., Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989, pp. 63-81. (16) La polifonicità è data anche dall’ascoltare e connettere i diversi racconti possibili sui

funzionamenti organizzativi; ogni racconto indica un modo di rappresentarsi la realtà, una versione dei fatti. Attivare ascolti polifonici vuol dire poter considerare le diverse narrazioni per poterne costruire una «versione» che soddisfi tutti gli attori coinvolti perché attiva ulteriori progettualità. Gli sguardi poliedrici non indicano solo che è possibile osservare diversi oggetti ma che questi sono anche osservabili a partire dai diversi posizionamenti organizzativi. A partire dalle diverse collocazioni istituzionali e professionali si definiscono anche i vertici di osservazione.

(17) Calvino I., La contemplazione delle stelle, in Palomar, Mondadori, Milano 1994, pp. 45-46. (18) Lanzara G. F., Capacità negativa, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 95-96. (19) L’importanza di cogliere elementi dissonanti è sottolineata da Freud nel testo Il Mosè di

Michelangelo: «Ivan Lermolief (...) aveva provocato una rivoluzione nelle gallerie d’Europa rimettendo in discussione l’attribuzione di molti quadri ai singoli pittori, insegnando a distinguere con sicurezza le imitazioni dagli originali e costruendo nuove individualità artistiche a partire da quelle opere che erano state liberate dalle loro precedenti attribuzioni. Egli era giunto a questo risultato distogliendo lo sguardo dall’impressione d’insieme e dai tratti fondamentali di un dipinto, sottolineando invece l’importanza caratteristica di dettagli secondari, di particolari insignificanti come la conformazione delle unghie, dei lobi auricolari, dell’aureola e di altri elementi che passano di solito inosservati e che il copista trascura di imitare, mentre invece ogni artista li esegue in maniera che lo contraddistingue» (Freud S., Il Mosè di Michelangelo, in ID., Opere, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino, p. 311).

(20) Geertz C., Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 205-206. (21) Salzberger-Wittenberg, Williams Polacco G., Osborne E., L’esperienza emotiva nel processo di

insegnamento e di apprendimento, Liguori, Napoli 1983, pp. 105-106. (22) In alcune situazioni è difficile accettare di fare delle scoperte. Per chi ha molti anni di

lavoro, di formazione professionale e di pratica lavorativa svolta con scrupolo in mezzo a tanti ostacoli, può esser faticoso ritornare sui propri passi. Inoltre può essere faticoso accorgersi di non avere visto qualcosa che era a portata di vista, ma che è sfuggito.

(23) Lanzara G., op. cit., p. 60. (24) Spesso la necessità di rimanere ancorati alle routine dei quadri culturali usati per

ascoltare e osservare i processi lavorativi quotidiani è dovuta al fatto che le cornici, le mappe sono fonte di riduzione dell’ansia prodotta dalle situazioni lavorative. Gli operatori sono spesso coinvolti, invischiati, incastrati in dinamiche relazionali generatrici spesso di confusione, smarrimento, lacerazioni, distruttività, impotenza. L’apprendimento di nuove mappe, per ascoltare e osservare i diversi funzionamenti organizzativi, implica un processo emotivo e cognitivo capace di sopportare situazioni conoscitive-esplorative dove non si è protetti e rassicurati dalle routine (cfr. Shein E. H., Verso una nuova consapevolezza della cultura organizzativa, in Gagliardi P., a cura di, Le imprese come cultura, ISEDI, Torino 1986, p. 404).

(25) Lanzara G., op. cit., p. 67.

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ANIMAZIONE COME PROCESSO CHE DÀ SIGNIFICATO ALL’ESPERIENZA di Franca Olivetti Manoukian Pur essendo partita da istanze molto legate al progettare e all’intervenire, le circostanze della vita e la riflessione su essa mi hanno portato ad essere attenta a tutti gli aspetti teorici connessi allo svolgimento di attività. Ho cercato allora di portare avanti, in questi anni, una forte connessione tra teoria e pratica. Non è facile riuscire a concettualizzare su ciò che si fa; eppure, questa mi sembra debba essere una caratteristica fondamentale del lavoro sociale, affinché progredisca, non sia ripetitivo, sia aperto a rivoluzioni, nel senso anche di generazione e di crescita. Mi sono sempre interrogata su ciò che si fa e sugli esiti di ciò che si fa. In particolare, due sono gli interrogativi che, a parer mio, incombono e a cui è molto difficile trovare indicazioni di risposta. Il primo è il seguente: come mai più crescono le risorse di tipo tecnologico e scientifico, anche nello specifico campo delle scienze sociali, meno sembra possibile sviluppare una vita sociale soddisfacente? In effetti, rispetto alle risorse e alle conoscenze scientifiche disponibili anche soltanto vent’anni fa, oggi sappiamo molto di più, eppure sempre meno riusciamo a costruire qualcosa che sia avvertito e riconosciuto come valido. Questo ci interroga sul senso di ciò che si fa. Rispetto a tale questione si danno spesso risposte di tipo descrittivo, che tengono conto dei vari elementi in gioco, o risposte di tipo giustificativo, che non entrano nel cuore dell’interrogativo. Esso emerge a livello di sistemi e microsistemi sociali e verte su quanto effettivamente si riesca a valorizzare le risorse esistenti. Parlo di risorse in termini scientifici, tecnologici; risorse in quanto saperi e conoscenze. Una vita associata spiacevole è difficile che sia una vita produttiva, che sviluppi le potenzialità, la ricchezza di un gruppo sociale. È un interrogativo, questo, che tocca i problemi della prevenzione, dell’animazione, dell’intervento sul sociale. Il secondo interrogativo nasce dal constatare, quasi con una sorta di impotenza, il perpetuarsi di una scissione netta tra quel che si sa e quel che si fa. Una separazione tra il sapere disponibile e l’azione che in quello stesso contesto si sviluppa. Ad esempio, soprattutto a livello di enti, si prendono spesso decisioni operative senza tener conto di una serie di conoscenze esistenti. È così nel caso della programmazione: esistono riflessioni, libri, articoli che hanno mostrato e dimostrato come una programmazione che parta con la pretesa che i destinatari la mettano in pratica sia destinata a fallire, eppure si continua in questa linea. È così anche rispetto al funzionamento delle Unità Sanitarie Locali, per le quali si ripropone l’individuazione di figure di manager che finalmente le prendano in mano, quando sono ormai più di cinquant’anni che sappiamo che le organizzazioni non sono fatte da leader, a meno che non siano organizzazioni di tipo molto autoritario, dove esista una sottomissione ai capi. Scindere il sapere dall’agire può anche essere frutto di una decisione, di un’operazione in cui è presente un’elaborazione della conoscenza, come quando si afferma: «So che fumare mi fa male, ma fumo lo stesso». So e in base a quello che so decido. Non è però il caso dei contesti citati, nei quali si riscontra una separazione tra sapere e agire assai difficile da ricomporre, sia a livello macro che a livello micro. Rispetto a questi interrogativi sono possibili molte risposte giustificative, che non aprono però a nuovi sbocchi o non suggeriscono che cosa si sarebbe potuto e si potrebbe fare di diverso. Sono interrogativi che pesano. RICORRENZE NEGLI INTERVENTI DI ANIMAZIONE È bene partire da ciò che è già stato fatto e riflettere sulle caratteristiche ricorrenti negli interventi di animazione in senso lato.

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La centratura sul fare Un elemento spesso presente e condizionante è la centratura sul fare. Quando si immagina o si realizza un intervento di questa natura, si produce molto a livello di azione, mettendo in atto una serie di decisioni: si costituiscono gruppi, si fanno leggi, si trovano sedi e fondi, si assumono persone. Come se fossero questi gli elementi essenziali. La mobilitazione delle persone si traduce nel farsi venire in mente le cose da fare e progettare: commissioni, consultori, campi sportivi, centri giovani, ecc. Pur essendo comprensibile la preoccupazione di «fare qualcosa» per contrastare fenomeni negativi (vandalismo, morti per droga, ecc.), si tratta comunque di interventi suscitati da eventi. Fare permette di reagire in maniera rapida ai drammi che possono accadere. Fare significa mobilitarsi subito. Fare rende visibile agli altri che ci si è mobilitati. Un assessore può così dire di aver aperto un centro, di aver speso milioni, di aver assunto personale. La centratura sul fare presenta, però, due elementi limitativi. Si fa senza prevedere le conseguenze, senza anticipare, in termini articolati, quel che potrebbe succedere se... Ad esempio, si apre un centro in una periferia milanese degradata, in cui tutti girano armati, e vi si mandano tre giovani animatori allo sbaraglio. Non si può non pensare a che cosa succederà a quelle stanze, a quegli animatori, a quei soldi spesi. Ma, nel momento in cui ci si mette a fare, è come se fosse giustificato il non prevedere le conseguenze dell’azione. Perché fare è quel che conta. La centratura sul fare porta inoltre a utilizzare, in interventi di animazione e prevenzione, quadri di riferimento propri di altri contesti e a trasporli automaticamente. Così, ad esempio, si fanno trasposizioni indebite da un contesto individuale a uno collettivo, da un contesto sanitario a uno sociale. Si ha l’idea di poter intervenire sul sociale con modalità analoghe alla prevenzione che si fa in campo sanitario, individuando il disagio e combattendolo come la tubercolosi o la carie dentaria. Il trasporre paradigmi da un contesto a un altro è utile e rappresenta un arricchimento, purché lo si faccia sapendo di fare una trasposizione, consapevoli di tutto ciò che questa comporta. Spesso, invece, si applicano tout court paradigmi psicologici a grandi gruppi, a situazioni sociali molto complicate, in cui le stesse dimensioni psicologiche possono senz’altro essere utili, ma occorre ricollocarle e risituarle. La centratura su quello che non c’è Il secondo elemento ricorrente è rappresentato dalla centratura su quello che non c’è piuttosto che su quello che c’è. Quando ci si pone nell’ottica di sviluppare un intervento, si presta maggiore attenzione a ciò che si deve fare che a ciò che è già stato fatto e che, comunque, già esiste in una situazione, coinvolgendo in questo meccanismo una serie di aspetti che cercheremo di analizzare. In particolare, si tende a rimuovere gli insuccessi. Esistono situazioni, difficili e complicate, nelle quali si fanno interventi da ormai vent’anni (certi quartieri, certe periferie, certe aree o categorie sociali). Come si può pensare di dar vita a un ennesimo intervento prescindendo dalle persone che già vi hanno operato e senza esaminare a fondo i motivi dei loro eventuali insuccessi e fallimenti? Un altro aspetto della centratura su quello che non c’è è la delega. In genere nuovi interventi introducono nuovi gruppi e nuovi individui. Questo rivolgersi a qualcun altro avviene sulla base di una fiducia acritica: si chiama qualcuno che fa lo psicologo, qualcuno che ha fatto l’esperienza in un altro quartiere... La centratura su quello che non c’è presenta un ulteriore aspetto: il riferimento a valori ideali molto alti e, quindi, spesso ipostatizzati. Nell’area del sociale non ci si può muovere in una situazione di neutralità valoriale. Rispetto ai valori io posso pormi pensando che siano princìpi fissi e inamovibili, che chiamo ideali perché sono ciò su cui si fonda la nostra identità e a cui non possiamo rinunciare. Dall’altra parte, invece, i valori possono essere quello a cui io cerco di dare importanza in ciò che faccio. Sono collegati agli ideali, ma anche molto più mobili: sono i valori di cui mi servo tutti i giorni. Io vorrei una società giusta, questo è un ideale; però il mio

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valore di giustizia sta nel cercare, nel mio lavoro, di non raggirare gli altri. Sono due cose molto diverse. Rispetto a interventi, a progetti di animazione e prevenzione sociale ci si pone chiamando in causa valori ideali di tipo religioso, politico, civile, educativo, ecc. Quello che li caratterizza è il fatto che devono essere tenuti molto in alto, ben visibili, per dare valore a quello che facciamo. In nome di questi ideali si raggruppano persone, si trovano consensi e finanziamenti, ma l’azione rimane così troppo legata al vano tentativo di calare nella realtà gli ideali proclamati. E non può essere altrimenti, perché essendo ideali sono appunto nell’ordine delle idee. L’irraggiungibilità di tali ideali fa sì che si creino spaccature tra le persone o i gruppi che lavorano intorno agli stessi problemi reali. E poi, siccome si hanno ideali diversi, non si può lavorare insieme. Ricapitolando: si rimuove l’esistente, si delega ad altri, si chiamano in causa valori ideali e, infine, anche interessi particolaristici. La centratura sul fare e la centratura su quello che non c’è rischiano di ridurre notevolmente il peso e l’efficacia degli interventi. Emerge l’esigenza di una ricerca di significati, di una centratura sul fare che sia perlomeno compensata da una centratura altrettanto importante sul «pensare a ciò che si è fatto». ANIMAZIONE E PENSIERO Che cosa vuol dire, allora, «animazione»? «Animare» significa dare vita. Si usa questo termine quando si intende influire su una vita associata che sembra minacciata di morte. Non è un caso che con esso ci si rivolga ai giovani, come se si dovesse proteggerli dal futuro, o a una compagine sociale che sembra non essere quella che abbiamo cercato di costruire o sembra essere fortemente minacciata. Collego l’animazione allo sviluppo di interventi sociali di tipo riparativo, non tanto come rimedio, ma nel senso (di matrice psicoanalitica) di costruire una compagine sociale che abbia caratteristiche in cui ci si possa identificare, rispondenti alle aspirazioni sulla società in cui vorremmo vivere. Un intervento sociale che permetta di contrapporsi a sintomi e fenomeni di disgregazione. Da decenni ci si pone il problema, ma gli esiti di questa attività sono poco evoluti. Un intervento sociale riparativo, volto a costruire una società che sia più rispondente ai nostri desideri, ha esiti incerti. La parola «animazione» penso che sia abbastanza usata come sinonimo di «prevenzione», con il vantaggio che è un termine più ampio e meno legato a una matrice sanitaria. Per certi versi credo anche che usare il termine «animazione» metta maggiormente a fuoco che si tratta di interventi sul sociale. Mi sembra cruciale sottolineare, in questi interventi, il rapporto tra pensiero ed azione. Come? Innanzitutto riconoscendo che l’azione è sempre guidata dal pensiero: è errato ritenere che se noi facciamo senza pensare, il pensiero non c’entri. Infatti, in questi casi è come se ci fosse un pensiero non pensato, un pensiero somatico, che rischia di farci fare cose finalizzate a noi che facciamo piuttosto che al destinatario della nostra azione. Mi sembra inoltre importante collegare l’azione al pensiero nel duplice senso di riconoscere che il pensiero guida l’azione e che l’azione è produttrice e generatrice di pensiero. TAPPE PER UN PROCESSO DI SIGNIFICAZIONE L’animazione, come processo di attribuzione di significati, riesce a collegare l’azione col pensiero e il pensiero con l’azione, nel senso non solo di riunificare teoria e prassi, ma anche di prefigurarsi l’inscindibilità di pensiero e azione. Costruire quadri di riferimento Prima di tutto occorre costruire quadri di riferimento molto articolati e sofisticati. Quadri di riferimento conoscitivi, al fine di avere riflessioni agganciate a teorie di riferimento. In questo periodo, ad esempio, si usa spesso il termine «solidarietà». Dovremmo però disporre di un quadro di riferimento articolato, chiaro, operando tutti i distinguo del caso, sapendo quali sono le matrici storico-sociologiche di questo termine, andando a verificare a che cosa corrispondono le scelte istituzionali che vengono fatte in questa direzione. Non possiamo infatti prendere il termine solidarietà come la nuova parola d’ordine da attaccare sulla bandiera.

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Un altro termine che, a mio parere, ha a che fare con l’animazione sociale è «democrazia». Termine, anche questo, oggi in abuso e in disuso, che non piace più, che non è più di moda. Ma che cosa intendiamo per «democrazia»? Prima di intervenire sul sociale dovremmo saperne di più delle idee e dei fenomeni che stanno alla base della nostra convivenza sociale. Mi sembra importante che ognuno si costruisca quadri di riferimento sia intorno ai contenuti cardine del lavoro nel sociale, sia intorno alla problematica tra idealità e pragmatismo. Nel sociale si ha costantemente a che fare con ambiguità e contraddizioni irrisolvibili. Proprio per questo occorre sapere come muoversi, avere in testa quadri di riferimento, mappe. Quanto più ci si muove in un terreno difficile, disseminato di trappole, di continui imprevisti, tanto più ci si deve sforzare di costruirsi una mappa personale sulla base delle informazioni che via via si riesce a mettere insieme. Se non ci costruiamo quadri di riferimento che ci consentano di vedere i problemi come tali, continueremo a vederli come questioni di parte, dei progressisti o dei conservatori. Nell’area degli interventi di animazione e di prevenzione nei confronti dei giovani e degli adolescenti, di certe situazioni a rischio, dobbiamo invece arrivare a ottenere che qualunque governo ci sia si faccia carico di questi problemi per preservare la convivenza sociale e la qualità della vita. Individuare soggetti e separazioni In seconda istanza occorre individuare i soggetti e le separazioni tra loro esistenti perché, anche se emergono soggetti nuovi che si legittimano e prendono l’iniziativa di fare interventi di animazione, vi sono comunque soggetti da cui non si può prescindere, e uno di questi è la scuola. Nei confronti della scuola, come ci collochiamo? Si può far finta che non ci sia? Possiamo assumere queste separazioni come separazioni date? Questo condiziona il rapporto tra azione e pensiero, perché ogni istituzione, ogni soggetto, ha già un suo pensiero tradotto in azioni. È come se fosse portatore, comunque, di un pre-pensato che viene immesso nella situazione e con cui noi siamo in qualche modo a contatto, nel momento in cui interveniamo con proposte, ipotesi, linee di lavoro, progetti. Chiarificare ideali e interessi Un terzo elemento consiste nel riuscire a trovare congiunzioni o saldature tra ideali e interessi. Cercare di ridurre la divaricazione tra la centratura sull’ideale e la centratura sull’interesse. È come se l’ideale rappresentasse il pensiero e l’interesse l’azione. Ciò significa chiarificare i rapporti che le persone e i gruppi hanno con i loro ideali al proprio interno. Circoscrivere problemi e obiettivi È inoltre necessario circoscrivere i problemi e gli obiettivi, perché sono convinta che ci siano gruppi che nei confronti degli ideali hanno rapporti rigidi, non riformulabili. Gruppi che non vanno al di là di una continua ripetizione e proclamazione di quella che è la loro idea. In quelle situazioni non c’è possibilità di riformulazione del rapporto con l’ideale. L’ideale è molto legato all’appartenenza e l’appartenenza è ciò che dà identità e sostegno rispetto allo stabilire rapporti con gli altri. In questi casi una riformulazione di problemi ed obiettivi può essere percepita come un’operazione molto brutale e violenta rispetto agli equilibri che le persone si sono trovate. Ma circoscrivere vuol dire ritrovare, ridefinire l’ambito, non vuol dire chiudere. Circoscrivere vuol dire delimitare di più il campo entro cui può essere possibile sviluppare azioni collegate ad altre. Darsi un’organizzazione Tenere insieme pensiero e azione è tanto più possibile quanto più ci si danno modi e mezzi per farlo in tanti e in modo continuativo: quanto più ci si dà, cioè, un’organizzazione. Per organizzazione non intendo l’organigramma, la definizione del «chi fa che cosa»; intendo tutto ciò che può essere di sostegno a processi di lavoro intorno a obiettivi. Occorre distinguere tra prestazione e processo. Prestazione significa eseguire qualche cosa sulla base di un copione già dato, in genere da metodologie professionali, e tradurre in pratica qualche cosa che ha già una sua formulazione; l’azione è dunque questo. Nel processo, invece, si parte da ipotesi sul raggiungimento dell’obiettivo e sul risultato atteso. Per arrivare

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al risultato atteso si compiono una serie di azioni di cui gli attori si assumono la scelta e la responsabilità della scelta. È un modo di lavorare molto diverso. Il processo mi costringe ad anticipare: per arrivare al risultato, che cosa debbo fare? Bisogna che cerchi di prefigurarmi nella mente la strada attraverso la quale posso arrivare al risultato. Se ragiono in termini di azioni e prestazioni, no. Mentre il lavoro o l’attività per azioni è di tipo lineare, in sequenza, la caratteristica del lavorare per processi è che questi sono di tipo circolare. Continuo a ritornare su quello che ho fatto per verificare se ho effettivamente raggiunto quello che mi ero proposta. E siccome un obiettivo non è mai raggiunto del tutto, ma ci si avvicina sempre approssimativamente, occorre ritornarci su per capire come migliorare il passo successivo. PENSARE IN TERMINI COMPLESSIVI Non è sufficiente fare un progetto e dare occupazione a qualcuno, per porsi sul piano dell’animazione sociale. Dare lavoro, anche a ragazzi che altrimenti sarebbero disoccupati, è una cosa rispettabile, fare un progetto può essere utile, ma non automaticamente si tratta di animazione sociale. Come nel secolo scorso si sono diffuse certe nozioni di igiene e ad un certo punto la gente ha cominciato a capire che bisognava disinfettarsi le mani prima di toccare una ferita, così oggi dovremmo diffondere, a livello culturale, l’idea che un progetto di animazione è una cosa profondamente diversa dal trovare quattro ragazzi che facciano giocare altri quattro ragazzi. È ormai sempre più importante pensare in termini complessivi, anche se poi si lavora nel micro. Anche se si lavora con un solo gruppo di ragazzi in un piccolo Comune, non si può non ragionare sul significato che le iniziative intraprese possono avere in relazione agli amministratori, ai responsabili dei servizi, agli opinion leader... Come si può contemporaneamente costruire un quartiere ghetto e aprire uno sportello Informagiovani? In termini complessivi c’è qui una contraddizione enorme. Com’è possibile che, in uno stesso contesto territoriale, la scuola possa vantarsi di espellere un numero sempre più grande di ragazzi e il Comune pensi a iniziative di prevenzione? L’intervento sociale non è solo un’opera dei servizi o del volontariato. Chi ci amministra tutti i giorni fa degli interventi sul sociale rilevantissimi, e così anche i responsabili scolastici. Non possiamo legittimarci e sentirci tranquilli perché, avendo un finanziamento, lavoriamo e facciamo attività meravigliose, quando tutt’intorno le cose vanno in senso inverso. Occorre almeno esserne consapevoli, anche se può darsi che non sia possibile fare niente. È necessario pensare in termini complessivi, in senso spaziale e temporale, perché i processi sono lunghi e se si vuol lavorare in termini di ricostruzione di rapporti con le nuove generazioni possono non bastare otto, dieci, quindici, vent’anni. I finanziamenti sono difficoltosi, ma non si affrontano i problemi in un anno. C’è bisogno di inventare modi e mezzi per poter realmente «lavorare» intorno ad aree di problemi in un contesto sociale circoscritto. Occorre pensare, all’interno di quadri di riferimento, a ipotesi specifiche. Sono i ragazzi, in genere, ad essere individuati come i più a rischio; le ragazze ne sono invece tenute un po’ fuori. Ma le donne, nella società, hanno un’importanza decisiva, contribuiscono a definire i modelli di socializzazione. Mi sembrerebbe interessante lavorare con le ragazze più di quanto non si faccia. Costruire ipotesi articolate e modalità organizzative. In quest’ambito il sapere organizzativo è in effetti molto ridotto. Purtroppo l’animazione è sempre stata un’attività svolta in un’ottica movimentista, puntando più su aspetti di spontaneità che su aspetti di definizione e di controllo. (Testo tratto da «Animazione Sociale», nr. 12, 1994)

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Dall’io al noi per tornare all’io- L’animatore tra esperienza e teoria sui gruppi Intervista ad Armando Bauleo a cura di Paola Scalari e Francesco Berto Un insieme di persone non necessariamente può dirsi gruppo. Per definirsi tale occorrono presupposti ben precisi che attengono al compito, alle finalità e alle dinamiche. Lavorare in gruppo modifica gli equilibri dei saperi e dei comportamenti, richiede un cambiamento continuo (di punti di vista, di idee, di visioni, di relazioni) e, dunque, la capacità di misurarsi con la resistenza al cambiamento, la capacità di padroneggiare e conoscere le dinamiche che nel gruppo si generano (e a volte si scatenano). Non è sempre facile discriminare ciò che fa parte della quotidianità della nostra vita. Poiché quello che ci circonda diventa quasi invisibile, è complesso prenderlo in considerazione, interrogarlo, osservarne e riguardarne il significato. Così è per il gruppo. Tutti viviamo in una dimensione collettiva. Essa fa parte del nostro incontrarci, a tal punto che osservarla disturba le nostre abitudini. Il passaggio dal gruppo inteso come dimensione naturale dell’esistenza al gruppo inteso invece come strumento dell’operare professionale necessita di un salto di qualità che sappia evidenziare potenzialità e ricchezze di questo strumento di lavoro. L’occasione per approfondire quali competenze necessitano per lavorare con i gruppi è data da questa intervista ad Armando Bauleo, psichiatra e psicoanalista argentino, fondatore della concezione del gruppo operativo. Dalla fine degli anni Ottanta risiede in Italia seppur la sua dimensione di lavoro sia rimasta a cavallo tra l’America Latina e l’Europa permettendo continui e fecondanti intrecci di pensiero non solo tra realtà sociali diverse, ma anche tra molteplici apporti filosofici, politici, oltre che psicologici, che sostengono il suo continuo e incessante fermento di idee. Sempre attento a cogliere i nuovi problemi emergenti, oggi si sta dedicando in modo particolare al mondo della tossicodipendenza, allo sviluppo dell’interculturalità e alla promozione della crescita dei bambini e degli adolescenti. Domanda. Lavorare in gruppo è una proposta semplice che molti professionisti fanno sia per affrontare le problematiche con gli utenti sia per confrontarsi tra di loro. Le dinamiche che compaiono all’interno del gruppo però diventano spesso difficili da gestire. Esiste allora una specifica competenza per poter portare un gruppo a sviluppare l’intento per cui si è costituito? Risposta. Quando si parla di gruppo tutti pensano di sapere cos’è. Questo fa sì che molti professionisti anche senza avere in mente un solo concetto sul gruppo, senza cioè aver studiato nulla a tal proposito, si mettano a lavorare con dei gruppi. Si crede cioè, con grande faciloneria, che chiunque sia autorizzato a proporre un’esperienza di gruppo. Viene allora da chiedersi: come mai se lo permettono? Come mai in questo ambito diventa possibile legittimarsi a fare una cosa che non si conosce? Nessuno pensa di fare il meccanico senza aver prima studiato cos’è un motore. Molti invece propongono lavori di gruppo senza sapere nulla sulla teoria dei gruppi. Penso che tanta disinvoltura ci sia perché ognuno ha sperimentato più volte cosa significhi vivere in un gruppo. Ogni essere umano, infatti, è nato in una famiglia e da lì è poi passato per diversi altri gruppi (quello degli amici, dei compagni, della scuola). Nella sua storia personale ciascuno passa quindi per diversificate dimensioni collettive. Questo però non vuol dire avere una teoria sulla dinamica del gruppo. Una cosa è essere vissuti dentro a un gruppo, altra cosa è invece avere un’idea di quali siano i suoi meccanismi. Conoscere il gruppo Per condurre un gruppo diventa dunque necessario avere un punto di riferimento teorico che aiuti a comprendere i motivi che determinano certi tipi di problemi al suo interno.

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Senza un riferimento concettuale sui gruppi non si può dare significato ai diversi momenti che attraversano il processo gruppale, non si può cioè cogliere, ad esempio, il perché in un certa fase il gruppo si paralizza o il perché in un’altra fase si delineano in esso sentimenti di panico. Senza una conoscenza teorica inoltre non è nemmeno possibile prefigurare quando e per quali ragioni un gruppo può esplodere. Ed infine, senza punti di riferimento per osservare e per capire come si sviluppa la finalità del gruppo, non si può nemmeno proporre un percorso. Il processo di un gruppo trova perciò uno specifico supporto solo attraverso uno schema di riferimento teorico. Il soggetto che ha vissuto l’esperienza dello stare in gruppo non padroneggia questi eventi, li conosce soltanto attraverso i suoi vissuti. Egli cioè sa cosa significa stare in gruppo, ma non sa prevederne le dinamiche, capirne gli emergenti e interpretarne i fenomeni. A questo punto possiamo soffermarci su un dato molto interessante che ci fa rilevare come un’esperienza profonda possa avvicinarsi a una teoria; senza tuttavia mai esserlo, poiché ogni teoria ha una sua conformazione, ha cioè un’organizzazione interna dove i concetti si articolano attraverso differenti e precise modalità proprio per permettere a chi li padroneggia di poter operare. Domanda. Il gruppo che hai delineato come strumento di lavoro è centrato sulla funzione del coordinatore. Quali competenze sono allora necessarie per coordinare un gruppo? Risposta. C’è una diffusa confusione tra leader del gruppo e coordinatore di un gruppo. Una questione è infatti sapere come si comanda un insieme di persone, come si possono ordinare e organizzare degli individui partendo da ciò che essi dicono, cioè dal manifesto. Un’altra questione è invece sapere coordinare un gruppo leggendo il significato latente dei conflitti che si sviluppano tra gli individui. Leggere il latente significa, per esempio, sapere tener conto che, alle volte, una discussione tra due soggetti veicola un problema emotivo che attraversa tutto il gruppo. Ogni interpretazione deve quindi decodificare che cosa porti i membri a comportarsi, a dire e ad agire in un determinato modo. Tale significato però deve poi essere riportato a ciò che sta vivendo tutto il gruppo. Ogni gruppo sviluppa allora due piani: un piano manifesto e un piano latente. Il manifesto è quello che possiamo vedere, sentire, ascoltare, palpare e anche odorare (ci sono pure gruppi odorosi), mentre il piano latente è quello che potremmo paragonare a un canovaccio teatrale che va organizzandosi all’insaputa dei soggetti stessi. In ogni gruppo si sviluppa allora una trama narrativa fatta da sentimenti, vissuti e argomenti invisibili. Questi, nel loro insieme, costituiscono una specie di opera teatrale che prende forma attraverso le parole, i gesti e le emozioni che attraversano il gruppo. Nessuno conosce prima questa rappresentazione poiché viene messa in scena nell’hic et nunc. È compito del coordinatore svelarla e renderla visibile anche al gruppo. Il lavoro del coordinatore è allora quello di mostrare la parte latente, ossia di rendere visibile l’opera teatrale che il gruppo sta «rappresentando». Egli, per dare parola al tema rappresentato, deve mantenere quella distanza ottimale che gli impedisce di immedesimarsi sia con il gruppo sia con la trama dell’opera che i «personaggi» stanno mettendo in scena. Ed è solamente da questa sua specifica posizione che il coordinatore può vedere l’argomento che il gruppo sta sviluppando. Se egli infatti va troppo vicino al gruppo o se si mantiene eccessivamente lontano dallo sviluppo narrativo perde la possibilità di vedere la trama. Ci vuole quindi molta flessibilità mentale per trovare continuamente la «giusta distanza» che non è né l’andare troppo dentro né lo stare troppo fuori dal gruppo. Il coordinatore è colui che svela l’argomento dell’opera, mentre il leader è invece colui che la organizza come gli piace o come pensa sarebbe utile. Il coordinatore non conosce l’opera e deve quindi scoprirla per rivelarla al gruppo che la sta interpretando. Il leader invece ha una sua idea di come deve svilupparsi l’opera e deve condurre il gruppo a realizzarla. Ritiene quindi di sapere qual è il modo

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migliore di procedere per tutti: quello a cui mira è infatti il riuscire ad avere il loro consenso. Il leader è parte della struttura di un gruppo, pertanto questa posizione non è mai assunta dal coordinatore. Cosa definisce un gruppo Domanda. Per sviluppare una sua originale trama affettiva ed emotiva il gruppo ha bisogno che siano sempre presenti i tre vertici costituiti dal coordinatore, dal compito e dal gruppo stesso? Risposta. Una situazione gruppale è sempre triangolare poiché ci sono sempre un insieme di persone, un compito e un coordinatore ed è sempre così anche se, apparentemente, può mancare un vertice del triangolo. Ci sono momenti in cui può mancare l’insieme di persone. Penso, infatti, al colloquio individuale. In un colloquio con un’unica persona si può scoprire ben presto che, anche in questa occasione, il soggetto sta portando in scena un suo gruppo. Si tratta del suo gruppo interno con tutti i personaggi e tutti i diversi ruoli da essi ricoperti. La persona, infatti, racconta di come era sua madre, suo padre, di come vive i suoi amici, i suoi colleghi, eccetera... Ecco quindi che un insieme di persone prende forma attraverso la visione che ne ha il soggetto. Anche durante un colloquio individuale, allora, è ugualmente presente una situazione triangolare, pur non essendo visibile poiché l’insieme dei soggetti che entrano nella stanza di consultazione è rappresentato dal gruppo interno messo in scena dalla persona venuta all’incontro. Ci sono pure situazioni nelle quali sembra che nel gruppo manchi un compito comune. Nelle équipe questa sensazione l’ho vissuta ripetutamente. Il gruppo di lavoro alla domanda «Voi che cosa fate?» scopre di aver dato per scontato e risaputo il compito e trovandosi a doverlo esplicitare non lo sa definire. Ciascun componente ha in mente una sua personale finalità che spesso è diversa da quella di ogni altro collega e si evidenzia quindi un gruppo che sembra lavori senza compito. Questo però non significa che a quella determinata équipe non sia stato assegnato un compito comune. Ci sono, infine, occasioni nelle quali può mancare il coordinatore. Penso al famoso gruppo di autogestione portato avanti tempo fa soprattutto dagli anarchici. Qui il coordinatore entra dentro alla struttura gruppale. I membri, come fratelli, giocano infatti tra loro il ruolo di coordinatore. È come se i soggetti si fossero mangiati il coordinatore e ognuno l’avesse «digerito», mettendolo poi in gioco in accordo con i bisogni del gruppo e la capacità di ognuno dei suoi partecipanti di interpretarli. Sono cioè i membri del gruppo che coordinano la situazione assumendo, in conformità alle peculiarità personali, una delle funzioni del coordinatore. A questo punto il soggetto più organizzatore dirà una certa cosa e quello più affettivo ne dirà un’altra. Anche nel gruppo autogestito allora c’è una coordinazione. È presente però in modo implicito in quanto apparentemente, poiché tutti i partecipanti svolgono una parte di questa funzione, sembra che nessuno rivesta in modo esplicito il ruolo di coordinatore. Domanda. Nei gruppi di lavoro compaiono spesso tensioni insolubili che portano a rifugiarsi nelle acquisizioni di sterili tecnicismi o di scisse competenze. Come si possono aiutare gli operatori a superare queste difficoltà? Risposta. Quando inizia un’esperienza di formazione, di apprendimento, di lavoro clinico o di altro ancora ogni membro del gruppo ha una propria idea sulla finalità dell’esperienza che si appresta a vivere. Ed è proprio su questa sua personale raffigurazione che il singolo ha stabilito un contratto, accettando di riunirsi con altri per un numero predefinito di giorni e di ore, oltre che per uno scopo. Quando inizia la prima riunione, allora, inizia anche un confronto tra i diversi soggetti e ognuno mette in gioco l’idea che si era fatto a casa di come dovesse essere quell’esperienza. Quest’idea primitiva del singolo si scontra con l’idea primitiva degli altri ed è a partire da questo scontro-confronto che comincia la dinamica di gruppo. Il momento iniziale del gruppo, quindi, è sempre un momento difficile proprio perché ognuno rimane un po’ confuso e sbalordito nello scoprire le idee che un altro soggetto ha della stessa finalità.

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È in questi frangenti che diviene essenziale per il coordinatore avere una teoria che gli permetta di capire e di sopportare che c’è una fase di confusione, ma che questa è necessaria all’interno della dinamica gruppale. È a partire da questo punto di riferimento che il coordinatore non tende immediatamente a trovare una soluzione alle difficoltà che appaiono e non opera quindi per tranquillizzare il gruppo, ma si pone invece proprio nella posizione di poter capire quello che succede. Egli infatti sa che la confusione è parte dell’apprendimento e sa anche che non lo può mai dimenticare se non vuole correre il rischio di omogeneizzare il gruppo. Per il coordinatore mantenere le differenze significa allora sapere che sono proprio le diversità che rendono dinamico un gruppo. Mi vengono alla mente molte équipe che evitano gli incontri di lavoro per evitare la confusione e operatori che scappano, si assentano, disertano le riunioni poiché non capiscono come mai non ci siano idee chiare. Chi accetta di vivere il confronto con gli altri deve inevitabilmente passare attraverso momenti di dubbio e fasi di indecisione. Voglio inoltre sottolineare che chi non ha dubbi è sicuramente più patologico di chi invece i dubbi li ha. Non tutti però possono sopportare tranquillamente la confusione e l’ansia che essa produce. Stare nella confusione, con l’angoscia che deriva dal perdere un certo tipo di indirizzo, significa allora perdere sicurezze e certezze, significa cioè non essere capaci di far fronte a questo stato d’animo senza sentirsi andare a pezzi. In un processo gruppale, quindi, c’è sempre un momento di incertezza che bisogna sopportare poiché la rottura degli schemi di riferimento precedenti non viene immediatamente sostituita con un altro schema di riferimento. Un’idea cioè non viene sostituita subito con un’altra! Se ogni soggetto non fa un grande lavoro psichico, che comporta l’articolazione tra le proprie idee e quelle dell’altro, non arriva mai all’integrazione tra i diversi punti di vista. Ed è proprio questa integrazione il vero cambiamento prodotto dal lavoro gruppale. Diversamente sarebbe solo accettare un’altra idea. Punto e basta. Ma non è in questo modo che l’esperienza gruppale favorisce processi trasformativi. Trasformarsi significa arrivare con le proprie idee primitive e integrarle con quelle degli altri per uscire dall’incontro con un diverso sapere che non è né il proprio né quello dell’altro. Trasformarsi significa stare in situazioni che non si riesce subito a capire dove portino e a quale nuovo sapere facciano approdare. Trasformarsi significa, allora, per ciascun partecipante, lasciare le proprie idee per ricercarne di nuove. E sottolineo ancora una volta che questo deve avvenire per tutti, senza che nessuno assuma il ruolo di quello che dispensa nuove idee. Il processo gruppale parte quindi dall’io, passa per il noi, per riapprodare poi all’io. È un processo che integra idee che molte volte sono contraddittorie e che ognuno deve elaborare dentro di sé proprio nella loro contraddittorietà. Il problema che deve affrontare ogni gruppo è il cambiamento del sapere di ciascun componente e non l’acquisizione di un sapere altrui al posto del proprio. Per raggiungere questo obiettivo ogni soggetto deve rompere i propri stereotipi, le proprie fissità e ripetitività. Il gruppo produce così nuove conoscenze in quanto ogni membro modifica aspettative, comportamenti e pensieri. Nessuno rimane uguale a come era prima dell’esperienza e questo rimettersi in gioco di tutti dà alla luce idee che non erano mai state precedentemente pensate. Nel percorso «io-noi-io» è quindi molto importante che vi sia un coordinatore perché può aiutare i soggetti a sopportare l’ansia che deriva dalla confusione che insorge durante il processo di cambiamento. Ogni individuo arriva al gruppo con le sue posizioni e, per non dover sperimentare il dolore che comporta il processo di trasformazione di sé, le vorrebbe sentire confermate. Il coordinatore fa in modo che l’angoscia non blocchi la rottura delle certezze stereotipate. Nel passaggio dall’io al noi, allora, c’è sempre in agguato il desiderio soggettivo di arroccarsi in posizioni sicure. Ogni individuo mette in gioco il bisogno di difendere le proprie posizioni, idee, sicurezze e acquisizioni. Il coordinatore però garantisce l’acquisizione di un noi poiché rende possibile a tutti d’imparare, anche se questo li destabilizza, e di tollerare, quindi di mescolarsi con gli altri.

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Il percorso è questo: io vado al gruppo con una struttura determinata e con una potenzialità affettiva personale. Passo poi per questa esperienza di integrazione con gli altri, transito cioè per il noi. Alla fine recupero il mio io che però è diverso da quello che è entrato nel gruppo. Quella del gruppo coordinato è allora un’esperienza di cambiamento. Il passaggio per i gruppi arricchisce il proprio io. Mi viene in mente l’immagine di un vecchio che racconta di sé. Non c’è dubbio che l’anziano quando narra la sua vita non parla solo di se stesso, ma anche di quella sua esperienza passata connotata da tanti incontri con persone che hanno segnato, modificato, colorato e trasformato la sua storia. Penso pure a come un medico, uno psicologo, un assistente sociale, passando per un gruppo, modifichino inevitabilmente la loro professionalità poiché ne usciranno diversi. Questo cambiamento, si guardi bene, non è né automatico né semplice. Al processo integrativo del gruppo, infatti, si oppongono a volte non solo le resistenze dell’io, ma anche le resistenze delle università, dei colleghi, delle associazioni, della società. Sono proprio queste appartenenze istituzionali che possono rinforzare le resistenze alla modifica di saperi e comportamenti. A volte l’io professionale ha una corazza costruita all’uopo dagli ordini di appartenenza e messa lì proprio per non favorire un lavoro di équipe. È dunque importante che l’io professionale non sia così tanto stereotipato e fisso da rendere impossibile il passaggio al noi. Che questo io sia passato o meno per un gruppo non cambia nulla, anzi rinforza lo stereotipo che gli consente di continuare a essere, anche dopo l’esperienza gruppale, quello che era prima. Si potranno allora riunire persone di diversa professionalità e ognuna dirà la propria opinione; ma questa è un’altra cosa rispetto al fatto che un’équipe risponda come tale a una certa problematica. Per arrivare a questo obiettivo infatti il gruppo, a partire dall’indiscriminazione primitiva e dalle differenze professionali, deve trovare un codice in comune capace di organizzare un comportamento organico intorno a un compito determinato. Solo così si stabilisce una strategia condivisa di lavoro (sia esso terapeutico, preventivo o di formazione). Il gruppo di lavoro deve allora attraversare un processo di differenziazione e di discriminazione, ma anche di coesione. La coesione è rappresentata dal fatto che ciascuno ha in testa la rappresentazione degli altri ed è questa conoscenza che, al momento di agire, lo rende capace di pensare a cosa farebbero questi altri se si trovassero nella sua stessa situazione. Mi riferisco a quando devo prendere una decisione e provo ad immaginare cosa farebbe un altro al posto mio. Avere una rappresentazione interna significa allora che io mi muovo con questo gruppo che mi accompagna. Per avere però questa rappresentazione, ossia questo gruppo interno, è necessario un lavoro gruppale che conduca ciascun componente a passare dal punto in cui ogni soggetto conosce un insieme di persone al punto nel quale questi individui non sono da lui conosciuti solo esternamente, ma diventano personaggi che appartengono al suo mondo interno ed è da questa collocazione che discutono con lui. Questo passaggio è difficile; se fosse facile non sarebbe necessaria una teoria sui gruppi. Se si trattasse solo di mettere insieme delle idee non sarebbe necessaria nessuna nozione teorica per sostenere tale processo. Ed è proprio questo il punto di vista della «sociologia delle organizzazioni» che, pur considerando i gruppi, spesso non ha un pensiero sulle dinamiche gruppali! Il percorso gruppale riguarda il dare così tanta dignità all’altro che certe volte mi arrabbio con lui dicendo tra me e me: ma perché si comporta in modo tale che io non ne capisco il motivo? Ho preso a modello l’équipe di lavoro, ma possiamo pensare alle stesse dinamiche con un gruppo di adolescenti, con le classi a scuola o anche con le famiglie. Questo passaggio dall’io al noi per tornare all’io con un gruppo interno con il quale interloquire, dialogare e confrontarsi avviene in ogni gruppo che passa attraverso un’esperienza di gruppo coordinato. Lo schema di riferimento gruppale Domanda. Ci sembra di capire che adoperi la parola «aggregazione» per definire un insieme di persone e la parola «gruppo» per definire invece un collettivo. Eppure nel linguaggio comune si dice «Lavoro con un gruppo di ragazzini, lavoro con un gruppo di adulti, lavoro con un gruppo di famiglie, lavoro con un gruppo

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di genitori...». Nella lingua italiana infatti si usa la parola «gruppo» quando si mettono insieme delle persone, mentre secondo te c’è una precisa differenza tra incontrare più persone e avere di fronte un gruppo. Manca una distinzione linguistica? Risposta. Non è per una mancanza linguistica, bensì per la mancanza di un coordinatore fornito di una teoria. È infatti lo schema di riferimento teorico che consente al coordinatore, mentre accompagna un insieme di persone a divenire gruppo, di sopportare le diverse circostanze cariche di tensione senza entrare egli stesso in uno stato di angoscia e di ansietà. La funzione della teoria, in questo caso, non è solo quella di far capire al coordinatore cosa sta succedendo, ma rappresenta anche una difesa che gli evita di essere investito dall’angoscia del gruppo e di cadere perciò in uno stato confusionale. Il coordinatore, appunto perché supportato dall’apparato teorico, può riconoscere gli affetti messi in moto dal processo di comunicazione delle diverse idee primitive con le quali i soggetti sono venuti al gruppo. La funzione del coordinatore è allora quella di trasformare un’aggregazione di persone in un gruppo. Queste persone infatti, se il coordinatore sa mantenere lo sviluppo della dinamica, non usciranno dall’esperienza uguali a prima; se invece non la sa mantenere rimarranno tutte con l’idea primitiva con la quale erano arrivate poiché non l’hanno potuta interscambiare con quella degli altri e trasformarla. In questo modo il loro stare assieme rimane un’aggregazione di individui che non diventano mai un gruppo. Nelle équipe dei servizi i soggetti rimangono spesso un’aggregazione proprio perché realizzano solamente una maniera multiprofessionale di lavorare. Non diventeranno mai un gruppo di lavoro, ma saranno solo un insieme di persone che rimangono sempre uguali a se stesse. Verrebbe a questo punto da domandarsi: come mai si promuovono così tanti gruppi se poi non si persegue l’idea di utilizzare questo dispositivo come luogo della trasformazione? Torna di nuovo il problema di fornire al coordinatore uno schema di riferimento concettuale. È il coordinatore che permette l’inizio di un’interazione tra le varie persone che si riuniscono poiché sa che ogni comunicazione va collegata con uno stato affettivo (pensiamo a quando i partecipanti sono arrabbiati, magari senza saperne il perché!). Se all’interno del gruppo, infatti, emergono situazioni troppo affettive e troppo cariche emotivamente, egli sa come dare senso a queste emozioni poiché pensa al ruolo che possono giocare nello sviluppo del processo gruppale. Attenzione, però, che dare un senso a queste emozioni non significa razionalizzarle! I gruppi ci hanno insegnato giustamente che c’è un passaggio tra affetto e pensiero, e che molte volte gli affetti rappresentano proprio una maniera di pensare. Giacomo Leopardi è stato uno dei primi a porsi su questa strada. Faccio ricorso a Leopardi per non nominare sempre psicoanalisti come Freud e Bion e per far notare come la letteratura abbia già messo in gioco queste problematiche. Leopardi è stato uno dei primi poeti della letteratura italiana a dimostrare, attraverso la poesia, come si possono esprimere un certo tipo di manifestazioni dell’essere. La sua poesia si avvicina infatti al pensiero inconscio di Freud e al pensiero mutativo di Bion quando questi due autori parlano della possibilità di trasformare l’emozione in concetto. Pensiamo al controtransfert. Sono proprio i sentimenti, le emozioni e i vissuti che il soggetto prova che gli permettono di conoscere quello che sta sentendo, vivendo, sperimentando un’altra persona. Come diceva Paula Haiman in un suo famoso articolo: «il sentimento che ho sofferto mi ha permesso di arrivare al conflitto dell’altro prima che io lo potessi pensare». Gli affetti dunque sono anche conoscenze proprio perché ci consentono di apprendere sia sull’altro sia su noi stessi. Questa possibilità di trasformare le emozioni in concetti emerge quando la gente sta insieme per lavorare su un compito. Il gruppo diventa sì l’occasione per raggiungere una conoscenza intellettiva quale potenziamento dei pensieri, ma diventa soprattutto l’occasione per immergersi in un’esperienza che stimola emotivamente.

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L’individuo si sente altamente pungolato e spronato quando sta in un gruppo perché entra in gioco la rappresentazione della famiglia. Questo fantasma gli viene immediatamente addosso. Solo successivamente saranno anche altre cose quelle che verranno messe in gioco, ma all’inizio c’è un vissuto che risuona, più o meno, in questi termini: «Quelli che ho davanti sono o non sono fratelli? Sono uguali a me o sono diversi da me? Chissà cosa pensa quello? Quell’altro... che sia un po’ stupido? E l’altro ancora non cerca forse di essere migliore di me?». Il clima familiare si è così acceso. Questo rientrare in campo della situazione familiare determina appunto la particolarità e la singolarità dell’esperienza gruppale. Domanda. I coordinatori si scontrano spesso con aspettative già codificate che fanno dichiarare ai partecipanti, quando siamo sul versante comunitario, che quello non è un luogo terapeutico e, quando siamo invece sul versante clinico, che quello non è uno spazio per l’apprendimento. Il modo in cui tu pensi i gruppi è un modello che funziona sia che si lavori per andare a vedere cosa c’è bisogno di fare nella comunità sia che si lavori per apprendere delle nozioni, sia che si lavori in un gruppo clinico sia che si lavori in una équipe? Risposta. Ricordatevi sempre che i membri di un gruppo non definiscono il gruppo. Il gruppo è definito dal suo compito. Voglio dire che se mi parlate di un gruppo di preadolescenti non mi comunicate nulla se non mi dite prima qual è il compito per il quale questi ragazzi si incontrano. Può essere che si riuniscano per apprendere, per formarsi, per riabilitarsi, per lavorare insieme, per ricrearsi, per giocare. Un gruppo, per esistere, deve avere sempre un compito perché è il compito che lo determina! Due gruppi composti dagli stessi adolescenti possono essere profondamente diversi perché, ad esempio, uno può essere terapeutico e l’altro di formazione. È il compito che determina la loro diversità. Se è diverso il compito, infatti, è diverso anche il comportamento delle stesse persone dentro al gruppo. Se non vogliamo generalizzare dobbiamo allora definire sempre il contesto, il compito, la finalità. Io posso riunire un gruppo di gente e dire che facciamo sei riunioni per vedere su che cosa possiamo lavorare insieme. Il gruppo, in questo caso, ha come compito di «trovare il compito» per lavorare insieme. Il non-compito diviene dunque il compito. Si cerca insieme una finalità, ci si riunisce cioè per trovare l’argomento su cui lavorare assieme. Questi incontri possono anche non portare a nulla, cioè si può non trovare un compito su cui lavorare insieme, ma nonostante tutto, si vive ugualmente un’esperienza di gruppo. Quante volte si dice: «Ti ricordi quel gruppo? È fallito miseramente. Ma quanto ho imparato!». Per lavorare in gruppo c’è bisogno di un tempo e di uno spazio per operare, non soltanto di un compito. Ecco, allora, che è necessario strutturare un tempo per il gruppo e anche un tempo per permettere a ciascuno di tornare alla propria dimensione individuale. L’obiettivo dell’esperienza di gruppo è di aiutare i soggetti a stare da soli. Il setting serve poiché ciascuno, avendo uno speciale lavoro psichico da fare, deve avere anche garantito un momento di silenzio e di tranquillità nel quale ogni individuo, dopo aver trascorso il tempo convenuto insieme ad altri, può usufruire di uno spazio per ripensare e risentire le cose che sono successe. È inoltre utile anche assicurare a ogni soggetto un tempo in cui far riposare il pensiero dopo tanto impegno mentale. È importante, per esempio, che i bambini facciano esperienze di gruppo, ma in realtà, come ci ricorda Donald Winnicot, devono imparare a stare e a giocare da soli. E siccome sappiamo che nel piccolo il pensiero passa attraverso il gioco, sappiamo quindi che ha bisogno di aver garantito anche il gioco solitario. Tutti noi però, non solo i bambini, abbiamo bisogno di essere soli per poter «giocare» con il nostro gruppo interno. Non possiamo rapportarci continuamente solo con gruppi esterni. Il gruppo interno è come noi: attraverso tutti i rapporti che abbiamo con i gruppi interiorizziamo a poco a poco quelli che più ci toccano, quelli con cui sentiamo di poterci maggiormente identificare, quelli

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che più empaticamente sollecitano i nostri affetti e quelli che ci hanno dato e continuano a darci importanti conoscenze. Attraverso l’esperienza gruppale andiamo allora configurando un gruppo interno rappresentato dal ricordo di una serie di personaggi con le loro frasi, le loro immagini e i loro sentimenti. Quella che ci portiamo dentro non è però una fotografia, bensì una scena viva fatta di emozioni. Questi personaggi interni vengono riattivati quando siamo soli, ma ritornano in scena anche quando iniziamo un nuovo gruppo. Quando si comincia un gruppo, cioè, rientrano sempre in gioco i tanti gruppi precedenti che ognuno porta dentro di sé. Il gruppo come strumento Domanda. Offrire alle persone un gruppo significa avvicinarle con uno strumento facilmente accettabile perché incontrarsi fa parte del vivere comune. A volte però il gruppo viene banalizzato fino al punto da essere utilizzato senza alcuna attenzione a cosa succede incontrandosi. Dove si colloca allora il malinteso che porta a considerare la proposta del gruppo sia come un’offerta altamente professionale sia come uno strumento utilizzabile da tutti? Risposta. Il gruppo è uno strumento con il quale si può lavorare sulla vita quotidiana. Abbiamo cominciato dicendo che la gente è sempre stata in gruppo e che la sua vita si articola tra diverse esperienze collettive. Gli operatori quindi utilizzano facilmente il gruppo proprio perché fa parte del vivere quotidiano. Abbiamo però già potuto constatare che gli individui, inevitabilmente, hanno molteplici esperienze di vita collettiva e credono perciò di possedere anche la conoscenza sulla teoria dei gruppi. Questa convinzione ha portato però a una confusione. La stessa confusione che si fa spesso tra il vivere una situazione e l’avere una teoria su quella problematica. Affrontare un problema economico, per esempio, non equivale certamente ad avere una teoria sull’economia! Un altro esempio è che in Argentina, come del resto in Italia, chi ha giocato al calcio (e tutti lo hanno fatto da piccoli) pensa di essere in grado di allenare una squadra. Non sa evidentemente che una cosa è aver giocato al calcio e un’altra è avere invece una teoria su questo gioco, fatta di conoscenze tecniche e di strategie. Allora, gli operatori che lavorano sul quotidiano credono di sapere già tutto e rischiano pertanto di operare trattando in maniera volgare, banale e superficiale questo modo di intervenire. Lavorare sul quotidiano invece è un mezzo che, pur partendo dalle cose più ovvie, permette di andare in profondità. Utilizzando il gruppo come articolatore della vita di ogni giorno si usa in realtà uno strumento altamente sofisticato. Il gruppo consente infatti di rovesciare le cose comuni della vita quotidiana tramutandole in possibilità di profondi cambiamenti. Affinché questo avvenga è necessario però saper lavorare con le resistenze al cambiamento. E il cambiamento inizia proprio lì dove comincia la resistenza. Quando, per esempio, inviti una famiglia che poi non si presenta, osservi la resistenza ed è di questa che un operatore deve occuparsi. In tutto questo discorso, che colloca l’intervento nella vita normale delle persone, ma che, per incidervi, si equipaggia di uno strumento molto particolare qual è la concezione di gruppo, dobbiamo riflettere su come ciò che motiva questo tipo di proposte sia proprio il cambiamento dei soggetti che sono chiamati a vivere l’esperienza. Il concetto di cambiamento è centrale per sostenere il senso dell’offerta di una opportunità di incontro. Porsi l’obiettivo di trasformare i soggetti significa perciò doversi scontrare con il problema della loro resistenza al cambiamento. L’evoluzione degli individui che partecipano a un gruppo non rappresenta quindi il vero punto di vista con cui operare poiché ciò che bisogna saper comprendere riguarda invece proprio le loro resistenze al cambiamento. È un problema che si ha spesso con le famiglie. Noi non possiamo determinare come sarà il cambiamento perché è impossibile prevedere il futuro. Il cambiamento può essere intellettivo, affettivo, comportamentale, di progetti, di vita... Il cambiamento non si può mai definire prima che avvenga, però si può definire la resistenza al cambiamento, ossia l’impossibilità di mettersi in condizione di modificare qualcuno dei nostri

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aspetti, atteggiamenti, azioni, pensieri, sentimenti. È così che si lavora sulla resistenza al cambiamento. Dopo, la trasformazione viene da sé. I cambiamenti molte volte avvengono dopo mesi, non sono sempre immediati. Anche se ci sono effetti subito riscontrabili, alcune modificazioni possono comparire solo successivamente. La burocrazia è il miglior esempio di resistenza al cambiamento. Il tempo passa e le cose non cambiano. La burocrazia è la difesa collettiva che nega il passare del tempo e con esso la morte. La temporaneità delle cose non esiste per la burocrazia. Merton ha evidenziato come si possa correlare la burocrazia con un tipo di comportamento patologico grave quale la nevrosi ossessiva. Pure il gruppo, quindi, deve finire. Quello del portare a termine un’esperienza è un vecchio problema che si presenta anche in qualsiasi psicoterapia, psicoanalisi o nella formazione. In realtà, la cosa che uno si aspetta è che il gruppo continui sempre. Potremmo dire che in effetti è proprio così. Il gruppo infatti continua per sempre, in quanto l’esperienza di incontro avvenuta in uno spazio-tempo determinato si costituisce nel mondo mentale del soggetto come gruppo interno che diviene perciò permanente. Il conduttore nel sancire la conclusione dell’esperienza sottolinea la fine formale del gruppo. I partecipanti imparano così che le cose iniziano e terminano. L’inquadramento indica lo spazio-tempo da usare in ogni seduta o in ogni riunione, ma serve anche per poter pensare a un momento d’inizio e a un momento di conclusione del processo dentro al quale deve avvenire un certo apprendimento. Anche per il coordinatore, quindi, il momento conclusivo è una fase molto impegnativa. Egli infatti si è impegnato, ha sopportato l’angoscia del primo momento, la confusione, l’indiscriminazione, il fatto che tutti gli volessero bene o male... ed è per questo che sente la difficoltà di chiudere il legame. Il gruppo diviene un vincolo anche per lui malgrado la sua estraneità all’esperienza di gruppo. Per il gruppo come per il coordinatore si stabilisce quindi un vincolo che per essere chiuso richiede l’elaborazione della perdita e la capacità di affrontare il lutto. E questa è una questione non facilmente accettabile perché implica sofferenza. È un vero e proprio dolore psichico. Quell’oggetto non ci sarà più. Questa è la cosa difficile da accettare poiché capire che quell’oggetto non ci sarà più significa che anch’io non ci sarò più o non sarò più così importante per loro. Penso che questo sia un problema del mondo contemporaneo, dove si gioca tutto sull’astoricità. Giocare sull’astoricità (che è anche il problema della burocrazia) vuol dire infatti giocare sull’inesistenza della perdita, giocare cioè sul non ricordo, sul non avere memoria della cosa. È chiaro però che il gruppo interno ha una memoria e non solo una memoria di fatti, ma anche di sentimenti e di pensieri. Oggi purtroppo la memoria gioca sull’oblio; nella società si gioca solamente sull’effimero e non c’è pertanto mai profondità nel problema. Credo che ciò derivi dal fatto che si vive sulla superficialità e che sia proprio per questo motivo che molti non vogliono neanche sapere una teoria dei gruppi. Queste persone vogliono negare una temporalità che è diversa dal tempo che scorre. Temporalità significa infatti avere in mente un processo interno. Ma oggi si vive come se non ci fossero processi interni poiché tutto è in superficie. Domanda. Il discorso sullo schema di riferimento gruppale porta a chiedere: Da dove viene questa «teoria dei gruppi operativi»? Perché è stata pensata così? Come si va avanti per approfondirne i concetti? Risposta. Questa teoria ha origine in Argentina e viene avviata in un ospedale psichiatrico da Pichon Riviere nel reparto dove erano ricoverati degli adolescenti. È in questo luogo che si inizia a lavorare con i gruppi per la soluzione di problemi pratici. In un determinato momento infatti, Pichon si è visto obbligato a fare un gruppo operativo poiché, a causa di uno sciopero, rimane senza personale. Egli aveva letto che era possibile fare questi gruppi e quindi si è messo a farli.

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Anche Bion ha avviato un’esperienza per affrontare i bisogni pratici dei traumatizzati di guerra. Aveva centinai di reduci da trattare. Che fare? La sua intuizione fu quella di fare dei gruppi. Pichon e Bion partono quindi da una necessità pratica. Ed è proprio questa «pratica» che — grazie alla genialità dei due e alla loro capacità di ricerca, oltre che alla grande cultura personale di cui disponevano — porta alla modifica della psichiatria, della psicoanalisi e anche della medicina. Questo pensiero, al quale io aderisco, deriva dunque da esperienze nelle quali medicina, psicoanalisi e sociologia interagiscono direttamente per ripensare a una situazione di insieme. È la necessità sociale che spinge a pensare alla situazione collettiva in un’altra maniera. Uno sente di dover risolvere al più presto una situazione collettiva. A partire da questo suo sentire e da questa sua urgenza pensa al gruppo. È a questo punto che inizia a interrogarsi su cosa sia un collettivo e su come funzioni un gruppo. Ho nominato Pichon e Bion, ma un grande contributo alla teoria dei gruppi è dato anche da Josef Bleger. Tutti noi cerchiamo di approfondire questa teoria che permette di capire il vivere collettivo. Approfondiamo questo studio perché ci serve per i diversi compiti che dobbiamo sviluppare: terapia, riabilitazione, prevenzione, formazione, insegnamento. Sono tutti compiti nei quali si lavora collettivamente. Nel mio ultimo libro Psicoanalisi e gruppalità ho cercato di affrontare nuovi temi, come l’immigrazione e la tossicodipendenza, che la società ci pone di fronte. Bisogna però ripensare anche alla prevenzione perché c’è un’idea diffusa, e per me tanto stupida, che si possa affrontare la prevenzione in termini individuali. È un’idea stupida perché la prevenzione ha sempre a che vedere con contesti e non con problemi individuali. Pichon aveva l’idea dell’«uomo in situazione»: un essere umano non può essere pensato fuori dalla situazione nella quale abita e convive, non può essere pensato fuori del suo contesto culturale e sociale. L’idea di base consiste allora nell’aver pensato a un’epistemologia convergente. Spieghiamo questo concetto partendo dalla stessa pratica di Pichon. Egli, in un momento determinato, per risolvere un problema del suo servizio, vede che ha come risorse un medico, uno psichiatra, uno psicologo (che neanche aveva finito gli studi), quattro o cinque infermieri, un assistente sociale e tre pazienti già trattati. È con questi che organizza il primo gruppo operativo. Pichon afferma che ognuno di loro ha una conoscenza sulla malattia, compresi i pazienti perché l’hanno passata. La cosa interessante è come egli ha messo insieme il sapere di ogni soggetto per trovare una modalità per trattare la malattia mentale in quel momento. È così che hanno potuto individuare una strategia per aiutarsi tra loro. L’epistemologia convergente, che oggi è considerata l’ultima novità, noi la conosciamo e pratichiamo dal 1948. Nel servizio dove voi operate, i Centri età evolutiva, applicate un’epistemologia convergente. Mettete insieme infatti educatori, insegnanti, psicologi, assistenti sociali, laureati in diverse discipline. La cosa interessante è che adesso si comincia a capire, grazie a Morin, che cosa è un pensiero complesso. È la possibilità di utilizzare l’interazione del sapere e delle conoscenze per vedere la complessità senza bisogno di ridurla e semplificarla. Le persone hanno delle loro conoscenze. Troppo frequentemente si pensa che quel pensiero sia volgare invece che una personale conoscenza della quale bisogna approfittare. Pichon diceva che il grande problema del gruppo è come strumentalizzare i saperi o le conoscenze che sono all’interno del gruppo stesso, sia a livello conscio sia inconscio, sia a livello cognitivo sia affettivo. I soggetti, se sostenuti dalla coordinazione, possono infatti avviare processi di comunicazione che permettono di scoprire cose nuove. Si ribalta così l’idea che si deve andare a imparare di qua e di là saltando fuori dal proprio gruppo. Il vero compito è invece valutare quello che si sa e cominciare da lì a lavorare. Per fare questo bisogna però che ci sia il gruppo.

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SETTE PENSIERI SULL’EDUCARE di Andrea Canevaro Educare non è certo una delle parole chiave del nostro tempo. E certo, se con essa intendiamo un plasmare la persona, un fabbricarla come nel famoso mito di Frankestein, allora vada pure in soffitta. Se invece la interpretiamo in modo più mite, lasciando che nel rapporto con l’altro ognuno divenga se stesso, in una relazione generatrice di sempre nuovi significati, capace di mobilitare il desiderio e provocare continue riprogettazioni di sé, allora è una scommessa che merita di essere giocata. Anche, se non soprattutto, oggi. Ci sono alcune parole da usare con sospetto: una di queste è «educare». Troppo spesso, quando si parla di educazione, si intende un’azione volta a trasmettere verità a chi ancora non conosce questa verità o non la possiede. Ma prendiamola in un’altra derivazione, che è «educarci». Educarci vuol dire essere tutti coinvolti, avere tutti un percorso da fare. E in questo percorso dare un senso alla fatica, che inevitabilmente si fa, è importante. La fatica Il primo punto della mia riflessione sull’educazione riguarda allora il trovare senso. Lo illustro con un riferimento a Matteo, un ragazzo down (quattordicenne al momento dell’episodio). Suo fratello Nicola lo intervista e gli domanda cosa sia la sindrome di Down. La risposta è molto bella: «La sindrome di Down è essere intelligenti, ma è fatica a stare al mondo». Ci abbiamo ragionato con altre persone. La prima reazione è stata quella di soffermarsi sull’elemento «fatica» e sulla necessità che come educatori abbiamo di togliere la fatica. Poi la riflessione è stata più precisa ed è sorto il dubbio che la frase non fosse scomponibile: e se la fatica fosse il picciolo della pera, per cui la vita di Matteo fosse un unico con quella fatica? Staccandogli la fatica, gli toglieremmo la vita. Fare la strada insieme a chi ha impedimenti talvolta è più semplice se lo prendo in braccio; certo vado più spedito, però la fatica la faccio io, me l’assumo altruisticamente. Ma cosa vuol dire impedire all’altro di fare fatica? Vuol dire togliergli una possibilità di contare sulle sue forze, di essere qualcuno che in rapporto alla realtà ha una forza, limitata magari, ma sua. È venuta così l’idea che fosse compito nostro insieme a Matteo trovare senso alla fatica. Questo è uno degli elementi forti della sfida dell’educazione: l’educazione deve aiutare a trovare senso. Come educatori noi abbiamo la responsabilità di aiutare a fare una fatica di cui ancora il senso non è tutto completo. Facilmente l’operazione incontra la resistenza dell’altro: di chi dovrebbe, secondo le nostre idee ingenue, essere solo contento di liberarsi dalla schiavitù dello stereotipo («barbone», «bullo», «tossico», «handicappato», ecc.) in cui è imprigionata la sua individualità; in realtà vive lo stereotipo stesso come rifugio, e quindi non è immediatamente contento di esserne liberato. Neanche in un secondo momento potrebbe essere contento di liberarsene. L’incontro con la sofferenza è l’incontro di chi nella sofferenza vive una condizione che, in qualche maniera, lo protegge. Forse se ne lamenta — la sofferenza non piace a nessuno — ma vi è una condizione paradossale per cui chi vi è dentro, chi la abita, e ne abita lo stereotipo e l’immagine sociale, fatica a liberarsene; e quando incontra chi gli propone questa liberazione oppone una resistenza. Un pedagogista di Lione, Philippe Meirieu, sostiene che il momento chiave di un rapporto educativo è proprio l’incontro, anzi lo scontro, con la resistenza dell’altro. Evitarlo, fare marcia indietro, risparmiargli questa fatica vuol dire non parlare di educazione. Naturalmente questo vale anche per gli educatori, vale per tutti: non esiste una parte del mondo che ha già fatto questa fatica e una parte che la deve ancora fare. In questo senso si è in un rapporto di parità. Tornando a Matteo, persona down, ho sempre il dubbio che si tenda a misurare la bontà di molte proposte educative sul fatto che non incontrino resistenza. E invece proprio qui sta la forza di un’operazione in cui il contatto personale, la conoscenza reciproca permettono di fare fatica e di scoprirne il senso. La comprensione

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La seconda questione ha a che fare con la ricerca di una prospettiva strutturata complessa (Gestalt). Prendo spunto da Rogers, il quale in due libri diversi ribadisce una stessa idea. Rogers critica chi si affida al sentito dire: le fonti vanno accertate, è sbagliato dare per scontato invece di fare la necessaria verifica. Però aggiunge: le fonti vanno anche rispettate. Non posso mettere in dubbio l’esistenza dell’Australia solo perché non ci sono mai stato. Sarebbe insensato. Bisogna che io accetti una strutturazione del mondo che comprenda l’Australia. Ecco, questa disponibilità a cogliere fonti diverse, ad ascoltare chi è lontano da me, per stile di vita, interessi, opinioni, questa capacità di superare quell’infantilismo ormai pervasivo per cui una fonte che mi è antipatica, se anche dice la verità, è già a priori bollata come falsa (e viceversa, quelli che mi sono simpatici hanno comunque ragione) mi sembrano qualità necessarie in educazione. La logica che pervade tutti è invece quella del telecomando, chi cresce ce l’ha incorporata: faccio quello che mi piace, ascolto chi mi piace, e se una cosa non mi piace cambio canale. Mi sottraggo così alla fatica del conoscere, chiuso nella mia immediatezza, senza riuscire a prendere le distanze necessarie per comprendere la realtà. Negli incontri di formazione in passato abbiamo spesso usato la griglia «mi piace/non mi piace». Ora non la uso più perché mi pare induca a pensare che si fa solo ciò che piace. Così come certa enfasi che ha attraversato il mondo dell’educazione sulla «motivazione» — peraltro giusta — mi sembra che alla fin fine porti a fare solo ciò per cui si è motivati. Bisogna spiegarsi bene, perché la motivazione può rattrappirsi in un individualismo esasperato, per il quale ognuno fa quello che vuole, impara quello che gli pare giusto e che gli va bene imparare, non diventa punto di resistenza. Ma così si fa poca strada (e non si sviluppa l’individuo sociale, che incrocia invece i suoi motivi con quelli di tanti altri), la prospettiva si struttura su uno spazio stretto. Arrivare invece a trovare una strutturazione su più piani, una comprensione di contesti diversi dal proprio, questo in educazione mi pare molto importante. I contesti sono anche i contesti gergali; il «dialetto» degli educatori fa sì che ci siano delle espressioni che hanno un significato piuttosto che un altro. Prendiamo la parola maternage: nel lavoro di strada assume talvolta la connotazione di un rapporto di accoglienza incondizionata, riproduzione di un rapporto in cui rischia di prevalere il ripiegamento narcisistico a scapito della progettualità. Noi invece usiamo la parola maternage senza queste connotazioni riduttive, il tipo di rapporto che intendiamo è ben raffigurato dall’immagine della madre che tiene un bimbo in braccio: in questo rapporto gli elementi di rassicurazione e allentamento sono molto ben collegati tra loro. Non c’è rigidità: la donna tiene in braccio questo bambino e fa altro — parla con altre persone, si sposta, ecc. Non lo guarda, ma ha un contatto di corpo a corpo che le permette di tenere il braccio rilassato e di irrigidirlo non appena il bambino compie movimenti che potrebbero risultare pericolosi. Mi sono anche abituato a figurarlo come il rapporto che esiste tra istruttore e persona che impara a guidare: bisogna avere codici molto istantanei per capire se l’iniziativa che deve avere chi impara a guidare porta a errori fatali, e allora intervenire e togliergli l’iniziativa, altrimenti lasciargliela, così che la persona sperimenti l’assunzione di responsabilità e impari dagli eventuali errori. Questo per dire che nei diversi contesti le parole cambiano anche di significato. Ci sono però contesti ampiamente riconosciuti che possono indurre a dare per scontato la fonte invece di svolgere la necessaria ricerca per approfondire. Bisogna perciò stare attenti a capire se anche quello che dicono coloro che ci sono simpatici ha un senso. La libertà C’è una parola, appartenenza, di cui l’educazione deve oggi parlare ponendosi dei problemi più ampi. Perché anche qui torna l’insidia della logica del telecomando: faccio solo quello che mi piace, che mi convince, che ha un senso per me, il mio essere parte di un tutto non mi interessa. Questa è frantumazione sia dei singoli sia del loro tempo — sono cose note — in una società fatta a tessere di mosaico dove ogni tessera ha una sua autoreferenzialità, per cui ci sono certe logiche che sono proprie di un’ora del giorno o di un determinato contesto, e poi altre logiche contrapposte, con coerenze inesistenti tra queste

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diverse logiche. Così ci sono persone che sono chierichetti la mattina e diavoli la sera: hanno cambiato canale, vivono in un’altra trasmissione e va bene così. L’appartenenza è qualcosa di più, che supera questa autoreferenzialità a mosaico e ha bisogno di una comprensione del mio «stare nel mondo», nel contesto più immediato, ma anche nel mondo più vasto. Ricordo un educatore, si chiamava Giovenale, morto l’anno scorso. Operava in colonia e aveva, come sempre succede, il problema di qualcuno che la sera aveva molta vivacità da esprimere. La sua capacità di educatore era quella di far sì che ci fosse spazio per le iniziative di costui o costei, ma nello stesso tempo si tenesse anche conto che si passava dal giorno alla notte. Ecco, questa è un’immagine che mi è piaciuto riprendere, pensando che la parola, non sempre facile, «appartenenza» voglia dire capire che per tutti c’è il giorno e la notte e bisogna mettersi d’accordo. Il giorno e la notte sono il tempo dell’attività e il tempo del riposo, anche se ci sono tutte le eccezioni, ma le eccezioni devono tener conto del contesto. Se escludo il pensiero degli altri e dico: «La notte sarà quella che dico io!», ecco che l’appartenenza viene meno. Sentire la propria appartenenza a qualcosa che è fatto di elementi comuni e di elementi particolari non vuol dire uniformità, ma comprensione degli elementi che sono una forza più grande della mia sola forza. Vuol dire comprendere i margini entro cui la singolarità e l’originalità di ognuno possono esprimersi, mantenendo però una curiosità forte per quello che succede altrove, per come succede, per l’identità di chi fa certe cose altrove. Non basta prendere atto dell’appartenenza, dei vincoli e delle regole che questa implica, per essere liberi e rispettare la libertà altrui. La libertà è anche liberarsi e liberare dagli stereotipi. È uscire dal proprio campicello e andare a vedere cosa fanno gli altri, vuol dire «entrare nelle loro case», ascoltare cose nuove, sentire che siamo ignoranti e che abbiamo un percorso di conoscenza anche molto faticoso da fare. La responsabilità «Presto o tardi — scrive Bauman ne Le sfide dell’etica — ci rendiamo conto che seguire le regole, anche scrupolosamente, non ci salverà dalla responsabilità». Tanto meno guardare le cose con l’occhio della rana ci esime dall’assunzione di responsabilità. L’occhio della rana è un’immagine efficace per dire come lo specialismo sia un’abilità ma anche un limite. La rana è capace di percepire il minimo vibrare di un’ala e per automatismo fa scattare la lingua. Se però è circondata da mosche morte, che sarebbero per lei un ottimo alimento, e non c’è neanche un filo di vento, la rana resta digiuna. Lo specialismo in questo caso può far morire di fame. Così lo specialismo delle idee o delle professioni: se da un lato si è garantiti e uscirne significa esporsi al rischio, dall’altro è vero che senza rischi finisce anche un po’ la vita. Incontro spesso questo problema quando ci sono persone handicappate che crescono e si vogliono evitare loro le delusioni d’amore. Allora si cerca di circoscrivere la loro vita in modo tale che non abbiano neanche il desiderio della vita affettiva e sessuale. Questo è comprensibile, soprattutto ascoltando i genitori, e non deve far pensare che si tratti di gente bigotta, ignorante o egoista. Però qui sta anche il grande rischio di non voler correre rischi. Certamente il percorso è da fare insieme: mai come in questo caso il coinvolgimento deve esserci, ma serio, non limitarsi al «ti capisco». Partiamo invece dalla comprensione e poi vediamo come fare sì che ci possano essere oltre alle delusioni anche delle gioie, perché dolore e gioia sono insieme ed è impossibile escludere il dolore e nello stesso tempo avere le gioie. È la stessa logica di chi, avendo un figlio con problemi particolari, vuole avere — dall’asilo in poi — solo incontri con educatori ed educatrici capaci di accogliere, sorridere, pazientare, insegnare. L’operazione va accompagnata comprendendo cosa significhi questo desiderio, ma anche tenendo conto che, finché sei tu vicino a tuo figlio, è il momento giusto perché tuo figlio incontri qualcuno che è impaziente, e ringraziarlo di questo, perché nella vita incontrerà l’impazienza. Ed è anche l’occasione che genitori ed educatori possono offrire per scoprire che, dietro l’elemento sgradevole, c’è qualcosa, forse anche una competenza (quante persone sono competenti e sgradevoli...). In questo caso la responsabilità comporta assumerne i rischi. A questo proposito mi pare anche molto interessante la continua riflessione condotta sulla scarsa efficacia dei metodi repressivi. La riduzione del danno,

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come logica, assume una responsabilità più efficace rispetto invece a decisioni (quelle repressive) valide per il consenso immediato, ma non sul lungo periodo. Credo ci sia la necessità di lavorare per l’educazione come valore fondamentale e allenare tutti noi — soprattutto chi cresce — all’assunzione di responsabilità. Le responsabilità sono assunte per delle sciocchezze, e non per cose serie, come le responsabilità nei confronti di altri. L’educazione su questo punto è fortemente in ritardo. La comunicazione Il quinto punto riguarda la trasmissione delle conoscenze, delle competenze, della memoria. Uno dei drammi maggiori, anche se meno appariscenti, è proprio la mancanza di trasmissione delle conoscenze nella nostra società. Abbiamo bisogno di lavorare a più livelli, non serve prendersela solo con certe categorie: insegnanti, politici, mass media. Non ragioniamo per stereotipi, perché le eccezioni sono tante e proprio all’interno delle professioni che sembrano più bieche ci sono quelli che stanno riflettendo su quanto è bieco ciò che fanno — ed è con loro che si possono fare passaggi interessanti. Racconto una storia che potrebbe essere una barzelletta: un ragazzo ventunenne, interrogato da un docente di storia contemporanea sulla spedizione nelle Due Sicilie, a un certo punto nomina un certo generale Biperio. Il professore tutto subito non capisce, poi tornando sull’episodio cruento di Bronte lo studente dice che il generale responsabile fu Biperio. Chi era Biperio? Era Bixio, solo che sugli appunti lo studente aveva letto la «x» come «per». La barzelletta può farci riflettere sulla difficoltà di trasmettere e di comprendere. La questione però è molto seria e ci può far capire come la trasmissione, molto schematicamente, abbia due parti: una «informale» e l’altra «formale». Se la trasmissione informale salta, allora subentra la trasmissione formale: bisogna formalizzare tutto l’insegnamento, perlopiù tramite la scuola. Quindi se i ragazzi hanno delle lacune o non sanno alcune cose, molto spesso si dice che la colpa è della scuola. Ma non è possibile che la scuola compia questo lavoro, perché fa parte di quella trasmissione informale che oggi è più difficile perché la comunicazione di massa è pervasiva e non si può pensare sia restaurata una competenza familiare. Bisogna piuttosto pensare che forse arriveremo a un uso improprio della comunicazione di massa; per cui dobbiamo occuparci della comunicazione di massa, e non lasciarla a Berlusconi o ad altri. L’operazione, secondo me, è paragonabile a quel che accade a chi usa una protesi uditiva — la cosiddetta «nocciolina». Se non è tarata bene e se non c’è l’educazione, dà improvvisamente tutti i rumori in una volta e si finisce per chiuderla nel cassetto, perché si sta quasi meglio a non sentire che a sentire la confusione. Accade un po’ la stessa cosa per i grandi mezzi di comunicazione. Nel giro di qualche generazione abbiamo bisogno di farci un’educazione a questa «protesi» potentissima che sono i grandi mezzi di comunicazione. È un’educazione però che non può essere fatta dagli eventi, ma deve essere fatta attivamente perché la trasmissione delle competenze ha bisogno della memoria e di una collaborazione molto studiata, attenta ai grandi media e alle tecnologie. Ben venga aprire Internet ai giovani, ma non aprirlo passivamente, ma per iniziare a lavorarci. L’intreccio delle culture Arriviamo così a un’altra questione decisiva: il superamento delle monoculture. Nell’educazione dovremmo avere sempre più coscienza che abbiamo bisogno di una buona metodologia in grado di intrecciare molti metodi. Non può più bastarci la conoscenza e l’attuazione di una proposta sistemica, ma bisogna «sporcare» le proposte, metterle insieme (questo vale per l’educazione di persone con limiti fisici o difficoltà psicologiche). Non si può più ragionare con l’idea che una riabilitazione basata su una proposta targata psicologia dinamica, psicologia cognitiva, sia da sola capace e sufficiente. Anche perché questa è una risposta falsata che gli specialisti ricevono: i «clienti» dicono di aver fatto esattamente quello che la proposta diceva di fare, ma lo dicono per far felice lo specialista, perché hanno sicuramente lavorato per adattare la proposta, con il loro buon senso, con i limiti e le risorse del contesto. Superamento delle culture può però essere sgangherata diffusione di risorse («ognuno si arrangi come può e come vuole»); invece c’è la necessità di una maggiore integrazione di risorse. Abbiamo bisogno di capire meglio quali sono le professioni di aiuto e di farne il quadro, e di definire dei profili delle

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professioni e organizzare questi profili secondo una logica dei crediti e debiti formativi. Ognuno di noi ha cose che sa già fare — e questi sono i «crediti» —, però ci sono anche dei «debiti» rispetto al proprio profilo. Ma questi profili in che quadro rientrano? Questa è una cosa che noi già possiamo fare comprendendo nel nostro punto di vista tutte le altre professioni al meglio, non con l’attenzione ai soli punti deboli. Ad esempio, il migliore insegnante che io conosco professionalmente che caratteristiche ha? Come lo profilo? La proposta del «quadro» è anche un elemento di aiuto che noi come vasta categoria culturale e professionale dobbiamo fornire a chi ha la giusta preoccupazione dell’economia. Come si può pensare che ci sia un’economia governabile se non c’è un quadro delle professioni di aiuto? Le persone che escono dalla rete sociale primaria (perché si strappa, perché soffrono) da chi sono incontrate e perché? Da chi vuole, oppure ci sono precise competenze professionali che entrano in gioco? Bisogna capire il quadro delle professioni di aiuto, altrimenti il superamento del monoculturale rischia di essere veramente una centrifuga che scaraventa tutti chissà dove e va contro quel disegno di forte integrazione delle competenze, delle culture che noi vogliamo. Non possiamo pensare che davvero quel percorso di dignità che evocavo possa realizzarsi se è fatto di stravaganze, di invenzioni, di doti personali. Queste contano, ma fanno parte della logica dei debiti e dei crediti. Il qui e ora e i grandi orizzonti L’ultimo punto riguarda qualcosa che chiamo, forse impropriamente, la dimensione estetica. Lo esemplifico attraverso un piccolo episodio che mi è accaduto e mi è sembrato straordinario: in Cambogia ho svolto un lavoro con alcuni colleghi dell’Università di Pnom Phen. Di questi colleghi alcuni erano anziani ed erano sfuggiti al genocidio, mentre altri erano molto giovani ed erano stati investiti quasi per caso del ruolo di docenti universitari. Era difficile ragionare insieme, data la loro diffidenza e la loro poca abitudine a dialogare. A un certo punto è stata fatta la proposta di scrivere alla lavagna tante materie: infatti erano professori, ma nessuno sapeva ancora di quale materia; così ognuno avrebbe scelto una delle materie elencate e avrebbe detto che cosa si proponeva di fare. Tra le materie segnate c’era «estetica» e fu scelta da un professore che, alla domanda «perché l’estetica?», rispose in primo luogo: «Perché mi piace molto il teatro». Poi disse la vera ragione: «Penso che l’estetica sia importante perché non ritorni un genocidio». Alla nostra richiesta di spiegarsi meglio, rispose: «Abbiamo bisogno di capire che cosa è la metafora. Dobbiamo capire — continuò — se la frase: “Bisogna uccidere l’uomo vecchio” è una metafora o una cosa reale, e per farlo bisogna utilizzare la letteratura, la poesia, il teatro, l’estetica insomma». Quello che diceva mi sembrò importante, perché capiva che il sottofondo culturale del genocidio era l’appiattimento, la perdita di vista dei diversi piani su cui bisogna sempre collocare la nostra azione, il nostro pensiero, la possibilità di tenere presente il qui e la dimensione più lontana. Mi ricordo che Paulo Freire, in un incontro all’Università di Bologna, alla domanda su quali fossero le virtù degli educatori, rispose «la bellezza», non in senso fisico, ma come capacità di cogliere il bello, il simpatico, l’«utile» degli altri. Concludo citando Korcdzac, uno straordinario educatore ebreo polacco, pediatra di formazione, che pochi giorni prima della fine aveva due attività in corso: una era la pubblicazione del giornalino, che usciva nonostante la situazione del ghetto di Varsavia e le poche risorse a disposizione. In questo giornalino l’articolo di fondo era dedicato a questo (importantissimo) tema: la necessità di imparare a sgombrare il tavolo quando si è finito di mangiare togliendo le briciole e non buttandole per terra. L’altro impegno riguardava l’animazione di quella che era chiamata la «borsa»: si trattava di un momento in cui alcune persone — pur in quei difficili e tragici giorni — si ritrovavano a discutere insieme su temi come il ruolo della donna in Europa, l’importanza di Napoleone nella storia della Polonia, e temi simili. Ecco, questa è quella che io chiamo dimensione estetica: la capacità di essere nello stesso istante presente al «qui e ora» con la massima dignità consentita dalle proprie forze e contemporaneamente essere attenti ai grandi orizzonti. Credo che su questo l’educazione — l’educarci — abbia bisogno di lavorare molto.

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Nell’ ANNUARIO SOCIALE Una legge per rendere i giovani protagonisti p. 144\145 BIBLIOGRAFIA I MODULO A.OLIVERIO, L’arte di imparare, Rizzoli, 1999 AA.VV., L’animazione a scuola, Quaderni di animazione e formazione, Ega, 1999 BATESON, Gli uomini sono erba, Garzanti, 1998 CAVINATO – CANETTI, I fili e i nodi dell’educazione, La Nuova Italia, 1999 CHARMART – SCAPARRO, Belletà-adolescenza temuta, adolescenza sognata, Bollati Boringhieri, 1993 CIOTTI, Chi ha paura delle mele marce?, EGA, 1996 CIOTTI, Persone non problemi, EGA 1994 DELORS, Nell’educazione un tesoro, trad.dall’inglese, Roma, Armando, 1997 FREIRE, L’educazione come pratica della libertà, Feltrinelli, Mi, 1970 GADOTTI-FREIRE-GUIMAAF, Pedagogia: dialogo e conflitto, SEI, To, 1995 MAURIZIO, Adolescenti, educazione e aggregazione, Fondazione E.ZANCA 1994 NOVARA, L’ascolto si impara, EGA, 1997 NOVARA – LONDERO, Scegliere la pace, Educazione ai rapporti, EGA, 1997

Scegliere la pace, Educazione al futuro, EGA, 1996 Scegliere la pace, Educazione alla solidarietà, EGA,1997 Scegliere la pace, Guida Metodologica, EGA, 1996

POLLO, Il gruppo come luogo di comunicazione educativa, LDC, 1999 RUSSO, Segmenti e bastoncini – Dove sta andando la scuola?, Feltrinelli, 1999 SIMONE, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, 1999 TONOLO – S.DE PIERI (a cura di), L’