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1 Pedagogia Interculturale Prof. Federica Zanetti

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Pedagogia Interculturale

Prof. Federica Zanetti

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INDICE Culture e incontro tra culture Introduzione Il sé e l'altro: nuove emergenze o vecchia storia? Prospettive della realtà multiculturale: modelli teorici e metodologie d'intervento

Il modello segregazionista Il modello assimilazionista Il modello integrazionista Il modello interculturale Il modello antirazzista

Verso un nuovo modello dell’incontro

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CULTURE E INCONTRI TRA CULTURE Introduzione

Il percorso che propongo in questo contributo attraversa le linee fondamentali che

caratterizzano i modelli teorici e le metodologie d’intervento nella realtà multiculturale.

Prima però di iniziare quella che potremmo definire navigazione, addentrandoci in questa

analisi, molto schematica e che ovviamente non esaurisce la complessità delle tematiche,

vorrei soffermarmi su tre parole-chiave che possono sembrare banali ma che invece

contengono una pluralità di significati correlati, problematici in grado di offrire diverse

ottiche interpretative.

VIAGGIO

Di solito una realtà multiculturale è una realtà fatta di viaggi, di spostamenti, lunghi o brevi,

temporanei o definitivi, di viaggi realmente compiuti e di viaggi dentro sé stessi.

Spesso a prevalere è il viaggio degli altri verso di noi: la realtà dell’immigrazione.

Ma può anche essere il nostro viaggio verso gli altri: la realtà della cooperazione, dove si

incontrano i significati più contrastanti, il viaggio per salvare gli altri in difficoltà oppure il

viaggio per redimere noi stessi, di cui siamo alla ricerca.

Il viaggio è esplorazione, scoperta, tentativo di indagare e di capire. E’ un atto che richiede

concentrazione e continua apertura, per poter immergersi, vivere e ricordare la maggior

quantità di cose possibile.

INCONTRO

Il viaggio implica un incontro, positivo o negativo, simmetrico o asimmetrico con l’altro.

Julia Kristeva dice che “Vivere con l’altro, con lo straniero, ci mette di fronte alla possibilità

di essere o non essere un altro”. Non si tratta solo di una nostra disponibilità ad accettare

l’altro ma di essere al posto suo, cioè di compiere un’operazione di decentramento.

Guardare sé stessi e la propria cultura con lo sguardo dell’altro è un esperienza che aiuta

a costruire la propria identità, arricchendola di punti di vista, memorie, pensieri…

SGUARDO

Il viaggio e l’incontro sono legati allo sguardo. Può essere superficiale e fermarsi a quello

che stereotipi e pregiudizi ci consentono di vedere, può essere uno sguardo stanco e

abituato alla realtà che vede, ormai assuefatto, ma può essere uno sguardo che analizza,

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che va in profondità, che sa leggere la complessità di un’immagine o la profondità di un

altro sguardo.

Il sé e l'altro: nuove emergenze o storia già vissuta?

I fenomeni interculturali, o meglio, le situazioni che vedono realizzarsi l’incontro con l’altro

non sono fenomeni nuovi. Il problema del diverso da me è presente ed è stato affrontato in

tutte le culture e in tutti i tempi con modelli d'integrazione o di esclusione molto diversi tra

loro, giustificati da altrettanto diverse motivazioni culturali, economiche, politiche e sociali

contestualizzate in un determinato periodo storico e in uno spazio geografico.

Ogni società, ogni comunità o gruppo sociale ha sempre cercato di fornire risposte

adeguate ai quesiti, alle sfide e alle problematiche che sorgono nel momento in cui si

viene a contatto con l’altro. Generalmente la presa di coscienza di questa realtà porta a

formulare modelli e strategie etnocentrati, di assolutizzazione dei propri valori, di difesa, di

salvaguardia della cultura e dell’identità del gruppo di appartenenza, a cui corrisponde

l’attivazione di un meccanismo di negazione dell’altro basato sul concetto di diversità.

Dunque, le sfide che ci troviamo a dover affrontare nel nuovo secolo, con tanta urgenza ed

emergenza, non sono sfide nuove.

E non sono nuovi neppure i tentativi di categorizzazione, di definizione dell’altro, del

diverso, rispetto al noi, che hanno sempre caratterizzato le relazioni tra popoli e gruppi

differenti.

La parola “barbaro”, nel suo significato di estraneità ad una cultura dominante, può essere

ad esempio un indicatore storico di come avviene l’incontro con il diverso. Essa deriva dal

latino “barbarŭs”, che a sua volta viene dal greco “bárbaros” che significa straniero, nel

senso di balbettante, incapace di farsi capire. Per i Greci infatti i barbari erano coloro che

parlavano una lingua incomprensibile. Per i Romani erano invece gli appartenenti a civiltà

inferiori, che ignoravano le leggi e le istituzioni del diritto romano. Col passare dei secoli

“barbaro” diventa sinonimo di “gentes ferae”, con attribuzioni sempre più negative.

Soltanto con la storiografia moderna le invasioni barbariche perdono la connotazione

generica e spregiativa per assumere quella di grandi correnti migratorie dei popoli

germanici che premevano ai confini dell’Impero Romano.

L’indebolimento della potenza militare di Roma e la necessità di difendere i confini

dell’Impero da nuove e più pericolose invasioni, indussero poi gli imperatori a concedere

terre lungo i confini alla popolazioni barbariche, divenute alleate e ad ammettere numerosi

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suoi appartenenti nell’esercito. Si creò addirittura una distinzione tra i barbari alienigeni,

stanziati fuori dai confini e i barbari dediticci, stanziati all’interno dei confini e conosciuti

come federati.

Anche la complessa amministrazione centrale e periferica dell’Impero, per la quale era

necessaria un numeroso apparato burocratico professionale si servì di personale

straniero.

Il termine barbaro non è usato solo in Occidente; lo storico cinese Bau Gu (39-52 d.C.),

infatti, preoccupandosi delle popolazioni confinanti scrive: “Quando i barbari si avvicinano

puniamoli e teniamoli a distanza, quando se ne vanno teniamo pronte le difese. Se sono

presi da amore di giustizia e ci portano tributo, riceviamoli con riti appropriati, uniamoli

sotto di noi e (in caso di problemi) facciamo sì che siano essi ad essere in torto”1.

I barbari, i nemici erano anche le popolazioni nomadi nei confronti dei popoli sedentari. A

tutt’oggi il nome “Berbero”, che indica gruppi di popolazioni nomadi dell’Africa Sahariana,

deriva dalla parola “berber”, che significa barbaro.

Un altro esempio di come i popoli sedentari criticano i nomadi provenienti dall’Asia: “Dirò

anche questo dei barbari: il vile asiatico, è cattivo il luogo dove abita, povero d’acqua,

impraticabile a causa dei numerosi alberi con strade cattive a causa dei monti. Non abita

in un sol posto, ma i suoi piedi vagano e camminano. Combatte fin dal tempo antico, ma

non vince e non è sconfitto…”2.

Sono solo alcuni esempi dei tantissimi che si potrebbero citare sulle modalità che le

diverse società attivano nei confronti dell’alterità, partendo sempre dalla definizione dei

propri confini culturali.

In molte culture non dominanti, come quella dei Rom o degli Inuit troviamo modalità molto

precise di definizione del proprio gruppo, con termini che significano “uomo”, a cui

corrispondono categorizzazioni generiche per denominare “gli altri”, gli stranieri, segnando

il proprio confine tra il proprio mondo culturale e quello esterno. Anche il nome della

popolazione africana dei Bantu è composta dal prefisso ba, che serve per il plurale e ntu,

“uomo”.

Nel caso della cultura romanés gli altri sono i “gagé”, spesso usato con valore

dispregiativo poiché derivante probabilmente dal nome di Ghazni, un re musulmano che

1 Faggiani Giuliana, “Gli altri? Sono barbari” in AA.VV., L’educazione all’intercultura, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1996, pp. 84-87. 2 Ibidem

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attorno al 1000 d. C. attuò una violenta repressione nei confronti dei gruppi di Rom

residenti nel Nord dell’India.

In Sud Africa la popolazione dei Boscimani, il cui nome deriva da Bojeman “uomo della

boscaglia”, fu così chiamata dai primi coloni olandesi. Essi invece si definiscono Kwe,

“uomini”. Lo stesso procedimento vale per gli Ottentotti che significa “balbuzienti”, nome

che venne dato loro dai coloni a causa dei suoni che caratterizzano il loro linguaggio.

Nella loro lingua essi si chiamano Khoi, “uomini”, o Khoi khoi , veri uomini.

In questo complesso rapporto tra identità e alterità si possono identificare chiaramente le

comuni intenzioni di distinguersi dai vicini, di affermare la propria superiorità e originalità;

ogni popolo quindi compie una manifestazione di etnocentrismo. Ma ognuna di queste

operazioni non può prescindere da un duplice processo interno ed esterno.

È possibile pensare sé stessi solo mettendosi in relazione con qualcun altro; lo stesso vale

per definire gli altri. Qualsiasi identità quindi non si costruisce attraverso dinamiche isolate

all’interno di un gruppo, bensì attraverso interazioni contrastive e processi complessi,

frutto anche di squilibri di potere e di rapporti di forza.

Come sostiene Fabietti, “ogni società, cultura, etnia locale deve essere pensata come un

elemento di una rete di relazioni, scambi, flussi provenienti da altrove” 3.

Ci si chiede allora se ha senso, ormai nel terzo millennio, difendere l’illusoria purezza della

propria identità, continuando la lotta per impedire l’inevitabile incontro e scambio,

conflittuale o non conflittuale, tra le culture. Non è forse meglio porsi in un’ottica di

ripensamento critico delle circostanze in cui sono avvenute queste interazioni, e allo

stesso tempo di riconoscimento della dimensione complessa all’interno della quale

formulare nuovi modelli e nuove prospettive?

È vero che ogni società deve fare i conti con l’alterità, ma è altrettanto vero che non è così

semplice gestire questo rapporto che è sempre stato vissuto in un complicato intreccio di

aperture, di chiusure e di conseguenti ferite.

Fabietti a questo proposito individua le diverse possibilità di incontro tra identità culturali e

alterità:

1. Negazione dell’alterità

Non solo non viene riconosciuta l’alterità ma viene anche soppressa (esempi drammatici

sono il genocidio e l’etnocidio);

2. Riconoscimento e accettazione dell’alterità

3 Fabietti, Ugo, L’identità etnica, Roma, Carocci, 1998.

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L’alterità viene riconosciuta e ammessa ma rimane una dimensione ininfluente per la

realizzazione della propria identità;

3. Alterità interna all’identità

Riconoscimento dell’alterità come dimensione costituente dell’identità, in un processo

continuo di negoziazione con il sé e con l’altro.

È importante uscire dalla logica di identità culturali fisse, immutabili e anche superiori, per

entrare nell’ottica comunicativa degli scambi e dei meticciamenti. Non si sa se sia questa

la strada giusta da percorrere: siamo però sicuri che fare delle differenze culturali degli

elementi di etnicità che ne giustificano la supremazia, che giustificano l’ossessione per la

purezza, significa perseguire gli stessi obiettivi che hanno provocato le rovine maggiori

del passato.

A questo punto risulta particolarmente interessante la riflessione di Todorov sulla scelta,

attualissima, tra cosmopolitismo e fedeltà alla propria identità culturale, che divide

schieramenti politici più o meno estremisti e dibattiti. “È veramente necessario scegliere

tra i due?”. La convinzione che l’identità culturale sia costituita da elementi particolari e da

valori universali ci dovrebbe condurre in una direzione in cui essa non si opponga più ai

contatti cosmopoliti. Il vero pericolo è forse quello che deriva dai processi di

deculturazione vissuti all’interno stesso della nostra società, in una frantumazione e in

uno smarrimento in cui i mutamenti sociali non ci fanno più riconoscere in un’identità

collettiva.

Prospettive della realtà multiculturale: modelli teorici e metodologie d'intervento

Nel nuovo secolo ci si trova a dover affrontare in modo sempre più urgente la sfida della

multiculturalità: negli ultimi decenni il susseguirsi dei flussi d’immigrazione ci ha portato a

ripensare le interrelazioni tra le minoranze portatrici di diversità culturali e la società che le

accoglie. Siamo davanti ad un terzo millennio sempre più caratterizzato da mutamento,

complessità e transizione.

Anche la scuola, incaricata di trasmettere e diffondere i contenuti e i valori della società

dominante, si trova a dover rivedere le proprie dinamiche interne, inadeguate nei confronti

di contesti caratterizzati da pluralismo e diversità.

La presa di coscienza di questa realtà multiculturale porta alla riformulazione dei modelli

socio-educativi, fondati su presupposti etnocentrici, ritenuti validi per qualsiasi gruppo

minoritario.

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Alla multiculturalità, termine che descrive una realtà sociale caratterizzata da diverse

culture che coesistono insieme, si affianca il concetto di interculturalità, che è la direzione

da percorrere, la risposta, il progetto da costruire.

Di fronte alla realtà multiculturale, quindi, a partire dagli anni ottanta circa, nasce e si

sviluppa la cosiddetta pedagogia interculturale, in seguito ad una riflessione

sull’educazione interculturale che andava lentamente assumendo una valenza sempre più

importante nel corso del tempo.

Da qui la consapevolezza che c’è una nuova prospettiva da realizzare per trovare diverse

modalità di rapporto con l’altro, per aprirsi al confronto, al dialogo, dove ciascuno possa

conservare la propria identità, predisponendosi, allo stesso tempo, a costruirne una nuova.

La pedagogia interculturale contiene nel suo significato etimologico l’ottica attraverso la

quale analizzare la realtà multiculturale. Il prefisso inter significa tra, la parola pedagogia

contiene il verbo greco ago, condurre, che impegna la nostra riflessione sul “dove”, sulla

meta del processo educativo. Il prefisso inter rimanda quindi all’interazione, allo scambio,

alla reciprocità. La prospettiva da raggiungere allora è forse quella di una pedagogia

interculturale che ha come focus scientifico l’educazione alla conoscenza, al confronto e

alla costruzione di nuove dimensioni culturali.

Prima di riflettere sulle prospettive della pedagogia interculturale occorre analizzare dove

affonda le sue radici. Come abbiamo detto, questo ramo della pedagogia nasce dalla sfida

che i processi migratori hanno lanciato alla pedagogia stessa, obbligando ad affrontare

una molteplicità di problemi di natura non solo educativa ma anche culturale, sociale ed

economica. I concetti di educazione interculturale e multiculturale, usati spesso

erroneamente come sinonimi, nascono quando le società dei paesi di accoglienza iniziano

a riconoscere le diversità come un valore, tenendo sempre presente però le diverse

accezioni che ogni paese sviluppa al suo interno.

Ad esempio in Canada si parla di “multicultural education” negli anni 70, quando le

minoranze francofone destabilizzano il governo con manifestazioni separatistiche,

spingendo ad assumere orientamenti rivolti alla multiculturalità. Anche negli Stati Uniti

questa espressione appare nello stesso periodo, con il valore di riconoscimento di una

pluralità di componenti culturali e sociali che nell’uguaglianza dei diritti contribuiscono a

creare la nazione americana, riconoscendosi parte di essa.

Se passiamo all’Europa, nei paesi come la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna il

termine multiculturale nasce come orientamento in difesa e per la valorizzazione delle

diverse culture presenti nel territorio, attraverso politiche sociali ed istituzioni educative

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specifiche per ogni gruppo, con contenuti e metodologie diversificati a seconda delle radici

etniche (scuole islamiche per Turchi in Francia e Germania, scuole per Gitani in Spagna).

L’Europa infatti si trova ad essere meta di massicci flussi migratori che le impongono di

affrontare emergenze sociali e soprattutto educative, che implicano problemi di

inserimento, comunicazione, organizzazione della scuola, didattica, metodologie

d’insegnamento, atteggiamenti di insegnanti ed operatori.

Dal punto di vista storico-sociale possiamo individuare tre fasi di sviluppo delle migrazioni

internazionali in Europa, secondo alcuni fattori di espulsione:

- dal 1950 al 1970 i flussi migratori provengono dall’Europa meridionale per la richiesta di

forza-lavoro da parte di Francia, Svizzera, Gran Bretagna, Germania, in seguito allo

sviluppo del sistema produttivo e della ricostruzione post-bellica;

- dal 1970 al 1980 l’immigrazione diventa clandestina, proviene dai paesi extraeuropei e

ha come meta l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia;

- dal 1980 i flussi migratori, dovuti alla crisi dell’Europa dell’Est e dei paesi sottosviluppati,

sono sempre più irregolari e diventano vere e proprie “fughe per la sopravvivenza” con

gravi conseguenze nei paesi ospitanti, come l’aumento di nuove forme di marginalità

urbana con forte impatto sociale.

La realtà sociale europea sempre più multietnica, multiculturale e multilingue lancia una

sfida alla pedagogia per quanto riguarda la capacità di formulare modelli educativi

adeguati, con particolare attenzione a tre funzioni:

Funzione di prevenzione: per preparare a vivere e ad agire nelle società multiculturali;

Funzione di aiuto: per preparare ad affrontarne le sfide;

Funzione di recupero: per preparare ad aiutare la risoluzione dei problemi che nascono dai

conflitti presenti nelle società in trasformazione.

Possiamo individuare così diverse dimensioni e approcci: educazione multiculturale,

interculturale, pedagogia antirazzista, pedagogia per stranieri, educazione alla

cittadinanza, educazione europea…Ognuno di questi approcci, come afferma Demetrio4,

ha una sua origine esperienziale, cioè rispetto alle esigenze che la pratica quotidiana fa

emergere; ideale, rispetto ai fondamenti valoriali della società in un dato periodo storico;

normativa, in base agli orientamenti ministeriali, e progettuale, basata sulla progettualità

scolastica che deve affrontare problemi di carattere didattico. Spesso accade che sotto

queste categorie si nascondano delle sbavature che deviano dall’orientamento originario,

4 Duccio Demetrio, Graziella Favaro, Bambini stranieri a scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 26-30.

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con atteggiamenti falsamente interculturali, pietististci, compensativi, assistenzialistici,

culturalmente “etnocentrati”.

Dalle diverse risposte istituzionali e dallo studio delle politiche sociali ed educative si

possono evincere alcuni modelli teorici fondamentali, segregazionista, assimilazionista,

integrazionista e interculturale e antirazzista, che costituiscono una cornice all’interno della

quale individuare i diversi orientamenti. Tali modelli costituiscono un quadro descrittivo in

cui si collocano le diverse modalità di incontro con l’altro. Ogni modello rappresenta un

sistema di teoria e di prassi, di interpretazione della realtà e di progettazione di interventi

possibili, che non si può considerare esaustivo, né tanto meno perfetto. Essi non

rappresentano dei punti d’arrivo, ma, nel loro intreccio di elementi positivi e negativi, fanno

emergere la necessità di superare modelli chiusi e assoluti. L’azione educativa e

pedagogica deve partire dalla consapevolezza che ognuno di questi modelli ha elementi

positivi e negativi molto diversi tra loro, che vanno analizzati, integrati e problematizzati

per poter essere delle risposte adeguate alla complessità della realtà.

Non esiste quindi un modello perfetto: occorre analizzare la realtà e, in una prospettiva

problematizzante, adattare un modello che le sia adeguato, nella consapevolezza che la

strada verso l’intercultura e l’incontro può essere lunga e fatta di fasi complesse.

I modelli verranno presentati in successione, con i lineamenti che ne hanno tracciato la

storia; essi comunque sono tuttora presenti, al di là di una precisa cronologia e

assumendo al loro interno diversi approcci sia teorici sia d’intervento.

Nell’analizzare gli elementi caratterizzanti, ne abbiamo evidenziato i positivi e i negativi per

spingerci ad andare oltre, a superare i modelli chiusi e individuare prospettive

problematizzanti in grado di leggere la complessità della realtà multiculturale.

Il modello segregazionista

Quadro descrittivo Il primo modello, SEGREGAZIONISTA, propone una strategia in cui gli elementi diversi

presenti nel territorio devono rimanere separati, senza alcun tipo di interazione e di

scambio.

Quella che viene definita pedagogia nazionale, sviluppatasi in modo particolare nel

periodo fascista in Italia e nazista in Germania, si richiama alle forme politiche

nazionalistiche che annullavano lo spazio per qualsiasi tipo di differenza culturale, allo

scopo di rafforzare l’unità nazionale nel rispetto della tradizione storica, dell’unità

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linguistica, del patrimonio culturale comune. Successivamente, con il maturare di forme

più democratiche emerge una maggior attenzione nei confronti delle minoranze etniche e

linguistiche, concentrate in alcune zone ben delimitate del territorio nazionale, alle quali

vengono riconosciuti alcuni ambiti di autonomia e il diritto a mantenere tradizioni culturali e

linguistiche diverse.

Da un lato c’è comunque l’atteggiamento della società che tende ad emarginare il gruppo

che si trova nel gradino più basso della scala sociale; dall’altro c’è il gruppo etnico

svantaggiato che, per la sua storia e i suoi valori, necessita di un trattamento particolare

per non essere snaturato dai modelli che la società impone.

Anche in alcuni approcci multiculturali o “single group approach” si nasconde un

atteggiamento segregazionista, riconoscendo il diritto agli immigrati di mantenere la

propria cultura e la propria lingua attraverso percorsi formativi differenziati.

Linee d’intervento

In questo modello non sono assenti programmi di politica culturale, urbanistica e sanitaria.

Per quanto riguarda la scolarizzazione, questo si traduce nella tendenza a scuole, corsi e

classi proprie per ogni singolo gruppo etnico con organizzazione e contenuti diversi dalla

scuola ufficiale, allo scopo di limitare l’insuccesso scolastico valorizzandone

apparentemente gli elementi culturali. Le scuole, che richiedono insegnanti preparati in

modo specifico, generalmente sono dotate anche di laboratori-officine per le attività di

preparazione al lavoro, e possono offrire anche corsi di manualità e alfabetizzazione per

adulti, adattati alle necessità e agli interessi dei singoli gruppi. L’obiettivo è quello di

facilitare l’inserimento dei soggetti in aree lavorative più vicine alle proprie tradizioni, con il

rischio però di ricadere in sacche di emarginazione che non permettono mai un riscatto

sociale attraverso una reale emancipazione.

Punti di forza

Tale proposta trova le proprie ragioni e giustificazioni nella necessità dei “diversi” di essere

trattati con rispetto delle proprie specificità e caratteristiche o come forma di protezione nei

confronti del rifiuto della società.

Limiti

L’illusoria democraticità della difesa delle radici etniche nasconde una ghettizzazione che

porta ad atteggiamenti stereotipati e folcloristici nei confronti delle minoranze, aggravando

la tendenza separatistica, sterile nel produrre relazioni nuove e incapace di attivare

dinamismi tra le realtà in gioco.

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Anche i progetti di sostegno portati avanti dalle Amministrazioni locali e dagli enti

governativi saranno sempre paternalistici e falsamente democratici senza la

partecipazione attiva e consapevole dei gruppi ritenuti svantaggiati.

Per continuare la riflessione…

Opposta a questa tendenza che ha origine da principi e ideali nazionalistici, in difesa

dell’identità culturale di ogni singolo gruppo, troviamo orientamenti pedagogici definiti

“terzo mondiali”, sviluppatisi soprattutto in Italia, dove il fenomeno dell’immigrazione

extraeuropea non è stato un problema fino agli anni 80. Nonostante i punti di partenza

ideologici siano lontani tra loro, si avvicinano invece i rischi e gli obiettivi, a cui portano

tutte quelle posizioni fondamentaliste basate sulla difesa delle differenze nell’ottica della

separazione e della non contaminazione.

Quadro descrittivo

Si sviluppano infatti diverse piste interpretative che vanno sotto il nome di “Educazione allo

sviluppo”, “Educazione globale”, “Educazione mondiale”, “Studi sulla pace e sulla guerra”,

“Educazione alla pace”, “Educazione ai diritti umani”, che non riescono a raggiungere

un’unificazione di interessi e di prospettive. A livello teorico però i diversi orientamenti

fanno riferimento al relativismo antropologico, secondo cui la differenza di base tra le

culture costituisce, ognuna al suo interno un universo autoreferenziale.

Linee d’intervento

Questi orientamenti producono curricoli di diversa tipologia, provenienti inizialmente

dall’extra-scuola, attraverso la via associativa e successivamente da una via formale. Tutti

sono basati comunque sulla riflessione sulla pace, sui diritti umani, e sul superamento dei

nazionalismi.

Punti di forza

I diversi filoni hanno una base ideologica relativista che porta al riconoscimento delle

diversità presenti sul nostro pianeta, con le quali si vuole instaurare un dialogo e uno

scambio reciproco, e ad una riflessione sul carattere etnocentrico delle culture.

Questo orientamento risulta importante anche per un’azione contro la xenofobia e per la

lotta contro il razzismo.

Limiti

I rischi che nascono da questa impostazione consistono nella legittimazione di

particolarismi in un contesto costituito da una pluralità di culture specifiche, dove ognuna

di esse costituisce una sfera assoluta e autosufficiente. In nome di un relativismo sempre

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più assolutizzante, si sfocia in un fondamentalismo dove le culture devono rimanere

isolate per poter mantenere la propria diversità. In questo modo vengono potenziate le

tendenze all’esotismo, alla folclorizzazione e anche alla ghettizzazione del “diverso”.

Anche la volontà di dialogo e di scambio reciproco non riesce a concretizzarsi in un’ottica

costruttiva. Emerge infatti la difficoltà del confronto e della capacità di accordarsi sui criteri

in base ai quali vanno esclusi o mantenuti alcuni elementi di una cultura o di un’altra. Tale

presupposto preclude l’affermazione di criteri interculturali, sui quali è necessario costruire

il dialogo.

Questo modello può risultare funzionale per impostare la risoluzione di questioni

diplomatiche a distanza, dove “gli altri” sono lontani, ma non può essere sufficiente per

una società multiculturale.

Il modello assimilazionista

Quadro descrittivo

Il secondo modello, ASSIMILAZIONISTA, corrisponde alla tendenza degli anni 60/70

secondo la quale le culture minoritarie vengono fatte convertire alla cultura dominante per

poter prendere parte al cosiddetto “progresso”. La nazione europea che ha maggiormente

sostenuto una politica di assimilazione nei confronti degli immigrati è stata la Francia. Nel

1945 infatti viene approvata la legge sull’acquisizione della cittadinanza, che facilita la

naturalizzazione e la stabilizzazione degli immigrati, rinforzando i processi di

assimilazione. Questa politica rimarrà in auge fino agli anni 80.

Un tentativo di assimilazione è stato fatto dalle politiche del melting pot. Questo termine

compare negli Stati Uniti e nei paesi che per primi si caratterizzarono come paesi

d’immigrazione, tra cui anche il Canada e l’Australia. In tali contesti i gruppi etnici

mescolano le proprie caratteristiche culturali per creare poi una nuova amalgama sociale,

confondendo le proprie radici e dimenticandole. La negazione delle differenze etniche e

culturali non ebbe come esito sperato la loro scomparsa, bensì la loro trasformazione in

disuguaglianze sociale e marginalizzazione. L’ideale del melting pot è fallito quando le

minoranze etniche hanno rivendicato le loro origini e la loro identità. Si è verificata la

tendenza delle etnie minoritarie a coalizzarsi per difendere le proprie radici e per cercare

nuove nicchie difensive contro il processo di assimilazione. Per lungo tempo gli Stati Uniti

hanno subito forti manifestazioni di razzismo a dimostrazione del fatto che la convivenza

delle etnie non può essere una semplice risposta alla multiculturalità: la comprensione e la

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cooperazione non si producono da sole ma hanno bisogno di un lavoro educativo

finalizzato alla convivenza.

Linee d’intervento

Soprattutto in ambito scolastico, si impone l’uniformità al modello sociale dominante. La

scuola, la cui frequenza diventa obbligatoria per tutti, rifiuta le differenze linguistiche e

culturali, che non trovano spazio né nei programmi, né nella programmazione didattica.

L’obiettivo è infatti quello di produrre un tessuto linguistico e culturale omogeneo, dove le

radici etniche differenti possono essere accomunate da una stessa appartenenza.

In alcuni contesti questa concezione è rappresentata dalla scuole-ponte, scuole che hanno

lo scopo di preparare i bambini socializzati all’interno di sistemi culturali differenti per poter

essere poi integrati nelle scuole normali.

Punti di forza

L’intento di attuare una politica sociale non differenziata può trovare le propri radici in un

ideale di convivenza senza discriminazioni, fonte di arricchimento e miglioramento dello

sviluppo intellettuale e umano dell’individuo.

Limiti

Eliminando dal processo educativo la socializzazione interetnica si potenziano

atteggiamenti intolleranti, acutizzando situazioni già di emarginazione e rafforzando

stereotipi e pregiudizi, legati alla non conoscenza delle culture “altre”.

In secondo luogo, l’illegittimazione delle diversità culturali e linguistiche porta

all’assimilazione di un gruppo ad opera di un altro con la conseguente sparizione della

minoranza. Laddove però l’integrazione nella società viene messo in atto con pratiche

coercitive e forti si ripropongono i meccanismi di autodifesa e di autoemarginazione,

difficilmente sanabili.

Per quanto riguarda la scolarizzazione, la mancanza di interventi differenziati, nell’ottica di

una didattica non curante delle diversità, può causare ulteriori problemi di adattamento e

apprendimento, invece di risolverli, che possono provocare un elevato numero di

abbandoni in quello fasce sociali dove la frequenza e le motivazioni sono già molto deboli.

Per continuare la riflessione…

Il modello integrazionista

Quadro descrittivo Il terzo modello, INTEGRAZIONISTA, ponendosi in contrasto e reagendo alle posizioni

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assimilazionista, riconosce l’esistenza di un gruppo con caratteristiche culturali diverse,

convertendolo però in “speciale” e attivando interventi istituzionalizzati per aiutarne

l’adattamento in termini di rieducazione, inserimento, appoggio, compensazione. Tale

strategia di integrazione multiculturale, che pone l’accento sulla diversità e sulla pluralità,

presuppone la validità della cultura minoritaria e la sua accettazione da parte delle

istituzioni educative e della società, mantenendone però i confini, a volte ghettizzanti, che

non consentono lo scambio culturale.

All’interno di questo modello possiamo individuare una prima concetualizzazione

pedagogica che riguarda la cosiddetta pedagogia per stranieri, sviluppatasi attorno agli

anni 70 dapprima in Germania poi in molti paesi europei, dove erano diretti i flussi

migratori nella fase dei ricongiungimenti familiari.

In Germania è sotto il termine di “Auslanderpadagogik”, in Spagna si chiama “Pedagogia

compensatoria”, in Francia “Pedagogie de l’acceuil”: tutte pongono il problema

dell’incontro con il diverso in termini di riduzione dei problemi che l’individuo porta con sé,

in quanto diverso. La diversità della lingua, della cultura diventano mancanze, errori.

Questo concetto di pedagogia compensatoria ed assistenziale cerca di preservare la

società di accoglienza come contesto monoculturale e monoetnico; secondo tale ottica le

difficoltà vissute dagli stranieri sono dovute a deficit d’integrazione non alla scarsa

flessibilità della società che li accoglie.

Tale concettualizzazione segna un momento importante nella storia dell’educazione,

all’interno della quale la didattica andava specializzandosi nell’ambito dello svantaggio

socio-culturale e della povertà, ritenuta la causa principale di tali carenze.

Linee d’intervento

Essendo i diversi approcci fondati sul presupposto che la diversità culturale è un problema

da risolvere, una carenza da compensare, i bambini stranieri, a causa della loro

divergenza culturale, presentano delle difficoltà nel frequentare la scuola nelle classi

“normali”. Emerge la necessità di orientare la politica scolastica verso programmi con

contenuti, metodi e tecniche di apprendimento “su misura” delle diverse minoranze e delle

loro caratteristiche. Le istituzioni mirano quindi ad attivare dei processi che possano

facilitare l’integrazione nella società dei soggetti “diversi”, come per esempio apprendere

la lingua del paese ospitante, favorire l’adattamento ai comportamenti sociali del luogo,

stipulare regolamenti per la regolarizzazione della frequenza scolastica dei bambini,

offrendo condizioni di accoglienza e percorsi educativi più adeguati. L’alfabetizzazione,

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l’insegnamento delle norme e la mediazione culturale risultano essere le priorità dei

curricoli di tipo compensativo.

Mentre negli Stati Uniti e in Inghilterra questo tipo di pedagogia si rivolge solo ai gruppi

etnici, in Francia si indirizza più generalmente a gruppi sociali svantaggiati, come ad

esempio maghrebini, europei meridionali, colpiti da nuove povertà ed emarginati.

In Spagna questo modello è stato predominante nelle politiche educative a tal punto da

creare una Subdirección General de Educación Compensatoria all’interno del Ministerio

de Educación y Ciencias. Sono stati attuati programmi specifici per alunni immigrati

sfavoriti, sono state istituite scuole ad “acción especial”, o compensatorie, situate in zone

con difficili realtà sociali e profondamente emarginate, sono state formate equipe di

educazione compensatoria che offrono insegnanti di sostegno e assistenza ai centri con

alunni svantaggiati “culturalmente”.

Punti di forza

La teorizzazione della pedagogia compensativa nasce da intenti positivi, da impegno ed

interesse nei confronti degli altri, di cui si cerca di colmare le carenze e di risolvere le

difficoltà attraverso un’educazione che si avvicina più al concetto di “cura”, basata cioè su

aspetti come la motivazione, la relazione, la stimolazione, la personalizzazione.

Limiti

Le strategie che si attuano hanno lo scopo di creare condizioni favorevoli perché si possa

realizzare l’integrazione. L’intervento che compensa è comunque un intervento che implica

un deficit, cioè l’esistenza di un elemento che ostacola un rapido inserimento nella società

maggioritaria. Questo aspetto negativo può inserirsi anche in una prospettiva

assimilazionista, dove i “diversi”, poveri e stranieri, svantaggiati economicamente e

culturalmente, vengono integrati nella cultura di accoglienza, la più vantaggiosa e quella

che vanta la superiorità. La compensazione subentra infatti nel momento in cui ci si

accorge che ci sono dei problemi che ne impediscono l’accesso.

Prevale infatti una negazione intenzionale della cultura diversa, che si può trasformare in

ostacolo per la scuola e la società. Si attua dunque un occultamento delle specificità

culturali che ostacolano l’assimilazione.

Per continuare la riflessione…

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Modello interculturale

Quadro descrittivo

La multiculturalità, come sostiene Filtzinger5, è una categoria descrittiva, che indica la

coesistenza di culture diverse (e come abbiamo visto, esistono anche varianti

assimilazioniste o segregazioniste nei confronti delle minoranze culturali);

l’INTERCULTURALITA’ è invece una dimensione pedagogica che ne concettualizza

l’integrazione interattiva. Se la pedagogia generale ha come scopo quello di

accompagnare il processo di costruzione dell’identità del soggetto e di rafforzarla, la

pedagogia interculturale è ad essa complementare nel rendere consapevoli gli individui

della molteplicità delle identità possibili. Questo modello infatti costituisce la base per il

diritto alla differenza, intesa come ricchezza e bene comune. La cultura di ognuno, così

come l’istituzione scolastica, mezzo fondamentale di trasmissione della cultura stessa,

devono diventare luogo d’incontro, di dialogo e di arricchimento tra i diversi modelli

culturali, attraverso la pedagogia e il contributo delle altre scienze

dell’educazione e la pratica interculturale. Questo implica il ripensare la scuola e la società

non più in un’ottica omologante ma come luogo di opportunità e di occasioni per favorire il

dinamismo culturale. Per questo motivo la pedagogia e l’educazione interculturali non

sono solo un’occasione di innovazione scolastica e sociale, ma diventano delle scelte

politiche, che tengono conto del fatto che le minoranze etniche

sono parti integranti delle nostre società, che assumono un’ottica problematicistica e

complessa piuttosto che un atteggiamento paternalistico.

L’educazione interculturale si concretizza allora nel “tentativo pedagogico di creare nella

realtà multiculturale un rapporto e un’interazione costruttiva e produttiva tra persone e

cittadini socializzati in altre culture o appartenenti a culture diverse”6.

Nel Dizionario di Pedagogia e Scienze dell’Educazione7 si parla dell’interculturalità come

attribuzione ridondante e superflua, nella misura in cui qualsiasi esperienza educativa è, e

non può non essere, interculturale. L’interculturalità quindi non è un settore speciale della

pedagogia ma l’opportunità storica di ridefinire l’impianto scientifico della pedagogia

generale.

E’ la “nuova normalità” dell’educazione del nostro tempo: non si tratta di educazione

5 Otto Filtzinger, “Interculturalità come principio educativo per una società multiculturale”, in Macchietti Serenella (a cura di), Verso un’educazione interculturale, Firenze, IRRSAE Toscana, 1992, pp. 63-79. 6 Ibidem 7 Piero Bertolini (a cura di), Dizionario di pedagogia e scienze dell’educazione, Bologna, Zanichelli, 1996

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speciale, straordinaria, compensativa, ma normale ed ordinaria.

I principi essenziali che la contraddistinguono sono:

• L’interculturalità è una caratteristica strutturale e non temporanea o marginale della

società ed è elemento costitutivo dell’identità all’interno della società globale.

• L’interculturalità è fondamento di una società che si fonda sulla diversità intesa

come convivenza costruttiva e democratica, contro l’omogeneizzazione delle

differenza.

Le relazioni interculturali sono relazioni tra culture ed identità diverse, che devono essere

riconosciute nella loro “differenza”, gestite e decostruite. La decostruzione, termine

introdotto dal filosofo francese J. Derrida, indica un atteggiamento critico nei confronti delle

forme totalizzanti e assolutizzanti dei ogni tradizione culturale. In questo processo c’è la

disponibilità a compiere esperienze di decentramento, una sorta di “fuoriuscita” dalla

proprie certezze, nella consapevolezza che l’etnocentrismo è presente in tutte le culture e

che il rapporto tra le diverse culture è spesso un rapporto di forza asimmetrico.

L’interculturalità non nega il conflitto ma educa a risolverlo attraverso modalità non

violente, nel rispetto anche della dimensione emozionale dell’incontro con l’altro.

Linee d’intervento

L’educazione interculturale inizialmente ha posto il suo focus sugli immigrati e sulle

minoranze, ponendo attenzione alle culture dei paesi di provenienza. L’obiettivo principale

della sua azione è infatti quello di promuovere una serena convivenza plurietnica e un

equilibrio nei rapporti sociali, dove le diversità non devono costituire un ostacolo.

Le strategie d’intervento delineate da Filtzinger sono un punto di riferimento articolato e

complesso per l’educazione interculturale, che si può realizzare tenendo conto di:

1. Educazione nel contesto politico e sociale: come risposta educativa e sociale ai

contesti multiculturali;

2. Approccio educativo integrato: educazione interculturale come concetto educativo

globale, non speciale;

3. Interculturalità come principio didattico trasversale: educazione interculturale in tutte

le situazioni di apprendimento, non solo nelle attività o nei progetti specifici;

4. Orientamento alle situazioni quotidiane: non solo promozione culturale e

manifestazioni di folclore ma confronto costante con le situazioni quotidiane

concrete;

5. Interazione e cooperazione: conservazione e rispetto delle culture e promozione di

una nuova cultura quotidiana;

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6. Partecipazione: coinvolgimento degli immigrati;

7. Partecipazione intergenerazionale: coinvolgimento di bambini, giovani e adulti nelle

attività educative;

8. Approccio socio-ecologico: interventi non solo nelle agenzie educative ma nel

territorio.

Punti di forza

Solo la prospettiva interculturale, nelle sue accezioni più varie, facendo riferimento alla

pedagogia interculturale, nel significato di “condurre tra le culture”, costituisce un orizzonte

educativo che propone spazi di dialogo, di confronto dell’individuo con sé stesso, con le

proprie origini, il proprio ambiente e tra i diversi soggetti della società. Si giunge

all’interrelazione dinamica superando le precedenti strategie multiculturali.

Limiti

L’educazione interculturale, nonostante l’ampiezza del suo intervento, non esaurisce la

complessità dell’esigenza formativa, non offrendo sufficienti risposte alla gravità dei

problemi sociali, che sorgono dalla diversità culturale. La quantità e il tipo di informazioni e

di preparazione impartite non sono infatti sufficienti per contrastarne i pregiudizi e i conflitti.

Alla base c’è la convinzione che una maggiore conoscenza delle culture delle minoranze

favorisca la tolleranza, riducendo il razzismo.

Bisogna comunque tenere presente che anche se l’approccio dell’educazione

interculturale non è rivolto principalmente alla risoluzione dei conflitti, bisogna non cadere

nell’errore di ignorare i momenti conflittuali e faticosi che caratterizzano la convivenza

plurietnica.

Un ulteriore rischio è quello di fornire gli strumenti che caratterizzano l’azione interculturale

solo agli “altri”, pensando che siano loro a doversi adattare e mettere in gioco, mentre gli

autoctoni non hanno nessun vantaggio dal confronto con la diversità.

Un altro approccio da considerare è quello transculturale, che nasce e si sviluppa come

nuovo orientamento pedagogico critico rispetto al concetto di cultura unitaria e autoctona,

che non rende possibile nessun tipo di incontro costruttivo tra le diverse culture. Questo

approccio si fonda appunto sulla consapevolezza che non esistono più culture isolabili e

immutabili né identità già determinate.

Le migrazioni, insieme ai processi di internazionalizzazione e di globalizzazione hanno

contribuito a far emergere culture in continua evoluzione e risultanti dalla mescolanza di

elementi presenti in tradizioni culturali diverse.

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A questo si collega il concetto di “nomadismo strutturale”; l’”essere nomadi” rispetto alla

propria cultura significa ricercare una rete di relazioni e interconnessioni in grado di

diversificare il percorso di ricerca della propria identità.

Le posizioni transculturali superano sia il modello del culturalismo segregante, che separa,

frantuma, sviluppa estremismi e contrapposizioni, sia quello dell’universalismo che annulla

le specificità in un’amalgama, dove gli elementi culturali invece di meticciarsi si annullano.

L’approccio transculturale pone la propria attenzione sulle connessioni, le interdipendenze,

le intersezioni che aiutano a far emergere i collegamenti trasversali, che saranno la base

dell’elaborazione dei nuovi modelli culturali.

Nel panorama delle diverse accezioni dell’educazione interculturale troviamo anche

l’educazione europea, nata dopo il 1992, anno in cui si è stipulato il trattato di Maastricht,

per rispondere ai nuovi bisogni educativi derivanti dal processo di unificazione in atto.

Nel concetto di Europa prevale la dimensione politica-economica-amministrativa su quella

culturale, che ora sta alle istituzioni educative recuperare nella doppia prospettiva di

“dimensione culturale europea” e contemporaneamente di policentrismo culturale. Questi

due elementi stanno alla base di un progetto educativo che ha come finalità l’integrazione

di queste due dimensioni, coordinando l’educazione europea con la prospettiva

interculturale.

Questo progetto è possibile superando l’etnocentrismo nazionalistico, l’eurocentrismo e

l’universalismo astratto, e proponendo prospettive educative basate su valori

soprannazionali ma che non rinnegano le culture, le lingue e le diversità presenti in ogni

singolo stato.

La pedagogia europea si impegna non solo nella costruzione di nuove competenze e

abilità necessarie per operare in contesti pluriculturali e plurilingue ma anche nella

formazione dell’”eurocittadino”, aperto, flessibile, capace di valorizzare le specificità

culturali in una prospettiva dialogica. Tale approccio educativo si rivolge ai cittadini

autoctoni e immigrati, a cui si richiede una capacità di decentramento culturale e uno

sforzo di “attraversamento delle frontiere”, resi possibili dall’educazione ai valori della

pace, della solidarietà, del plurilinguismo e da approcci disciplinari complessi e

multiprospettici.

L’educazione alla mondialità, come istanza pedagogica, rappresenta un altro approccio

che l’educazione interculturale ha fatto proprio. Questa prospettiva educativa si fonda sulle

diversità presenti nella società come elemento costitutivo fondamentale ed innegabile. La

sfida politica, educativa e culturale sostenuta dall’educazione alla mondialità è quella di far

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sì che le diversità diventino il presupposto per una vera democrazia mondiale ed elemento

di coesione sociale.

Tale approccio si basa su tre principi:

• Mondialità come principio in base al quale ci si sente parte di un Tutto universale,

umano e cosmico;

• Mondialità come ottica attraverso la quale la visione del mondo e dell’umanità

globale assume le caratteristiche di una “comunità dei popoli”;

• Mondialità come insieme di comportamenti fondati sui principi etici della

responsabilità nei confronti del futuro del mondo, dell’unità del genere umano, della

conservazione del pianeta Terra.

L’educazione alla mondialità è un tentativo di rispondere ai bisogni di una società

planetaria in cui l’economia e la comunicazione si sono globalizzate, ma dove la politica e

l’educazione continuano a ragionare spesso in termini di separazioni, di confini e di

frontiere.

Il concetto di globalizzazione ci porta ad una delle più recenti prospettive pedagogiche, la

glocal education8, il cui neologismo glocal indica il termine glocalizzazione, la fusione di

globalismo e localismo. In questo intreccio complesso entrambi i termini contengono

elementi importanti che le nuove dimensioni educative non possono ignorare.

La globalizzazione è un processo in atto, dovuto alla mondializzazione del sistema

economico e finanziario, del mercato e delle nuove tecnologie della comunicazione.

Anche l’educazione non può non confrontarsi con questo fenomeno, cogliendone gli

aspetti positivi e negativi.

Tra gli aspetti più problematici e di conseguenza più al centro di proteste troviamo la

tendenza all’omologazione culturale, il rischio del pensiero unico, la concentrazione del

potere nelle mani di pochi, l’affermazioni di principi come la competitività e lo sfruttamento

ambientale, la perdita dell’identità dovuta allo sradicamento culturale. Dall’altra parte, tra

gli effetti positivi individuiamo una grande apertura degli orizzonti, la tendenza al

policentrismo, lo scambio di informazioni a livello planetario, la scoperta delle culture

locali.

E’ della pedagogia il compito di effettuare una lettura educativa del fenomeno della

globalizzazione. Il Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale

sull’educazione per il XXI secolo fornisce alcune direzioni verso le quali iniziare a condurre

il pensiero pedagogico e la pratica educativa:

8 S. Latouche, Glocalizzazione, Milano, Ed. San Paolo, 1999.

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- il rapporto tra globale e locale: gli individui devono poter conservare le loro radici e allo

stesso tempo diventare cittadini del mondo;

- il rapporto tra tradizione e modernità: recuperare il passato per potersi adattare al

cambiamento e progettare il futuro;

- il rapporto tra universale e individuale: rispettare la diversità e la ricchezza delle culture,

nonostante il processo di globalizzazione tenda all’omologazione

- il rapporto tra le informazioni e la conoscenza: analizzare la quantità di informazioni che

si possono veicolare attraverso le nuove tecnologie e le reali possibilità di accesso e di

assimilazione degli individui.

E’ proprio in questa dimensione planetaria che si ritorna al significato etimologico

controverso ma significativo di educazione nella sua accezione di condurre, di trarre fuori:

in questa società complessa e globale le si chiede allora di saper orientare, riconoscendo

le nuove dimensioni e i nuovi ambienti della comunicazione interculturale, di attivare

processi formativi dove gli individui sappiano meticciarsi senza perdere l’identità, sappiano

avere “pensieri nomadi” senza smarrirsi.

Per continuare la riflessione…

Il modello antirazzista

Quadro descrittivo Il modello ANTIRAZZISTA ha il suo fondamento teorico nella pedagogia antirazzista,

sviluppatasi attorno agli anni ’90, assume una posizione critica ed alternativa alla

pedagogia interculturale. Ha origine in Gran Bretagna come Anti-racist education ma

attualmente è oggetto di discussione ed elaborazione in tutto il contesto europeo.

L’educazione antirazzista affronta la diversità e l’immagine della diversità sotto forma di

pregiudizio razziale, superando l’approccio dell’educazione interculturale basato sul

miglioramento delle relazioni tra gruppi dominanti e minoranze all’interno della società.

Infatti l’educazione antirazzista, pur difendendo le diversità culturali delle minoranze

elabora proposte politico-culturali più radicali, con l’obiettivo principale di affrontare le

discriminazioni razziali nei sistemi educativi e nelle istituzioni.

L’educazione antirazzista è legata agli aspetti che riguardano la discriminazione della

razza, non per cercare di interpretare le componenti strutturali del razzismo ma per

analizzare le dinamiche che nascono da esso e che continuano ad alimentarlo. L’obiettivo

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è quello di ridurre i pregiudizi, l’intolleranza e le disuguaglianze attraverso un constante

confronto con i rapidi cambiamenti che investono i contesti educativi e sociali.

L’educazione antirazzista segue due strade: la prima riguarda l’aspetto politico-sociale; la

seconda quello educativo. L’azione politica ha il suo fondamento nella consapevolezza

che la diversità razziale non è legata al colore della pelle o alla diversità culturale,bensì

all’ingiusta distribuzione di potere. Tale differenza diventa elemento biologico; allo stesso

modo le capacità intellettuali diventano tipologie somatiche. L’approccio politico-sociale

intende modificare gli squilibri nella distribuzione del potere, quello educativo persegue

invece un’azione di analisi dei conflitti e delle possibili risoluzioni, in difesa del diritto di

ogni individuo di sviluppare le proprie potenzialità.

Linee d’intervento La sua azione educativa ha come target group non più le minoranze etniche come bersagli

delle azioni xenofobe bensì gli autoctoni, indagando le modalità attraverso le quali viene

elaborato il pensiero e la pratica razzista.

La prassi del lavoro antirazzista, che viene fatto principalmente con i giovani, si sviluppa

su due livelli: il primo è centrato sull’immedesimazione nella situazione “degli altri”, per

favorire un atteggiamento multiprospettico rispetto al sé; il secondo si basa sulla messa in

discussione della propria esperienza, ritenuta valida e generalizzabile, per lasciare spazio

ai punti di vista degli altri. Quest’ultimo aspetto segue la prospettiva del “border crossing”,

l”attraversamento di frontiere” , per favorire l’interazione, la gestione dei conflitti e la

negoziazione delle proprie idee e punti di vista.

Le linee d’azione contro il razzismo non si esauriscono qui, essendo il fenomeno del

razzismo molto ampio e complesso. Alcune strategie più comuni comunque per

combatterlo consistono nella progettazione di:

1. lavori scientifici che hanno come oggetto di ricerca e di analisi il razzismo nel suo

significato profondo, nelle cause e nel suo sviluppo;

2. forme espressive che contengono appelli o messaggi morali in grado di

sensibilizzare un vaso pubblico;

3. laboratori e progetti pedagogici nella scuola e nell’associazionismo;

4. lavoro con i bambini e con i giovani appartenenti a diversi gruppi etnici;

5. iniziative e progetti rivolti alle vittime del razzismo;

6. impegno per il miglioramento della situazione giuridica e la protezione delle vittime,

con un’impostazione esplicitamente politica.

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Punti di forza

L’educazione antirazzista, così come l’educazione interculturale mirano a “rendere

consapevoli della specularità e reciprocità della differenza, che non è da attribuire soltanto

all’altro ma all’unicità di ogni persona”9. Il passo avanti dell’educazione

antirazzista consiste nel sostenere che le differenze non vanno difese solo nelle categorie

più deboli ma, perseguendo una linea più complessa, occorre insegnare a convivere con

la pluralità delle appartenenze che caratterizzano ogni individuo, attuando una costante e

consapevole contrattazione delle identità.

Limiti Gli interventi antirazzisti corrono il rischio di polarizzare nella loro impostazione i concetti

bianco/nero, maggioranza/minoranza e di attivare una metodologia che si rivolge solo agli

autoctoni. Così come all’educazione interculturale viene rivolta l’accusa di trascurare gli

aspetti politico-strutturali, comprendenti il fattore “razzismo”, e di concentrarsi in modo

particolare sul versante etico-culturale, all’educazione antirazzista viene rimproverato il

fatto di essere talvolta troppo politicizzata o ideologizzata.

In questo caso infatti le rivendicazioni di tipo politico, che sostengono l’assoluta

uguaglianza dei diritti, rischiano di ignorare le diversità. A questo punto risulta evidente la

complementarietà con l’educazione interculturale, che costituisce lo strumento per

comprendere le diversità e le specificità culturali, consentendo l’affermazione

dell’uguaglianza.

Come si può evincere dalle precedenti analisi, i due diversi approcci presentano

prospettive interessanti che nei loro aspetti di problematicità e complessità possono

portare ad una rielaborazione più completa del concetto interculturale.

Per continuare la riflessione…

Occorre anche aggiungere che nel contesto britannico l’antirazzismo è strettamente

collegato al tentativo di lotta; questo ci riporta immediatamente ad un altro concetto molto

importante, il black empowerment, definito come “processo in base al quale gruppi neri

autogestiti si impegnano in un apprendimento autodiretto e intraprendono delle azioni

collettive per affrontare la propria situazione di oppressione”10. Questa reazione al

razzismo, vissuto come atto subito di indebolimento, “disempowering”, di sottrazione ed

9 Anna Aluffi Pentini e Walter Lorenz, Per una pedagogia antirazzista, Bergamo, Edizioni Junior, 1995, p.83. 10 Anna Aluffi Pentini e Walter Lorenz, Per una pedagogia antirazzista, Bergamo, Edizioni Junior, 1995, p. 211.

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esclusione dal potere diventa una strategia di opposizione fondamentale in chiave

educativa. Empowerment assume quindi il valore di “mettere nelle condizioni di accedere

al potere”11, nella riscoperta della propria identità e del proprio valore da parte di chi ha

subito discriminazioni e oppressioni. Tale strategia può diventare allora non solo una

modalità di lotta ma un’azione educativa ad ampio raggio per lo sviluppo di una società

interculturale.

Ognuno di questi diversi approcci ha fornito uno stimolo, un’interpretazione all’incontro con

l’altro. La conclusione certa è che tutti, in questo contesto multiculturale hanno bisogno di

mantenere la propria identità culturale che è alla base delle nostre sicurezze esistenziali.

Non dobbiamo però avere paura di muoverci in un’ottica interculturale per la paura di

vedere dissolversi la centralità della nostra cultura di appartenenza, che ci porta a dover

scegliere tra alternative esasperate, senza avere lo spazio di contrattazione culturale e di

reciprocità.

Come si è potuto vedere, il melting pot o la salad bowl sono stati entrambi tentativi falliti,

che non hanno risolto sfruttamenti e ingiustizie sociali. A questo punto è meglio correre il

rischio della contaminazione, anche se a questo si accompagna l’irrazionale paura di

vedere stravolta la propria identità ritenuta immutabile e monolitica. Ma non si può evitare

la contaminazione imponendo all’altro i propri modelli culturali, ignorando

contemporaneamente che tutti, stranieri e non, sono continuamente soggetti a ibridazioni.

La difficoltà con cui ci si scontra attualmente è il mancato riconoscimento della necessità

di contrattare la propria identità. I cambiamenti che viviamo nei nostri contesti sociali

causano un tale spaesamento, che è alla base sia della paura di perdita dell’identità, sia

delle rivendicazioni e dei conflitti. “L’altro”, il “diverso” diventa colui che ha la responsabilità

del nostro disagio, diventando il capro espiatorio della società maggioritaria.

Allora se è vero ha senso accettare che le due parti in gioco perdano qualcosa di sé, nella

contrattazione delle identità che avviene quando le diversità convivono e necessitano di

strategie di adattamento in contesti mutevoli, è necessario che la pedagogia chiarisca le

dinamiche, prepari la scoperta di nuove identità, spieghi le condizioni dell’incontro.

La pedagogia nel suo orientamento interculturale complesso deve creare spazi di dialogo

e confronto, dove si possa acquisire consapevolezza della propria identità e della

contrattazione continua con sé stessi, con le proprie origini, il proprio ambiente e con gli

individui della società, ma anche tra passato e futuro, tradizione e novità, familiarità ed

11 Ibidem.

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estraneità.

Verso un nuovo modello dell’incontro Come si è cercato di fare emergere nelle pagine precedenti, non c’è un modello di

“integrazione” che possa essere applicato ad un realtà, avendone compreso e interpretato

in modo esauriente la complessità degli elementi culturali, sociali, storici.

I problemi che nascono dall’incontro/scontro tra le diversità ci trovano spesso impotenti ed

incapaci di agire, o spesso pronti ad intervenire con medicine di cui ignoriamo

completamente gli effetti collaterali. Non sarà questa la situazione per riflettere sulle

strategie di risoluzione per ogni singolo problema, che chiama in causa fattori molto

complessi e i più attivi attori sociali, come la scuola, la famiglia, i servizi, le istituzioni…

Si vuole invece costruire un orizzonte educativo interculturale, nel significato di essere tra -

attraversare le culture, che garantisca spazi di incontro, dialogo e confronto, in un’ottica

non preconfezionata, ma flessibile e problematica. Il modello pedagogico di riferimento è

costituito dalla pedagogia dell'incontro che offre una prospettiva secondo la quale "le

diversità rispetto al modello socioculturale dominante non viene più interpretata come

deficit o, tanto meno, come colpa, bensì come risorsa positiva specifica della cui

conoscenza partire per favorire l'inserimento originale del singolo individuo nel proprio e

nell'altrui contesto culturale"12. La pedagogia dell'INCONTRO offre un approccio educativo

non più speciale ma globale, accompagnato da uno studio di fattibilità delle situazioni

specifiche, per una progettazione didattica differenziata (in termini di obiettivi, contenuti e

strumenti).

All’interno di questa progettazione le modalità operative infatti non sono "pacchetti" pronti

per l'uso, né risposte precostituite; sono indicazioni di lavoro, sperimentabili e concrete,

per poter costruire, produrre, inventare attraverso la ricerca di una fattibilità e di diversi stili

didattici. Questi percorsi tengono conto inoltre della dimensione affettiva e cognitiva, delle

relazioni e dell'apprendimento, in un coinvolgimento emotivo ed affettivo che si intreccia

con la complessità della conoscenza.

L'obiettivo principale è quello di proporre delle metodologie operative, basate su processi

di scoperta, comprensione e costruzione, sempre nell'ottica di un sistema formativo

integrato all'interno del quale le famiglie, le scuole e il territorio, in qualsiasi contesto,

possano trovare modalità di azioni comuni per collaborare.

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Il processo di scoperta vuole condurre ad una conoscenza oggettiva dell’altro. La

scoperta si basa sulle competenze culturali che, attraverso la ricerca e l’osservazione,

favoriscono la comprensione della cultura dell’altro. Solo riconoscendo gli stereotipi e i

pregiudizi di cui siamo portatori, a volte inconsapevoli, e risolvendoli con un autentico

interesse per le diverse realtà sociali e culturali, possiamo affrontare in modo positivo gli

atteggiamenti di paura, rifiuto e sospetto, che spesso caratterizzano il "non-rapporto" con

loro. Motivazione principale per intraprendere questo viaggio deve essere la

consapevolezza che i modelli e i comportamenti che adottiamo e proponiamo come

educatori e insegnanti vengono trasmessi ai nostri bambini e alle nostre bambine. Sta a

noi la scelta e la responsabilità di proporre loro esperienze con contenuti stereotipati, di

non proporre esperienze con contenuti che riteniamo abbiano un rischio di conflittualità

troppo elevato, oppure di proporre e di condividere con i bambini e le bambine esperienze

interculturali, che affrontano criticamente le differenze nell'ottica dell'incontro.

Il processo di comprensione si fonda sulla conoscenza dei soggetti e del loro ambiente,

attraverso la comunicazione e il confronto diretto, necessari quando si vogliono instaurare

relazioni di orizzontalità che non siano dogmatiche e “a senso unico” ma problematiche,

stimolanti, rispettose della ricchezza e della complessità interna. Questa dimensione

formativa riguarda la necessità di interpretare l’altro, elaborando autonomamente e

consapevolmente la cultura che nasce dall’incontro con l’altro da sé. L’obiettivo è quello di

creare delle possibilità di generalizzazione, in un’interazione costante tra

diversità/uguaglianza, e di trasferibilità dei saperi prodotti.

Infine, il processo di costruzione che implica un concetto di intervento, di azione, di

costruire insieme, di ricerca-azione, di strategie operative. Spesso quando si lavora in

contesti multiculturali si incontrano numerose difficoltà. Molte di queste nascono perché,

anche se dettate dalle migliori intenzioni, si organizzano attività, si "fanno cose" PER

LORO, senza partire da un'analisi attenta delle motivazioni, degli interessi e dei problemi e

soprattutto senza considerare l'importanza della partecipazione attiva dell'individuo e del

gruppo nel processo di sviluppo. In ambito scolastico questo atteggiamento si riscontra

nella progettazione di percorsi didattici differenziati, che sfociano spesso in situazioni di

esclusione. Il processo di costruzione deve essere basato sul concetto di fare con l'altro,

che significa avere la possibilità di condividere e cooperare, anche se talvolta è necessario

creare le condizioni oggettive per favorirlo. Nell'ottica di una didattica interculturale il fare

12 F. Frabboni, L. Guerra, C. Scurati, Pedagogia. Realtà e prospettive dell'educazione, Milano, Mondadori, 1999, p.122.

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insieme richiama i concetti di scambio, interazione, dialogo, differenza, integrazione,

reciprocità, riconoscimento, amicizia, solidarietà, contaminazione.

La metodologia a cui si fa riferimento è quella della ricerca-azione, poiché ogni soggetto è

coinvolto in un viaggio inquisitivo che accompagna la costruzione dell’identità e che ha

come obiettivo principale quello di realizzare e valorizzare le potenzialità-specificità di ogni

individuo sul piano socio-affettivo, cognitivo ed esistenziale. La ricerca-azione con la sua

metodologia attiva, aperta alla molteplicità delle variabili che interagiscono in tutti i

processi formativi, attenta alla problematicità dei soggetti e degli oggetti del processo, è

particolarmente funzionale ad un contesto in cui ci si vuole confrontare con le diversità,

accettandone le sfide.

Ognuna di queste tre dimensioni che costituiscono un possibile modello di didattica

dell’incontro si integrano, costruendo costantemente interconnessioni: conoscenza,

interpretazione e azione sono dimensioni che si possono sviluppare separatamente, ma in

modo imprescindibile, secondo una sequenza anche non lineare ma all’interno della quale

non venga mai a mancare la compresenza e la pluralità degli approcci.

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Integrazione all’Introduzione

…Se per caso vi capitasse di incontrarmi all’aeroporto di Casablanca, o su una nave in

partenza da Tangeri, vi apparirei disinvolta e sicura di me, ma la realtà è ben diversa.

Ancora oggi, alla mia età, l’idea di varcare una frontiera mi rende nervosa, temo di non

comprendere gli stranieri. “Viaggiare è il modo migliore per conoscere e accrescere la tua

forza”, diceva Jasmina, mia nonna, che era illetterata e viveva in un harem, una

tradizionale abitazione familiare dalle porte sbarrate che le donne non erano autorizzate

ad aprire. “Devi focalizzarti sugli stranieri che incontri e cercare di comprenderli. Più riesci

a capire uno straniero, maggiore è la tua conoscenza di te stessa, e più conoscerai te

stessa, più sarai forte”. Jasmina viveva la sua vita nel harem come una vera e propria

prigionia. Aveva perciò un’idea grandiosa del viaggiare e vedeva nell’opportunità di

varcare dei confini un sacro privilegio: la migliore occasione per lasciarsi dietro la propria

debolezza…

da “L’harem e l’occidente” di Fatema Mernissi

Giunti, Firenze, 2000.

Non riuscivo a capire cosa c’era nello sguardo dei tuareg che mi lasciava strano, che rendeva quello sguardo diverso da uno anche bello di uno che vive in città o comunque anche nelle nostre campagne europee. Ti capita di dire che i tuareg hanno uno sguardo affascinante, uno sguardo “profondo”, insomma qualcosa c’è che accomuna gli occhi di questa gente che si incontra in giro per una bella parte del Sahara africano. Spesso vestiti di blu, completamente ricoperti da una tunica blu e da un turbante che lascia scoperti solo gli occhi che ti si puntano addosso e restano lì, sono sempre loro gli ultimi a mollare lo sguardo. Ero in Africa da un po’ di giorni e da un po’ di giorni incontravamo qualche tuareg in giro, magari in città a vendere il sale o, quando si era fortunati, nel mezzo del deserto si poteva incrociare una carovana, una mitica carovana di cammelli ondeggianti e di uomini blu che avanzano lenti lenti nella spianata infinita dell’oceano di sabbia. Tutte le volte ritornava quello sguardo. Si racconta che i tuareg, uomini e donne, siano tutti bellissimi, gli uomini e le donne più belli del mondo. Oddio, io sfaterei questo mito, se si parla di bellezza così come la intendiamo noi direi che spesso i tuareg sono un po’ malridotti, poveretti, distrutti dalla fatica e dalla malnutrizione. Il mito della loro bellezza deriva proprio dal fatto che sono sempre coperti e che lasciano sbucare solamente questi occhi che in effetti lasciano il segno. Insomma dopo giorni e giorni di Africa e di deserto, ho scoperto il segreto degli occhi dei tuareg: la distanza. Vivere nel deserto ti costringe a rivolgere il tuo sguardo perennemente verso obbiettivi lontani, verso l’orizzonte, verso lo spazio infinito. Nel deserto lo sguardo non incontra ostacoli, è sempre rivolto “oltre”, e a lungo andare prende la forma di ciò che sta guardando, diventa profondo, quasi fosse abituato alla lungimiranza. Questo è il segreto dello sguardo dei tuareg, questo lo rende diverso dai nostri sguardi abituati a panorami di una quindicina di metri, di un televisore,

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al massimo di un palazzo o, per i più “tuareg” di noi, di una collina o di una montagna. Vivere con lo sguardo che non incontra ostacoli, che impara a riconoscere una palma “sentendola” oltre l’orizzonte, ti cambia fisicamente. Che poi quello è lo sguardo che hanno ancora conservato nel dna i nativi americani, di grandi antiche tradizioni nomadi ormai sedentarizzati per forza, come se nella profondità dello sguardo ci fosse conservata la loro cultura. I tuareg, come tutti i popoli nomadi della terra, sono perseguitati dai governi dei paesi tra i quali si muovono, del resto fa paura questa gente che con lo sguardo supera i confini, anzi non li vede proprio. Li vogliono bloccare, vogliono che diventino sedentari, sono disposti a dargli anche una casa piuttosto che saperli in giro a vagare con i loro sguardi e i loro cammelli senza rispettare quei confini che nel deserto, quello vero, non ci sono, sono solo sulle cartine geografiche. Mi ricordo che da bambino, quando studiavo la geografia e vedevo quelle righe rosse sui libri, pensavo che ci fossero davvero, magari segnate per terra per dividere gli stati proprio come sulla cartina politica. Poi ho scoperto che non c’erano, e il mio sguardo si è fatto un po’ più “tuareg”. Tratto da “il Grande Boh!” di Jovanotti Feltrinelli, Milano, 1998 Questo Viaggio in Portogallo è una storia. Storia di un viaggiatore all’interno del viaggio da lui compiuto, storia di un viaggio che in se stesso ha trasportato un viaggiatore, storia di un viaggio e di un viaggiatore riuniti nella fusione ricercata di chi vede e di ciò che è visto, un incontro non sempre pacifico tra soggettività e oggettività. Quindi: emozione e adattamento, riconoscimento e scoperta, conferma e sorpresa. Il viaggiatore ha viaggiato nel proprio paese. Il che significa che ha viaggiato all’interno di se stesso, per la cultura che l’ha educato e lo sta educando, significa che per molte settimane è stato riflettore delle immagini esterne, un vetro trasparente attraversato da luci ed ombre, una placca sensibile che ha registrato, in transito e progresso, le impressioni, le voci, il mormorio interminabile di un popolo. Ecco ciò che voleva essere questo libro. Ecco ciò che suppone di aver conseguito in parte. Prenda il lettore le pagine che seguono come sfida e invito. Faccia il proprio viaggio secondo un proprio progetto, presti minimo ascolto alla facilità degli itinerari comodi e frequentati, accetti di sbagliare strada e di tornare indietro, o, al contrario, perseveri fino a inventare inusuali vie d’uscita verso il mondo. Non potrà fare miglior viaggio. E, se sarà sollecitato dalla propria sensibilità, registri a sua volta quel che ha visto e sentito, quel che ha detto e sentito dire. Insomma, prenda questo libro come esempio, mai come modello. Affidi i fiori a chi sappia badarvi, e incominci. O ricominci. Nessun viaggio è definitivo. Presentazione di Viaggio in Portogallo di Josè Saramago

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Articoli

America, la fine del “melting pot”: ora i popoli scelgono di separarsi Neri, ispanici, orientali non vogliono più vivere con gli altri ma preferiscono “rinchiudersi” con quelli della stessa razza. Il ghetto si vendica e trasloca verso i sobborghi. Gli “altri” fanno ai bianchi quello che i bianchi fecero a loro. Good Bye Luther King, l’America si coagula in una nuova segregazione volontaria, si spezzetta in un aprtheid volontario, questa volta non imposto ma cercato dalle vittime di ieri, per razze, per lingue, per abitudini. Nuovi immigrati e neri, un tempo costretti a chiudersi nei ghetti della loro estraneità, nelle Watts, Harem, Little Italy, Little Havana, Little Haiti, invadono i sobborghi creati proprio per sfuggire a loro, si costruiscono comunità separate insinuano il dubbio che non sia in crisi ormai soltanto la famiglia umana, ma la famiglia America, dove cinesi, indiani, africani, arabi, caraibici preferiscono ormai vivere da separati in casa. Il concetto velenoso del “ghetto” rinasce nei sobborghi costruiti per esorcizzarlo. Dal “melting pot”, dal frullatore che tutto rimescola si passa alle piccionaie sociali ed etniche dove si raccolgono uomini e donne con la stessa faccia, la stessa lingua, le stesse culture. Il nuovo volto dell’America raccontato dal Censimento 2000 non è soltanto più bruno di pelle, più ispanico, più asiatico, come già avvenuto in tutte le grandi città, da Los Angeles a New York. E’ un sogno fratturato, campanilista, formato di villaggi nuovi, spuntati fuori dalle città dove i profughi dei ghetti vanno a piantare le bandiere della loro storia e del loro desiderio di vivere, appunto, da eguali, ma da separati. Alle periferie di due grandi città, come Atlanta e Washington 4 su 5 delle famiglie che abbandonano il centro ed emigrano verso il sobborgo sono di pelle nera, asiatiche o centro americane. Ma la fuga avviene nel segno di una nuova prosperità economica che non ha creato affatto integrazione, ma al contrario la voglia di separatismo egoista. Chi ha i mezzi per comprarsi belle case, le villette da sogno americano, non cerca di mescolarsi, ma di distinguersi per razza e cultura. Era sempre avvenuto che il coreano arricchito dalla fatica di gestire un minimarket, l’africano salito sulla scala sociale con una buona laurea o con un ricco contratto sportivo, lasciassero i ghetti e si unissero al popolo del sobborgo “immerso nel verde” come dicono le brochure immobiliari per i polli. Ma i nuovi esuli non sono più casi singoli e soprattutto non sono più ansiosi di “vivere come i bianchi”. Si fanno costruire, perché dove ci sono i soldi ci sarà sempre un’impresa disposta ad accontentarti, quartieri separati, architettonicamente indistinguibili dagli altri, le stesse casine di mattone rosso stile “coloniale georgiano”, gli stessi silenzi di ogni sobborgo, ma dove sui marciapiedi si incontrano soltanto mamme cinesi che spingono neonati cinesi, padri di pelle scura che tagliano l’erba al sabato, donne velate nel chador che passano via veloci al volante di mostruosi quattro ruote Cadillac gremite di bambini in uniforme da calcio. E’ come se il set di “American Beauty” fosse stato svuotato dal cast tutto bianco e fosse stato occupato da una nuova compagnia di attori, per produrre il film della nuova America dell’aprtheid ricco. E’ una “segregazione volontaria”, che smentisce la favola del separatismo come semplice effetto della differenza economica, Ad Atlanta, la città di Luther King e di Via col vento una cittadina in periferia, Forsythe, impediva a un nero di risiedervi e ora è nato l’esatto opposto, il primo sobborgo tutto per afro americani, un ghetto di lusso con 175 ville da due miliardi l’una, lo shopping center, la chiesa, le stradine vuote, la scuola, la sicurezza personale assoluta. L’85% della popolazione che ci vive ha la pelle scura e quel 15% di immigrati sud americani preoccupa. Torna alla mente la triste osservazione di Malcom X:

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“Puoi portare via un uomo da un ghetto, ma non potrai mai portare via il ghetto da un uomo”. Potrebbero andare dove vogliono, ma scelgono di stare “con i loro”. Perth Amboy, accanto a New York è oggi per il 70% messicana, lo spagnolo è la lingua d’obbligo, il Cinqo de Mayo, la festa dell’Indipendenza latina e non il Quattro di Luglio, è il giorno dei fuochi artificiali. A Los Angeles, da tempo una città ispanica oltre la fortezza di Beverly Hills, anche il 44% del popolo dei sobborghi è fatto di messicani, che vivono ignorando il resto del mondo “anglo”. Nella Washington che vide la città abbandonata ai neri poveri negli anni 70, oggi un cittadino che trasloca su quattro è nero. “Voglio vivere con la mia gente, accanto a coloro che mangiano quello che mangio io, che parlano la mia lingua, che mi capiscono al volo, senza dover recitare una parte”, racconta un’agente immobiliare, Lisa Holmes, che sta facendo una fortuna seguendo i clienti della “nuova segregazione volontaria”. L’integrazione, il sogno di King, sembra passare di moda. Meglio la coabitazione, la rassicurazione di vivere tra quello “come me”. Comunque, a rappresentare l’università della gran madre America resta sempre il simbolo che sventola in ogni quartiere, nuovo o vecchio, e veglia sull’unità nazionale: una friggitoria di Mac Donald’s. Vittorio Zucconi, La Repubblica, 10 luglio 2001

Con quella faccia da straniero Eppure, è in Francia che vivo. Dell’immigrazione, conosco soltanto il volto e la memoria. E’ un corpo che ha dovuto scambiare la miseria materiale della sua terra natale dapprima contro una speranza e poi contro un altro grigiore fatto di svalutazione e di solitudine. La sua forza-lavoro è il suo capitale, i suoi figli una rivincita sull’oblio, la sua vita, un lungo processo d’usura e di esclusione. Il Paese è assente. La patria non è né nella lingua né in una terra. E’ nel ricordo e nell’attesa. Ho incontrato un uomo, algerino, operaio specializzato alla Renault di Billacourt, che ha rischiato di perdere la ragione: suo figlio, un adolescente di diciassette anni, ha dato un calcio al Corano, il libro sacro. Il Corano è quanto lui poteva offrire a un ragazzo che la Francia gli allevava. Il figlio voltava già le spalle al padre e a quel libro che non voleva né poteva leggere. E il padre non se la prendeva con la Francia ma con se stesso, nemmeno con il suo Paese, di cui era in un certo senso spossessato. L’immagine di quel padre è rimasta dentro di me. E’ venuta a sovrapporsi su di un’altra, più brutale e più dolorosa, quella di una ragazzina di quattordici anni, una tunisina, che si è gettata dal quarto piano perché suo fratello la sospettava di aver dormito con un ragazzo e si accingeva a far venire un medico per verificare la sua verginità. E anche sull’immagine di una madre di famiglia che aveva ricevuto dal suo consorte soltanto percosse e un po’ di seme per fare bambini, fino al giorno in cui perse il silenzio e il controllo e lo uccise. Ho testimoniato al suo processo, evocando l’esilio nell’esilio e le due morti, quella quotidiana infertale dal marito e l’altra liberatrice e repentina che lei ha dovuto dare. Ci sono ferite che si nutrono del tempo e diventano il tessuto della memoria. (…) E’ un privilegio per un maghrebino che vive in Francia non subire direttamente, sul proprio corpo, il razzismo ordinario. Un privilegio amaro. Il disprezzo è quel lenzuolo nauseabondo gettato su una quantità indiscernibile di uomini e donne per non vederli, per non nominarli

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e anche per designarli al rifiuto. Questo disprezzo ha comunque la sua perversità: sovente risparmia qualcuno. Scrittori, intellettuali, promotori della lingua francese: essere meno strani, più assimilabili e, a conti fatti, abbastanza vicini a una Francia dall’anima socchiusa (…). Soffia in questo paese un vento di liberà che manca particolarmente nel Terzo Mondo. E’ forse tale sensazione che ci trattiene in Francia, e che permette a me di osservare senza compiacimento l’immagine così complessa e contraddittoria di questa società. Questo, ho potuto farlo grazie a un organo, un mezzo d’espressione, forse il più prestigioso in Occidente, il giornale Le Monde (…). E’ sulle colonne di questo giornale che, fra le altre cose, ho parlato con maggiore ampiezza del razzismo. Devo molto a questo asilo culturale che mi ha permesso di scrivere, in piena libertà, ciò che forse non avrei mai potuto dire in un altro giornale, in un altro continente. Eppure, mi capita di sentirmi straniero, tutte le volte che il razzismo virulento o larvato si manifesta, tutte le volte che si tracciano dei limiti da non superare. Uno squarcio in un paesaggio. Una frattura nella storia. La memoria degli immigrati è fatta così: scosse, asma, incrinatura. E io mi inscrivo in questo tessuto maltrattato. Il rifiuto da qualche tempo quasi nevrotico di ciò che reca l’impronta dell’Islam e del Terzo Mondo include nello stesso fardello un’intera comunità, manovali e intellettuali. J.L.Borges scrive in Finzioni: “Pensavo che un uomo potesse essere nemico di altri uomini, di altri momenti, ma, non di un Paese; non delle lucciole, delle parole, dei giardini, dei corsi d’acqua, dei tramonti”. Questa è forse l’eclissi dell’umanesimo, in un’epoca in cui l’individuo vorrebbe strappare con la violenza “un supplemento di futuro” a una civiltà raffreddata. “E’ invano”, scrive Cioran, “che l’Occidente si cerca una forma di agonia degna del suo passato”. Per il momento, è animato dalla crisi e dai suoi sintomi. La Francia non vuole riconoscere che il suo futuro, con o senza la crisi, è inscritto nell’ibridismo. Alcuni immigrati ritorneranno nel loro Paese per desiderio, per volontà o per logoramento. La maggior parte resterà qui. Il paesaggio della Francia sarà fatto anche dei loro volti. Che importano le ragioni. Esse vengono forse dal cuore o dall’abitudine. E’ senza dubbio perché, come scrive Cioran, “in ogni cittadino di oggi dimora un futuro meteco”, che alcuni nostalgici dell’impero coloniale, anche se non l’hanno conosciuto, raddoppiano la violenza e sfigurano questa ospitalità francese piena più che mai di contraddizioni e di ambiguità. Tahar Ben Jelloun La Repubblica, 20 giugno 1992

Se Beethoven stringe la mano a Bob Marley Come difendere identità e tradizioni senza rinunciare al nuovo e alle differenze Un grande saggista racconta che cosa rappresenta oggi la cultura in Europa Da qualche tempo, in Francia, alcuni degli intellettuali più brillanti ci hanno abituato a ricondurre ogni dibattito ad una scelta semplice e riconfortante: da una parte vita e pensiero, dall’altra le tradizioni ancestrali; da una parte Beethoven, dall’altra Bob Marley. Già un personaggio di Dostoevskij, nei Demoni, chiedeva di scegliere tra Shakespeare e un paio di stivali; nello stesso spirito, ci ingiungono ora di scegliere per il cosmopolitismo oppure per la fedeltà alla nostra identità culturale.

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Al giorno d’oggi sembra che la seconda opzione attiri soltanto i regionalisti attardati (benché sempre pericolosi) e i rappresentanti degli estremismi: a destra, i nazionalisti; a sinistra, qualche sopravvissuto terzo-mondista. Il consenso della maggioranza, anche se implicito, è orientato a favore del cosmopolitismo. Non intendo, da parte mia, fornire una nuova risposta alla stessa domanda, ma piuttosto sostituirla con un’altra: è veramente necessario scegliere tra i due? Da quando non gli si accolla più, automaticamente, alla maniera di Lenin, l’epiteto di “borghese”, la paroloa “cosmopolitismo” si utilizza, di solito, in due contesti. Si parla così di ambienti o di città cosmopolite, come Londra o Parigi, per evocare la presenza simultanea di numerosi stranieri di diversa provenienza. Questo fenomeno resta ben circoscritto nello spazio e non sembra destinato ad estendersi; si tratta, paradossalmente, di una particolarità culturale tra le tante. Nell’altro significato, la parola “culturale” si accosta non più al concetto di “mescolanza” ma a quello di “universale”; in questo caso, sono giudicati cosmopoliti non alcuni fatti, ma un insieme di valori. Sarà allora Amnesty International, piuttosto che Parigi, l’esempio perfetto dello spirito cosmopolita, perché questa organizzazione combatte la tortura, le multinazionali e la pena di morte in ogni angolo del mondo. Nel far ciò, essa può (ma non necessariamente) trovarsi in opposizione con determinate caratteristiche di certe culture. Possiamo infatti dire che la pena di morte fa parte della tradizione americana, così come la prigione politica fa parte di quella russa o l’escissione di quella di numerosi paesi africani islamici. Invece, chi parla di “valori universali” afferma anche che la differenza culturale non giustifica ogni cosa e si dichiara pronto ad esprimere un giudizio, non sulle culture nella loro interezza, bensì sulla validità di questa o quella pratica tradizionale. Ma la cultura non è fatta solo di tradizioni e queste, del resto, non sono necessariamente aggressive nei confronti dell’individuo. La cultura è una pre-organizzazione del mondo, che ciascuno può apprendere e che ci permette di comunicare con gli altri membri del nostro stesso gruppo. Sembrerebbe che, fino all’età di due anni, il bambino sia capace di assorbire indifferentemente ogni tipo di “cultura”. A partire da quel momento, si formano, per ognuno dei cinque sensi, associazioni stabili le quali indurranno l’individuo a preferire il sapore del riso rispetto a quello della manioca o, d’altra parte, a riconoscere come armoniosa una data combinazione di colori e di forme invece di tal’altra, o ad imparare il cinese piuttosto che il francese. I membri delle differenti culture organizzeranno in modo diverso il tempo e lo spazio e, di conseguenza, interpreteranno in modo diverso il senso della propria esistenza. In tutto ciò, non dovranno scegliere tra il particolare e l’universale: le culture, come le lingue, sono sempre, di per sé, particolari. E’ evidente che comunichiamo meglio con gli altri membri che appartengono alla nostra stessa cultura se possediamo una migliore padronanza dei codici. E’ sorprendente, invece, che la medesima padronanza permetta la creazione di opere che parlano agli estranei. Il fine ultimo dell’arte e del pensiero è quello di rivelare l’essere umano a se stesso; e constatiamo che, se un poco di tradizione rende le opere d’arte incomprensibili, molta tradizione le riavvicina a noi. Mu-Chi era un monaco buddista, vissuto nel XII secolo nella Cina del Sud; non se ne era mai allontanato e non conosceva niente al di fuori della tradizione locale. Tuttavia i suoi disegni a inchiostro, i suoi cachi, le sue pastorelle e le sue oche selvatiche catturano ancor oggi lo sguardo di persone provenienti dai quattro angoli del globo. Tadeusz Kantor si è a tal punto immerso nella sua natale Wielopole e nei suoi particolarissimi ricordi di infanzia che ha saputo rivolgersi agli spettatori del mondo intero. A partire da una certa profondità d’esplorazione, l’arte, come il pensiero, diventa

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universale; ma la strada più diretta che conduce a quel punto passa per la conoscenza del particolare. Se veramente è così, se la forte identità culturale, lungi dall’ostacolare la strada all’universale (sto parlando in questo momento di opere d’arte, non di valori), ne è la via maestra, non vi è allora un rischio insito nell’accelerazione tipicamente moderna degli scambi tra culture, nella moltiplicazione dei contatti, nella sovrabbondanza di comunicazioni? Non andiamo forse verso una crescente uniformità, in cui la mescolanza generalizzata farà scomparire tanto i particolarismi che l’universale? Sarebbe assurdo negare l’esistenza di queste tendenze, ma possiamo chiederci se, cedendo ad un’illusione egocentrica, non siamo portati ad attribuire loro un’importanza sproporzionata. Il fatto che sia sufficiente conoscere trecento parole d’inglese per essere capaci di domandare la strada in non importa quale parte del mondo, non mette davvero in pericolo la sopravvivenza delle lingue nazionali. Solo un patriarca d’estrema destra (il cineasta Autant-Lara, nello specifico) può seriamente credere che la Coca-Cola rappresenti una minaccia per la cultura francese; e non ci copriremo di ridicolo recriminando sul fatto che i moscoviti possano mangiare hamburgers con il pretesto che essi subiscono così l’alienazione culturale propagandata dai McDonald’s. Ogni cultura è in contatto con tutte le altre (quelle che non lo sono state muoiono al primo incontro), ogni cultura è in continua trasformazione, come la nave “Argo”; e la vernice di uniformità internazionale non impedisce affatto alle singole culture di continuare a vivere. Che ne è allora dell’identità culturale europea, annunciata da alcuni, segretamente temuta da altri? Mi domando se questa espressione non celi in fondo un malinteso. Quando eravamo bambini, in Bulgaria, desideravamo tutto ciò che era “europeo”, perché la qualità degli articoli importati era di gran lunga superiore a quella dei prodotti locali, che cadevano a pezzi in breve tempo; una volta cresciuti, veneravamo l’Europa perché essa incarnava ai nostri occhi, la democrazia e la libertà dell’individuo. Ma gli europei ben sanno oggi che i prodotti importati dall’estero possono essere migliori di altri; e che i valori democratici hanno una valenza universale, anche se sono stati definiti per la prima volta in Europa occidentale. Tutto ciò non produce un’identità culturale. La cultura europea non esiste, sia perché non si contrappone a quella dei vicini ma comunica con essa attraverso impercettibili passaggi, sia perché essa è, al proprio interno, troppo diversificata, e tale resterà. Smettere di disprezzare i propri vicini è una buona cosa, ma non porta tuttavia alla somiglianza con loro. L’identità culturale non si oppone né ai valori universali né ai contatti cosmopoliti; il pericolo non le viene dai charters a buon mercato né dai menu “internazionali” dei grandi alberghi. Viene dal processo di deculturazione che subiamo all’interno stesso della nostra società. La cultura muore quando la vita si trova ad essere frammentata tra una settimana di lavoro in cui conta soltanto l’intelligenza strumentale e l’efficacia, e alcune ore di svago durante le quali si consumano avidamente distrazioni. La cultura muore quando la vita degli uomini si trova, per la forza dei mutamenti sociali, ad essere divisa dalle tradizioni un tempo trasmesse nell’ambito familiare, e quando essa stessa volta le spalle a una scuola la cui finalità è divenuta oscura; si hanno allora migliori possibilità di riuscita depredando i propri vicini e vendendo loro crack. Questo smarrimento non potrà essere definitivo , ma può durare a lungo,. Abbiamo tutti bisogno di veder confermato il sentimento della nostra esistenza; il mezzo più facile per farlo è quello di riconoscersi in una identità collettiva. Per questo motivo sono felice di sentirmi miliziano serbo, o militante del Fis o tifoso dell’Olimpique di Marsiglia, e mi sgolo a gridare: Abbiamo vinto!. E’ inutile lamentarsi perché gli uomini sono quel che sono, ed è pericoloso dimenticare che il male non sta soltanto dalla parte degli altri. Ma avremo fatto un passo in avanti nella formazione del nostro spirito quando avremo rimpiazzato lo stupido orgoglio nazionale, o locale, con un’immersione nell’identità

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culturale. Soltanto che, purtroppo, questo lavoro è sempre da ricominciare: la cultura , come l’esperienza, non è né contagiosa né ereditaria. Articolo di Tzvetan Todorov, (tradotto da Simona Cigliata), La Repubblica

Un veleno tra i popoli Una caratteristica del razzismo è che riguarda tutte le società senza nessuna eccezione. Non c’è paese al mondo che possa sostenere di non registrare nessuna discriminazione sul suo territorio. E’ un tema “federatore”. Il nazismo è stato vinto, l’apartheid abolito. Non esistono più sistemi politici basati sul razzismo. Questo non significa che il razzismo non si insinui nei conflitti tra i popoli e continui a esistere in ogni parte del mondo. Dunque è normale che l’ONU abbia organizzato un congresso su questo flagello. Però, forse perché i concetti non sono ben definiti, le parole non molto precise e gli obiettivi non chiaramente delineati, il congresso rischia di essere un fallimento. L’ambiguità di certe definizioni e l’alone di indeterminatezza che viene lasciato attorno a concetti come il sionismo rischiano di impedire lo svolgimento di questo congresso, che pure è così necessario in questi tempi in cui il razzismo si diffonde sempre più, si diversifica nelle sue manifestazioni, approfitta delle nuove tecnologie come Internet e, soprattutto si banalizza. Un congresso internazionale dovrebbe essere l’occasione per chiarire alcuni concetti. Bisogna riunirsi e discutere democraticamente di tutto ciò che causa discriminazione e umiliazione, contrastare i negazionisti che cercano di stravolgere la storia della verità arrivando perfino a sostenere che le camere a gas non sono mai esistite o che il genocidio degli Armeni è una leggenda anti-turca. In teoria il razzismo è un tema federatore. Più nessuno osa propugnarlo per governare un paese. Forse gli Americani, i quali minacciano di boicottare questa riunione, non vogliono che venga loro ricordato che persone di colore (ossi il 30% della popolazione degli Stati Uniti) sono spesso vittime di discriminazione, specie in materia di giustizia penale, e che l’uguaglianza di trattamento è lungi dall’essere raggiunta, e che il razzismo è combattuto meno bene che in Europa. Il sionismo è un nazionalismo, un’ideologia basata sulla storia e sulla religione ebraica. E’ equiparabile al razzismo? I paesi arabi pensano di sì e lo gridano con forza. Israele, gli Stati Uniti e i paesi occidentali rifiutano questa assimilazione. Nel 1991, l’Assemblea Generale dell’Onu aveva abrogato la risoluzione del 1975 che assimilava il sionismo al razzismo. Quanto all’Africa, essa ricorda le ferite causate dalla schiavitù e chiede che ai popoli un tempo soggetti alla schiavitù siano versati indennizzi retroattivi. E’ un fatto che il popolo palestinese vive in una situazione intollerabile fatta di repressione e di ingiustizia, che i suoi capi vengono eliminati sistematicamente, che è oggetto di una colonizzazione dove l’odio fa parte di un programma politico. Certe provocazioni del generale Sharon sono indiscutibilmente dettate da razzismo. Il sionismo è uno sciovinismo che può avere derive razziste. Ma se in Israele esiste il razzismo, non per questo si può dire che tutto il popolo israeliano sia razzista, come dimostrano i movimenti per la pace che sempre più numerosi si oppongono alla politica di Sharon e denunciano l’ingiustizia inflitta ai Palestinesi. Se ufficialmente non esiste più un razzismo di Stato, alcuni partiti politici di destra o di estrema destra non si vergognano più di ostentare le loro idee razziste. I flussi migratori legali o illegali, la scarsa conoscenza delle culture degli altri, la chiusura su se stessi, la paura della recessione e l’ignoranza in tutte le sue forme sono tutte cose che creano e alimentano il razzismo tra gli uomini. Il congresso di Durban non ha lo scopo di intervenire

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in conflitti come quelli del Medio Oriente o della Ex Jugoslavia. Sono altre le strutture delle Nazioni Unite deputate a occuparsi di questi problemi. Da questo grande congresso ci si dovrebbe aspettare una carta con leggi e regole, con un supporto giuridico che renda punibile dai tribunali qualsiasi incitamento all’odio razziale. Ci si dovrebbe aspettare che la saggezza delle grandi potenze abbia la meglio e imponga una deontologia della vita politica. La democrazia e la civiltà non possono tollerare il razzismo. SI sa che l’abolizione della schiavitù non ha impedito lo sfruttamento dei bambini che lavorano nelle fabbriche di tappeti o per l’industria della confezione. Le leggi antirazziste delle democrazie europee, così come sono ora, non hanno messo fine al razzismo quotidiano e ordinario. La mentalità della gente non segue le leggi, o almeno non rapidamente quanto si vorrebbe. Il congresso di Durban non è il luogo dove si deve trovare una soluzione al conflitto in Medio Oriente. Dovrebbe favorire una riflessione globale per stabilire un programma di attività volte a lottare contro tutte le forme di razzismo in ogni parte del mondo, per stabilire una legislazione più severa che facci rispettare uno degli articoli fondatori della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che recita: “gli uomini nascono liberi e uguali e possono avvalersi degli stessi diritti senza discriminazione alcuna, e in particolare senza discriminazioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica”. Ma non sempre gli interessi della politica corrispondono algi interessi del cittadino, specialmente quando questo è povero, appartiene a una minoranza e ha un colore della pelle che non a tutti piace. Tahar Ben Jelloun. La Repubblica, 30 agosto 2001, in occasione del summit a Durban contro il razzismo

Rimini darà soldi agli zingari per convincerli ad andarsene Da “Il Resto del Carlino”, 22 novembre 2000 La chiamano già l’operazione “rottamazione” degli zingari. Per arrivare entro la fine di dicembre alla chiusura di un campo nomadi, in piedi da una decina d’anni e ridotto in condizioni igienico-sanitarie e di ordine pubblico disastrose, il Comune di Rimini verserà ad ogni nucleo familiare di zingari 22 milioni perché se ne vada, usando quei soldi contributo per acquistare altrove un terreno sul quale piazzare la propria roulotte. “Se qualcuno ha un’idea migliore per chiudere questo campo senza fare ricorso all’esercito me lo dica”, fa capire l’assessore ai Servizi Sociali della giunta di centrosinistra, Stefano Vitali. Delle 21 famiglie (per un complesso di 140 persone) che occupano il campo cosiddetto di Via Portogallo, 11 hanno già individuato il terreno sul quale trasferirsi. Altre hanno trattative avanzate. Le rimanenti finiranno sparse, in via transitoria, su aree comunali in attesa di trovare un’autonoma collocazione. Una volta lasciato il campo, che sarà del tutto smantellato, e intascati i 22 milioni comunali, i nuclei familiari di zingari non potranno più fare i furbi. Se trovati in campi abusivi in città saranno allontanati. Tutta l’operazione, fatti i conti, verrà a costare 500 milioni (ovvero 462 del contributo per tutti i nuclei familiari, più di 38 di spese generali). Ma, secondo la giunta che nel tardo pomeriggio di ieri ha dato via libera al piano, si tratta di una partita con costi sociali ed economici positivi. I primi – sempre secondo la giunta – sono dovuti al fatto che per la prima volta un campo nomadi viene liberato senza l’uso della forza che peraltro potrebbe avere esiti non scontati. I secondi sono altrettanto positivi perché attualmente la gestione del campo costa alle casse comunali 440 milioni all’anno di cui, ad esempio, solo 100 per l’erogazione (meglio, spreco) dell’acqua. Per dimostrare che l’operazione comporta un vantaggio per la comunità, la giunta precisa in una nota che già dal prossimo anno i 440

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milioni risparmiati con la chiusura del campo saranno utilizzati a fini sociali ovvero a sostegno dei canoni d’affitto per i cittadini riminesi in condizioni indigenti. La decisione della giunta ha subito dato il via alle proteste. Il capogruppo di An, Vito Murgida, ad esempio, ha rilevato che “non si può, con i soldi dei cittadini, premiare chi per anni ha abusivamente occupato un campo e sprecato risorse”. “Poi, questa invenzione del comune, mi sembra un modo per incentivare l’arrivo di altri nomadi a Rimini come se questa fosse la terra promessa…”.

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39

Mod

ello AN

TIRAZZISTA

Quadro descrittivo

Linee d’intervento

Punti di forza Lim

iti

-Anti-racist

education

in G

ran Breta gna

a

ttorno agli

anni ’90:

affronta diversità e im

magine d

ella d

iversità come pregiud

izio razziale -A

ffronta le discrim

inazioni razziali nei sistem

i educativi

e nelle

istituzioni, elaborand

o anche proposte politico-

sociali radicali

-Non interpreta

zioni delle com

ponenti strutturali

d

el razzism

o m

a analisi

delle d

inamiche a

d esso le gate, che

lo alimentano…

-A

ttenzione all’aspetto

politico-

sociale (d

iversità

razziale legata

all’ingiusta

distribuzione

del

potere) ed

educativo (cap

acità intellettuali d

iventano tipologie som

atiche) -Em

powerm

ent, messa in cond

izione d

i accedere al potere, autosviluppo,

riscoperta d

ella propria

identità

e valore.

-Target group è la com

unità

degli autoctoni.

-Prassi del lavoro antira

zzista:

imm

edesim

azione “nei panni d

i”, m

essa

in d

iscussione d

ella propria

esperienza

“border

crossin g”, lavori

scientifici, sensibilizza

zione sociale, labora

tori, lavoro e

impegno sociale…

-Consapevolezza

che le

differenze

non vanno

difese solo nelle ca

te gorie più d

eboli. Pluralità d

elle appartenenze

di

o gni ind

ividuo

-Rischio di un’eccessiva

politicizzazione

o d

i troppa

ideolo gia

: l’assoluta rivend

icazione

dell’uguaglianza

dei

diritti rischia d

i i gnorare le d

iversità

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40

M

odello A

SSIMILA

ZION

ISTA

Quadro descrittivo

Linee d’intervento

Punti di forza Lim

iti

-Strategie

attiva

te storicam

ente da pa

esi a forte flusso d

i imm

igrazione, come

nel caso

della

Francia: le

diverse

culture m

inoritarie vengono

“convertite” alla

cultura dom

inante, per poter partecip

are al progresso, allo sviluppo. -Politica d

el melting pot negli

Stati Uniti, C

anada

, Australia:

mescolam

ento delle d

iverse culture

in un’a

malgam

a sociale confusa e ind

istinta.

-Uniform

ità al modello sociale

dominante.

-Tendenza

a creare

un tessuto

sociale om

ogeneo, dove

le radici

etniche differenti sono accom

unate da una stessa appartenenza. -Scolarizzazione:

attra

verso scuole-ponte, per p

reparare all’integra

zione i

soggetti socializza

ti all’interno

di

sistemi culturali d

iversi.

Ideale d

i convivenza

senza

discrim

inazioni. Rischio

di

fallimento

del

melting pot: le d

ifferenze non scom

paiono m

a si

trasformano

in d

isuguaglianza sociale

e m

arginalizzazione. Rafforzam

ento di intolleranza,

razzismo,

emargina

zione: la

convivenza non può essere la sola

risposta

alla m

ulticulturalità.

Rischio di a

ssimilazione d

i una

cultura minoritaria ad

opera

della cultura d

ominante.

Politiche forti di inte grazione

provocano m

eccanismi

di

autodifesa, autoesclusione.

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41

Mod

ello INTEG

RAZIO

NISTA

Quadro descrittivo

Linee d’intervento

Punti di forza Lim

iti

-Auslanderpedagogik,

Pedagogia com

pensatoria, Pedagogie

de l’acceuil

caratterizzano una tendenza a

trattare il

problema

dell’incontro con la diversità in term

ini di riduzione dei problem

i che

l’individuo porta con sé, perché diverso -G

li stranieri

imm

i grati

si trovano

in situa

zione d

i svantaggio socio-culturale e d

i povertà

: sono

speciali e

quindi

vanno ried

ucati, inseriti, aiuta

ti ad a

ccorciare il

gap con

la cultura

dom

inante. La

diversità

è errore,

mancanza

, carenza

da com

pensare

-Politiche di compensazione:

la diversità

culturale è

un problem

a da

risolvere con

interventi mirati

-Apprend

imento d

ella lingua,

supporto per

facilitare l’ad

attamento

ai com

portamenti

sociali d

el luo go,

alfabetizzazione,

inse gnamento

delle

norme,

med

iazione culturale,

scolarizzazione con sostegno per

i soggetti

“svantaggia

ti culturalm

ente”

-Intenti positivi

di una

pedagogia basata

sull’impegno e sull’interesse

nei confronti dell’altro -Tenta

tivo d

i risolvere

le d

ifficoltà, il disagio a

ttraverso

la “cura”,

intesa

come

relazione, stimolazione…

-L’intervento che compensa

è un

intervento che

presuppone l’esistenza di uno

svanta ggio, di un d

eficit, che ostacola

l’inserimento

nella società -Le

specificità

culturali rischiano

di

diventare

sinonimi

di

svantaggio

non solo

culturale m

a anche

economico, che im

pedisce il

processo di integrazione nella

società

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42

Mod

ello INTERC

ULTURALE

Q

uadro descrittivo

Linee d’intervento

Punti di forza

Lim

iti

-Integrazione

interattiva

in contesti

di

coesistenza d

i culture d

iverse. -C

onsapevolezza

della

molteplicità

delle

identità

possibili. -Interculturalità

non com

e ed

ucazione speciale,

straord

inaria m

a ord

inaria;

caratteristica d

ella società.

-Diversità

in

un’ottica

problematicistica, non com

e om

ogeneizzazione

della d

ifferenza.

-Approccio transculturale

-Educazione europea

-Educazione alla m

ondialità

-Glocal ed

ucation

-Focus su

imm

i grati

e m

inoranze, a

ttenzione alle

culture d

ei pa

esi d

i provenienza -Prom

ozione d

ella convivenza plurietnica -Intervento

scolastico ed

extrascolastico

-Tentativo d

i creare spazi di

confronto, d

ialo go, collegam

ento tra le culture

-Inadeguatezza nei confronti

della

gravità d

ei problem

i sociali

che sorgono

dalla

diversità culturale

-Non

basta la

conoscenza

delle

culture per

ridurre

il razzism

o e

favorire la

tolleranza.

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Mod

ello SEGREG

AZIO

NISTA

Quadro descrittivo

Linee d’intervento

Punti di forza Lim

iti

-Strategie basate

sulla tendenza

a m

antenere separati

i diversi

elementi

culturali, le

diverse appartenenze

all’interno di uno stesso territorio. -Princip

i che si richiam

ano a

d una

p

eda

gogia

naziona

le e

a

politiche

naziona

listiche che tendono a ra

fforzare

l’identità

della

“nazione”, a

nnulland

o lo sp

azio d

ella d

ifferenza.

-Le m

inoranze

etniche e

linguistiche, q

uand

o sono

riconosciute, veng

ono concentra

te in

spazi

delim

itati, riconoscib

ili. -D

ifferenziazione

dei

percorsi

forma

tivi, d

egli spa

zi sociali.

-Programm

i e politiche sociali a

“corsie”: differenziati

per gruppi

allo scopo

di valorizzare

gli elem

enti culturali

e soprattutto

di lim

itare gli insuccessi

-Necessità dei “diversi” di essere

trattati con rispetto delle proprie specificità

e delle

proprie caratteristiche -Protezione nei confronti d

el rifiuto d

ella società

-Forte rischio di ghettizzazione -A

umento di atteggiam

enti stereotipati e folcloristici -Tend

enza

sepa

ratistica

, che

non fa

vorisce rela

zioni, conoscenze,

dina

mism

i -Interventi a

ssistenzialistici, fa

lsam

ente d

emocra

tici -M

anca

nza

della

pa

rtecipa

zione a

ttiva

e consa

pevole

dei

grupp

i m

inoritari

-Percorsi pedagogici

con orientam

ento rivolto al “terzo m

ondo”: educazione allo sviluppo, ed. globale, ed. m

ondiale, alle pace,

ai diritti

umani.

Alla

base c’è

relativismo antropologico: la differenza tra

le culture

costituisce un

universo autoreferenziale.

-Riflessione sulla pace, diritti

umani,

superamento

dei nazionalism

i -Interventi

di

tipo

extra-

scolastico e d

i associa

tivo

-Riconoscim

ento delle diversità in un’ottica di dialogo, scam

bio -Riflessione

sul ca

rattere

etnocentrico delle culture, lotta

contro ra

zzismo e xenofob

ia.

-Nel

nome

della pluralità

si esaltano

i particolarism

i -Rela

tivismo a

ssolutizzante che sfocia

in fond

am

entalism

o, dove le culture

per

ma

ntenere la

p

ropria

d

iversità d

evono rima

nere isolate

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SCHEMA PER LA DIDATTICA DELL'INCONTRO

Oggetti formativi

Dimensioni cognitive

Monocognizione

Metacognizione

Fantacognizione

Le competenze culturali primarie (conoscere l'altro)

Conoscere

l'altro da sé

la competenza alfabetica di base:

conoscere i principali contenuti e i

linguaggi della cultura dell'"altro"

Saper conoscere

l'altro da sé

l'elaborazione di cultura tramite l'uso

di strumenti e di procedure di ricerca multi/interculturali

Scoprire

l'altro da sé

la reinterpretazione e rielaborazione

originale intuitivo-inventiva di saperi in

chiave multi/interculturale

Le competenze culturali secondarie (interpretare l'altro)

La competenza multiculturale

utilizzare in modo parallelo ma non integrato diverse

prospettive culturali

La competenza interculturale

utilizzare in modo

strutturalmente integrato differenti

prospettive culturali

La competenza transculturale

ideare nuove culture e nuove possibilità di

incontro/confronto interculturale

Le competenze dell'intervento (agire con l'altro)

Conoscere/

eseguire "incontri"

conoscere il dibattito

e le strategie per dare risposte ai

problemi multi/interculturali

Saper progettare

"incontri"

condurre progetti di approfondimento e di soluzione di problemi

multi/interculturali

Intuire/inventare

"incontri"

elaborare prospettive e strumenti originali e personali di incontro multi/interculturale

da Guerra, L., "L'educazione fuori dalla scuola" in Frabboni, F., Guerra, L., Scurati., C., Pedagogia. Realtà e prospettive dell'educazione, Milano, Bruno Mondadori, 1999.