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MOBBING: STRUMENTI DI ANALISI E PREVENZIONE

LUGLIO 2013

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Api Torino, nata nel 1949, rappresenta la cultura e la creatività imprenditoriale di una delle più

importanti aree industriali italiane.

E’ il punto di riferimento per le circa 3.200 piccole e medie imprese associate, alle quali fa capo

una forza lavoro di oltre 65.000 addetti.

Fra i compiti dell’Associazione, il patrocinio unitario nei confronti delle organizzazioni sindacali dei

lavoratori, e l’assistenza in campo sindacale, tributario, tecnologico, ambientale e commerciale.

A questo, l’Associazione aggiunge azioni di rappresentanza presso Enti e Istituzioni locali,

essendo interlocutore attivo a tutti i livelli sulle grandi questioni che riguardano il Territorio, il suo

sviluppo e il benessere nel futuro dei suoi abitanti.

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Api Formazione S.c.r.l. è un ente di formazione senza scopo di lucro costituito da oltre 1100

imprese, in maggioranza industriale e associate all’API.

Dal 1992 Api Formazione svolge la propria attività con l’obiettivo di sviluppare le iniziative in

materia di formazione destinate allo sviluppo tecnologico ed organizzativo delle piccole e medie

imprese del territorio, in particolare inerenti lo sviluppo delle nuove tecnologie e

dell’informatizzazione.

Api Formazione opera in collaborazione e sinergia con i servizi di API Torino.

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La Camera di Commercio di Torino è il punto di riferimento per le oltre 200.000 attività

imprenditoriali presenti sul territorio provinciale, e si pone come interlocutore privilegiato per le

aziende non soltanto per facilitare il disbrigo delle pratiche amministrative, ma anche per proporre

diversi servizi e iniziative, orientate alla valorizzazione e alla tutela degli interessi generali

dell'economia.

L’ente camerale è al fianco degli imprenditori anche con servizi promozionali, che assistono

l’impresa fin dalla sua costituzione, supportandone la nascita, seguendone lo sviluppo,

raccogliendo e soddisfacendo le sue esigenze più importanti.

La Camera di Commercio rappresenta, inoltre, un interlocutore di rilievo nel dialogo fra le

componenti economiche operanti sul territorio.

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INDICE ...................................................................................Errore. Il segnalibro non è definito.

Quali sono le origini del mobbing? .................................................................................................. 6

I riferimenti teorico-concettuali ........................................................................................................ 8

Il quadro normativo ....................................................................................................................... 14

I principali modelli di analisi........................................................................................................... 17

Il processo di mobbing .................................................................................................................. 20

Le cause del mobbing ............................................................................................................... 20

Il mobbing conclamato: dal conflitto al mobbing ........................................................................ 22

Le azioni mobbizzanti ................................................................................................................ 23

Le conseguenze del mobbing.................................................................................................... 24

L’azienda................................................................................................................................... 27

Lo stato ..................................................................................................................................... 27

Le tipologie di mobbing ................................................................................................................. 28

Gli attori del mobbing .................................................................................................................... 29

I professionisti che lavorano intorno al mobbing e il trattamento di cura........................................ 33

Strumenti di rilevazione................................................................................................................. 35

La prevenzione e interventi di gestione del mobbing..................................................................... 36

Ricorrere alle vie legali.................................................................................................................. 40

Conclusioni ................................................................................................................................... 43

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Quali sono le origini del mobbing?

Il mobbing è un fenomeno articolato e complesso che si sviluppa in ambito lavorativo ed investe

una molteplicità di variabili. In breve esso nasce da un conflitto non risolto e si esplicita in diverse

forme di violenza psicologica, esercitate sul luogo di lavoro attraverso comportamenti aggressivi e

persecutori ripetuti, da parte di superiori, colleghi o sottoposti, nei confronti di un compagno di

lavoro ritenuto scomodo o antipatico quindi da eliminare. E’ difficile anzi forse impossibile stabilire il

perché un lavoratore viene mobbizzato e quali sono gli effettivi fattori che scatenano una tale

violenza: il motivo principale dipende dal fatto che ci si muove su un terreno ancora incerto che

manca di una reale concordanza concettuale e metodologica da parte del mondo scientifico. In

termini concreti significa almeno due cose: non vi è chiarezza su cosa osservare e su come fare a

distinguere tra conflitto, mobbing e sofferenza nel luogo di lavoro (diversa da sofferenza a causa

del lavoro).

Il mobbing viene studiato essenzialmente secondo due approcci differenti. Uno, l’approccio

sistemico- relazionale, sostiene che si tratta di una proprietà emergente del sistema-impresa,

generata da tutte le componenti organizzative che agiscono in modo integrato e unitario sulla base

di un tessuto socio-economico predisponente. L’altro partendo da un punto di vista clinico pone al

centro l’ipotesi secondo cui determinati fattori individuali (genetici, caratteriali, di personalità) sono

elementi significativi nel far si che un lavoratore diventi oggetto di mobbing.

L’esperienza dimostra che la salute individuale e la salute delle organizzazioni sono

interdipendenti nel senso che eventuali fattori di stress a livello di organizzazione possono

compromettere la salute dei lavoratori e a loro volta i lavoratori stressati possono causare notevoli

disfunzioni organizzative. Secondo tale logica il mobbing scaturisce dall’interazione tra il contesto

organizzativo e le identità individuali che abitano l’organizzazione: si devono verificare infatti una

serie di condizioni disfunzionali che interessano i due livelli interconnessi: il livello micro (ovvero la

componete individuo e gruppo) e il livello macro di un’organizzazione (il clima e la cultura

aziendale, la struttura, i meccanismi operativi, i comportamenti organizzativi, il piano socio-

economico e culturale). Una fragilità manifestata su un livello si riversa sull’altro e sposta il

conflitto, fisiologico e promotore di sviluppo, dal piano dei contenuti a quello relazionale causando

dinamiche patologiche (uso sconsiderato del potere, eccessiva personalizzazione del ruolo

organizzativo, dominanza/sottomissione, amicalità/avversità) che aprirebbero la strada a

meccanismi di mobbing.

L’aumento del disagio lavorativo causato dai molteplici cambiamenti che hanno coinvolto il mondo

produttivo dell’era post-industriale è all’origine del grande interesse che riveste il mobbing. Prima di

esaminare tali cambiamenti è opportuno soffermarsi brevemente sul significato del cambiamento.

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Cambiare è di per se destabilizzante: vengono a mancare gli abituali punti di riferimento e diviene

necessaria una modifica degli schemi di pensiero, in grado di sostituire il vecchio paradigma con

uno nuovo. Di fronte al cambiamento emergono pertanto le vulnerabilità degli individui, incarnate in

comportamenti ambivalenti che esprimono sia la resistenza a mettere in discussione uno status

quo ormai superato, sia la volontà di abbracciare con fiducia le nuove tendenze. Emergono

dunque posizioni differenti che inevitabilmente pongono il problema del confronto e che spesso

suscitano incomprensioni tra chi si chiude in atteggiamenti rigidi senza favorire un dialogo

costruttivo e chi invece affronta la diversità con apertura e positività. La transizione dal vecchio al

nuovo costituisce dunque una fase delicata che se non ben gestita rischia di far emergere

situazioni conflittuali dirompenti, pericolose per la sopravvivenza dell’organizzazione e dei soggetti

che la abitano.

Venendo ora ad analizzare i cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro è chiaro come questi

abbiano sovvertito i cardini dell’organizzazione scientifica del lavoro fordista e taylorista

proiettandoci nel mercato globale: l’economia si smaterializza, passando da un’economia della

produzione ad una dei servizi, svincolandosi da una dimensione temporale e spaziale (sono

sempre meno netti i confini tra tempo di lavoro e tempo di vita privata, e aumenta il numero di

attività lavorative svolte a distanza, sia per conto della stessa azienda sia in rete tra più aziende).

Ne è derivato un mercato del lavoro dove predomina la flessibilità e la personalizzazione: al

lavoratore è richiesto di adattarsi rapidamente alle sfide poste dalle nuove tecnologie e a svolgere

mansioni sempre più varie, se necessario proprio cambiando mansione e aggiornando le

competenze, sulla base delle scelte aziendali e delle indicazioni del business; la fidelizzazione del

consumatore poi impone che il lavoratore sia sempre più in grado di personalizzare il

prodotto/servizio in base alle esigenze del singolo cliente cosa che pone in primo piano le capacità

e le qualità del lavoratore medesimo, creando maggiore competitività e privilegiando una

contrattazione individuale che premi il merito e la professionalità rispetto all’anzianità e agli

standard collettivi. L’economia post-industriale richiede ad individui autonomi di raggiungere

determinati risultati rinunciando ad un controllo pressante in favore della delega dove al centro vi è

il rapporto di fiducia tra il capo e il collaboratore e quest’ultimo è, si vincolato ai risultati, ma è libero

di esprimere il modo con cui raggiungerli.

L’azienda in questi nuovi scenari mette in atto un paradosso: se da un lato valorizza lo spirito

d’iniziativa e il contributo personale del lavoratore, riconoscendogli maggior spazio e libertà

decisionale, dall’altro teme di perdere il controllo e tenta quindi di riportare ordine, introducendo

modelli in grado di ingegnerizzare i processi e le procedure organizzative. Lasciare posto infatti

significa dare voce non solo alla dimensione cognitiva ma anche a quella emotiva dal momento

che le persone nel lavoro portano sé stesse quindi motivazioni, emozioni, pensieri, affetti, un

materiale intangibile che rappresenta la ricchezza dell’azienda ma se non incanalato, diviene una

forza incontenibile, capace di mettere in crisi i normali rapporti di lavoro; per uscire da tale

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paradosso è opportuno che l’azienda consenta al lavoratore di esprimere predisposizioni e

competenze ma che in parallelo inizi ad occuparsi anche della parte emotiva dell’organizzazione

influente su tutti i processi aziendali; infatti se essa non viene rielaborata vi è il rischio che

prendano forma dinamiche distruttive, su cui possono svilupparsi i meccanismi del mobbing. Ci

accorgiamo che siamo di fronte a una situazione di mobbing quando si verifica un’escalation

emotiva che amplifica i comuni sentimenti di ciascun individuo (rivalità , gelosia, antipatia,

diffidenza, paura…) costringendo i diretti interessati all’interno di una relazione malata i cui effetti

nefasti si estendono a tutta l’organizzazione. Il fenomeno quindi rappresenta in ultima istanza una

forma di fallimento della relazione umana e della convivenza tra le persone, un fallimento che

potrebbe essere evitato se da un lato i modelli di organizzazione del lavoro favorissero lo sviluppo

di competenze relazionali, e se dall’altro gli individui acquisissero più consapevolezza e

competenza nella gestione della dimensione emotiva.

I riferimenti teorico-concettuali

Il termine Mobbing è stato coniato negli anni 70 dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere il

particolare comportamento di alcune specie animali in presenza di un predatore o di un membro

del loro gruppo: l’animale non attacca da solo ma fa convergere in uno stesso luogo un gruppo di

animali della medesima specie per scacciare o assalire il predatore o per coalizzarsi contro un loro

simile ed escluderlo dalla comunità.

Deriva dall’inglese ‘to mob’ che indica essenzialmente due tipi di azioni: affollarsi, accalcarsi

intorno a qualcuno; assalire tumultuando, attaccare, aggredire, malmenare, schernire. La parola ha

anche radice latina: con l’espressione Mobile vulgus si intende una folla disordinata, dedita al

vandalismo e alle sommosse.

Il primo studioso ad occuparsi di mobbing è stato lo psicologo tedesco Heinz Leymann che

approfondì l’analogia riscontrata tra l’aggressività messa in atto ad esempio da un gruppo di volatili

e quella manifestata da certi lavoratori nei confronti di altri che, a seguito degli intensi traumi

psicologici, subiti sul posto di lavoro, avevano accusato disturbi di tipo psicofisico. Per Leyman il

“terrorismo psicologico o mobbing nella vita lavorativa implica una forma di comunicazione ostile e

priva di etica che è diretta in maniera sistematica da uno o più individui, nei confronti di uno solo,

che è spinto in una posizione indifesa e priva di aiuto e lì mantenuto per mezzo di azioni

mobbizzanti ripetute frequentemente, per un lungo periodo di tempo, determinando nella vittima

sofferenze mentali, psicosomatiche e sociali di considerevole entità”.

In Italia lo psicologo del lavoro Erald Ege si inizia ad occupare di mobbing nel 1996 fondando a

Bologna “Prima”, la prima associazione italiana contro mobbing e stress. Lungo il corso dei suoi

studi fornisce due definizioni di mobbing. La prima considera il mobbing “un’azione che si ripete

per un lungo periodo di tempo compiuto da uno o più mobber per danneggiare qualcuno, il

mobbizzato, quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene

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accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber che mettono in atto strategie

comportamentali volte alla sua distruzione, ……… relegando la vittima nell’isolamento e

nell’emarginazione. ……Il fenomeno consiste in un lungo processo in cui il sistema delle

relazioni…si caratterizza sempre più in base a una serie ripetuta di strategie negative”. Nella

seconda definizione per esaltare la gravità del fenomeno paragona il mobbing ad una situazione di

guerra in cui al centro vi sono le due parti una più forte e prevaricatrice, che attacca con le sue

strategie di attacco e la ricerca di alleanze influenti, l’altra più debole che subisce e che si sente

come una roccaforte assediata, intenta a progettare tattiche difensive.

Un altro studioso di questo fenomeno, Casilli, definisce il mobbing “un sistema di organizzazione

produttiva dell’attività umana, consistente in una successione di episodi traumatici correlati l’uno

con l’altro e aventi come scopo l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione

della volontà del soggetto mobbizzato.”

Analizzando le definizioni date dai tre autori si possono evidenziare differenti approcci alla lettura

del fenomeno che si muovono lungo il continuum, considerato nel primo paragrafo, mobbing come

originato in prevalenza da fattori organizzativi (approccio sistemico) o da fattori soggettivi

(approccio incentrato sui protagonisti il mobbizzato e il mobber).

Le ricerche di Leymann si sono concentrate molto sullo studio e sulla cura della vittima di mobbing,

il mobbizzato. Egli in quanto psicologo partiva dal presupposto che il mobbing fosse prima di tutto

un problema della vittima, che causava conseguenze patologiche sull’individuo, ma che per questo

non poteva né essere sottovalutato il ruolo di responsabilità da parte dell’organizzazione, né

supporre una relazione di causalità lineare tra struttura di personalità della vittima e mobbing. Il

mobbizzato era quindi un paziente da curare e lo psicologo doveva ascoltare attentamente la

storia del lavoratore perseguitato, per scoprire se si trattava di vero Mobbing o di un normale

conflitto sul lavoro.

Casilli all’opposto rimanda il mobbing a tutto il contesto produttivo, ritenendolo addirittura un

sistema organizzato, quasi a significare il coinvolgimento di tutta la realtà impegnata a disegnare

una comunicazione e una relazione ove la violenza psicologica diviene il mezzo istituzionalizzato

per mettere in atto precise strategie aziendali. Altri studi sempre sul fronte organizzativo che

riguardano la qualità della vita lavorativa spostano l’attenzione dalle categorie di analisi della salute

centrate sull’individuo (occupational health) a favore di quelle di natura organizzativa

(organizational health). Si tratta di un costrutto che corrisponde ad un modello ideale di

organizzazione; tra le varie dimensioni che lo contraddistinguono vi è un’importante attenzione alle

risorse umane declinata nel riconoscimento e nell’equa valorizzazione delle competenze dei

lavoratori a tutti i livelli, nel prevenire e/o governare situazioni di conflitto, attraverso un ambiente

relazionale comunicativo e collaborativo, nell’adottare le azioni necessarie a prevenire gli infortuni

e i rischi professionali, nel contenere lo stress insito nel lavoro stesso

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Il significato della salute organizzativa si può riassumere in due modi: il primo considera la salute

aziendale come l’insieme “sufficientemente armonico delle condizioni relazionali, gerarchiche,

organizzative, gruppali, in cui si intrecciano gli aspetti individuali e i significati del lavoro insiti nella

cultura dominante”; il secondo la intende come la cornice in cui monitorare i processi organizzativi

che scandiscono le fasi del ciclo di vita del lavoratore in un’impresa (la selezione,

l’accompagnamento all’inserimento, lo sviluppo delle risorse umane) per anticipare o fermare sul

nascere eventuali compromissioni del benessere aziendale quali manifestazioni di disagio

lavorativo tra cui troviamo il mobbing. A sostegno delle tesi di Casilli i teorici della salute

organizzativa sostengono che quando in un’organizzazione un individuo prima sano sviluppa una

patologia della sua mente sarebbe opportuno indagare l’ambiente di lavoro per verificare se

quell’individuo non sia espressione di una patologia più strutturata che coinvolge l’organizzazione

intera. Il ripristino della salute organizzativa a fronte di episodi di mobbing implica innanzitutto

interventi volti alla cura degli ambienti organizzativi, a tutti gli effetti malati, poiché se non cambiano

le condizioni avverse di base e il clima non migliora vi è la possibilità che il mobber prenda di mira

altri colleghi tra cui individuare la potenziale futura vittima.

La definzione di Ege, si può collocare idealmente nel mezzo del continuum. Egli sostiene infatti

che ogni conflitto quotidiano dipenda dal carattere delle persone e dal tipo di ambiente di lavoro in

cui si verifica: ci sono posti di lavoro più conflittuali a causa di colleghi più litigiosi, oppure è lo

stesso ambiente lavorativo che incentiva il conflitto, quindi è difficile trovare un parametro di

definizione ben preciso. Egli introduce alcuni elementi di novità: è il primo a considerare il mobbing

un processo quindi non solo una serie di azioni unidirezionali e mobbizzanti; evidenzia poi le

conseguenze che ricadono non solo sulla vittima ma sul sistema di relazioni degli individui, in

particolare sulla famiglia; infine propone il concetto di “determinatezza culturale”, puntando

l’attenzione sull’importanza della cultura nel determinare le differenze con cui il mobbing si

manifesta nei diversi paesi occidentali.

Al filone vittimista, di cui Leymann è ritenuto da molti l’artefice, appartiene altresì la psicoanalista e

psicoterapeuta familiare Hirigoyen che si occupa di molestie morali esercitate in famiglia e sul

luogo di lavoro. Ella tenta di chiarire i meccanismi psicodinamici sottesi al rapporto tra mobber e

mobbizzato, focalizzando l’attenzione sulle rispettive personalità. L’autrice sostiene che

“l’aggressore e l’aggredito funzionano secondo le stesso meccanismo. In entrambi i casi c’è

un’esacerbazione delle funzioni critiche verso l’esterno nel caso dei perversi e verso sé stessi in

quello delle vittime”. Nello specifico l’aggressore viene interpretato come un soggetto che soffre di

disturbo narcisistico della personalità che vive le relazioni in linea con il meccanismo della

perversione: per evitare di sentire il dolore e le contraddizioni interiori, proietta sugli altri le parti

malate per difendere il Sé ferito e fragile; per contro l’aggredito è un soggetto poco sicuro di sé e

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molto vulnerabile al senso di colpa che esteriormente appare iper-coscienzioso, disponibile e

vitale, per coprire quel senso di malinconia che lo accompagna e risultare così più amabile di

quanto egli si percepisca. La collusione che s’innesca tra i due si spiega attraverso la tendenza

dell’aggressore ad invidiare la vitalità della vittima, proiettando così su di lei le sue parti cattive,

tendenza che entra in risonanza con la propensione a sentirsi in colpa della vittima medesima.

Fronteggiare un soggetto difficile molto richiedente, assai critico e svalutante soddisfa il bisogno

inconscio di dare e di dimostrarsi all’altezza delle situazioni che caratterizza la personalità della

vittima; l’aggressore da parte sua non potrà che corrispondere al bisogno di prendere per colmare

il senso di vuoto e per sanare la ferita narcisistica che lo perseguita. E’ necessario precisare però

che anche Hirigoyen riconosce nel conflitto l’origine del mobbing, chiedendosi però se questo

derivi dal carattere delle persone coinvolte o se si inscriva nelle strutture stesse dell’azienda. A tal

proposito sottolinea la natura plurifattoriale del fenomeno mobbing/molestia morale e la

concomitanza di diversi fattori:, alcuni dei quali inscritti nel contesto socio-economico attuale:

precarietà, estrema competitività e spinta su elevati rendimenti, disumanizzazione nei rapporti di

lavoro, disorganizzazione, clima organizzativo instabile, mancanza di democraticità nelle decisioni

onnipotenza dell’impresa, tolleranza o complicità con l’individuo.

A fianco dell’approccio vittimista vi è l’orientamento, definito “colpevolista”, espresso dall’autore

inglese Tim Field che concentra l’attenzione sulla personalità di colui che esercita il mobbing,

adducendo l’invidia come motore scatenante le azioni persecutorie e la violenza psicologica.

Secondo Field Il mobber è una persona che vive una senso di inadeguatezza personale che sul

lavoro traduce in incompetenza professionale. Tale vissuto di incompetenza porta il mobber a

proiettare sulla vittima l’aggressività derivante dal senso di frustrazione percepito a seguito del

confronto con le maggiori capacità espresse dalla vittima, cosa che suscita l’invidia del mobber

medesimo. La vittima diviene l’oggetto su cui scaricare i propri sentimenti negativi: il mobber

metterà in atto contro il mobbizzato comportamenti vessatori, controllanti e sopraffattori che

potranno indurre nella vittima gravi conseguenze sul piano psicofisico. La posizione di Field

diviene estrema quando afferma che il mobber è una personalità disturbata con caratteristiche di

tipo narcisistico, sociopatico e paranoide, che sin da piccolo manifesta le tendenze del potenziale

mobber; manca in gran parte l’accento sulla dimensione organizzativa limitandosi ad affermare che

alcune disfunzioni dell’organizzazione contribuiscono al verificarsi del mobbing.

Al termine di tale breve rassegna teorica è interessante approfondire i costrutti, presi a prestito

dalla psicologia sociale e dalla psicologia analitica di Jung, che, nell’ottica di considerare il

mobbing un fenomeno arcaico, possono fornire validi spunti di analisi.

In primo luogo si può asserire che le origini del mobbing risiedono nella natura sociale dell’essere

umano quindi nell’esperienza di essere gruppo, in quanto condizione in cui si rende possibile la

sopravvivenza del singolo, e nelle dinamiche ad esso interne, che alternano momenti di

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consonanza a momenti di frizione. La vita in gruppo fornisce vantaggi per la continuazione della

specie poiché garantisce un certo grado di protezione (aiuto nella difesa del territorio,

collaborazione nel procacciarsi il cibo, e nell’allevamento della prole, suddivisione in ruoli per

assolvere ai diversi compiti..); essa è però altresì un motivo di litigio a causa della condizione di

vicinanza in cui i membri del gruppo vivono aspetto che, tra le varie conseguenze, comporta un

aumento del livello di aggressività (il vivere insieme secondo determinati principi e schemi di

riferimento inevitabilmente amplifica la diversità cosa che può diventare motivo di scontro e

successiva esclusione dal gruppo, la convivenza può diventare faticosa quando la spinta

all’adesione al pensiero di gruppo crea conformismo e riduce il proprio spazio di autonomia,

soffocando l’iniziativa personale). Ciò che consente il perdurare del gruppo nel tempo è la

trasformazione dello stesso in comunità organizzata con una sua struttura sociale, una gerarchia

definita, delle regole, dei ruoli che rappresentano una specifica funzione condivisa dalla collettività.

Proprio il ruolo, altro concetto attinto dalla psicologia sociale è al centro del buon funzionamento

del gruppo: esso consente il riconoscimento dell’individuo nell’ambito della struttura sociale,

stabilisce ciò che gli altri individui si aspettano da lui e la sua collocazione nella scala gerarchica.

Perché il ruolo funzioni come connessione tra livello individuale e livello collettivo è necessario che

il carattere prescrittivo e quello discrezionale del ruolo siano integrati in modo da mantenere una

continuità con quanto previsto dal gruppo ma da consentire al soggetto di poter esprimere la sua

identità individuale. Il ruolo definisce i limiti entro cui muoversi e i compiti a cui ci si deve attenere

per svolgere la funzione richiesta: se, seppur prevedendo una ragionevole possibilità di azione, chi

lo ricopre supera i confini concordati, allora si verificherà sovrapposizione tra i ruoli, e non sarà

rispettata la collocazione assegnata all’interno della struttura sociale; l’esito che ne deriverebbe

sarebbe una situazione di confusione e disorientamento in cui vengono meno le aspettative tra i

membri del gruppo cosa che può dare adito ad attriti e a evidenti conflitti nel tentativo di riaffermare

i propri ambiti di competenza e di ritrovare la collocazione originaria.

Quando il gruppo è attraversato da motivi di tensione (es. situazioni di cambiamento) viene

fortemente messo alla prova e risulta indebolito tanto da rischiare di non riuscire a sopravvivere; di

fronte a tali tensioni i confini del gruppo divengono meno chiari sia rispetto alla realtà esterna sia

rispetto a quella interna mentre si assiste ad un allentamento dei confini individuali dell’Io al punto

che non è facile stabilire quanto gli atteggiamenti siano frutto della personalità del singolo o

piuttosto un prodotto di un clima collettivo a cui il soggetto è particolarmente sensibile.

Anche Jung e la psicologia analitica forniscono un apporto interessante allo studio del mobbing

attraverso il concetto di Persona. La Persona risponde al bisogno di adattamento sociale e

rappresenta un’istanza che investe contemporaneamente la componente individuale e quella

collettiva. In essa rientrano le modalità comportamentali che l’individuo assume sul piano

dell’esteriorità e i ruoli sociali che egli ricopre e può essere paragonata a una membrana grazie a

cui l’individuo delimita il proprio spazio psichico e lo definisce in rapporto con l’esterno; si potrebbe

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paragonare alla maschera che l’attore indossa sulla scena, grazie alla quale interpretare il

personaggio nella maniera più fedele possibile. Considerando la vita come un teatro sociale,

l’attore deve trovare un punto di equilibrio tra l’adattarsi alle norme del vivere civile e il rispetto per

le caratteristiche soggettive della personalità che si delinea nel processo di individuazione,

processo in cui l’individuo matura comportamenti di carattere soggettivo nell’ambito di una piena

integrazione sociale. La Persona svolge un importante compito nello sviluppo dell’identità

personale e costituisce una componente indispensabile della personalità nel sostenere le difficoltà

del soggetto nel rapporto con il mondo esterno. Quando la Persona invade in modo rigido e

pervasivo il processo di individuazione allora la propria individualità viene sacrificata e scatta

l’identificazione con l’immagine sociale di sé. In tema di mobbing è interessante notare come

identificarsi totalmente con l’immagine sociale significa aderire in modo eccessivo e acritico ai vari

ruoli che si rivestono nella vita tra cui a quello lavorativo. Ecco che chi ha volontariamente o per

compensazione investito molto sul lavoro come mezzo per vedere soddisfatto il bisogno umano di

realizzazione personale, si identifica in modo aprioristico con il ruolo lavorativo o anche solo con

determinati comportamenti esteriori, sebbene contrastanti con la sua vera natura; egli tenderà a

relazionarsi con l’ambiente in modo formale secondo modalità rigide e poco adattive, che possono

arrivare ad interpretare in maniera distorta le regole e la cultura dell’organizzazione. Ne risulterà un

modo di agire orientato al conformismo e poco spontaneo che spesso nasconde una difficoltà a

vivere le dinamiche affettivo-relazionali, in particolare l’espressione della rabbia.

Anche l’analisi del concetto di Persona, che segna il confine tra psiche individuale e psiche

collettiva ci porta a concludere che sia opportuno ricercare l’origine del mobbing nel tessuto sociale

e non tanto nel singolo soggetto. Gli individui che nel processo di individuazione, attraverso la

differenziazione dalle istanze collettive, sviluppano la loro identità, agiscono individualmente, in

base al carattere, alle predisposizioni e agli interessi, ma con comportamenti integrati socialmente,

in accordo con una dimensione etica condivisa. Se il gruppo sociale ostacola la libera espressione

delle individualità, siamo di fronte a un’istituzione poco sana che nel tempo rivela elementi di

fragilità e testimonia una conseguente vulnerabilità ad aspetti destabilizzanti in cui possono

crescere forme alterate di conflittualità.

Ultimo concetto che merita di essere approfondito quale utile contributo alla comprensione del

mobbing è quello di Capro Espiatorio.

In primo luogo il capro espiatorio svolge la funzione di salvaguardare la struttura del gruppo

quando questa è minacciata da forti tensioni interne.

L’evento scatenante è la presenza di un fattore stressante che mette in crisi la struttura sociale e

quindi il sistema di differenziazione dei ruoli e che implica un appiattimento delle individualità e lo

sviluppo di situazioni confusive in cui prevale la dimensione indifferenziata della folla. Sul soggetto

che viene identificato come il capro espiatorio sono riversate le accuse di commettere azioni che

mettono in pericolo i fondamenti dell’organizzazione sociale e quindi l’esistenza stessa dell’attività

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lavorativa. Si tratta di soggetti con caratteristiche che lo distinguono dagli altri e costituiscono un

fattore di anormalità rispetto all’ambiente su cui viene convogliata l’aggressività collettiva. Ciò che

spaventa il gruppo e che suscita tali reazioni è una diversità non familiare al sistema che non è

integrata ed è percepita dal gruppo come estranea. Esempi della diversità vissuta come pericolosa

sono: minoranze etniche e religiose, condizioni di malattia fisica e/o mentale ma anche elementi di

normalità quali una donna che torna dalla maternità un individuo particolarmente capace o

estremamente coscienzioso.

Letto come archetipo il capro espiatorio rappresenta quindi il male su cui è riversata la colpa, che

deve essere emarginato dalla comunità affinché gli altri possano sentirsi senza colpa. L’analisi

della dinamica relazionale del capro espiatorio mette in evidenza le caratteristiche di personalità

dei soggetti che vi prendono parte: un persecutore che nega la parte oscura personale e quella

collettiva e una vittima che tende a identificarsi con tale parte.

L’attivarsi del fenomeno del capro espiatorio evidenzia la fragilità insita nell’uomo, incapace di

confrontarsi con i contenuti rifiutati e proiettati sulla vittima e di rielaborare i vissuti di sofferenza

alla ricerca di nuovi significati.

Il quadro normativo

La giurisprudenza italiana sul mobbing evidenzia la mancanza di un normativa specifica in materia

pertanto in attesa di una legge nazionale vengono utilizzate le norme (costituzionali, civilistiche,

penalistiche e specialistiche) che esistono già nel nostro ordinamento e che, grazie ad una

paziente opera di interpretazione, costituiscono un buon argine a protezione delle vittime di

violenze psicologiche in ambito lavorativo, assicurando così la tutela del lavoratore ed il

risarcimento dei danni subiti.

A livello europeo numerosi sono gli strumenti giuridici predisposti dai diversi organi comunitari. Nel

2001 viene emanata la Risoluzione del Parlamento Europeo relativa al mobbing sul posto di

lavoro, un documento che riporta l’attenzione su tre punti: la gravità del fenomeno per la salute

psicofisica, il pericolo di aumento del mobbing causato dalla precarietà del lavoro, maggiormente

accusata dalle donne, l’esortazione agli stati membri di dotarsi di una legge in materia e di invitare

le imprese e le organizzazioni sindacali ad attuare politiche di prevenzione efficace e di buone

prassi per risolvere il problema per le vittime. E’ dell'8 ottobre 2004 l’accordo europeo quadro

contro lo stress su lavoro (all.13 e 14) che rileva che lo stress da lavoro può derivare sia da fattori

di stress "oggettivi" (l’organizzazione del lavoro, le condizioni e l’ambiente lavorativo, la

comunicazione) sia da fattori "soggettivi" (le pressioni psicologiche e sociali, la sensazione di

incapacità ad affrontarle, l’impressione di non essere sostenuti).

Il documento normativo più recente in materia è l’Accordo quadro europeo sulle molestie e la

violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007. Esso l’ha l'obiettivo di sensibilizzare maggiormente i

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datori di lavoro, i lavoratori e i loro rappresentanti sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro;

fornire loro un quadro di azioni concrete per individuare, prevenire e gestire le situazioni di

molestie e di violenza sul luogo di lavoro.

I soli paesi europei che hanno adottato una legge sul mobbing sono la Svezia, la Francia, il

Belgio, mentre negli altri paesi come Gran Bretagna, Spagna sono state presentate proposte di

legge; la Germania e la Svizzera hanno una serie di strumenti normativi ben collaudati, prima tra

tutti una corposa legge circa la sicurezza su lavoro, che svolgono un’azione preventiva oltre che di

tutela del lavoratore da rischi di mobbing.

In Italia sebbene nell’arco degli anni siano state presentate proposte di legge sul mobbing (da

ricordare quella presentata dalla Commissione di analisi e studio sulle politiche di gestione delle

risorse umane e sulle cause e le conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei

lavoratori istituita nel 2002 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri), non si è ancora giunti a

promulgare una legge.

Per dare un corretto inquadramento sistematico del mobbing all’interno del nostro sistema

legislativo, e` indispensabile partire dall’esame delle norme che tutelano l’integrita` psico-fisica del

lavoratore, la cui violazione può costituire fonte di danni risarcibili, ivi compresi i danni da mobbing.

I principali riferimenti in materia sono l’art. 32 della Costituzione sulla tutela della salute come

fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, il codice civile negli articoli 2087,

2043 e 2013, lo Statuto dei Lavoratori in quanto insieme di norme poste a tutela dei diritti dei

lavoratori tutta la normativa sulla sicurezza che fa capo al Testo Unico 81/2008, i decreti di

recepimento della disciplina comunitaria, sull’equiparazione della molestia alla discriminazione

(razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età, sesso, tendenze sessuali;

nella disciplina nazionale, oltre ai predetti motivi, si aggiunge lingua, credo politico, credo religioso,

appartenenza sindacale, partecipazione ad attività sindacali, sieropositività).

Particolare rilievo assume la circolare n. 71 del 17 dicembre 2003 adottata dall'Inail che ha

emanato le istruzioni operative per la trattazione delle denunce di disturbi psichici determinati dalle

condizioni organizzativo/ambientali. A parere dell'Inail rientrano nel rischio tutelato sia le situazioni

di "costrittività organizzativa" (svuotamento di mansioni, mancata assegnazione degli strumenti di

lavoro, ecc) sia il "mobbing strategico", purchè ricollegabile a finalità lavorative; restano invece

escluse dalla tutela i fattori organizzativo/gestionali legati al normale svolgimento del rapporto di

lavoro (trasferimento, licenziamento, ecc). La circolare in particolare segnala come i disturbi

psichici siano considerati di origine professionale solo se causati o concausati in modo prevalente

da specifiche condizioni dell’attività e dell’organizzazione del lavoro. Infine nella circolare l’Inail

delinea l'iter diagnostico da seguire per la trattazione medico legale dei casi denunciati.

L’ art. 2087 del codice civile si pone come clausola generale di responsabilità del datore di lavoro

verso i suoi dipendenti e dichiara che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio

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dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono

necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.” L’articolo che

è da intendersi da un lato come fonte di responsabilità contrattuale e dall’altro come volto a

realizzare la tutela di un interesse di carattere generale, impone al datore di lavoro un

comportamento attivo per impedire il realizzarsi di comportamenti vessatori o di maggior gravità.

L’art 2043 del codice civile prevede che qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un

danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. L’art 2013 del codice

civile specifica che il lavoratore deve eseguire le mansioni definite da contratto e nel caso di

assegnazione a mansioni di livello superiore il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente

all’attività svolta; tale articolo, insieme allo Statuto dei Lavoratori, viene chiamato in causa a

proposito dei casi di mobbing in cui al lavoratore è stato imposto un demansionamento.

Il Testo Unico 81/2008 prende in carico tutta la materia della sicurezza sul posto di lavoro

sottolineando la responsabilità esplicita del datore di lavoro nel valutare e prevenire i rischi per la

sicurezza e per la salute psico-fisica del lavoratore; mette l’accento sul costrutto di stress lavoro

correlato evidenziando l’importanza di analizzare i rischi psico-sociali (aspetti relativi alla

progettazione, organizzazione e gestione del lavoro nonché ai rispettivi contesti ambientali e

sociali che dispongono del potenziale per dare vita a danni fisici, sociali, psicologici) per stabilire

l’influenza che questi hanno sullo stato di salute del lavoratore.

Un ulteriore strumento normativo per la valutazione del mobbing è il d.m. 27 aprile 2004, (all.10)

recante l’elenco delle malattie per cui è obbligatoria la denuncia, ex art. 139 d.P.R. n. 1124 del

1965, nella parte in cui inserisce nella lista il «gruppo 7», relativo alle malattie psichiche e

psicosomatiche da disfunzioni dell'organizzazione del lavoro (c.d. costrittività organizzative): si

tratta del disturbo dell'adattamento cronico (con ansia, depressione, reazione mista, alterazione

della condotta e/o della emotività, disturbi somatiformi) e del disturbo post-traumatico cronico da

stress.

Infine al fenomeno del mobbing hanno rivolto attenzione anche le parti sociali, che vi hanno

dedicato appositi spazi nella contrattazione collettiva nazionale. Nel settore pubblico il mobbing è

contrattualmente riconosciuto e la contrattazione prevede l’istituzione dei Comitati paritetici presso

ciascuna amministrazione; questi hanno il compito di raccogliere dati quantitativi e qualitativi sul

fenomeno del mobbing, individuare le possibili cause del fenomeno, con particolare riferimento alla

verifica delle condizioni di lavoro (fattori organizzativi o gestionali che possono determinare

l’insorgere di situazioni persecutorie), formulare proposte di azioni positive per il superamento delle

situazioni critiche, presentare norme di comportamento da inserire nei codici di condotta.

É prevista poi per la prima volta l’espressa inclusione del mobbing tra i comportamenti che

possono avere un rilievo disciplinare.

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La Comunità Scientifica Italiana ha prodotto nel 2001 un Documento di Consenso sul tema

mobbing intitolato Un nuovo rischio all’attenzione della Medicina del Lavoro: le molestie morali

(mobbing), pubblicato sulla rivista La Medicina del Lavoro (Gilioli et al, 2001).

In esso viene ribadito che i parametri distintivi del mobbing sono la durata e la frequenza delle

azioni persecutorie, e non meno importante l’intenzionalità lesiva. Il Documento riconosce che è

difficile stabilire con precisione il periodo in cui si svolge il mobbing e che sembra più opportuno

parlare di "soglia individuale di resistenza alla violenza psicologica", che si esprime come funzione

di: (intensità della violenza) - (tempo di esposizione) - (tratti della personalità). Altri studiosi

ritengono che il fattore intenzionalità sia un elemento essenziale nel definire il mobbing. Per quanto

riguarda il vissuto della vittima si registra in alcuni casi che l’attribuzione di intenzionalità sarebbe

addirittura più importante nel comprendere le reazioni emotive della vittima delle stesse

caratteristiche oggettive dell’azione abusante. Invece sul versante del mobber l’esistenza di un

disegno persecutorio intenzionalmente mirante sin dall’inizio a danneggiare il lavoratore non

costituisce la norma tanto che la verifica di tale intento persecutorio ai danni della vittima rimane

nella gran parte dei casi impossibile.

I principali modelli di analisi

Il mobbing in quanto processo è stato studiato con modelli a fasi che scandiscono la natura

processuale del fenomeno: dai primi segnali si passa al mobbing vero e proprio che spesso si

manifesta solo dopo una lunga incubazione.

I due principali modelli presi a riferimento per studiare il fenomeno del mobbing analizzano

entrambi tutti gli stadi che attraversa il mobbing dai primi segnali sino a giungere all’epilogo finale,

per lo più consistente nell’allontanamento dal posto di lavoro.

Il primo modello elaborato negli anni ’80 da Leymann è stato chiamato modello a 4 fasi e percorre

gli stadi significativi in cui si trova l’individuo mentre subisce le strategie di persecuzione del

mobber.

La I Fase detta dei segnali premonitori si basa sul presupposto che il conflitto nasce normalmente

in tutti i posti di lavoro a causa di scontri di caratteri, di opinioni ed abitudini diverse, a causa di

invidia o competizione. Tale conflitto è latente poiché non viene ancora esplicitato da nessuna

azione o frase. Esso diviene mobbing solo se non viene risolto e se comunque diviene continuativo

per almeno sei mesi.

La II Fase o fase conclamata prevede l’inizio del mobbing vero e proprio e del terrore psicologico.

Il conflitto quotidiano matura e diviene continuativo, vengono definiti e cristallizzati i ruoli di mobber

e di vittima, il/la mobber agisce in modo sistematico ed intenzionale con strategie persecutorie ed il

soggetto mobbizzato subisce la stigmatizzazione collettiva.

Nella III Fase il caso è ufficializzato e si verifica nel momento in cui il mobbing trascende i limiti

dell’ufficio in cui è nato e diventa di dominio pubblico. La vittima comincia ad accusare problemi di

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salute e si assenta ripetutamente dal lavoro per malesseri o visite mediche. Inoltre, manifesta un

calo di rendimento così da dare il via ad indagini da parte dell’Amministrazione del Personale.

Quest’ultima può arrivare a considerare l’elemento dannoso e dispendioso per l’azienda e decidere

di eliminarlo anche attraverso azioni non propriamente legali, con l’obiettivo di portarlo alle

dimissioni spontanee.

La IV Fase, considerata la fase terminale prevede l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro, o

per licenziamento o per dimissioni. I casi più gravi hanno come esito il suicidio della vittima, dovuto

ad un crollo interiore e morale della persona o l’invalidità permanente causata da mancanza di

concentrazione o da sabotaggi messi in atto dal mobber; a volte capitano anche aggressioni verso

il persecutore. Il mobbing, in questa fase, ha raggiunto il suo scopo, cioè eliminare la vittima.

Con tale modello Leymann allarga la prospettiva di studio del mobbing concentrandosi

sull’influenza degli elementi organizzativi e pur considerando importante il ruolo della vittima

dichiara di non mettere al centro del problema i tratti di personalità della vittima medesima. Egli

introduce inoltre due parametri che costituiscono due criteri indispensabili per la diagnosi di

mobbing, la durata e la frequenza; sottolinea infatti che le azioni e comunicazioni che

caratterizzano il mobbing non sono diverse qualitativamente da quelle di un normale conflitto di

lavoro ma che è il loro ripetersi frequente (su base quotidiana o settimanale) e il perdurare delle

ostilità per un periodo piuttosto lungo (svariati mesi) che può essere causa di traumi psicosociali

per la vittima. Infine focalizza l’attenzione sul tipo di azioni che compongono il processo di

mobbing. Non si è mai di fronte ad azioni che palesemente violano i diritti individuali ma bensì a

una reiterazione costante e mantenuta nel tempo di quell’insieme di comportamenti che si

osservano spesso nel mondo del lavoro: prese in giro insistenti, maldicenze pesanti, esclusione da

inviti in mensa o a prendere il caffè, azioni di disturbo persistenti (fumare anche se da fastidio,

tenere la radio accesa…).

Il modello a quattro fasi di Leymann è stato ripreso ed ampliato da Harald Ege, che ha elaborato

un modello a sei fasi tra loro logicamente concatenate dove la precedente dà origine alla

successiva.

Il modello è preceduto da una pre-fase detta a condizione zero non presente nel modello di

Leymann. In essa Ege affronta il tema del conflitto fisiologico, normale e accettato, presente nelle

realtà italiana in quanto insito nella cultura del popolo italiano portato a reagire con maggior

emotività e ad utilizzare una gestualità intensa e un tono di voce elevato. Ad esempio In Italia è

molto diffusa un’espressività verbale violenta, ed è frequente e “accettato” che un superiore parli

ad un subalterno con una certa arroganza, alzando anche il tono di voce per sottolineare la propria

superiorità; nei paesi scandinavi, invece, lo stesso atteggiamento verrebbe considerato molestia e

come tale denunciato perché, anche se capo, questi non ha alcun diritto di mostrare un

comportamento del genere ed, anzi, deve rivolgersi al lavoratore con rispetto e cortesia. Questa

conflittualità fisiologica non costituisce mobbing, ma è un terreno fertile al suo sviluppo. Consiste in

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un conflitto generalizzato che vede tutti contro tutti, senza la designazione di una vittima scelta e si

esprime con banali diverbi d’opinione piccole ripicche e discussioni. Nessuno ha la volontà di

distruggere qualcun altro ma solo di elevarsi sugli altri.

Nella I fase, detta del conflitto mirato, si individua una vittima e si dirige verso di lei la conflittualità

generale. L’obiettivo non è più quello di emergere ma di distruggere gli avversari e di non limitare il

conflitto all’ambito lavorativo ma di toccare anche argomenti privati.

La II fase è quella dell’inizio effettivo del mobbing in cui la vittima sperimenta un certo disagio e

fastidio a causa dei continui attacchi da parte dei mobber; anche se non sviluppa ancora problemi

di salute psicofisici, percepisce un mutamento nei rapporti con i colleghi e se ne domanda il

significato.

Durante la III fase corrispondente all’emergere dei primi sintomi psicosomatici il mobbing non è

ancora reso pubblico e la vittima manifesta i primi problemi di salute ovvero senso di insicurezza,

insonnia, e difficoltà digestive

La IV fase vede il mobbing diventare pubblico poiché l’Amministrazione del Personale a causa

delle sempre più frequenti assenze della vittima, fa valutazioni errate e prende provvedimenti

inadatti come esito della scarsa o errata conoscenza del fenomeno.

Nella V fase di verifica un serio aggravamento della salute del mobbizzato che accusa disturbi

dell’umore e ansia tanto da dover ricorrere all’uso di cure mirate (psicofarmaci, terapie) che però,

pur migliorando lo stato di disagio presente, spesso non riescono a superare il problema, in quanto

la situazione critica sul lavoro permane; l’aggravarsi della situazione dipende in particolare modo

dai provvedimenti presi dall’azienda che spingono la vittima inizia a percepirsi come la causa di

tutto e a sentirsi inerme di fronte alle ingiustizie del mondo.

La VI fase ovvero quella che stabilisce l’esclusione dal mondo del lavoro avviene sempre in modo

doloroso: le soluzioni prevalenti sono le dimissioni volontarie, il licenziamento o il pre-

pensionamento ma purtroppo vi sono anche risoluzioni più drammatiche che colpiscono la salute

psichica della vittima fino ad implicare l’evolversi verso conseguenze estreme.

Ege rispetto a Leymann pone maggiormente l’attenzione al contesto sociale (sia quello riferito

all’ambito di lavoro, sia ai rapporti famigliari e amicali che riguardano in particolare la vittima, sia

quello culturale). Riguardo al contesto lavorativo Ege sottolinea il ruolo dei side mobber (spettatori)

ovvero di coloro che pur non essendo direttamente responsabili di mobbing, generalmente non

intervengono di fronte alle vessazioni o alle violenze psicologiche a cui assistono o di cui vengono

a conoscenza. Si tratta di un pubblico, principalmente i colleghi di lavoro, ma in genere tutti coloro

che non vogliono essere coinvolti nella situazione e preferiscono la strategia del lavarsene le mani;

spesso hanno paura di diventare vittima del mobber e così non reagiscono ma a volte decidono

addirittura di aiutare il mobber nelle sue azioni perverse in modo da assicurarsi palesemente la sua

protezione. Il discorso diventa ancora più critico quando i membri della famiglia capiscono ciò che

sta succedendo al familiare mobbizzato. Inizialmente la famiglia, in ragione del forte legame che

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nella cultura italiana esiste tra i singoli componenti, rappresenta un rifugio in cui trovare

comprensione e sostegno. Il rischio, evidenzia Ege è che la famiglia non regga nel tempo il forte

carico emotivo per cui se da principio si prende cura della rabbia e della tristezza del familiare

mobbizzato, in seguito non riesce più ad elaborarla al punto da viverla come minaccia per

l’integrità e la sopravvivenza del nucleo stesso; questo prima si protegge e poi si coalizza contro il

mobbizzato che può incorrere in un maggior senso di disperazione fino a minacciare o a compiere

il suicidio. Trattando infine l’ambito culturale, Ege deduce che un ruolo significativo nella comparsa

o meno di situazioni di mobbing e nella sua conclusione è svolto dai valori della cultura dominante,

in particolare quelli sul tema del lavoro. Egli evidenzia il grado di importanza dato al lavoro nella

vita quotidiana, la competitività negli ambienti lavorativi e la conflittualità da questa suscitata, la

presenza di servizi sociali e ammortizzatori a sostegno del mobbizzato in attesa di una

ricollocazione professionale

Il processo di mobbing

Il processo di mobbing si snoda a partire da un insieme di cause che scatenano la violenza

psicologica del mobber, concretizzata in azioni specifiche contro la vittima, con conseguenze

devastanti per quest’ultima. Espresso in tale modo sembra un processo lineare e semplice da

decodificare ma in realtà si parla di multicausalità e di coinvolgimento di tutto il contesto relazionale

– organizzativo.

Le cause del mobbingSono molteplici e riguardano sia la dimensione dell’organizzazione sia quella umana, analizzate in

modo congiunto: rifacendoci al tema della complessità non esiste infatti un ambiente tipo o una

caratteristica di personalità che da sola basti per scatenare il mobbing, perché è dalla relazione tra

le molteplici variabili in gioco che esso si sviluppa.

Leymann individua due dimensioni, quella organizzativa a cui fanno capo i fattori esterni e la

dimensione umana a cui fanno capo i fattori interni.

I fattori esterni implicati nella nascita del mobbing sono l’organizzazione del lavoro, le mansioni

lavorative e la direzione aziendale. Per quanto riguarda il primo fattore una carente organizzazione

e distribuzione del lavoro (elevato o basso carico di lavoro, alta o bassa tensione al risultato,

conflittualità e ambiguità di ruolo, mancanza di programmazione delle attività…) è causa di

disequilibri e incertezza, elementi questi che rendono più tesi i rapporti e più problematica la

gestione del lavoro; inoltre se le mansioni lavorative sono ripetitive, monotone e sottoqualificate è

più probabile che il lavoratore, insoddisfatto e demotivato, dedichi le sue energie ai pettegolezzi e

alle dicerie piuttosto che ad impegnarsi nel lavoro; infine una direzione aziendale carente, che non

tiene conto delle esigenze dei lavoratori (stile di leadership lassez faire o all’opposto autocratica,

scarsa apertura verso l’ambiente esterno, uso dell’azienda come mezzo per esercitare il potere

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personale, scarso uso del gruppo come strumento di lavoro che stimola il confronto e la

collaborazione…) è più facile che generi malcontento e comportamenti polemici all’interno

dell’organizzazione.

I fattori interni sono rappresentati dalla dinamica sociale del gruppo di lavoro, dalla personalità

della vittima, dall’etichetta attribuita a costei, intesa come persona caratterialmente predisposta a

giocare tale ruolo. Il fattore riferito al gruppo riguarda le relazioni intercorrenti tra i membri del

gruppo di lavoro e le dinamiche che tra codesti si sviluppano (cooperazione, conflittualità,

suddivisione in sottogruppi con pressioni da parte del gruppo maggioritario, critiche e maldicenze

tra i singoli e tra sottogruppi…); le dinamiche di gruppo sono inoltre ampiamente influenzate dal

carico di lavoro che grava sul gruppo stesso (lavorare ‘sotto-pressione’ porta gli individui a ritrovare

l’equilibrio scaricando le tensioni all’esterno). In merito al fattore personalità Leymann sostiene che

il mobbing è indipendente dal carattere delle persone e che invece dipende sempre dalle

circostanze e dall’ambiente, dimostrando così di non dare alcun credito alle teorie che vogliono

identificare dei gruppi maggiormente a rischio. A prescindere dallo studioso svedese, altri autori

hanno approfondito il rapporto tra mobbing e vittima: alcuni hanno indagato le caratteristiche di

personalità che potrebbero giocare un ruolo importante nella genesi del fenomeno, altri hanno

ricercato una corrispondenza che ponga in relazione il comportamento della vittima e il

comportamento del mobber, come se l’uno arrivasse a ricoprire uno dei due ruoli, in virtù

dell’interazione con l’altro; al momento però, come ben evidenzia Ege, i risultati sono ancora

troppo pochi e discordi per affermare che vi sia un gruppo di lavoratori maggiormente a rischio di

mobbing. Infine un’ulteriore causa è rappresentata proprio da un uso sbagliato della psicologia da

parte della gente comune che può cadere nell’errore di assegnare la vittima un’immagine

stereotipata di persona con “problemi psicologici” contribuendo a indurre i colleghi e superiori ad

isolarla perché considerata problematica , complessa e comunque diversa.

Anche Ege in seguito approfondisce quelli che secondo lui sono le variabili che causano il

mobbing e cioè l’aggressore, la vittima e l’organizzazione. Ciascuno di questi è analizzato in

relazione agli altri due e l’esito è quello che Ege ha definito il «sistema a cubo delle cause». In

sintesi ognuno dei tre elementi può porsi in due modi, o favorire/provocare il mobbing o

combatterlo e in base al modo in cui essi si combinano ne possono derivare delle specifiche figure.

Il comportamento (o reazione) del/della mobber potrebbe essere causato dal suo carattere cinico o

sadico che lo porta a perseguitare incessantemente la vittima, oppure dallo stesso comportamento

della vittima molto stressata che tende a riversare stati di ansia, panico e nervosismo sui colleghi,

cosa che provoca delle strategie mobbizzanti con l’intento di porre fine a tale situazione; il

comportamento (o reazione) della vittima potrebbe derivare da una sua tipica reazione verso il/la

mobber che a sua volta potrebbe incrementare nel/nella mobber le sue azioni distruttive, trovando

una giustificazione nel comportamento anomalo della vittima; l’ambiente di lavoro (organizzazione,

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altri colleghi) può essere anch’esso un contesto cruciale per lo sviluppo del mobbing, basti pensare

a due diverse tipologie di ambiente organizzativo, uno che favorisce le azioni di mobbing e l’altro in

cui vengono invece difese le vittime.

Tra le cause ambientali è importante prendere in considerazione quei momenti particolari nella vita

di un’organizzazione in cui si crea uno stato di vulnerabilità che mette a dura prova le capacità

relazionali. Ci riferiamo alle situazioni di cambiamento (organizzativo generale o della condizione

lavorativa del singolo dipendente) momenti ove vengono a mancare gli schemi di riferimento, siano

essi culturali e/o organizzativi, in cui si percepiscono dei vuoti di significato che lasciano spazio

all’espressione immediata e irrazionale dei bisogni, con conseguente disorientamento,

allentamento dei legami e conflittualità non contenuta.

Sempre a livello di contesto il venire meno dell’etica nel lavoro si riflette nella diffusione del

mobbing. Imperano le logiche competitive proprie di organizzazioni che mettono al centro il profitto

e la produttività, considerando il lavoratore solo come una risorsa da controllare, affinché si

conformi con il modello aziendale; il clima che si respira è improntato alla competizione e

all’efficienza ad ogni costo, e si riduce la capacità di rapporti cooperativi e di reciprocità. Anche

l’esistenza di difetti nella conduzione aziendale (incapacità di gestione del conflitto, difetti

organizzativi, produttivi, nella gestione del personale) uniti ad una cultura che promuove la

mancanza di tolleranza verso persone diverse, sistematicamente discriminate, sono situazioni che

indeboliscono l’azienda.

Infine un’ultima problematica è costituita dalla rottura o violazione del contratto psicologico. Esso,

definito da Rousseau come “insieme delle credenze dell’individuo circa gli obblighi reciproci

esistenti tra l’individuo stesso e la sua organizzazione che origina quando la persona inferisce

promesse che generano tali credenze”, contiene in sé aspetti transattivi (obblighi oggettivi e a

breve termine con coinvolgimento reciproco limitato) e aspetti relazionali (coinvolgimento

socioemotivo più intenso relativo a fiducia e trasparenza). Si parla di rottura del contratto quando è

coinvolto il piano cognitivo ovvero la persona prende coscienza che è stata commessa qualche

mancanza nel mantenimento delle promesse da parte dell’organizzazione, mentre con violazione

del contratto si intende che tale consapevolezza si riversa sul piano emotivo toccando aspetti

relazionali profondi ed evidenziando così il rischio di mobbing.

Il mobbing conclamato: dal conflitto al mobbing

Il conflitto fisiologico che caratterizza la condizione zero del modello di Ege, tipica delle

organizzazioni italiane, potrebbe non giungere mai al mobbing conclamato. Per riconoscere una

dinamica mobbizzante si devono verificare le seguenti condizioni:

• la violenza morale lamentata deve aver come contesto l’ambito occupazionale della vittima,

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• risulta fondamentale che le riferite azioni ostili si verifichino con sistematicità, quantificabile in

“una o più volte alla settimana”;

• la violenza morale deve essere attuata per un periodo temporale considerevole,

convenzionalmente, definito pari ad almeno sei mesi, ovvero in casi in cui la sistematicità ed

l’intensità delle azioni sia particolarmente forte anche inferiore (c.d. quick mobbing);

• è necessario che tra i protagonisti del conflitto esista un dislivello di potere formale e/o

informale;

• tra le diverse azioni vessatorie lamentate è obbligo potervi scorgere un intento persecutorio

che le colleghi;

• le azioni vessatorie subite tipicamente sono polimorfe, andando a colpire vari aspetti della

persona;

• un meccanismo mobbizzante tende a procedere seguendo momenti evolutivi specifici fino ad

un’escalation del fenomeno

Le azioni mobbizzanti

Riconoscere le azioni mobbizzanti è di estrema importanza ma, allo stesso tempo, risulta molto

difficile poiché bisognerebbe avere informazioni dettagliate dell’ambiente lavorativo, del livello

culturale e professionale di chi compie tali azioni e di chi le subisce, dello scopo per cui sono state

messe in atto, ecc

Può risultare difficile ordinarle in categorie generali perché la tipologia di azioni è veramente ampia

ed è arduo prevederle tutte. Nella letteratura vi sono numerosi esempi di classificazioni: Ege,

Leymann, ISPESL per citare i principali. Nel complesso si tratta di azioni di violenza psicologica,

agite verso la vittima, che colpiscono la dignità personale, morale e professionale e che si

manifestano prevalentemente come attacchi rivolti alla persona o come minacce alla carriera

lavorativa. Si tratta di comportamenti messi in atto dal mobber e, in molti casi, sostenuti dai side

mobber, tutti assai gravi che conducono la vittima verso l’inevitabile chiusura del rapporto di lavoro,

pena la compromissione sempre crescente della sua salute.

Tra gli attacchi rivolti alla persona troviamo quelli che pongono la vittima in una situazione di

isolamento ed emarginazione sociale ovvero tendono a non riconoscere e addirittura a negare la

presenza del soggetto nel gruppo, del suo essere e della valenza relazionale della sua persona

(esclusione dalla vita sociale dell’azienda, totale mancanza di considerazione, tenere all’oscuro di

informazioni importanti relative all’andamento dell’azienda). Vi sono poi attacchi all’immagine

sociale che intendono svalutare il soggetto agli occhi di colleghi e superiori (critiche sul piano

professionale e personale, maldicenze, pettegolezzi, presa di mira di difetti fisici, di parola, di

abbigliamento, assegnazione di ordini sbagliati per mettere in discussione le capacità e l’affidabilità

come lavoratore); in particolare si parla di inibizione della possibilità di espressione (impedimenti a

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comunicare con gli altri e a esprimere le proprie idee e opinioni su argomenti di lavoro e su

questioni di carattere generale), di intimidazioni e aggressioni fisiche (essere esposti a molestie

sessuali e ad altri atti di violenza fisica, danneggiamento di oggetti personali), di aggressioni alla

salute ( attribuzione di compiti pericolosi per la salute del lavoratore, piccoli sabotaggi ai mobili

dell’ufficio).

Tra gli attacchi allo svolgimento dell’attività lavorativa vi sono il demansionamento per cui al

lavoratore sono affidati senza comunicazione o preavviso incarichi inferiori alle sue competenze, o

addirittura compiti senza significato mentre, altra situazione, è quella ove il soggetto riceve

incarichi di qualifica molto superiore rispetto alle sue competenze, impossibili da eseguire; ancora

il soggetto mobbizzato può essere sovraccaricato di lavoro con scadenze irragionevoli; si passa

poi alla privazione degli strumenti di lavoro necessari e a una riduzione graduale dei compiti e delle

responsabilità sino ad arrivare all’inattività forzata; altre armi utilizzate dal mobber sono quella del

rifiuto per cui si negano permessi, premi, promozioni e quella del trasferimento per cui la persona

può essere trasferita in una sede lontana e scomoda da raggiungere o è sottoposta ad un

cambiamento continuo delle mansioni o ancora può essere spostata e finire in un luogo

spiacevole, rumoroso e ostico per concentrarsi, freddo e con scarsa illuminazione. Infine vi è tutta

una serie di manovre di controllo: rimproveri frequenti e azioni disciplinari inopportune,

monitoraggio ossessivo dell’attività e visite fiscali quotidiane nei giorni di malattia.

Le conseguenze del mobbing

Un’organizzazione che sperimenta un episodio di mobbing resta traumatizzata per la violenza che

investe non solo tutti gli attori del processo di mobbing, la vittima in primis, ma che lascia strascichi

in tutto il contesto e quindi, se è possibile, anche su chi ne è rimasto coinvolto solo marginalmente.

Indubbiamente però chi accusa i maggiori problemi sul piano della salute psico-fisica è la vittima

che subisce uno stress cronico protratto nel tempo, con conseguenze talvolta persino peggiori di

quelle che si verificherebbero nel caso di singoli eventi stressanti anche intensi: infatti lo stress

prolungato può arrivare a compromettere i meccanismi di copying cosa che indebolisce anche il

sistema immunitario, rendendo la persona più vulnerabile alla malattia. Quindi il mobbing

danneggia fisicamente e psicologicamente la vittima, procurandole quelle che sono state definite

specifiche patologie da mobbing. I piani colpiti sono quello psicofisiologico, socio-emotivo e

comportamentale.

Sul piano psicofisiologico inizialmente i disturbi si manifestano come somatizzazioni dello stato di

stress che l’individuo sta vivendo con sintomi quali senso di stanchezza, mal di testa, difficoltà di

concentrazione, disturbi gastrointestinali, tachicardia, manifestazioni dermatologiche, disturbi del

sonno e della sfera sessuale fino ad arrivare a vari e propri scompensi del sistema

cardiocircolatorio, metabolico e neurologico.

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Sul piano socio-emotivo si verificano stati di ansia, umore depresso, attacchi di panico, isolamento,

ossessioni, manie di persecuzione, continuo stato di preallarme reazioni violente per aggressività o

eccesso di difesa, e nei casi più gravi ideazioni suicidarie o di omicidio.

Sul piano comportamentale spesso la vittima cade in dipendenze per tentare di compensare con

sostanze esterne la sensazione di malessere generale (uso di alcool, droghe, ipofagia, iperfagia) o

ha reazioni violente eteroaggressive o autoaggressive.

Il mobbizzato inoltre soffre di seri problemi di autostima e vive con un costante senso di colpa in

quanto pensa di essere la causa di quanto gli è successo, vede sconvolto l’equilibrio familiare a

seguito della difficoltà di gestire l’enorme disagio che sta vivendo e incontra difficoltà anche sul

piano delle relazioni extra-familiari.

In ultimo, ma non per importanza, la vittima è soggetta a seri problemi economici dovuti oltre che

alla perdita del reddito da lavoro anche ai costi sostenuti per pagare le cure mediche.

I disturbi sopra elencati possono essere transitori, quindi risolversi, quando le condizioni di lavoro

migliorano o addirittura se la situazione cambia radicalmente e in modo positivo. Nelle situazioni in

cui, invece, il conflitto non ha una soluzione, o, come spesso avviene, peggiora, i disturbi possono

strutturarsi in vere e proprie sindromi che rappresentano una risposta disadattiva a stimoli esterni

ed avversativi. Sebbene, come già ricordato, il mobbing non sia una malattia ma piuttosto la causa

di un’eventuale malattia, la sintomatologia riportata dalla persona colpita da mobbing è

inquadrabile secondo le due categorie diagnostiche del DSM IV, Disturbo da Adattamento e

Disturbo Post Traumatico da Stress.

Il Disturbo da Adattamento consiste in una risposta psicopatologica ad uno o più fattori stressanti

identificabili che portano allo sviluppo di sintomi emotivi o comportamentali importanti. L’evento o

gli eventi stressanti possono essere ricorrenti o continui (crisi economiche, vivere in una zona ad

alto rischio di malavita ecc), interessare solo l’individuo (fine di una relazione affettiva, difficoltà sul

lavoro ecc) oppure tutta una famiglia o un nucleo (ad esempio una calamità naturale), possono

essere associati ad eventi di cambiamento (iniziare una scuola, sposarsi, diventare genitore,

andare in pensione, fallire un obiettivo ecc). i sintomi emotivi e comportamentali insorgono entro i 3

mesi dall’insorgenza del fattore stressante e devono prevedere una significativa compromissione

del funzionamento sociale, lavorativo, affettivo o scolastico oppure un disagio marcato e

decisamente superiore a quanto di norma prevedibile in relazione all’esposizione a tali fattori

stressanti; una volta superato il fattore stressante o le sue conseguenze i sintomi non persistono

per più di sei mesi.

Il Disturbo post-traumatico da Stress è caratterizzato dallo sviluppo di sintomi tipici e specifici che

fanno seguito ad un contatto brusco ed improvviso con un evento traumatico esterno di estrema

violenza, tale da implicare, per chi lo subisce, un’esperienza drammatica per sé o per una persona

cara. Per essere diagnosticato devono essere presenti alcuni criteri diagnostici: esistenza di un

fattore drammatico estremo (morte, minaccia di morte, minaccia di gravi lesioni o ritorsioni ecc.) e

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corrispondente risposta della persona comprensiva di paura intensa, orrore, sentimenti di

impotenza; rivivere persistentemente l’evento traumatico attraverso pensieri ricorrenti, sogni e

incubi, ottundimento della reattività generale; evitamento di tutto ciò che è inerente al trauma. Il

quadro sintomatologico deve essere presente per più di un mese e deve causare disagio

clinicamente significativo, menomazione o disagio profondo nel funzionamento sociale, lavorativo

e affettivo.

Considerato che ciò che distingue il DPTS e il DA è la presenza o meno di un fattore stressante

estremo, il mobbing, sebbene Leymann lo abbia paragonato come sintomi al DPTS, dovrebbe

rientrare nel DA poiché l’evento stressante in sé non è estremo alla stregua della morte o di

violenza fisica, o di minaccia di morte; se però partiamo dal presupposto che il mobbing si

caratterizza per il fatto che i fattori stressanti tendono a costellarsi progressivamente in un lungo

lasso di tempo, e che tanti singoli traumi finiscono per essere più dannosi di un solo grande

trauma, in ultimo il mobbing può essere valutato come evento stressante estremo. Inoltre è

interessante sottolineare che mentre nel DPTS il soggetto si trova a vivere con l’impressione

concreta di pericolo, nel caso del mobbing prevale la sensazione emozionale di pericolo legata al

sentir minacciato il proprio senso di identità e integrità psichica.

Ovviamente la gravità della sintomatologia e da correlare ad alcuni fattori: la valenza emozionale

che l’attività lavorativa e il ruolo occupato nel lavoro ricoprono nel vissuto della persona soggetta a

mobbing, la struttura di personalità dell’individuo, il temperamento e se ci sono o meno

antecedenti disfunzioni o fragilità significative. Il concetto che riassume il perché un evento di

mobbing ha un impatto differente su ciascun individuo sia esposto a tale evento, è la “vulnerabilità

psicologica” intesa come complesso delle caratteristiche personali ed extrapersonali (variabili

demografiche, l’ambiente familiare, i traumi infantili e gli eventi stressanti precedenti, il

funzionamento psichico pregresso) che predispone un soggetto al rischio di sviluppare un disturbo

psicologico. La vulnerabilità psicologica costituisce un fattore precedente al trauma che aumenta la

probabilità per un certo individuo di diventare o meno vittima di mobbing; questa correlata con le

variabili legate al trauma specifico (tipo di trauma, livello di esposizione, durata e tipo di rapporto

con l’aggressore) e con i fattori che entrano in gioco successivamente al verificarsi dell’evento

stressante (supporto sociale, capacità di copying, tipo di causalità che la persona tende ad

attribuire agli eventi) definiscono l’impatto che la situazione di mobbing ha sulla vittima.

Anche il/la mobber potrebbe incontrare problematiche psichiche, tra cui forti stati di stress dovuti a

un costante stato di allarme e di sovra-attivazione. Ma il costo più grave per il/la mobber deriva

dalle cause non previste delle sue azioni: ad esempio quando il mobbing da lui creato porta

l’azienda a compiere ridimensionamenti o licenziamenti su larga scala comprendendo il/la mobber

stesso.

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L’azienda

I principali effetti che ricadono sull’azienda in cui si è verificato un caso di mobbing riguardano il

piano economico e quello relazionale. In primo luogo si assiste a una generale diminuzione di

produttività dovuta innanzitutto a un calo del rendimento e di impegno sia del mobbizzato che

del/della mobber. La vittima non lavora più con gli stessi ritmi e la stessa efficienza a tal punto che

il livello di prestazione può scendere al 20% mentre l’azienda continua a sostenere

economicamente non solo la paga del mobbizzato ma anche quella del mobber. Un altro costo che

l’azienda deve sostenere è dato dalle numerose assenze della vittima e dalla ricerca di un sostituto

perché il lavoro deve comunque essere portato avanti. In ultimo se il mobbing arriva a indurre la

persona a lasciare il posto di lavoro l’azienda dovrà sobbarcarsi i costi della sostituzione del

lavoratore mobbizzato con l’inserimento di nuovo personale e relativa formazione, dell’eventuale

prepensionamento forzoso e risarcimento per cause civili dovute ai lavoratori mobbizzati.

Anche il mobber con il suo modo di agire provoca seri danni all’azienda: compiendo sabotaggi in

virtù del tentativo di rovinare la vittima, inducendo questa a commettere degli errori, dedicando una

parte del suo tempo lavorativo alla progettazione ed esecuzione delle azioni mobbizzanti.

Sul piano relazionale si percepisce un clima teso e un innalzamento della conflittualità lavorativa,

dovuta alla limitazione della fiducia e della collaborazione tra i dipendenti, oltre che alla

preoccupazione e angoscia per i problemi che quotidianamente devono essere affrontati. Si nota

inoltre un inasprirsi delle critiche verso il datore di lavoro e la dirigenza tutta, la continua ricerca di

capri espiatori e l’amplificazione di piccoli problemi. Infine in termini di rapporti con l’ambiente

esterno la triste esperienza che ha investito l’azienda si ripercuote sulla sua immagine sociale:

l’organizzazione acquisisce una reputazione negativa cosa che la danneggia nella relazione con gli

interlocutori esterni.

Lo stato

Anche lo stato subisce i danni da mobbing e per tutelarsi è chiamato a provvedere rapidamente

anche predisponendo gli strumenti normativi necessari.

Innanzitutto essendo il mobbing causa di malattie professionali si assiste ad un aumento delle

spese sanitarie ed assistenziali per coprire visite mediche, eventuali ricoveri e le lunghe assenze

dal lavoro a cui è costretto il soggetto mobbizzato; inoltre la crescita della domanda sociale impone

un aumento della spesa pubblica e di conseguenza del carico fiscale per tutti i cittadini e le

imprese. Nei casi di prepensionamento, i conti del sistema previdenziale di aggravano in quanto si

vede costretto al pagamento di una pensione in anticipo ad un individuo ancora nel pieno della

capacità lavorativa che non produce più per la società e non paga più contributi sullo stipendio

prima versati.

Ma il danno per la collettività non è solo economico. Il lavoro nobilita l’uomo e occupa una buona

parte della vita di una persona pertanto se un’esperienza traumatica lo interrompe bruscamente

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l’individuo si vede privato dell’identità professionale e quindi della sua immagine pubblica. Tutto ciò

finisce per limitarlo nelle relazioni sociali e per renderlo incapace di fare progetti per il futuro

personale e professionale. La mancanza di speranza che in genere caratterizza lo stato d’animo di

chi ha subito mobbing aumenta la difficoltà a ricollocarsi in altri contesti di lavoro e innalza di molto

il rischio di imboccare la strada della disoccupazione con la forte possibilità di restare emarginato.

Le tipologie di mobbing

Uno dei criteri in base a cui Ege ha classificato il mobbing è la tipologia di rapporto di ruolo

sussistente tra i protagonisti. Egli ha avuto il merito di riportare all’attenzione il mobbing pianificato

o strategico, detto altrimenti Bossing, una strategia aziendale finalizzata a ridurre gli organici e a

contenere i costi del personale, che vede la direzione adottare azioni persecutorie verso un

individuo per indurlo a lasciare l’azienda. Altro tipo di mobbing è il mobbing emozionale tra pari,

quando si sviluppa a seguito di un conflitto interpersonale, o verticale, tra capo e sottoposto,

quando il mobber è un superiore della vittima; a differenza del mobbing strategico dove vi è una

chiara intenzionalità, nel mobbing emozionale l’intenzione del mobber è più sfocata e complessa.

La crisi economica che sta attraversando l'Italia con il suo carico di “esuberi”, costosi da ri-

collocare e di “risorse umane” che sono diventate un peso, ha fatto crescere i numeri del mobbing

che d'improvviso si è configurato come un'emergenza sociale. In particolare la gran parte delle

aziende ha fatto si che in Italia il mobbing sia utilizzato sempre più spesso come una deliberata

politica di ristrutturazione del personale e di riduzione dei costi in risposta ai problemi suscitati dalla

globalizzazione e dalla crescente concorrenza dei mercati esteri. L’obiettivo dell’impresa è

l’estromissione dei lavoratori in esubero e l’allontanamento dal mondo del lavoro di soggetti non

più graditi: soggetti assegnati a reparti dismessi, appartenenti a gestioni precedenti o da

riqualificare professionalmente, dipendenti divenuti troppo costosi, o che non corrispondono più

alle attese dell’organizzazione. La logica del bossing prevede che il datore di lavoro compia una

serie di azioni intimidatorie nei confronti della vittima (es: aumento delle ore lavorative, isolamento

fisico e assegnazione di mansioni prive di significato, rifiuto delle ferie..) per intimorirla e indurla a

commettere errori fino ad arrivare a compiere un errore grave o un passo falso per trovare la

giusta motivazione per un licenziamento. L’azienda sceglie la strada del mobbing strategico per via

dell’incapacità o dell’impossibilità di sviluppare relazioni personali e/o istituzionali che, attraverso

un uso corretto dei meccanismi aziendali, siano adatte ad affrontare costruttivamente i problemi. Il

mobbing verticale o bullying rispetto al bossing in cui tutti i vertici aziendali sono concordi con la

strategia di espulsione del lavoratore, ha un significato più ristretto poiché indica i comportamenti

vessatori messi in atto da un singolo capo, in genere il diretto superiore, verso il collaboratore. per

svariate motivazioni: idee politiche diverse, timore di veder minacciata la sua immagine sociale,

per differenza di età, per antipatia personale, per invidia o raccomandazioni.

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La precarietà dei rapporti di lavoro, unito all’elevato tasso di disoccupazione e all’insoddisfazione

per la mancanza di trasparenza e di meritocrazia nei piani di carriera, accentuano di molto il livello

di competizione tra lavoratori; ciò comporta l’attivazione di alti livelli di aggressività con la

conseguenza di scatenare dinamiche relazionali inconsce che finiscono per destrutturare i rapporti

interpersonali. Da singoli episodi di conflitto si passa a un vero e proprio mobbing orizzontale che

integra fattori organizzativi con quelli di personalità: i modelli di relazione inconsci di cui uno è

portatore interagiscono con le rappresentazioni simboliche che il soggetto ha dell’organizzazione.

Il mobbing emozionale, per certo quello orizzontale, ma potremmo dire anche quello verticale

molto spesso è mosso da un sentimento di invidia nei confronti di qualcuno percepito come diverso

perché possiede qualcosa che gli altri non hanno, in tal senso il mobbing si pone come uno

stratagemma per sottrarre il mobber al confronto che lo umilia e ciò pone come conseguenza la

completa svalutazione dell’altro. Colui che è designato a diventare la vittima può essere agli occhi

dei colleghi e dei vertici aziendali una persona stimata per la sua professionalità e preparazione e

che, in virtù di tali doti, provoca l’invidia del mobber che si traduce in aggressività verso colui che

possiede le caratteristiche invidiate

Un ultimo tipo di mobbing, definito ascendente o dal basso, è quello che si verifica quando il

mobber è un sottoposto della vittima. Esso è messo in atto dai subordinati nei confronti del proprio

responsabile: si tratta di gruppi di dipendenti che tengono un comportamento lesivo della dignità e

della personalità del superiore contro sui si coalizzano, mettendone in discussione l’autorità. Il

Mobbing ascendente ha lo scopo di annientare la figura del Capo, incidendo sulla sua autostima e

amplificando sentimenti di inutilità fino alla sensazione di perdere il ruolo all’interno dell’azienda; si

traduce in azioni concrete quali compiere volutamente degli errori nel lavoro la cui responsabilità

ricade sul diretto superiore, bypassare il capo per rivolgersi direttamente ad un suo superiore,

isolarlo, facendolo sentire non accettato e non mettendo in atto i suoi ordini.

Un’ultima classificazione del mobbing distingue tra mobbing leggero e pesante nel primo caso gli

atti persecutori sono sottili e poco appariscenti (ma non per questo meno pericolosi), nel secondo

le azioni sono palesi e violente; in essa si delinea poi un mobbing non intenzionale, legato ad una

situazione stressante che interessa il lavoratore per un periodo circoscritto.

Gli attori del mobbing

Trattare degli attori del mobbing equivale ad occuparsi di una questione su cui, sebbene siano

state fatte ricerche che hanno tentato di approfondire il tema, non si è ancora arrivati a nessuna

conclusione generale, mantenendo pertanto valida la posizione che sostiene di non poter delineare

il profilo della vittima designata o di un particolare gruppo a rischio.

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Ciò detto è interessante concentrarsi sulle caratteristiche dei soggetti intorno cui si sviluppano le

situazioni di mobbing, interpretando il contesto organizzativo in quanto elemento che rinforza o

indebolisce le dinamiche interpersonali emerse tra mobber e mobbizzato.

Come quando si studia un fenomeno anche per il mobbing sono state proposte differenti

classificazioni (Ege, Casilli, Hirigoyen, Field..) che hanno delineato differenti profili in grado di

contraddistinguere sia la vittima che il mobber e anche coloro che prendono parte al processo ma

come spettatori più o meno passivi.

Gli addetti ai lavori hanno definito il soggetto mobbizzato in svariati modi esaltando di volta in volta

specifici aspetti legati ora alla situazione particolare che sperimentano, ora a tratti caratteriali più

stabili; è stato definito come il primo della classe, qualcuno che suscita invidia per le capacità che

possiede, una persona molto coscienziosa, sempre presente sul lavoro, perfezionista, al punto da

sentirsi fortemente responsabile per ogni cosa in cui si impegni; ancora il diverso o l’intruso che si

attira le antipatie dei colleghi. Analizzando il materiale documentale che ci consegna la letteratura

e quanto emerso da alcune ricerche e studi pilota, è possibile individuare alcuni elementi rilevati

nel lavoro con soggetti mobbizzati di cui tenere conto e rispetto cui vi è una discreta concordanza,

questo anche nell’ottica di studi sul mobbing più evoluti che consentano di focalizzarsi con

maggiore accuratezza sugli aspetti psichici su cui è significativo intervenire.

Una caratteristica riconosciuta è la tendenza a vivere la propria affettività in modo poco spontaneo,

caratteristica che porta ad una maggiore identificazione con gli aspetti più formali e convenzionali

delle relazioni: la vittima di mobbing ha maggiori problemi ad entrare in rapporto con le dinamiche

affettivo relazionali dell’ambiente e per difendersi da contesti con forte valenza emotiva si attiene

rigidamente alle regole e assume atteggiamenti formali, indice di repressione dell’affettività. Quindi

chi viene mobbizzato tende a relazionarsi con l’ambiente attraverso l’immagine esteriore di sé e ad

agire in accordo con quanto stabilito dal ruolo; può mancare di assertività nel gestire situazioni

conflittuali, in quanto trova difficile ricercare un equilibrio tra un modo di porsi passivo,

eccessivamente accomodante e conforme alla norma e un modo di fare aggressivo, orientato alla

lamentela e all’accusare gli altri. Il risultato è l’incapacità di dosare la propria reattività e la

tendenza ad affrontare con la razionalizzazione gli stati di frustrazione che si trova a vivere.

Un altro aspetto prevalente nella vittima di mobbing è il senso di insicurezza e di scarsa autostima

che lo caratterizza nella relazione con gli altri e con sé stesso. Indubbiamente la situazione di

continue vessazioni procura nel soggetto un elevato stato di sofferenza che rivela il vissuto di

umiliazione nel veder calpestata la propria dignità individuale e di fallimento per essere tacciati di

incapacità lavorativa. Soprattutto per chi basa la propria immagine sui successi lavorativi e proietta

sul lavoro molte aspettative di realizzazione personale, è comprensibile il calo di autostima che si

ripercuote su ogni sfera della sua esistenza e che, nel caso in cui nella persona ci sia già un deficit

presente costituzionalmente, ad esempio la ricerca costante di approvazione esterna, quasi il

proprio valore dipendesse dal giudizio degli altri, questo aggravi la situazione complessiva. Ecco

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che il mobbizzato può apparire come un individuo insicuro, convinto di essere spesso il colpevole

per aver fatto qualcosa di sbagliato, con uno spiccato spirito di autocritica e che alla fine si isola

per il timore del confronto con colleghi e superiori.

Proseguendo nell’analisi delle tipologie di soggetti che possono essere maggiormente colpite da

mobbing chi vive un periodo di stress e riversa nell’ambiente di lavoro ansie e preoccupazioni

risulterà pesante, a volte quasi con tendenze paranoiche, cosa che lo renderà più vulnerabile ad

attacchi da parte dei colleghi e a valutazioni negative da parte dei superiori.

Un altro profilo che si riscontra con frequenza è quello del capro espiatorio, il soggetto che non è

ben visto dal gruppo, essenzialmente perché rappresenta un elemento di diversità rispetto alla

norma. Sia che si tratti di minoranze per razza, religione, orientamento sessuale, ma anche, ad

esempio, nel caso della donna che ha un ruolo di coordinamento in un’area di attività prettamente

maschile, o di colui che è portatore di idee di cambiamento che mettono in discussione lo status

quo, chi è indicato come capro espiatorio è l’individuo su cui il gruppo proietta le ansie e gli aspetti

meno nobili dell’animo umano. Ancora è comune che le persone apprezzate per meriti personali e

che impegnano le loro energie per raggiungere obiettivi elevati possano suscitare l’invidia di chi

per contro brama far carriera ma non possiede doti che lo sostengano o di chi vive come scomodo

il collega troppo capace e laborioso perché crea uno standard di attività a cui ci si deve adeguare,

pena i confronti a suo sfavore. Altre caratteristiche che possono risultare critiche e quindi oggetto

di mobbing sono quelle della persona onesta che ha solidi principi etici e non vuole scendere a

compromessi, elemento che può portarlo a porsi in modo troppo sincero creandogli dei problemi,

specialmente se denuncia apertamente qualche azione scorretta di qualche collega. Altra tipologia

è personificata dall’individuo parecchio introverso che possiede scarsa competenze sociali al punto

da sembrare ostile e poco disposto allo scherzo e alla chiacchiera: è vissuto come opprimente e di

conseguenza viene isolato e allontanato dal gruppo. Per colmare il senso di vuoto che si è creato

intorno a lui, egli si dedica esclusivamente al lavoro, cosa che induce gli altri a coinvolgerlo

sempre meno sino a farlo perdere momenti di socializzazione importanti per il benessere

lavorativo. Infine un ultima categoria di lavoratori che diviene oggetto di mobbing è composta da

coloro che, a causa di cambi di gestione e di vertice, restano coinvolti nelle strategie di fusione e

riorganizzazione aziendale, e come tali devono essere lasciati a casa per ridurre gli esuberi di

personale.

Il soggetto che attacca e cerca di annientare la vittima è il mobber. Egli insieme al mobbizzato

contribuisce a determinare la dinamica relazionale che scaturisce in un conflitto continuativo,

stabile e perpetuato con elevata frequenza. In genere è proprio dall’incontro delle caratteristiche

personali del mobber con quelle della vittima che si arrivano a delineare gli aspetti che

contraddistinguono il mobber: infatti sia che si tratti di un collega o di un capo, alla base vi è o un

temperamento litigioso e tendenzialmente aggressivo che favorisce il conflitto, oppure la

predisposizione a utilizzare gli altri come valvola di sfogo su cui scaricare le proprie frustrazioni e

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tensioni interne. Quando il mobber è il capo, impersonato da un soggetto autoritario e despota

spesso si tratta di una persona insicura che nasconde questa mancanza di autostima dietro una

parvenza di onnipotenza e grandiosità che lo porta inevitabilmente a svalutare gli altri e a colpirli in

quanto esseri ritenuti inferiori; egli è poi caratterizzato da scarse capacità comunicative e

relazionali che lo portano a comunicare in modo spesso incomprensibile e a non essere in grado di

gestire i rapporti umani con polso ma in maniera distesa. Quando il mobber è un collega, questi

può possedere le caratteristiche della persona ipercritica e polemica, perennemente insoddisfatta

che sceglie come vittima chi è più sensibile all’autocritica e tende a mettersi sempre in

discussione; altra tipologia è rappresentata da chi ha mire carrieristiche e che pur di raggiungere i

suoi obiettivi ambiziosi non esita a colpire gli altri per sbarazzarsi della concorrenza temuta;

troviamo inoltre il soggetto invidioso per natura che teme di avere meno degli altri e che per questo

motivo si schiera contro chi ritiene abbia di più così come colui che dimostra scarsa efficienza e

irrisorie capacità lavorative sebbene sia convinto di valere invece più degli altri, dimostrando di

avere una visione distorta di sé.

Interessante sottolineare inoltre l’immagine del mobber come quella del sadico, narcisista perverso

che, alla stregua di uno psicopatico, nel piacere che prova distruggendo l’altro nega i suoi conflitti e

disequilibri interni, proteggendosi così da un’angoscia insopportabile: all’apparenza sono brillanti e

affascinanti ma se contraddetti, non approvati e rifiutati diventano distruttivi e pericolosi. A

sostegno di tale immagine è importante considerare le possibile aree patologiche riscontrabili nel

narcisista perverso: prendendo a riferimento il DSM IV troviamo tra gli altri il disturbo narcisistico di

personalità che descrive caratteristiche di onnipotenza, arroganza, bisogno di essere ammirati,

relazioni sbilanciate in cui l’altro viene sfruttato in base alle proprie esigenze, invidia e il disturbo

antisociale di personalità, contraddistinto da sintomi quali mancanza di empatia per gli altri,

irresponsabilità, insensibilità, mancanza di rimorso. In particolare la forza dei perversi è

l’insensibilità, fattore che annulla il senso di colpa e di responsabilità per le proprie azioni: tale

aspetto è complementare con il comportamento della vittima che per contro si sente iper

responsabile per ogni cosa e in un’ottica masochista ha bisogno di chi amplifica il senso di

inadeguatezza e la critica interna.

Come già detto Il mobbing coinvolge anche quella moltitudine di soggetti che assistono allo

sviluppo dei comportamenti mobbizzanti, in alcuni casi prendendo posizione verso chi usa violenza

psicologica, ma spesso senza intervenire, adottando una strategia quasi di mimetismo, come se

ignorassero o non fossero consapevoli fino in fondo di quanto sta avvenendo sotto ai loro occhi.

Sono i cosidetti spettatori o side mobber colleghi e/o superiori che dovrebbero frenare il mobbing e

non lo fanno. Sono persone che agiscono in modo conformista e non vogliono essere coinvolti

nella situazione o comunque non apparire in modo esplicito: hanno paura di esporsi e di prendere

posizione per denunciare lo stato di vessazione esploso ai danni di un collega o addirittura aiutano

il mobber, non agendo in prima persona, ma lavorando sullo sfondo con cattiverie e maldicenze

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nei confronti della vittima. Tale elemento spesso sfugge a chi osserva questo fenomeno, non certo

a chi lo subisce. Dietro questa apparente passività dei cosiddetti side-mobber è possibile

riconoscere comportamenti e atteggiamenti che non sono neutri, ma che sono, piuttosto, il frutto di

una scelta, sia individuale sia organizzativa. Il ruolo degli spettatori, infatti, è importante perché

finiscono per accelerare il processo di distruzione psicologica della vittima. Essi svolgono una

funzione importante nel ribadire il senso e la condizione di isolamento del mobbizato; allo stesso

tempo, proprio con la loro apparente "neutralità" negano la gravità della situazione che si sta

creando o che si è già creata attorno a lui.

I professionisti che lavorano intorno al mobbing e il trattamento di cura

La complessità del mobbing in quanto fenomeno multidisciplinare che agisce su più fronti,

richiede che esso sia affrontato da professionisti con formazione e expertise differenti. La

collaborazione è fondamentale per creare la rete di supporto e intervenire rispetto ai diversi piani

che sono coinvolti: è opportuno che ogni professionista conosca bene la propria area di azione e

che sappia differenziare ma integrare il proprio contributo con quello degli altri.

Come in tutte le nuove aree di studio anche per il mobbing si è verificato che ogni categoria

professionale ha tentato di ingaggiare una sorta di sfida per arrivare a rivendicare per primi la

paternità sul fenomeno, strappandolo letteralmente dalle mani degli altri concorrenti. E’

fondamentale che tutti i professionisti coinvolti nel trattamento di un caso di vero o presunto

mobbing conoscano le prerogative del proprio ruolo, agiscano in modo da non oltrepassare i limiti

dell’intervento che compete loro e di giungere così ad un risultato corretto, professionale e

soprattutto efficace. Una collaborazione fattiva che argini decisioni avventate e inefficaci assunte

da professionisti privi di un’etica deontologica nel trattare casi di mobbing ha delle conseguenze

importanti sul benessere del lavoratore e sulle modalità con cui egli riuscirà a superare il trauma.

Tutte le componenti che sono danneggiate devono essere prese in carico: da quella emotivo –

relazionale, a quella fisica a quella morale e esistenziale e ogni professionista deve entrare in

campo nel momento opportuno portando le competenze, psicologiche, giuridiche, mediche, che il

ruolo richiede.

Attenendosi ad un percorso ideale di gestione della problematica, il mobbing è nato come

disciplina propria della psicologia, in particolare della psicologia del lavoro, pertanto la prima figura

a cui spetta la valutazione iniziale del presunto caso di Mobbing non può che essere uno

psicologo, con adeguata formazione in materia o uno psicologo del lavoro in quanto esperto oltre

che di dinamiche relazionali, come lo psicologo, attento conoscitore di tematiche organizzative

(clima aziendale, analisi e valutazione dei fenomeni di rischio sociale e psicologico). La presa in

carico rappresenta il momento in cui lo psicologo, insieme al lavoratore, presunto mobbizzato, che

ha richiesto sostegno, ricostruisce le difficoltà relative all’ambiente di lavoro con lo scopo di

addentrarsi nella complessità della situazione e di individuare le condizioni disfunzionali che

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hanno favorito il crearsi di una situazione conflittuale protratta nel tempo. Si approfondiranno

aspetti legati al curriculum professionale del lavoratore, agli aspetti organizzativi percepiti, alla

soddisfazione lavorativa, al livello di integrazione nell’ambiente, al momento in cui si sono

sviluppate le azioni negative, da chi provengono e come sono state affrontate dal soggetto; si

cercano di definire i fattori oggettivi (cambiamenti in atto) e soggettivi (caratteristiche caratteriali e

comportamentali) che possono essere implicati nell’evento. La competenza dello psicologo in tale

fase dovrà essere in grado di testare l’attendibilità dell’individuo e appurare se la situazione può far

pensare a una reale mobbizzazione o se è una questione di disagio lavorativo percepito dal

singolo. Egli saprà quindi distinguere tra quelle che vengono raccontate come azioni vessatorie

mentre sono in realtà rigidi criteri di direzione aziendale, che non hanno intenzione di danneggiare

il lavoratore così come comprendere quando siamo di fronte a forme di prevaricazione e uso

improprio del potere per soddisfare i propri bisogni personali e non si tratti invece di una sana

competizione organizzativa, inevitabilmente sfidante che mette a confronto capacità e risorse

individuali nel raggiungimento degli obiettivi.

La presa in carico oltre ad un colloquio, supportato dalla compilazione di un’eventuale scheda,

nella maggior parte dei casi prevede, in un secondo momento la somministrazione di test, sia

quelli in grado di restituire informazioni specifiche sul mobbing e sul disagio lavorativo sia quelli atti

a rilevare contenuti relazionali e variabili soggettive. L’obiettivo è quello di riuscire ad avere una

diagnosi almeno iniziale che consenta di capire verso quali trattamenti indirizzare il lavoratore

chiamando in causa gli altri professionisti. In caso di esito positivo della situazioni di mobbing se

sarà forte la presenza di disturbi fisici è opportuna la presenza del medico che, a seconda delle

specialità, interverrà per diagnosticare la presenza di eventuali conseguenze sul piano della salute

o dell’aggravamento di problemi già preesistenti, accertando così il danno biologico. Lo

psicoterapeuta e lo psichiatra insieme si prenderanno cura del paziente sia sul piano clinico che

sul piano farmacologico: laddove il trauma abbia scatenato patologie psichiche lo psichiatra

procederà con approfondimenti psicodiagnostici e, se o riterrà opportuno prescriverà psicofarmaci.

Lo psicoterapeuta per parte sua si occuperà della sofferenza emozionale della vittima: la

accompagnerà a rielaborare il vissuto di colpa e di fallimento sperimentato, a lavorare sulla

mancanza di autostima e sul deterioramento dell’immagine di sé, infine lo incoraggerà a pensare a

modalità comportamentali diverse. Un buon percorso terapeutico dovrebbe aiutare il lavoratore ad

accettare l’accaduto attraverso la comprensione del significato del processo di mobbing in cui è

stato coinvolto e soprattutto del ruolo che egli vi ha esercitato.

Il ruolo del medico legale è strategico per risolvere il punto forse più controverso delle perizie

medico legali in tema di Mobbing, ossia il riconoscimento del nesso causale tra patologia e

ambiente lavorativo; sulla base delle precedenti valutazioni psicodiagnostiche egli può attestare il

danno biologico correlato al mobbing, il dato su cui confrontarsi con un avvocato in merito alla

materiale praticabilità, di una eventuale causa di Mobbing, con relative richieste risarcitorie in

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relazione alla disponibilità delle prove e alla probabilità di vittoria. La funzione dell’avvocato è

quella di verificare l’attendibilità delle prove a disposizione (annotazioni, documenti fattuali e

testimonianze che possano avvalorare la presenza di mobbing) e misurare quanto in suo possesso

con le leggi vigenti e le sentenze emesse in materia. Come già ribadito risulta vincente la

collaborazione tra le figure professionali interessate e la modalità di lavorare in equipe al fine di

concepire un’azione sinergica, capace di potenziare il ruolo di ciascuna figura invece di far

prevalere particolarismi e logiche di potere inopportune che, inevitabilmente, si riverserebbero sul

paziente preso in carico.

Strumenti di rilevazione

Gli strumenti di rilevazione del mobbing sono metodi che, per quanto standardizzati, quindi in

grado di fornire informazioni oggettive, sono strumenti self-report che registrano la percezione

interna del soggetto; la mancanza di misure eterovalutative, basate su criteri più oggettivi

(osservazioni sul luogo di lavoro, o su registrazioni) e intersoggettivi (documenti e confronti con

l’ufficio risorse umane, questionari somministrati ai colleghi di lavoro) comporta l’impoverimento

delle informazioni disponibili, tutte centrate sulla percezione individuale. A parte ai metodi che

consentono di rilevare proprio il costrutto del mobbing, è importante avvalersi anche di una batteria

di questionari e test che analizzano il contesto di lavoro e che fanno diagnosi in relazione al

soggetto. I primi sono strumenti che rilevano variabili organizzative quali analisi di clima, livello di

disagio organizzativo, presenza di fattori di rischio psicosociale (aspetti della progettazione,

organizzazione e gestione del lavoro, del contesto sociale e ambientale che hanno le potenzialità

di causare danno psicologico e fisico) precursori dello stress lavoro correlato. I secondi sono test di

personalità, test proiettivi, scale di valutazione dei sintomi psichiatrici.

Prima di esaminare i questionari maggiormente impiegati una precisazione è d’obbligo: i soli

questionari non hanno la possibilità in sé di oggettivare il mobbing considerato che è un fenomeno

caratterizzato da alta complessità e non una patologia diagnosticabile.

Il questionario di rilevazione del mobbing più conosciuto è il LIPT (Leymann Inventory of

Psychological Terrorism), rivisto e modificato nella versione italiana da Harald Ege. Nasce negli

anni ’90 come breve questionario anonimo con il quale si chiede al soggetto su una scala a sei

punti quali azioni mobbizzanti ha subito e con quale frequenza . Queste azioni sono divise in

cinque categorie, denominate: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti

delle mansioni lavorative, attacchi contro la reputazione, violenza e minacce di violenza. Con le

modifiche apportate da Ege lo strumento si compone di tre sezioni per un totale di 30 domande: la

prima sezione intende rilevare i dati personali e professionali del lavoratore, la seconda riguarda le

azioni ostili subite o rilevate in azienda, raggruppate in sei categorie e la terza sezioni relativa alle

conseguenze di tali azioni sul piano psicofisico, comportamentale e familiare.

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Sulla falsa riga del LIPT sono nati altri questionari tra cui il NAQ (Negative Actions Questionaire) di

Einarsen, il CD.L 2.0 messo a punto dalla clinica del lavoro Luigi Devoto di Milano, il Q.A.M. 1.6

(Questionario di Autopercezione del Mobbing). Il NAQ è uno strumento di indagine costituito da 22

item ciascuno dei quali si riferisce ad un’azione negativa e potenzialmente mobbizzante, descritta

in termini comportamentali senza fare però alcun riferimento al termine mobbing; lo strumento

misura su una scala da cinque punti la frequenza con cui la persona è stata oggetto di tali azioni

negli ultimi sei mesi.

Il questionario CDL è composto da tre sezioni: una di 21 domande riguarda i dati anagrafici e la

posizione lavorativa, la seconda parte contiene 38 item ciascuna delle quali tiene conto di diverse

situazioni lavorative di cui una è una tipica situazione di mobbing, infine altre 4 domande inerenti le

condizioni di salute e la qualità della vita.

Il QAM considera la percezione del mobbing sia in termini di azioni mobbizzanti sia di effetti

psicofisici da queste derivate. E’ formato da 6 sezioni in cui viene prima richiesto, in progressione,

di stabilire frequenza e durata di situazioni che attengono a diversi piani dell’individuo (sociale,

professionale, personale, della sfera cognitiva, di quella psico-emotiva); il questionario termina

infine sottoponendo ai partecipanti coppie di aggettivi tra loro opposti che fanno riferimento a

particolari stati d’animo.

Lo scopo degli strumenti di rilevazione del mobbing, appurato che non consentono di mettere in

evidenza tout court l’assenza o presenza di mobbing, possono avere una valida funzione per

migliorare il processo di conoscenza del fenomeno e per personalizzare interventi di formazione e

informazione.

La prevenzione e interventi di gestione del mobbing

Quando si parla di prevenzione ci riferiamo alle tre specificazione di prevenzione: primaria,

secondaria e terziaria. Con la prevenzione primaria e secondaria si tenta di impedire lo sviluppo

del problema, ovvero ridurne l’incidenza e diminuirne gli effetti, infine quella terziaria cura le

conseguenze generate dal problema. Se la prevenzione terziaria riguarda, nello specifico, la presa

in carico del soggetto colpito da mobbing e il relativo trattamento, analizzati precedentemente,

quella primaria e secondaria si riferiscono ad interventi finalizzati a diffondere la conoscenza del

fenomeno e a fornire alle persone strumenti per difendersi dal rischio di mobbing.

L’azione preventiva primaria basata sulla divulgazione e condivisione di informazioni si colloca in

quella fase del processo di sviluppo del mobbing detta da Ege a “condizione zero” in cui il conflitto

è fisiologico e può permanere a tale stadio senza esplodere in un conflitto insanabile difficile da

contenere e pericoloso per la salute organizzativa. L’informazione deve essere diffusa in modo

capillare a tutti i livelli dell’organizzazione e in tutti i settori dell’azienda poiché più è estesa la

conoscenza del mobbing più è possibile riconoscerlo per tempo ed evitare che situazioni di

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violenza psicologica si protraggano senza intervenire in modo tempestivo. I fronti su cui agire per

garantire una buona prevenzione primaria e secondaria sono, oltre all’informazione, la formazione

sulla gestione del mobbing e del conflitto, sulla tutela della sicurezza, il monitoraggio delle modalità

di gestione delle RU, una chiara politica aziendale; essendo il mobbing spesso legato ad un

problema gestionale dell’organizzazione, le azioni preventive dovrebbero essere parte integrante

del governo delle risorse umane, oltre che rientrare nelle strategie di gestione dei rischi psico-

sociali. Acquisire una conoscenza approfondita della situazione e del suo evolversi, così come

avviare una fattiva collaborazione tra le parti in causa (azienda, dipendenti, organizzazioni

sindacali) sono azioni indispensabili per introdurre misure di prevenzione primaria efficaci. Essere

consapevoli consente ad esempio a proposito del mobbing strategico, di distinguere tra veri e

propri atti persecutori verso i lavoratori e la messa in campo di corrette scelte disciplinari e

manageriali, indispensabili per l’agire organizzativo, che in realtà esulano dall’intento vessatorio

e/o mobbizzante: prima di denunciare un fatto di mobbing è essenziale stabilire se si è di fronte ad

un fenomeno che mette in discussione l’equilibrio delle relazioni o ad un vissuto di disagio

lavorativo, percepito dal lavoratore.

In secondo luogo il coinvolgimento di tutte le parti sociali serve per una presa in carico

complessiva dell’organizzazione e non solo dei singoli protagonisti della specifica azione di

mobbing. La presa in carico si concretizza nell’assunzione di un pacchetto di misure che

interverranno a più livelli: aziendale, per acquisire capacità di gestione del conflitto, individuale per

rinforzare l’autostima e apprendere tecniche di comunicazione assertiva, atte ad affrontare la

violenza e l’aggressività verbale e infine professionale per usufruire di interventi dei diversi esperti

del settore. La presenza in azienda di un forte fronte anti mobbing e di una elevata

consapevolezza sulla problematica, scoraggia non solo l’azione del mobber ma anche quella dei

side mobber, alleati del primo e fornisce alle vittime gli strumenti per intervenire prima che il

conflitto diventi qualcosa di estremamente dannoso per la salute psicologica del dipendente.

Anche la risoluzione del Parlamento Europeo spinge le aziende a pensare a politiche di

prevenzione e a individuare nuove procedure per risolvere il disagio delle vittime e punire i

colpevoli, attraverso l’istituzione di una cultura manageriale, fondata sulla cooperazione e sul

rispetto per le aziende, sulla qualità della vita lavorativa e del benessere psichico, sull’informazione

e sulla conoscenza diffusa.

Per contenere la gravità del fenomeno iniziano a sorgere diverse misure antimobbing: un esempio

di prevenzione primaria, al momento però ancora poco applicata dalle organizzazione è

l’istituzione di appositi organismi (referenti di pari opportunità) che funzionino da istanza fiduciaria

per le persone coinvolte ma anche da consulenza per l'intera organizzazione

Le più comuni sono i codici di comportamento e/o i documenti di consenso, linee guida che

intendono scoraggiare comportamenti prevaricatori e molesti e per contro incentivare quelli positivi

e leali, oltre ad un clima di collaborazione e reciproca fiducia. Si tratta di indicazioni generali che

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devono essere personalizzate e trovare spazio all’interno dello specifico ambito lavorativo.

Forniscono all’azienda e ai dipendenti informazioni utili per il riconoscimento e la gestione di eventi

di mobbing: in esse sono indicate le azioni ostili e le sanzioni disciplinari conseguenti a queste e

vengono descritte le figure a cui rivolgersi in caso di mobbing. Tali regolamenti oltre a ricercare

una mediazione nel conflitto intendono in primo luogo aiutare la vittima a interpretare i prodromi di

eventuale mobbing e secondariamente mirano a fornirle un sostegno immediato. Un ultimo punto

affrontato nelle linee guida è l’attivazione di puntuali indagini del rischio mobbing a partire da

analisi di clima e dalle periodiche revisioni delle valutazioni del livello di rischio stress lavoro

correlato.

Altro strumento preventivo è la formazione focalizzata ad acquisire le competenze sociali per

gestire il conflitto in modo costruttivo, al fine di non trasformarlo in un’escalation emotiva ma

attingendo da esso energia per risolvere i problemi. Ege propone di introdurre in azienda la cultura

del conflitto un metodo che consente di allenare al conflitto e alla sua gestione partendo da una

conoscenza approfondita delle reazioni che suscita in ciascuno di noi la contrapposizione tra

posizioni diverse. L’obiettivo è quello di passare da una logica in cui il confronto tra le parti

assume la forma dello schierarsi l’uno contro l’altro per giungere a percepire il punto di vista

dell’altro non più come una minaccia, ma come un’opportunità di crescita e di arricchimento

personale. Spesso vi è il timore ad ammettere vissuti di incomprensione e di forte contrasto tra

colleghi e prevale quindi la tendenza a negare i problemi da cui scaturiscono sentimenti conflittuali

che, se invece fossero riconosciuti e affrontati, diverrebbero oggetto di ulteriore consapevolezza di

sé e dei meccanismi relazionali che si muovono intorno a noi: se il conflitto diventa chiaro e si

cerca di risolverlo assieme, allora anche il clima aziendale sarà più sereno e i lavoratori

renderanno al meglio.

Come ci ricorda Ege la cultura del litigio metodologicamente consiste in un percorso formativo

articolato in sessioni di aula e momenti esperienziali dove imparare a gestire meglio le proprie

risorse, sperimentando nuove strategie di confronto e mediazione. Lungo il percorso si esplora il

conflitto come esperienza che deve essere guidata e non negata o combattuta e si apprendono le

strategie di autodifesa verbale quindi una comunicazione assertiva per difendersi dagli attacchi

verbali in modo da bloccarli ed evitare un inasprimento del conflitto. Spesso il conflitto nasce dalla

nostra incapacità di rispondere adeguatamente e di tamponare subito il colpo, oppure da una

nostra reazione esagerata o inappropriata al contesto; contribuiscono a definire il tipo di reazione

l’ambito di vita, la personalità di chi attacca e di chi è aggredito, la relazione tra aggressore e

aggredito. In una situazione di Mobbing, gli attacchi del mobber fanno male perché colgono

impreparata la vittima, la quale non riesce a contrattaccare adeguatamente. La vittima, acquisendo

la capacità di rispondere nel modo appropriato in qualsiasi circostanza, si sente più sicura di se

stessa e nel vivere i rapporti interpersonali, ispirando rispetto e considerazione; in tal modo riesce

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a salvaguardare la sua dignità ed evita che gli attacchi costituiscano delle premesse per disturbi

psicosomatici (l’aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi risulta un ottimo immunizzante).

Infine il percorso ideato da Ege propone due esperienze formative finalizzate a ripensare al modo

in cui le persone si pongono nella loro esistenza e fronteggiano le situazioni di vita.

Se come detto la potenziale vittima di mobbing è un soggetto con la tendenza ad essere

disponibile e ipercoscienzioso che sente il bisogno di rendersi sempre utile e di soddisfare le

richieste di colleghi e superiori, attenendosi rigorosamente a quanto stabilito dal ruolo, per chi sa di

possedere alcune di queste caratteristiche può essere utile imparare a vivere in modo meno

altruista e centrarsi su un sano egoismo; mettere da parte l’aspetto più formale ed estremamente

adattato di noi stessi ed essere in grado di esprimere e motivare le proprie posizioni e dissensi,

significa acquisire assertività, riporre in primo piano se stessi e i bisogni personali e liberarsi

dall’influenza dell’ambiente circostante. Infine suggerisce di imparare a preservare maggiormente

la propria persona ritagliandosi spazi al di fuori del lavoro in cui coltivare interessi e oziare per non

cadere in situazioni di eccessivo stress e danneggiare così la nostra salute.

In termini operativi i principali studiosi di mobbing sottolineano l’importanza di alcune semplici

regole a cui il mobbizzato deve attenersi per affrontare la situazione drammatica in cui egli si viene

a trovare. Innanzitutto prendere distanza emotiva dal conflitto per favorire un’analisi più distaccata

e non reagire solo sull’onda dell’emozione e dell’impulsività, con il rischio di creare un’escalation

emotiva; rompere la spirale di aggressività e violenza psicologia significa scoraggiare la strategia

del mobber che per contro punta a scatenare la reazione della vittima in modo da giustificare la

sua controreazione in un gioco in cui il vincente è l’aggressore. In secondo luogo ascoltare il

parere del medico e attenersi alle sue indicazioni di assentarsi dal lavoro nel caso egli riscontri uno

stato di malessere acuto (ansia, depressione, stress): questo comportamento si situa nella logica

del sano egoismo, che prevede di mettere al centro i nostri bisogni per assicurarci il benessere

psicofisico. In terzo luogo considerato che il mobber quando agisce lo fa verificando con scrupolo

che non ci siano testimoni è opportuno che la vittima annoti tutto quello che avviene e coinvolga

chi ha assistito al fatto, magari non visto, nel caso in cui egli sia disposto a testimoniare; si tratta di

trascrivere le azioni vessatorie subite, quando, dove, perché e con chi sono avvenute e quali

conseguenze sul piano della salute comportano, queste ultime corredate da documentazione

medica e prescrizioni di cure da seguire. Infine richiedere motivazioni per qualsiasi cambiamento

sia imposto al mobbizzato: cambio di mansione, di ruolo, eventuali trasferimenti. La vita relazionale

e extralavorativa non deve essere sacrificata anzi è importante sforzarsi di mantenere una

parvenza di normalità e condividere con le persone vicine quello che si sta vivendo, senza cadere

però nell’eccesso di riversare sugli altri il problema rischiando di risultare pesante e fastidioso e di

innescare dinamiche come quelle del doppio mobbing.

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Ricorrere alle vie legali

Le vittime di mobbing che intendono ricorrere alle vie legali non devono aspettarsi soluzioni a

breve termine e devono essere consapevoli che l’iniziativa potrebbe anche concludersi con il rifiuto

della richiesta di risarcimento. In ragione della complessità del fenomeno e dell’ambiguità in cui si

muove il legislatore, nel prestare ascolto alle verità di ciascuna parte in causa, la questione da

dirimere è la seguente: come differenziare cosa è realmente mobbing, in quanto fatto, da cosa non

lo è, quindi, in definitiva come riconoscere le situazioni di falso mobbing? (simulazioni, false

accuse di vessazioni psicologiche, casi in cui chi si proclama vittima attribuisce erroneamente i

suoi disagi esistenziali e fragilità psichiche preesistenti alla situazione lavorativa). Considerando

l’aumento dei processi per mobbing si può notare che si sta diffondendo la tendenza di ricondurre

ogni lacerazione lavorativa (mancato stipendio, demansionamento, mancato riconoscimento di

passaggio di qualifica, licenziamento) al mobbing, ora non più fenomeno sociale ma patologia del

sistema che risente del livello di precarietà del mercato del lavoro oltre che della crisi globale.

Il fatto che il mobbing sia privo di una connotazione giuridica e che non abbia neppure confini certi

quanto a modalità attuative e di percezione collettiva, da un lato favorisce l’abuso del termine e

dall’altro incrementa il numero delle false accuse da mobbing, cresciute al punto da dover tutelare

chi è accusato ingiustamente da chi emette tali sentenze, mentendo e agendo con disonestà o per

motivi legati a problematiche psichiatriche antecedenti (es persone affette da disturbo di

personalità paranoide); accusare un’azienda o una persona di Mobbing, senza il supporto di prove

e fondamenti teorici circostanziati, è un fatto illecito, sanzionabile a norma di legge, come

dimostrano alcune sentenze.

Chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi del mobbing in quanto il giudice forma

su queste il suo convincimento circa la verità o la non verità dei fatti affermati: lo psichiatra forense

in tal senso ha il compito principale di individuare il nesso causale tra i sintomi e le condizioni di

lavoro e valutare i danni attraverso un’accurata azione investigativa al fine di scoprire eventuali

simulazioni, intenzionali o dovute a disturbi che possono contribuire ad alterare la percezione della

realtà. Le simulazioni sono individuate integrando l’attività di valutazione clinica con quella di

natura investigativa. Il colloquio dovrà essere gestito seguendo precisi criteri: non usare modalità

direttive, richiedere descrizione dettagliata dei sintomi, osservare il comportamento non verbale del

soggetto e rilevare se esiste o meno la componente affettiva del racconto, individuare fonti esterne

di informazione e utilizzare strumenti standardizzati costruiti appositamente per l’individuazione

della simulazione.

Ai fini dell’accertamento della responsabilità` del datore di lavoro, e` onere del lavoratore che

lamenti di aver subito un danno alla salute provare l’esistenza di tale danno e il nesso causale tra

la condotta datoriale e il danno subito. Perché sia ammesso il nesso causale tra condotta ed

evento lesivo i fatti portati all’attenzione devono essere ripetuti sistematicamente, vi deve essere

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l’intenzione esplicita di danneggiare il soggetto (volontà persecutoria), protrarsi per un lungo

periodo di tempo e aver la finalità dell’espulsione del lavoratore.

I tipi di danni che possono verificarsi come conseguenze di comportamenti mobbizzanti sono:

• danni patrimoniali che provocano una diminuzione o un impoverimento economico della

vittima, a sua volta diviso in danno emergente e lucro cessante;

• danni non patrimoniali che incidono sulla persona indipendentemente dalla sua capacità

reddituale, a sua volta diviso in danno biologico, morale e esistenziale.

Nei danni patrimoniali sono compresi il danno emergente ovvero la perdita economica subita a

seguito del fatto lesivo (le spese mediche, farmaceutiche e il costo delle visite specialistiche

sostenute dalla vittima del mobbing), e il lucro cessante inteso come mancato guadagno nel caso

in cui si associ una effettiva perdita della retribuzione per l’impossibilita` concreta di continuare a

svolgere l’attività` di lavoro (l’inattività forzata, il demansionamento, la mancata progressione di

carriera, la lesione dell’immagine professionale, il licenziamento).

I danni non patrimoniali rappresentano la parte che mina maggiormente l’equilibrio psicofisico del

soggetto. Si parla di danno biologico riferito alle menomazioni, subite dal soggetto, (patologie

psichiche o fisiche, anche temporanee, suscettibili di valutazione medico-legale), valutate in base a

un sistema tabellare comprensivo degli aspetti dinamico – relazionali del danno, di cui una parte è

liquidata dall’Inail e un’altra può essere risarcita dal datore di lavoro (danno differenziale calcolato

come differenza tra quanto dato dall’Inail e maggior danno conteggiato sulla base dei sistemi

civilistici). Il danno biologico è un danno primario, primo effetto pregiudizievole del fatto illecito (un

evento traumatico o un logoramento sistemico di una certa entità e di natura dolosa o colposa) che

si manifesta attraverso sintomi di natura fisica o psichica (danno psichico) stabilizzati nell’arco di

uno o due anni; in assenza di lesione fisica o psichica non c’è danno biologico. Si prospetta come

danno alla salute (art. 32 Cost.) e non solo come una menomazione, cosa che, da un punto di

vista psicologico, va ben oltre la nozione di tipo medico, bensì sottolinea l’articolazione del

rapporto tra individuo e contesto. Si configura così un danno in riferimento ad un concetto di salute

in senso lato, ben oltre la categoria del danno patrimoniale che sottintende l’attitudine dell’individuo

a produrre reddito.

Il danno morale consiste nel turbamento soggettivo, un dolore, un disagio, una sofferenza interiore

di natura transitoria, destinata ad essere riassorbita in un breve lasso di tempo, che si manifesta

come conseguenza all’evento lesivo; esso non è quantificabile in termini economici, è

integralmente a carico del soggetto danneggiante, ed è risarcibile ogni qualvolta si realizzi

l’ingiusta lesione di un interesse alla persona. Il danno morale a differenza del danno biologico è

un danno secondario che rende difficoltoso un momento particolare della vita della persona, senza

comprometterne il proseguo nei suoi aspetti prioritari. La principale caratteristica è di essere

transitorio quindi non destinato a lasciare conseguenze patologiche per il resto della vita (cfr.

sentenza Corte Costituzionale n 233/2003). Per l’accertamento del danno morale devono essere

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presenti due elementi, uno oggettivo, il fatto dannoso, il secondo soggettivo, lo stato d’animo

negativo conseguente al danno.

Il danno esistenziale costituisce una nuova voce in tema di danno risarcibile che delinea“ la

compromissione della qualità della vita normale del soggetto o uno stato di disagio psichico che

non arriva a configurarsi come un quadro clinico patologico”. Il danno morale e il danno

esistenziale hanno in comune l’evento iniziale, per il resto le conseguenze sono profondamente

diverse: mentre il danno morale esprime un “sentire”, il danno esistenziale definisce una perdita di

chances, un “non poter più fare” inficiando le azioni realizzatrici della persona come i rapporti

familiari, affettivi, sociali, le attività di svago ed intrattenimento. A differenza del danno biologico, il

danno esistenziale non riguarda la lesione del bene salute in senso stretto, piuttosto

l’aggravamento oggettivamente riscontrabile dei presupposti di esistenza di una persona. Il danno

esistenziale pone l’individuo innanzi ad un cambiamento negativo e duraturo dello stile di vita

cagionando un peggioramento della qualità della vita stessa. La vittima di danno esistenziale può

manifestare alterazioni comportamentali, provare disinteresse per attività prima piacevoli, maggior

affaticamento, tendenza alla passività, disturbi del sonno, riduzione dell’appetito, dell’attività

sessuale, ecc. Come nel danno morale, anche in quello esistenziale l’elemento soggettivo ricopre

un ruolo importante, ne consegue l’assenza di oggettivi parametri di valutazione tecnica. A

differenza, nel danno biologico, le menomazioni psico-fisiche sono manifestate da segni e sintomi

che consentono una oggettiva quantificazione percentuale del danno. A tale proposito danno

morale e danno esistenziale, considerati appartenenti ad un unico genere, sono liquidati, dal

giudice in forma unitaria e con valutazione equitativa tenuto conto dell’intensità del dolore patito

dalla vittima e della durata delle sofferenze.

Il percorso di diagnosi da seguire per produrre l’accertamento della presenza di danno prevede

alcune fasi: fare un attento esame dello stressor; dettagliare la storia cronologica del danno

tenendo conto delle informazioni del paziente, delle persone significative, dei referti medici;

raccogliere la storia professionale e personale del paziente; rilevare le osservazioni del paziente

durante l’intervista, somministrare un’ampia batteria di test per valutare il funzionamento cognitivo,

affettivo, comportamentale e sociale del paziente; valutarne attentamente i risultati e le eventuali

simulazioni o amplificazioni dei sintomi; esprimere le conclusioni sulla base dei dati raccolti in

merito al danneggiamento e alla perdita di funzioni. Espressa la diagnosi si determinano le

conseguenze successive al danno: fare prognosi del paziente e delle difficoltà cognitive, affettive e

comportamentali che rimarranno a lungo termine, stabilire i tipi di trattamento necessari a

migliorare la qualità di vita e a riprendere il funzionamento giornaliero del paziente (riabilitazione,

fisica, trattamenti psicoterapici e/o psichiatrici), individuare gli effetti che il danno del paziente ha

sulla famiglia e/o su altre persone significative; descrivere altri potenziali danni che si potrebbero

presentare in futuro.

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Conclusioni

Se la letteratura ci fornisce gli strumenti concettuali per affermare cosa sia o che cosa non sia il

mobbing, nella realtà dei fatti, il fenomeno resta ancora difficile da decifrare. Innanzitutto da più

specialisti è riconosciuto che il mobbing non pare essere frutto di comportamenti oggettivi bensì si

concretizzi a partire dal vissuto della persona che lo subisce, pertanto, per essere individuato

occorre la ricostruzione dell’assetto psichico preesistente, sul piano clinico, e la valutazione del

danno psichico su quello medico legale.

Quello che è certo è che il mobbing è scatenato da un mix di fattori: non è possibile rintracciare la

causa degli episodi di vessazioni solo in fattori individuali, come ad esempio la personalità della

vittima o dell'aggressore ma si può invece parlare di stili di comportamento che di fronte a certe

condizioni ambientali scatenanti hanno maggiore probabilità di diventare terreno fertile perché si

sviluppino dinamiche relazionali vittima aggressore. Alle battute iniziali del conflitto può non essere

così chiaro chi è la vittima e chi il mobber: trattandosi di conflitto relazionale, è probabile che, sino

a quando questo si manterrà su quella che Harald Ege definisce condizione zero, si giunga ad

interpretazioni diverse a seconda del punto di osservazione da cui si esplorano le dinamiche agite.

Infatti a quel livello risulterà difficile comprendere il ruolo che ciascun soggetto gioca nel dar vita al

conflitto relazionale perché è complesso addentrarsi nelle dinamiche che si creano tra le due parti

coinvolte (due singoli o un singolo e un gruppo). Sebbene infatti sia indubbio che ci sarà, tra le due

parti, chi, per carattere, ha maggiormente la tendenza ad assumere un atteggiamento debole e

vittimista e chi invece tenderà a sentirsi più a suo agio nei panni di colui che si considera il più

forte e dominante anche questa dualità non è detto che corrisponda a verità. Dietro un modo di

agire apparentemente più passivo e sottomesso in realtà può nascondersi una volontà

manipolatoria e controllante così come un comportamento in apparenza molto sicuro e quasi

prevaricatore dentro nasconde una fragilità di fondo e il timore di essere sopraffatto e di mettere

quindi a nudo la propria debolezza interiore. Ad esempio la persona permalosa di fronte ad una

presa in giro, magari non troppo bonaria, sperimenta la sensazione di essere lo zimbello degli altri

e può reagire in modo eccessivo generando nell’altro una controreazione che, probabilmente, se lo

scherzo fosse stato accolto in modo più distaccato, non avrebbe avuto motivo di scatenarsi.

Così anche la persona molto perfezionista, ipercritica che in ragione del suo elevato senso di

responsabilità tende ad invadere lo spazio dell’altro si attirerà giustamente le antipatie altrui e

questo metterà in moto reazioni accese di insofferenza da parte del gruppo, tra cui si distinguerà

un portavoce che sarà il promotore del conflitto. Ancora chi non è in grado di distinguere tra ambito

professionale e ambito privato, porterà sul lavoro problematiche personali e/o familiari, divenendo

un elemento lamentoso e faticoso da sopportare che susciterà irritazione da parte dei colleghi.

Queste tre tipologie di comportamenti possono suscitare negli altri un contrattacco fatto di critiche

anche pesanti che porranno i presupposti per isolare colui che ha messo in atto detti

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comportamenti. E’ proprio un certo modo di reagire della vittima (molto permaloso, pesante,

ipercritico, lamentoso…) che può contribuire ad aumentare l’escalation emotiva: il viversi come

vittima, come l’escluso, il diverso contribuisce a suscitare comportamenti che avvalorano la

percezione distorta che ha di sé colui che si ritiene vittima

Altri modi di agire che favoriscono il conflitto relazionale appartengono al presunto mobber per cui,

nonostante il comportamento trasmetta un’apparente immagine di potenza è indice di una mal

celata debolezza del Sé. Si tratta di soggetti con un temperamento litigioso, invidiosi, abbastanza

aggressivi, incapaci di controllare le proprie reazioni emotive e pronti ad additare gli altri,

soprattutto un soggetto ai loro occhi particolarmente “fastidioso”, che diventa una sorta di capro

espiatorio su sui sfogare le personali frustrazioni e insicurezze. L’invidia verso chi è più dotato e

possiede maggiori risorse indurrà tale tipologia di soggetti a mettere in discussione e a svalutare

ogni posizione o intervento fatto dal collega apprezzato, suscitando una sua controreazione che

potrà alternarsi tra l’incassare e il non darci peso, il rispondere in modo assertivo e il reagire in

modo altrettanto aggressivo. Se colui che viene preso di mira comprendesse che dietro

un’apparente ostentazione di sicurezza, espressa da un comportamento sprezzante e provocatorio

si nasconde in realtà una notevole mancanza di autostima e vulnerabilità, allora sarebbe in grado

di rispondere con assertività e di smorzare il carico di aggressività manifestata dall’interlocutore.

Quando poi l’individuo che esprime invidia e risentimento, ricopre il ruolo di capo allora sarà più

semplice per lui tenere in smacco gli altri sminuendoli e incolpandoli di errori inesistenti o facendo

ricadere su di loro responsabilità che in realtà non sono loro attribuibili;

Anche quando il conflitto relazionale diviene mobbing ovvero qualora si passi ad una modalità

reiterata per un periodo di tempo significativo e nel momento in cui le azioni presentano una chiara

intenzione persecutoria, non è così semplice comprendere se effettivamente vi sia stato o meno

mobbing. In particolare nel caso del mobber è il criterio dell’intenzionalità a divenire una variabile

non sempre semplice da registrare: la supposizione di intenzionalità in certi casi non sembra

essere facilmente rilevabile poiché talvolta egli agisce pur non rendendosi conto delle gravi

conseguenze che le azioni messe in atto possono avere in primis sulla vittima ma anche

sull’organizzazione. Nel caso del mobbizzato vi è invece la possibilità che chi denuncia il fatto,

nasconda in realtà una volontà recondita di mobbizzare l’altra parte; la difficoltà di identificare chi

tenta di simulare una condizione di sofferenza che in realtà non esiste o se esiste non è

riconducibile al contesto lavorativo è tale da indurre gli addetti ai lavori ad utilizzare strumenti di

natura investigativa per svelare i casi di simulazione.

Che cosa può realmente fermare il mobbing? Come per tutte le patologie è opportuno intervenire

innanzitutto sul piano preventivo e, considerato che si tratta di un fenomeno che si sviluppa

internamente all’organizzazione, è necessario agire sui meccanismi organizzativi per anticipare

situazioni di forte disagio lavorativo e per tutelarsi contro il rischio di soprusi sul lavoro.

Un’organizzazione che manca di chiari riferimenti, di una comunicazione efficace e/o che presenta

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bassi livelli di equità con evidenti disparità di comportamento tra i dipendenti, genera elevati livelli

di insoddisfazione che predispongono ad una serie di affetti negativi (invidie, antipatie, polemiche,

contrasti, conflittualità, competizione, carrierismo, abuso di potere), causa di un deterioramento dei

rapporti aziendali. Inutile dire che tutto ciò eleva la probabilità che si inneschino fenomeni di

prevaricazione e di violenza psicologica, precursori di mobbing. Però prima ancora di mettere in

atto azioni preventive, è opportuno che l’organizzazione rifletta sul tipo di gestione, di leadership e

di cultura prevalente che la caratterizza, poiché a partire da questi tre fattori si comprende se il

contesto scoraggia o favorisce la “guerra” tra i lavoratori. Ad esempio capi autoritari e accentratori

che lasciano poco spazio e autonomia ai collaboratori generano un alto livello di frustrazione a

causa dell’inefficace valorizzazione delle differenze individuali, e dell’insistente controllo dovuto a

mancanza di fiducia nei confronti dei sottoposti e al timore che il potere gerarchico, proprio dei ruoli

direttivi, possa essere vissuto come meno influente; così pure una cultura dominante, improntata

alla elevata competizione, in cui viene meno il sostegno sociale, può creare un clima teso e

conflittuale su cui possono maturare le condizioni per lo svilupparsi di azioni aggressive e

vessatorie.

Una domanda che ci si può porre è se il malessere che si registra in un ambiente di lavoro, spesso

riconducibile a un insieme di questioni organizzative a cui si assommano quelle personali, sia la

conseguenza del mobbing o lo preceda, accrescendo la vulnerabilità del soggetto. Correnti di

pensiero sostengono che una soddisfacente qualità della vita lavorativa vada di pari passo con la

salute organizzativa (cfr pag 9). Sebbene quest’ultima sia più una concezione normativa che una

condizione reale ciò non toglie che possa rappresentare un valido riferimento per il buon

funzionamento organizzativo. Se invece di negare l’esistenza di conflitti o di problemi di disagio

lavorativo diffuso si utilizzassero strategie per il monitoraggio delle situazioni conflittuali e di

malessere esplicite e implicite si delimiterebbero casi di comportamenti non rispettosi della dignità

della persona (sia essa dirigente che impiegato/operaio), sottolineando il rifiuto da parte

dell’azienda di certi atti che, se non disincentivati, potrebbero, a lungo andare far si che, modalità

improprie di relazione interpersonale, diventino un normale stile di interazione. Considerato che

con la negazione del conflitto l’azienda esprime un sentimento di paura e di vergogna verso

qualcosa di illecito, di sbagliato, di cui non è opportuno parlare, all’opposto promuovendo piani di

azioni positive i lavoratori hanno modo di comprende le dinamiche che stanno dietro ad un conflitto

e alle conseguenze correlate, rendendosi conto che più si parla di un problema più si attenuano le

motivazioni che alimentano il conflitto stesso e si incoraggiano comportamenti per facilitare il

sostegno e la convivenza organizzativa.

Nel caso del mobbing emozionale o orizzontale, appena si riscontrano dinamiche vittima -

persecutore, prima ancora di appurare se si sia di fronte a mobbing o meno, è necessario

intervenire in modo tempestivo sui due soggetti al fine di renderli consapevoli delle loro tendenze

comportamentali e di agire per cambiarle: al fine di una maggiore garanzia di oggettività e di

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efficacia sarebbe meglio che l’organizzazione si affidasse al contributo di un professionista esterno

all’azienda, meno soggetto a pressioni interne, che aiuti a riflettere non tanto sul “cosa” si sta

comunicando quanto piuttosto sul “come” si comunica. L’esperienza di mobbing da parte di tutto il

contesto lascia intendere che una situazione lavorativa normale si possa trasformare in

un’esperienza traumatica e che sia pertanto responsabilità di ciascun lavoratore prendersi cura

della propria sicurezza e della propria salute oltre che di quella delle altre persone presenti sul

luogo di lavoro, su cui possono ricadere gli effetti delle azioni o omissioni del lavoratore medesimo.

Certo non è semplice per l’azienda ammettere che vi sia il rischio che il conflitto sfugga di mano o

che sia già in atto un caso di mobbing: a livello di gruppo si viene a svelare un tabù che rimette in

discussione una cultura dominante e comportamenti assodati e tacitamente accolti, al punto da

difendersi dietro i problemi di personalità della vittima o da sminuire l’importanza e l’impatto

negativo del fenomeno; a livello di individuo chi riconosce di essere oggetto di mobbing vive con

grande imbarazzo la sua condizione, interpretata dai più, come ammissione di debolezza, e

spesso non si espone per timore delle ritorsioni o, ancora più grave, per la paura di essere

considerato malato di mente. Si assiste infine a un senso di impotenza che vivono alcuni spettatori,

combattuti tra il desiderio di denunciare situazioni di violenza psicologica e aggressione a cui

hanno assistito e la paura di cadere anche loro nella rete del mobber.

L’aumento delle denunce per mobbing, e l’interesse che il fenomeno suscita evidenziano in

conclusione due aspetti che è necessario analizzare. Da un lato vi è la tendenza a simulare

situazioni di sofferenza, scambiandole, volutamente o inconsciamente per mobbing (fare un lavoro

al di sotto della propria qualifica per soddisfare esigenze momentanee, avere un carico di lavoro

eccessivo, avere un trasferimento, un capo severo che pretende molto, avere dei colleghi che si

dimostrano insensibili, non sono segnali di mobbing! ) mentre dall’altro è innegabile che il mobbing

esista e che debba essere combattuto (quello che oggi emerge in maniera preoccupante è l’utilizzo

della violenza psicologica come politica aziendale volta deliberatamente a perseguire un vantaggio

economico). Premettendo l’importanza di lavorare in un ambiente organizzativo sano, le armi in

grado di intervenire proficuamente e per tempo sono in primis gli strumenti di tipo preventivo (la

formazione per tutti i lavoratori, di qualsiasi livello e ruolo, periodiche analisi di clima, chiarezza nei

ruoli e nelle responsabilità organizzative, equità nella gestione del personale) e successivamente,

quando la patologia è conclamata, decise azioni sul piano legale, medico e psicologico.