MOBBING E STRAINING: PER UNA CONSAPEVOLEZZA NUOVA DEL FENOMENO NEL CAMMINO VERSO IL SUO DEBELLAMENTO...

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MOBBING E STRAINING: PER UNA CONSAPEVOLEZZA NUOVA DEL FENOMENO NEL CAMMINO VERSO IL SUO DEBELLAMENTO Di Carla Spandonaro* Ogni ambiente sociale in cui diverse individualità si incontrano e si confrontano, spesso secondo intricati rapporti interpersonali, si connota di proprie specifiche dinamiche, distinte dai caratteri dell’ambiente stesso e dai molteplici e contingenti elementi contestuali. L’ambiente, inteso come “spazio umano”, è quasi per natura volto alla costituzione di un cosmo (ordine) il più possibile armonico e conforme a peculiari esigenze esistenziali, allorché cooperazione e collaborazione si facciano viatico della concordia. Così, almeno, se si concepisce la convivenza come “vita comune”, ossia ripartizione di doveri (e diritti) in un ambito (propriamente detto politico, in quanto tende, in teoria, al bene dei più) che coinvolge più persone. A maggior ragione in un contesto lavorativo, tale etica comportamentale tendente al bene (che ivi si può anche definire codice deontologico) dovrebbe sussistere in modo automatico per il buon funzionamento del sistema. Le varie individualità che partecipano dell’insieme si arricchiscono infatti di precise e fattive professionalità, e pongono come fine ultimo dell’impegno profuso proprio il compimento di quegli obiettivi sottesi alle mansioni svolte. Diciamo pure, saper fare per fare: essere per divenire. Tuttavia ciò non sempre accade e le situazioni collidenti (che rompono l’ordine per l’entropia con notevole dispersione di tempo e di forze), quando non risolte pacificamente, vedono utilizzati i mezzi più infimi e abietti per la messa in opera di scopi tutt’altro che armonici, che arrivano anche, senza scrupolo alcuno, a negare la dignità dell’individuo degradandone competenza e impegno (cioè quello che egli rappresenta nell’ambiente, diciamo, in atto). È possibile annoverare tra le varie “strategie offensive” (chiamare le cose con i loro nomi, perché in situazioni di conflitto è bene servirsi del lessico militare) solitamente usate sul luogo di lavoro quella del mobbing cui bisogna affiancare quella meno nota e più recentemente riconosciuta come straining. Entrambi i comportamenti, designano l’esercizio di un’azione molesta da parte di un individuo che occupa una posizione preminente (gerarchicamente superiore) su un subordinato che ha, quindi, anche uninferiore capacità non solo di difesa ma anche di reazione. Cosa che è di per sé evidente sul piano linguistico, ancor prima di quello giuridico, palesa subito l’iniquità della res in essenza. Infatti il termine mobbing indica la forzata inferiorità dell’individuo rispetto alle dinamiche di gruppo (mob significa proprio ‘gruppo’), con l’intento di emarginarlo ed estraniarlo rispetto agli altri, causando un disagio tale da procurarne un indotto allontanamento. Straining, invece, implica indebolimento, lesionee danneggiamentodell’individuo come risultato di un’esposizione a uno stress prolungato, volto a provocare il logoramento, prima, e il collasso, poi, del soggetto esposto. L’immagine di una corda stretta attorno a un corpo dovrebbe rendere bene l’idea (to strain significa stringere/tirare [una corda]). Questi due fenomeni, sempre dolosi seppur generalmente ammessi dal senso comune, sono sfuggenti alla giurisprudenza (perché non riconosciuti e regolati sul versante legislativo) e non riscontrabili nel diritto positivo per esempio il mobbing è di solito incluso tra i maltrattamenti familiari, in cui vengono menzionati anche i maltrattamenti “per l’esercizio di una p rofessione o di un’arte” (cfr. C.p.p. art. 572). Quindi di fatto mancano le leggi. E proprio tale limitato spazio di manovra contro il mobbing (che rimane comunque molto difficile da provare) ha spinto i magistrati a introdurre alcune distinzioni e a qualificare le vessazioni psicologiche sul luogo di lavoro come straining (altrimenti definibile “mobbing attenuato”), tale che «chi viene pesantemente emarginato e vessato sul luogo di lavoro può avere diritto a un risarcimento per le “lesioni” subite » dovute a ”… chi viene pesantemente emarginato e vessato sul luogo di lavoro può avere diritto a un risarcimento per le “lesioni” subite …” Corte Cassazione n. 28603/2013

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MOBBING E STRAINING: PER UNA CONSAPEVOLEZZA NUOVA DEL FENOMENO NEL CAMMINO VERSO IL SUO DEBELLAMENTO

Di Carla Spandonaro*

Ogni ambiente sociale in cui diverse individualità si incontrano e si confrontano, spesso secondo intricati rapporti interpersonali, si connota di proprie specifiche dinamiche, distinte dai caratteri dell’ambiente stesso e dai molteplici e contingenti elementi contestuali. L’ambiente, inteso come “spazio umano”, è quasi per natura volto alla costituzione di un cosmo (ordine) il più possibile armonico e conforme a peculiari esigenze esistenziali, allorché cooperazione e collaborazione si facciano viatico della concordia. Così, almeno, se si concepisce la convivenza come “vita comune”, ossia ripartizione di doveri (e diritti) in un ambito (propriamente detto politico, in quanto tende, in teoria, al bene dei più) che coinvolge più persone. A maggior ragione in un contesto lavorativo, tale etica comportamentale tendente al bene (che ivi si può anche definire codice deontologico) dovrebbe sussistere in modo automatico per il buon funzionamento del sistema. Le varie individualità che partecipano dell’insieme si arricchiscono infatti di precise e fattive professionalità, e pongono come fine ultimo dell’impegno profuso proprio il compimento di quegli obiettivi sottesi alle mansioni svolte. Diciamo pure, saper fare per fare: essere per divenire. Tuttavia ciò non sempre accade e le situazioni collidenti (che rompono l’ordine per l’entropia – con notevole dispersione di tempo e di forze), quando non risolte pacificamente, vedono utilizzati i mezzi più infimi e abietti per la messa in opera di scopi tutt’altro che armonici, che arrivano anche, senza scrupolo alcuno, a negare la dignità dell’individuo degradandone competenza e impegno (cioè quello che egli rappresenta nell’ambiente, diciamo, in atto). È possibile annoverare tra le varie “strategie offensive” (chiamare le cose con i loro nomi, perché in situazioni di conflitto è bene servirsi del lessico militare) solitamente usate sul luogo di lavoro quella del mobbing cui bisogna affiancare quella meno nota e più recentemente riconosciuta come straining.

Entrambi i comportamenti, designano l’esercizio di un’azione molesta da parte di un individuo che occupa una posizione preminente (gerarchicamente superiore) su un subordinato – che ha, quindi, anche un’inferiore capacità non solo di difesa ma anche di reazione. Cosa che è di per sé evidente sul piano linguistico, ancor prima di quello giuridico, palesa subito l’iniquità della res in essenza. Infatti il termine mobbing indica la forzata inferiorità dell’individuo rispetto alle dinamiche di gruppo (mob significa proprio ‘gruppo’), con l’intento di emarginarlo ed estraniarlo rispetto agli altri, causando un disagio tale da procurarne un indotto allontanamento. Straining, invece, implica “indebolimento”, “lesione” e “danneggiamento” dell’individuo come risultato di un’esposizione a uno stress prolungato, volto a provocare il logoramento, prima, e il collasso, poi, del soggetto esposto. L’immagine di una corda stretta attorno a un corpo dovrebbe rendere bene l’idea (to strain significa stringere/tirare [una corda]). Questi due fenomeni, sempre dolosi seppur generalmente ammessi dal senso comune, sono sfuggenti alla giurisprudenza (perché non riconosciuti e regolati sul versante legislativo) e non riscontrabili nel diritto positivo – per esempio il mobbing è di solito incluso tra i maltrattamenti familiari, in cui vengono menzionati anche i maltrattamenti “per l’esercizio di una professione o di un’arte” (cfr. C.p.p. art. 572). Quindi di fatto mancano le leggi. E proprio tale limitato spazio di manovra contro il mobbing (che rimane comunque molto difficile da provare) ha spinto i magistrati a

introdurre alcune distinzioni e a qualificare le vessazioni psicologiche sul luogo di lavoro come straining (altrimenti definibile “mobbing attenuato”), tale che «chi viene pesantemente emarginato e vessato sul luogo di lavoro può avere diritto a un risarcimento per le “lesioni” subite» dovute a

”… chi viene pesantemente emarginato e vessato sul luogo di lavoro può avere diritto a un risarcimento per le “lesioni” subite …”

Corte Cassazione n. 28603/2013

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«sottrazione di responsabilità in favore di un’altra dipendente […], ingiuste e aspre critiche» alla professionalità e il successivo «inserimento di mansioni dequalificanti» (cfr. Corte di Cassazione, sez. pen., sent. n. 28603 del 03 luglio 2013). Gli atteggiamenti sopra indicati sembrano interpretare quanto stabilito poco prima da un’altra sentenza della Corte di Cassazione (n. 7985/2013), cioè che per contestare il mobbing non è sufficiente denunciare lo svuotamento delle proprie mansioni, ma bisogna allegare una serie di condotte vessatorie collegate causalmente. In questo modo viene rettificato, a distanza di poco tempo, quanto affermato circa la non sussistenza di danno biologico per ciò che viene comunemente definito “terrore psicologico sul luogo di lavoro”. Così, per parlare di strainig a livello giuridico basta adesso riconoscere una singola azione stressante cui seguono effetti duraturi nel tempo. La cosa più interessante, anche da una prospettiva squisitamente semantica, è la conferma della stretta parentela tra i due fenomeni per cui lo straining predispone, prefigura e prelude al mobbing

nella misura in cui è volto al danneggiamento doloso di un soggetto sul luogo di lavoro. Per esempio l’improvvisa e non giustificata rimozione da un ruolo lavorativo, poniamo di responsabilità (in cui per lo più si erano ottenuti risultati universalmente riconosciuti), e il successivo ricollocamento in un contesto deteriore, magari ascrivendo compiti non compatibili con l’esperienza maturata e l’effettiva preparazione, possono rivelarsi penalizzanti e traumatiche per la vittima, sul piano professionale e umano; quindi è ragionevole che in certe situazione si possa adire per vie legale. Dunque demansionamento, marginalizzazione, pressioni di vario genere, dequalificazione professionale, perdita dell’autonomia decisionale (magari conquistata in anni di esperienza), sono solo alcune delle azioni vessatorie che possono essere patite e che possono procurare conseguenze devastanti per chi le subisce: come crollo dell’autostima e depressione, perdita di competenza e

professionalità (con occasioni praticamente nulle di ricollocarsi sul mercato), collasso della personalità, isolamento ed emarginazione sociale. I danni si quantificano sia fisicamente sia moralmente, al punto da costituire risvolti negativi in ogni ambito relazionale; ma, concesso che il danno biologico venga riconosciuto, bisogna capire fino a che punto possa essere monetizzabile il valore della vita (professionale e non solo) di una persona. Che la Corte di Cassazione abbia definito tali comportamenti lesivi già in due sentenze è un primo passo fondamentale per l’emersione di questi fenomeni, diffusi ma troppo spesso sottaciuti per ignoranza, interesse personale o semplicemente per paura. Con le condanne che auspicabilmente seguiranno numerose a queste prime, ci si augura che eventi tanto negativi quanto dannosi siano un giorno arginati. Le conseguenze sono, infatti, deleterie non solo per chi vi è direttamente coinvolto ma anche per l’intero ambiente lavorativo, che viene corroso dal miasma della malizia e della malafede, consumando esperienze condivise, amicizie, passioni, credenze, battaglie comuni, amore e attaccamento al luogo di lavoro in cui tanto studio, tempo ed energie (anche emotive) sono state investite. Vincere questa battaglia non sarà né facile né breve, ma anche i viaggi più lunghi e avventurosi sono cominciati con un primo passo, superata la paura della sconfitta verranno i successivi. Bisogna essere fortemente convinti che provare a prevenire i danni terribili causati da questi soprusi valga il peso della sfida, perché chiunque (anche chi ora si è ritirato dalla lotta), possa un domani beneficiarne.

* Attuario e Mediatore professionista civile e commerciale

Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né

popolare; ma bisogna prenderla, perché é giusta

Martin Luther King