Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge...

9
1 La Cicuta On-line Sezione: Filosofia della storia Autore: FEDERICO CROCI Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo totale Illuminismo e mito L’individuazione del singolo si dà solo nell’identificazione autoritaria con la logica del potere: e il potere del soggetto sull’oggetto è pagato con la sottomissione di entrambi al potere universale, al sistema di dominio, del quale non sono che funzioni. Già nel mito, e poi con ancora maggiore potenza e chiarezza nel logos, è insomma chiaro [..] che soggetto e oggetto, e il loro rapporto di mediazione, possono darsi soltanto all’interno di un orizzonte che è l’universalità del dominio1 . Mito e Illuminismo sono due termini, stando al senso comune, rievocanti significati e contenuti apparentemente contraddittori: l’Illuminismo, come “uscita dell’uomo dal suo stadio di minorità” e kantiana invocazione al sapere aude, individua per la coscienza del nostro tempo un periodo storico votato alla scienza, alla lotta sociale per i diritti civili e all’avversione, più o meno radicalmente espressa dai suoi componenti, verso il credo religioso cristiano; mito è al contrario ciò che è legato al passato remoto, a credenze e dei di tempi lontani e che è, al tempo stesso, allegoria o metafora di un sapere colto essenzialmente solo in una forma altra da quella mitica, cioè quella del logos, filosofico o scientifico. Ciò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto, di sfatare questa contrapposizione come falsa e ingannevole e di individuare proprio nel mito, in particolare nei suoi eroi “borghesi” e nelle sue divinità ctonie, il nucleo del progressivo sviluppo dell’Illuminismo e del capitalismo: compito della filosofia è quello di “illuminare l’Illuminismo su se stesso, [..] di comprendere e criticare la sua autonarrazione all’interno di un’altra, più radicale” 2 . L’Illuminismo intende identificarsi “come logos, ratio, ovvero come pensiero razionalistico (definito anche ‘borghese’) sia nel suo versante ‘liberale’ e positivistico sia [..] in quello dialettico” 3 ; dunque non un movimento filosofico-culturale storicamente definito, bensì la vera matrice, l’autentico ρχή della civiltà dell’Occidente, sua “norma originaria”; ad esso, senza che se ne possa avvedere, inerisce la contraddizione di cui si fa portatore il soggetto, la dialettica. Ciò da cui si sviluppa l’analisi di Horkheimer e Adorno è la presa d’atto, implicita nell’opera, del fallimento del marxismo: fallimento sia teorico, sia storico, dettato dalla mancata rivoluzione dei rapporti di classe ad opera del proletariato. Dall’impossibilità di individuare un soggetto emancipatorio determinato, deriva l’estensione della contraddizione alla società nel suo complesso: la fine analisi delle radici stesse delle società dimostra che la contraddizione è intrinseca non a quel dato momento storico, a quella determinata lotta di classi, ma al logos stesso; dalla falsa contraddizione determinata si disvela la totalità stessa come il tutto contraddittorio, coerente sviluppo della logica del dominio che trae linfa vitale sin dalle oscure origini del mito. Nel momento stesso in cui il soggetto prende coscienza di sé e si impegna per emanciparsi dal timore e dell’autorità esterna, affermando così la propria individualità e autonomia razionale, proprio con quest’atto di reificazione del dato, del naturale, inizia un lento processo di alienazione 1 M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Biblioteca Einaudi, pag. IX. 2 Ibid. 3 Ibid.

Transcript of Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge...

Page 1: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

1

La Cicuta On-line

Sezione: Filosofia della storia Autore: FEDERICO CROCI

Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo totale

Illuminismo e mito

“L’individuazione del singolo si dà solo nell’identificazione autoritaria con la logica del potere: e il potere del soggetto sull’oggetto è pagato con la sottomissione di entrambi al potere universale, al sistema di dominio, del quale non sono che funzioni. Già nel mito, e poi con ancora maggiore potenza e chiarezza nel logos, è insomma chiaro [..] che soggetto e oggetto, e il loro rapporto di mediazione, possono darsi soltanto all’interno di un orizzonte che è l’universalità del dominio”1.

Mito e Illuminismo sono due termini, stando al senso comune, rievocanti significati e

contenuti apparentemente contraddittori: l’Illuminismo, come “uscita dell’uomo dal suo stadio di minorità” e kantiana invocazione al sapere aude, individua per la coscienza del nostro tempo un periodo storico votato alla scienza, alla lotta sociale per i diritti civili e all’avversione, più o meno radicalmente espressa dai suoi componenti, verso il credo religioso cristiano; mito è al contrario ciò che è legato al passato remoto, a credenze e dei di tempi lontani e che è, al tempo stesso, allegoria o metafora di un sapere colto essenzialmente solo in una forma altra da quella mitica, cioè quella del logos, filosofico o scientifico. Ciò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto, di sfatare questa contrapposizione come falsa e ingannevole e di individuare proprio nel mito, in particolare nei suoi eroi “borghesi” e nelle sue divinità ctonie, il nucleo del progressivo sviluppo dell’Illuminismo e del capitalismo: compito della filosofia è quello di “illuminare l’Illuminismo su se stesso, [..] di comprendere e criticare la sua autonarrazione all’interno di un’altra, più radicale”2. L’Illuminismo intende identificarsi “come logos, ratio, ovvero come pensiero razionalistico (definito anche ‘borghese’) sia nel suo versante ‘liberale’ e positivistico sia [..] in quello dialettico”3; dunque non un movimento filosofico-culturale storicamente definito, bensì la vera matrice, l’autentico ρχή della civiltà dell’Occidente, sua “norma originaria”; ad esso, senza che se ne possa avvedere, inerisce la contraddizione di cui si fa portatore il soggetto, la dialettica.

Ciò da cui si sviluppa l’analisi di Horkheimer e Adorno è la presa d’atto, implicita nell’opera, del fallimento del marxismo: fallimento sia teorico, sia storico, dettato dalla mancata rivoluzione dei rapporti di classe ad opera del proletariato. Dall’impossibilità di individuare un soggetto emancipatorio determinato, deriva l’estensione della contraddizione alla società nel suo complesso: la fine analisi delle radici stesse delle società dimostra che la contraddizione è intrinseca non a quel dato momento storico, a quella determinata lotta di classi, ma al logos stesso; dalla falsa contraddizione determinata si disvela la totalità stessa come il tutto contraddittorio, coerente sviluppo della logica del dominio che trae linfa vitale sin dalle oscure origini del mito. Nel momento stesso in cui il soggetto prende coscienza di sé e si impegna per emanciparsi dal timore e dell’autorità esterna, affermando così la propria individualità e autonomia razionale, proprio con quest’atto di reificazione del dato, del naturale, inizia un lento processo di alienazione

1 M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Biblioteca Einaudi, pag. IX. 2 Ibid. 3 Ibid.

Page 2: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

2

dell’individuo: i rapporti di potere, prima estrinseci all’umanità in quanto soggetta a forze esterne e divine, vengono introiettati nel sempre più complesso apparato sociale, fino a rendere il sistema delle sovrastrutture un tutto organico e olistico, in cui l’individuo è mero ingranaggio sostituibile e, per questo, assolutamente privo di valore.

La “complicità segreta” di mito e Illuminismo è evidente nel momento in cui il primo, un tempo soggiacente allo strapotere dell’Altro-da-Sé, si contrappone ad esso razionalizzandolo: il mito è l’atto con cui il Sé cosciente supera il momento magico, la “falsità sanguinosa”; da una parte la magia esprime già il bisogno del dominio del naturale, ma d’altra parte ancora soggiace ad esso nell’atto della mimesi, dell’identificazione di soggetto e oggetto che si compie nel rituale sciamanico; l’identità che ne deriva e il dominio sul naturale che ne consegue non possono che apparire episodici e asistematici. Il mito, al contrario, è espressione dell’istanza conoscitiva, a sua volta epifenomeno nella ben più profonda e oscura tensione all’autoconservazione: il Sé matura la coscienza del nesso inscindibile tra dominio e sapere, tra descrizione e produzione, tra calcolo e controllo. Il mito omologa, razionalizza, universalizza e instaura, perciò stesso, l’Herrschaft, la signoria mediata del logos. Nel mito, si affaccia l’affermazione del soggetto in quanto membrum della totalità e, al tempo stesso, la liberazione dal naturale è pagata con la nuova sottomissione al collettivo: nello sviluppo del processo razionale e nel passaggio dal mito alla filosofia e, poi, alla scienza, tale giogo si fa sempre più insostenibile e al contempo necessario, in quanto è la stessa identità del soggetto a costituirsi ora nel collettivo e nella totalità; l’atto della liberazione dell’individuo dal dato, l’atto della scissione e mediazione tra il soggetto e l’oggetto si ribalta ab origine “nella sottomissione di entrambi al potere universale, al sistema di dominio, del quale non sono che funzioni”4. Non a caso, il primo gesto del mito, il rituale sacrificale, è violenza imposta alla Natura al fine di spezzare i ceppi del naturale stesso: poiché si scatena la coazione bestiale della violenza volta a negare la Natura, si ricade in un cattivo naturalismo che presenta come suoi caratteri essenziali e permanenti la conflittualità e la strumentalità; la Natura non è affatto un momento superato, ma meramente rimosso, il quale riemerge qualora si voglia additare la “naturalità” di certi eventi, processi o istituzioni prodotti dal logos, oppure quando si descriva una società “naturalmente” antagonista. Dinanzi all’universalità del dominio, l’identità di soggetto e oggetto torna ad essere mediatamente riaffermata come “cattiva uguaglianza”, “uguale fungibilità”. La svolta decisiva nella storia del Sé, l’affermarsi del logos come identità autonoma del soggetto con sé “implica già che quel Tutto è Falso: ‘totalità’ è il fatto che l’orizzonte universale della mediazione è logicamente inclusivo (non lascia spazio a nulla che non possa essere mediato, compreso in concetto) e insuperabile (se non vi fosse, non vi sarebbero soggetto e oggetto), che è cioè un trascendentale che struttura, costituisce e condiziona la storia, le istituzioni, le forme produttive e della cultura. Il lato totalitario dell’Illuminismo è che – come risulta chiaro nel Positivismo – esso consiste in una tautologica autoaffermazione”5. Nell’Illuminismo la liberazione dallo stato di natura è tanto necessaria quanto impossibile, così come il controllo, la sublimazione e finanche la soppressione di istinti e pulsioni naturali sono il necessario sviluppo dell’esigenza di assecondare e alimentare lo stimolo primo, quello dell’autoconservazione6: “e se il progresso dello Spirito non è altro che l’automatismo coatto delle dinamiche del dominio, allora anziché la progredente libertà il progresso è in verità la coazione, la necessità e infine la regressione barbarica”7.

Il fervore mitico, dunque, come matrice del freddo positivismo illuminista: l’Olimpo degli dei greci e la sfuggente skyline dei grattaceli. Nella nascosta dialettica del Sé, ogni conciliazione e falsa e rivela nel suo porsi la verità della contraddizione: così il festino sadico sadiano non è astratta identità, ma corruzione (e, quindi, mediazione) dell’orgia dionisiaca di Babilonia, in cui Nietzsche

4 Ibid., pag XI. 5 Ibid. 6 Esplicito il riferimento a Spinoza, Ethica, Pars IV, Propos. XXII, Coroll.: “conatus sese conservandi primum et unicum virtutis est fundamentum”. 7 Op. cit. nota 1, pag. 21.

Page 3: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

3

vedeva affondare le radici del mito; la ragione strumentale reprime le pulsioni e le trasforma in perversioni e laddove, come nell’”Illuminismo nero” del “divin marchese”, la Natura è additata come il Male, è proprio attraverso la bestialità assolutizzata che la si combatte. L’universale macchina di sofferenza sadiana non è altro che un sistema tra i molti susseguitesi dal sorgere del dominio borghese, così come il suo intellettualismo è esemplare di quel naturalismo deviato pocanzi citato. Il dolore della vittima che Juliette si diverte periodicamente a straziare con i compagni aguzzini non ha più il carattere catartico della sofferenza di Oreste nel teatro attico: la disperata ricerca di consolazione nell’eccesso mostra come i dominatori siano succubi del dominio tanto quanto le innocenti vittime. Così, “nel trattare gli esseri umani come cose non si attua la liberazione delle pulsioni ma si riproduce la totalità senza soggetto della società, del sistema universale del dolore: si rafforza la disciplina sociale mentre la si viola apertamente. [..] L’Illuminismo è insomma un razionalismo irrazionale, un affrancarsi dal mito che non si libera dalla mitologia, di cui condivide la coazione a pensare se stesso e le proprie condizioni d’esistenza come natura e destino. La riflessione è cattiva natura irriflessa; e la mediazione si dà come cattiva immediatezza”8.

Tuttavia, proprio nella contraddizione più aporetica, nel momento fondativo e al tempo stesso culminante della dialettica illuministica, si cela la possibilità del riscatto: la falsità della naturalità del dominio e dell’autoaffermazione della società per classi additano la possibilità di un cambiamento, poiché rivelano “l’evidenza della non necessità della necessità del dominio”9, distruggono il suo apparato categoriale e indicano la possibilità della libertà materiale: libertà attingibile non attraverso una rivoluzione razionalmente predisposta, un socialismo scientifico e reale o un progresso tecnico, bensì compiendo un salto qualitativo, un’utopica redenzione messianica che risolva e concili l’opposizione uomo/natura. Il riscatto del logos passa attraverso l’illuminante abbandono del razionalismo presente e dei suoi schemi ed è, dunque, un evento pensabile, ma non deducibile: è proprio alla luce di queste premesse che la teoria, nell’era della “comunità popolare” nazionalsocialista, si rivela essere l’unica forma di prassi possibile dinanzi all’ultima ideologia della cultura di massa, in cui è la ratio stessa, come mercificazione del sapere colto per primo dal mito, a porsi come idea fissa, vacua ripetizione di caratteri stereotipati. In fondo, “l’Illuminismo ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”.

Mito e sistema

L’ideale dell’Illuminismo, fin dai tempi di Platone, è il sistema: sistema compiuto di conoscenze in grado non solo di prevedere, ma anche di dominare l’esteriorità dello Spirito. Di contro all’animismo magico e alla sua cieca omologazione rituale nell’immaginazione, il mito (nella sua apparente contraddizione col logos) si protende al sapere, mentre il Sé rispecchia se stesso nell’Altro: l’antropomorfizzazione del naturale è proiezione della coscienza ancora dominata dalla Natura e desiderosa di emanciparsi. Tuttavia, nel suo progredire l’Illuminismo giunge ad abbandonare progressivamente la ricerca del significato, dell’essenza, della conoscenza pura: ogni indagine è sdegnata come erezione di idola theatri, siano questi l’animale totemico o l’Idea Assoluta, i quali non fanno che spostare più in alto ed esacerbare la lotta della coscienza contro la Natura; il sapere è ora identificato col “pensiero disponente” e i soggetti “sostituiscono il concetto con la formula, la causa con la regola e la probabilità”10; la fredda formalizzazione logico-matematica del dato reificato si presta così all’eliminazione della contingenza e del significato e, cioè, dell’individualità; il numero, che nella protologia platonica collega le Idee sia coi principi primi dell’Uno e della Diade, sia col mondo empirico, è rimodellato a mero strumento convenzionale nel Positivismo. Nella deduzione del Tutto dal sistema l’empiristica una scientia 8 Ibid., pag. XIV-XV. 9 Ibid., pag. XX. 10 Ibid., pag 13.

Page 4: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

4

universalis baconiana e la razionalistica mathesis universalis leibniziana non presentano alcuna differenza: “unità rimane la parola d’ordine, da Parmenide a Russell. Si continua a esigere la distruzione degli dei e delle qualità”11. Proprio qui sta il principale nodo dialettico dell’Illuminismo stesso: se nella perfetta e razionale unità del sistema, della materia unica, le qualità vengono meno come contingenti, allora nella società come totalità gli individui sono ciò che non è più in-sé, ma per altro, cioè si palesano come mero sostrato rinnovabile e diveniente della struttura del dominio. Il mondo, come gigantesco giudizio analitico e moderno mito cosmico12, si palesa quale matematica riproduzione immediata: “l’unità del collettivo manipolato consiste nella negazione di ogni singolo; è una beffa rivolta a quella società che potrebbe fare dell’individuo un individuo”13. Il mito, in nuce, esigeva l’eliminazione della fede idolatrica e la sottomissione agli dei, così come l’eroe tragico è spinto dal coro ad accettare il verdetto oracolare di νάγκη e Τύχη: l’Illuminismo positivista non può che esigere, in nome dell’onestà, la critica e la distruzione di ogni sistema teoretico come fede, fino alla distruzione di se stesso. La coscienza è così posta come astratta identità di soggetto e oggetto nell’avere, nel produrre, nel consumare un qualcosa che è sì in suo potere, ma che non è penetrato e rimane ad essa estraneo: la materia unica, il sistema, si rivela come il Caos in cui penetra maggiormente non il borghese imprenditore, ma il servitore operaio che, in possesso delle conoscenze per produrre l’oggetto, ma non dell’oggetto stesso, sembra più fedelmente riallacciarsi alle origini del mito.

L’origine del mito svela lo stretto legame che, all’inizio, lo legò alla magia: tale rapporto conflittuale emerge nei caratteri ambivalenti delle divinità solari olimpiche che, sebbene trionfatrici sui Titani, continuano ad esercitare un controllo sul mondo ctonio del Tartaro e dell’Ade; tutto è così connesso ciclicamente, duplice come il Giano romano, e la ripetizione, elemento chiave del divenire naturale, è così riassorbita e rimossa nel prodursi del pensiero mitico. Il soprannaturale si pone come mera complicazione del naturale affatto opposta al materiale e “nel mondo luminoso della religione greca perdura la torbida indistinzione del principio religioso, che nelle prime fasi note dell’umanità era venerato come mana. In forma primaria, indifferenziata, è tutto ciò che è sconosciuto; ciò che trascende l’ambito dell’esperienza; ciò che, nelle cose, è più che la loro realtà già nota”14. Nel momento in cui il singolo prende coscienza del naturale come ciò che incombe, ignoto, su di lui, in quel momento il grido di paura, il sacro brivido che origina il linguaggio, duplica l’oggetto e tenta così un primitivo approccio esplicativo: l’Illuminismo è mera “angoscia mitica radicalizzata”, poiché “mana, lo spirito che muove, non è una proiezione, ma l’eco della strapotenza del reale della natura nelle deboli anime dei selvaggi”15; come il mito, per combattere l’ignoto, identificava il non vivente al vivente, così l’Illuminismo, nella ferma decisione di combattere l’Altro-da-sé come fonte di angoscia, riduce il vivente a non vivente, il fulmine a legge fisica (“l’animismo aveva vivificato le cose, l’industrialismo reifica le anime”16). Ogni oggetto è sdoppiato proprio in quanto rimanda ad altro, è apparenza di un’essenza, è simbolo: la Natura che si ripete è l’anima del simbolico. In quest’ottica, il lavoro è sia il primo che l’ultimo simbolo, in quanto il lavoro del concetto che reifica la natura va di pari passo a quello materiale che la trasforma e la modella: entrambi si fondano sul ciclo delle stagioni, sul giorno e sulla notte, sulla quiete e sull’impresa e nella cadenza lavorativa si riflette, nuovamente, il permanere della costrizione illusoriamente abbandonata. Dalle categorie del Filosofo alla logica di Russell “la forma stessa deduttiva della scienza riflette coazione e gerarchia”17, sempre più intensificate fino all’espulsione del mito e, paradossalmente, della ratio stessa: poiché il meccanismo ripetitivo dell’autoconservazione nella società massificata rischia di venir intaccato dalla massificazione del logos che, pur debolmente, risveglia la coscienza sopita degli oppressi, allora si decide per la sua 11 Ibid., pag. 16. 12 Ibid., pag. 35 e ultra. 13 Ibid., pag. 21. 14 Ibid., pag. 22. 15 Ibid., pag. 23. 16 Ibid., pag. 36. 17 Ibid., pag. 29.

Page 5: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

5

messa al bando; la razionalità della reificazione, fattasi sempre più coerente, giunge a negarsi nel momento in cui rischia di porre in scacco l’irrazionalità del dominio; la razionalità, contenuto di cui l’Illuminismo si presenta come forma, viene meno proprio perché è l’Illuminismo stesso a comprendersi come l’Irrazionale, il supremamente mitico. Ciò che si intravede, nell’argomentazione di Horkheimer e Adorno, è la possibilità che proprio la scelta dell’irrazionalità del dominio, col fanatismo dei nuovi paganesimi totalitari, possa in realtà svelare e palesare il tratto comune tra dominio naturale e dominio sociale del collettivo, spingendo le masse verso quel balzo, quella messianica redenzione invano attesa per secoli: il dominio, che abbandona il mito come vana credenza, si evidenzia come autoctisi nel suo essere l’ultimo mito.

Odisseo: il borghese infelice

La perfida magia incantatrice dell’Illuminismo si afferma con forza dirompente a partire dalla diffusione dei poemi omerici: in essi il nesso dominio-mito-lavoro non assume più un mero valore descrittivo, ma assurge a principio prescrittivo per il reale; opporsi al destino fatale, alla gerarchia del sociale, attira sull’uomo la colpa di hybris e il castigo degli dei. Tuttavia, tale non è il destino esclusivo dei dominati: proprio perché legati all’autoconservazione garantita solo dal sistema, i signori non sono meno schiavi dei lavoratori a cottimo, in quanto la vita di cui essi dispongono è loro offerta come prodotto estraneo, sconosciuto, mai pienamente appagante, pena la rovina sociale: l’ozio è, per un imprenditore in perenne lotta con la concorrenza, il medesimo che l’alcool assunto come viatico per una cirrosi acuta. Odisseo è l’eroe mitico della borghesia: egli è logos ancora oscuro, incatenato alle passioni, e la sua ragione diviene strumentale allo stimolo addotto dalla Natura, antica madre tradita, ma ancora sollecita; ed egli risponde prontamente, rischiando la perdizione e l’oblio dell’Ade. Così, dinanzi al richiamo soave delle Sirene nel canto XII, egli non tentenna, anzi le sfida per ribadire la sua posizione di superiorità mediata: ma tale magnanimità, se ben analizzata, si riduce alle grida e agli strepiti di un re incatenato all’albero della sua nave, a cui è concesso di udire proprio perché impedito ad agire. La stessa situazione si ripresenta, a secoli di distanza, nelle pagine dello Ierone di Senofonte, in cui il tiranno siracusano lamenta sulle spalle di Simonide l’impossibilità di godere di alcunché: “lo schiavo resta incatenato nel corpo e nell’anima, il signore regredisce. [..] La maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione”18.

In realtà, già nell’Iliade la fusione delle varie leggende stratificatesi nel corso dei secoli aveva portato alla creazione di figure a metà tra la preistoria mitica e la storia illuministica: Achille è l’eroe volubile che si sottomette alla necessità di una spedizione contro l’atto sacrilego di Paride e, al tempo stesso, si lascia andare ad un ozio profano dinanzi al ratto di Briseide. Tuttavia, la cesura tra Achille e Odisseo è radicale: questi si distacca definitivamente e a più riprese dalla soggezione alla Natura, sfida Poseidone nel suo regno, i flutti ingannatori, e non esita a erigere a suo strumento il dolo reiterato e machiavellico; al contrario, Achille non tenta mai di sottrarsi al suo destino, seppur conscio che la spedizione achea equivarrà per lui alla morte. Odisseo è il Sé che diviene pienamente cosciente della sua identità e della sussistenza di essa indipendentemente dalla Natura: l’intero poema è una continua riaffermazione di tale identità, quasi che il tentativo di sottrarsi al pericolo possa ribaltarsi nella propria autonegazione. L’abbandono di Achille alla Sorte è abissalmente distante dalla calcolata accettazione del rischio fatta propria da Odisseo; e sistematicamente, in questa fenomenologia in nuce, il re d’Itaca abbatte, una dopo l’altra, le figure superstiti degli antichi miti, fino a scongiurare con l’inganno l’ira del dio marino. Dunque, il Sé è libero solo nella costrizione di doversi cimentare nella lotta contro la Natura: “il Sé non costituisce

18 Ibid., pag. 43.

Page 6: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

6

la rigida antitesi alla natura, ma si costituisce, nella sua rigidezza, solo in questa antitesi, unità solo nella molteplicità di ciò che quell’unità nega”19. In un primo momento, il Sé si relaziona al dio/Natura dal quale si è scisso nel sacrificio: l’immolazione della vittima prescelta è inganno oggettivo che illude il soggetto di poter dialogare col divino, tramite l’operato dello stregone che officia il rito. Lo stregone è, così, la prima formula in cui si esprime il dominatore, l’uomo che si conosce come garante del patto con la potenza estranea e che, dunque, riproduce il dominio di tale potenza imponendo ai fedeli l’entusiastica autoimmolazione; non a caso, l’uso del sacrificio è sopravvissuto e sopravvive tuttora, spesso sublimato, alla sua pratica necessità, e persiste in quanto strumento interiorizzato del dominio. Ciò che la coscienza primitiva attende dal sacrum facere è l’emergere del Sé identico a se stesso nella nientificazione dell’altro: la vittima non è offerta votiva al dio, giacché nel momento in cui lo sciamano protende il rudimentale pugnale, essa incarna il dio stesso che si immola. Quando il Sé diviene cosciente di essere lui stesso matrice della reificazione del dato, ritualizza il sacrificio facendo della propria vita l’affermazione dell’identità, una complessa macchina di abitudini, usanze, cerimonie in cui la coscienza viene a mortificarsi: “è quel che c’è di vero nel celebre episodio della mitologia nordica secondo il quale Odino pendeva dall’albero come sacrificio a se stesso”20. In altre parole, “il dominio dell’uomo su se stesso, che fonda il suo Sé, è virtualmente ogni volta la distruzione del soggetto al cui servizio essa ha luogo, poiché la sostanza dominata, oppressa e dissolta dall’autoconservazione, non è altro che il vivente, in funzione del quale soltanto si definiscono i compiti dell’autoconservazione, e che è proprio ciò che si tratta di conservare”21.

L’eroe omerico, Odisseo in particolare, esplicita tutti questi elementi nella sua costante rinuncia alla felicità, in quanto impulso universale e indiviso: la promessa della felicità esigerebbe la sottomissione, la possibilità dell’imprevisto, l’abominio della rinuncia di Sé; poiché il Sé è concretamente posto solo nella continua relazione con la Natura, l’intera vita deve conformarsi a questa dialettica incessante, cosicché la fuga dal sacrificio in nome del Sé si rivela essere sacrificio del Sé introiettato. Di fatto, la contraddizione è insanabile: la rinuncia implica che lo scambio sarà sempre ineguale, ma il tentativo di sottrarsi allo scambio, e dunque alla rinuncia, porta con sé una perdita di felicità per il soggetto ancora maggiore. Sfuggire al sacrificio completo della propria coscienza esige un continuo riaffermarsi del soggetto per mezzo di sacrifici parziali: “anche Odisseo è un sacrificio: il Sé che si domina continuamente e perde così la vita che salva e ricorda solo come peripezia”22. In questo senso l’inganno è ciò che permette di mantenersi all’interno dei confini del sacrificio senza consumarlo mai veramente, è cioè il tentativo dell’astuzia del Sé, fisicamente debole, di rendersi universale, di contro all’apparente ineluttabilità del destino: e ciò avviene nell’imitazione pedissequa della natura, in cui “la ratio che scaccia la mimesi non è solo il suo opposto. E’ essa stessa mimesi: mimesi del morto. Lo spirito soggettivo, che dissolve l’animazione della natura, domina la natura disanimata solo imitando la sua rigidezza e dissolvendo come animistico anche se stesso”23. Il risultato finale è sintetizzabile in una parola: alienazione. Alienazione dei compagni di Odisseo, schiavizzati e sacrificati alla sua sete di conoscere se stesso, stimolo che si evidenzia come la matrice che darà origine al noto motto delfico; alienazione di Odisseo, che in ogni gesto in cui tenta di affermarsi si perde inesorabilmente. Ciò emerge, in particolar modo, nell’incontro con alcune figure nel lungo viaggio verso Itaca: i Lotofagi; Polifemo; Circe; Tiresia.

I Lotofagi rappresentano l’umanità più oscura, il mito primigenio, la preistoria incontaminata della coscienza: essi soggiacciono all’influsso di potenze ctonie e praticano l’agricoltura e la raccolta (tecniche non immediatamente connesse con la produzione), quasi avulsi da un mondo violento che pare completamente altro dalla loro civiltà; tuttavia, ad essi peculiare è il

19 Ibid., pag. 54. 20 Ibid., pag. 61. 21 Ibid., pag. 62. 22 Ibid. 23 Ibid., pag. 64.

Page 7: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

7

dato che lo iato tra soggetto e oggetto è ricusato tramite l’assuefazione all’abuso del fiore di loto, a cui da Omero sono attribuite proprietà allucinogene. Così la vita dei Lotofagi è tutta spesa nell’abbandono ad una felicità anelata, nel vano tentativo di riportarsi ad un’astratta identità con la Natura: poiché il Sé è il prodotto della differenziazione di soggetto e oggetto, allora tale coscienza della propria individualità è reiteratamente soppressa nell’oblio del fiore narcotico; “ma chi di loro mangiò del loto il dolcissimo frutto, / non voleva portar notizie e indietro tornare, / ma volevano là, / tra i mangiatori di loto, / a pascer loto restare e scordare il ritorno”24. Odisseo, l’eroe dell’assoluta affermazione del Sé, non soggiace a tale inganno, “mera parvenza di felicità, ottuso vegetare, miserabile come la vita degli animali”25, che in quanto oblio non è che povera assenza di infelicità, lontana dalla positiva verità: contro le seducenti argomentazioni dei Lotofagi, che promettono l’illusione dell’utopia, Odisseo fa valere la concretezza del suo viaggio verso l’utopia realizzata e forgiata nelle sofferenze e nei dolori. Così egli ritorna alle veloci prore achee, trascinando i compagni piangenti e imploranti.

La seconda figura rilevante in cui si imbatte il re d’Itaca è quella del gigante Polifemo: il monocolo individua un’età successiva a quella ancestrale dei Lotofagi, un periodo barbarico dominato dalla caccia e dalla pastorizia e imperniato sulla prima istituzione del dominio, la famiglia patriarcale. Tuttavia, tale istituzione non ha ancora abbastanza forza per imporre un’organizzazione metodica del lavoro e della proprietà privata, oltre ad un’unicità ai vari nuclei familiari, che vivono così dispersi e frammentati in una società di stampo tribale. Di primo acchito, questa sembrerebbe una società della libertà innocente, l’immagine dello stato di natura: al contrario, il prezzo pagato per l’assenza di nomoi è la stoltezza e l’asistematicità del pensiero; così, dinanzi all’inganno di Odisseo, Polifemo non può che vanamente opporre la sua imponente e impotente forza bruta. Il rapporto tra questi due è dialogico, e rappresenta la lotta tra la preistoria delle potenze elementari e terrestri, incarnate dal padre del monocolo, Poseidone, e gli dei solari della nuova religione del logos, incarnati da Zeus, nume protettore di Odisseo. Il sacrificio, che il cannibale ciclope vorrebbe officiare divorando ad uno ad uno gli intrusi, è profanato e celebrato al tempo stesso: Polifemo celebra l’orgia sacra ubriacandosi e cade così preda dell’astuzia umana, uscendone accecato. Tuttavia, è proprio in questo momento che all’eroe è richiesta l’immolazione, giacché se vuole conservarsi come Sé deve al tempo stesso rinnegarsi come tale, e l’orgoglioso δυςςεύς si annichilisce appellandosi Ο δείς: “il soggetto-Odisseo rinnega la propria identità [..] e si conserva in vita assimilandosi all’amorfo. Egli dice di chiamarsi Nessuno poiché Polifemo non è un Sé, e la confusione di nome e cosa impedisce al barbaro ingannato di sfuggire alla trappola che gli viene tesa: il suo grido di vendetta rimane magicamente legato al nome di quello di cui vuole vendicarsi, e proprio questo nome condanna il grido all’impotenza”26. Ciononostante il prezzo da pagare è troppo alto, poiché minaccia di rigettare completamente l’eroe nel grembo della necessità naturale: Odisseo per salvarsi dalla trappola della sua stessa ratio cede all’impulso di schernire il ciclope e di rivelargli alfine il proprio vero nome, sancendo così la propria condanna ad anni di tormenti per opera dell’oscuro Poseidone. Di nuovo, la parola e l’astuzia del nome assumono una valenza magica e simbolica e prevalgono sull’identità razionale del Sé appena costituitasi, in quella che si esprime come una “dialettica dell’eloquenza”.

Lo scoglio successivo sul cammino del prode comandante è il remoto dominio della maga Circe: immortale potenza ancestrale, Circe impersonifica il nume che non si oppone più tramite la forza al Sé, quanto piuttosto lo seduce e lo ammalia per perderlo nell’abisso delle passioni; l’ambiguità della sua femminilità spinge al regresso verso l’istinto primordiale, verso il fascino che è al tempo stesso impotenza assoluta. Circe è lo specchio, si potrebbe azzardare, di Demetra: incarna il mito stesso, la preistoria nella sua totalità, e la metamorfosi dei compagni di Odisseo in maiali, animali sacri a Demetra, ne è un possibile indizio. Il primo carattere di questa cacofonia di impulsi è la promiscuità: i compagni di Odisseo regrediscono a bestie nel tentativo di riproporre il 24 Odissea, IX, 24 sgg. 25 Op. cit. nota 1, pag. 70. 26 Ibid., pag. 74.

Page 8: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

8

carattere dell’orgia coinvolgendo una dea ambigua, priva di aspetti naturali determinati; perciò sono condannati alla promiscuità della vita miserabile nel fango, tramutati in porci, in cui l’odorare si riduce all’annusare. Come secondo carattere, la promessa della felicità a cui essi cedono li priva, come negli episodi dei Lotofagi e di Polifemo, della loro autonomia. L’episodio di Circe rappresenta il tentativo estremo con cui il mito tenta di avvolgere e ricomprendere la neonata identità del Sé: alla liberazione dagli istinti promessa dal logos la maga risponde con l’offerta suprema, l’immortalità, che garantirebbe la sottomissione irrevocabile di Odisseo alla ripetizione naturale, alla ciclicità del Tempo a cui il nome stesso della dea allude; pur tuttavia, la sua figura è molteplice, sfaccettata, a metà tra il mito e la ratio. Circe, infatti, non sfugge alla logica di cui si fa portatrice, anzi nell’episodio del poema forse ne è la principale vittima: i compagni di Odisseo, ancora relegati alla preistoria, cadono sì inermi ai suoi piedi, ma Odisseo, suo vero obbiettivo, non cede dinanzi alla sua malia e la fronteggia, forgiato da anni di travagli; in questa istanza, l’assoluta potenza della maga si infrange ed essa si sottomette all’eroe, dichiarando la vittoria del Sé umano sulla Natura divina, soggiogata e infine ricompresa nello Spirito. Questo perché, a differenza che negli episodi precedenti, Circe non viene subito ingannata, né tantomeno danneggiata: la sua rinuncia spinge Odisseo a legarsi volontariamente a lei, segnando il passaggio e l’unione, anche se momentanea, tra mito e logos. La natura duplice di Circe, già evidenziata nel suo essere figlia del Sole e nipote dell’Oceano, indistinzione di fuoco e acqua, si palesa: proprio come non annichilisce totalmente l’autonomia delle sue vittime, ma la fa regredire, così essa stessa si depotenzia nel momento in cui rinuncia alla propria autonomia e superiorità per potersi congiungere liberamente ad Odisseo, preferendo alla libertà dell’etéra la promessa della sicurezza della moglie. Infatti “per concedere il piacere essa pone la condizione che il piacere sia stato disdegnato: l’ultima etéra si rivela come il primo carattere femminile”27. E così anch’essa, la più aggraziata e subdola delle tentatrici omeriche, finirà vittima del dolo di Odisseo, che alfine le preferirà il talamo nuziale e l’abbandonerà, ormai ombra benigna dell’altera dea dei primi versi: non a caso, Omero pare far intendere che il prezzo pagato da Circe per l’amore verso l’eroe acheo sia stata la riduzione dei suoi poteri alla possibilità di oscure predizioni. Dopo quest’episodio, il ruolo della donna sarà sempre più relegato a quello di un’inflessibile signora prigioniera del suo gineceo: non a caso, terribile sarà la punizione che Telemaco infliggerà alle ancelle della madre infedeli, che per amor di libertà si erano concesse ai Proci.

Dalle auree spiagge della seducente Circe, Odisseo precipita poi nell’oscurità eterna dell’Ade: quivi aleggia l’ombra di Tiresia, un tempo indovino della spedizione achea contro Ilio. Lo spettacolo del mondo infero è una sfilata dei miti, sconfitti e umiliati, quale fu quella di Vercingetorige prigioniero di Cesare. Le prime figure che si accostano ad Odisseo sono quelle matriarcali, potenze ctonie esiliate dagli dei solari: le antiche eroine dei tempi ancestrali e, poi, la propria madre. Odisseo, ormai forgiato nella nuova civiltà del logos maschile, la tratta con distacco e le preferisce Tiresia, il quale promette l’utile per la vita in cambio del sangue della vittima sacrificale, solo viatico in grado di dare forma finita e parola alle flebili ombre dei defunti, seppur per breve tempo; i miti si rivelano nella nekyia per quello che sono, e cioè infausta e debole apparenza. L’astuto e psicologicamente scisso re d’Itaca che impartiva consigli agli Achei nell’Iliade è ora il prototipo perfetto della nuova ratio borghese, tesa alla strumentalità e al possesso. L’ultimo atto della tragica vicenda con Poseidone sarà per Odisseo un episodio comico: un sacrificio dovrà essere offerto al dio elementare solo laddove un abitante scambierà un remo con un ventilabro. Così il riso, il riso che sarà fatto proprio da Aristofane per dissacrare una polis idealizzata, è lo strumento con cui il Sé recide gli ultimi legami col passato mitico e si erge in sovrana solitudine sulla Natura soggiogata: e il riso può far ciò in quanto sospensione, in quanto crasi col passato e suo ribaltamento; la nostalgia della patria che anima l’intera Odissea ha il suo farmacon nella risata. Come giustamente sottolineano gli autori, “patria è l’avvenuto scampo”28:

27 Ibid., pag. 79. 28 Ibid., pag. 84.

Page 9: Mito e Illuminismo: le radici del dominio del collettivo ... · PDF fileCiò che emerge dalle primissime pagine di Dialettica dell’Illuminismo è il tentativo, meticolosamente condotto,

9

dopo il breve dialogo con Tiresia, Odisseo rifugge il tetro luogo di dolore per non farvi più ritorno. All’Ade ora sono destinati solo le ombre degli antichi miti o coloro che, come il pastore Melanzio, osino di nuovo volgersi ad un passato che non è più possibile né restaurare né cantare: nuovi odi si elevano ad Itaca, dopo la strage dei Proci, per il ritornato e ritrovato re Odisseo, ultimo degli eroi mitici e primo dei signori borghesi.