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MIMESIS / ETEROTOPIE N. 311 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna COMITATO SCIENTIFICO Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

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MIMESIS / ETEROTOPIE

N. 311

Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina)Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese)Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza)Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano)Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo)José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid)Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis)Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

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MITOLOGIADELL’INTEGRAZIONE

IN SICILIAQuestioni teoriche e casi empirici

a cura diMarco Antonio Pirrone

MIMESIS

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) [email protected]

Collana: Eterotopie, n. 311Isbn: 9788857531694

© 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383Fax: +39 02 89403935

Realizzato con il contributo dei fondi FFR 2012-2013 prof. Marco Antonio Pirrone - Dipartimento Culture e Società - Università degli Studi di Palermo

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INDICE

QUESTO LIBRO 7di Marco A. Pirrone

SAGGIO INTRODUTTIVO

INTEGRAZIONE: GENEALOGIA E CRITICA DI UN CONCETTO 15di Marco A. Pirrone

L’INTEGRAZIONE: DA CONCETTO A PROBLEMA, DA PROBLEMA A MITO 63di Mario G. Giacomarra

IL DESIDERIO DI «SFRUTTARSI»: RIFLESSIONI EPISTEMOLOGICHE SU POSIZIONAMENTO, LAVORO EMOZIONALE E RIFLESSIVITÀ NELL’INCONTRO TRA RICERCATORI E (S)OGGETTI DI RICERCA 93di Martina Lo Cascio e Cirus Rinaldi

MARGINALIZZAZIONE E RESISTENZA DEI MIGRANTI

UNA RIFLESSIONE CRITICA SUI PROCESSI DI INTEGRAZIONE DEI RICHIEDENTI ASILO NEL CARA DI MINEO 123di Antonella Elisa Castronovo

STORIE DI DONNE MIGRANTI IN SICILIA.RAZZISMI, SCELTE CONFINATE E INCLUSIONI DIFFERENZIALI NEL MERCATO DEL LAVORO 153di Alessandra Sciurba

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE ROM 189di Michele Mannoia

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L’INTEGRAZIONE: DA CONCETTO A PROBLEMA, DA PROBLEMA A MITO

di Mario G. Giacomarra*

1. Le migrazioni oggi e il ruolo motore delle comunicazioni

I movimenti di popolazioni sono fenomeni che da tempi remoti carat-terizzano l’essere stesso delle società umane: il bacino del Mediterraneo, ad esempio, è stato da sempre considerato uno spazio di movimento, come lo defi nisce Fernand Braudel con riferimento al mondo greco, latino e me-dievale; tra Otto e Novecento quello spazio di movimento si allarga fi no a toccare dimensioni planetarie: qui si collocano le grandi migrazioni inter-continentali dall’Europa verso le Americhe e le altrettanto grandi migra-zioni extracomunitarie dall’Est e dal Sud del mondo verso Occidente. Su queste ultime non incidono solo squilibri demografi ci fra aree diverse del mondo, fattori di espulsione (push factors) o effetti-spinta su popolazioni dei paesi in via di sviluppo, e neppure solo fattori di richiamo (pull factors) da parte dei paesi economicamente avanzati. Ragioni demografi che e squi-libri territoriali, da soli, non è detto perciò che riescano sempre ad attivare movimenti di popolazioni se mancano altre condizioni, oggi riconducibili in primo luogo all’estendersi delle reti di comunicazione: comunicazioni fi siche, ovvero strade e trasporti aerei e marittimi; comunicazioni simbo-liche, gli old e i new media. Il sistema dei media opera ormai da tempo ad un raggio via via più ampio e fi nisce con l’inserire quei paesi in un immaginario collettivo, scavalcando confi ni secolari, introducendo valori e modelli di comportamento “occidentali” e facendo penetrare nuovi tratti culturali in paesi dove spesso neanche esistono le pre-condizioni della mo-dernizzazione.1

Accanto ai media altri vettori dei moderni processi migratori operano ormai da tempo: incorporazione economico-fi nanziaria attivata dai paesi

* Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento “Culture e Società” dell’Università degli Studi di Palermo.

1 M.G. Giacomarra, Migrazioni e identità. Il ruolo delle comunicazioni, Palumbo, Palermo 2000.

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a sviluppo avanzato con interventi di promozione dello sviluppo massic-ciamente sostenuti; decentramento delle produzioni, aiuti a fondo perdu-to, prestiti agevolati… altrettanti interventi con i quali paesi inizialmente estranei l’uno all’altro entrano in contatto attivando snodi commerciali, trasporti, scambi e intermediazioni fi nanziarie. Altri vettori di rilievo sono i processi di scolarizzazione attivati nei paesi del Terzo Mondo, parti inte-granti dei programmi di cooperazione internazionale, dimensionati su con-tenuti e modelli di formazione europei o nordamericani; a parte le scarse prospettive d’occupazione in loco, come si è avuto modo di verifi care in più occasioni, questi ultimi tendono a provocare una sorta di salto simbo-lico dall’arretratezza dei paesi originari alla modernità dei paesi avanzati: che riescano a diplomarsi o a laurearsi, i giovani di quei paesi fi niscono col trovare nelle società occidentali, oltre a migliori condizioni di vita, le realtà dove svolgere attività lavorative adeguate alle professionalità acquisite.

Non ci vuol molto insomma a comprendere come i moderni processi migratori appaiano sempre meno attivati solo da ragioni “strutturali” e sempre più collegati e promossi da meccanismi innanzitutto “culturali”, connessi alla comunicazione del simbolico con la diffusione di un comune immaginario collettivo; l’accostarsi sul quel piano di popolazioni diverse per ambienti, economie e sistemi sociali innesca a sua volta processi a cate-na, a partire dall’urbanizzazione e fi nire col trasferimento nei paesi avanza-ti dove è dato intravedere adeguate prospettive di benessere. La tv italiana da anni è di casa tra albanesi e tunisini e non sono poche le testimonianze raccolte tra i profughi del Canale di Sicilia, avidi divoratori di televisioni occidentali, che danno un’idea di quali effetti fi nisca col produrre ciò che parrebbe un “innocente” consumo di immaginario.

2. Dall’immigrazione all’integrazione

I modi secondo cui interagiscono “culture in contatto” si possono ri-condurre sostanzialmente all’assimilazione, alla convivenza o all’integra-zione, tutti e tre nel corso degli anni oggetto di politiche migratorie va-riamente esitate. L’assimilazione rimanda ad un processo di inserimento degli immigrati nella società ospite la quale li spinge a rinunciare ai tratti culturali originari, facendoli diventare in qualche modo «americani con gli americani e francesi con i francesi».2 È quanto può essere accaduto nella grande emigrazione europea verso le Americhe, quando italiani, olandesi

2 Ibid.

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e polacchi venivano spinti ad entrare nella grande insalatiera etnica del Melting Pot, processo diffi cile e doloroso perché portava a spogliarsi della propria identità per acquisirne una del tutto nuova ma spesso fallimentare perché, quando non riesce in pieno, ingenera le tristi realtà dei quartieri-ghetto, le Little Italies o le China Towns tra le più note. La convivenza rimanda a forme di interazione frequenti e positive nelle prime fasi di con-tatto fra portatori di culture diverse, ma che possono diventare a rischio col passare del tempo, allorché si generano confl itti e vengono meno le anti-che solidarietà. È quanto può essere accaduto fra gruppi etnici rassegnati a convivenze spesso forzate e pronte a esplodere quando vengono meno determinate condizioni d’ordine politico, economico o culturale: è il caso della ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo passato. La convivenza sembra rientrare anch’essa fra le soluzioni perdenti, soprattutto quando è l’esito di processi mal riusciti, promosse e favorite da una parte, malamente sopportate dall’altra. Del resto, come possono convivere culture che non riescono a comunicare e a condividere alcunché? Le periodiche esplosioni del disagio maghrebino nelle banlieux parigine e di quello pakistano nei sobborghi londinesi costituiscono fenomeni signifi cativi e fanno pensare: a non voler entrare nel modo di operare delle culture, il multiculturalismo e il relativismo culturale da cui trae ispirazione fanno correre il rischio che diversi nuclei di migranti fi niscano col ghettizzarsi e contrapporsi.

Perché si superi lo stato di convivenza confl ittuale non rimane che fare appello all’esigenza di attivare il terzo modo di vivere in contatto fra sog-getti di culture diverse: è l’integrazione, con conseguente appello all’in-tercultura, la quale parte dal moltiplicarsi dei processi di interazione, la goffmaniana “reciproca infl uenza”. È signifi cativo che le interazioni di gruppo e le “interazioni quasi-mediate” attivate dai media siano esiti della comunicazione: da qui il bisogno che si attivi e si diffonda una sempre più ampia comunicazione interculturale che contribuisca a promuovere società non solo multiculturali ma prima ancora interculturali, con diverse culture che interagiscono, comunicano e si meticciano arricchendosi scambievol-mente. Di fronte a squilibri incolmabili fra Nord e Sud del mondo, se è la comunicazione a mettere in moto i recenti fl ussi migratori, è ad essa che si fa appello per avviare a soluzione i problemi che ne discendono.3

Vediamo ora di procedere ai possibili approfondimenti di un concetto quale quello che qui abbiamo introdotto. Che cosa dobbiamo intendere per integrazione? Notoriamente è una parola buona per molti usi del parla-re quotidiano, ma nei classici della sociologia il concetto non è per nulla

3 C. Giaccardi, La comunicazione interculturale, Il Mulino, Bologna 2005.

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defi nito e genera ambiguità soprattutto quando si connette al concetto di identità; per Durkheim, ad esempio, è uno stato che concerne l’essere stes-so della società ovvero la condizione d’esistenza del sistema sociale; per diversi autori, a loro volta, l’integrazione è

lo stato variabile di una società... caratterizzato dalla tendenza e disponibili-tà costanti, da parte della gran maggioranza degli individui che la compongono, a coordinare regolarmente ed effi cacemente le proprie azioni con quelle degli altri individui a diversi livelli della struttura della società stessa... facendo regi-strare un grado relativamente basso di confl itto.4

Se invece ci riferiamo alla realtà delle migrazioni, all’inserimento di nuclei di popolazioni migranti in società ospiti, si coglie una seconda ac-cezione che tende a privilegiare la dimensione processuale: dal sistema al processo, è il caso di dire con Luis Hjelmslev. In questa prospettiva, l’inte-grazione viene intesa come

il processo con cui una parte della realtà sociale viene... destinata a quella realtà stessa... a cui tende per esigenza di crescita o per creatività culturale... Si ha così la costruzione di contesti, e di eventi in essi, che realizzano ed espan-dono la socialità dell’uomo.5

Un’integrazione intesa appunto come processo, non stabile o mecca-nicamente orientata verso esiti predefi niti, ma dinamica e in ogni caso problematica; da qui la necessità funzionale dell’integrazione per cui ogni sistema sociale tende all’equilibrio delle singole parti e a una loro integra-zione progressiva.

Questo stato di cose vale particolarmente per la realtà sociale degli im-migrati considerato che essi vivono una doppia esigenza: farsi accettare dalla popolazione ospite di cui tendono perciò ad adottare abitudini, co-stumi e lingua; non rinnegare e perciò continuare a vivere il loro passato praticando le tradizioni condivise con i propri corregionali. A favore della tendenza all’isolamento degli immigrati, piuttosto che ad una loro progres-siva integrazione, depone la diversa collocazione sul piano spaziale dei loro insediamenti abitativi, denotando così stati di profonda marginalità:

Le favelas, le bidonvilles e le borgate di periferia rifl ettono la grande mar-ginalità a livello sociale, al tempo stesso economica, politica e territoriale... I

4 L. Gallino, Dizionario di Sociologia, Utet, Torino 1978.5 A. Scivoletto, Integrazione, in Nuovo dizionario di sociologia, San Paolo, Milano

1987.

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quartieri degli immigrati rifl ettono, in tutte le città del mondo, la marginalità politica e culturale non meno di quella economica.6

Un concetto problematico

Procediamo lungo la linea tracciata approfondendo un complesso di questioni già intraviste ma fi nora poco o punto problematizzate, per com’è invece necessario.

L’integrazione è uno stato della società in cui tutte le parti sono saldamente collegate tra loro e formano una totalità delimitata rispetto all’esterno. Parti della società sono i singoli individui in quanto membri della comunità sociale, le famiglie, i ceti, i gruppi, le classi, gli strati, le associazioni, le unioni e i par-titi nonché i diversi sottosistemi specializzati nello svolgimento di determinate funzioni, come ad esempio i sistemi dell’economia, della politica, del diritto, della scienza, della medicina, dei media e della religione.7

Nello specifi co, per integrazione sociale è da intendere un processo at-traverso il quale gli individui diventano parte integrante di un sistema so-ciale, aderendo ai valori che ne defi niscono l’ordine normativo:

Sul piano microsociologico, [l’integrazione] è una funzione del processo di socializzazione, consistente nella formazione della personalità sociale dell’in-dividuo attraverso la trasmissione dei modelli culturali e di comportamento dominanti, cui provvedono la famiglia, la scuola e i gruppi primari. Sul piano macrosociologico, in quello che è l’approccio struttural-funzionalista di Tal-cott Parsons, è un prerequisito del sistema sociale, volto ad assicurare legami stabili fra i suoi membri mediante il rafforzamento dei meccanismi di controllo sociale.8

Se teniamo distinte le società cosiddette primitive e le tradizionali da quelle moderne, in seno all’integrazione sociale, per come la intende Münch, ne vengono individuate una economica, una politica e una cultura-le, tutte orientate verso un’integrazione sistemica. Costituiscono problemi irrisolti, è il caso di dire, l’integrazione solidaristica e l’integrazione siste-mica, in riferimento al quadro dei sistemi internazionali: precisiamo subito però che in questa sede ci occupiamo in primo luogo di integrazione cul-

6 Ibid.7 R. Münch, Integrazione sociale in Enciclopedia delle scienze sociali, IV, Trecca-

ni, Roma 1994.8 Ibid.

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turale, con le possibili connessioni con quella sociale, e prima ancora della cosiddetta Communicative Integration, come viene comunemente intesa e come vedremo meglio più avanti, avviandoci alle conclusioni.

Quanto all’integrazione culturale, appunto, le due forme di integrazione che la precedono (l’economica e la politica) appaiono di grande portata possono dunque adattarsi a risolvere questioni connesse all’integrazione culturale. Soluzioni è dato trovare infatti solo se le due vengono a col-locarsi sul piano dell’unità culturale individuabile in seno a ogni società data dove, al posto dello “scambio economico” e della “coercizione poli-tica”, subentra fi no a farsi dominante un’intesa speciale fondata su ragio-ni universalmente condivise. La prospettiva di una semplice integrazione culturale non basta insomma se è dato segnalare gravi carenze nelle for-me di integrazione dianzi richiamate per il fatto di trascurare solidarietà e appartenenza a determinati gruppi, caratteri essenziali dell’integrazio-ne sociale. Carenze di integrazione e limiti interpretativi si manifestano ampiamente nell’incapacità di fornire risposte adeguate a questioni come quelle dei confl itti etnici e dei nazionalismi con tutti i problemi connessi: da qui l’esigenza di far riferimento ai tratti più signifi cativi di una qualche prospettiva solidaristica se si vuole cogliere in tutta la sua complessità il problema dell’integrazione nelle società moderne.

Il più noto “approccio solidaristico” vien fatto risalire a Émile Durkheim il quale intende appunto lo sviluppo della società moderna in termini di mu-tamento strutturale della solidarietà: dalla solidarietà meccanica alla solida-rietà organica, appunto. La concezione durkheimiana si rifà a sua volta a una linea di pensiero che va da Jean Jacques Rousseau a Henri de Saint-Simon e a Auguste Comte: nel Contratto sociale Rousseau attribuisce l’origine dei mali della società a uno sviluppo sfrenato dell’individualismo ed essa è de-stinata a disgregarsi se non si è in grado di garantirne un’adeguata coesione attraverso un rinnovato patto sociale da cui origina una sempre nuova comu-nità di cittadini. Durkheim, da parte sua, precisa che il passaggio dalla coesi-stenza di gruppi tribali alla cooperazione di gruppi professionali nelle società complesse, nell’estendersi della rete dei rapporti di scambio, opera un pro-fondo mutamento nei rapporti sociali; la divisione del lavoro riceve impulso dal crescere della popolazione, incrementando le dinamiche sociali via via che quantità crescenti di soggetti si trovano a competere in spazi limitati per risorse sempre più scarse: se ne deduce che il crescere della divisione del la-voro costituisce la sola strategia vincente per la sopravvivenza della società.9

9 É. Durkheim, De la division du travail social, Alcan, Paris 1893; trad. it. La divi-sione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1962.

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In questa direzione va fatta un’ulteriore precisazione, mettendo Durkheim di fronte a Ferdinand Tönnies: il primo coglie un profondo mu-tamento strutturale nel passaggio dalla solidarietà meccanica a quella or-ganica e delinea un binomio analogo a quello formulato dal secondo che della distinzione tra Gemeinschaft e Gesellschaft fa una sorta di bandiera. È paradossale però che i due sociologi collochino su opposte prospettive i concetti di riferimento: per Tönnies la comunità – corrispondente alla durkheimiana solidarietà meccanica – è da ritenere «una totalità organica dotata di vita propria»; al contrario, la società – accostabile alla solidarietà organica – è data da un insieme complesso di elementi che stanno in rap-porto reciproco tra loro senza che però costituiscano unità.10 Simile diver-sità indica come Durkheim più di Tönnies «riconosca alla moderna società basata sulla divisione del lavoro una ben maggiore capacità di integrazione sociale»; la solidarietà meccanica, propria delle “comunità primitive” si basa su omogeneità, prossimità e comunanza di vita; la solidarietà organi-ca, basata invece sulla divisione del lavoro, procede per continui processi di differenziazione delle componenti sociali in una dipendenza reciproca le une dalle altre.11

La prospettiva della “integrazione solidaristica” trova ulteriori linee di sviluppo in Talcott Parsons: le sue analisi delle società moderne pongono al centro i mutamenti strutturali e a caratterizzarle non è la scomparsa della “comunità sociale”, man mano che si differenziano i sistemi funzionali, perché a diffondersi e a imporsi è tutta una capacità di integrazione della comunità sociale come carattere fondante delle società complesse.12 Lungo questa direzione molti sociologi anglosassoni conducono ricerche sui pro-cessi d’integrazione col diffondersi del riconoscimento dei diritti, mentre in USA non mancano ricerche sul disgregarsi della società a fronte del diffondersi dell’individualismo: dal convergere dei contributi nasce il co-siddetto «movimento comunitaristico» in seno al quale si coltiva e si porta avanti l’idea centrale del «rinnovamento della società civile come fulcro dell’integrazione della società moderna».13

10 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Curtius, Berlin 1887; trad. it. Comu-nità e società, Comunità, Milano 1963.

11 R. Münch, op. cit.12 T. Parsons, Teoria sociologica e società moderna (1967), Ed. Comunità, Milano

1971.13 T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1964), Einaudi, Torino 1976.

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L’integrazione come problema

Il costituirsi dei moderni Stati nazionali mette in evidenza la loro ca-pacità di integrare genti e gruppi etnici diversi, unifi care regioni e paesi, mettere insieme movimenti religiosi e minoranze linguistiche: processi che si sviluppano pacifi camente adottando modelli comuni di diritto, forme condivise di amministrazione centralizzata, lingue nazionali e sistemi edu-cativi unitari. I processi di integrazione che così si mettono in atto, a parte le eventuali azioni belliche condotte contro stati esteri, contribuiscono alla periodica ricomposizioni dei confl itti dentro i confi ni di un Paese. Il costi-tuirsi delle unità nazionali risulta da una sorta di “colonizzazione” di re-gioni, etnie e lingue periferiche, deboli e marginali, la quale viene condotta dalle regioni forti del Paese le cui popolazioni, etnie e lingue agiscono operando da posizioni centrali: i movimenti separatistici nei Paesi Baschi e in Catalogna ne offrono conferme e in Francia l’integrazione nazionale fi nisce col determinare il dominio del centro sulla periferia, costituita da regioni diverse per lingua e cultura, com’è il caso della Provenza con la sua antica langue d’oc, della Normandia o della stessa Lorena.

Allargando la visuale all’intero pianeta, non c’è dubbio che la comunità civile più avanzata sia stata e sia ancora quella statunitense, almeno da un secolo e mezzo a questa parte: il far parte della comunità non si è mai fatto dipendere dall’origine dei soggetti residenti; pur contando un’alta percen-tuale di immigrati e cittadini naturalizzati, gli USA continuano perciò a esser caratterizzati da livelli di integrazione molto più elevati di qualsiasi altro paese (riuscendo così a integrare la più grande eterogeneità etnica in un’unica comunità). Diverso è il caso della Svizzera dove invece è di gran lunga prevalente

il senso di nazione come comunione di volontà … [dove] la comunità dei singoli cittadini si interseca con un’alleanza ben coltivata da gruppi linguistici regionali; gli svizzeri sono membri della nazione sia come singoli individui che come appartenenti a uno dei gruppi linguistici regionali riconosciuti; la coesio-ne della nazione è assicurata dalla reciproca tutela contro l’assorbimento dei gruppi regionali da parte dei grandi Stati nazionali confi nanti, ma anche dalle molteplici intersezioni dei legami di appartenenza, oltre che da un alto grado di tutela reciproca dell’autonomia.14

In Svizzera si può individuare un reale idealtyp di Stato nazionale in-tegrato con una democrazia basata sul consenso; al contrario, si confi gura

14 R. Münch, op. cit.

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diversamente il Libano nel quale si registrano «le conseguenze esplosive della convivenza di una pluralità di etnie e/o gruppi religiosi in uno Stato». In altre regioni europee l’integrazione sociale di gruppi etnici eterogenei si è rivelata particolarmente diffi cile: è il caso dell’Europa dell’Est, con particolare riferimento alle regioni balcaniche della ex Jugoslavia, dove il complicato mescolarsi di etnie diverse ha ostacolato la costituzione di identità nazionali unitarie e la crescita della società civile non è sembrata in condizione di mettere in crisi i nazionalismi imperanti. Qui le diverse popolazioni continuano a identifi carsi con i loro gruppi etnici rivendicando il diritto all’autodeterminazione, anche se ciò si rivela improduttivo per la grande mescolanza etnica che rende impossibile creare stati nazionali su basi solamente etniche; il principio della cosiddetta autodeterminazione diventa a sua volta una polveriera e i confl itti etnici tornano a riesplodere anche se paiono andare avanti i processi di democratizzazione.

Se infi ne spostiamo lo sguardo sui paesi dell’Europa occidentale, non possiamo non cogliere i gravi problemi di integrazione che si pongono in relazione al numero crescente di immigrati che si registra ormai da tempo: se l’identità nazionale di questi ultimi non comincia a fondarsi su una «libera comunione di volontà» lasciando da parte l’appartenenza etnica e culturale, la loro integrazione continua a porsi come un problema diffi cilmente risolvi-bile. Volendo fare un esempio di modi diversi di procedere, si può prendere il caso della Germania e dell’Italia che, nel corso dell’Ottocento, si sono battute per l’unifi cazione nazionale facendo appello alle comuni origini et-niche e culturali di regioni diverse e distanti; oggi i due paesi si muovono diversamente e paiono rassegnarsi a risolvere i problemi dell’immigrazione rinunciando alla via maestra dell’integrazione e preferendole quella della separazione. Ne conseguono crescenti confl itti tra gli immigrati e le popola-zioni locali, e stentano a confi gurarsi prospettive nuove e diverse fi nché non ci sarà una «ridefi nizione della comunità in termini di comunione di volontà anziché di origini etniche e culturali e se dal canto loro gli immigrati si ade-gueranno alla forma di vita della società borghese-democratica».15

Il caso Italia: un’integrazione predicata ma non praticata. Alla ricerca di politiche migratorie adeguate.

Dinanzi al crescere dei fl ussi migratori, fenomeno in crescita nel conti-nente europeo a partire da metà Novecento, i paesi interessati si trovano a dover decidere fra due atteggiamenti opposti, sul piano politico ed econo-

15 Ibid.

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mico, e ancor prima fra rispetto della legalità e offerta della solidarietà. Le diverse prospettive possono essere ancora considerate antitetiche negli anni delle prime esperienze migratorie, quando la disponibilità verso i migranti devoluta non a interventi statali ma ad opere di carità e misericordia, con i centri di prima accoglienza gestiti esclusivamente dalle Caritas diocesane, dalle parrocchie e dal volontariato.16 Col passare del tempo, si alimenta una crescente opposizione tra due generi di intervento, l’uno ancora gestito dal volontariato cattolico e l’altra dal privato-sociale e dal settore pubblico in generale. Slogan diffusi tra le associazioni d’orientamento progressista chiedono una legislazione adeguata da coniugare con i principi della soli-darietà e l’espressione “legislazione di solidarietà”, o “legislazione solida-le”, è tra le più diffuse: da qui l’esigenza di adeguate politiche migratorie che non ignorino ma affrontino tutto il complesso di problemi connessi.

Politiche migratorie, appunto. E l’Italia? Il nostro Paese si dota con grande ritardo di una politica migratoria adeguata; dinanzi a un fenomeno i cui inizi si fanno risalire in Sicilia già alla fi ne degli anni Sessanta, fi no a tutto il 1986 la Pubblica Amministrazione fa fronte al crescere dei fl ussi rifacendosi a una legislazione che risale alle norme di Pubblica Sicurezza del 1931. Per più di vent’anni la politica migratoria è così gestita per via di circolari ministeriali che si limitano a seguire il fenomeno in crescita o a prenderne atto tra le pieghe consentite dalla legislazione in atto. Coin-cide in gran parte con la cosiddetta “politica delle sanatorie”: le circolari che vengono via via emanate «prevedono infatti sanatorie generalizzate dei rapporti di lavoro di fatto esistenti in qualsiasi settore lavorativo, col solo requisito della presenza del soggetto straniero sul territorio italiano entro una certa data e una dichiarazione di disponibilità all’assunzione da parte di un datore di lavoro».17 Politica debole o inesistente, è il caso di dire, in quanto, limitandosi periodicamente a prendere atto degli immigrati presen-ti nel Paese, in linea di principio lascia impregiudicati i quadri d’ordine as-sistenziale e previdenziale che dovrebbero essere delineati e quindi attuati.

La questione riceve una prima sistemazione a metà anni Ottanta con una legge che, pur rivelando già dal titolo come sia orientata più alla chiusura che a una sorta di regolamentazione del fl usso, presenta clausole signifi ca-tive di un buon orientamento.18

16 F. Giordano, Centri di prima accoglienza: il dovere della solidarietà, in S. Nico-sia S. (a cura di), I “barbari” fra noi, Sciascia, Caltanissetta 1998.

17 M.I. Macioti, E. Pugliese, L’immigrazione in Italia, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 43.

18 Legge 943/1986 (Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavora-tori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine).

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«È benevola – secondo Macioti e Pugliese – per il grado di riconoscimento dei diritti degli immigrati, sia sul piano economico che sul piano civile: l’im-migrato in regola con le leggi dello Stato italiano, che sia stato cioè capace di regolarizzare la propria posizione e ottenere la residenza, gode in linea teorica di tutti i diritti sociali e sindacali degli italiani».19

Se tracce di benevolenza è possibile rilevare, essa è valida solo in linea teorica perché per godere dei diritti gli immigrati devono dimostrare di svolgere un lavoro dipendente; il che non è semplice perché la regolarizza-zione del rapporto annulla la convenienza del datore di lavoro ad assumere lo straniero; non a caso l’obiettivo ultimo della legge, favorire l’emersione del lavoro sommerso, viene raggiunto solo in minima parte (non oltre il 20% degli interessati). Volendo, questo è il primo caso esempio di solida-rietà predicata ma non praticata, e sulla stessa linea si muovono i Decreti Ministeriali emanati negli anni successivi: ripercorrendo i commi di cui si sostanziano, non è diffi cile rilevare come nei D.M. continua a non poter-si individuare alcun carattere di disponibilità solidale nei confronti degli immigrati.

Bisogna attendere la legge successiva, intesa come legge Martelli dal nome del suo presentatore, per cominciare ad avvertire i segnali di un nuovo orientamento. 20 La Martelli presenta i caratteri propri di una legge organica, diretta non a tamponare ma a regolamentare l’intera materia; demanda ad opportuni interventi regionali i compiti della sua attuazione; cerca di ovviare almeno in parte alle insuffi cienze prima richiamate pre-vedendo ad esempio forme di autodenuncia per l’immigrato impiegato come lavoratore dipendente. Rimane però fondamentalmente una legge di chiusura e Macioti e Pugliese non mancano di rilevare: «La decisione di chiusura è esplicita e quindi viene programmata la limitazione degli ingressi con visti turistici. La prosecuzione dell’immigrazione per motivi di lavoro dovrebbe invece aver luogo attraverso una programmazione dei fl ussi».21

Avendo regolato per anni i processi migratori diretti verso il nostro Pa-ese, è lecito chiedersi a questo punto cosa sia riuscita a produrre la legge Martelli negli otto anni della sua applicazione. A parte la mancata program-mazione dei fl ussi, diffi cile da praticare per un fenomeno sfuggente in tutti

19 M.I. Macioti, E. Pugliese, op. cit., p. 44.20 Legge 39/1990 (Norme urgenti in materia d’asilo politico, d’ingresso e soggiorno

dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato).

21 M.I. Macioti, E. Pugliese, op. cit., p. 48.

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i paesi del Mediterraneo, delle strutture da attivare e degli spazi abitativi da mettere a disposizione, ben poco si è riusciti a fare, con enormi disparità tra una regione e l’altra, quanto ai servizi, e tra una questura e l’altra, quanto alle modalità di regolarizzazione. Resta il fatto che fi no al marzo 1993 da Roma in giù non esiste un centro di accoglienza pubblico; le risorse pubbliche non vengono distribuite in base ai numeri di immigrati e ai ser-vizi disponibili nelle varie province. Le amministrazioni che decidono di attivarsi e di operare fi niscono col ritrovarsi in gravi diffi coltà al punto da poter contrapporre anche qui un nord effi ciente a un sud incapace di agire; nelle regioni del Sud, ovvero in quelle dell’emigrazione storica,

per anni, gli enti locali si sono occupati di quest’ultima, trovandosi imprepa-rati di fronte alla novità di una vasta e varia immigrazione, con tutto quello che comporta in termini di diversità anche culturali, oltre che di istanze lavorative. Così è accaduto che alcune Regioni abbiano legiferato insieme su materie di emigrazione e di immigrazione, mettendo insieme fenomeni... profondamente diversi.22

Gli interventi ministeriali che seguono la legge del ‘90, pur con tutti i limiti d’applicazione di quest’ultima, smarriscono quasi del tutto la “di-mensione solidale” rilevata, sia pure a fatica, nella Martelli. Di fronte a diffi coltà e inerzie di attuazione di quella legge e dietro crescenti pressioni politiche, a fi ne 1995 viene emanato un Decreto Ministeriale che obbliga gli immigrati presenti nel nostro Paese a procedere alla regolarizzazione entro tre mesi, pena l’attivazione di rigide misure di espulsione, e istituisce i centri di trattenimento temporaneo: In breve tempo regolarizzano la loro posizione un buon quarto dei due milioni di immigrati già allora presenti nel nostro Paese, ma il D.M. lascia ancora irrisolta la questione di fondo, ovvero la defi nizione di un’organica politica migratoria adeguata al variare delle situazioni nel nostro e nei paesi circostanti. Ci si comincia a chiedere inoltre, con crescente consapevolezza, se basti elaborare una “politica per l’immigrazione” guardando solo all’Italia o se non sia il caso di considera-re l’Europa nel suo complesso e muoversi dunque verso una politica comu-nitaria di defi nizione del problema. Quelli sono gli anni in cui gli immigrati legalizzati nei quindici paesi dell’Unione Europea ascendono allora a circa otto milioni e duecentomila, pari al 2,5% della popolazione, ma molti di più sono in condizioni di clandestinità: quasi tre milioni.

22 Ivi, p.165.

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La prima vera legge sull’immigrazione

Sensibile a un nuovo orientamento politico, il nuovo Parlamento eletto nel 1996 mette mano a una nuova legge (la cosiddetta Turco-Napolitano) che incontra non poche diffi coltà a esser approvata, dopo mesi di lunghe discussioni, compromessi e rinvii da una Camera all’altra 23. Già il titolo, compatto ma denso di signifi cato, aiuta a comprendere la novità dell’im-postazione e, in effetti, la nuova normativa disciplina la condizione giuri-dica dello straniero non limitandosi agli aspetti, pur importanti, di ordine e sicurezza. «La struttura di questa nuova legge sembra essere organica: nel senso di non limitare ai soli aspetti dell’ordine e della sicurezza la di-sciplina della condizione giuridica dello straniero e la regolamentazione del fenomeno migratorio»;24 in tal senso si rivelano di grande rilievo gli ar-ticolati riferimenti al ricongiungimento familiare, alla protezione della fa-miglia, all’accesso all’abitazione e all’integrazione sociale; in questa stessa direzione si colloca il ruolo attribuito agli enti locali, ben più valorizzato rispetto alla legge Martelli. Stanno infi ne, le molte disposizioni che danno forza al principio di solidarietà:

i diritti del minore e la tutela della salute sembrano prevalere su eventuali situazioni di irregolarità … Sono infatti assicurate agli stranieri, pur non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative per malattia e infortunio … Inoltre, al minore, anche non in regola con le norme indicate, viene riconosciuto il diritto allo obbligo scolastico.25

L’integrazione sociale è il richiamo di maggiore interesse: la legge Turco-Napolitano, entrata in vigore nel marzo 1998, offre una grande quantità di esempi di quella disponibilità solidale della quale abbiamo detto, a partire dagli interventi relativi ai processi di integrazione, ap-punto, che si muovono nella direzione tracciata; quanto all’istruzione, che segue subito dopo, viene ben valorizzato il ruolo degli enti locali che concorrono con lo Stato a delineare gli interventi pubblici volti a favorire «l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri residenti, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone». Segue

23 Legge 40/1998 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

24 F. Trucillo, La legge è pronta. Ora occorre applicarla, in “Ismu informa”, n.18, 4, 1998.

25 Ibid.

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la programmazione dei fl ussi, che costituisce il punto centrale e nevralgi-co dell’intera riforma, e nell’ambito delle quote da defi nire annualmente «viene introdotta dalla legge una nuova ipotesi di ingresso e soggiorno per ricerca di lavoro attraverso la garanzia di uno sponsor pronto ad as-sicurare alloggio, copertura dei costi per il sostentamento e assistenza sanitaria per la durata del permesso di soggiorno»:26 secondo importante esempio di disponibilità solidale, confermato a sua volta da un decreto governativo dell’ottobre 1998 che prevede di regolarizzare duecentomila immigrati, in base ai numeri previsti per quegli anni e a condizione che risultino già presenti in Italia nel marzo ’98 e un datore di lavoro si di-chiari disposto ad assumerli.

A parte la condizione d’esser già presenti in Italia (che richiama però le vecchie “sanatorie” di dieci e più anni prima), viene ad essere offer-ta un’ulteriore forma di disponibilità solidale relativamente alla “carta di soggiorno”, la quale di per sé non costituisce un tratto di novità, essendo un documento già da tempo rilasciato a cittadini comunitari ed extraco-munitari oltre che ai loro familiari. «Il rilascio viene subordinato a varie condizioni, tra le quali il soggiorno regolare da almeno cinque anni e la disponibilità di un reddito genericamente defi nito suffi ciente per il proprio sostentamento oltre che dei familiari»;27 ma ciò che qui interessa segnalare è l’ampia funzione che la carta può assolvere nel tempo, strumento per un’effettiva integrazione dello straniero residente in Italia al quale viene concesso il godimento di particolari diritti. È da segnalare in ogni caso come nella legge in questione, accanto alla grande offerta di solidarietà, risulti centrale quello che in apertura abbiamo chiamato il “rispetto della legalità” e non possiamo non richiamare in merito l’attenzione sulla deli-cata materia delle espulsioni. Riferendoci alle disposizioni sull’immediata esecuzione diretta a soggetti privi di documenti (o sans papier, come li si chiama in Francia) e sospettati di compiere attività delittuose, il fenomeno suscita allarme nell’opinione pubblica e si corre sempre il rischio di ingi-gantirne la portata e strumentalizzarlo senza che ci siano corrispondenze con le sue reali dimensioni. Qui torna a farsi sentire insomma il richiamo alla sicurezza al punto di annullare o ridurre l’atteggiamento di solidarietà insito nella legge.

Al di là degli aspetti positivi rilevabili nella legge Turco-Napolitano, smarrito o non praticato un qualsiasi coinvolgimento dell’Unione Europea, a lasciare l’amaro in bocca nel giudizio complessivo che se ne può dare

26 Ibid.27 Ibid.

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è il rinvio continuo nel tempo di defi nizioni centrali nella confi gurazione legislativa: il riferimento in primo luogo va alla necessità di coinvolge-re regioni, province e comuni che sono rimasti a lungo in attesa; in ogni caso, demandare azioni del genere a interventi ancora da defi nire, ricor-rendo ogni volta a lunghe e tormentate mediazioni, comporta il rischio di rinviarli sine die, accumulando ritardi su ritardi. Un altro riferimento va alla programmazione dei fl ussi annuali, le quote massime di immigrati da ammettere al lavoro subordinato e autonomo, programmazione già prevista dalla legge Martelli ma resa effettiva solo in minima parte; un terzo riferi-mento va ancora alla concessione del diritto di voto agli immigrati, limitato alle elezioni amministrative: previsto nel testo originario per i titolari di carta di soggiorno, stralciato all’ultimo momento e passato tra gli impegni dei futuri governi. Per non dire della regolarizzazione “mirata e selettiva” degli immigrati prima dell’entrata in vigore della nuova legge: altro impe-gno del governo ad affrontare la questione, ma nessuna defi nizione legi-slativa al riguardo; e infi ne dei regolamenti attuativi cui la legge demanda la soluzione di infi nite altre questioni. Nei fatti, la legge Turco-Napolitano rimane operativa solo in parte e sin dal 1998 gli annuali Rapporti di Caritas e Migrantes hanno di che denunciare un simile stato di cose, segnalando crescenti ritardi nella sua concreta attuazione: si fi nisce con l’alimentare la “polveriera dei clandestini”, per cui chi ha diritto al permesso resta spesso un irregolare per molti anni di seguito, esposto e/o attirato dalla criminalità organizzata e dalla malavita.

E intanto giunge la legge comunemente intesa come Bossi-Fini che se nel titolo intende essere solo una modifi ca dell’esistente nei fatti, col suo orientamento restrittivo, fi nisce con l’incidere pesantemente sui processi di integrazione in atto.28 Non vogliamo soffermarci più di tanto perché è una legge di cui continuiamo a subire le più pesanti conseguenze. Per com-prenderne lo spirito e per darcene una pallida idea ci limitiamo a elencare i commi di cui si compone e le Norme che intende attivare: 1. Espulsioni con accompagnamento alla frontiera; 2. Permesso di soggiorno legato ad un lavoro effettivo; 3. Inasprimento delle pene per i traffi canti di esseri umani; 4. Sanatoria per colf, assistenti ad anziani, malati e diversamente abili, la-voratori con contratto di lavoro di almeno un anno; 5. Uso delle navi della Marina Militare per contrastare il traffi co di clandestini.

Non ci vuol molto a capire come disponibilità solidale e integrazione so-ciale tornino ad essere puro fl atus vocis e non ne rimane traccia nella legge la quale fa solo appello ai respingimenti e attribuisce un valore centrale, sul

28 Legge 189/2002 (Modifi che alla normativa in materia di immigrazione).

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piano ideologico, alle frontiere. Tutto ciò accade senza la necessaria consa-pevolezza che le migrazioni non si possono regolare con la forza, attivando forme adeguate di controllo delle frontiere:

Si dice che le frontiere italiane siano un colabrodo – scrive Furio Colom-bo –. Non è vero. Lo sono le frontiere del mondo. La prova è che in ciascun paese si indica l’altro come meglio organizzato o più rigido o più protetto. Ma l’immigrazione fi ltra ovunque, nella rigorosa Germania, nei potentissimi Stati Uniti, dove neppure un muro di centinaia di chilometri fra Usa e Messico impedisce il passaggio di centinaia di migliaia di clandestini, qualcuno dice milioni, ogni anno.29

L’integrazione tra retorica e legalità

La messa alla prova dell’orientamento di solidarietà e legalità tocca tutte le complesse questioni connesse al fenomeno migratorio; entrambe van-no collocate su uno sfondo di più ampie dimensioni fi no a comprendere cittadinanza, diritti sociali e tutte le norme che rientrano nella cosiddetta “politica del riconoscimento”: richiamata in ogni legge sulle migrazioni e nella defi nizione dello statuto di cittadinanza degli stranieri, nel nostro Paese essa rischia di scadere nella retorica, per il rischio sotteso alla di-scrasia fra legalità laica e solidarietà religiosa che sfocia nelle retoriche del multiculturalismo all’interno di istituzioni fondamentalmente laiche. Per Gian Enrico Rusconi, che vi dedica approfondite rifl essioni, la “politica del riconoscimento” è stata fi nora più «il risultato di una dialettica interna alle forze politiche che l’esito di un confronto diretto con le culture degli immi-grati»; può invece diventare viva e feconda solo se si basa su una “cultura dei diritti” che si dispieghi su tre livelli:

a) una cultura dei diritti umani e civili fondamentali (libertà, dignità. mini-mo vitale) che trae forza dai fondamenti stessi dell’ordinamento democratico. Negare simili diritti a un immigrato, anche clandestino, signifi ca contraddi-re e negare il principio democratico stesso; b) i diritti alla propria integrità identitaria e alla particolarità storica della propria origine, in quanto individui e in quanto appartenenti a una comunità. Questo principio è già presente in modo implicito nella Costituzione italiana; c) una cultura delle istituzioni che rappresenta il vero defi cit della società italiana. Solo attraverso regole certe e univoche … in istituzioni funzionanti che producono comportamenti precisi,

29 F. Colombo F., I limiti della solidarietà, in “La Repubblica”, 30 dicembre 1999.

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sanzionabili e/o premianti, si crea il terreno della convivenza e del dialogo tra la cultura dominante e le culture minoritarie.30

Il discorso si complica quando si osserva che nel nostro e in altri paesi europei ci sono immigrati che già godono della piena cittadinanza e immi-grati che ne sono privi: da qui Rusconi fa discendere un’altra forma di reto-rica multiculturalista con riferimento al voto da concedere agli immigrati:

È illusoria l’aspettativa che la partecipazione alla vita politica locale degli immigrati-residenti produca in maniera automatica una nuova koinè politico-culturale che accomuni in modo armonico e conciliante i cittadini autoctoni e gli immigrati». Un esito paradossale ma possibile è che «la partecipazione alla politica locale rafforzi negli immigrati il sentimento della propria differenza. Contribuenti come gli autoctoni, elettori come loro, sia pure a livello ammini-strativo, questa nuova categoria di cittadini accentuerà il proprio pieno diritto all’esercizio pubblico della propria identità.31

In conclusione, la gestione dei processi migratori può trovare solo in adeguate legislazioni, nazionali o comunitarie, la condizione per potersi esplicare, stando attenti al fatto che la “certezza del diritto” è condizione necessaria ma non suffi ciente, dal momento che vi si incontrano due realtà, quella dei formalismi burocratici e quella dei “mondi vitali” diffi cilmente strutturabili. Solo una reale disponibilità solidale può mediare tra le due, rendendo praticabili i concreti progetti operativi.

Torniamo su quella che riteniamo “la prima vera legge sull’immigrazio-ne”. Tirando le prime problematiche conclusioni da quanto abbiamo detto intorno alla legge Turco-Napolitano, e tacendo volutamente della Bossi-Fi-ni, ci soffermiamo su quella che altrove abbiamo detto la legalità solidale messa alla prova.. Nonostante le buone volontà, accanto a quelle richiama-te ci sono altre questioni a rimanere in sospeso: tra le prime sono quelle dei respingimenti messi in atto nei confronti di migranti che si avvicinano alle nostre coste e che vengono scoperti: da qui il massiccio ricorso ai centri di trattenimento temporaneo o, peggio, ai centri di identifi cazione ed espul-sione istituiti dalla legge più recente con compiti facilmente desumibili; del resto, insieme con gli originari centri di accoglienza, il continuo cam-biare denominazione è indicativo di un orientamento non chiaro, del non sapere che fare muovendosi tra solidarietà e legalità. Delle condizioni di

30 G.E. Rusconi, Le retoriche del multiculturalismo e la laicità delle istituzioni de-mocratiche, in AA.VV., Conoscere il razzismo per combatterlo, seminario tenuto all’Università La Sapienza di Roma nel 1998.

31 Ibid.

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vita nei centri non si sa molto, ma crescono i fatti di cronaca che mostrano come la conciliazione fra solidarietà e legalità venga duramente messa alla prova anche in quest’ambito. Dalla gestione dei centri torna ad emergere il doppio atteggiamento dell’opinione pubblica e dei media nei confronti dei migranti rinchiusi in quei centri: da una parte sta quello chiuso e rigido dei preposti delle forze dell’ordine, dall’altra quello aperto e disponibile di collaboratori e volontari, senza che ciò basti però a instaurare forme di scambio solidale con i migranti: da qui l’esigenza di ricorrere all’opera di mediatori culturali che affi anchino le forze di polizia nello svolgimento dei loro compiti e che siano in grado di gestire gli incontri con i migranti senza farli degenerare in scontri di culture. È paradossale ma reale, infi ne, che chi si sottrae al riconoscimento si ritrovi nelle condizioni di ricevere un foglio di via e, in mancanza di controlli effi caci, possa restare “da clan-destino” nel nostro Paese: si può essere solidali con quelli e rigidi, invece, con questi ultimi?

Troviamo conferma di quanto siamo venuti osservando nel già citato contributo di Furio Colombo il quale affronta la questione denunciando le tre distinte posizioni diffuse a livello di opinione pubblica nei confronti degli immigrati e molto vicine, per non dire coincidenti, con quelle da noi indicate:

La prima è quella della solidarietà senza limiti e senza frontiere: è alta, nobi-le ma irrealistica, se non altro perché non ha i mezzi per sostenere il sentimento ideale. Un’altra è quella del rifi uto senza esitazioni, senza secondi pensieri: ma il rifi uto, se non si realizza nella violenza, è fuori dalla realtà, come gli opposti, nobili sentimenti... [Il terzo atteggiamento] è più ambiguo e anche più nasco-sto: da un lato si fa la voce grossa; dall’altro si accettano i clandestini perché senza di essi interi settori dell’economia non funzionerebbero … È il caso del Nord-est e di molte aree del Sud dove, senza la manodopera extracomunitaria, non ci sarebbero né produzione né raccolti.32

La legge Turco-Napolitano è in un certo senso espressione delle tre posi-zioni e per questo appare al nostro buona e cattiva nello stesso tempo, una soluzione civile e un’ingiustizia da denunciare:

Quella legge si confronta con i tre volti del pensare l’immigrazione. E cer-ca di pensarli sui versanti dei limiti del possibile. Deve per forza muoversi fra due sponde: un principio di civiltà, mai negare i diritti della persona, e un principio di necessità, mai rinunciare a controllare il fl usso continuo … Eccoci dunque – conclude – ai centri di permanenza temporanea … dove si registrano situazioni di smarrimento, incertezza e mancata informazione in cui si trovano

32 F. Colombo, op. cit.

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gli immigrati. Non dispongono di informazioni suffi cienti, ignorano diritti ele-mentari, come la possibilità di presentare ricorso contro l’espulsione. A parte gli avvocati dei gruppi di solidarietà, molti fi niscono col disporre solamente di legali indifferenti e indaffarati.33

Integrazione e trattamento dell’identità. Condizioni lavorative e inte-grazione nel passaggio delle generazioni.

Quando si guarda al fenomeno immigratorio nel nostro Paese è dato registrare timidi processi di integrazione economico-produttiva (spesso molto prima che socio-culturale) i quali si contrappongono al fallimento di progetti su cui i migranti hanno investito le maggiori risorse. In prima ap-prossimazione il doppio fenomeno può esser fatto dipendere dai protago-nisti dell’esperienza migratoria che si possono assegnare a due categorie: da una parte stanno quelli che vengono solo per raccogliere un gruzzoletto di denaro e poi tornare in patria, con “baricentro mentale” e interessi vitali che rimangono incentrati sulla famiglia e sul paese d’origine (situazione diffusa fra gli immigrati della prima generazione, in gran parte di bassa scolarità e di età avanzata; dall’altra stanno coloro che non vedono l’e-sperienza migratoria come una parentesi, ma come un progetto di vita da esperire in Europa: sono gli immigrati delle seconde e terze generazioni, giovani diplomati e laureati che adottano velocemente i caratteri propri della cultura occidentale, in una continua aspirazione di diventare europei fra gli europei.

Già nella differenza di generazioni è dato scorgere dunque una diver-sa disponibilità all’integrazione; ma ad essa occorre aggiungere il genere di attività lavorativa svolta e, ancor prima, l’arrivo delle donne migranti. Le prime esperienze sono quasi esclusivamente maschili, a parte i casi di donne fi lippine e capoverdiane in gran parte avviate in Europa per il trami-te della Chiesa cattolica: gli immigrati giungono da soli e tali rimangono fi nché è loro possibile e necessario, dopodiché tornano nei loro paesi a sposarsi; non passa molto tempo che le mogli e i fi gli li raggiungono pro-muovendo i noti fenomeni di ricongiungimento familiare da poco tempo riconosciuti per legge. Si creano così le condizioni perché la permanenza in Italia o in Europa non sia più una parentesi ma una condizione stabile di vita: la donna costituisce il soggetto che stabilizza il progetto migratorio in quanto è lei a mantenere contatti con scuola, uffi ci e ambulatori medici, a

33 Ibid.

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girare ogni giorno per i negozi, e adottando i modi di vita della la società ospite, cominciando a condividerne la cultura e attivando le prime forme di integrazione. Il fenomeno, ormai da anni lontani registrato tra i tunisini del Mazarese e monitorato in gran parte della Sicilia, va velocemente diffon-dendosi in tutta Italia con modalità ed effetti simili.34

Altre tappe verso processi d’integrazione sono costituite dalla nascita dei fi gli nei paesi d’immigrazione e dalla frequenza dei fi gli dei migranti a scuola: immigrati di seconda e terza generazione che nel passaggio dalla prima alla seconda fi niscono col segnare un fatto “istituzionale”, oltre che anagrafi co. Il bambino cresce in una cultura “altra”, che è sostanzialmente la sua sin dall’asilo d’infanzia, e ciò attiva o facilita processi d’integrazione culturale, negli usi e nei costumi, nelle consuetudini e nella lingua del paese ospite. Certo, non sono da trascurare le diffi coltà che vi si frappongono: la tendenza a chiudersi in ghetti o in porzioni di territorio, dentro quartieri urbani o attività lavorative in cui ci si vede solo tra pochi e sempre gli stes-si; la diffi coltà ad essere accettati dalla popolazione locale; la legislazione quasi sempre poco adeguata; le condizioni economiche … sono tutti fattori che non favoriscono di certo l’integrazione. È innegabile però che i processi d’integrazione vengono facilitati e promossi prima di tutto dall’inserimento stabile nel mondo del lavoro: non a caso essi sono più avanzati nelle regioni del Nord, nonostante i noti episodi di razzismo conclamato, che al Sud.35

Il trattamento dell’identità

Introduciamo a questo punto una problematica non sempre avvertita per com’è necessario: il trattamento dell’identità. I processi d’integrazione, in effetti, si incontrano e si scontrano, prima o poi, con il complesso problema dell’identità, concetto fl uido e posto al convergere dell’area antropologica con quella sociologica e psicologica: essa viene intesa come

il sistema di rappresentazioni in base al quale l’individuo sente di esistere come persona, si sente accettato e riconosciuto come tale dagli altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di appartenenza... Il problema dell’identità non si pone dunque a livello individuale o a livello sociale come autonomi e distin-ti, bensì nell’ambito io-mondo sociale; esiste infatti una stretta relazione tra

34 Per la Sicilia dei primi anni Settanta cfr. A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1976; per quella di fi ne anni Ottanta cfr. V. Guarrasi, L’immigrazione straniera in Sicilia, Cogras ed., Palermo 1988.

35 M. Mannoia, M.A. Pirrone (a cura di), Il razzismo in Italia: società, istituzioni e media, Aracne, Roma 2010.

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l’identità come tratto individuale o personale, come esperienza soggettiva, e l’identità come tratto inter-soggettivo, condiviso cioè da più soggetti.36

Si va da un’idea di personalità individuale a una di personalità collettiva o “psicosociale” per cui si hanno identità personali e di identità di gruppo, di cultura, di religione o di genere; l’identità ha ricadute anche sul piano psicologico in quanto dà sicurezza al soggetto, facendogli riconoscere in valori in cui ha sempre creduto, e sul piano sociale, in quanto l’identità coltivata dal singolo lo accomuna ad altri soggetti che ne condividono il comune sentire.

Quali fattori costituiscono l’identità di un gruppo sociale? Tra le compo-nenti dell’identità collettiva Luciano Gallino enumera quelle che vengono fatte rientrare nel concetto antropologico di cultura, «patrimonio intellet-tuale e materiale costituito da: valori, norme, defi nizioni, linguaggi, sim-boli, segni, modelli di comportamento, tecniche mentali e corporee, aventi funzione cognitiva, affettiva, valutativa, espressiva, regolativa, manipo-lativa; oggettivazioni, supporti e veicoli materiali o corporei degli stessi; mezzi materiali per la produzione e la riproduzione sociale dell’uomo». Le comunità si distinguono l’una dall’altra perché dispongono di culture di-verse e rispondono agli “imperativi biologici” in maniera diversa a seconda degli ambienti in cui si insediano. Cultura e identità si connettono proprio per il fatto che quest’ultima viene in qualche modo conferita da quella, è ancora Gallino a farlo notare: «La cultura è la componente principale della personalità nonché del carattere sociale, anzi la cultura e la personalità non sono altro che due aspetti del medesimo fenomeno».37

Nel delineare i percorsi del concetto di identità in sociologia, Loredana Sciolla ne articola la complessità su almeno tre dimensioni:

L’identità ha innanzitutto una dimensione locativa, nel senso che attraver-so essa l’individuo si colloca all’interno di un campo (simbolico) o, in senso più lato per alcuni autori, defi nisce il campo in cui collocarsi... L’identità ha inoltre una dimensione selettiva, nel senso che l’individuo, una volta che ha defi nito i propri confi ni e assunto un sistema di rilevanza, è in grado di ordinare le sue preferenze, di scegliere alcune alternative e di scartarne o differirne altre.38

36 N. Tessarin, Identità, in Nuovo dizionario di sociologia, San Paolo, Milano 1987. 37 L. Gallino, op. cit.38 L. Sciolla, Teorie dell’identità, in Id. (a cura di), Identità: percorsi di analisi in

sociologia, Loescher, Torino 1983, p. 22.

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È la terza dimensione, quella che vien defi nita “integrativa”, a suscitare il maggiore interesse nel quadro che stiamo delineando:

L’identità ha una dimensione integrativa, nel senso che attraverso essa l’in-dividuo dispone di un quadro interpretativo che colleghi le esperienze passate, presenti e future nell’unità di una biografi a. Mentre attraverso la dimensione locativa l’individuo diventa capace di stabilire una differenza tra sé e l’altro, tra sé e il mondo, attraverso la dimensione integrativa l’individuo diventa ca-pace di mantenere nel tempo il senso di questa differenza, ossia il senso della continuità del sé.39

Che succede quando l’identità di un popolo migrante viene in contatto con quella dei paesi ospiti? Per lungo tempo, in un’ottica prevalentemen-te antropologica, si è pensato che le identità originarie entrino in crisi ogni volta che si confrontano con le nuove: da qui il nascere di “crisi d’identità”, fatte di disturbi mentali, stati di alienazione, malesseri di tipo psicosomatico, rigurgiti di magismo, in coincidenza appunto col disfarsi di società e cultu-re tradizionali coinvolte nei processi di mutamento sostenuti dalle moderne società di massa:

Il complesso quadro dei fenomeni – ha modo di rilevare Vittorio Lanternari – ci porta immancabilmente a identifi carle nei gruppi di potere economico, che volta a volta si concretano nel consumismo ovvero nel colonialismo (o, meglio, neocolonialismo) volto contro gruppi, classi e comunità interne, ai fi ni della loro strumentalizzazione e dello sfruttamento economico... Consumismo e co-lonialismo, o neocolonialismo, vengono a costituire due aspetti complementari di un unico fenomeno che indichiamo come sfi da deculturatrice il cui effetto, ad ampio raggio, è la crisi d’identità che coinvolge l’intera società moderna.40

Il rischio è che ne scaturiscano processi di omologazione che annullino il valore del passato delle comunità, cancellandone le differenze e met-tendone in discussione l’essenza stessa. Una conferma dell’ottica verreb-be dal diffondersi di speciali modalità di risposta alle crisi (movimenti nativisti, manifestazioni folkloriche, folk music revivals, esperienze mi-sticheggianti del genere di quelle ben note di connotazione indiana), pra-tiche dirette tutte al “recupero d’identità” in seno a specifi che professioni ideologiche e politiche.

39 Ibid.40 V. Lanternari, Crisi e ricerca di identità, Guida, Napoli 1977, pp. 234-35.

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Dalla conservazione alla costruzione d’identità

Il percorso di pensiero qui delineato colloca l’identità su uno sfondo legato a un passato scomparso o smarrito da singoli o gruppi. Procedendo nell’osservazione dei fenomeni connessi e adottando diverse prospettive di lettura, è dato rilevare che le grandi “crisi di identità” non si accontentano di risposte rivolte al passato. È ciò che rileva in più luoghi Erik H. Erikson:

La crisi non signifi ca sempre e soltanto un colpo mortale ma piuttosto... un tempo cruciale o un punto di svolta ineludibile per il meglio o per il peggio. Con “meglio” intendo il confl uire di energie costruttive dell’individuo e della società... Con “peggio” intendo una protratta confusione di identità nel giovane come nella società, che smarrisce la leale attivazione delle energie giovanili.41

Ora, andando oltre le prospettive antropologiche o folkloriche del gene-re di quelle dianzi delineate, che cosa accade nei paesi del Vecchio Con-tinente tra i nuovi immigrati? Superando l’ottica della «crisi e ricerca (o recupero) di identità», non è forse verso il “meglio” che i popoli migranti si muovono nel trattamento di quella originaria? È questo il risultato di numerose ricerche condotte in Francia, Germania e Belgio, risultato che vale anche per il nostro Paese. Si osserva che l’identità non viene vissuta dall’immigrato come qualcosa che possedeva in passato e che ora ha irri-mediabilmente perduto, qualcosa dunque da conservare e mummifi care nel tempo, ma rientra in un processo continuamente in atto, proprio com’è per l’integrazione, e il trattamento si concretizza dunque in un procedere che può essere defi nito costruzione d’identità.42 In pratica, con più o meno con-sapevolezza nuclei di popolazione immigrata selezionano le componenti più signifi cative dell’identità originaria, coltivandole e enfatizzandole per poi tornare a riproporle, mentre altre vengono fatalmente abbandonate; gli immigrati operano attivamente non subendo la selezione fra tratti d’identi-tà accettati e tratti rimossi, ma valutando e promuovendo la “costruzione”: celebrare il Ramadan, costruire o allestire moschee, indossare l’abito indi-geno, organizzazione feste etniche, inoltre, lungi dall’isolarli dalla popo-lazione locale li aiuta a manifestarsi, celebrare e socializzare con quella; nella prospettiva adottata, infi ne, gli immigrati non annullano la propria identità né la impongono, ma si limitano a riplasmarla sulla base delle esi-

41 E.E. Erikson, Identity (psycosocial), in International Encyclopedia of Social Sci-ences, London 1968, vol. IV.

42 E.E. Roosens (ed), Creating Ethnicity: the Process of Ethnogenesis, Sage, Lon-don 1989, p. 12.

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genze nate dal contatto con le società ospiti e in vista di successive tappe d’integrazione.

Procedendo lungo la via che stiamo seguendo, entrare a far parte del “Villaggio globale” non signifi ca annullare le specifi cità etniche di una comunità e, fra i nuovi immigrati, il contatto prolungato con la civiltà oc-cidentale non è detto che conduca alla temuta omologazione: accanto a fenomeni previsti, e in qualche modo scontati, emergono tendenze nuove, tra cui la tensione a creare etnicità, che con le antiche “radici” possono non avere nulla in comune; si celebrano etnicismi che non sono semplici ritorni ad arcaismi e integralismi del passato; si diffonde o si torna all’uso del cha-dor tra le giovani immigrate musulmane; si indossa l’abito della festa fra le donne ghanesi, somale e indiane; si ripropone senza nascondersi la grande pratica del Ramadan. Fuori d’Italia non mancano fenomeni osservati ormai da tempo in diverse regioni europee: gli Indiani Hurok conformano sempre più la loro identità originaria sul moderno folklore del Québec; a Londra, Parigi, Bruxelles non son pochi i gruppi che nel preservare le loro specifi -cità etniche generano inattese identità; queste non derivano da antiche tra-dizioni da conservare ma i nuovi immigrati le conformano, le modifi cano o le ricreano confrontandosi con le società ospiti.

Molte società tribali del Terzo Mondo sono state smantellate e molte di-versità culturali cancellate dalle moderne istituzioni, ma ciò che più si impone all’attenzione, ogni giorno che passa, è che i gruppi etnici riaffermano se stessi in maniera sempre più decisa promuovendo una nuova identità culturale men-tre si va erodendo quella antica.43

È necessario che si dissolvano le identità originarie perché abbiano suc-cesso i processi di integrazione? Nel senso più ricco del termine essa è quella che, lungi dal tenere insieme parti già rese omogenee, fa coesistere insiemi eterogenei, come dire differenziarsi per integrarsi:

L’integrazione presuppone l’eterogeneità delle parti che stanno in relazione tra di loro. L’integrazione di, o fra, parti diverse è resa possibile dall’esistenza di qualcosa che le accomuna conservandole, e dunque dal modo in cui taluni strumenti, o valori-base... vengono partecipati, condivisi o usati nel sistema a fi ni aggregativi... Emerge così il legame tra integrazione ed eterogeneità socia-le: mentre quest’ultima rivela caratteri empirici direttamente rilevabili, quella è una delle possibili condizioni di stato di un insieme eterogeneo.44

43 Ivi, p. 9.44 A. Scivoletto, op. cit.

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A questo punto possiamo connettere i due processi fi nora tenuti distinti: integrazione e identità. Il crescere delle comunicazioni e l’ampliarsi delle relazioni sociali, lungi dall’annullare le differenze, le esaltano; il fatto che varie comunità rivendichino come prioritario il rispetto della loro diversi-tà e passino a promuovere manifestazioni “nativiste” può intendersi come esito della ricerca d’inserimento nella società ospite: le costruzioni d’iden-tità risultano essere allora premesse a processi d’integrazione e il delinearsi di etnicismi può costituire il segnale che un gruppo si muove già in quel senso. Crescenti azioni di scambio (sul piano economico, sociale, simbo-lico) mettendo spesso in relazione fatti eterogenei generano la cosiddetta Communicative Integration, richiamata già nell’introduzione, la quale è da ritenere ben distinta dalle integrazioni di tipo politico e da quelle di tipo economico, o più in generale dalle integrazioni di tipo sistemico; nei casi in cui nascono, i confl itti provengono proprio dall’accostamento di realtà eterogenee le quali, all’inizio almeno, fanno fatica a coesistere in tempi e situazioni nuovi.

La comunicazione per l’integrazione: il ruolo dei media. Notiziare gli immigrati

Nei processi di integrazione e di costruzione d’identità non possiamo infi ne mancare di segnalare quella che diciamo la responsabilità sociale dei media, per il diffi cile compito che ad essi fi nisce con l’essere affi dato: agevolare, rallentare o impedire, persino, i processi di integrazione in atto. Per comprendere meglio il ruolo in questione proviamo a delineare le fasi del cosiddetto Newsmaking, in seno al quale si succedono diverse fasi che conducono infi ne alla “costruzione della notizia”, producendo effetti a lun-go termine, qual è quello dell’Agenda Setting.45

Sono note le fasi che portano alla costituzione di un tema su cui si foca-lizza l’interesse di fasce specifi che di lettori. Il “ciclo di attenzione” si apre con una fase di latenza: pur esistendo tutte le condizioni che danno rilievo a un tema economico e sociale, esso può continuare per molto tempo a essere ignorato dai media o esser discusso solo da gruppi ristretti di esperti e specialisti, i quali non sempre riescono a farne argomento di dibattito pubblico. Segue la fase di emergenza: se si verifi cano eventi rilevanti (o ritenuti tali), può accadere che gli opinion makers (politici e media, in pri-mo luogo) scoprano l’urgenza del problema e per ciò stesso lo pongano ai

45 M. Wolf, Teorie delle comunicazioni di massa, Bompiani, Milano 1985.

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primi posti dell’ordine del giorno nell’agenda politica o mediale, offrendo-gli la visibilità che prima gli era negata; è la fase in cui si vede crescere, per converso, la domanda d’informazione da parte del pubblico e i media si fanno carico di mantenere alta l’attenzione, ricorrendo anche a scoop o a pseudo-eventi. La terza, infi ne, è la fase autoreferenziale: ora il tema «ap-pare compiutamente formato, si rende autonomo rispetto alle dinamiche d’opinione e ai problemi che lo fanno sorgere, diventando quasi indipen-dente dagli eventi. Ormai la sua trattazione e il suo sviluppo in questa fase sono determinati dalle interazioni fra i media e la politica».46

A questo punto vien da porsi la domanda: quale grado di notiziabilità è stato concesso agli immigrati in seno al processo delineato? A meno che non costituiscano oggetto di cronaca nera, passa del tempo prima che essi diventino tema di rilievo per il giornalismo. A meno che non facciano gri-dare “Al lupo! Al lupo!”, fi no ai primi anni Novanta essi sono presenti solo in modo cronachistico, appunto, e stentano a diventare oggetto di tematiz-zazione. Un po’ tutte le fasi del Newsmaking ne offrono conferme a iosa.

Quanto alla Raccolta, tranne che non provengano dalle questure (e dun-que trattino di episodi criminosi), le informazioni sugli immigrati sono quasi inesistenti perché un giornalismo che non sia d’inchiesta non entra nel loro vissuto quotidiano. Nella Selezione, tra i criteri in base ai quali il giornale sceglie quali informazioni far diventare notizia, uno è legato all’importanza o all’interesse suscitato dal soggetto coinvolto. L’immigra-to non è certo fra questi e dunque viene “notiziato” solo in casi eccezionali. Il Trattamento è la fase in cui si cucinano, letteralmente, gli articoli da passare poi in redazione: non può essere un caso che le stesure di articoli sui nostri immigrati vengano quasi sempre affi date ad apprendisti e prati-canti, che possono essere anche più capaci dei professionisti, ma che certo non vengono scelti per questo. L’Editing, infi ne, è la fase in cui il giornale presenta le notizie, offrendole al lettore. Impaginazione, collocazione nella pagina, titolazione è raro che facciano salire in prima pagina l’immigrato nel suo vissuto quotidiano, tranne che non sia coinvolto in fatti di cronaca di grande risonanza.

Stretto insomma nei meccanismi attraverso cui opera l’informazione, il nostro rimane buon ultimo perché non possiede nessuna delle caratteri-stiche che rendano notiziabili gli eventi che lo riguardano e rimane perciò vittima di stereotipi alimentati e coltivati dai media. Una qualche presenza nell’informazione si registra solo se lo straniero rompe lo schermo televi-

46 C. Marletti, Extracomunitari. Dall’immaginario collettivo al vissuto quotidiano del razzismo, Eri Vqpt, Roma 1991, pp. 61-62.

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sivo, se va oltre la pagina del giornale; sul vissuto quotidiano, su lavoro e condizioni di vita, sui problemi affrontati giornalmente dagli immigrati manca qualsiasi forma di attenzione. Fanno eccezione due iniziative che riteniamo opportuno segnalare: Permesso di soggiorno, programma radio-fonico trasmesso giornalmente da Radiorai 1, ma per lungo tempo alle 5.50 del mattino; Metropoli, supplemento domenicale al quotidiano La Repub-blica, è durato lo spazio di un mattino.

La comunicazione per gli immigrati

A differenza degli “apocalittici, gli “integrati” immaginano una società futura, multietnica e multiculturale, in cui un ruolo centrale venga svolto dall’universo delle comunicazioni. Lo stesso espandersi della Rete, in par-ticolare, fa pensare che sia vicina la fi ne delle frontiere tra popoli, culture e stati nazionali. Alcuni arrivano a immaginare scenari in cui nell’universo delle comunicazioni si incontreranno i popoli più lontani, si aboliranno i confl itti e le disparità mentre si moltiplicheranno gli scambi. Il quadro attuale rivela che quegli scenari sono ancora lontani dal realizzarsi: gli ste-reotipi e i pregiudizi operano ancora massicciamente negli apparati di co-municazione, pur con tutte le buone intenzioni e pur nel crescere delle reti di comunicazione; lungi dall’unire i popoli del pianeta, radiotv e giornali alimentano sempre nuovi sbarramenti tra coloro che vi accedono e i tanti altri che ne restano esclusi.47

Eppure, il ruolo che le nuove tecnologie possono e devono svolgere nei confronti del pianeta immigrazione non può essere per questo sminuito né messo da parte. Tutt’altro. Il crescere delle comunicazioni sta attivando movimenti planetari di enorme portata, ma è come se quell’opera si inter-rompa a metà e la comunicazione non abbia la possibilità di produrre tutti i suoi effetti. Almeno sinora, è bene ribadire: ma per quanto tempo ancora?

È importante valutare l’immagine dello straniero offerta dai media, in-tervenire su di essa se necessario, perché i media non solo sono interpreti dell’opinione pubblica ma, quel che è più importante, fanno opinione pub-blica, soprattutto in un periodo in cui le agenzie di socializzazione tradi-zionali (scuola, chiesa, partiti …) sembrano non disporre di strumenti ade-guati per intervenire su un pubblico di massa. In tale situazione si fa ancora più urgente il compito che i media devono svolgere: da qui l’esigenza di

47 F. Rizzuto, Giornalismo e democrazia. L’informazione politica in Italia, Palum-bo, Palermo 2009.

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monitorare costantemente di quali immagini degli immigrati essi si fanno veicoli, registrando e promuovendo opinione pubblica.

È impressione diffusa, ad esempio, che più fanno informazione tematiz-zata sugli immigrati, più i media contribuiscono a creare un atteggiamento favorevole ad essi: siamo perciò dell’idea che i rigurgiti di razzismo e di xenofobia, nonostante le buone intenzioni, si registrano ancora nel nostro e in altri paesi, siano in parte dovuti a vere e proprie carenze di comunicazio-ne. L’assenza o la carenza di notizie sulle condizioni di vita, sui problemi dei luoghi da cui provengono gli immigrati, contribuisce a renderceli poco noti, facendo crescere pregiudizi, coltivare stereotipi e ingenerando, appun-to, i più gravi episodi di xenofobia e razzismo.48 Se noi siamo messi invece nelle condizioni di conoscere le reali condizioni di vita quotidiana dei loro paesi di provenienza, e se loro abbiano accesso ai canali di comunicazione internazionali, sì da poter essere gli uni familiari agli altri, chissà che non possano essere avviati a superamento le immagini ricorrenti dello straniero!

La funzione che le comunicazioni possono e devono svolgere nei pro-cessi di integrazione degli immigrati è insomma di grande rilievo, ed è un compito che i media e le nuove tecnologie non possono permettersi di ignorare: essi possono aiutare a superare antichi stereotipi e a muoversi nella direzione della reale conoscenza delle condizioni di vita nei paesi d’origine, degli universi culturali e delle aspirazioni per il futuro. Ancora una volta, insomma, è da affi dare alle comunicazioni il miracolo dell’in-contro e dello scambio interazionale che lentamente portano all’integrazio-ne culturale oltre che sociale.

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