MENS SANA IN CORPORE SANO - Audaces Nave 1946 · Ci sono delle situazioni come per esempio il ......
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"MENS SANA IN CORPORE SANO"
L'IMPORTANZA DELLA MENTE NELLO SPORT,
LO SPORT COME MAESTRO DI VITA
BERTACCHINI VERONICACLASSE 5 B SOCIO-PSICO-PEDAGOGICO
ESAME DI STATO ANNO SCOLASTICO 2013/2014
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INDICE
1. Introduzione alla tesina ................................................................................................. 5
2. Esperienza personale ..................................................................................................... 9
3. Educazione fisica ...........................................................................................................11• Intervista ad atleti.....................................................................................................16-17-18
4. Italiano............................................................................................................................19
5. Pedagogia........................................................................................................................25• Intervista all'allenatore Paolo Ortolani.........................................................................26-27
6. Storia...............................................................................................................................35
7. Inglese.............................................................................................................................45
8. Bibliografia.....................................................................................................................48
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INTRODUZIONE
“CORPO E PSICHE NON VANNO SEPARATI. EPPURE MOLTI MEDICI LO IGNORANO, ED E’ PROPRIO PER QUESTO CHE SFUGONNO LORO COSI’ TANTE MALATTIE: PERCHE’ NON VEDONO IL TUTTO”
PLATONE
L’inscindibilità di mente e corpo, la reciproca interdipendenza tra queste due dimensioni che
costituiscono le due chiavi di lettura personali di ogni uomo, sono da tempo tema di dibattito
all’interno della comunità scientifica e culturale. Percepire mente e corpo separati in passato era
considerato essenziale per studiare e conoscere in maniera approfondita entrambi, ma ciò ha
impedito l’approfondimento del rapporto tra i due. Ci sono delle situazioni come per esempio il
mondo accademico nel quale la mente viene considerata la sola chiave di lettura possibile;
studiare scientificamente qualcosa significa poterlo sezionare mentalmente e di conseguenza il
corpo è un elemento di disturbo. La pedagogia ha dimostrato come, al contrario, anche il corpo
sia necessario per assimilare e produrre conoscenza e ha sottolineato la necessità di considerare
la sua presenza essenziale nel sistema d’apprendimento dell’uomo.
Al contrario tradizionalmente nello sport, il corpo viene superficialmente considerato il solo
elemento a cui prestare attenzione ed è per questo che la mente perde la sua funzione di guida
dell’agire.
Nel mio elaborato è mia intenzione sostenere il contrario: l’importanza della mente all’interno
dello sport per confutare la teoria per cui il corpo sia il vero protagonista e l’unico conduttore
verso un buon risultato. Quest’idea non è solo la conclusione di una mia personale ricerca
sviluppatosi sui libri durante gli anni di studio, ma è il filo conduttore che mi ha accompagnata
nei lunghi anni di esperienza sportiva e personale.
Per introdurre il mio ragionamento verrà approfondito il tema della “Resilienza” con un
particolare riferimento al libro “Resisto, dunque sono” di Pietro Trabucchi, il quale sostiene
che, all’interno di sport di resistenza come la maratona, la forza mentale è essenziale tanto
quanto la forza fisica nel perseguimento dei propri obbiettivi. Per meglio comprendere i dettagli
che rendono la resilienza necessaria per affrontare uno sforzo fisico notevole, è stato necessario
approfondire gli elementi che rendono la Maratona uno sport estremo fisicamente e
psicologicamente. Trabucchi nel suo testo costituisce l’apporto bibliografico principale che
sostiene la mia tesi.
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L’esperienza che io ho vissuto in prima persona e che è mia intenzione esporre per avvalorare la
mia tesi, ovvero la necessità di vivere lo sport come educatore per la mente e per il corpo in
un’ottica di sviluppo psichico e mentale equilibrato non è , purtroppo, sempre applicabile. Ci
sono stati e ci sono tuttora casi in cui la mente e il corpo si influenzano negativamente: la prima
soggetta a malattie e devianze, il secondo in balia dei vizi. In questo secondo punto della mia
tesi propongo un’antitesi al mio ragionamento attraverso l’esperienza letteraria di Italo Svevo
nella “Coscienza di Zeno”. Zeno, infatti, è il simbolo di una mente malata all’interno di un
corpo vizioso che è soggetto al decadimento sia psichico che fisico, dovuto alla rottura
dell’armonioso equilibrio tra essi che un’ essere umano dovrebbe avere.
Come è possibile, quindi, giungere ad un terreno di mediazione tra queste due tesi
apparentemente inconciliabili? Come è possibile che, nonostante le premesse siano negative, lo
sport possa comunque proporsi come un supporto necessario per lo sviluppo psico-fisico
dell’essere umano?
La risposta è semplice quanto complessa: deve essere educato a farlo. In questo modo lo sport
come educatore e maestro di vita può aiutare una mente qualsiasi, sana o malata, a diventare più
forte, superando ostacoli e frustrazioni attraverso sacrifici e fatiche.
Sul piano pedagogico, la mia tesi è avvalorata dal pensiero di Vigotskij che contrapponendosi
alla posizione piagetiana, sostiene come il fanciullo possa avere uno sviluppo migliore
attraverso l’interazione con gli altri e soprattutto attraverso un rapporto positivo tra allenatore e
allievo.
Qualora lo sport diventi il maestro di vita che io credo sia, non ha solo il potere di migliorare
l’esperienza del singolo, ma può anche influenzare un’intera collettività e farsi portatore di
pensieri nuovi e giusti. Lo sport, attraverso la libertà di pensiero sviluppata dalla mente, può
essere un esaltatore di nazioni e un ricattatore di ingiustizie. Questa teoria è concretizzata dalla
storia della squadra nazionale sudafricana di rugby, gli Springboks , i quali hanno dovuto
affrontare ostacoli e ingiustizie durante il periodo dell’apartheid ma che, grazie alla loro forza
e volontà, hanno saputo riscattare loro stessi e la loro nazione. In inglese si descrivono i giochi
del Commonwealth, “club privato” che ha fatto di questi giochi una istituzione fondamentale
che lo caratterizza e lo differenzia da altre organizzazioni mondiali.
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La forza mentale , dunque, non è semplicemente qualcosa di scontato, ma un qualcosa da
costruire, modellare e rinforzare, perché se usata bene può essere guarigione per i malati, e
attraverso lo sport può portare al riscatto di un paese, può aiutare a perseguire i propri sogni e
può essere, infine, un grande educatore, maestro e fratello nei momenti di dolore e difficoltà.
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ESPERIENZA PERSONALE
"Sono sicura che l'atletica sia stata una parte importantissima della mia vita.Il sentirsi
realizzati per qualcosa che hai fatto tu, con le tue sole gambe; maturare e crescere facendo
sacrifici. Mi ha cambiato e non lo dimenticherò mai! L'atletica era, è e sarà una passione che
non si può cancellare "
Veronica Bertacchini- 29 Ottobre 2012
L'argomento della mia tesina “Mens sana in corpore sano. L'importanza della mente nello
sport,lo sport come maestro di vita” non scaturisce da un'idea casuale e acontestualizzata ma da
una vera e propria esperienza di vita: la mia.
Ho iniziato a praticare atletica all'età di dieci anni specializzandomi nella velocità:sono sempre
stata veloce, non resistente o abile nei salti, ma veloce. Amo correre, perchè la corsa può essere
la migliore amica nei momenti di difficoltà, di stress; la miglior psicologa nei momenti in cui
non vuoi vedere nessuno; ti ascolta, ti coccola, ti dona un'energia nuova.
Ho iniziato atletica in quarta elementare ed ero una bambina insopportabile, sempre chiusa in sè
stessa, timidissima, di poche parole e con pochissima autostima. Ricordo la difficoltà del primo
allenamento: la mia grande timidezza mi impediva di vivere a pieno l'allenamento, fatto di
sforzo fisico, ma anche di interazione tra ragazzi e coetanei, quelli che con il tempo sarebbero
diventati miei amici e una sorta di famiglia. La mia più grande difficoltà, all'inizio, era pensare
di poter riuscire in qualcosa; sono sempre stata molto insicura e non riuscivo a concepire che
potessi primeggiare in qualcosa, nonostante fossi stata chiamata dall'allenatore della scoietà,
Paolo Ortolani, perchè avevo vinto le gare organizzate dalla scuola. La prima gara che ho fatto a
livello agonistico, nel Giugno 2005, erano le gare provinciali organizzate a Rodegno Saiano:
non dimenticherò mai quella gara perchè è stata la mia più grande sconfitta, ma il mio più
grande insegnamento. Sono arrivata ultima nella finale dei 50 m perchè ero troppo agitata,
inesperta ed impaurita. Ricorderò sempre la frustrazione che ho provato arrivando al traguardo,
la mia vergogna aumentava sempre di più fino a scoppiare in un pianto disperato e nervoso.
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Da quel giorno sono cambiata o meglio ho iniziato a trasformarmi. Non sono diventata una
“wonder woman” dell'atletica, ma è stata la mia educatrice più grande; come una mamma mi ha
aiutato a diventare più forte, fisicamente e caratterialmente; mi ha insegnato a vivere con gli
altri, mi ha fatto conoscere nomi, persone, amici, fratelli che mi hanno aiutato a diventare come
sono adesso. Paolo Ortolani è una delle migliori persone che ho conosciuto in questi anni, il
mio primo allenatore e quello che mi indirizzato verso l'atletica. E' stato il primo, oltre ad i miei
genitori, che ha creduto in me e che ha visto in me un certo potenziale da plasmare, da stimolare
e da far crescere. Mi ha cresciuto come solo un allenatore, una allenaore vero, sa fare. Mi ha
spronato nei momenti di difficoltà maggiori quando ormai la mia “testa” non ci credeva più, mi
ha donato la possibilità di vivere veramente: non chiusa in me stessa ,ma aperta al mondo per
guardarlo con occhi nuovi. La società dell'Audaces Nave è diventata la mia famiglia, mi ha
visto vincere coppe e medaglie, ma mi ha sempre insegnato ad essere umile e nell'umiltà a
diventare ancora più forte. Lo sport è così, ti accetta, ti cambia e ti trasforma; non sono solo le
42 medaglie o le 13 coppe ad avermi dato più soddisfazioni, ma sono stati i sorrisi pieni di luce
quando c'era buio, l'incoraggiamento di amici e famigliari, i miei sorrisi quando attraversavo
per prima quel tanto agognato traguardo, le chiacchierate con amiche di altre squadre, gli
allenamenti sotto la pioggia, i miei allenatori e quella pista, quei 400 m che mi hanno donato
una vita nuova.
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EDUCAZIONE FISICA
“Pensi di avere un limite, così provi a toccare questo limite. Accade qualcosa. E
immediatamente riesci a correre un po' più forte, grazie al potere della tua mente, alla tua
determinazione, al tuo istinto e grazie all'esperienza. Puoi volare molto in alto.”
Ayrton Senna
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LA RESILIENZA: “Resisto, dunque sono”
“La resilienza non è una condizione ma un processo: la si costruisce lottando”
George Vaillant
La resilienza viene definita come “la capacità di un materiale di resistere agli urti senza
spezzarsi”, é un concetto che si sviluppa nell’ ambito dell’ingenieria ma che con il tempo ha
acquisito differenti accezioni e viene ora utilizzato anche in psicologia per definire la capacità
di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria
vita dinanzi alle difficoltà. La resilienza é il concetto attorno al quale ruota la mia ricerca
dal momento che supporta la mia tesi secondo la quale la forza mentale all’interno dello
sport é fondamentale per superare i limiti fisici e utilizzarli in modo propositivo.
A questo proposito, mi sono ritrovata in perfetto accordo con la tesi sostenuta in “Resisto,
dunque sono” di Pietro Trabucchi. Questo libro tratta di resilienza specificando soprattutto la
resilienza nello sport di resistenza, dove una grande forza mentale è essenziale per perseguire il
proprio obbiettivo, senza di essa c’è poco da fare.
Come già accennato, la parola resilienza deriva dalla metallurgia, ed è la capacità di un metallo
che resiste alle forze che vengono applicate ad esso.
Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulla barca con il termine resalio, è chi non
perde mai la speranza contro le avversità.
Si definisce “Resilienza” la capacità nel perseguire obbiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera
efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontrano. E’ l’atteggiamento contrario di
chi, di fronte alle avversità anche piccole, si arrende e perde la speranza e la motivazione.
Nel 2002 è stato fatto uno studio in cui si sono studiate le caratteristiche psicologiche di
trentadue atleti statunitensi, vincitori di medaglie olimpiche. E tale studio dimostra come la
resilienza sia fondamentale per vincere: é importante essere resilienti sia psicologicamente che
fisicamente.
Gli esseri umani sono resilienti fin dalla nascita, ma la resilienza può essere potenziata durante
la nostra vita.
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Ci sono fattori esterni per esempio gli antidepressivi che non stimolano il potenziamento della
resilienza; ma anche agli esseri umani fa comodo condividere una visione di loro stessi deboli,
perché ci permette di non impegnarci a fondo e di non assumerci le nostre responsabilità.
Egocentrismo, auto indulgenza, auto compassione caratterizzano gli umani. L’istituzione che
può meglio insegnare ad essere resilienti è lo sport, non lo sport-spettacolo, ma quello sport
che spesso viene lasciato dietro le quinte, quello fatto di sacrificio e duro lavoro.
Il mondo dello sport estremizza le difficoltà, per questa ragione si adatta a esercitare e
migliorare la resilienza. Ogni atleta dovrebbe essere, per prima cosa, abile nel fronteggiare lo
stress e le difficoltà e ,solo dopo ,specificamente forte nella propria disciplina. Al giorno d'oggi
i sistemi attuali di selezione dei talenti premiano solo il secondo aspetto e trascurano il primo, e
questa è una delle ragioni della scarsità di campioni.
La valutazione cognitiva è il modo in cui noi interpretiamo normalmente gli eventi, il modello
che ci siamo costruiti del mondo. Si può vedere il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: il
bicchiere rimane sempre lo stesso, ma quelli che ricaviamo sono due modelli del mondo
completamente opposti. La valutazione cognitiva determina la risposta del comportamento,
emozionale e fisiologia degli eventi.
Le nostre convinzioni di controllo condizionano il risultato finale. Se riteniamo un
obbiettivo come impossibile da raggiungere, non lo realizzeremo mai. Alcuni obbiettivi
sono veramente irraggiungibili ma spesso le nostre convinzioni di impossibilità sono infondate:
lo dimostra la storia dei record sportivi. Il primo passo è quindi quello di verificare sempre sul
campo le nostre convinzioni di impossibilità.
La miglior specialità sportiva che può rappresentare la resilienza è, a mio avviso, la maratona.
LA MARATONA
Nella maratona la forza mentale è indispensabile. Questa, come altri sport di resistenza, tende a
sviluppare sia muscoli che forza di volontà. La mente, durante la corsa per una lunga distanza, è
della massima importanza. Arrivati ad un certo numero di chilometri il corpo inizia a faticare e
cerca disperatamente qualcosa a cui aggrapparsi, questa “cosa” è la “testa”.
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La “testa” permette la giusta concentrazione per andare avanti, regola il respiro affinché l’atleta
non faccia fatica e, soprattutto, permette all’atleta di continuare a correre, nonostante tutto.
Storia
L'idea di organizzare la gara venne a Michel Bréal, che voleva inserire l'evento nel programma
della prima olimpiade moderna svoltasi ad Atene nel 1896. La maratona era la gara più attesa
dei primi Giochi olimpici e intendeva essere la rievocazione sportiva di un evento epico: la
corsa di Fidippide dalla città di Maratona all'acropoli di Atene per annunciare la vittoria dei
persiani nel 490 a.C. La maratona olimpica avrebbe seguito un percorso simile, dal ponte di
Maratona allo stadio Panathinaiko di Atene, per un totale di 40 km successivamente allungata
nel 1921 quando venne portata 42,195 km.
La maratona dal punto di vista tecnico/sportivo
La maratona è una specialità sia maschile sia femminile dell'atletica leggera. Si tratta di una
gara di corsa sulla distanza di 42,195 km.
CORRERE UNA MARATONACompletare una maratona è spesso considerato come uno sforzo supremo, ma molti allenatori
ritengono che sia alla portata di chiunque sia disposto a dedicare tempo e impegno per la
preparazione. La maratona è un'attività che affatica profondamente il fisico umano
(geneticamente non predisposto per questo tipo di sforzi) e che può determinare pesanti
ripercussioni a livello di salute.
Allenamento
Per molti corridori, la maratona è la gara simbolo e l'obiettivo da raggiungere. Molti allenatori
ritengono che l'elemento più importante dell'allenamento per la maratona sia la corsa per lunghe
distanze. Normalmente gli amatori cercano di raggiungere un massimo di 30–32 km in una sola
volta, e di circa 65 km a settimana, quando si allenano per la maratona. Maratoneti più esperti
possono correre per distanze superiori e percorrere più chilometri in una settimana. Un buon
programma di allenamento dura cinque o sei mesi, aumentando sempre iù la distanza da
percorrere.
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Durante l'allenamento per la maratona, è importante dare al proprio fisico un adatto tempo di
recupero. Se si sente fatica o dolore, si deve riposare per due giorni e lasciare che il corpo si
riprenda.
Prima della gara
Nelle due o tre settimane che precedono la maratona, i corridori normalmente riducono il loro
allenamento settimanale e si prendono almeno due giorni di riposo completo. Molti maratoneti
aumentano l'assunzione di carboidrati nella settimana precedente la prova per permettere
all'organismo di incamerare più glicogeno. Immediatamente prima della gara, molti corridori si
astengono dal mangiare cibo solido per evitare problemi digestivi. Si assicurano di essere
pienamente idratati e si scaricano prima della partenza. Molte maratone dispongono di bagni
lungo il tracciato, ma soprattutto in quelle più affollate le code possono essere lunghe. Un
leggero stretching prima della gara aiuta a mantenere i muscoli caldi.
Durante la gara
Gli allenatori raccomandano di provare a mantenere un ritmo il più possibile costante quando si
corre una maratona. Alcuni allenatori consigliano, ai maratoneti non professionisti, un paio di
minuti al passo verso gli ultimi ristori. Acqua e integratori salini distribuiti lungo il percorso
devono essere assunti regolarmente. Di solito esiste un tempo limite di circa sei ore, dopo il
quale il percorso viene riaperto al traffico normale, anche se le maratone più importanti tengono
aperto il tracciato più a lungo. Per i corridori amatoriali tempi sotto le tre ore sono considerati
buoni. Avere un obiettivo di tempo aiuta a mantenere un ritmo costante.
Dopo la maratona
È normale provare dolori muscolari dopo la maratona. La maggior parte dei corridori impiega
una settimana per riprendersi dagli sforzi della gara. Assumere amminoacidi a catena ramificata
dopo la competizione e 60 minuti prima può accelerare il recupero.
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INTERVISTA AD ATLETI
Ho intervistato alcuni atleti, non specialisti nella maratona ma ugualmente professionisti in altre
discipline per chiedere loro cosa pensassero dell’importanza della mente nello sport.
1. Prendendo in considerazione tutta la tua carriera di atleta, hai mai
pensato che per raggiungere buoni risultati sia necessario avere la “testa”? Se
sì perché? Se no perché? 2. Ti è mai capitato che il tuo fisico non ce la facesse più, ma la tua mente
ti “portasse avanti”?3. C’è chi si lamenta spesso della troppa fatica, c’è chi ha paura di non
potercela fare. Cosa diresti a queste tipo di persone?4. Si può dire che lo sport ti allena e prepara non solo per una gara, ma per
la vita?
Risposte:
Mandji Levi Roche
Società atletica Brescia 1950
Specialità velocità: 60-100-200 ,campione italiano 2014 sui 60 metri
Record Personali 60 m: 6"81 100m: 10"62 200m: 21"76
1. Secondo me la testa è fondamentale in uno sport come il nostro. Per avere
buoni risultati serve in primis il fisico e alle bandenti ma per avere quel risultato "di
valore" in più serve la testa. In momenti difficili è lei che fa la differenza. dalle
meno importanti alle gare Top che possono essere, camp italiani, europei e o via
dicendo.. Ci sono molti atleti che fanno dei buonissimi risultati in campo nazionale ,
ma in grandi manifestazione dove si devono confrontare con atleti di calibro
maggiore no, se uno con la testa è determinato in quei momenti fa vedere di che
pasta è fatto.
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2. Per quanto riguarda il rapporto tra testa e corpo, a me è successo il contrario.
Di fisico stavo da dio ma la testa mi ha tradito, forse perché avevo troppo voglia di
fare bene, forse perché mi sentivo troppo sicuro, fatto sta che su quei blocchi mi
sono mosso e sono stato squalificato. Sicuramente è stata una lezione che avrei
preferito saltare dato che era un "campionato italiano" ma quel che è fatto è fatto.
Bisogna essere determinati per ri-inseguire la forma psicofisica che avevo una
settimana fa.3. Che primo dipende dallo sport che fai, e secondo se vuoi arrivare in alto non
puoi non fare fatica. "Solo nel dizionario successo viene prima di sudore" tranne se
sei arabo o asiatico che leggi il libro al contrario!4. Lo sport ti prepara in tutto Ti rende una persona più responsabile "nel mio
caso no" ti rende una persona adulta e l'allenamento è una metafora della vita
quotidiana e le gare invece sono le sorprese (positive e negative) che essa ci riserva
Chiara Loda
Società:Atletica Virtus Castenedolo
Specialità: Salto in alto
Risultati ai campionati italiani a cui ho partecipato:
- Sesta classificata ai Campionati Italiani Allievi/e Outdoor 2013
(Jesolo) con la misura di 1.60m
- Terza classificata (medaglia di bronzo) ai Campionati Italiani
Allievi/e Indoor 2014 (Ancona) con la misura di 1.66 m
Record personale attuale: 1.71m -> (minimo per i Campionati Italiani Assoluti
Outdoor)
1. Sono convinta che per fare questo sport sia indispensabile avere la "testa";
ovviamente è di grande importanza il fisico ma credo che per affrontare le gare ed
ottenere risultati, oltre al fisico, all'allenamento, alla buona volontà sia necessaria la
"testa". Nella mia specialità (salto in alto) sono convinta che la "testa" conti davvero
tanto: prima di ogni salto serve quella concentrazione necessaria che ti permette di
affrontare l'asticella ed essa deriva solo dalla "testa".
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2. Parlando per esperienza devo dire che la testa è difficile averla, con il tempo
ci si abitua, la si allena e cosi si riescono a migliorare i risultati e anche se stessi con
mio grande stupore! Ero ai CDS assoluti a Lodi, pista che l’anno precedente mi
aveva dato pessimi risultati (3 nulli di ingresso) e dopo una “paura di non farcela”
iniziale la testa mi ha aiutato moltissimo e quindi tornando al punto di prima è
INDISPENSABILE; sempre durante la stessa gara sono riuscita a migliorarmi
facendo un personale al primo tentativo a 1.69 m, dopo questo salto il mio fisico era
stanchissimo ma ero determinata a volermi migliorare ancora e il terzo tentativo a
1.71 m è stato un successo, ovviamente grazie alla testa. Tantissime volte precedenti
a questa la “testa” mi ha tradito e quindi sono dell’idea che, come detto prima, la si
debba allenare e col tempo si riesce a “dominarla”. 3. Spesso sono stata una persona del tipo “non ce la posso fare” ma
ricollegandomi a ciò che ho detto prima: la “testa” è tutto. Chi si lamenta della
troppa fatica, a mio parere, non è colpito da una passione vera e profonda che ti
porta a fare tantissimi sacrifici e sforzi che non sempre ti conducono ad avere
risultati ma quando questi arrivano sei all’apice della felicità.4. Credo che lo sport in generale, ma soprattutto questo tipo di sport, ti prepari
non solo per una gara, ma per la vita: ti insegna ad affrontare nuove situazioni, a
superare problemi e anche a relazionarti con nuove persone perché il bello
dell’atletica è anche il rapporto che nasce tra gli avversari che sono prima di tutto
amici. La cosa che mi ha colpita di più appena sono entrata in questo “mondo” è
stata il vedere gli avversari sostenersi a vicenda, farsi il tifo, incitarsi e grazie a
questo sport ho potuto conoscere un’infinità di nuove persone con molte delle quali
sono nate profonde amicizie.
Le parole di questi atleti dimostrano concretamente ciò che voglio spiegare nella mia
tesina. Questi ragazzi concorrono con specialità diverse, ma tutti hanno un pensiero
comune ,cioè che se la mente,se la “testa” è forte, nulla è impossibile. La passione, così
come il corpo, pur essendo essenziali nel raggiungimento di obbiettivo sportivo , non
riescono a stimolare come solo la mente lo sa fare.
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ITALIANO
“La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi
appare isolato da me. io lo vedo. S’alza e s’abbassa…ma è la sua sola attività. Per ricordargli
ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito manifestarsi, afferro la matita.”
Italo Svevo: da “La coscienza di Zeno” -Prefazione e Preambolo
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Una mente sana funziona anche quando il corpo non risponde. Il motore di una persona deriva
dall’equilibrio tra mente e corpo che collaborano in armonia affinché l’individuo possa riuscire
nelle proprie intenzioni. Il corpo spesso è debole, ma una mente forte può arrivare a colmare le
imperfezioni di quest’ultimo. Per esempio consideriamo tutti i vizi umani come il fumo o la
droga. Questi ultimi rappresentano la debolezza del corpo, il quale ha bisogno di qualcosa a cui
aggrapparsi, per sentirsi vivo e completo; in questo caso la mente non riesce a sostituirsi perché
non è abbastanza forte e gli uomini non abbastanza determinati e coscienti che questi vizi
possono portare alla morte.
Ma cosa succede quando l’equilibrio tra mente e corpo si spezza? L’individuo si trova spaesato,
non è più sicuro di nulla, poiché le sue due personali chiavi di lettura del mondo non riescono
più ad interagire e, di conseguenza, tutte le verità sfumano, lasciando un grande vuoto. Questo
vuoto porta l’uomo ad uno smarrimento interiore, caratterizzato da una continua chiusura verso
il mondo, già pieno di incertezze e da una sfiducia verso gli uomini e verso se stesso. Tutto ciò
determina la malattia mentale, come la nevrosi, o l’inettitudine.
La mia tesina sostiene quanto un’interazione sana tra il corpo e la mente sia necessaria per una
vita equilibrata. Ho trovato, invece, un’antitesi nelle opere di Italo Svevo, il quale, narrando il
rapporto sbilanciato tra una mente malata e un corpo vizioso, sostiene l’impossibilità di
concepire un rapporto positivo tra le due dimensioni della persona umana ammettendo, nelle
sue estreme conseguenze, il suicidio come chiave di liberazione e unica modalità per trovare
equilibrio e pace.
Il pensiero di Svevo non può essere separato dal contesto socio -culturale nel quale l'autore
visse e scrisse, caratterizzato da una profonda crisi sociale provocata totale sfiducia nel
positivismo e alla crisi della borghesia. Ciò portò l'uomo alla consapevolezza che fossero
sufficienti la sola razionalità, il determinismo scientifico, la causalità necessaria a spiegare la
realtà. Tale presa di coscienza spinse l'uomo a cercare una via di fuga in mondi fantastici o in
ideali di uomo immaginari; a ciò gli scrittori reagirono in modo diverso: D'Annunzio con la
teoria del “superuomo”, Pascoli col “mito del fanciullino”, Svevo anziché inseguire miti o
inventarsi eroi decise di parlare e descrivere l'uomo in crisi. La novità di Svevo sta anche nella
sua ironia, nella costruzione di un protagonista antitragico e antieroico.
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L'analisi psicologica diventa l'argomento principale dei suoi romanzi, e questa analisi viene resa
dal punto di vista letterario con il "flusso di coscienza", una tecnica che consiste nel presentare
le idee del personaggio così come si presentano alla sua mente, senza cercare necessariamente
un legame logico fra le cose narrate, come avviene nella nostra psiche. Nelle sue opere ,
soprattutto nella Coscienza di Zeno, Svevo sottolinea come la malattia psichica porti alla
degenerazione corporea, al punto che è disposto ad ammettere il suicidio come liberazione dalle
sofferenze. Il corpo, quindi, perde della sua consistenza e del suo interesse.
ITALO SVEVO Vita e opere
Italo Svevo, pseudonimo di Ettore Schmitz (Trieste 1861 - Motta di
Livenza, Treviso 1928), fu un romanziere italiano, la cui opera
costituì un momento di passaggio tra le esperienze del decadentismo
italiano e la grande narrativa europea dei primi decenni del
Novecento.
Di famiglia ebraica, Svevo riuscì, grazie anche alle caratteristiche culturali di una città come
Trieste, allora parte dell'impero austroungarico, ad assimilare una cultura mitteleuropea, che gli
consentì di acquisire uno spessore intellettuale raro negli scrittori italiani del tempo. Al centro
di questa sua formazione stanno da una parte la conoscenza della filosofia tedesca (soprattutto
di Nietzsche e Schopenhauer) e della psicoanalisi di Freud e, dall'altra, l'interesse per i maestri
del romanzo francese, da Stendhal a Balzac fino al naturalismo di Zola, e per i grandi narratori
russi come Tolstoj, Dostoevskij .
Svevo assunse l'incarico di impiegato di banca nel 1880, dopo il fallimento della ditta paterna e
collaborando come critico teatrale e letterario a "L'indipendente”. La sua esperienza di
impiegato gli ispirò la prima opera pubblicata in volume, Una vita (1892), romanzo, che
portava in origine il titolo "Un inetto". Il romanzo successivo ,è Senilità (1898), rimanda non al
dato anagrafico bensì alla patologica vecchiaia psicologico-morale di EmilioBrentani.
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L'insuccesso dei primi due romanzi indusse Svevo a circa vent'anni di silenzio letterari, ma,
nonostante le responsabilità imposte dalla sua nuova posizione di dirigente nella ditta di vernici
del suocero, Svevo non cessò del tutto di coltivare la letteratura, come testimoniano alcuni suoi
racconti: l'inizio della stesura della Madre, ad esempio, risale al 1910, sebbene il racconto sia
stato pubblicato postumo, nel 1929, nella raccolta La novella del buon vecchio e della bella
fanciulla. Nel 1905 Svevo cominciò a prendere lezioni di inglese da James Joyce, con il quale
intrecciò un'amicizia che si sarebbe rivelata importante per il suo percorso letterario. Joyce lesse
con entusiasmo le opere di Svevo e lo incoraggiò a scrivere un nuovo romanzo. Nel 1908, si
avviò all'opera di Freud, che gli avrebbe fornito altri fondamentali strumenti per la coscienza di
Zeno, che cominciò ad elaborare durante la prima guerra mondiale. Il successo di quest’ultimo
libro lo incoraggiò a ripubblicare, nel 1927, Senilità e rappresenta a Roma il suo atto unico
Terzetto spezzato. Svevo, riprende con fervore la sua attività letteraria, pubblicando e scrivendo
racconti. Morì improvvisamente nel settembre 1928.
LA COSCIENZA DI ZENODal 1919, Svevo si dedicò alla composizione del suo romanzo più importante che pubblicò nel
1923.
La Coscienza di Zeno è una forma singolare di memoriale, cioè un apparente confessione
autobiografica, narrata in prima persona da Zeno Corsini.
Zeno Cosini è un ricco commerciante triestino che, giunto all'età di cinquant'anni, decide di
affidarsi alla terapia psicanalitica per liberarsi dalla sua inettitudine, dai vari complessi che lo
affliggono, per guarire dal vizio del fumo e dalla malattia che lo tormenta. Lo psicanalista,
induce Zeno a fissare sulla carta i ricordi della propria vita, ricordi che egli non rievocherà in
ordine cronologico, ma lascerà vagare in libertà nella sua memoria, in un seguito di episodi
legati ciascuno ad un suo vizio o ad un suo fallimento. Nascono così le varie storie narrate in
prima persona da Zeno stesso: il fumo, La morte del padre, La storia del matrimonio, La moglie
e l'amante.
La biografia di Zeno rappresenta una serie di sconfitte. Vuole guarire dal vizio del fumo, ma
vani sono gli sforzi per smettere di fumare; per disintossicarsi si fa perfino ricoverare in una
casa di cura, ma sal quale fugge dopo aver corrotto l'infermiera. Si iscrive all'università, ma non
riesce a terminare gli studi.
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I rapporti con il padre sono difficili ed equivoci; si innamora di Ada Malfenti, la figlia più bella
di un furbo commerciante, ma sposa Augusta la sorella strabica. Intreccia una storia
extraconiugale con Carla, ma questa lo abbandona per sposare il maestro di musica che lui
stesso, Zeno, le aveva presentato. Nelle pagine conclusive del suo diario di malato. Zeno dice di
essere guarito, non grazie alla psicoanalisi, ma alla felice ripresa della sua attività commerciale.
Il tempo entro cui il romanzo si colloca non è preciso; i fatti non si susseguono
cronologicamente . Spesso il passato ripercorre le strade del pensiero di Zeno e si confonde con
il presente formando un unico impasto non scindibile.
La principale tematica del romanzo è la malattia. Il personaggio di Zeno, infatti è caratterizzato
dalla dialettica, cioè dalla continua oscillazione tra volontà e comportamento effettivamente
adottato ( tra proposito e piacere). In questa dinamica tra proposito e piacere sta appunto la
nevrosi del protagonista, la sua malattia. I vantaggi di una nevrosi sono anche fuga da ogni
responsabilità. Il terzo capitolo del romanzo, intitolato il fumo, è quello che più raffigura il
concetto della malattia di cui scrive Svevo.
CAPITOLO TERZO: IL FUMOIl capitolo terzo riguarda il vizio del fumo del protagonista, dipendenza sviluppata fin da
ragazzino e sempre combattuta senza successo. A vent’anni Zeno si accorge di odiare il fumo e
si ammala ma ,nonostante la malattia, decide di fumare un’ultima sigaretta; ed è qui che si
evidenzia per la prima volta la vera malattia psicoanalitica del protagonista. Inizialmente il
fumo è per Zeno una reazione al rapporto con il padre e poi si allarga a forma di difesa verso la
realtà circostante e il mondo intero. In tal senso, ogni tentativo di smettere di fumare non è che
uno stimolo ulteriore al desiderio, tanto più se il apprezzamento per la propria perseveranza
viene da una figura come quella del padre
“Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima
voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato
dall’inquietudine [...] Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E,
sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e
veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
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Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi
di correre alla mia sigaretta.” (La coscienza di Zeno, cap III , il fumo)
Da questo frammento è possibile capire quanto la mente del povero Zeno sia debole, egli si
ripropone anno dopo anno di fumare “un’ultima sigaretta”, propositi inutili, poiché inventando
scuse e pretesti di ogni tipo,continua imperterrito con il suo vizio. Zeno, non vuole guarire dalla
sua nevrosi. Egli continua a rovinare sé stesso, disinteressandosi del su corpo o della sua salute
solo per provare ancora piacere; egli prova piacere a trasgredire il proposito perché così potrà
fare un nuovo proposito e prolungare il piacere, ecco qua presente l’oscillazione tra volontà e
comportamento adottato, ossia la nevrosi.
“Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto
la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di
fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi
legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una
grandezza latente.” (La coscienza di Zeno, cap III , il fumo)
Questa frase rappresenta l’inettitudine di Zeno, incapace di svolgere un compito e inventore di
scuse fittizie per giustificare alcuni suoi atti incomprensibili.
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PEDAGOGIA
“In finale mi confinarono in ottava corsia, non ero contento, non potevo controllare gli
avversari. All'uscita della curva ero penultimo, Wells indemoniato era tre metri avanti. Penso:
non avrò altre occasioni. Dodici anni di lavoro e di dolore per niente. Allora riparto, risento
tutto, rientro in gara, recupero, vinco, alzo le braccia”
Pietro Mennea
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“Mens sana in corpore sano”. Lo sport come educatore e maestro di vita
Intervista a Paolo Ortolani: Professore e allenatore di atletica nella società ”Audaces Nave”
-Lo sport educa al sacrificio e prepara agli ostacoli della vita?
- Come deve essere il rapporto tra allenatore e atleta ? L’allenatore è un maestro?
“Non mi sono mai sentito allenatore, anche se ho fatto corsi per imparare la tecnica. Ho sempre
scelto questa “missione”, chi aveva contatto con il pubblico la chiamava “missione” perché
scattava qualcosa. La parte tecnica pura non mi interessa, m’interessa il ragazzo nella sua
totalità, come cresce. Preferisco tirare su venti ragazzi sereni e tranquilli, che un campione;
mentre ci sono certi colleghi che decidono di non allenare un ragazzo perché sostengono non
abbia le potenzialità per diventare un campione, per me è veramente assurdo.
Noi in un anno abbiamo anche settanta, ottanta ragazzi. C’è chi è meravigliato e si chiede come
possiamo farcela; noi facciamo i salti mortali, facciamo tutto, ma deve essere così, questa è
l’educazione. In questa società non si paga, noi lo facciamo gratis, ma pretendiamo che i
bambini come i ragazzi siano rispettosi e si impegnino, che facciano un percorso e dimostrino
attaccamento alla società sportiva. Lo sport è anche questo, richiede sacrificio, impegno. Una
gara è come una verifica, per la verifica bisogna studiare, per una gara bisogna allenarsi
costantemente e con impegno. Nella gara noi non pretendiamo che si arrivi sul podio,
l’importante è che si venga ,per una questione d’impegno, poi c’è chi non è contento quando i
suoi ragazzi arrivano negli ultimi posti.
Ho sempre avuto un rapporto schietto con chi alleno, più facilmente con le ragazze, e ho
allenato tanti ragazzi, voglio dire, Papa ha vinto un campionato italiano, è andato alle gare
internazionali con 7,72 nel lungo. Voglio essere schietto nel rapporto con un ragazzo, non atleta,
ma ragazzo o ragazza; alcune volte le mamme mi guardano male, ma io dico quello che penso,
se poi qualcuno si offende chiedo scusa.
Una volta mia figlia mi ha detto “Sei stato più un papà di tanti ragazzi che il mio”, ed è vero,
questo lo rimpiango.
L’educazione ora è diversa, i ragazzi hanno fretta di imparare, ma la loro attenzione dura
pochissimo; bisogna bombardarli di stimoli, solo così possono reggere.
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Di questi tempi c’è: la fretta di arrivare ai risultati, molte volte sono , però, condizionati dalla
famiglia che spinge e poi c’è l’incapacità di stare con gli altri e sopportarli. Un anno fa una
mamma, mi ha portato qui i suoi figli, un disastro, lei mi ha chiesto se glieli potevo tenere, non
allenare, ma tenere. Ora questi ragazzi sono cambiati, chi non li conosceva l’anno scorso non
immaginerebbero mai come potevano essere agitati. La cosa più bella che mi fa inorgoglire è
quando sento una mamma o una maestra che mi dicono che da quando il ragazzo o la ragazza è
venuta con me è cambiata, si sente più sicuro, parla.
Mi piace stare con i ragazzi, secondo me l’ironia, l’ironia buona fa scattare il ragazzo, un
rapporto sincero fa bene al ragazzo, lo invoglia anche ad impegnarsi di più.
Io non voglio essere chiamato professore, ma maestro e voglio insegnare ai miei ragazzi
attraverso lo sport, nello specifico l’atletica, ciò che è importante nella vita. Non voglio che alla
prima difficoltà loro mollino tutto, perché ognuno ha un potenziale e bisogna sfruttarlo. Tutti
devo imparare, non c’è quello che perde o quello chi vince, tutti sono uguali e tutti hanno il
dovere e il diritto di provarci. Il mio idolo da sempre è Don Milani, infatti quando sono stato in
dubbio nei miei anni passati ho sempre letto ciò che ha scritto, soprattutto lettere ad una
professoressa. Il ragazzo ha bisogno di sentirsi bene, nelle gare questo si vede. Se un ragazzo ha
autostima, grinta, voglia di arrivare nonostante la stanchezza ha già vinto ”
Paolo Ortolani è un allenatore della società sportiva di atletica “Audaces Nave” da poco tempo
dopo la sua fondazione ed è professore in pensione di educazione fisica. Nonostante la sua età
non si lascia mai sfuggire una gara, un allenamento, sempre pronto a spronare i ragazzi. Ha
educato ragazzi come se fossero suoi figli, non perdendosi d’animo, credendo lui per primo in
loro, anche quando loro stessi non vedevano quel grande potenziale.
La mia tesina vuole parlare proprio di questo: l’importanza che la mente ha nello sport. Si è
portati a credere che nello sport per diventare un campione si debba rafforzare solo il corpo:
muscoli per correre, per lanciare, per palleggiare, per passare, per nuotare, ciò non è vero.
Dimentichiamo che il nostro corpo non va se la mente non dice di correre, le braccia non
lanciano se non c’è forza di volontà. E’ importante essere lucidi, concentrati, avere “testa”,
allenare la nostra mente, testa o cervello alle grandi difficoltà della vita, delle fatiche, del
sacrificio che anche lo sport richiede.
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Io sostengo che lo sport sia un ottimo educatore, insegna a tutti, bambini, adolescenti o adulti,
quali siano i veri valori che caratterizzano una persona forte: impegno, sacrificio, capacità di
adattamento. Lo sport insegna ad avere fiducia in se stessi, insegna a perseguire i propri
obbiettivi anche quando ci sembra impossibile, ci sprona a seguire i nostri sogni. Lo sport
insegna a vivere.
“Atletica leggera, perché ti piace?
Questo sport mi piace perché mi ha dato e mi sta dando sicurezza ogni giorno di più,
lasciando così alle spalle la timidezza che mi chiudeva in me stessa”
Ciò è stato risposto da una ragazza e da qui il mio sogno che lo sport possa continuare a
svolgere un ruolo importante nella società, educando bambini e ragazzi per un mondo pieno di
incertezze e paure, ma superate queste ci sono altrettante soddisfazioni.
Lo sport, fatto di allenatori, amici, compagni di squadra, nemici ,gioca un ruolo importante
nella vita di un individuo. A questo proposito, per sostenere la mia tesi, espongo il pensiero di
due grande pedagogisti: Piaget e Vigotskij; entrambi trattano il medesimo argomento, ma con
pensieri contrastanti. La mia tesi si avvicina al pensiero di Vigotskij, il quale sostiene la
necessità del fanciullo di stare in contatto con altri, di immergersi nella società, in modo da
interiorizzare tutto per poi mettere a frutto ciò che si è imparato; Piaget sostiene invece che la
società non influenzi in modo determinante lo sviluppo intellettivo del fanciullo che cresce
seguendo le proprie attitudini e il proprio spirito di adattamento.
Piaget , Vigotskij e l’educazione del fanciullo: un confronto Jean Piaget: Biografia
Jean Piaget (1896-1980), formatosi alla scuola della biologia e della filosofia, venne influenzato
da Bergoson e Kant, ma anche della psicologia, ha un ingegno precocissimo che lo porta all’età
di vent’anni ad aver pubblicato numerosi lavori. In questo periodo traccia anche un
programma:dedicarsi allo studio e all’analisi dei legami tra biologia e conoscenza, cio porterà
alla nascita della così detta “epistemologia genetica”, che delinea lo sviluppo della conoscenza
scientifica del mondo attraverso lo studio clinico e sperimentale dei bambini fino ai nove anni.
Entrato nel 1921 nell’ “istituto Jean-Jaques Rousseau”, Piaget inizia gli studi che daranno frutto
al Pensiero e il linguaggio del fanciullo (1923) a cui seguiranno gli studi sul giudizio, sul
ragionamento, sulla rappresentazione del mondo e sull’idea di causa.
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Nel 1932 Piaget pubblica Il giudizio morale nel fanciullo un’opera che ipotizza, contro Freud,
che anche lo sviluppo della moralità sia legato a quello dell’intelligenza. Nello stesso periodo
s’interessa sempre più alla ricerche della psicologia della Gestalt e al concetto di “struttura” e
diventa direttore dell’istituto Rosseau. Nel 1930 è direttore del Bureau International de
l’Education. Verso la fine degli anni trenta si dedica allo sviluppo logico dei preadolescenti e
degli adolescenti. Nel 1955 fonda il “Centro di epistemologia genetica”, che approfondirà gli
studi da lui proposti grazie al lavoro di un’ampia équipe di ricercatori. Piaget opera per tutto il
quarto di secolo successivo, dando orginie a numerosi scritti.
Il pensiero pedagogico di Piaget: l’adattamento e l’egocentrismo costituiscono l’elemento
dello sviluppo umano
Piaget ha elaborato la prima teoria sullo sviluppo mentale del bambino basata sul metodo
clinico. Egli ha dimostrato sia che la differenza tra il pensiero del bambino e quello dell'adulto è
di tipo qualitativo (il bambino non è un adulto in miniatura ma un individuo dotato di struttura
propria), sia che il concetto di intelligenza legato al concetto di "adattamento all'ambiente".
L'intelligenza è una conseguenza del nostro adattamento biologico all'ambiente. L'uomo non
eredita solo delle caratteristiche specifiche del suo sistema nervoso e sensoriale, ma anche una
disposizione che gli permette di superare questi limiti biologici imposti dalla natura
Piaget distingue due processi che caratterizzano ogni adattamento: l’assimilazione e
l'accomodamento, che si avvicendano durante l'età evolutiva. Si ha assimilazione quando un
organismo adopera qualcosa del suo ambiente per un'attività che fa già parte del suo repertorio e
che non viene modificata Questo processo predomina nella prima fase di sviluppo. Nella
seconda fase invece prevale l'accomodamento, il bambino può svolgere un'osservazione attiva
sull'ambiente tentando anche di dominarlo.
Piaget sostiene che ci siano delle strutture mentali in progressiva formazione e trasformazione .
Piaget dice:
“Ogni struttura dovrà essere concepita come una particolare forma di equilibrio che si
mantiene più o meno stabile in un campo ristretto. Queste strutture si succedono secondo una
legge di evoluzione per cui ciascuna assicura un equilibrio più largo e più stabile ai processi
che intervenivano in seno al precedente” ( da “Psicologia e pedagogia, Torino, Loescher, 1973)
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-Le strutture mentali non si possono definire né innate né acquisite, perché sono l’esito di una
costruzione.
- ogni struttura, dalla più semplice alla più complessa, deve essere intesa come totalità ed è
plastica, subisce quindi trasformazioni.
- Nel corso dell’evoluzione le strutture mentali possono essere distribuite su quattro livelli
fondamentali (teoria degli stadi)
I periodi dello sviluppo
A Il periodo dell’intelligenza senso motoria: dalla nascita ai 18/24 mesi (infanzia)
Dalla nascita ai 2 anni circa. Tale fase è ulteriormente divisa in sei stadi durante i quali il
bambino passa da una fase di riflessi innati ad una fase di scoperta del proprio corpo e quindi di
interazione con l’ambiente circostante. Dal dodicesimo mese ha inizio un processo di
ragionamento tale per cui il bambino sperimenta varie possibilità per raggiungere uno stesso
obiettivo. Dai 18 mesi in poi. Il bambino è in grado di agire sulla realtà col pensiero. Può cioè
immaginare gli effetti di azioni che si appresta a compiere, senza doverle mettere in pratica
concretamente per osservarne gli effetti. Egli inoltre usa le parole non solo per accompagnare le
azioni che sta compiendo ma anche per descrivere cose non presenti e raccontare quello che ha
visto-fatto qualche tempo prima.
B Il periodo dell’intelligenza rappresentativa: dai 2 agli 11/12 anni ( fanciullezza)
Il passaggio dall’intelligenza senso motoria all’intelligenza operativa ( prima di tipo intuitivo o
pre-opratorio, dai 4/5 ai 7/8 anni , e successivamente di tipo operatorio concreto dai 7/8 ai 11/12
anni ) è reso possibile perché tra i 2 e 4 anni c’è un progressivo consolidamento della funzione
rappresentativa, che emerge e si consolida attraverso la funzione simbolica.
B.1 Fase pre-concettuale. (va dai 2 ai 4 anni).
L'atteggiamento fondamentale del bambino è ancora di tipo egocentrico, in quanto non conosce
alternative alla realtà che personalmente sperimenta. Questa visione unilaterale delle cose lo
induce a credere che tutti la pensino come lui e che capiscano i suoi desideri-pensieri, senza che
sia necessario fare sforzi per farsi capire.
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Il linguaggio diventa molto importante, perché il bambino impara ad associare alcune parole ad
oggetti o azioni. Con il gioco occupa la maggior parte della giornata, perché per lui tutto è
gioco: addirittura ripete in forma di gioco le azioni reali che sperimenta
B.2 Fase pre-operatoria non reversibile (va dai 4 ai 7/8 anni)
Aumenta la partecipazione e la socializzazione nella vita di ogni giorno, in maniera creativa,
autonoma, adeguata alle diverse circostanze. Entrando nella scuola materna, il bambino
sperimenta l'esistenza di altre autorità diverse dai genitori. Questo lo obbliga a rivedere le
conoscenze acquisite nelle fasi precedenti, mediante dei processi cognitivi di generalizzazione:
ovvero, le conoscenze possedute, relative ad un'esperienza specifica, vengono trasferite a
quelle esperienze che, in qualche modo, possono essere classificate nella stessa categoria.
B.3 Fase operatoria reversibile . (va dai 7/8 anni agli 11/12 anni).
Il bambino è in grado di coordinare due azioni successive; di prendere coscienza che un'azione
resta invariata, anche se ripetuta; di passare da una modalità di pensiero analogico a una di tipo
induttivo; di giungere ad uno stesso punto di arrivo partendo da due vie diverse. Naturalmente il
bambino fino a 11 anni è in grado di svolgere solo operazioni concrete, non essendo ancora
capace di ragionare su dati presentati in forma puramente verbale.
Nonostante le teorie di Piaget siano considerate ora abbastanza superate, egli ha certamente
avuto il merito di sottolineare la presenza di uno sviluppo graduale dell’intelligenza umana.
La mente di un bambino è come una spugna che assorbe e reimpiega velocemente, quasi
istantaneamente, i comportamenti che ha acquisito in un determinato contesto.
Un elemento del discorso di Piaget che è stato invece confutato, e che è particolarmente
interessante per lo sport come realtà di socializzazione, è l’egocentrismo del bambino. Piaget è
convinto che sia l’egocentrismo a spingere il bambino, mosso dalla necessità di sopravvivere,
ad adattarsi all’ambiente. L’intelligenza di Piaget è quindi un’intelligenza personale e legata alla
genetica: il bambino è più intelligente se è più forte la sua tendenza ad adattarsi.
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Lev Semënovič Vygotskij: Biografia
Nasce nel 1896 e si forma attraverso studi di filosofia e di scienze umane. Il suo lavoro
sistematico inizia nel 1924, anno della morte di Lenin. I dieci anni successivi del lavoro di
Vygotskij, gli unici che gli restano da vivere a causa di una grave forma di tubercolosi, si
intrecciano radicalmente con il forte dibattito dettato condotto dalla nuova cultura sovietica sul
ruolo della scienza, ma anche sui suoi contenuti e sul rapporto con le dottrine dei Paesi
capitalisti d’Occidente. In quegli anni Vygotskij arriverà alla concezione che lo sviluppo umano
dipenda ampiamente dalla situazione sociale. Così, se Makerenko finisce per aderire
pienamente alle posizioni della cultura ufficiale, Vygotskij non lo farà maie questo porta a una
censura dei suoi libri fino alla fine degli anni cinquanta. Nel 1925 compone Psicologia dell’arte
e pubblica La coscienza come problema della psicologia del comportamento , testo con cui
nasce la “scuola storico-culturale” della psicologia russa. Del 1926 pubblica numerosi articoli
sulla psicologia e sull’educazione dei bambini con handicap fisici e psichici. Nel 1934, ormai
postumo, esce il suo libro più famoso: Pensiero e linguaggio che, come altri suoi scritti
pedagogici, nel 1936 viene condannato dal “Comitato Centrale del Partito comunista
sovietico”.
Il pensiero pedagogico di Vygotski : lo svulippo intellettivo del faciullo é legato al contesto
sociale
"...quello che piu' interessa è il legame intrapsicologico e interpsicologico che si viene a
sviluppare tra i partecipanti all'interazione. Se parliamo di costruzione attiva della conoscenza
questa si puo' verificare solo con un'accettazione sul piano intrapsicologico di elementi comuni
non necessariamente noti a tutte le parti in "causa" . In questa prospettiva i componenti di
un'interazione sono orientati attivamente a mediare e a condividere un sapere che
non necessariamente deve essere già noto e condiviso.Proprio questo processo di negoziazione
della conoscenza consente di
ridefinire continuamente il proprio stato di sviluppo mentale e relazionale, per consolidare da
un punto di vista cognitivo la propria presenza nel mondo" (da "Pensiero e linguaggio" di
Vygotskij)
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Vygotskij ha confutato parte della teoria di Piaget nel suo scritto Pensiero e Linguaggio,
sostenendo che il bambino non impara perché egocentrico, ma apprende in un contesto sociale,
quindi non per un principio di adattamento ma in rapporto alle relazioni che instaura.
In particolare Vygotskij sostiene che la crescita di una persona, e in particolare di un bambino,
avviene attraverso l'interazione sociale, soprattutto con gli adulti. Attraverso questa interazione
lo sviluppo del bambino potrà trasformarsi al meglio, tramite le informazioni apprese
dall’adulto. L’apprendimento non segue regole sociali stabilite e non avviene solo in alcuni
contesti ma interessa tutti i soggetti in tutti i contesti. Il passaggio di competenza può quindi
avvenire tra un gruppo di pari ( come i componenti di una squadra di calcio, pallavolo o
atletica) o in una relazione tra bambino e allenatore o tra bambino e insegnante. Nella relazione
il bambino è motivato a sviluppare precise competenze e viene guidato nello sviluppo da un
adulto o da un suo coetaneo che, per svariati motivi, ha già maturato queste capacità.
Le teorie di Vygotskij hanno infatti dimostrato che una buona cooperazione fornisce la base
dello sviluppo individuale. Per esempio in un gioco o durante un all’allenamento, il bambino
segue determinate regole, subordinando il proprio comportamento ad esse; questo avviene
perché ripreso sia dai suoi compagni, sia dall’allenatore. I processi cognitivi si attivano quando
il bambino sta interagendo con persone del suo ambiente e con i suoi compagni che lo inducono
a riflettere e cambiare il proprio comportamento.
Vygotskij sostiene inoltre che la “buona cooperazione” non avviene sempre ma quando il
bambino instaura rapporti significativi. Questi rapporti si sviluppano soprattutto in contesti
dove il bambino non è messo alla prova o portato a dover dimostrare delle conoscenze che poi
devono essere valutate, come la scuola per esempio, ma all’interno di contesti più informali
dove il ruolo dell’adulto non è percepito come valutatore ma come accompagnatore.
La prima regola di Vygotskij è la costituzione di un clima positivo. Per costruire un clima
positivo l’atteggiamento dell’allenatore dovrebbe essere democratico, sincero, positivo, inteso
come punto di riferimento, guida, persona disponibile all’ascolto e all’aiuto.
Una notevole importanza è data al ruolo dell’allenatore che deve essere in grado di gestire la
cooperazione, accettando anche i momenti di competizione e cercando di creare delle attività
che possano mettere tutti i bambini in situazioni tali da essere sia perfettamente competenti che
in fase di apprendimento.
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L’allenatore deve infatti trovare degli obiettivi da proporre ai fanciulli che siano motivanti.
Vygotskij definisce tali attività “apprendimento socializzato nell’area di sviluppo potenziale”.
Tale avanzamento nella scala della conoscenza avviene più facilmente se lo si condivide con i
propri pari, per questo lo si definisce socializzato. All’interno di una squadra, l’apprendimento è
per natura socializzato; per essere anche efficace è necessario che l’allenatore abbia chiaro in
mente l’obiettivo a cui vuole portare l’individuo o la squadra e sia consapevole che il tutto deve
essere fatto gradualmente.
Questa crescita può investire diversi campi, dal campo puramente fisico attraverso degli
allenamenti più duri, a quello di un miglioramento dei rapporti di gruppo attraverso attività di
gioco.
Vygotskij sottolinea un elemento fondamentale che io credo sia il cardine della mia tesi: la forsa
del potenziale educativo. Io credo fortemente che lo sport sia un maestro di vita e che insegni
che le due chiavi di lettura che l’uomo ha per comprendere e intervenire sul mondo ( la sua
mente e il suo corpo) debbano essere equalmente alimentate perché la loro armonia porti
all’armonia dell’esere umano. Ci sono stati casi, e la letteratura italiana ce ne ha mostrati alcuni,
dove il rapporto sbialnciato tra queste due dimensioni sia fatale per l’uomo. Come é possibile
quindi riportare l’equilibrio in un uomo apparentemente sbilanciato?
Il pedagogista russo risponde a questa domanda investendo nella formazione, nel potere
sociale dell’educazione, nella forza della relazione come forza profulsiva dello sviluppo
intellettivo e fisico dell’essere umano.
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STORIA
"Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Di unire la gente. Parla una lingua che tutti capiscono.
Lo sport può creare la speranza laddove prima c’era solo disperazione"
Nelson Mandela
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La frase di Nelson Mandela sintetizza una riflessione apparentemente scontata, ma dal forte
potenziale rivoluzionario: la mente può cambiare il risultato in una gara, così come la libertà di
pensiero può cambiare il corso della storia di una nazione. Nello sport c’è una correlazione tra
mente e libertà: la mente influenza la libertà di pensiero la quale consente ad un atleta o ad una
squadra di perseguire i propri obbiettivi indipendentemente dalla situazione sociale o politica o
economica del momento. Oggi, non tutti riescono a vedere questo grande potere
“rivoluzionario”, poiché lo sport considerato è solo lo “sport-spettacolo” di calciatori miliardari
inclini all’alibi o al lamento o delle tifoserie che usano lo stadio come loro personale campo di
battaglia; le persone sono anche accecate dal pregiudizio per cui lo sport non può più
trasmettere nulla di positivo perché malato da quel cancro che è il doping .
Non si possono di certo confutare queste teorie, poiché alcuni fatti ne confermano la veridicità;
tuttavia, come sempre, non si può permettere che una delle dimensioni di una situazione vada a
influenzare la visione dell’intero sistema. A questo proposito Pierre de Coubertin dice:
“La sana democrazia, il saggio e pacifico internazionalismo penetreranno nel nuovo stadio e vi
manterranno questo culto dell’onore e del disinteressamento che permetterà all’atletismo di
fare opera di perfezionamento morale e di pace sociale e nello stesso tempo di sviluppo
muscolare ( Cfr A. Lombardo, Pierre de Coubertin, Rai Eri Roma 2000, pag. 199 )
Lo sport, dunque, non è soltanto fatto di atleti automi, impegnati solamente nel raggiungimento
dei propri obbiettivi agonistici, ma è anche un’istituzione fatta da persone che, oltre ad essere
campioni nell’ambito sportivo, sono campioni o esempi per le loro nazioni.
Ci sono stati atleti che lottarono per le proprie idee, per un interesse collettivo, combattendo per
quei valori basilari come il rispetto, l’accoglienza, l’uguaglianza , la cooperazione utilizzando il
mezzo più potente che potessero avere: lo sport. Esempi come Jesse Owens-atleta
afroamericano che vinse per gli USA quattro medaglie d’oro, nell’Olimpiade di Berlino del
1936, umiliando Hitler davanti ad una Germania nazista- o episodio come quello che avvenne
durante l’Olimpiade di Città del Messico del 1968, quando alcuni atleti- tra cui il velocista
Tommie Smith ed il quattrocentista Lee Evans, che aderivano al Black Power (movimento
estremista per l’emancipazione dei neri) - proposero il ritiro di tutti gli atleti di colore dalle
rappresentative statunitensi.
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I due, vincendo rispettivamente oro e bronzo nei 200 metri, si esibirono sul podio a piedi nudi
per simboleggiare la povertà e le proprie radici, sollevando il pugno coperto da un guanto nero e
chinando il capo mentre nello stadio sventolavano le bandiere statunitensi.
Vi sono altri numerosi esempi che possono essere annoverati, ma quello più significativo, a mio
avviso, lo si trova nella storia degli “Springboks”, squadra di rugby nazionale sudafricana.
SPRINGBOKS "one team, one country”
La storia degli Springboks è stata caratterizzata, condizionata e rovinata dalla presenza
dell'apartheid, politica di segregazione razziale istituita nel dopoguerra dal governo di etnia
bianca del Sudafrica e rimasta in vigore fino al 1993. L'apartheid provocò numerosi problemi
alla squadra sudafricana, poiché, durante tutto il periodo di segregazioneessa venne isolata e
esclusa dall'intera comunità internazionale. I danni non furono limitati solo alla squadra, il
problema dell'apartheid diede vita ad una grande protesta mondiale che, come conseguenza,
creò a catena il boicottaggio di numerose nazioni africane alle olimpiadi di Montreal del 1976.
Dopo numerosi disagi ,gli Springboks, caduta l'apartheid, riuscirono a rientrare nel giro
internazionale e nel 1995, con una vittoria schiacciante sugli All Blacks, squadra nazionale di
rugby della Nuova Zelanda ,vinsero la Coppa del Mondo , riscattando allo stesso tempo la
propria squadra e la propria nazione dilaniata dalle ingiustizie subìte.
La nascita degli Springboks e i primi passi a livello internazionale
La prima organizzazione ufficiale di rugby in Sudafrica fu la South African Rugby Board, nata
nel 1889 e attiva fino al 1992. A seguito della fine dell'apartheid, il 23 marzo dello stesso anno
le due organizzazioni che gestivano separatamente lo sport praticato dai bianchi e quello
praticato dai neri diedero luogo a una fusione che generò la South African Rugby Football
Union, che dal 2005 divenne l'attuale South African Rugby Union.
Il primo tour di una squadra delle Isole britanniche in Sud Africa ebbe luogo nel 1891, quando
la squadra inglese vinse tutti gli incontri. Il vero esordio della neo squadra sudafricana avvenne
nel tour delle Isole britanniche nel 1896 . Le Isole britanniche vinsero tre dei quattro test
disputati con quella che si potrebbe definire la nazionale sudafricana.
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Quel test segna l'inizio dello spirito del rugby sudafricano: un gioco incentrato sulla forza e
sulla potenza dell'impatto fisico. L'ultimo test, vinto dai sudafricani, fu il vero punto di partenza
del rugby sudafricano. Un altro tour importante fu nel 1906, tour che riuscì a ricucire i rapporti
con la Gran Bretagna dopo le guerre boere e contribuì ad instaurare nel popolo sudafricano un
sentimento di unità e orgoglio patriottico indispensabile per la nascita di una nazione. Durante
quel tour venne utilizzato per la prima volta l'appellativo Springboks, termine che venne
allargato a tutte le squadre di qualsiasi sport che rappresentavano il Sudafrica in competizioni
mondiali. Questo consuetudine venne lasciata nel 1994 con la creazione del nuovo governo
democratico sudafricano.
Gli Springboks e l'APARTHEID
Dal 1948, data in cui fu introdotto l'apartheid in Sudafrica, la legge prevedeva che tutte le
squadre in tour in Sudafrica non potessero schierare giocatori neri. Fin dal primo tour in terra
sudafricana i neozelandesi si erano adattati a questa regola. Nel tour del 1928 vennero infatti
esclusi George Nepia e Jimmy Mill, due giocatori non bianchi. Negli anni Sessanta ,però, il
movimento anti-apartheid cresceva e quindi nel 1960, nonostante il continuo isolamento
internazionale del Sudafrica, 150.000 firme di opposizione e una forte manifestazione che
gridava "No Maori, No tour", gli All Blacks visitarono lo Stato sudafricano. La storia non si
ripetè nel 1967, quando ancora una volta lo stato sudafricano si rifiutò di ammettere i giocatori
di colore della squadra neozelandese e quest'ultima si ritrovò a cancellare il tour. Nel 1970 ci fu
un leggero miglioramento che fece sperare in una possibile disgregazione della dura politica
dell'apartheid, difatti gli All Blacks visitarono di nuovo il Sudafrica e questa volta il governo
concesse ai giocatori maori di partecipare e ammise anche la presenza di spettatori maori allo
stadio in qualità di "honorary whites”. La squadra sudafricana, negli anni '70 , a causa della
propria politica, fu oggetto di ingiustizie da parte del governo neozelandese . Nel 1971 gli
Springboks organizzarono un tour in Australia, dove vinsero tutti gli incontri, ma anche questo
tour, fu caratterizzato da proteste anti-apartheid, poiché le associazioni di trasporto australiane
si rifiutarono di ospitare gli Springboks in treno o in aereo, perciò i giocatori dovettero essere
trasportati dall'Air Force australiana.
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Questo evento puo essere considerato l'inizio dell’emarginazione sportiva che interessò il
Sudafrica dal 1977 quando il Commonwealth, in seguito al boicottaggio delle Olimpiadi del
1976 di cui parleremo di seguito, emanò l'accordo di Gleneagles che vietava ogni tipo di
contatto, a livello sportivo, con il Sudafrica.
Boicottaggio delle Olimpiadi di Montreal del 1976
Le olimpiadi moderne nascono dal volere del barone francese Pierre de Coubertain di riportare
in vita gli antichi giochi olimpici che si svolgevano nell'antica Grescia. Uno dei dogmi delle
olimpiadi moderne è, per esplicita dichiarazione di Coubertin, l’internazionalismo. Infatti
l'inventore dei giochi olimpici era determinato nel riuscire a riunire sotto la stessa bandiera gli
atleti di tutti i paesi, di tutte le razze e le religioni. Le Olimpiadi rompono i confini nazionali e
danno la possibilità alle squadre di tutti i paesi e di tutte le discipline di incontrarsi in modo
pacifico sui campi di gioco, nel medesimo luogo e contemporaneamente.
In linea con i principi appena citati, durante le Olimpiadi di Montreal, ben 26 paesi africani non
si presentarono alla Cerimonia di Apertura per manifestare contro le discriminazioni razziali; a
questi se ne aggiunsero altri nei primi giorni delle Olimpiadi fino ad un totale di 33 paesi e circa
300 atleti. I paesi boicottarono in segno di protesta per sostenere la Nuova Zelanda, la quale si
era recentemente recata in viaggio nel Sudafrica, dove aveva giocato con altre squadre
composte esclusivamente da bianchi; inoltre Tanzania e Congo avevano chiesto espressamente
al Comitato Olimpico Internazionale (CIO) l'esclusione della squadra neozelandese. Dal
momento che il rugby non era più uno sport olimpico, il CIO preferì non intervenire nella
faccenda e lasciò che il problema fosse risolto al di fuori dell'organizzazione dei giochi. Di
seguito troviamo tutti i paesi africani boicottanti.
Algeria Camerun Rep Centraficana Ciad Rep. del Congo Egitto Etiopia Gabon Gambia Ghana Guyana
Iraq Kenya Libia Lesotho Madagascar Malawi Mali Marocco Niger Nigeria Taipei Cinese
Somalia Sudan Swaziland Tanzania Togo Tunisia Uganda Burkina Faso Zambia
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La disgregazione dell'Apartheid e la rivalsa degli Spingboks. Mandela unisce due popoli
All'inizio degli anni '90 la politica dell'apartheid cominciò a sgretolarsi: gli Springboks furono
quindi riammessi nel rugby internazionale nel 1992. Lavorarono per poter raggiungere gli
standard qualitativi conseguiti negli anni precedenti all'isolamento internazionale.
Il 1995 fu per il Sudafrica l’anno della svolta, il paese venne infatti scelto come paese ospitante
della Coppa del mondo di rugby. Fu l'evento sportivo più importante che il Sudafrica abbia
organizzato prima del mondiale di calcio del 2010. Per l'occasione la tifoseria, fatta non solo di
bianchi, ma anche di neri, costituì lo slogan “one team, one country”. La manifestazione fu un
trionfo anche a livello sportivo per il Sudafrica: sconfiggendo
Australia, Romania, Canada, Samoa e Francia ottennero l'accesso in finale contro i tradizionali
rivali neozelandesi, nella quale i sudafricani vinsero con il punteggio di 15-12.
La finale della Coppa del mondo di rugby contro gli All Blacks è diventata un evento storico. In
particolare divenne immortale l'immagine del momento in cui in cui Nelson Mandela,
indossando la maglia degli Springboks, consegnò nelle mani del capitano afrikaner François
Pienaar la Coppa del mondo.
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Nelson Mandela consegna la coppa del mondo a François Pienaar, capitano della squadra degli Springboks
Mandela si prese a cuore la squadra, per la prima volta composta sia da giocatori bianchi sia
neri, consapevole che questa vittoria potesse rafforzare l'orgoglio nazionale e lo spirito di unità
del paese.
Il 24 giugno 1995, Mandela si presentò in tribuna con la maglia degli Springboks , senza
distinzione di pelle, di credo, di censo. Per il Sudafrica si aprì una nuova vita, con la caduta
definitiva dell'apartheid. Da quel momento il Sudafrica conobbe la costituzione di un nuovo
governo democratico, il cui leader era il neo presidente Nelson Mandela, primo presidente nero
eletto nel 1994. Nelson Mandela è stato colui che ha liberato il Sudafrica dall'oppressione e
colui che riuscì ad unire due popoli, quello nero e quello boero, che da sempre coabitavano
nella stessa nazione, ma che mai erano riusciti, fino ad allora, a trovare un accordo comune per
convivere in modo pacifico.
CENNI GENERALI SULL'APARTHEIDL'inizio dell'apartheid
La situazione del SudAfrica era del tutto diversa da quella degli altri paesi africani. L'unione
Sudafricana, nata nel 1910, era stata dominata dai Boeri, che avevano fondato il partito
Afrikaner. Ma già nel 1912 era nato il South Africa Native National Congress, un partito che
rivendicava i diritti dei neri e nel 1923 si trasforò nell'African National Congress (ANC).
Negli anni Venti e Trenta l'ANC si era alleato con il Partito Comunista, ma insieme non
costituivano una reale minaccia per il predominio dei bianchi. Nel primo dopoguerra, tuttavia,
la loro azione diventò più efficace, ma furono messi fuori legge. Il governo boero aveva
adottato una politica rigida di separazione tra la popolazione bianca, sia boera, sia di origine
inglese, e quella nera che era costretta a vivere nelle riserve. I Boeri avevano cercato di
impedire la formazione di una borghesia nera, impedendo nel 1926 ai neri di esercitare lavori
non manuali, mentre erano interessati allo sfruttamento della manodopera di colore sia nelle
miniere di oro e di diamanti, che rappresentavano la maggiore ricchezza del paese, sia nelle
aziende agricole: i minatori e i braccianti neri avevano avuto perciò il permesso di uscire dalle
riserve, se muniti di un lasciapassare. A differenza degli altri paesi africani, dopo la Seconda
guerra mondiale in Sudafrica la situazione non cambiò.
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La separazione, anzi, fu resa ancora più rigida con l'adozione dell'apartheid nel 1948. Ad ogni
gruppo etnico era assegnato un suo territorio ed erano proibiti i matrimoni tra membri di etnìe
diverse.Per calmare le proteste che c'erano in tutto il mondo contro questa politica, il governo
sudafricano nel 1959 decise di fromare bantustan o homelands, cioè di territori abitati da neri,
che con il tempo avrebbero potuto ottenere l'indipendenza. In realtà, questo provvedimento non
cambiò niente, anzi peggiorò la separazione tra i due popoli. Anche la nascita di un parlamento,
negli anni Ottanta, non costituì un cambiamento radicale, perché i neri non potevano farne
parte.
La fine dell'apartheid e il nuovo Sudafrica
Nel 1961 Mandela, il maggior esponente dell'ANC, che fino ad allora aveva sostenuto la non-
violenza, capì che non avrebbe raggiunto nessun obiettivo senza l'uso della forza. L'anno
seguente fu arrestato e rimase in carcere fino al 1990. l'ANC minacciava dunque di passare alla
lotta armata La sera, al termine del lavoro nell aziende dei bianchi, tutti i neri dovevano
rientrare nei propri territori, dove la vita era molto dura; e proprio in questi sobborghi, abitati
dai lavoratori neri, si verificarono le sommosse. Il primo ad insorgere fu Soweto, nel 1976, ma
la rivolta venne repressa con una stima di circa 600 persone morte.
Dopo questi eventi la condanna internazionale all'apartheid si fece pù aspra, con pressioni sia
politiche, sia economiche: l'ONU proclamò un embargo nel 1986 che isolò completamente il
Sudafrica. La situazione cominciò a farsi insostenibile per i Boeri, organizzati nel partito
nazionalista con a capo Pieter W.Botha, il quale concesse alcune piccole riforme per rendere
meno ostile l'opinione pubblica internazionale, ma Mandela rimase in carcere. Nel 1989 Botha
fu costretto a dare le dimissioni e gli succedette de Klerk, sostenitore di una politica di
pacificazione nazionale, chiesta anche da quella parte della popolazione bianca di origine
inglese. Nel 1990 Mandela fu liberato e tre anni dopo ricevette, insieme a de Klerk, il Nobel per
la pace. Le leggi dell'apartheid furono abolite nel 1994 e si svolsero libere elezioni che finirono
con la vittoria dell'ANC. Mandela diventò presidente e de Klerk vicepresidente.
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Nel 1997 fu approvata una costituzione non razziale, ma i problemi del Sudafrica non erano
stati del tutto risolti.
Per impedire il crollo dell'economia, Mandela decise di non portare trasformazioni: le aziende
restarono nelle mani dei bianchi che continuarono ad avere un tenore di vita di gran lunga
superiore a quello dei neri. L'apartheid fu dichiarato crimine internazionale da una convenzione
delle Nazioni Unite votata dall'assemblea generale nel 1973 ed entrata in vigore nel 1976 e
quindi successivamente inserito nella lista dei crimini contro l'umanità. Per estensione, il
termine è oggi utilizzato per rimarcare qualunque forma di segregazione civile e politica a
danno di minoranze, ad opera del governo di uno stato sovrano, sulla base di pregiudizi etnici.
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INGLESE“Il segreto per arrivare a questi risultati è venire qui ed essere rilassati, tranquilli:
io volevo fare qualcosa, ero rilassato e tranquillo e l'ho fatto.”
Usain Bolt
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My thesis talks about the union between mind and body in the sport. As I have already pointed
out, the sport is influenced by the historical evolution of society. The sport is often something
people can identify with, and sometimes it has even become a symbol of a nation. Like many
other nations, the Commonwealth has tried to create this sense of union in its people by creating
the "Commonwealth Games".
THE COMMONWEALTH GAMES
The Commonwealth Games are the third largest multi-sports events in the world, after the
Olympic Gamesand the Asian Games.They are held every four years and they are organized by
the Commonwealth Games Federation, an organism which directs and controls the games, the
sporting program and selects the host cities. The Commonwealth Games Federation also
controls and organizes the Commonwealth Youth Games, and encourages each edition
organising committee to organise a cultural programme of national and international items, to
take place during the Games.In addition to the Olympic sports, in the Commonwealth Games a
variety of other games, often played in the countries of the Commonwealth, are played, such as
netball and lawn bowls. The total number of the disciplines is 17. A number of events in 4 para-
sports are also planned for athletes with a disability.For the 2014 edition, that will be hosted by
the Scottish city of Glasgow, is it expected the presence of more than 6,000 athletes.
Only the Commonwealth countries, colonies, and dependent or associated territories of a
Commonwealth country can participate in the Games. Even if only 53 countries are members of
the Commonwealth of Nations, the next edition of the Games will see the participation of 71
national teams: in fact, every British overseas territory, Crown dependency and island state
competes under its own flag. Of course also England, Scotland, Wales and Northern Ireland
compete separately. So far, only six countries participated to every single edition of the Games:
Australia, Canada, England, New Zealand, Scotland and Wales.
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HISTORY
The first edition, then known as the British Empire Games, was held in 1930, in Hamilton,
Canada, where 11 countries sent 400 athletes to take part in 6 sports and 59 events. Since then,
the Games have been held every four years, with the exception of 1942 and 1946 editions,
cancelled because of World War II.
The Games have had different names over time: since 1954 they were known as the British
Empire and Commonwealth Games. After 1970 the name changed again, this time in British
Commonwealth Games and in 1978 the Games finally assumed their present name, the
Commonwealth Games.
The Games are known also as The Friendly Games, because between the editions of 1930 and
1994, the sports programmes only comprehend single competition games. It was only during
the 1994 edition that team sports were introduced in the Games.
In 2000, in Edinburgh, Scotland, was held the first edition of the Commonwealth Youth Games.
More than 700 athletes from 14 different countries competed in 8 sports.
NOTES ON THE COMMONWEALTH OF NATIONS
The Commonwealth of Nations, known also as the Commonwealth is an international
organisation of 53 states, which shares a language, the English language, and a number of
cultural, social and religious aspects. The objective of the Commonwealth is the promotion of
democracy, good governance, environmental sustainability, human rights and gender equality.
Almost all of Commonwealth states were once part of the British Empire, which is why the
Commonwealth was once called the British Commonwealth. With the process of
decolonisation, the countries which composed the Commonwealth recognised one another as
equal in status and not subordinated in any way. The head of the Commonwealth is the Queen
Elizabeth II, but only because the title was part of the Queen royal titles. In fact, even if she is
recognised as the head of the organisation, she has no real power: the most important
organisations are the Commonwealth Heads of Governments and the Commonwealth
Secretariat.
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BIBLIOGRAFIA
• Pietro Trabucchi,“Resisto dunque sono. Chi sono i campioni della resistenza
psicologica e come fanno a convivere facilmente con lo stress”, 2007, Corbaccio,
Milano
• Fabrizio Dario Baldoni, “I valori storici dello sport”, 2010, Mondadori, Milano
• Aurelio Lepre, “La storia, dalla fine dell'Ottocento a oggi” , 2004, Zanichelli, Bologna
• Marco Santagata, Laura Carotti, Alberto Casasei, Mirko Tavoni, “I tre libri di
letteratura, Novecento_Oggi” , 2009, Editori Laterza, Roma-Bari
• Ugo Avalle, Michele Maranzana, “Pensare ed educare, storia, testi e laboratorio di
pedagogia”, 2005, Pearson Paravia Bruno Mondadori, Milano