Maurice Druon - I Re Maledetti Vol.04 - La Legge Dei Maschi

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Maurice Druon - I Re Maledetti Vol.04 - La Legge Dei Maschi

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Due troni vacanti, quello pontificio (da oltre due anni) e quello di Francia — uno scatenarsi di passioni, di intrighi, di interessi — i 24 cardinali elettori bloccati in una chiesa di Lione alla quale sono state murate le porte — i resti di un bimbo italiano nella tomba dei sovrani di Francia — un giovane di 23 anni (Filippo V) sul più prestigioso trono del mondo — un bizzarro cardinale francese (Giovanni XXII) sul soglio di San Pietro — una famosa dinastia involontariamente usurpatrice — un cavillo giuridico (la Legge salica), destinato a influenzare per secoli i destini d’Europa — la rinunzia, per amore, a un amore dolcissimo… Fondendo rigore storico a felicità e verve espressiva veramente degna di un Dumas, Maurice Druon e il gruppo di ricercatori specialisti che lo attorniano, ci danno, con questa splendida narrazione di decisive vicende realmente verificatesi, un appassionante romanzo e un prezioso, scintillante strumento di conoscenza.

MAURICE DRUONde l’Académie française

I RE MALEDETTI(LIBRO IV)

LA LEGGE DEI MASCHI

P ROP R I E TÀ L E T TE R A R I A R I S E RVATAPRIMA EDIZIONE OTTOBRE 1959

Titolo originale dell’operaLA LOI DES MÂLES

Scan e Rielaborazionedi Purroso

STAMPATO IN ITALIA - PRINTED IN ITALY – 1959AZIENDA GRAFICA EDITORIALE S.P.A. - TORINO - VIA ADDA, 7

QUESTO ROMANZO DIM A U R I C E D RU O N

è stato realizzato con la collaborazione di

GEORGES KESSELEDMONDE CHARLES-ROUXCHRISTIANE GREMILLON

e

PIERRE DE LACRETELLE

Traduzione di ETTORE CAPRIOLO

Vo g l i amo e s p r i m e r e i n o s t r i r i n g r a z i a m e n t i a l l a B i b l i o t e c a Na z i o n a l e d i Pa r i g i , a l l a B i b l i o t e c a Mé j a n e s d i A i x - e n - P r ove n c e

n o n c h è a l l a B i b l i o t e c a Mun i c i p a l e d i F i r e n z e p e r l ’ a i u t o p r e z i o s o e i n d i s p e n s a b i l e d a t o a l n o s t r o l a vo r o .

PRINCIPALI PERSONAGGI DI QUESTO VOLUME

La regina di Francia

CLEMENZA D’UNGHERIA, nipote di Carlo II d’Anjou-Sicilia e di Maria d’Ungheria, seconda moglie e vedova di Luigi X il Testardo, re di Francia e di Navarra. 23 anni.

I discendenti di Luigi XGIOVANNA DI NAVARRA, figlia di Luigi X e di Margherita di Borgogna, sua prima moglie. 5 anni.GIOVANNI I, detto IL POSTUMO, figlio di Luigi X e di Clemenza d’Ungheria, re di Francia.

Il reggenteFILIPPO, secondo figlio di Filippo IV il Bello e fratello di Luigi X, conte di Poitiers, pari del regno, conte palatino di Borgogna, sire di Salins, reggente, poi re Filippo V il Lungo. 23 anni.

Suo fratelloCARLO, terzo figlio di Filippo il Bello, conte della Marche e futuro re Carlo IV il Bello. 22 anni.

Sua moglieGIOVANNA DI BORGOGNA, figlia del conte Ottone IV di Borgogna e della contessa Mahaut d’Artois, erede della contea di Borgogna. 23 anni.

I suoi figliGIOVANNA, detta anche lei di Borgogna. 8 anni.MARGHERITA. 6 anni.ISABELLA. 5 anni.

LUIGI-FILIPPO di Francia.

Il ramo di ValoisMONSIGNOR CARLO, figlio di Filippo III e di Isabella d’Aragona, fratello di Filippo il Bello, conte con appannaggio del Valois, conte del Maine, dell’Anjou, di Alençon, di Chartres e del Perche, pari del regno, ex-imperatore titolare di Costantinopoli, conte di Romagna. 46 anni.FILIPPO DI VALOIS, figlio del precedente e di Margherita d’Anjou-Sicilia, futuro re Filippo VI. 23 anni.

Il ramo d’EvreuxMONSIGNOR LUIGI DI FRANCIA, figlio di Filippo III e di Maria di Brabante, fratellastro di Filippo il Bello e di Carlo di Valois, conte d’Evreux e d’Étampes. 40 anni.FILIPPO D’EVREUX, suo figlio.

Il ramo di Clermont-BourbonROBERTO, conte di Clermont, sesto figlio di San Luigi. 60 anni.LUIGI DI BORBONE, figlio del precedente.

Il ramo d’Artois, discendente da un fratello di San LuigiLA CONTESSA MAHAUT D’ARTOIS, pari del regno, vedova del conte palatino Ottone IV di Borgogna, madre di Giovanna e di Bianca di Borgogna, suocera di Filippo di Poitiers e di Carlo della Marche. 45 anni circa.ROBERTO III D’ARTOIS, nipote della precedente, conte di Beaumont-le-Roger, signore di Conches. 29 anni.

La famiglia ducale di BorgognaAGNESE DI FRANCIA, ultima figlia di San Luigi, duchessa madre di Borgogna, vedova del duca Roberto II, madre di Margherita di Borgogna. 57 anni circa.EUDES IV, suo figlio, duca di Borgogna, fratello di Margherita e zio di Giovanna di Navarra. 35 anni circa.

I conti del vienneseIL DELFINO GIOVANNI II della Tour du Pin, cognato della regina Clemenza.

IL DELFINETTO GUIGUES, suo figlio.

I grandi ufficiali della coronaGAUCHER DI CHÂTILLON, connestabile di Francia.RAUL DI PRESLES, legista, ex-consigliere di Filippo il Bello.MILLE DI NOYERS, legista, ex-maresciallo dell’oste, cognato del connestabile.UGO DI BOUVILLE, ex-gran ciambellano di Filippo il Bello.IL SINISCALCO DI JOINVILLE, compagno d’armi di San Luigi, cronachista.ANSEAU DI JOINVILLE, figlio del precedente, consigliere del reggente.ADAMO HÉRON, gran ciambellano del reggente.IL CONTE GIOVANNI DI FOREZ.GIOVANNI DI CORDBELL e GIOVANNI DI BEAUMONT, detto il Deramé, marescialli.PIETRO DI GALARD, gran maestro dei balestrieri.ROBERTO DI GAMACHES e GUGLIELMO DI SERIZ, ciambellani.GOFFREDO DI FLEURY, intendente.

I cardinaliGIACOMO DUÈZE, cardinale di curia, poi papa Giovanni XXII. 72 anni.FRANCESCO CAETANI, nipote di papa Bonifacio VIII.ARNALDO D’AUCH, cardinale camerlengo, Napoleone Orsini, Giacomo e Pietro Colonna, Berenger Frédol, maggiore e minore, Arnaldo di Pelagrue, Stefaneschi, Mandagout, ecc.

I baroni d’ArtoisI SIGNORI DI VARENNES, Souastre, Caumont, Fiennes, Piquigny, Kierez, Haut-Ponlieu, Beauval, ecc.

I lombardiSPINELLO TOLOMEI, banchiere senese a Parigi.GUCCIO BAGLIONI, suo nipote. 20 anni.BOCCACCIO, viaggiatore, padre del famoso scrittore.

La famiglia CressayDONNA ELIABEL, vedova del sire di Cressay.GIOVANNI E PIETRO, suoi figli. 24 e 22 anni.MARIA, sua figlia. 18 anni.

ROBERTO DI COURTENAY, arcivescovo di Reims.GUGLIELMO DI BELLO, consigliere del duca di Borgogna.MESSER VARAY, console di Lione.GOFFREDO COQUATRIX, borghese parigino, fornitore dell’esercito.LA SIGNORA DI BOUVILLE, moglie dell’ex-ciambellano.BEATRICE D’HIRSON, nipote del cancelliere d’Artois, damigella di compagnia della contessa Mahaut.

Tutti questi nomi sono storici.

“Il Principe deve aver sempre presentecome dirigersi secondo i venti della fortuna...

e non allontanarsi dal bene, se possibile,ma saper addentrarsi nel male

quando ve ne sia necessità”.

(Machiavelli)

PROLOGO

Nei trecentoventisette anni trascorsi dall’elezione di Ugo Capeto alla morte di Filippo il Bello, soltanto undici re si erano succeduti sul trono di Francia, ognuno dei quali aveva, morendo, lasciato un figlio maschio cui trasmettere la corona.

Prodigiosa dinastia, alla quale il destino pareva aver concesso il dono di durare in eterno! Fra quegli undici sovrani due soltanto avevano regnato meno di quindici anni.

Questa straordinaria continuità nell’esercizio e nella trasmissione del potere aveva permesso, se non addirittura determinato, la formazione dell’unità nazionale.

Al legame feudale, che era un legame strettamente personale fra il vassallo e il sovrano, fra il più debole e il più forte, si sostituì a poco a poco un altro rapporto, precisamente quel legame che unisce i membri di una vasta comunità umana, per lungo tempo sottomessi alle stesse vicende e alle stesse leggi.

Se l’idea di nazione non era ancora ben chiara, i suoi principi ispiratori e la sua rappresentazione simbolica esistevano già nella persona del re, fonte suprema di autorità e di appello. Quel che pensava «il re», lo pensava anche «la Francia».

E Filippo il Bello aveva dedicato tutta la sua vita al consolidamento di questa nascente unità, sforzandosi di raggiungere una forte centralizzazione amministrativa e di distruggere sistematicamente qualsiasi potere straniero o privato.

Ma appena il Re di Ferro scomparve, suo figlio Luigi X lo seguì nella tomba. E il popolo non poteva fare a meno di vedere in quei due decessi, succedutisi a così breve distanza, il segno della fatalità.

Luigi X il Testardo aveva regnato diciotto mesi, sei giorni e dieci ore. Ma così poco tempo era stato sufficiente, a questo sciagurato monarca, per rovinare in gran parte l’opera di suo padre. Durante il suo regno la regina era stata assassinata e il primo ministro impiccato, la Francia era stata sconvolta da una terribile carestia, due province si erano ribellate e un intero esercito era sprofondato nel fango di Fiandra. L’alta nobiltà aveva riacquistato gli antichi privilegi a detrimento del potere centrale: la reazione aveva un potere quasi assoluto e il Tesoro era

esaurito.Luigi X era salito al trono quando il mondo era ancora senza papa, e se ne

andava senza che si fosse potuto arrivare a un accordo sulla scelta del nuovo pontefice. La cristianità era vicina a uno scisma.

E per di più la Francia era senza re.Infatti dal matrimonio con Margherita di Borgogna, Luigi X non aveva avuto

che una figlia, Giovanna di Navarra, la quale aveva ora cinque anni e sulla quale gravava il sospetto di nascita illegittima; delle sue seconde nozze non restava che una speranza: il fatto che la regina Clemenza era incinta di quattro mesi. In quanto a lui, ormai lo si diceva apertamente, era stato avvelenato.

Poiché nulla era stato previsto per l’organizzazione della reggenza, le ambizioni personali si preparavano a lanciarsi all’assalto del potere: a Parigi il conte di Valois cercava di farsi riconoscere reggente; a Digione il duca di Borgogna, fratello di Margherita l’assassinata, e capo di una potente lega baronale, contava di vendicare la memoria della sorella e si proclamava difensore dei diritti di sua nipote; a Lione il conte di Poitiers, il maggiore dei fratelli del Testardo, era alle prese con gli intrighi dei cardinali e cercava inutilmente di indurre il conclave a prendere una decisione. E intanto i Fiamminghi non attendevano che l’occasione per riprendere le armi, mentre i signori d’Artois continuavano nella lotta civile.

Bastava questo, evidentemente, per richiamare alla memoria della gente l’anatema pronunciato due anni prima, dal rogo, dal gran maestro dei Templari. In un’epoca pronta a ogni credenza, non era difficile trovare chi si chiedesse, in quella prima settimana del giugno 1316, se quella capetingia non fosse una schiatta maledetta.

PARTE PRIMA

FILIPPO PORTE-CHIUSE

I • LA REGINA BIANCA

Le regine portavano il lutto in bianco.

Era bianco il soggòlo di tela fine che chiudeva il collo e imprigionava il mento fino alle labbra, lasciando scorgere soltanto la parte centrale del viso; bianco il grande velo che copriva la fronte e le sopracciglia; bianco l’abito chiuso ai polsi e lungo fino ai piedi. Era questa la divisa che la regina Clemenza d’Ungheria, rimasta vedova a soli ventitré anni, dopo dieci mesi di matrimonio con il re Luigi, indossava ora e avrebbe portato fino alla fine dei suoi giorni.

Ormai nessuno avrebbe visto quei meravigliosi capelli d’oro, né il perfetto ovale delle guance, né quella bellezza composta e meravigliosa che aveva impressionato quanti avevano avuto occasione di contemplarla e reso celebri i suoi lineamenti.

Quella maschera consunta e patetica che si stagliava fra i candidi panni, portava tracce di notti trascorse nell’insonnia e di giornate divorate dal pianto. Perfino lo sguardo era diverso: ora non si posava più sulle cose, ma pareva ondeggiare fra le persone e gli oggetti che la circondavano, fermandosi sempre alla superficie. La bella regina Clemenza aveva insomma assunto in anticipo l’espressione di una defunta.

Eppure, sotto le pieghe del suo abito, una nuova vita si stava sviluppando; Clemenza aspettava un figlio ed era ossessionata dal pensiero che il suo sposo non lo avrebbe mai conosciuto.

«Se almeno Luigi avesse vissuto tanto da vederlo nascere!— pensava. — Ancora cinque mesi, cinque mesi soltanto! Come ne sarebbe stato lieto… specialmente se fosse un maschio… O se fossi rimasta incinta la sera stessa delle nostre nozze…»

La regina volse debolmente il capo verso il conte di Valois che camminava su e giù per la stanza, impettito come un grosso gallo.

— Ma perché, zio, perché qualcuno avrebbe dovuto avvelenarlo? — gli domandava. — Non faceva egli tutto il bene di cui era capace? Perché cercate

di trovare la perfidia degli uomini dove certamente esiste soltanto la volontà di Dio?— Credo che in questo caso — replicò Valois — siate voi la sola persona che attribuisca a Dio responsabilità che paiono piuttosto risalire agli artifici del demonio.Col gran cappuccio rovesciato sulla spalla, l’aria gagliarda, i lineamenti rubizzi

e marcati, il petto in fuori, monsignor di Valois, che indossava lo stesso abito di velluto nero con fermagli d’argento che aveva sfoggiato diciotto mesi prima alle esequie di suo fratello Filippo, era appena arrivato da Saint-Denis dove aveva seppellito suo nipote Luigi X. La cerimonia gli aveva posto alcuni difficili problemi in quanto, per la prima volta da quando si era incominciato a celebrare un particolare rito funebre per i sovrani, gli ufficiali di palazzo, dopo aver gridato «Il Re è morto!» non avevano potuto aggiungere «Viva il Re!» e non avevano saputo davanti a chi compiere i gesti tradizionalmente dedicati al nuovo sovrano.

— Beh, potete rompere il vostro bastone davanti a me — aveva detto Valois al gran ciambellano Matteo di Trye. — Sono io il più anziano della famiglia e perciò la persona meglio adatta allo scopo.Ma il suo fratellastro, Luigi d’Evreux, aveva protestato contro questa curiosa

innovazione, pensando che Carlo di Valois se ne sarebbe certamente valso per farsi proclamare reggente.

— Il più anziano della famiglia — aveva detto il conte d’Evreux — visto che insistete su questo punto, non siete voi, Carlo. Avete dimenticato che è ancora vivo nostro zio Roberto di Clermont, figlio di San Luigi?— Sapete bene che il povero Roberto è pazzo e che non è assolutamente possibile fare affidamento sul suo cervello malato — aveva replicato Valois alzando le spalle.Così, dopo il pasto funebre consumato nella stessa abbazia, il gran ciambellano

aveva spezzato l’insegna della sua carica davanti a una sedia vuota.— Luigi faceva elemosina ai poveri. E aveva graziato molti prigionieri — riprese Clemenza come se cercasse di convincere soprattutto se stessa. — Era un uomo generoso, vi assicuro… E, se aveva peccato, aveva anche saputo pentirsene…Non era evidentemente quello il momento più adatto per discutere intorno alle

virtù che la regina attribuiva al suo sposo scomparso. Ma Carlo di Valois non poté trattenere uno scatto d’impazienza.

— Lo so, nipote — disse, — lo so che voi avete esercitato una pia influenza su di lui e che egli si è mostrato molto generoso… con voi. Ma non bastano i

pater noster per ben governare, e nemmeno il riempire di doni le persone alle quali si vuol bene. Come non basta il pentimento per mettere a tacere gli odî che si sono seminati.«Ecco — pensava Clemenza; — ecco Carlo, che si attribuiva tutti i meriti del

potere quando Luigi era vivo, già lo rinnega. E presto anche a me verranno rimproverati i doni che mio marito mi ha fatto. Ormai io non sono che la straniera…»

Ma era troppo debole e troppo stanca per trovare la forza d’indignarsi.— Non posso credere — disse soltanto — che qualcuno odiasse Luigi al punto da ucciderlo.— E va bene, nipote, non credeteci allora — esclamò Valois — ma i fatti sono questi. Come prova c’è quel cane che ha leccato il panno adoperato per togliere gli intestini dal ventre di Luigi durante l’imbalsamazione e che è morto un’ora dopo. Poi c’è…Clemenza chiuse gli occhi e strinse le dita sui braccioli della sua scranna, per

non svenire davanti alla visione che lo zio le andava evocando. C’era dunque qualcuno che osava parlare cosi proprio di suo marito, dell’uomo che le aveva dormito accanto, del padre di quel bimbo che ella portava in seno, qualcuno che spingeva la propria crudeltà fino a costringere lei a raffigurarsi il cadavere del proprio sposo sezionato dai coltelli degli imbalsamatori?

Monsignor di Valois continuava ad esporre le sue macabre deduzioni. Ma quando si sarebbe deciso a tacere quell’omone agitato, prepotente e vanitoso che, ora vestito di azzurro, ora di rosso e ora di nero, continuava a comparire davanti a Clemenza in ogni momento tragico o importante della sua vita, per rimproverarla, per assordarla di parole, per costringerla ad agire contro la propria volontà? Già a Saint-Lyé, la mattina del matrimonio, lo zio Valois, che Clemenza non aveva mai visto prima, aveva cercato di guastarle le gioie della cerimonia, parlandole di certi intrighi di corte dei quali ella non aveva capito nulla… Clemenza rivedeva Luigi venirle incontro sulla strada di Troyes… la chiesa di campagna dove avevano avuto luogo le nozze, la camera del castello affrettatamente trasformata in stanza nuziale… «Ho saputo apprezzare a sufficienza la mia felicità? — pensava. — No, non voglio piangere davanti a costui».

— Chi sia l’autore di questo orribile misfatto — proseguì Valois — non lo sappiamo ancora; ma vi prometto solennemente, nipote, che lo scopriremo… naturalmente se mi verranno concessi i necessari poteri. Noi re…Valois non trascurava mai occasione per ricordare di aver portato due corone,

puramente nominali ma sufficienti a conferirgli autorità e rango di principe sovrano1.

— … noi re abbiamo nemici, ostili non tanto alle nostre persone quanto alle decisioni della nostra potenza. Né mancano gli individui che potevano avere un certo interesse a rendervi vedova. Ci sono i Templari, il cui ordine, come io ho sempre sostenuto, non bisognava distruggere… Essi hanno formato una lega segreta e hanno giurato di eliminare sia mio fratello che i suoi figli. Mio fratello è morto e ora il suo primogenito lo ha seguito nella tomba! Poi ci sono i cardinali romani… Vi ricordate quel tentativo di «fattura» del cardinal Caetani per mandare all’altro mondo Luigi e vostro cognato di Poitiers? Il tentativo è andato a vuoto, ma Caetani potrebbe benissimo aver cercato di colpire con altri mezzi. Che volete, non si può scacciare un papa dal trono di San Pietro, come ha fatto mio fratello, senza suscitare un certo risentimento. E poi può anche darsi che qualche partigiano del duca di Borgogna abbia voluto vendicare sia il castigo inflitto a Margherita, sia il secondo matrimonio, proprio con voi, del defunto re, due fatti che certo non devono aver riempito d’entusiasmo la corte di Digione.Clemenza guardò fisso negli occhi Carlo di Valois, che si turbò e arrossì

leggermente. Anche lui infatti era non poco compromesso nell’assassinio di Margherita. E ora capiva che anche Clemenza era a conoscenza di questo, certo per qualche imprudente confidenza di Luigi.

Ma Clemenza non disse nulla; ella avrebbe sempre evitato di toccare questo argomento. Si sentiva anche lei responsabile di quel delitto, benché non ne avesse colpa. In fondo questo sposo, di cui ella si affannava a proclamare le virtù, non aveva esitato a fare strangolare la prima moglie allo scopo di sposare lei, la nipote del re di Napoli. Era proprio necessario cercare altrove le ragioni del castigo che Dio gli aveva inflitto?

— E poi c’è la contessa Mahaut, la vostra vicina — aggiunse Valois, — la quale non è donna che possa indietreggiare davanti a un delitto, foss’anche il più atroce…«E allora in che cosa differisce da voi? — pensò Clemenza, senza avere il

coraggio di dirlo. — Sembra che in questa corte nessuno esiti nel commettere un delitto!»

— … E Luigi, meno di un mese fa, per indurla a sottomettersi, le aveva confiscato la contea d’Artois…Per un attimo Clemenza si chiese se non era proprio Valois, che si affannava

tanto a trovare presunti colpevoli, l’autore di quel delitto. Ma subito quest’idea,

che non aveva alcuna base seria, le fece orrore. No, Clemenza si proibiva di sospettare di chicchessia: Luigi non poteva che essere morto di morte naturale… Eppure inconsciamente gli occhi di Clemenza si volgevano alla finestra aperta, al fogliame del bosco di Vincennes, verso sud, verso il castello di Conflans, residenza estiva della contessa Mahaut… Qualche giorno prima della morte di Luigi, Mahaut era venuta a far visita a Clemenza accompagnando la figlia, la contessa di Poitiers. Era stato un simpatico pomeriggio; Clemenza non le aveva lasciate sole un minuto. E insieme avevano ammirati gli arazzi di quella camera…

«Non c’è niente di più avvilente dello sforzarsi di scoprire un colpevole fra le persone che ci sono vicine — pensava Clemenza — e del cercare i segni del tradimento in ogni viso…»

— È per questo, mia cara nipote — riprese Valois, — che voi dovete esaudire la mia richiesta e rientrare a Parigi. Voi sapete che io vi voglio bene: sono stato io a combinare il vostro matrimonio e per di più ero cognato di vostro padre. Perciò ascoltatemi, come avreste ascoltato lui, se Dio ce lo avesse conservato. La mano che ha colpito Luigi può voler continuare a vendicarsi su di voi e sul frutto che voi portate in seno. Non posso perciò permettervi di restare qui in piena foresta, esposta alle mene dei male intenzionati; e non avrò pace finché non sarete più vicina alla mia residenza.Da un’ora Valois cercava di convincere Clemenza a rientrare nel palazzo della

Cité, anche perché lui stesso intendeva stabilirvisi. Questo trasferimento faceva parte del suo piano per diventare reggente e mettere così la Camera dei pari davanti al fatto compiuto. Infatti chi comandava da padrone sul Palazzo assumeva immediatamente la dignità di re. Se però avesse abitato là da solo, il suo gesto avrebbe potuto essere giudicato un colpo di forza o un tentativo di usurpazione. Se invece Valois fosse andato a palazzo con sua nipote, come il parente più prossimo e il più autorevole protettore, nessuno avrebbe potuto protestare. Il ventre della regina era in quel momento il simbolo più prestigioso e il più efficace strumento di governo.

Clemenza volse gli occhi, come per chiedere aiuto a un terzo personaggio che si trovava a pochi passi da lei e seguiva il colloquio degli altri due senza parlare, con le mani incrociate sull’elsa di una lunga spada.

— Bouville — mormorò la regina — cosa devo fare?…Ugo di Bouville, l’ex gran ciambellano di Filippo il Bello, era stato nominato

curatore al ventre fin dalla prima riunione del consiglio ristretto succeduta alla morte del Testardo. Questo buon uomo, panciuto e brizzolato ma ancora nel pieno possesso delle proprie forze, era da trent’anni servitore esemplare della

famiglia reale e aveva preso questa nuova missione non soltanto sul serio ma addirittura sul tragico. Aveva infatti a sua disposizione un gruppo di gentiluomini, scelti con cura particolare, che si davano il cambio, ventiquattro per volta, per montare la guardia alla porta della regina. Lui, poi, si era vestito come se dovesse andare in guerra e sudava copiosamente sotto l’afoso sole di giugno. Spalti, cortili e tutti i dintorni di Vincennes erano zeppi di arcieri; gli addetti alla cucina erano perennemente scortati da agenti fidati e perfino le dame di compagnia venivano accuratamente perquisite prima di poter entrare negli appartamenti reali. Insomma la vita di colui che riposava in grembo alla regina di Francia era protetta come mai una vita umana lo era stata.

Teoricamente Bouville divideva la sua carica col vecchio messer di Joinville, nominato secondo curatore. Avevano pensato a lui perché si trovava proprio a Parigi, venuto a ritirare, come faceva regolarmente due volte all’anno, con la meticolosa puntualità dei vecchi, la rendita dei beneficî che gli erano stati accordati da ben tre sovrani, soprattutto per la canonizzazione di San Luigi. Il siniscalco ereditario della Sciampagna aveva novantadue anni ed era il decano dell’alta nobiltà francese. Era praticamente cieco e questo ultimo viaggio dal castello di Wassy sull’alta Marna, lo aveva stancato parecchio. Così egli passava la maggior parte del tempo a sonnecchiare insieme ai suoi due canuti scudieri e tutti i compiti inerenti alla loro carica dovevano essere sbrigati da Bouville.

Per la regina Clemenza, Bouville era legato a tanti felici ricordi. Era stato lui l’ambasciatore venuto a chiederla in moglie e ad accompagnarla in Francia da Napoli; era il confidente assolutamente devoto e probabilmente il solo vero amico che ella avesse a corte. Bouville aveva capito che Clemenza non intendeva lasciare Vincennes.

— Monsignore — disse perciò a Valois — posso meglio garantire l’incolumità della regina in questo maniero circondato di alte mura che non nel grande palazzo della Cité, aperto a ogni visitatore. Se poi vi fa paura la vicinanza della contessa Mahaut, io che mi tengo informato su tutti i movimenti in corso in questa zona, vi assicuro che la signora d’Artois sta attualmente facendo i bagagli per rientrare a Parigi.Valois era un po’ seccato del tono che si dava Bouville da quando era stato

nominato curatore e della sua insistenza a restarsene sempre accanto alla regina.— Messer Ugo — replicò dunque con alterigia, — voi siete stato incaricato di vigilare sul ventre della regina e non di decidere della residenza della famiglia reale, né tanto meno di difendere da solo il regno.Senza impressionarsi Bouville replicò:

— Voglio anche farvi notare, Monsignore, che la regina non può mostrarsi in pubblico prima che siano trascorsi quaranta giorni di lutto.— Amico mio, conosco le usanze tradizionali meglio di voi! Chi vi dice che la regina debba mostrarsi in pubblico? La faremo viaggiare in carrozza chiusa… Insomma, nipote — esclamò Valois rivolgendosi ora a Clemenza, — ci sarebbe da credere che io voglia mandarvi nel paese del Gran Can e che Vincennes sia a duemila leghe da Parigi!— Cercate di capirmi, zio — replicò debolmente Clemenza; — questa residenza di Vincennes è l’ultimo dono che Luigi mi ha fatto. Egli mi ha donato questa casa proprio là, in vostra presenza… (e indicò con la mano la camera in cui Luigi X era morto) perché io vi abiti… È proprio come se lui fosse ancora qui. Cercate di capirmi… è qui che abbiamo avuto…Ma monsignor di Valois non poteva certo capire né le esigenze dettate da un

ricordo né le fantasie suscitate da una sofferenza.— Il vostro sposo, per il quale noi tutti preghiamo, mia cara nipote, appartiene ormai al passato del regno. Voi invece ne portate in seno l’avvenire. Esponendo la vostra vita, voi esponete anche quella di vostro figlio. Luigi, che di lassù certamente vi vede, non ve lo perdonerebbe.Finalmente egli aveva colpito giusto, e Clemenza, senza dir nulla, si lasciò

cadere all’indietro sulla sua seggiola.Ma Bouville affermò di non poter prendere nessuna decisione senza il consenso

di messer di Joinville e mandò qualcuno in cerca del siniscalco. Passarono parecchi minuti. Poi la porta si aprì e i presenti dovettero ancora attendere. Soltanto allora, vestito di un lungo abito secondo la moda della crociata, con le membra tremanti, la pelle tesa come la corteccia di un albero, le palpebre lacrimanti e le pupille sbiancate, l’ultimo compagno di San Luigi fece il suo ingresso, strascicando i piedi e appoggiandosi a due scudieri barcollanti quasi quanto lui.

Lo fecero sedere con tutti i riguardi dovutigli e Valois incominciò a spiegargli i suoi progetti sul destino della regina. Il vecchio ascoltava scuotendo la testa con compunzione, evidentemente soddisfatto che qualcuno chiedesse ancora il suo parere. Quando Valois ebbe finito di parlare, il siniscalco si immerse in riflessioni che gli altri si guardarono bene dall’interrompere: attendevano tutti l’oracolo che certamente sarebbe stato pronunciato da quelle labbra. Poi improvvisamente egli domandò:

— Ma dunque, dov’è il re?Valois assunse un’aria desolata. Tante fatiche sprecate quando c’era così poco

tempo! Il siniscalco era ancora in grado di capire quello che gli veniva detto?— Via, messer di Joinville — rispose Monsignor Carlo; — il re è morto e lo abbiamo seppellito stamattina. Sapete bene che voi siete stato nominato curatore…Il siniscalco aggrottò la fronte con l’aria di chi è assorto in profonde riflessioni.

Del resto questi vuoti di memoria non erano nuovi in lui: quasi ottantenne, infatti, dettando i suoi famosi Mémoires, non si era accorto di ripetere quasi con le stesse parole verso la fine della seconda parte cose che aveva già detto nella prima…

— Ah, sì, il nostro giovane sovrano Luigi — disse, dopo una lunga pausa. — È morto… Ed è proprio a lui che io avevo presentato il mio gran libro… Sapete che questo è il… quarto re che vedo morire?Annunciò la cosa come se si fosse trattato di un primato.— Adunque, se il re è morto, la regina è reggente — dichiarò.Monsignor di Valois incominciava ad arrabbiarsi. Aveva fatto nominare curatori

un rimbambito e un mediocre, convinto di poterli manovrare a suo piacimento. E ora i suoi calcoli si volgevano contro di lui e proprio da quei due venivano le difficoltà meno facilmente sormontabili.

— La regina non può essere reggente, messer siniscalco — esclamò. — Ella è incinta. E non può essere reggente fin quando non sia certo che darà alla luce un re. E poi, guardate in che condizioni è, e ditemi se vi sembra in grado di adempiere a funzioni così importanti.— Sapete bene che non ci vedo — replicò il vecchio.«Ma quando la finiranno? — pensava Clemenza col capo fra le mani. —

Quando mi lasceranno in pace?»Joinville intanto stava spiegando in quali circostanze, alla morte di re Luigi

l’Ottavo, la regina Bianca di Castiglia avesse assunto la reggenza, con grande soddisfazione di tutti.

— La signora Bianca di Castiglia… erano cose queste che si sussurravano a bassa voce… non era certo un modello di purezza come vorrebbe la leggenda. E sembra che il conte Tebaldo di Sciampagna, di cui il mio signor padre era molto amico, la servisse anche nel suo letto…Bisognava lasciarlo parlare. Il siniscalco dimenticava facilmente gli avvenimenti

del giorno prima, ma serbava un preciso ricordo di quanto gli avevano raccontato nei giorni della sua infanzia. Ora aveva trovato un pubblico e ne approfittava. Le sue mani, agitate da un tremito senile, grattavano continuamente le falde dell’abito di seta.

— E anche quando il nostro santo re parti per la crociata alla quale io lo

accompagnai…— La regina restò a Parigi, in sua assenza, non è vero? — lo interruppe Carlo di Valois.— Sì… certo… — disse Joinville.Fu Clemenza la prima a cedere.— E va bene, zio — disse. — Farò come volete voi e mi trasferirò nel palazzo della Cité.— Oh, finalmente una decisione assennata che sarà certamente approvata anche da messer di Joinville!— Sì… certo!…— Vado dunque a prendere le necessarie disposizioni. La vostra scorta sarà comandata da mio figlio Filippo e da nostro cugino Roberto d’Artois…— Mille grazie, zio, — disse Clemenza che stava quasi per svenire. — Ma ora, per favore, lasciatemi pregare.Un’ora dopo, in seguito agli ordini del conte di Valois, il castello di Vincennes

era sconvolto dalla frenetica attività di tanta gente: i carri venivano tolti dalle rimesse, le fruste schioccavano, i servi correvano da una parte e dall’altra, gli arcieri abbandonavano il servizio per correre in aiuto agli stallieri. Tutta questa gente che, dopo la morte del Testardo, era stata costretta a parlar sottovoce e a muoversi con cautela, approfittava delle circostanze per gridare a perdifiato. Se davvero qualcuno avesse voluto attentare alla vita della regina, quello era il giorno più adatto.

Nell’interno del castello i tappezzieri staccavano tende, smontavano mobili, trasportavano casse, armadi e scansie. Anche i funzionari di palazzo e le dame di compagnia erano occupatissimi a fare i bagagli. C’era a disposizione un convoglio di venti vetture che indubbiamente avrebbe dovuto fare almeno due viaggi per completare il trasloco.

Clemenza d’Ungheria, che indossava il lungo abito bianco cui ancora non era avvezza, vagava di stanza in stanza sempre accompagnata da Bouville. C’era ovunque polvere, sudore e quella sensazione di assistere a un saccheggio, che sono tipiche dei traslochi. L’intendente, con l’inventario in mano, sorvegliava la spedizione del vasellame e degli oggetti rari raccolti insieme e sparsi su tutto il pavimento di un salone. C’erano, per esempio, i servizi da tavola, i boccali, le dodici coppe di argento dorato che Luigi aveva fatto fabbricare per Clemenza, e il grande reliquiario d’oro con un frammento della Vera Croce, un oggetto talmente pesante che l’uomo che lo portava faticava come se stesse effettivamente salendo al Calvario.

Nella stanza della regina, Eudeline, attualmente prima guardarobiera, ma un tempo amante di Luigi X (prima che l’ex-sovrano sposasse Margherita), sorvegliava l’imballaggio dei capi di vestiario.

— A che serve… a che serve portar via tutti questi abiti — diceva Clemenza — che io non potrò mai più indossare?Anche i gioielli, che venivano chiusi in pesanti casse di ferro, e tutti quei

fermagli, quegli anelli, quelle pietre preziose che Luigi le aveva donato nel breve periodo della loro vita in comune, erano ormai diventati oggetti inutili. Perfino le tre corone, adorne di smeraldi, di rubini e di perle, erano troppo vistose e troppo alte perché una vedova potesse portarle. Un semplice cerchio d’oro ornato di piccoli fiordalisi e tenuto sopra il velo sarebbe stato più tardi il solo gioiello a lei permesso.

«Sono dunque diventata una regina bianca come mia nonna Maria d’Ungheria — pensava Clemenza. — Ma mia nonna rimase vedova a più di sessant’anni e dopo aver dato alla luce ben tredici figli… Mio marito, invece, non ha potuto vedere il suo…»

— Signora — domandò Eudeline, — devo venire con voi a palazzo? Nessuno mi ha detto niente…Clemenza osservava questa bella bionda che, dimenticando qualsiasi gelosia, le

era stata di così grande aiuto negli ultimi mesi e soprattutto durante l’agonia di Luigi. «Egli ebbe una figlia da lei e poi se ne liberò chiudendola in un convento… Forse anche di questo il Cielo ci ha puniti…»

Ella si sentiva responsabile di tutte le colpe commesse da Luigi prima di conoscerla ed era pronta a riscattarle con le proprie sofferenze. Avrebbe avuto tutta la vita per pagare a Dio, con le lacrime, la preghiera e l’elemosina, l’alto prezzo dell’anima di Luigi.

— No — mormorò — no, Eudeline: non mi accompagnare. Bisogna che rimanga qui qualcuno che gli ha voluto bene.Poi, allontanando da sé anche Bouville, ella andò a rifugiarsi nella sola stanza

tranquilla, l’unica che tutti rispettassero: la camera dove suo marito era morto.Faceva buio dietro le tende tirate. Clemenza andò a inginocchiarsi accanto al

letto e accostò le labbra alla coperta di broccato.Improvvisamente udì uno strano rumore, come di un’unghia che grattasse una

stoffa. E ne provò una sensazione di angoscia, quasi una dimostrazione che lei aveva ancora voglia di vivere. Restò immobile per qualche secondo, trattenendo il respiro. E ancora sentiva quello strano rumore. Con molta cautela, voltò finalmente la testa. Si trattava del siniscalco di Joinville che avevano lasciato lì, in

un angolo di quella stanza, ad attendere la partenza.

II • UN CARDINALE CHE NON CREDEVA NELL’INFERNO

Già la notte di giugno incominciava a schiarirsi; da oriente una sottile

frangia grigia, al limite del firmamento, annunciava l’imminente sorgere del sole sul cielo di Lione.

Era l’ora in cui i carri si mettevano in cammino nelle campagne dei dintorni per portare in città frutta e legumi, l’ora in cui le civette avevano già smesso di cantare e i passeri non avevano ancora incominciato. Era anche l’ora in cui, dietro le strette ogive di uno degli appartamenti d’onore dell’abbazia di Ainay, il cardinale Giacomo Duèze pensava alla morte.

Questo prelato non aveva mai avuto bisogno di molte ore di sonno, e ora, con l’età, le sue esigenze in questo senso erano ancora diminuite. Gli era più che sufficiente dormire per tre ore. Poco dopo mezzanotte si alzava e si sedeva allo scrittoio. Uomo di intelligenza pronta e di immenso sapere, esperto in ogni campo del pensiero umano, egli aveva composto trattati di teologia, di diritto, di medicina e di alchimia che letterati e dottori di quell’epoca consideravano opere fondamentali.In un tempo in cui la grande speranza di tutti, poveri e prìncipi, era quella di fabbricare oro, erano molti quelli che si richiamavano alle dottrine di Duèze sugli elisir destinati alla trasmutazione dei metalli.

Le cose di cui si può fare elisir sono tre, era scritto in una sua opera intitolata l’«Elisir dei Filosofi»: i sette metalli, i sette spiriti e le altre cose… I sette metalli sono il sole, la luna, il rame, lo stagno, il piombo, il ferro e il mercurio; i sette spiriti sono il mercurio, lo zolfo, il sale ammoniaco, l’orpimento, la tuzìa, la magnesia, la marcassite2; le altre cose sono il mercurio, il sangue umano, il sangue dei capelli e dell’orina e l’orina umana…3.

A settantadue anni il cardinale scopriva ancora campi dello scibile dei quali non si era occupato e, mentre tutti dormivano, egli completava la propria opera. Da solo consumava tanti ceri quanto un’intera comunità di monaci.

Durante la notte lavorava anche a una fitta corrispondenza con prelati, abati, giuristi, scienziati, cancellieri e prìncipi sovrani di tutta Europa, e alla mattina il suo segretario e i suoi copisti trovavano pronto il lavoro per un’intera giornata.

Altre volte egli si dedicava invece allo studio del tema astrologico di qualche rivale di conclave, lo confrontava col proprio oroscopo e interrogava i pianeti per sapere se sarebbe riuscito a diventare papa. Secondo gli astri, le sue maggiori probabilità di realizzare queste ambizioni erano fra l’inizio di agosto e l’inizio di settembre di quell’anno. Ma finora, ed era già il 10 giugno, la situazione non accennava ad evolversi in questa direzione…

Veniva poi il momento terribile che precedeva l’alba. Come se avesse avuto il presentimento di morire proprio a quell’ora, il cardinale sentiva una profonda angoscia, un indicibile malessere che lo afferrava al corpo e allo spirito. E la stanchezza lo portava a interrogarsi sul passato, a rivedere davanti agli occhi gli episodi di una carriera eccezionale… Nato da una famiglia borghese di Cahors e ancora completamente sconosciuto a un’età in cui quasi tutti i suoi contemporanei avevano già concluso la propria carriera, Giacomo Duèze aveva incominciato la propria ascesa il giorno in cui, a quarantaquattro anni, era improvvisamente partito per Napoli ad accompagnarvi uno zio che vi si recava per affari. Il viaggio, l’allontanamento dalla patria, la scoperta dell’Italia avevano esercitato su di lui una strana influenza. Qualche giorno dopo lo sbarco, egli divenne il discepolo del precettore dei figli del re e si dedicò agli studi astratti con una passione, un entusiasmo, una prontezza di comprensione, una vivacità di memoria che anche i più dotati adolescenti avrebbero potuto invidiargli. Non sentiva fame e non aveva bisogno di dormire: un pezzo di pane gli bastava per nutrirsi un giorno intero e il regime carcerario sarebbe stato per lui sopportabilissimo qualora, beninteso, lo avessero adeguatamente fornito di libri. Divenne presto dottore in diritto canonico e in diritto civile e il suo nome incominciò ad essere conosciuto. La corte di Napoli ricercava i consigli del chierico di Cahors.

Dopo la brama di sapere gli era venuto il desiderio di diventare potente. Consigliere di re Carlo II d’Anjou-Sicilia (il nonno della regina Clemenza) e poi segretario delle assemblee segrete e dotato di numerosi beneficî ecclesiastici, dieci anni dopo il suo arrivo egli venne nominato vescovo di Fréjus e poco più tardi assunse le funzioni di cancelliere del regno di Napoli, quanto a dire di primo ministro di uno stato che comprendeva tutta l’Italia meridionale e tutta la contea di Provenza.

Una carriera così straordinaria, compiuta in mezzo agli intrighi di corte, non poteva essere compiuta senza qualità che non erano semplicemente quelle proprie

a un giurista e a un teologo. Un episodio, noto a pochissime persone trattandosi di un segreto di chiesa, dimostra a sufficienza l’astuzia e la disinvoltura di cui Duèze era capace.

Qualche mese dopo la morte di Carlo II, egli era stato mandato in missione alla corte papale, quando la sede vescovile di Avignone — la più importante di tutta la Cristianità perché residenza della Santa Sede — era vacante. Essendo cancelliere, e quindi custode dei sigilli, egli scrisse tranquillamente una lettera in cui il nuovo re di Napoli, Roberto, chiedeva per lui, Giacomo Duèze, la diocesi di Avignone. Questo accadeva nel 1310. Clemente V, ansioso di procurarsi l’appoggio di Napoli in un periodo in cui i suoi rapporti con Filippo il Bello erano piuttosto tesi, aveva subito accolto questa richiesta. Il trucco venne scoperto soltanto il giorno in cui papa Clemente e re Roberto, incontrandosi, si erano mostrati egualmente sorpresi, il primo per non aver ricevuto ringraziamenti pur avendo accordato un favore così grande, il secondo perché giudicava poco cavalleresca quell’improvvisa nomina che lo aveva privato del suo cancelliere. Ma era troppo tardi. Anziché fare scoppiare un inutile scandalo, re Roberto aveva preferito chiudere gli occhi e conservare una certa influenza su un uomo che copriva ormai altissime cariche nel governo della Chiesa. E nessuno aveva avuto modo di pentirsi di questo accordo. Monsignor Duèze era diventato cardinale di Curia e le sue opere venivano studiate in tutte le università.

Ma, per quanto folgorante sia stata una carriera, essa può apparire tale soltanto a coloro che la osservano dall’esterno.I giorni passati, siano essi stati pieni o vuoti, tranquilli o agitati, sono comunque giorni trascorsi e la cenere del passato ha lo stesso peso per tutte le mani.

Tanti entusiasmi, tante ambizioni, tante energie che senso avevano dal momento che tutto, inevitabilmente, sarebbe un giorno precipitato in quell’Al di là di cui le più profonde intelligenze e le più complesse scienze umane non arrivavano a conoscere che indecifrabili frammenti? Perché voler diventare papa? Non sarebbe stato più saggio chiudersi in un convento, lontano dal resto del mondo? Rinunciare contemporaneamente all’orgoglio della conoscenza e alla vanità del potere, raggiungere l’umile fede dei semplici, prepararsi a morire… Ma anche questo tipo di meditazione si manifestava nel cardinale Duèze in astratte speculazioni e l’incubo della morte si trasformava in un dibattito giuridico con la Divinità.

«I dotti ci assicurano — egli si diceva — che le anime dei giusti dopo la morte godono immediatamente della visione beatifica di Dio, che è la loro ricompensa. Ammettiamolo… Ma, dopo la fine del mondo, quando i corpi risuscitati si

saranno uniti alle anime, tutti noi saremo sottoposti a un ultimo giudizio. Ora, Dio, che è perfetto, non può giudicare in appello le proprie sentenze. Dio non può commettere errore e allontanare dal paradiso anime che già vi fossero state ammesse. E d’altra parte, non è forse logico che l’anima entri in possesso della gioia del suo Signore soltanto nel momento in cui, unita al corpo, essa sarà davvero perfetta nella sua natura? Quindi… i dotti si sbagliano; quindi non potrebbe esistere né beatitudine propriamente detta né visione beatifica prima della fine dei tempi e Dio non si lascerà contemplare prima del Giudizio finale. Ma fino a quel giorno dove saranno le anime dei morti? Possibile che noi andremo ad attendere sub altare dei, sotto quell’altare di Dio di cui parla san Giovanni nell’Apocalisse?…»

I passi di un cavallo, assolutamente inconsueti a quell’ora, risonarono lungo i muri dell’abbazia, sui piccoli ciottoli rotondi che lastricavano le migliori vie di Lione. Il cardinale restò un attimo in ascolto, e riprese poi il suo ragionamento, giungendo a sorprendenti conseguenze.«Se il paradiso è vuoto — pensava — questo modifica notevolmente la

situazione di coloro che noi chiamiamo santi o beati… E, se questo è vero per i giusti, lo è anche necessariamente per le anime degli ingiusti. Dio non potrebbe punire i malvagi prima di aver ricompensato i buoni. Soltanto alla fine della giornata, l’operaio riceve la sua mercede; soltanto alla fine del mondo il grano e il loglio saranno definitivamente separati. Nessuna anima abita attualmente l’inferno, poiché la condanna non è ancora stata pronunciata. Quanto a dire che finora l’inferno non esiste…»

Queste conclusioni erano molto rassicuranti per chiunque pensasse alla morte; rimandavano la scadenza del Giudizio finale, senza per questo annullare le prospettive di vita eterna, e concordavano con la sensazione, comune alla maggior parte degli uomini, che la morte sia soltanto una caduta in un immenso silenzio, un interminabile stato d’incoscienza…

Certo, se queste teorie fossero state apertamente proclamate, avrebbero suscitato profonde reazioni, sia fra i dottori della Chiesa che nella fede dei popoli. Non era dunque quello il momento più adatto per un candidato al soglio pontificio di andare a sostenere l’inesistenza o la vacuità del paradiso e dell’inferno4.

«Meglio attendere la fine del conclave» si diceva il cardinale.Le sue riflessioni vennero interrotte dall’arrivo di un frate portinaio, che bussò

alla sua porta per annunciargli l’arrivo di un messaggero da Parigi.— Chi lo ha mandato? — domandò il cardinale.Duèze parlava con voce diafana e sommessa, senza sonorità ma con estrema

chiarezza.— Il conte di Bouville — replicò il portinaio. — Credo che sia arrivato qui di corsa, perché ha l’aria molto stanca. Quando gli ho aperto, l’ho trovato semi-addormentato con la fronte appoggiata al battente.— Mandatemelo qui.E il cardinale, che soltanto pochi minuti prima aveva meditato sulla vanità delle

ambizioni umane, pensò subito:«Vorrà parlarmi dell’elezione? La corte di Francia intende sostenere

apertamente la mia candidatura? Vorranno propormi qualche condizione?…»Si sentiva agitato, pieno di curiosità e di speranza e percorreva la camera a

piccoli passi veloci. Duèze aveva il fisico di un ragazzo di quindici anni, un muso di topo con spesse sopracciglia bianche e un’ossatura piuttosto fragile.

Oltre i vetri il cielo incominciava a tingersi di rosa; non era ancora tempo di spegnere i ceri, ma già il giorno stava spuntando. L’ora più brutta era passata… Il messaggero fece il suo ingresso; subito il cardinale si accorse che non si trattava di un normale corriere. Anzitutto un messaggero professionista avrebbe sùbito piegato a terra il ginocchio e consegnato la scatola con il messaggio anziché restarsene in piedi con la testa leggermente inclinata mentre diceva: «Monsignore…». E poi la corte di Francia era solita affidare i suoi messaggi a eccellenti cavalieri di solida corporatura e di vigorosa complessione, come il grosso Robin-Coscia-Maria che faceva sovente la spola fra Parigi e Avignone, e non a un giovincello dal naso sottile, il quale pareva far fatica a tener gli occhi aperti, e barcollava sui suoi stivali per la stanchezza.

«È evidentemente travestito — pensò Duèze — … e poi questa faccia l’ho già vista in qualche posto…»

Con la mano piccola e sottile fece saltare i sigilli della lettera e subito provò una certa delusione. Non si parlava del conclave, ma si chiedeva protezione per il messaggero. Ma Duèze trovò anche in questa richiesta favorevoli presagi: ora Parigi si rivolgeva a lui quando doveva chiedere un favore a un alto dignitario ecclesiastico.

— Allora lei è il signor Guccio Baglioni1? — disse il cardinale dopo aver letto la lettera.Il giovane fu stupito di sentirsi rivolgere la parola in italiano.— Sì; Monsignore…— Il conte di Bouville vi affida a me perché io vi tenga sotto la mia protezione e vi sottragga alle persecuzioni dei vostri nemici.— Vi supplico, Monsignore, di accordarmi questa grazia!

— Sembra che abbiate avuto qualche brutta avventura che vi costringe a fuggire così travestito — continuò il cardinale con la solita voce rapida e priva di sonorità. — Raccontatemi cosa vi è successo. Bouville mi dice che voi facevate parte della sua scorta quando egli accompagnò qui la regina di Francia. Ed effettivamente ora ricordo di avervi veduto insieme a lui… E dice anche che siete nipote di messer Tolomei, il capitano generale delle compagnie lombarde a Parigi. Benissimo, benissimo. Raccontatemi dunque quello che vi è capitato.Intanto si era seduto e s’era messo a giocherellare con un leggìo girevole, sul

quale si trovavano i libri necessari al suo lavoro. Era di nuovo calmo e tranquillo, pronto a distrarsi con i piccoli problemi degli altri.

Guccio Baglioni aveva nelle gambe centoventi leghe a cavallo, percorse in meno di quattro giorni. Non sentiva più le proprie membra e una densa nebbia gli riempiva la testa. Egli avrebbe pagato qualunque somma per sdraiarsi, magari sul pavimento e dormire… dormire…

Riuscì però a riprendersi; la sua sicurezza personale, il suo amore e il suo avvenire esigevano da lui un ultimo sforzo, chiedevano che egli vincesse, ancora per qualche minuto, la stanchezza.

— Ecco, Monsignore — rispose — ho sposato una ragazza nobile.Gli sembrò che queste parole fossero state pronunciate dalla bocca di un altro.

Non era questo che lui intendeva dire. Avrebbe voluto spiegare al cardinale che una sventura senza eguali si era abbattuta su di lui, che lui era l’uomo più oppresso e più straziato dell’Universo, che la sua vita era minacciata, che era stato separato, forse per sempre, dalla donna senza la quale non avrebbe potuto vivere, che questa donna stava per essere chiusa in un convento e che gli avvenimenti erano precipitati su di loro in una settimana con tale violenza e rapidità che il tempo pareva aver perso le abituali dimensioni e lui si sentiva come lontano dal mondo… Eppure tutto il suo dramma, quando gli si chiedeva di esprimerlo in parole, poteva essere riassunto in quella banalissima frase: «Monsignore, ho sposato una ragazza nobile…»

— Ah sì? — disse il cardinale. — E come si chiama?— Maria di Cressay.— Ah… Cressay… no, non li conosco.— Ma ho dovuto sposarla segretamente, Monsignore; la sua famiglia non voleva saperne.— Perché siete un Lombardo, immagino… Certo, in Francia, sono ancora un po’ arretrati. In Italia, invece… E allora, volete ottenere l’annullamento? Bah, visto che la cerimonia è stata celebrata in segreto…

— Ma no, Monsignore — disse Guccio. — Io l’amo e lei mi ama. Ma la sua famiglia si è accorta che lei è incinta e i suoi fratelli mi cercano per uccidermi.— Possono farlo. Il diritto consuetudinario glielo permette. E voi siete nella posizione di un rapitore… Chi ha celebrato il matrimonio?— Il frate Vincenzo.— Fra’ Vincenzo?… non lo conosco.— Il guaio è, Monsignore, che questo monaco è morto e io dunque non posso neppure dimostrare di essere veramente sposato… Ma non giudicatemi un vile, Monsignore. Io volevo battermi, ma mio zio si è rivolto a messer di Bouville…— … il quale vi ha saggiamente suggerito di restar lontano da Parigi per qualche tempo.— Ma intanto Maria verrà rinchiusa in un convento! Credete, Monsignore, di poterla fare uscire? Credete che un giorno io potrò rivederla?— Una cosa alla volta, figlio mio — rispose il cardinale, continuando a giocherellare con il leggio. — Si vuol metterla in convento? E dove potrebbe star meglio, per ora?… Abbiate dunque fiducia nell’infinita misericordia di Dio, di cui noi tutti abbiamo così grande bisogno…Guccio abbassò il capo con aria stanca. I suoi capelli neri erano coperti di

polvere.— Vostro zio è in buoni rapporti commerciali con i Bardi?

— continuò il cardinale.— Certo, Monsignore, certo. I Bardi sono i vostri banchieri, se non sbaglio — rispose Guccio con cortesia puramente professionale.— Sì, sono i miei banchieri. Ma in questi tempi mi paiono meno… meno pronti nei loro affari che non nel passato. Sono una compagnia così numerosa, del resto! Hanno uffici in ogni parte del mondo. E, ad ogni minima richiesta, devono prima parlare con Firenze. Insomma, sono lenti come un tribunale ecclesiastico… Vostro zio ha molti prelati fra i suoi clienti?I pensieri di Guccio erano molto lontani dalla banca. La nebbia invadeva sempre più il suo cervello, e gli bruciavano gli occhi.— No — disse — noi lavoriamo soprattutto con i grandi baroni. Il conte di Valois, il conte d’Artois… Ma saremmo molto onorati, Monsignore…— Ne parleremo più tardi. Per ora, in questo convento voi sarete al sicuro. Vi crederanno un uomo al mio servizio e forse vi faranno indossare una veste da chierico… Ne parlerò con il mio cappellano. Ora potete togliervi quell’uniforme e andare tranquillamente a dormire: sembrate averne bisogno.Guccio salutò, biascicò qualche parola di gratitudine e si diresse verso la porta.

Ma subito si fermò.— Non posso ancora spogliarmi, Monsignore — disse. — Devo consegnare un altro messaggio.— A chi? — domandò Duèze insospettito.— Al conte di Poitiers.— Date a me la lettera. Gliela farò consegnare da un frate.— Il fatto è, Monsignore, che messer di Bouville teneva molto…— Sapete se questo messaggio si riferisce al conclave?— Oh, no, Monsignore. Riguarda la morte del re.Il cardinale sussultò.— Re Luigi è morto? Ma perché non me lo avete detto prima?— Come, non lo sapevate? Credevo ne foste stato avvertito, Monsignore.In realtà non aveva pensato a questo. Le sue disavventure e la sua stanchezza

gli avevano fatto dimenticare questo importante avvenimento. Era partito al galoppo da Parigi e non si era più fermato: aveva cambiato i cavalli nei monasteri indicatigli, mangiando in fretta e parlando il meno possibile. Così, senza accorgersene, aveva preceduto i messaggeri ufficiali.

— E di che cosa è morto?— È appunto questo che messer di Bouville voleva comunicare al conte di

Poitiers.— Delitto? — mormorò Duèze.— Si dice che il re sia stato avvelenato.Il cardinale riflettè per qualche secondo.— Ecco un avvenimento che può cambiare molte cose — disse. — È già stato nominato il reggente?— Non so, Monsignore. Quando sono partito, si faceva il nome del conte di Valois…— Va bene, figlio mio, andate pure a riposare.— Ma, Monsignore… e il conte di Poitiers?Le labbra sottili del prelato accennarono a un rapido sorriso che poteva anche

essere considerato un’espressione di benevola simpatia.— Non sarebbe prudente per voi farvi vedere in giro, e per di più siete sfinito — disse. — Date a me quel messaggio: per evitarvi qualsiasi rimprovero lo consegnerò io personalmente.Qualche minuto dopo, preceduto da un servitore con una fiaccola, come la sua

dignità esigeva, e seguito da un segretario, il cardinale di Curia lasciava l’abbazia di Ainay, fra il Rodano e la Saona, percorrendo buie stradette spesso intralciate da

mucchi di immondizie. Magro e gracile, egli procedeva con passo saltellante e quasi di corsa, nonostante i suoi settantadue anni. Il suo abito color porpora pareva danzare fra i muri.

Le campane delle venti chiese e dei quarantadue conventi di Lione stavano suonando per la prima messa. Le distanze erano brevi in questa città abitata allora da non più di ventimila abitanti, metà dei quali dedita al commercio della religione e gli altri alla religione del commercio. Il cardinale arrivò dunque rapidamente all’abitazione del console, dove alloggiava il conte di Poitiers5.

III • LE PORTE DI LIONE

Il conte di Poitiers stava finendo di vestirsi quando il suo ciambellano

venne ad annunciargli la visita del cardinale.Alto e magro, con un naso prominente e capelli spioventi sulla fronte in

ciocche assai corte che scendevano poi in folti riccioli sulle sue gote fresche di ventitreenne, il giovane principe, che indossava una veste da camera di camocas marezzato6, si mosse per accogliere Monsignor Duèze e per baciargli devotamente l’anello.

Sarebbe difficile immaginare un contrasto più netto, una dissomiglianza più evidente di quella esistente fra questi due personaggi, uno dei quali sembrava un furetto appena sbucato fuori dalla tana, l’altro un airone che sorvolasse altero la paludi.

— Nonostante l’ora mattutina, Monsignore — disse il cardinale — non ho voluto rinunciare a portarvi le mie preghiere nel lutto che vi ha colpito.— Quale lutto? — domandò Filippo, leggermente sussultando. Aveva subito pensato alla moglie Giovanna che era rimasta a Parigi incinta di otto mesi.— Vedo che ho fatto bene, allora, a correre ad avvertirvi — continuò Duèze. — Cinque giorni fa è morto a Vincennes re Luigi X, vostro fratello.Le reazioni di Filippo a questa notizia furono controllatissime: nient’altro che

una inspirazione appena appena più profonda. Il suo viso non lasciava trasparire alcun sentimento: né sorpresa, né commozione e neppure l’impazienza di avere maggiori particolari.

— Vi sono grato della vostra premura, Monsignore — disse. — Ma come mai voi avete ricevuto una notizia così importante ancor prima di me?— È stato messer di Bouville, un cui messaggero mi ha sollecitato a farvi segretamente pervenire questa lettera.Il conte di Poitiers dissigillò il plico e lo lesse accostandolo molto agli occhi;

egli era infatti assai miope. E anche stavolta non mostrò alcuna reazione: quando

ebbe finito di leggere, piegò la lettera e se la mise in tasca. Poi restò silenzioso per qualche istante.

Anche il cardinale taceva, con l’aria di voler rispettare il dolore del principe, anche se Filippo non dava alcun segno di afflizione.

— Dio lo salvi dalle pene dell’inferno — disse finalmente il conte di Poitiers, rispondendo così al devoto atteggiamento del prelato.— Oh… l’inferno… — mormorò Duèze. — Comunque, preghiamo per lui. Penso anche alla sfortunata regina Clemenza che io ho visto crescere quando vivevo alla corte di Napoli. Una principessa così dolce, così perfetta…— Sì, la sorte di mia cognata è davvero degna di pietà — disse Poitiers.E intanto rifletteva. «Luigi non ha lasciato disposizioni testamentarie sulla

reggenza. E, a quanto mi scrive Bouville, mio zio Valois si sta agitando…»— Che cosa farete, Monsignore? Ritornerete subito a Parigi? — domandò il cardinale.— Non so, non lo so ancora — replicò Poitiers. — Aspetto informazioni più particolareggiate. Resterò comunque a disposizione del regno.Nella sua lettera Bouville non gli nascondeva di sperare in un suo immediato ritorno. Essendo egli il maggiore dei fratelli del re defunto ed essendo pari del regno, Poitiers doveva prendere al più presto il suo posto nel consiglio della corona, dove, fin dalla prima riunione, si era incominciato a discutere sulla nomina di un reggente, senza peraltro giungere a un accordo.Ma Filippo di Poitiers non voleva lasciare Lione senza aver portato a buon fine

il lavoro iniziato.Prima di tutto doveva concludere il contratto di fidanzamento fra la sua

terzogenita Isabella, che aveva appena cinque anni, e il delfinetto del Viennese, il piccolo Gigues, che ne aveva sei. Filippo si era recato a Vienne per combinare questo matrimonio con il delfino Giovanni II della Tour du Pin e con la delfina Beatrice, sorella della regina Clemenza. Si trattava di una vantaggiosa alleanza che avrebbe permesso alla corona di compensare in quella zona l’influenza degli Anjou-Sicilia. La firma del contratto era prevista per uno dei prossimi giorni7.

E c’era soprattutto l’elezione del papa. Per settimane e settimane, Poitiers aveva percorso la Provenza, il Viennese e la zona di Lione per incontrare uno dopo l’altro i ventiquattro cardinali dispersi8 e assicurare loro che l’aggressione di Carpentras non si sarebbe più ripetuta e che nessuna violenza sarebbe più stata fatta. Cercò anche di far balenare loro prospettive di successo, citando, a sostenere le sue parole, il prestigio della fede, la dignità della Chiesa e l’onore dello Stato. Finalmente, dopo molti sforzi diplomatici ed economici, era riuscito a farli

trasferire tutti a Lione, città a lungo sottomessa al potere ecclesiastico, ma che negli ultimi anni di regno di Filippo il Bello era passata sotto la giurisdizione della corona francese.

Il conte di Poitiers si sentiva vicino alla mèta. Tuttavia, se lui fosse partito, la situazione sarebbe tornata al punto di partenza e i dissapori personali avrebbero nuovamente prevalso sull’interesse della Chiesa. Per di più l’influenza del patriziato romano o quella del re di Napoli avrebbe potuto sostituire quella della Francia, e i diversi partiti avrebbero ricominciato ad accusarsi vicendevolmente di eresia. E poi la Santa Sede avrebbe anche potuto tornare a Roma. «Cosa questa che mio padre voleva assolutamente evitare… — pensava Filippo di Poitiers. — Che la sua opera, già così profondamente minata dalla politica di Luigi e dello zio Valois, debba essere completamente annientata?»

Per qualche secondo, il cardinale Duèze ebbe l’impressione che il giovane principe si fosse completamente dimenticato di lui. Poi, improvvisamente, Poitiers gli chiese:

— Il partito guascone insisterà sulla candidatura del cardinale di Pélagrue? E credete che i vostri pii colleghi siano finalmente disposti a riunirsi?… Sedetevi accanto a me, Monsignore, ed esponetemi chiaramente il vostro parere. A che punto siamo?Da un terzo di secolo, il cardinale si occupava attivamente di alta politica e

aveva avuto modo di conoscere molti sovrani e moltissimi uomini di governo: tuttavia non ne aveva visti molti che avessero un simile controllo di se stessi. Egli si trovava di fronte un principe di ventitré anni, cui era appena stato comunicato che suo fratello era morto e il trono vacante; eppure costui pareva dedicare tutta la sua attenzione all’intricata situazione del conclave.

Si sedettero uno accanto all’altro nei pressi di una finestra, su una cassa ricoperta di damasco. I piedi del cardinale arrivavano appena a toccar terra e la sottile caviglia del conte di Poitiers penzolava nel vuoto. I due uomini iniziarono così una lunga conversazione.

In effetti, a quanto riferì Duèze, la situazione del conclave era praticamente ancora quella di due anni prima, quando era morto Clemente V.

Il partito dei dieci cardinali guasconi, chiamato anche partito francese, era ancora il più forte, pur essendo insufficiente a raccogliere da solo la maggioranza richiesta, cioè quei sedici voti che costituivano i due terzi del Sacro Collegio. I Guasconi, considerandosi eredi spirituali del defunto papa, cui tutti dovevano la porpora cardinalizia, insistevano sul fatto che la Santa Sede dovesse rimanere ad Avignone e su questo problema erano assolutamente solidali fra loro. Esisteva

però in questo partito una sorda lotta; accanto alle ambizioni di Arnaldo di Pélagrue, c’erano quelle, sempre crescenti, di Arnaldo di Fougères e di Arnaldo di Nouvel. Questi tre prelati, pur scambiandosi apertamente le promesse più allettanti, cercavano sornionamente di danneggiarsi a vicenda.

— La guerra dei tre Arnaldi — la definì Duèze con la sua voce sottile. — Passiamo ora al partito italiano.Questo secondo gruppo comprendeva soltanto otto cardinali, divisi per di più

in tre fazioni. Il terribile cardinal Caetani, nipote di Bonifacio VIII, era violentemente contrario ai due Colonna; si trattava di una rivalità secolare fra le due famiglie, divenuta irriducibile odio dopo la faccenda di Anagni, quando un Colonna aveva schiaffeggiato Bonifacio. Tra questi avversari, gli altri Italiani parevano tentennare. Stefaneschi, ostile alla politica di Filippo il Bello, stava con Caetani, di cui del resto era parente, e Napoleone Orsini si destreggiava fra gli uni e gli altri. Questi otto, insomma, erano d’accordo soltanto su un punto: il ritorno del papato alla Città eterna; ma su Questo punto la loro determinazione era assoluta.

— Sapete bene, Monsignore — continuò Duèze — che per qualche tempo si è rischiato uno scisma e che il pericolo non è ancora passato… I nostri Italiani non volevano neppure accettare di riunirsi in Francia e, poco tempo fa, ci fecero sapere che, qualora fosse stato eletto un papa guascone, essi non lo avrebbero riconosciuto e ne avrebbero nominato un altro a Roma per proprio conto.— Non ci saranno scismi — replicò il conte di Poitiers senza scomporsi.— Grazie a voi, Monsignore, grazie a voi: sono lieto di riconoscerlo e del resto lo dichiaro apertamente a tutti. Voi siete andato di città in città a portare la buona parola e, se non avete ancora trovato il pastore, siete pur riuscito a radunare il gregge.— Costosissime pecore, Monsignore! Sapete che sono partito da Parigi con sedicimila lire e che la settimana scorsa ho dovuto farmene mandare altrettante? Altro che Giasone! Basta che tutti questi velli d’oro non mi scivolino via dalle mani — disse il conte di Poitiers, increspando gli occhi e fissando con attenzione il cardinale.Costui che, per vie traverse, aveva grandemente beneficiato di quelle largizioni,

non raccolse direttamente l’allusione, ma rispose:— Credo che Napoleone Orsini, Albertini di Prato e forse anche Guglielmo di Longis che era stato il mio predecessore come cancelliere del re di Napoli, potrebbero facilmente staccarsi dal partito italiano… Valeva la pena di pagare

un prezzo così alto pur di evitare uno scisma.«Ha adoperato il denaro che gli abbiamo dato noi — pensò Poitiers — per

procurarsi tre voti fra gli Italiani. È un uomo abile».In quanto a Caetani, benché continuasse a insistere sulle proprie posizioni, la

sua situazione non era più tanto solida da quando si erano scoperte le sue pratiche di stregoneria e soprattutto il tentativo di «fatturare» il re di Francia e lo stesso conte di Poitiers. L’ex-templare Evrard, un folle di cui il nipote di Bonifacio si era servito per le sue pratiche demoniache, aveva parlato un po’ troppo prima di consegnarsi agli uomini del re…

— Al momento opportuno saprò tener presente questo episodio — disse il conte di Poitiers. — Il profumo del rogo potrebbe anche smussare le posizioni di monsignor Caetani.L’idea di veder bruciare un altro cardinale fece nascere un tenue e furtivo

sorriso sulle sottili labbra del vecchio prelato, che subito aggiunse:— Sembra che Francesco Caetani abbia completamente abbandonato le cose della religione, per dedicarsi alle pratiche diaboliche. Che sia stato lui, una volta andato a vuoto il tentativo di «fattura», a fare avvelenare vostro fratello?Il conte di Poitiers alzò le spalle.— Ogni volta che un re muore, c’è chi sostiene che sia stato avvelenato — rispose. — Lo hanno detto del mio trisavolo Luigi Ottavo; e lo hanno detto di mio padre, che Dio lo assista… Mio fratello non aveva una salute di ferro. Comunque è un’ipotesi da non trascurare.— C’è infine — riprese Duèze — il terzo partito, chiamato provenzale dal più irrequieto di noi, il cardinale di Mandagout…Quest’ultimo partito comprendeva soltanto sei cardinali, di diversa origine;

qualche meridionale, come i fratelli Bérenger Frédol, qualche Normanno e infine Duèze, che era originario del Quercy9.

L’oro generosamente distribuito da Filippo di Poitiers li aveva resi assai più pronti ad accogliere i punti di vista della politica francese.

— Noi siamo i più piccoli e i più deboli — disse Duèze, — ma siamo anche il sostegno indispensabile di qualunque maggioranza. E, siccome né Guasconi né Italiani accetterebbero mai un papa che appartenesse al partito avverso, evidentemente, Monsignore…— Evidentemente il nuovo pontefice non potrà venire che dalle vostre file, non è così?— Questa è la mia opinione, opinione che sostengo dalla morte di Clemente. Ma non si è voluto ascoltarmi, credendo che io parlassi soltanto nel mio

interesse, anche perché, senza che io facessi nulla in questo senso, era stato effettivamente fatto il mio nome. Ma la corte di Francia non ha mai avuto fiducia in me.— Il fatto è, Monsignore, che voi eravate un po’ troppo apertamente sostenuto dalla corte di Napoli.— Ma se nessuno mi avesse appoggiato, Monsignore, chi mai si sarebbe accorto di me? La mia unica ambizione, credetemi, è di vedere un po’ d’ordine negli affari della Chiesa, che versano attualmente in gravi condizioni; il compito non sarà certo facile per il prossimo successore di san Pietro.Il conte di Poitiers congiunse le sue mani davanti al viso e rifletté per qualche

secondo.— Credete, Monsignore — disse — che gli Italiani, pur di non avere un papa guascone, accetterebbero di lasciare la Santa Sede ad Avignone e che i Guasconi, in cambio della certezza di Avignone, potrebbero rinunciare al proprio candidato e aderire al vostro partito?Il senso di queste parole era chiaro: «Se voi, monsignor Duèze, diveniste papa

con il mio appoggio, vi impegnereste formalmente a mantenere il papato nella sede attuale?»

Duèze capì perfettamente il valore di quel discorso.— Sarebbe, Monsignore — rispose — la soluzione più saggia.— Terrò conto del vostro prezioso consiglio — disse Filippo di Poitiers, levandosi in piedi e ponendo fine all’udienza.Poi riaccompagnò alla porta il cardinale.Il momento in cui due uomini, apparentemente assai diversi l’uno dall’altro per

età, aspetto, esperienze e funzioni, si riconoscono di eguale tempra e comprendono che fra loro potrebbe nascere amicizia e collaborazione, quel momento, dunque, dipende più da misteriosi influssi del destino che non dalle parole pronunciate.

Mentre Filippo si chinava per baciargli l’anello, il cardinale mormorò:— Voi, Monsignore, sareste un eccellente reggente.Filippo si rialzò: «Si è dunque accorto che io in tutto questo tempo non ho

pensato ad altro?» si chiese. Poi rispose:— E voi, Monsignore, non sareste forse un eccellente papa?Nessuno dei due seppe trattenere un fugace sorriso: c’era nel vecchio un senso

di paterno affetto, nel giovane una sfumatura di amichevole deferenza.— Vi sarei grato — aggiunse Filippo — se poteste tener segreta la grave notizia che mi avete comunicato, almeno finché essa non sia stata confermata

ufficialmente.— D’accordo, Monsignore.Rimasto solo, il conte di Poitiers meditò per qualche secondo; poi chiamò il

suo primo ciambellano.— Adamo Héron — disse. — Non è arrivato nessun messaggero da Parigi?— No. Monsignore.— Fate allora chiudere tutte le porte di Lione.

IV • «ASCIUGHIAMO LE NOSTRE LACRIME»

Quella mattina, la popolazione lionese rimase senza ortaggi.

I carri degli ortolani erano stati fermati fuori delle mura e le massaie tumultuavano nei mercati deserti. L’unico ponte, quello sulla Saona (la costruzione del ponte sul Rodano non era ancora stata completata), era bloccato dalle truppe. Non era possibile entrare a Lione, né uscirne. Mercanti italiani, viaggiatori e monaci vaganti, sostenuti da tutti gli sfaccendati della città, si erano radunati davanti alle porte e chiedevano spiegazioni. A ogni domanda, le guardie rispondevano inevitabilmente «Ordine del conte di Poitiers», con quell’aria autorevole e altera che assumono volentieri i rappresentanti del potere quando devono far rispettare un ordine di cui essi stessi ignorano le ragioni.

— Io ho una figlia malata a Fourvière…— A me ieri sera è bruciato un granaio a Saint-Just…

— A me il podestà di Villefranche farà fare il sequestro se non gli pago le imposte entro oggi…Così gridava la gente.

— Ordine del conte di Poitiers! — si rispondeva loro.E, quando la pressione diventava troppo forte, gli agenti regi incominciavano ad adoperare le mazze.

In città, intanto, si diffondevano strane voci.Alcuni sostenevano che ci sarebbe stata una guerra, ma nessuno sapeva dire

con chi. Altri giuravano che nella notte erano scoppiati sanguinosi disordini vicino al convento degli Agostiniani, fra la gente del re e i dipendenti dei cardinali italiani. C’era chi aveva udito lo scalpitar dei cavalli e altri che addirittura precisavano il numero dei morti. Ma nella zona degli Agostiniani la situazione era assolutamente tranquilla.

L’arcivescovo, Pietro di Savoia, era molto preoccupato e si domandava se non si stavano ripetendo gli avvenimenti del 1312, e non si voleva costringere lui a

rinunciare alla carica di primate delle Gallie, cioè alla sola prerogativa rimastagli dopo il passaggio di Lione alla corona, a vantaggio dell’arcivescovo di Sens10. Perciò mandò un canonico a chiedere notizie; ma costui, recatosi dal conte di Poitiers, aveva potuto parlare soltanto con uno scudiero, cortesissimo ma nettamente evasivo. E l’arcivescovo si attendeva un ultimatum da un momento all’altro.

I cardinali, che abitavano nei diversi conventi della città, erano sbigottiti fino all’angoscia. Temevano che si ripetesse l’aggressione di Carpentras. Ma questa volta come fuggire? Emissari di questi prelati andavano dal convento degli Agostiniani a quello dei Francescani, da quello dei Domenicani a quello dei Certosini… Il cardinal Caetani aveva mandato il suo uomo di fiducia, l’abate Pietro, a Napoleone Orsini, ad Albertini di Prato e a Flisco, l’unico cardinale spagnolo, a dir loro:— Vedete! Vi siete lasciati incantare dalle promesse del conte di Poitiers. Egli aveva giurato di non molestarci, ci aveva promesso di non chiuderci in clausura per votare, ci aveva garantito piena libertà. Ed ecco che ora ci blocca dentro la città…Anche Duèze ricevette la visita di due colleghi provenzali, il cardinale di

Mandagout e Bérenger Frédol, l’anziano. Ma Duèze finse di essere troppo immerso nei suoi studi teologici e di non essere al corrente di quanto stava succedendo. Intanto, in una cella vicina al suo appartamento, Guccio Baglioni dormiva profondamente, del tutto ignaro di essere stato lui l’origine di tante paure.

Da più di un’ora, messer Varay, console di Lione11 e altri tre suoi colleghi, venuti a chiedere spiegazioni in nome del consiglio cittadino, scalpitavano nell’anticamera del conte di Poitiers.

Costui sedeva a porte chiuse con gli uomini di sua fiducia e con i grandi dignitari che facevano parte della sua scorta.

Finalmente le tende si aprirono e apparve il conte di Poitiers seguito dai suoi consiglieri. Avevano tutti un’aria grave, come si addice a uomini che hanno preso un’importante decisione politica.

— Ah, messer Varay; siamo lieti che siate qui e che siano presenti anche gli altri consoli. Potremo così farvi immediatamente conoscere il messaggio che intendevamo or ora mandarvi. Messer Mille, leggete vi prego.Mille di Noyers, legista, consigliere al Parlamento e maresciallo dell’oste sotto

Filippo il Bello, srotolò una pergamena e lesse:

«A tutti i podestà, ai siniscalchi, ai consigli d’amministrazione delle nostre fedeli città. Vogliamo comunicarvi il grande lutto che ci ha colpiti con la morte del nostro amatissimo fratello, il Re nostro sire Luigi Decimo, che Dio ha voluto strappare all’affetto dei suoi sudditi. Ma la natura umana è tale che nessuno può superare i limiti a lui assegnati. Così, noi abbiamo deciso di asciugare le nostre lacrime, di pregare con voi Gesù Cristo per l’anima sua e di dedicare subito le nostre forze al governo del regno di Francia e del regno di Navarra affinché le loro leggi fioriscano e affinché i sudditi di questi due regni vivano felici sotto l’usbergo della giustizia e della pace».

Il reggente dei due regni, per grazia di DioFILIPPO.

Passato il primo momento di sorpresa, messer Varay andò a baciare la mano del conte di Poitiers e gli altri consoli lo imitarono.

Il re era morto. La notizia in se stessa era talmente sbalorditiva che nessuno pensò, in quel primo momento, a porsi domande. Non esistendo un erede in età di di regnare, sembrava a tutti assolutamente normale che il maggiore dei fratelli del sovrano assumesse l’esercizio del potere. I consoli non dubitarono che questa decisione non fosse stata presa a Parigi dalla Camera dei pari.

— Che gli araldi leggano questo messaggio in tutta la città — ordinò Filippo di Poitiers — e che subito dopo siano riaperte le porte.E aggiunse:— Messer Varay, voi siete un importante mercante di tessuti. Vi sarei grato se mi forniste venti mantelli neri da tenere nella mia anticamera a disposizione di tutti coloro che vorranno venire a presentarmi le loro condoglianze.Dopo di che congedò i consoli.Egli aveva dunque compiuto i due primi atti necessari alla conquista del potere.

Si era fatto proclamare reggente dai suoi consiglieri, i quali venivano così automaticamente a formare il suo primo consiglio di governo; e stava per essere riconosciuto dalla popolazione di Lione, città nella quale egli attualmente risiedeva. Ora aveva fretta di allargare questo riconoscimento a tutto il regno e di porre Parigi davanti a una situazione di fatto. Era un problema di velocità.

Già i copisti stavano riproducendo in parecchi esemplari il suo proclama, e i messaggeri sellavano i cavalli per andare a portarlo in ogni provincia.

Appena le porte di Lione furono riaperte, essi si slanciarono al galoppo, incontrando altri tre corrieri, fermi da quel mattino al di là della Saona.

Il primo di costoro portava una lettera del conte di Valois che si proclamava reggente, eletto dal consiglio della corona, e chiedeva a Filippo di sostenerlo per rendere definitiva questa designazione. «Sono certo che voi vorrete, per il bene del

regno, aiutarmi in questo compito, e che mi trasmetterete al più presto il vostro consenso, da quel buono e amatissimo nipote che sempre siete stato».

Il secondo messaggio veniva dal duca di Borgogna che chiedeva anche lui la reggenza in nome della nipote, la piccola Giovanna di Navarra.

Infine il conte d’Evreux comunicava a Filippo di Poitiers che i pari non erano stati riuniti secondo le prescrizioni tradizionali e che la fretta di impadronirsi del governo, che Carlo di Valois apertamente mostrava, non era sostenuta né da deliberazioni giuridicamente valide, né dal voto di una regolare assemblea.

Il conte di Poitiers aveva subito ripreso la riunione con i suoi consiglieri, tutti uomini ostili alla politica seguita negli ultimi diciotto mesi dal Testardo e dal conte di Valois. Primo di tutti il connestabile di Francia, Gaucher di Châtillon, dal 1302 comandante in capo dell’esercito, il quale non poteva perdonare loro la ridicola campagna dell’«oste impantanata», che egli stesso aveva dovuto guidare in Fiandra l’estate dell’anno prima; Mille de Noyers, suo cognato, il quale condivideva pienamente le sue idee; il legista Raul di Presle, il quale, dopo tanti servigi resi al Re di Ferro, aveva subito la confisca dei beni, mentre il suo amico Enguerrand di Marigny era stato impiccato. Egli stesso era stato sottoposto, ma senza esito, alla tortura dell’acqua12. Non aveva fatto alcuna confessione, ma portava le conseguenze di ciò sul suo corpo, e in un inestinguibile rancore contro l’ex imperatore titolare di Costantinopoli. Se dopo questi fatti egli era stato liberato ed era tornato a contare qualche cosa, lo doveva al conte di Poitiers.

Così, attorno a quest’ultimo, si era formato una specie di partito d’opposizione, che comprendeva tutti i grandi consiglieri di Filippo il Bello ancora vivi. Nessuno di loro vedeva di buon occhio le ambizioni del conte di Valois e nessuno si augurava che il duca di Borgogna venisse a immischiarsi nelle faccende della corona. Tutti costoro, inoltre, ammiravano la rapidità con la quale il giovane principe aveva agito e ponevano in lui ogni speranza.

Poitiers scrisse a Eudes di Borgogna e a Carlo di Valois, senza citare le lettere che i due gli avevano mandato e fingendo di non averle ricevute, per informarli che egli si considerava reggente per diritto naturale e che avrebbe riunito l’assemblea dei pari a sanzionare questa situazione non appena ne avesse avuto la possibilità.

Intanto egli nominò dei commissari con l’incarico di recarsi nelle principali località del regno ad assumere il potere in suo nome. Quel giorno partirono così parecchi dei suoi cavalieri — quelli che sarebbero poi diventati i suoi cavalieri al seguito13 — come Reginaldo di Lor, Tomaso di Marfontaine e Guglielmo di Courteheuse. Restarono dunque con Poitiers soltanto Anseau di Joinville, figlio

del siniscalco di Sciampagna, e Enrico di Sully.Mentre tutti i campanili della città suonavano a morto, Filippo di Poitiers ebbe

un lungo colloquio con Gaucher di Châtillon. Il connestabile di Francia aveva il diritto di presenziare a tutte le assemblee del governo: Camera dei pari, Gran Consiglio e Consiglio Ristretto. Filippo chiese perciò a Gaucher di recarsi a Parigi in suo nome e di opporsi alle mene di Carlo di Valois, fin quando lo stesso Filippo non avesse potuto raggiungere la capitale. Il connestabile doveva anche accertarsi di aver piena giurisdizione sulle truppe al soldo della municipalità parigina e soprattutto sui balestrieri.

Il nuovo reggente aveva infatti deciso di restare per il momento a Lione, cosa questa che aveva sulle prime suscitato la sorpresa dei suoi consiglieri, i quali si erano però presto affrettati ad approvarla.

— Non dobbiamo abbandonare così il lavoro iniziato — aveva detto il conte di Poitiers. — La cosa che il regno maggiormente desidera è un nuovo papa e noi saremo tanto più forti se riusciremo a darglielo.Egli affrettò quindi la firma del contratto di fidanzamento fra sua figlia e il

delfinetto. A prima vista la cosa non aveva rapporti con l’elezione di un pontefice, ma nelle intenzioni di Filippo i due fatti erano strettamente collegati. L’alleanza con il delfino del Viennese che regnava su tutti i territori a sud di Lione, controllando così la strada d’Italia, faceva parte del suo gioco: infatti, se i cardinali avessero avuto intenzione di lasciare Lione, non avrebbero potuto cercar rifugio in questa zona. Inoltre il fidanzamento rafforzava la sua posizione di reggente; il delfino si schierava dalla sua parte e aveva ormai buone ragioni per restargli fedele.

Il contratto venne firmato in forma privata nei giorni successivi: il lutto recente impediva infatti di festeggiare l’avvenimento.

Intanto Filippo di Poitiers ebbe un colloquio con il più potente barone di quella regione, il conte di Forez, cognato del delfino e padrone del versante destro del Rodano.

Giovanni di Forez aveva partecipato alle campagne di Fiandra, aveva spesso rappresentato Filippo il Bello alla corte papale e aveva abilmente contribuito al passaggio di Lione sotto la corona francese. Il conte di Poitiers sapeva che, riprendendo la politica paterna, avrebbe potuto contare su di lui.

Così il 16 giugno il conte di Forez compì un gesto altamente spettacolare, prestando solenne omaggio a Filippo, come al signore di tutti i signori di Francia e riconoscendo in lui il detentore del potere regio.

L’indomani il conte Bermon della Voulte, il cui feudo di Pierregourd faceva parte del siniscalcato di Lione, mise le proprie mani in quelle del conte di Poitiers

e gli giurò anche lui piena fedeltà.Al conte di Forez, Filippo ordinò di tener pronti, senza dar troppo nell’occhio,

settecento soldati. Così i cardinali non avrebbero più potuto lasciare la città.Ma da questo a ottenere un’elezione, il passo era ancora lungo. Le trattative si

erano arenate. Gli Italiani, comprendendo che il reggente aveva fretta di tornare a Parigi, avevano irrigidito le proprie posizioni. «Si stancherà prima lui», dicevano. E poco importavano loro le condizioni di tragica anarchia in cui stava precipitando la Chiesa.

Filippo di Poitiers ebbe anche parecchi colloqui con il cardinale Duèze che gli pareva di gran lunga l’uomo più intelligente del conclave, l’esperto più acuto e insieme più immaginoso in questioni religiose e il più adatto ad amministrare la Cristianità in un momento particolarmente difficile come quello che essa stava allora attraversando.

— L’eresia, Monsignore, rifiorisce quasi dappertutto — diceva il cardinale con la sua voce strana e inquietante. — E come potrebbe essere altrimenti con gli esempi che noi stiamo dando a tutti i fedeli? Il demonio approfitta delle nostre discordie per seminare ovunque zizzania. Ed è soprattutto nella diocesi di Tolosa che essa cresce rigogliosa. Vecchia terra di ribellione e di orribili fantasie! Il prossimo papa dovrebbe spezzare questa diocesi troppo grande e troppo difficile da governare in cinque vescovati, ognuno dei quali dovrà essere affidato a mani ben salde.— Il che equivarrebbe a creare numerosi beneficî nuovi — replicò il conte di Poitiers — su cui naturalmente il tesoro di Francia riscuoterebbe delle annate. Sareste d’accordo?— Ma certo.Si chiamava annata il diritto reale di incamerare i redditi del primo anno di

ogni nuovo beneficio ecclesiastico. In mancanza di un papa, da qualche anno non era più possibile creare nuovi beneficî, e il Tesoro aveva dovuto rinunciare ad introiti piuttosto cospicui. Senza contare che era quasi impossibile riscuotere le imposte arretrate sulla Chiesa, in quanto il clero approfittava della situazione per muovere ogni sorta d’obiezioni, cui era impossibile dare risposta perdurando la vacanza del trono di San Pietro.

In effetti, quando pensavano all’avvenire, sia Filippo che Duèze avevano soprattutto preoccupazioni di ordine finanziario, il primo come reggente, il secondo come possibile pontefice.

I disordini provocati dai feudatari, la rivolta di Fiandra, l’insurrezione dei baroni d’Artois e le brillanti decisioni di Carlo di Valois avevano non soltanto

esaurito le riserve del tesoro reale, ma lo avevano indebitato per parecchi anni.E il tesoro pontificio, dopo due anni di conclave vagante, non era in condizioni

migliori: i cardinali si vendevano a caro prezzo ai prìncipi di questo mondo, tanto più che il solo mezzo di sussistenza che restava a molti di loro era il commercio dei propri voti.

— Le multe, Monsignore, le multe — consigliò Duèze al giovane reggente. — Multate tutti quelli che hanno agito male, con ammende proporzionali alle loro ricchezze. Se chi viola la legge possiede cento lire, toglietegliene venti; ma se ne possiede mille, portategliene via cinquecento, e se è tanto ricco da disporre di centomila lire, confiscategli quasi tutto. Questo vi procurerà tre vantaggi: prima di tutto il guadagno sarà più alto, poi, privato della propria potenza, il malfattore non potrà più abusarne, infine i poveri, che sono la maggioranza, verranno dalla vostra parte e avranno fiducia nella vostra giustizia.Filippo di Poitiers sorrise.— Quello che saggiamente mi consigliate, Monsignore, può andar bene per la giustizia reale che agisce a mezzo del braccio temporale — rispose. — Ma non capisco come sia possibile restaurare le finanze della Chiesa…— Le multe, le multe — ripeté Duèze. — Mettiamo una tassa sui peccati: sarà una fonte inesauribile. L’uomo è peccatore per natura, ma è più disposto a pentirsi con il cuore che con la borsa. Rimpiangerà più sinceramente le proprie colpe ed esiterà molto, prima di ricadere in quegli errori, se ci sarà una tassa ad accompagnare le assoluzioni. Chi desidera emendarsi, dovrà versare un’ammenda.«Che stia scherzando?» si chiedeva Poitiers, il quale, a forza di frequentarlo,

aveva scoperto una certa tendenza del cardinale di Curia al paradosso e alla soperchieria.

— E quali peccati vorreste tassare, Monsignore? — domandò poi, per dargli corda.— Prima di tutto quelli commessi dal clero. Incominciamo col riformare noi stessi prima di pretendere di correggere gli altri. Santa Madre Chiesa tollera troppo facilmente mancanze e abusi. Storpi e deformi, per esempio, non dovrebbero poter diventare chierici o sacerdoti. E invece l’altro giorno mi sono accorto che un certo don Pietro, che fa parte del seguito del cardinal Caetani, ha due pollici alla mano sinistra.«Ecco una piccola cattiveria ai danni del nostro vecchio nemico», pensò

Poitiers.— Ho fatto delle inchieste — continuò Duèze. — Sembra che gli zoppi, i

monchi e gli eunuchi che nascondono le proprie disgrazie sotto una tonaca e riscuotono beneficî ecclesiastici, siano numerosissimi. E cosa dovremmo fare? Allontanarli dal seno della Chiesa, senza peraltro cancellare le loro colpe? Ridurli in miseria e magari spingerli a parteggiare per gli eretici di Tolosa o per qualche altra setta di spiritualisti? Ma no, permettiamo loro di riscattarsi. E chi dice riscatto, dice pagamento.Il vecchio prelato parlava assolutamente sul serio. La sua fantasia si era messa in

movimento dopo l’incontro con don Pietro e nelle ultime notti egli aveva architettato un complicato e particolareggiato sistema. Contava poi di redigere un memoriale da presentare, come egli modestamente diceva, al futuro papa.

Si trattava di istituire una Santa Penitenzieria che avrebbe permesso alla Santa Sede di riscuotere il prezzo delle diverse bolle d’assoluzione. I preti deformi avrebbero potuto riscattarsi pagando qualche lira per ogni dito mancante, il doppio per un occhio perduto e altrettanto se mancanti di uno o di entrambi i testicoli. Chi invece si fosse da se stesso mutilato della propria virilità avrebbe dovuto versare una somma più alta. Dalle infermità corporali, Duèze passava a quelle spirituali. I bastardi che avevano nascosto le condizioni della propria nascita al momento di ricevere gli ordini, i chierici che avevano preso la tonsura pur essendo sposati, quelli che si ammogliavano segretamente dopo l’ordinazione (come frequentemente avveniva), quelli che anche senza essere sposati facevano vita comune con una donna, i bigami, gli incestuosi e i sodomiti erano tutti tassati in proporzione alle colpe commesse. Le monache che avessero folleggiato con parecchi uomini sia dentro che fuori del convento sarebbero state costrette a una riabilitazione particolarmente costosa14.

— E se la creazione di questa Penitenzieria non renderà almeno duecentomila lire, solo per il primo anno — dichiarò Duèze — sono disposto…Stava per dire «sono disposto a finire sul rogo», ma si interruppe in tempo.«Almeno — pensava Poitiers — se viene eletto lui, non dovrò preoccuparmi

per le finanze papali».Ma, nonostante tutti gli intrighi di Duèze e nonostante l’aiuto che Poitiers

nascostamente gli dava, il conclave continuava a segnare il passo.E le notizie da Parigi erano piuttosto sconsolanti. Gaucher di Châtillon, in

stretta alleanza con il conte d’Evreux e con Mahaut d’Artois, cercava di contenere le ambizioni di Carlo di Valois. Ma intanto costui abitava nel palazzo della Cité dove viveva anche la regina Clemenza, amministrava lo Stato a modo suo e mandava nelle province istruzioni diverse da quelle che Poitiers inviava da Lione. D’altra parte il duca di Borgogna, che poteva contare sull’appoggio dei vassalli del

suo immenso feudo, era arrivato a Parigi il 16 giugno per far riconoscere i propri diritti. La Francia aveva dunque tre reggenti. Questa situazione non poteva durare a lungo, e Gaucher insisteva perché Filippo raggiungesse Parigi.

Il 27 giugno, dopo un consiglio ristretto cui presenziarono il conte di Forez e il conte di Voulte, il giovane principe decise di mettersi al più presto in cammino e ordinò alla sua scorta di preparare il convoglio contenente i bagagli. E intanto, essendosi accorto che nessun servizio solenne era stato ancora celebrato per la pace dell’anima di suo fratello, diede ordine di officiare l’indomani messe solenni in tutte le parrocchie della città. Tutto il clero era invitato ad assistervi, per associarsi alle preghiere del reggente.

I cardinali, soprattutto gli italiani, esultavano. Filippo di Poitiers era stato costretto a lasciare Lione senza aver potuto piegarli.

— Maschera la sua fuga sotto le pompe del lutto — disse Caetani, — ma finalmente se ne va, quel maledetto! Ed era convinto di averci in sua mano! Entro un mese vi garantisco che saremo di nuovo a Roma!

V • LE PORTE DEL CONCLAVE

I cardinali sono personaggi importanti, che non possono mescolarsi ai

più umili membri del clero. Il conte di Poitiers aveva quindi ordinato di mettere a loro disposizione, per il servizio funebre in memoria di Luigi X, la chiesa del convento dei frati Domenicani, detta chiesa dei Giacobini15, la più bella e la più vasta dopo la cattedrale di San Giovanni, e anche la meglio fortificata. I cardinali videro in questa scelta un normale omaggio alla loro dignità e nessuno mancò alla cerimonia.Questi alti prelati erano ventiquattro; e tuttavia la chiesa era piena. Ogni

cardinale era infatti scortato dal suo seguito: cappellano, segretario, tesoriere, chierici, paggi, valletti, portatori di strascico e di fiaccole. Così che almeno seicento persone erano, quella mattina, fra i grossi pilastri bianchi.

Raramente una messa funebre era stata seguita con così poco raccoglimento. Era la prima volta da parecchi mesi che i cardinali, i quali vivevano abitualmente in consorterie e in residenze separate, si trovavano tutti riuniti. Alcuni di loro non si vedevano da quasi due anni. Si sorvegliavano, si spiavano e commentavano i gesti e l’aspetto di tutti i loro colleghi.

— Avete visto? — mormorò qualcuno. — Orsini ha salutato il minore dei Frédol… Stefaneschi ha avuto un colloquio con Mandagout… Che stiano accostandosi ai Provenzali?… Ma Duèze ha l’aria sofferente: guardate come è invecchiato!Ed effettivamente Giacomo Duèze si sforzava di frenare il suo passo saltellante

di vecchio arzillo, procedeva molto lentamente e rispondeva ai saluti con l’aria svagata di un uomo ormai lontano dal mondo.

Guccio Baglioni, vestito da paggio, faceva parte del suo seguito. Ufficialmente egli parlava soltanto italiano ed era appena arrivato da Siena. «Avrei forse fatto meglio — pensava — a chiedere protezione al conte di Poitiers. Così oggi sarei partito con lui per Parigi e avrei potuto avere notizie di Maria, di cui non so più

nulla da tanto tempo. E invece sono costretto a dipendere da questa vecchia volpe, cui ho promesso il denaro di mio zio, e che non farà nulla per me prima che questo denaro sia arrivato. E lo zio che non risponde… E queste voci su un grande sconvolgimento in atto a Parigi… Maria, Maria, la mia bella Maria!… Crederà che io l’abbia abbandonata. E forse adesso mi odia. Cosa ne avranno fatto?»

Se la immaginava prigioniera dei suoi fratelli a Cressay o rinchiusa in qualche convento per ragazze pentite. «Un’altra settimana come questa — pensava — e me ne torno a Parigi».

Intanto Duèze aveva preso a guardarsi alle spalle con maggiore attenzione.— Temete qualcosa, Monsignore? — gli domandò Guccio.— No, no, non ho nessun timore — rispose il cardinale che s’era rimesso a guardar di sottecchi i colleghi.Il cardinal Caetani, con il viso magro, il lungo naso arcuato e capelli che

spuntavano come bianche fiamme dalla rossa calotta, non nascondeva il suo trionfo. Il catafalco, simbolo della morte di Luigi X, era, secondo lui, la risposta a quel bambolotto di cera trafitta di spilli su cui egli aveva praticato la «fattura». Le occhiate da lui scambiate con gli uomini del suo seguito, don Pietro, frate Bost e il chierico Andrieu, suo segretario, erano occhiate di vittoria. «Vedete, signori — aveva voglia di dire a tutti i presenti — cosa succede quando uno attira sopra di sé la vendetta dei Caetani, famiglia già potente ai tempi di Giulio Cesare?»

I due fratelli Colonna, il cui grosso mento rotondo era attraversato da una fossetta verticale, sembravano due guerrieri travestiti da prelati.Il conte di Poitiers non aveva lesinato sui cantori. Ce ne erano almeno un centinaio a far sentire le loro voci, accompagnati da organi i cui mantici erano mossi dalle energie congiunte di ben quattro uomini. Una musica sonora e regale si diffondeva sotto le volte, riempiendo l’aria di vibrazioni e avviluppando tutti i presenti. I chierichetti potevano tranquillamente chiacchierare fra loro e i paggi scambiarsi pettegolezzi alle spalle dei loro padroni. Nessuno poteva capire ciò che si diceva a tre passi di distanza e ancor meno quello che stava succedendo alle porte.Finalmente l’ufficio funebre ebbe termine; organi e cantori tacquero e i battenti

della porta maggiore furono aperti. Ma nessuna luce penetrò nella chiesa.Ci fu una prima reazione di sorpresa, come se durante la cerimonia, qualche

avvenimento miracoloso avesse improvvisamente oscurato il sole. Ma presto i cardinali capirono cosa era successo e incominciarono a strepitare, furibondi. Un muro alzato da poco bloccava la porta maggiore: durante la messa il reggente

aveva fatto murare tutte le uscite. I cardinali erano prigionieri!Seguì qualche momento di caos; prelati, canonici, preti e valletti, correvano qua

e là, confusamente, come topi in trappola. I paggi, arrampicandosi l’uno sulle spalle dell’altro, si erano alzati fino alle vetrate, e gridavano:

— La chiesa è circondata da uomini in arme!— Cosa faremo, adesso? Cosa faremo? — gemevano i cardinali. — Il reggente ci ha giocati!— Ecco il perché di tutta quella musica!— È un colpo contro la Chiesa! Che possiamo fare?— Dobbiamo scomunicarlo — gridò Caetani.— E se ci facesse morire di fame o ci massacrasse tutti?Già i fratelli Colonna e la gente del loro seguito si erano armati di pesanti

candelieri di bronzo, di sgabelli e di mazze da processione, decisi a vender cara la propria pelle. E già Italiani e Guasconi si scambiavano violenti rimproveri.

— Vedete, è colpa vostra — gridavano i primi. — Se voi aveste rifiutato di venire a Lione!… Noi lo sapevamo che ci sarebbe stato giocato qualche brutto tiro.— E se voi aveste eletto uno dei nostri, oggi non saremmo in questa situazione — replicavano gli altri. — È tutta colpa vostra, cattivi cristiani!Poco mancava che i due partiti avversi venissero alle mani.Una sola porta non era ancora stata completamente murata: vi era rimasto di

che lasciar passare un uomo, ma questa stretta apertura era guarnita da un cespuglio di picche impugnate da manopole di ferro. A un certo punto le picche scomparvero ed entrò nella chiesa il conte di Forez, seguito da Bermond della Voute e da altri uomini coperti di corazze come i due nobili. Essi furono accolti da un’esplosione di minacce e di grossolane ingiurie.

Con le braccia incrociate sull’elsa della spada, il conte di Forez aspettava che gli altri si calmassero. Era un uomo solido, coraggioso, del tutto insensibile alle preghiere e alle minacce, violentemente seccato del cattivo esempio che da due anni i cardinali stavano dando alla cristianità e pronto a tutto pur di eseguire gli ordini del conte di Poitiers. Il suo rude volto solcato di rughe era visibile attraverso l’apertura dell’elmo.

Quando i cardinali e i loro uomini ebbero finito di sgolarsi, la sua voce si alzò precisa e martellata, echeggiando al di sopra di loro fino in fondo alla navata.

— Eminentissimi signori — disse; — sono qui per ordine del reggente di Francia. Devo invitarvi a dedicare ogni energia esclusivamente all’elezione di un papa, e insieme avvertirvi che non uscirete di qui prima che questo papa sia

stato eletto. Ogni cardinale potrà tenere con sé soltanto un cappellano e due paggi o chierici a sua scelta. Tutti gli altri dovranno ritirarsi.Guasconi e Provenzali erano non meno indignati degli Italiani.— È un tradimento! — gridò il cardinale di Pélagrue.

— Il conte di Poitiers aveva giurato di non farci nemmeno entrare in clausura. Solo a questa condizione noi accettammo di venire a Lione.

— Il conte di Poitiers — replicò Giovanni di Forez — impegnava allora la parola del re di Francia. Ma oggi il re di Francia è morto e io ho avuto l’incarico di farvi conoscere la parola del reggente.Un’indignazione unanime accolse queste parole. Piovevano da ogni parte

invettive in italiano, in francese e in provenzale. Il cardinale Duèze si era rifugiato in un confessionale, con la mano sul cuore, come se la sua vecchiaia non potesse sopportare un simile affronto, e fingeva di protestare anche lui, con frasi appena sussurrate. Arnaldo d’Auch, il cardinale camerlengo, un prelato panciuto e sanguigno, si accostò al conte di Forez e proclamò con voce minacciosa:

— Messere, non è possibile eleggere un papa in queste condizioni. Voi violate la regola di Gregorio X, che obbliga il conclave a riunirsi nella città dove è morto il papa.— Voi c’eravate, Monsignori, due anni fa e ve ne siete allontanati senza aver eletto un pontefice, cosa questa altrettanto contraria alla regola. Ma se per caso desideraste tornare a Carpentras, noi potremmo accompagnarvi là sotto buona scorta, in carrozze chiuse.— Noi non possiamo deliberare se costretti a riunirci dalle minacce!— È per questo, Monsignore, che settecento soldati sono qui fuori per proteggervi, settecento uomini, forniti dalle autorità cittadine, a garantire la vostra sicurezza e il vostro isolamento… come è prescritto dalle regole. Messer della Voulte, che qui vedete e che è di Lione, è responsabile di questa difesa. Il reggente vi fa sapere che, se entro tre giorni non vi sarete messi d’accordo, mangerete soltanto una volta ogni ventiquattr’ore e, dopo nove giorni, sarete trattati a pane e acqua… come prescrive la regola di Gregorio. E se il digiuno non sarà sufficiente a illuminare le vostre menti, egli farà distruggere il tetto, lasciandovi in balìa delle intemperie.Bérenger Frédol senior prese la parola.— Messere, sottoporci a un simile trattamento significa macchiarsi di omicidio: esistono fra noi persone che non sono in grado di sopportarlo: per esempio monsignor Duèze, che sta male e avrebbe bisogno di cure.— Oh, certo — mormorò Duèze con voce fioca. — Non sarò certo capace di

sopportare tante privazioni!— Inutile protestare — intervenne Caetani. — Vedete bene che abbiamo a che fare con bestie putride e feroci; ma sappiate, messere, che noi, anziché eleggere un papa, scomunicheremo voi e il vostro spergiuro signore!— Se doveste tenere seduta di scomunica, monsignor Caetani — replicò impassibile il conte di Forez, — il reggente potrebbe comunicare al conclave i nomi di alcuni stregoni che sarebbero veramente degni di una tal punizione.— Non capisco — disse Caetani battendo in ritirata — non capisco cosa abbia a che vedere la stregoneria con tutto questo, se è del papa che noi dobbiamo occuparci.— Eh, Monsignore, ci siamo capiti! Fate dunque uscire le persone che non vi sono indispensabili: non abbiamo viveri sufficienti a nutrire tanta gente.I cardinali capirono che ogni resistenza sarebbe stata inutile e che quell’uomo vestito di ferro che trasmetteva loro con parole cosi decise gli ordini del conte di Poitiers, non si sarebbe piegato. Intanto alle spalle di Giovanni di Forez incominciavano a entrare uomini armati di picche che andavano a schierarsi in fondo alla chiesa.— Non potendo usare la forza, non ci rimane che giocare di astuzia — mormorò Caetani agli Italiani. — Facciamo finta di cedere, anche perché, per il momento, non abbiamo altra alternativa.Ognuno dei cardinali scelse nel suo seguito i tre servitori più fedeli, i

consiglieri più avveduti, gli uomini più abili nell’intrigo o i più pronti a dar loro aiuto materiale nelle dure condizioni in cui certamente si sarebbero presto trovati. Caetani tenne con sé frate Bost, Andrieu e Pietro, il sacerdote con il pollice bifido, cioè gli uomini che avevano partecipato alla «fattura» di Luigi X. Preferiva saperli rinchiusi con lui, che liberi di parlare per denaro o per tortura. I Colonna conservarono invece quattro paggi, che avevano pugni capaci di accoppare un bue. Canonici, chierici, portatorce e reggistrascichi incominciarono a uscire in fila indiana, fra due ali di armati. E a tutti, i rispettivi padroni avevano qualcosa da chiedere:

— Fate sapere a mio fratello il vescovo… Scrivete a mio nome al cugino di Got… Partite immediatamente per Roma…Anche Guccio Baglioni stava per uscire, ma Duèze allungò la sottile mano dal

confessionale dove giaceva apparentemente prostrato, e afferrò il giovane italiano per la cotta mormorandogli:

— Restate, ragazzo, restate qui con me. Sono certo che voi potrete aiutarmi.Duèze sapeva per esperienza che il potere finanziario non è fattore trascurabile

in un conclave, ed era per lui una fortunata combinazione poter tenere presso di sé un rappresentante dei banchieri lombardi.

Un’ora più tardi rimanevano nella chiesa dei Domenicani soltanto novantasei uomini, destinati a rimaner lì finché ventiquattro di loro non si fossero messi d’accordo per sceglierne uno. Prima di andarsene i soldati avevano portato dentro bracciate di paglia, gettate sul pavimento per servire da giaciglio ai più potenti prelati di questo mondo. E avevano anche portato bacili per toletta e grandi giare d’acqua. Intanto i muratori, sotto la stretta sorveglianza di Forez, avevano terminato di murare l’ultima uscita, lasciando solo un piccolo vano quadrato, una finestrella che avrebbe permesso il passaggio dei piatti ma non quello di un uomo. Intorno alla chiesa i soldati montavano la guardia, schierati a tre tese l’uno dall’altro, su due file, una delle quali appoggiata al muro con gli occhi rivolti verso la città, e l’altra rivolta verso la chiesa, come a guardarne le vetrate.

Verso mezzogiorno il conte di Poitiers si mise in viaggio per Parigi. Conduceva con sé il delfino del Viennese e il piccolo delfinetto, che viveva ormai alla sua corte per meglio familiarizzarsi con la fidanzatina appena cinquenne.

A quella stessa ora i cardinali ricevettero il primo pasto; ed essendo giorno di magro non ebbero carne.

VI • DA NEAUPHLE A SAN MARCELLO

Una mattina di luglio, Giovanni di Cressay entrò nella camera della sorella

ancor prima dell’alba. Egli teneva in mano una candela accesa; si era appena alzato e indossava il suo miglior abito da cavallo.

— Alzati, Maria — disse. — Partirai questa mattina. Pietro e io ti accompagneremo.La ragazza si levò a sedere sul letto.— Partire?… Ma come?… Devo partire proprio questa mattina?…La sua mente era ancora annebbiata dal sonno e i suoi grandi occhi azzurri

fissavano spauriti il fratello, senza capire. Istintivamente ella si rassettò sulla spalla i lunghi capelli di seta dai riflessi dorati.

Giovanni di Cressay contemplava con antipatia la sua bella sorella, come se considerasse un peccato quella bellezza.

— Raccogli la tua roba, non tornerai qui tanto presto.— Ma dove volete portarmi?— Lo vedrai.— Ma ieri… ieri non mi avete detto nulla… perché?— Avremmo dovuto darti il tempo di giocarci un altro tiro, secondo il tuo stile?… Su, sbrigati; dobbiamo metterci in viaggio prima che i servi possano vederci. Ci hai già coperti abbastanza di vergogna, senza che sia necessario fornir loro altri motivi di pettegolezzo.Maria non rispose. Da un mese i suoi familiari parlavano con lei soltanto su

questo tono. Ella dunque si alzò, un po’ appesantita da una gravidanza di cinque mesi, il cui peso, per quanto ancora leggero, non mancava mai di sorprenderla nel momento di lasciare il letto. Alla luce della candela lasciata da Giovanni, la ragazza si preparò, si lavò la faccia e il petto e si annodò i capelli. Ma si accorse che le tremavano le mani. Dove l’avrebbero portata? In quale convento? Si allacciò al collo il reliquiario che Guccio le aveva regalato dicendole che era un dono della

regina Clemenza.«Fino ad oggi — pensava — queste reliquie non mi hanno davvero protetta

molto. Forse non le ho sufficientemente pregate».Infine Maria raccolse una veste, qualche sottoveste, un soprabito, e dei panni

per lavarsi.— Mettiti anche il mantello col cappuccio — le ordinò Giovanni, rientrando nella sua camera.— Ma morirò di caldo! — disse Maria. — È un vestito da inverno!— Tua madre vuole che viaggi col viso coperto. Obbedisci e sbrigati!In cortile l’altro fratello, Pietro, stava sellando i cavalli.Maria sapeva da tempo che questo giorno sarebbe arrivato; in un certo senso,

per quanta angoscia ella potesse sentire, non ne soffriva molto: era anzi giunta ad augurarsi la partenza. Il più triste convento sarebbe stato per lei più sopportabile che non i rimproveri e le lamentele che i suoi familiari quotidianamente le ripetevano. Se non altro sarebbe rimasta sola con la propria sventura e non avrebbe più dovuto sentire le furibonde invettive di sua madre, costretta a letto da un’emorragia cerebrale subito dopo la scoperta dello scandalo, e pronta a maledire la figlia tutte le volte che costei le portava una tisana. Dopo di che bisognava mandar subito a chiamare il barbiere-chirurgo di Neauphle perché cavasse alla corpulenta castellana una pinta di sangue annerito. In meno di due settimane, donna Eliabel era già stata salassata sei volte, ma queste cure non avevano minimamente migliorato le sue condizioni di salute.

I due fratelli, e soprattutto Giovanni, trattavano Maria come una criminale. Oh, certo, mille volte meglio il chiostro! Ma, costretta a vivere in clausura, avrebbe mai potuto aver notizie di Guccio? Era questa la sua ossessione, la cosa che la terrorizzava di più nel suo incerto avvenire. I suoi fratelli le avevano detto che Guccio si era rifugiato all’estero.«Non vogliono confessarmelo — pensava la ragazza — ma lo hanno fatto

chiudere in prigione. Non è possibile, non è assolutamente possibile che egli mi abbia abbandonata! E può anche darsi che egli sia tornato a Neauphle per liberarmi… Per questo, hanno tanta fretta: vogliono portar via me e, dopo, uccidere lui. Oh, avrei dovuto accettare di fuggire con lui! Non ho voluto ascoltarlo, per non fare del male a mia madre e ai miei fratelli e, sperando di fare del bene, sono soltanto riuscita a peggiorare ancor più la situazione».

La sua fantasia le faceva prevedere le più complicate catastrofi. In certi momenti, si augurava perfino che Guccio fosse davvero fuggito, abbandonandola al suo triste destino. Non avendo nessuno cui chiedere consiglio o almeno pietà,

ella aveva come unica compagnia il figlio che stava per nascerle. Ma evidentemente quella esistenza non poteva per ora esserle di grande aiuto, se non per il coraggio che le ispirava.

Prima di partire Maria di Cressay domandò se avrebbe potuto dire addio alla madre. Pietro salì nella camera di donna Eliabel, ma ne uscì accompagnato dagli strilli della vedova, alla quale i salassi non avevano evidentemente tolto la potenza vocale. E Maria capì l’inutilità della sua richiesta. Pietro tornò a pian terreno con aria triste e allargando le braccia in un gesto d’impotenza.

— Mi ha detto che non ha più figlie — disse.E ancora una volta Maria pensò: «Avrei fatto meglio a fuggire con Guccio. È

stata tutta colpa mia; avrei dovuto seguirlo».I due fratelli balzarono in sella e Giovanni di Cressay si prese in groppa la sorella, poiché il suo cavallo era il migliore, o meglio il meno peggiore, dei due. Pietro montava invece quel puledro bolso, che faceva rumori di raspa con le froge, sul quale un mese prima i due fratelli avevano fatto un ingresso clamoroso nella capitale.Maria diede un ultimo sguardo al maniero che non aveva mai lasciato da

quando era nata e che, nella penombra di un’alba ancora incerta, era già avvolto nel confuso chiaroscuro del ricordo. Tutti i momenti della sua vita, da quando ella aveva aperto gli occhi, si erano svolti fra quelle mura e in quel paesaggio; i suoi giochi di bambina, la sorprendente scoperta di se stessi che tutti per proprio conto fanno giorno dopo giorno… l’infinita varietà delle erbe nei campi, la strana forma dei fiori e la meravigliosa polvere che essi portano con sé, la delicata peluria sul ventre delle anitre, i riflessi del sole sull’ala delle libellule…

Ella abbandonava qui le ore passate a vedersi crescere e a sentirsi sognare, tutti i diversi aspetti del suo volto che ella aveva tante volte contemplato nelle acque trasparenti della Mauldre, e quella grande gioia di vivere che aveva così spesso sentito quando, sdraiata in un prato, aveva cercato presagi nella forma delle nubi e aveva immaginato Dio presente in fondo ai cieli… Ella passò davanti alla cappella dove riposava, sotto una lastra, il corpo di suo padre e dove un monaco italiano l’aveva segretamente unita in matrimonio con Guccio.

— Abbassa il cappuccio — le ordinò Giovanni.Poi, oltrepassato il fiume, spronò il cavallo ad accelerare l’andatura e subito

quello di Pietro incominciò ad ansimare.— Giovanni, non andiamo un po’ troppo in fretta? — domandò Pietro, indicando Maria con un cenno del capo.— Bah, il seme cattivo è sempre quello piantato più solidamente — replicò

l’altro, come se sperasse in un incidente.Ma le sue aspettative andarono deluse. Maria era una ragazza robusta e fatta

apposta per diventare madre. Ella percorse le dieci leghe che separano Neauphle da Parigi senza dar segno del più piccolo malessere. Si sentiva le reni indolenzite e il corpo madido di sudore, ma non si lamentava. Di Parigi, da sotto il cappuccio, non vide che il lastricato delle strade, la parte inferiore delle case e le spalle delle persone. Quante gambe! Quante scarpe! Avrebbe voluto scoprire il viso, ma non osava. Ciò che più la sorprendeva era il rumore, il sordo ronzio della città, le voci dei banditori, dei venditori di merci, e i rumori degli artigiani. A tratti, la folla era talmente fitta che i cavalli faticavano a farsi strada, e i passanti urtavano le gambe della ragazza. Finalmente il piccolo convoglio si fermò. I due fratelli fecero scendere Maria, stanchissima e impolverata, e le permisero di togliersi il cappuccio.

— Dove siamo? — domandò costei, contemplando sorpresa il cortile di quella bella casa.— A casa dello zio del tuo Lombardo — replicò Giovanni di Cressay.Pochi secondi più tardi, con un occhio chiuso e l’altro aperto, messer Tolomei

osservava i tre figli del defunto signore di Cressay seduti davanti a lui: Giovanni il barbuto, Pietro il glabro e la loro sorella, un po’ in disparte e a capo chino.

— Vedete, messer Tolomei — diceva Giovanni. — Voi ci avete fatto una promessa…— Certo, certo — rispondeva Tolomei; — e la manterrò, amici miei, state tranquilli.— Ma è necessario che la manteniate presto. Capite, dopo il chiasso che si è fatto su questo scandalo, nostra sorella non può più rimanere a casa nostra. E, capite, noi non osiamo più mostrarci nelle case dei dintorni; perfino i servi fanno dei pettegolezzi al nostro passaggio. E, se è così adesso, figuriamoci cosa sarà quando il peccato di nostra sorella sarà ancor più evidente.«Ma, ragazzi miei — avrebbe voluto rispondere loro Tolomei: — siete stati voi

a dare esca a tanti pettegolezzi. Chi vi obbligava a scagliarvi come dei matti contro Guccio, mettendo sossopra l’intero villaggio e annunciando a tutti la vostra disgrazia più clamorosamente che con un pubblico banditore?»

— E poi nostra madre non si è ancora rimessa da questo brutto colpo; ha maledetto sua figlia e il solo vederla provoca in lei violenti accessi di collera, tanto che noi temiamo per la sua vita… Capite…

«Questo balordo, come tutti quelli che insistono perché gli altri capiscano le loro parole, non deve avere un cervello molto sviluppato. Quando avrà la lingua

asciutta, la finirà!… Ciò che invece capisco molto bene — pensava il banchiere — è come il mio Guccio sia impazzito per questa bella ragazza. Finora gli avevo sempre dato torto, ma, da quando lei è entrata, ho cambiato parere; e se l’età mi permettesse ancora reazioni di questo genere, credo che io mi sarei comportato ancor più follemente di lui. Che begli occhi, che bei capelli, che bella pelle… un vero frutto primaverile! E con quanto coraggio sembra sopportare la sua sventura! In fondo, gli altri due strillano come se fossero stati loro a essere violentati! Ma è soprattutto lei, povera figliola, che deve soffrire! Deve essere una buona ragazza. Ed è un vero peccato che ella sia nata in casa di questi due tangheri! Come mi sarebbe piaciuto che Guccio avesse potuto sposarla alla luce del sole, che ella vivesse qui e che la mia vecchiaia potesse rallegrarsi alla sua vista!»

Continuava a guardarla. Ogni tanto Maria alzava gli occhi su di lui, poi li riabbassava e li rialzava nuovamente, preoccupata per ciò che quell’anziano signore poteva pensare di lei e per l’insistenza del suo sguardo.

— Capite, messere, vostro nipote…— Oh, quello, io l’ho rinnegato, l’ho diseredato! Se non fosse scappato in Italia, credo che lo avrei ucciso con le mie mani. Se almeno potessi sapere dove si nasconde… — disse Tolomei, coprendosi la fronte con aria affranta.Poi, tenendo sempre le mani accostate al viso, le sollevò come a formare una

specie di visiera e, facendo in modo che soltanto la ragazza potesse vederlo, alzò per due volte la grossa palpebra che egli abitualmente teneva chiusa. Maria capì allora di avere in lui un alleato e si lasciò sfuggire un profondo sospiro di sollievo. Guccio era vivo, Guccio era al sicuro, e Tolomei sapeva dove lui si trovava. Che le importava ormai del convento?

Ella non ascoltava più le parole di suo fratello Giovanni e, del resto, avrebbe anche potuto recitarle lei stessa, a memoria. E perfino Pietro di Cressay taceva, sentendosi vagamente stanco. Egli si rimproverava, senza però avere il coraggio di ammetterlo apertamente, di aver ceduto all’ira e lasciava al fratello maggiore la convinzione di aver agito bene; lasciava cioè che fosse lui a parlare dell’onore della famiglia e delle leggi della cavalleria per giustificare l’enorme sciocchezza che essi avevano commesso.

I fratelli Cressay venivano da un maniero povero e crollante, che puzzava di letame d’estate e d’inverno, e si trovavano ora nella principesca abitazione di Tolomei: vedevano broccati e vasi d’argento, sentivano sotto le dita l’intaglio raffinato dei braccioli delle sedie, respiravano insomma quell’aria di ricchezza e di abbondanza diffusa in tutta la casa; dovevano così ammettere che, tutto sommato, la sorella non si sarebbe trovata male se le avessero permesso di

seguire le sue naturali inclinazioni.Il minore ne sentiva anzi un sincero rimorso. «Almeno uno di noi — pensava — sarebbe stato in buone condizioni economiche e noi tutti ne avremmo potuto approfittare».Il barbuto era invece un individuo testardo e la vista di tante comodità non

faceva che rinfocolare i suoi rancori e suscitare in lui bassi impulsi di gelosia. «Perché il peccato dovrebbe darle diritto a tante ricchezze quando noi dovremo sempre vivere poveramente?»

Nemmeno Maria era insensibile al lusso che la circondava e l’affascinava, ravvivando ancor più i suoi rimpianti. «Se almeno Guccio fosse stato un po’ più nobile — pensava — o se non lo fossimo stati noi! Che importanza ha la cavalleria? È davvero una buona cosa se può farci tanto soffrire? E la ricchezza non è forse una specie di nobiltà? Che differenza c’è tra il far lavorare i servi e il far lavorare il denaro?»

— State tranquilli, amici miei — disse Tolomei, — e fidatevi di me. Spetta agli zii riparare le colpe commesse dai cattivi nipoti. Grazie alle mie alte amicizie, ho ottenuto per vostra sorella l’autorizzazione a entrare nel convento reale di San Marcello. Siete soddisfatti?I due fratelli Cressay si guardarono e annuirono in segno d’approvazione. Il convento delle Clarisse del quartiere di San Marcello era uno dei più importanti luoghi religiosi femminili. E vi entravano quasi esclusivamente ragazze nobili. Spesso vi si nascondevano, coperte da un velo, le bastarde della famiglia regnante. La stizza di Giovanni di Cressay si esaurì improvvisamente davanti alla vanità di casta. E, per dimostrare che i Cressay erano perfettamente all’altezza di un così grande onore, egli si affrettò ad aggiungere:— Molto bene, benissimo; del resto la badessa è, se non sbaglio, nostra parente; mia madre ce ne ha spesso parlato additandocela ad esempio.— E allora va tutto bene — riprese Tolomei. — Fra poco accompagnerò vostra sorella da messer Ugo di Bouville, l’ex-gran ciambellano…I due fratelli si inchinarono leggermente in segno di rispetto.— … dal quale — proseguì Tolomei — ho ottenuto questo favore. Così questa sera stessa, ve lo prometto, ella entrerà in convento. Potete dunque andarvene tranquilli; penserò io a farvi avere sue notizie.I due fratelli non chiedevano di meglio: si erano sbarazzati della sorella e pensavano di aver fatto abbastanza affidandola alle cure di altri. Il silenzio del convento avrebbe ormai avvolto questo dramma, di cui a Cressay si sarebbe d’ora innanzi parlato a bassa voce, o completamente taciuto.

— Dio ti protegga — disse Giovanni alla sorella nel salutarla — e ti ispiri un sincero pentimento.Egli si accomiatò da Tolomei con assai maggior fervore. Mancava poco che

rimproverasse Maria per le seccature causate a un uomo così simpatico.— Dio ti protegga, Maria — disse Pietro commosso.E certo avrebbe abbracciato la sorella, se un’occhiata severa di Giovanni non

glielo avesse impedito. Così Maria si ritrovò sola con quel grosso banchiere dal viso scuro e dalla bocca carnosa, che, per quanto strana potesse sembrarle la cosa, era pur sempre suo zio.

I due cavalli uscirono dal cortile e per un po’ si sentì sempre più fioco l’ansimare del puledro bolso, l’ultimo rumore di Cressay che si stava allontanando da Maria.— E ora, figliola — disse Tolomei, — andiamo a tavola. Fin quando si mangia, non si piange.E aiutò la ragazza a togliersi il mantello che la faceva letteralmente soffocare:

Maria lo guardò sorpresa e riconoscente: era questo il primo gesto gentile, o semplicemente cortese, a lei rivolto da parecchie settimane.

«Toh, ecco della stoffa che viene dai miei magazzini», pensò Tolomei vedendo l’abito che ella indossava.

Il Lombardo era non soltanto un banchiere, ma un grande commerciante di spezie orientali; gli intingoli in cui immergeva elegantemente le dita e le carni che staccava delicatamente dall’osso erano impregnati di profumi esotici e stuzzicanti. Ma Maria non aveva appetito ed assaggiò appena i piatti del primo servizio.— È a Lione — le disse allora Tolomei, scoprendo la palpebra sinistra. — Non può muoversi, per il momento, ma pensa a voi e vi conferma i suoi sentimenti.— Non sarà in prigione? — domandò Maria.— No, non precisamente. È rinchiuso, ma non per le ragioni che voi pensate, e divide la sua cattività con personaggi talmente importanti che non abbiamo nulla da temere per la sua salvezza. Tutto mi fa credere che egli uscirà dalla chiesa in cui si trova, più importante di quando vi è entrato.— La chiesa? — domandò Maria.— Non posso dirvi di più.Maria non insistette. Guccio chiuso in una chiesa con persone talmente

importanti che non si poteva nemmeno farne il nome, era un mistero troppo grosso per lei. Ma c’erano state nella vita di Guccio altre circostanze misteriose che avevano contribuito all’ammirazione che ella sentiva per lui. La prima volta in

cui l’aveva visto, egli veniva d’Inghilterra, dove aveva reso un servigio alla regina Isabella. Era poi stato assente altre due volte e si era recato a Napoli al servizio della regina Clemenza, che gli aveva regalato quel reliquiario di San Giovanni Battista che lei, Maria, teneva sempre al collo. «Chiamerò nostro figlio Giovanni o Giovanna… e tutti penseranno che lo faccia per mio fratello maggiore».

Così, se Guccio era rinchiuso in qualche posto, la causa doveva esserne ancora una regina. Maria era stupita che fra tante potenti principesse, egli preferisse ancora lei, povera ragazza di campagna. Ma Guccio viveva, Guccio l’amava; bastava questo perché ella ritrovasse la gioia di vivere e mangiasse con l’appetito di una ragazza di diciott’anni in viaggio dall’alba.

Tolomei, perfettamente a suo agio davanti ai più nobili baroni, ai pari del regno, ai legisti e agli arcivescovi, aveva da un pezzo perduto l’abitudine di parlare alle donne, e soprattutto a una donna così giovane. Così chiacchieravano poco. Il vecchio banchiere contemplava affascinato quella nipote che gli cadeva dal cielo e che gli piaceva sempre più man mano che la conosceva meglio. «È davvero un peccato — pensava — metterla in un convento! Se Guccio non si fosse fatto rinchiudere nel conclave, manderei volentieri questa bella ragazza a Lione. Ma così, che potrebbe fare, sola e senza appoggi? Tanto più che, come stanno andando le cose, i cardinali non sembrano aver molta fretta di decidere… Potrei anche tenerla qui con me e aspettare il ritorno di mio nipote. Mi piacerebbe davvero! Ma no, non posso. Ho chiesto a Bouville di agire in suo favore e farei una brutta figura se non tenessi conto della sua offerta, quando lui sì è dato tanta pena per favorirmi. Tanto più che la badessa è cugina dei Cressay e a quei balordi potrebbe venire in mente di chiederle notizie della sorella… Su, cerchiamo di non perdere la testa anche noi. La ragazza andrà in convento…»

— … ma non per tutta la vita — continuò Tolomei a voce alta. — È assolutamente escluso che voi dobbiate prendere il velo. Perciò accettate di buon animo questi pochi mesi di reclusione; vi prometto che, quando vostro figlio sarà nato, sistemerò le cose in modo che voi possiate vivere felice con mio nipote.Maria gli prese la mano e l’accostò alle labbra, con un certo impaccio del

banchiere: egli non era abituato ad atti di bontà e il suo mestiere ben raramente favoriva gesti di gratitudine.

— Devo ora affidarvi alle cure del conte di Bouville — disse Tolomei.La distanza fra la via dei Lombardi e il palazzo della Cité non era molta e

Maria la percorse accanto al banchiere, passando di meraviglia in stupore. Ella non aveva mai visto una grande città: il via-vai della gente sotto il sole di luglio, la

bellezza delle case, l’abbondanza delle botteghe, gli splendori delle vetrine degli orefici, tutto lo spettacolo aveva per lei sapore di fiaba. «Come sarebbe bello — pensava — vivere qui, che uomo simpatico è lo zio di Guccio, e come sono contenta che egli voglia aiutarci! Oh, sì, saprò certo sopportare di buon animo il tempo che trascorrerò in convento!»

Intanto avevano superato il Pont-au-Change ed erano entrati nella galleria dei Merciai, zeppa di banchi.

Tolomei, per la gioia di sentirsi ancora ringraziare e di vedere i bei denti di Maria illuminati dal sorriso, non poté fare a meno di comperarle una borsa da cintura ricamata di perline.

— È da parte di Guccio. È pur necessario che io lo sostituisca in qualche cosa — le disse, mentre pensava che, se si fosse rivolto a un grossista, avrebbe potuto avere lo stesso oggetto a metà prezzo.

Salirono lo scalone del palazzo. Così, per aver peccato con un giovane Lombardo, Maria di Cressay faceva il suo ingresso nella dimora del re, privilegio questo cui né i trecento anni di cavalleria, né i servigi resi alla monarchia sul campo di battaglia, permettevano ai suoi familiari di pretendere.

Regnava nel palazzo un anarchico disordine e una confusa agitazione, caratteristiche evidenti e costanti di un luogo abitato dal conte di Valois. Dopo aver percorso gallerie, corridoi e saloni, Tolomei e Maria di Cressay, cui pareva di diventare sempre più piccola, giunsero in un settore più appartato del palazzo, precisamente dietro la Santa Cappella. Le finestre di quella stanza davano sulla Senna e sull’isolotto degli Ebrei. Una guardia di gentiluomini, armati di corazza, sbarrò loro il passaggio: nessuno poteva entrare negli appartamenti della regina senza il permesso dei curatori. Così, mentre qualcuno andava a chiamare il conte di Bouville, Tolomei e Maria restarono in attesa accanto a una finestra.

— Vedete — disse il banchiere, mostrando l’isola alla ragazza — è là che hanno bruciato i Templari.Il grosso Bouville arrivò quasi subito, sempre vestito come se dovesse andare in

guerra, col pancione sobbalzante sotto la veste d’acciaio e col passo deciso di chi si prepara a sferrare un attacco. Egli ordinò alle guardie di lasciar passare i due visitatori, e invitò costoro a seguirlo, prima in una sala dove il sire di Joinville sonnecchiava seduto su una poltrona, mentre accanto a lui due scudieri giocavano silenziosamente a scacchi, poi nell’abitazione del conte di Bouville.

— La signora Clemenza si è ripresa? — domandò Tolomei a Bouville.— Piange meno — replicò il curatore — o meglio, mostra un po’ meno le sue lacrime. Si direbbe che le scorrano direttamente in gola. Ma è ancora sconvolta.

E il caldo non giova certo alle sue condizioni: spesso soffre di svenimenti e di capogiri.«E così la regina di Francia è qui accanto — pensava Maria con grande

curiosità. — Chissà se mi presenteranno a lei? E se oserò parlarle di Guccio?»Ella assistette poi a una lunga conversazione, di cui peraltro comprese ben

poco, fra il banchiere e l’ex-gran ciambellano. Ogni tanto essi abbassavano la voce o si allontanavano di qualche passo, e Maria si guardava bene dall’ascoltare le loro parole.

Per l’indomani era previsto l’arrivo da Lione del conte di Poitiers. Bouville, che si era tanto augurato il suo ritorno, ora non sapeva più se questa notizia doveva essere considerata buona o cattiva. Infatti monsignor di Valois aveva deciso di muovere incontro a Filippo insieme al conte della Marche, e il grosso dignitario mostrò a Tolomei i preparativi per la partenza che si stavano facendo in cortile. Dal canto suo il duca di Borgogna, trasferitosi a Parigi, aveva affidato ad alcuni gentiluomini del suo seguito la custodia della nipote, la piccola Giovanna di Navarra. Le casse del Tesoro erano praticamente vuote, e la città covava una minacciosa rivolta. Questa rivalità fra i reggenti preannunciava le più terribili catastrofi.

Secondo Bouville la soluzione migliore sarebbe stata quella di nominare reggente la regina Clemenza e di metterle a fianco un consiglio della corona composto da Valois, Poitiers e dal duca di Borgogna.

Per quanto gli avvenimenti politici in corso attirassero parecchio la sua attenzione, Tolomei tentò più volte di portare Bouville sull’argomento che gli stava maggiormente a cuore.

— Certo, certo, provvederemo noi a questa damigella — rispondeva Bouville; ma subito riprendeva a parlare delle cose che lo preoccupavano.Tolomei aveva notizie da Lione? Il ciambellano aveva preso familiarmente il

banchiere sottobraccio e gli parlava con molta confidenza. Come? Guccio era chiuso nel conclave con Duèze? Ah, che giovanotto in gamba! E Tolomei riteneva di poter comunicare con il nipote? Se mai ne avesse avuto notizie o se fosse stato in grado di fargliene pervenire, doveva farglielo sapere: Guccio poteva essere un preziosissimo intermediario. In quanto a Maria…

— Ma sì, ma sì — disse il curatore. — Mia moglie, che è donna di gran senno e di notevole senso pratico ha già provveduto per lei. Potete stare tranquillo.Mandarono a chiamare la signora Bouville, una donnina magra, autoritaria, col

viso solcato da lunghe rughe verticali e con le mani sottili in continuo movimento. Maria, che finora, fra il grosso Bouville e il grosso Tolomei, si era sentita al

sicuro, provò subito una sensazione di malessere e di angoscia.— Ah, siete dunque voi la persona di cui dovremmo nascondere il peccato — disse la signora Bouville, squadrando la ragazza senza alcuna simpatia. — Vi manderemo al convento delle Clarisse. La badessa non ne era molto entusiasta, soprattutto quando le ho fatto il vostro nome. Sembra infatti che ella sia non so come imparentata con la vostra famiglia e che il vostro comportamento non incontri la sua approvazione. Ma il prestigio di cui gode messer Ugo mio marito ha avuto la meglio. Ho insistito un po’ e mi ha finalmente promesso di ospitarvi. Vi accompagnerò là prima di sera.La signora Bouville parlava molto in fretta, e non era facile interromperla.

Quando finalmente si fermò per prendere fiato, Maria le rispose con molta deferenza, ma insieme con profonda dignità.

— Signora — disse — io non ho commesso peccato: sono stata infatti unita in matrimonio davanti a Dio.— Su, su — replicò l’altra — fate in modo che noi non dobbiamo rimpiangere quello che facciamo per voi. E, anziché far tanto l’impertinente, cercate di mostrare gratitudine a quelli che vogliono aiutarvi.Toccò dunque a Tolomei ringraziare anche a nome di Maria, la quale quando

vide che il banchiere stava per andarsene, si sentì talmente sola, triste e disperata da gettarsi nelle sue braccia, come se quel panciuto signore fosse stato suo padre.

— Fatemi avere notizie di Guccio — gli mormorò all’orecchio, — e fate sapere a lui che io lo amo e lo attendo.Dopo di che Tolomei se ne andò e anche i Bouville scomparvero. Maria

dovette restare tutto il pomeriggio in quella anticamera, senza osare allontanarsi e senza concedersi altra distrazione che l’assistere dal vano di una finestra aperta alla partenza di monsignor di Valois e della sua scorta. Per qualche istante lo spettacolo le fece scordare tutte le sue sventure. Ella non aveva mai visto cavalli così belli, finimenti così preziosi e abiti così eleganti. Ripensava ai contadini di Cressay vestiti di cenci e con le gambe coperte da fasce di tela e si diceva che era davvero strano che esseri provvisti tutti di una testa e di due braccia e tutti creati da Dio a sua immagine e somiglianza, potessero sembrare così diversi, a seconda di ciò che indossavano.

Alcuni giovani scudieri, vedendo quella ragazza straordinariamente bella che li guardava, le rivolgevano sorrisi di simpatia e le mandavano baci. Poi si raccolsero intorno a un personaggio tutto ricamato d’argento che affettava modi autorevoli e si dava arie da sovrano. La comitiva incominciò a muoversi, e l’afa pomeridiana tornò a pesare immobile sui cortili e sui giardini deserti.

Verso il tramonto la signora Bouville venne a prendere Maria. Accompagnate da qualche valletto e cavalcando mule sellate alla tavoletta16, le due donne attraversarono Parigi. Qua e là si vedevano assembramenti davanti alle taverne e si sentivano frammenti di rumorose discussioni. Era scoppiata una rissa fra i partigiani del conte di Valois e gli uomini del duca di Borgogna, arrivati in città da poco e perennemente ubriachi. Le ronde cercavano di ristabilire l’ordine distribuendo vigorose mazzate.

— La città è nervosa — disse la signora Bouville — e non mi stupirei se scoppiasse una rivolta.Le due donne uscirono da Parigi passando per il monte di Santa Ginevra e per

la porta di San Marcello. Sulla città stava scendendo la sera.— Quando ero giovane io — disse la signora Bouville — in questa zona c’erano al massimo venti case. Ma oggi la gente non ha più spazio sufficiente in città e continua a costruirsi nuove case nei campi.Il convento delle Clarisse era circondato da un alto muro nella cui cinta erano

compresi gli edifici, gli orti e i giardini. Nel muro c’era una porticina e, accanto ad essa, una ruota scavata nello spessore della pietra. Una donna, che camminava rasente il muro con la testa coperta da un cappuccio, si accostò alla ruota e vi abbandonò rapidamente un pacchetto tratto da sotto il mantello. Si udivano gemiti provenire da quell’involto. La donna fece girare la bussola di legno, tirò il campanello e si allontanò rapidamente.

— Che ha fatto? — domandò Maria.— Ha lasciato qui un figlio senza padre — disse la signora Bouville, guardandola con aria severa. — È così che vengono raccolti. Su, avanti.Maria spronò la mula. Pensava che anche lei avrebbe potuto un giorno essere

costretta ad abbandonare suo figlio in una ruota e che, tutto sommato, non doveva lamentarsi della propria sorte.

— Vi ringrazio, signora — mormorò con le lacrime agli occhi — per tutte le vostre bontà.— Oh, finalmente una parola gentile! — osservò la signora Bouville.Qualche secondo dopo la porta si aprì e Maria scomparve nella quiete del

convento.

VII • LE PORTE DEL PALAZZO

Quella stessa sera il conte di Poitiers si trovava a Fontainebleau, dove

intendeva trascorrere la notte: era l’ultima sosta prima di raggiungere Parigi. Stava finendo di cenare in compagnia del delfino del Viennese, del conte di Savoia e degli altri membri della sua numerosa scorta, quando gli annunciarono l’arrivo dello zio, conte di Valois, del fratello, conte della Marche, e del cugino Saint Pol.

— Fateli entrare — disse Filippo di Poitiers; — fateli entrare subito.Ma non andò incontro allo zio. E, quando costui apparve col solito passo

marziale, testa eretta e abiti impolverati, Filippo si limitò ad alzarsi e rimase in attesa, senza accennare al più piccolo movimento verso di lui. Valois, leggermente sconcertato, si fermò per qualche secondo sulla soglia a guardarsi in giro e, siccome Filippo non dava segno di volersi muovere, fu costretto a venire avanti lui. Nessuno dei presenti aveva aperto bocca. Poi il conte di Poitiers, quando lo zio gli fu abbastanza vicino, lo prese per le spalle e lo baciò sulle guance, gesto questo che poteva anche sembrare l’omaggio di un devoto nipote, ma che, venendo da una persona che non si era mossa dalla propria posizione, pareva piuttosto un atto da re.

Questo comportamento del fratello irritò moltissimo Carlo della Marche, che pensò: «Abbiamo dunque fatto un viaggio così lungo per ricevere una simile accoglienza? In fondo, io ho gli stessi diritti di Filippo: perché dunque si permette di trattarci con tanto sussiego?»

Un’espressione di corruccio e di invidia deformava un poco quel bel volto dai lineamenti regolari ma del tutto privo di intelligenza.

Filippo tese anche a lui le braccia e La Marche non poté fare a meno di scambiare un rapido abbraccio col fratello. Tuttavia, per darsi importanza e tentare anche lui di mostrare una certa autorità, aggiunse subito, indicando Valois:

— Filippo, voi vedete qui nostro zio, il più anziano della famiglia. Noi siamo lieti che voi siate d’accordo con lui e che lasciate a lui il governo del regno.

Questo regno correrebbe infatti un pericolo troppo grave se fosse sottomesso all’attesa di un figlio non ancora nato, e quindi non in grado di governarlo, e per di più straniero alla Francia per parte di madre.Era una frase ambigua e inabile. Essa poteva indicare che il conte della Marche

si augurava di vedere suo zio reggente fino alla nascita del figlio postumo di Luigi X, o fino alla maggiore età di costui, se maschio; ma poteva anche scoprire maggiori ambizioni da parte di Valois. Evidentemente La Marche ripeteva malamente parole suggeritegli dallo zio. E qualche frase di questa dichiarazione fece inarcare le ciglia a Filippo. Valois cercava dunque di impadronirsi della corona.

— Nostro cugino di Saint-Pol — aggiunse Carlo della Marche — è venuto con noi per farvi sapere che questo è anche il parere dei baroni.Filippo lo fissò con un certo disprezzo.— Vi sono grato, fratello, del vostro consiglio — replicò freddamente, — e del fatto di aver compiuto un viaggio così lungo per venirmelo a comunicare. Penso perciò che voi vi sentiate stanco come lo sono io e che non sia bene prendere una decisione tanto importante in queste condizioni. Propongo di andare a dormire e di discuterne domani a mente fresca, in un consiglio ristretto. Buona notte, messeri… Raul, Anseau, Adamo, accompagnatemi, per favore.Egli lasciò la camera senza nemmeno aver dato da mangiare ai suoi visitatori e

senza aver provveduto a sistemarli per la notte. Quindi, seguito da Adamo Héron, da Raul di Presles e da Anseau di Joinville, andò nella camera reale. Il letto sul quale nessuno aveva più dormito dopo la morte del Re di Ferro, era già pronto. Filippo ci teneva molto a passar la notte in quella stanza, e soprattutto ci teneva a che nessun altro l’occupasse.

Adamo Héron era pronto a spogliarlo.— Credo che questa notte resterò vestito — disse Filippo di Poitiers. — Vi prego, Adamo, di mandare un baccelliere a Parigi per comunicare a Gaucher di Châtillon che io sarò domattina alla Porta d’inferno. E fate anche venire qui il barbiere in modo che io possa entrare nella capitale col viso rasato… Provvedete infine a tener pronti venti cavalli per la mezzanotte, ma incominciate a occuparvene soltanto quando mio zio sarà andato a letto… Voi, invece, Anseau — aggiunse rivolgendosi al maturo figlio del siniscalco di Joinville — dovrete avvertire il conte di Savoia e il delfino, così che non provino sorpresa e non pensino che io non mi fidi di loro. E dovrete fermarvi qui fino al mattino, così, quando il conte di Valois si sarà accorto della mia partenza, potrete

cercare di ritardare i suoi movimenti. Bisogna assolutamente che egli perda molto tempo in viaggio.Rimasto solo con Raul di Presles, Filippo si immerse in silenziose meditazioni,

che il legista si guardò bene dall’interrompere.— Raul — disse finalmente Poitiers, — voi avete lavorato giorno dopo giorno accanto a mio padre e lo avete conosciuto meglio di quanto abbia potuto fare io. In un caso come questo secondo voi, come si sarebbe comportato?— Avrebbe agito come voi, Monsignore, ve lo garantisco, e non lo dico per adularvi ma perché ne sono fermamente convinto. Ho voluto troppo bene al nostro sovrano Filippo e ho sopportato troppe angherie da quando egli è morto! E oggi non sarei al vostro servizio se voi non mi ricordaste da vicino la sua figura.— Purtroppo, Raul, io sono ben poco, rispetto a lui. Egli poteva seguire un falco in volo senza mai perderlo di vista, e io sono miope; piegava senza fatica un ferro di cavallo con le mani, ma non mi ha trasmesso il suo vigore fisico né quei lineamenti che facevano capire a tutti che era lui il re.E, mentre parlava, continuava a guardare il letto.A Lione egli si sentiva sicuramente reggente, ma man mano che si avvicinava

alla capitale, questa certezza, senza che egli lo dimostrasse troppo apertamente, gli veniva meno. E Raul di Presles, come per rispondere a domande non profferite, aggiunse:

— Non esistono precedenti alla situazione in cui noi ci troviamo, Monsignore. E sono molti giorni che ne discutiamo. Nelle condizioni attuali del regno, il potere spetterà a chi avrà la forza di prenderselo. Se ci riuscirete voi, la Francia non avrà motivo di lamentarsene.Poco dopo egli se ne andò e Filippo si sdraiò sul letto, fissando la piccola

lampada che occhieggiava fra le cortine. Il conte di Poitiers non si sentiva né impacciato né a disagio su quel letto il cui più recente occupante era stato un cadavere. Anzi ne attingeva forza. Aveva l’impressione di rivestirsi della forma paterna, di prendere il suo posto e di rioccuparne il dimensioni terrene. «Padre, tornate in me», egli pregava — e rimaneva immobile con le braccia incrociate sul petto, a offrire il proprio corpo alla reincarnazione di un’anima da venti mesi lontana dal mondo.

Udì dei passi nel corridoio, delle voci; il suo ciambellano stava rispondendo a qualcuno, certo un incaricato del conte di Valois, che il conte di Poitiers stava riposando. Intanto il silenzio aveva completamente avvolto il castello. Poco più tardi arrivò il barbiere con una bacinella, i rasoi e dei panni caldi. Mentre lo

radevano, Filippo di Poitiers si ricordò che in quella stessa camera, presente tutta la corte, suo padre morente aveva dato a Luigi un consiglio di cui il Testardo si era ben guardato dal tener conto: «Cercate di considerare, Luigi, cosa significhi essere il re di Francia. E di conoscere al più presto le condizioni del vostro regno».

Verso mezzanotte, Adamo Héron venne a comunicargli che i cavalli erano pronti. E il conte di Poitiers usci da quella stanza con la sensazione che gli ultimi venti mesi non fossero mai esistiti e che lui avesse preso il potere qual era alla morte di suo padre, come raccogliendone direttamente la successione.

La luna illuminava la strada. La stellata notte di luglio era simile al mantello della Santa Vergine. La foresta odorava di muschio, di terra e di felci, e viveva dei fremiti nascosti degli animali. Filippo di Poitiers era in sella a un ottimo cavallo, il cui passo possente gli era molto gradito. L’aria fresca gli sferzava le guance, rese particolarmente sensibili dall’opera del barbiere. «Sarebbe un peccato — pensava — se un paese così bello dovesse rimanere in mani così indegne».

La piccola comitiva balzò fuori dalla foresta, attraversò al galoppo Ponthierry e si fermò all’alba nei pressi d’Essonnes. per far riposare i cavalli e consumare uno spuntino. Filippo divorò questo pasto seduto su un paracarro. Sembrava felice: aveva solo ventitré anni e stava compiendo una impresa che pareva quasi una conquista. Parlava ai suoi compagni d’avventura con allegro cameratismo. E questa allegria, in lui poco abituale, gli guadagnò l’entusiasmo dei suoi uomini.

Arrivò alle porte di Parigi fra la prima e la terza ora, mentre suonavano le campane dei conventi vicini. Trovò qui Luigi d’Evreux e Gaucher di Châtillon che lo stavano aspettando.

Il connestabile sembrava molto nervoso e invitò il conte di Poitiers a recarsi subito al Louvre.

— E perché non potrei andare immediatamente al palazzo della Cité? — domandò Filippo.— Perché i messeri di Valois e della Marche lo hanno fatto presidiare dai loro soldati. Al Louvre troverete invece le truppe regie che sono tutte a me fedeli, cioè a voi, insieme ai balestrieri di messer di Galard… È però indispensabile agire con rapidità e con decisione — aggiunse il connestabile, — prima che tornino a Parigi i due Carli. A un vostro ordine, Monsignore, sono pronto a espugnare il palazzo.Filippo sapeva che i minuti erano preziosi, ma calcolava di avere sei o sette ore

di vantaggio su Valois.— Non voglio far nulla che non sia preventivamente approvato dai borghesi e

dal popolo di Parigi — disse.Così, appena arrivato al Louvre, mandò a chiamare al Parlatorio dei Borghesi

messer Coquatrix, messer Gentien e alcuni altri dignitari, nonché il bargello Guglielmo della Madelaine, che dal mese di marzo aveva preso il posto di Portefruit.

Filippo indicò loro l’importanza che egli accordava alla borghesia di Parigi e agli uomini che dirigevano le attività artigianali e commerciali. I borghesi se ne sentirono onorati e soprattutto rassicurati. Non udivano più discorsi del genere dalla morte di Filippo il Bello, un sovrano che da vivo era stato da loro spesso criticato, ma che da morto era continuamente rimpianto. Alle parole di Filippo, toccò a Goffredo Coquatrix di rispondere. Costui era commissario alle monete false, esattore dei sussidi e sovvenzioni, tesoriere delle guerre, fornitore delle guarnigioni, ispettore dei porti e delle strade del regno, avvocato alla Corte dei conti. Era stato Filippo il Bello ad assegnargli tutti questi incarichi, nonché un reddito trasmissibile agli eredi, concesso del resto a tutti i grandi funzionari della corona; ed egli non aveva mai dovuto rendei conto della propria amministrazione17. Temeva dunque che Carlo di Valois, da sempre ostile all’accessione dei borghesi alle maggiori cariche del regno — come già aveva dimostrato nella sua lunga diatriba con Marigny — lo destituisse da queste funzioni e lo spogliasse delle enormi ricchezze accumulate. Coquatrix garantì a Filippo, continuando a chiamarlo «messer reggente», l’appoggio del popolo parigino. La sua parola aveva una certa importanza: egli era infatti onnipotente al Parlamento e talmente ricco da poter in caso di bisogno assoldare tutti i vagabondi di Parigi e indurli alla rivolta.

La notizia del ritorno di Filippo di Poitiers si era rapidamente diffusa in tutta la città. I baroni e i cavalieri a lui favorevoli accorsero subito al Louvre, prima fra tutti la contessa Mahaut d’Artois, mandata personalmente ad avvertire.

— Come sta la mia amata Giovanna? — domandò Filippo alla suocera, tendendole le braccia.— Si attende il suo parto da un giorno all’altro.— Andrò a trovarla, appena finito il mio lavoro.Poi si mise d’accordo con lo zio Luigi e con il connestabile.— Ora, Gaucher, voi potete muovere contro il palazzo. Cercate, se vi sarà possibile, di farla finita per mezzogiorno. Ma fate in modo di evitare spargimento di sangue. Cercate insomma, più che altro, di spaventare. Non mi piacerebbe entrare a palazzo scavalcando dei cadaveri.Gaucher andò ad assumere il comando delle compagnie di soldati che egli

aveva riunito al Louvre e si diresse verso la Cité. Intanto aveva mandato il bargello a prendere, nel quartiere del Tempio, i migliori carpentieri e i più abili magnani.

Le porte del palazzo erano chiuse. Gaucher, che aveva accanto a sé il gran maestro dei balestrieri, ordinò che gli venisse aperto. L’ufficiale di guardia, comparendo da una finestra sopra la porta principale, rispose di non poter obbedire senza l’autorizzazione del conte di Valois o del conte della Marche.

— Dovrete aprirmi lo stesso — replicò il connestabile.— Io devo entrare e sistemare il palazzo in modo che possa ricevere il reggente.

— Non ci è possibile, vi ripeto.Gaucher di Châtillon si alzò sul proprio cavallo.— E allora, ci penseremo noi ad aprire — disse.E fece segno a messer Pietro del Tempio, carpentiere del re, di avvicinarsi.

Costui era accompagnato dai suoi operai armati di seghe, di pinze e di grosse leve di ferro. Intanto i balestrieri, infilando il piede in una sorta di staffa collocata a un capo dell’arco, tendevano le armi, incoccavano le frecce e si sistemavano in modo da poter mirare sui merli e sulle finestre. Arcieri e picchieri, accostando i loro scudi, venivano a formare un’enorme corazza intorno e al di sopra dei carpentieri. Nelle strade adiacenti, monelli e sfaccendati si erano raccolti a rispettosa distanza, per assistere all’assedio. Era quella una bella e imprevista distrazione, nonché un tema di conversazione per i prossimi giorni.

Finalmente Gaucher, con la voce usata sui campi di battaglia, urlò attraverso la visiera sollevata del suo casco:

— Messeri che siete rinchiusi all’interno del palazzo, carpentieri e magnani stanno facendo saltare le porte. E i balestrieri di messer di Galard circondano il palazzo da ogni parte. Nessuno dunque potrà fuggire. Per l’ultima volta vi invito ad aprirci la porta. Se non obbedirete, finirete con la testa tagliata, per quanto nobili voi siate. Il reggente ha dato ordine di agire col massimo rigore.E riabbassò la visiera, con l’aria di chi consideri superflua ogni ulteriore

discussione.All’interno queste parole dovevano aver provocato un certo panico, perché, non

appena gli operai ebbero infilato le leve sotto le porte, queste si aprirono da sole. La guarnigione del conte di Valois si arrendeva.— Era tempo di venire a una saggia decisione, messeri — disse il connestabile assumendo il comando del palazzo.— Tornate alle vostre abitazioni o alle residenze dei vostri padroni. Nessun assembramento, e non vi verrà fatto alcun male.

Un’ora dopo Filippo di Poitiers entrava negli appartamenti reali, e prendeva le

prime misure di sicurezza. Il cortile del palazzo, abitualmente aperto alla folla, venne chiuso e sorvegliato da guardie armate, mentre i visitatori venivano lasciati passare soltanto dopo un attento esame. I merciai, che erano autorizzati a tener bottega sotto la grande galleria, furono pregati di interrompere per il momento i loro commerci.

Così, quando i conti di Valois e della Marche arrivarono a Parigi, capirono di aver perduto la partita e non avendo altra scelta, corsero al palazzo per negoziare la resa. Qui, accanto al conte di Poitiers, videro un gran numero di nobili, di borghesi e di ecclesiastici, compreso l’arcivescovo Giovanni di Marigny, sempre pronto a schierarsi con il più forte.

— Non durerà. Evidentemente non è molto sicuro di se stesso se si sente costretto a cercare appoggi fra gli uomini del volgo — mormorò Valois a Carlo della Marche, notando indispettito la presenza di Coquatrix, di Gentien e di altri dignitari borghesi.Nondimeno cercò di darsi un contegno, prima di accostarsi al nipote e

chiedergli scusa per l’incidente di quella mattina.— I miei scudieri di guardia non sapevano. Avevano ricevuto consegne severe… a protezione della regina Clemenza…Si aspettava violenti rimbrotti e quasi se li sarebbe augurati: sarebbe stato un

eccellente pretesto per entrare in aperto conflitto con Filippo. Ma costui non volle offrirgli il vantaggio di una lite e replicò con lo stesso tono:

— Ho dovuto agire così, zio, con mio gran dispiacere, per prevenire le mene del duca di Borgogna, al quale la vostra partenza aveva lasciato a Parigi piena libertà d’azione. Ne avevo avuto notizia la notte scorsa a Fontainebleau e non ho voluto svegliarvi.Valois, per rendere meno amara la propria sconfitta, finse di accettare questa

spiegazione e si sforzò di far buon viso al connestabile, benché, secondo lui, fosse questi il vero ispiratore della macchinazione.

Carlo della Marche, meno abile a dissimulare, teneva i denti stretti.Fu allora che il conte d’Evreux fece la proposta precedentemente concertata con

Filippo: mentre costui fingeva di discutere questioni di servizio con il connestabile e con Mille di Noyers in un angolo della sala, Luigi d’Evreux disse:

— Miei nobili signori, e voi tutti, Messeri, io vi consigli per il bene del regno e per evitare disordini forieri di luttuose conseguenze, di acconsentire a che il nostro amatissimo nipote Filippo prenda le redini del governo, con l’approvazione di noi tutti, e che adempia alle funzioni di re in nome del suo futuro nipote, se Dio farà alla regina Clemenza la grazia di un figlio; consiglio

anche che un’assemblea delle più alte personalità del regno sia al più presto convocata, con i pari e i baroni, ad approvare la nostra decisione e a giurare fedeltà al reggente.Era questo l’esatto corrispettivo della dichiarazione fatta il giorno prima da

Carlo della Marche appena arrivato a Fontainebleau. Ma stavolta la scena era stata preparata da registi più abili. E, trascinati dagli applausi dei fedeli del conte di Poitiers, tutti i presenti approvarono per acclamazione. Subito Luigi d’Evreux, ripetendo il gesto compiuto a Lione dal conte di Forez, venne a mettere le proprie mani in quelle di Filippo.

— Vi giuro fedeltà, nipote — disse, piegando il ginocchio.Filippo lo fece rialzare e, abbracciandolo, gli mormorò all’orecchio:— Tutto procede a meraviglia; mille grazie, zio.Carlo della Marche, irritatissimo per il successo del fratello, borbottò:— Il re… Crede proprio di essere il re…Intanto Luigi d’Evreux si era voltato verso Carlo di Valois, per dirgli:— Perdonatemi, fratello, per non aver tenuto conto della vostra anzianità.A Valois dunque non rimase che obbedire. Si accostò a mani tese, ma il conte

di Poitiers finse di non accorgersene.— Mi farete il favore, zio — disse — di partecipare alle riunioni del mio consiglio.Valois impallidì. Ancora il giorno prima firmava lui i decreti e li sigillava col

proprio sigillo; e oggi gli si offriva come un onore un posto che già gli spettava di diritto.

— Dovrete consegnarci anche le chiavi del Tesoro — aggiunse Filippo abbassando la voce. — So bene che non c’è dentro che aria. Ma non vorrei che sparisse anche quella.Valois voleva rifiutare: praticamente il nipote gli stava chiedendo di rinunciare a

tutti i suoi privilegi.— Nipote — rispose — non mi è possibile. Devo far sistemare i conti.— Ci tenete davvero molto, zio, a mettere in ordine quei conti? — domandò Filippo con una punta di ironia. — Perché in questo caso saremmo costretti a prenderli in esame tutti, ivi compresa la gestione dei beni confiscati a Enguerrand di Marigny. Vi preghiamo perciò di consegnarci le chiavi, in cambio di che vi dispensiamo dal presentare i conti.Valois capì la minaccia.— D’accordo, nipote — disse in fretta. — Vi farò consegnare subito le chiavi del Tesoro.

Soltanto allora Filippo tese le mani per ricevere l’omaggio del suo più potente rivale.

Infine gli si avvicinò il connestabile di Francia.— E ora, Gaucher — gli sussurrò Filippo, — dovremo occuparci del Borgognone.

VIII • LE VISITE DEL CONTE DI POITIERS

Il conte di Poitiers non si faceva illusioni: aveva ottenuto una prima

vittoria, rapida, clamorosa e inattesa, ma sapeva bene che i suoi avversari non si sarebbero arresi facilmente.

Non appena monsignor di Valois gli ebbe prestato un giuramento più enfatico che convinto, Filippo attraversò il palazzo per andare a salutare la cognata Clemenza. Erano con lui Anseau di Joinville e la contessa Mahaut. Ugo di Bouville, vedendo il reggente, scoppiò a piangere, chinandosi per baciargli le mani. L’ex-gran ciambellano, benché membro della Camera dei pari, non aveva assistito alla seduta del pomeriggio, preferendo trascorrere anche quelle ore al proprio posto, cioè accanto alla regina. L’assalto al palazzo, condotto dal connestabile, il disorientamento e la fuga degli uomini del conte di Valois, avevano sottoposto i suoi nervi a una dura prova!

— Vi prego, Monsignore, di perdonare questa mia debolezza che è soltanto la gioia di rivedervi — disse bagnando di lacrime le dita del reggente.— Ma vi pare, amico mio — replicò Filippo — fate pure.Il vecchio Joinville non riconobbe il conte di Poitiers. E del resto non

riconobbe neppure suo figlio; non solo, ma quando gli venne spiegato chi erano questi nuovi arrivati, egli confuse uno con l’altro e s’inchinò cerimoniosamente davanti ad Anseau.

Bouville aprì la porta della camera della regina. Ma, vedendo che Mahaut si avviava a seguire Filippo, il curatore ritrovò la propria energia ed esclamò:

— Soltanto voi, Monsignore, soltanto voi!E sbatté la porta in faccia alla contessa.La regina Clemenza era pallida, stanca ed evidentemente lontana dalle

preoccupazioni che agitavano la corte e il popolo di Parigi. E, mentre il conte di Poitiers le si accostava con le mani tese, ella non poté fare a meno di pensare: «Se avessi sposato lui, oggi non sarei vedova. Perché Luigi? E perché non Filippo?»

Ella avrebbe voluto non farsi domande che le sembravano dei rimproveri all’Onnipotente. Ma nulla, nemmeno la fede, poteva impedire a quella vedova di ventitré anni, di chiedersi per quale ragione gli altri uomini, gli altri mariti fossero ancora vivi!

Filippo le fece sapere di essere ora lui il reggente e le garantì la sua completa devozione.

— Oh, sì, fratello mio, oh, sì! — mormorò lei — aiutatemi!E intendeva dire, senza però saperlo esprimere in parole:

«Aiutatemi a vivere, aiutatemi a lottare contro la disperazione, aiutatemi a mettere al mondo questa nuova vita, che è ormai il solo compito della mia esistenza».

— Perché — aggiunse invece — nostro zio Valois mi ha fatto lasciare, quasi di forza, la mia casa di Vincennes? Luigi me ne aveva fatto dono con le sue ultime parole.— Volete dunque ritornarvi? — domandò Poitiers.— È il mio solo desiderio, fratello. Là potrei sentirmi più forte. E mio figlio nascerebbe più vicino all’anima di suo padre, al luogo dove lui è morto.Filippo non prendeva mai una decisione, anche la meno importante, troppo

alla leggera. Perciò distolse lo sguardo dai veli bianchi che circondavano il viso di Clemenza e osservò oltre la finestra la guglia della Santa Cappella, le cui linee la sua miopia gli permetteva di scorgere soltanto in modo incerto e confuso, come una grande asta di pietra e d’oro, sulla cui vetta pareva disegnarsi il giglio regale.

«Se le do questa soddisfazione — pensava il reggente — ella me ne sarà grata, mi considererà il suo protettore e si rimetterà interamente alle mie decisioni. E del resto i miei avversari a Vincennes potranno agire su di lei assai meno facilmente, per servirsene contro di me. Anche se, nelle condizioni attuali, ella non può essere di grande aiuto a nessuno».

— Io intendo, sorella — rispose — soddisfare a tutti i vostri desideri; non appena l’assemblea degli alti dignitari mi avrà confermato nella carica di reggente, la mia prima preoccupazione sarà quella di riaccompagnarvi a Vincennes. Oggi è lunedì e l’assemblea si terrà certamente venerdì. Domenica prossima, potrete, io credo, sentire la Messa nella vostra casa.— Lo sapevo, Filippo, che voi eravate un amorevole fratello. Il vostro ritorno è la prima consolazione che Dio mi abbia procurato.Uscito dall’appartamento della regina, Filippo ritrovò la suocera che lo stava

aspettando. Ella aveva avuto un vivace battibecco con Bouville e ora percorreva con i suoi grandi passi da uomo i pavimenti della galleria, sotto lo sguardo diffidente degli scudieri di guardia.

— E allora — domandò la contessa a Filippo — come sta la regina?— È pia e rassegnata e ben degna di dare un re alla Francia — rispose il conte di Poitiers, in modo che tutti i presenti udissero le sue parole.Quindi aggiunse sottovoce:— Non credo che, nelle attuali condizioni di salute, ella possa condurre a termine la gravidanza.— Sarebbe la cosa più bella — replicò Mahaut con lo stesso tono; — tanti problemi sarebbero più facilmente risolti. Se non altro, la farebbero finita con tutte queste precauzioni e con queste difese di tipo militare. Da quando in qua i pari del regno non possono più far visita alla regina? Sono stata vedova anch’io, ma questo non ha mai impedito a nessuno di venire a trovarmi per discutere degli affari di stato.Questa avvelenatrice era dunque indignata perché le misure prudenziali prese

venivano applicate anche a lei.Filippo, che non aveva ancora rivisto sua moglie, accompagnò dunque Mahaut

a palazzo d’Artois.— La vostra assenza ha fatto molto soffrire mia figlia — disse la contessa. — Ma la troverete bella e fresca. Nessuno, a vederla, la crederebbe così vicina a partorire. Ero anch’io così, quando ero incinta: sempre in gamba fino all’ultimo giorno.L’incontro del conte di Poitiers con sua moglie fu molto commovente, anche

senza spargimento di lacrime. Giovanna, molto ingrossata, si muoveva a fatica, ma pareva in perfetta salute e assolutamente lieta. Intanto era scesa la notte e la luce delle candele, che s’addiceva al suo colorito, cancellava dal volto della giovane donna i segni provocati dalle sue condizioni. Ella indossava parecchie collane di corallo rosso, ritenute particolarmente propizie nell’imminenza di un parto.

Fu soltanto in presenza di Giovanna che Filippo si rese veramente conto dei successi finora ottenuti ed apparve infine soddisfatto di se stesso. Prendendo fra le braccia la moglie, le disse:

— Credo proprio, mia amatissima sposa, di potervi ormai chiamare la signora reggente.— Dio voglia, mio buon signore, che io possa darvi un figlio maschio — replicò lei, rannicchiandosi un poco contro il corpo snello e robusto del marito.— Dio ci farebbe davvero un’immensa grazia — le mormorò Filippo all’orecchio, — se lo facesse nascere dopo venerdì.Si accese allora una vivace discussione fra Mahaut e il genero. La contessa

d’Artois pretendeva che sua figlia dovesse essere subito trasferita a palazzo, per

abitare col marito nei suoi appartamenti. Filippo invece non condivideva l’opinione della suocera e preferiva che Giovanna restasse a palazzo Artois. A sostegno di questa decisione egli enumerava parecchi motivi, di per se stessi eccellenti ma non tali da svelare le sue reali intenzioni né talmente solidi da poter convincere Mahaut.Il palazzo avrebbe potuto essere presto teatro di vivaci assemblee e di tumulti assai poco indicati per una partoriente e, del resto, Filippo pensava che sarebbe stato meglio aspettare il ritorno a Vincennes di Clemenza, prima di far venire Giovanna a palazzo reale.

— Ma guardate in che condizioni è, Filippo! — esclamò Mahaut. — Domani forse non sarà più in grado di muoversi. Non preferireste anche voi che vostro figlio nascesse a palazzo?— È proprio questo, invece, che vorrei evitare.— E allora non vi capisco, figlio mio — replicò la contessa d’Artois alzando le spalle.Filippo non aveva voglia di discutere. Non dormiva da trentasei ore, la notte

prima aveva percorso ben quindici leghe a cavallo e aveva avuto poi la giornata più difficile e più movimentata della sua vita. Si sentiva la barba lunga e le palpebre pesanti, vicinissime a chiudersi. Ma era deciso a non cedere. «Il mio letto — pensava. — Voglio che mi obbediscano e che mi permettano di andarmene a letto».

— Sentiamo allora cosa ne dice Giovanna. Cosa preferite voi, mia cara? — domandò poi, certo della docilità di sua moglie.Mahaut era donna d’intelligenza virile e di virile determinatezza, continuamente

preoccupata di affermare il prestigio della propria schiatta. Giovanna, invece, dotata di assai diverso carattere, era abituata dal destino a non trovarsi mai in primissimo piano. Già fidanzata al Testardo per essere poi data, in una sorta di scambio, al secondo figlio di Filippo il Bello, ella era dunque passata accanto alle corone di Francia e Navarra. Nello scandalo della Torre di Nesle ella aveva sì favorito gli amori delle cognate e rasentato l’adulterio, ma non vi era caduta; e nel castigo, la reclusione a vita le era stata risparmiata. Aveva dunque partecipato a tutti i drammi senza mai entrarvi da protagonista. Forse più per una preoccupazione di eleganza che per scrupoli morali, Giovanna era decisamente contraria a ogni eccesso, e l’anno trascorso nella fortezza di Dourdan aveva rinforzato la sua prudenza. Donna intelligente, abile e sensibile, ella sapeva adoperare alla perfezione un’arma prettamente femminile: l’arrendevolezza.

Comprendendo che l’insistenza di Filippo doveva avere solide ragioni, ella fece

tacere un impulso dettato da comprensibile vanità e disse:— È qui, madre mia, che io desidero partorire. Mi ci troverò assai meglio.Filippo la ringraziò con un sorriso. Seduto in una grossa sedia dallo schienale

rigido e tenendo le gambe distese e incrociate, egli domandò i nomi delle levatrici e delle infermiere che avrebbero assistito al parto di Giovanna, desiderando sapere donde veniva ognuna di loro e se era possibile fidarsene. Ordinò poi che si facesse prestar loro giuramento, precauzione solitamente riservata solo ai parti regali.

«È davvero un eccellente marito, se si preoccupa tanto per me!» pensava Giovanna, ascoltandolo.

Filippo ordinò anche che, non appena fossero incominciate le doglie della contessa di Poitiers, venissero subito chiuse le porte di palazzo Artois. Nessuno avrebbe più dovuto uscirne, eccetto una sola persona, incaricata di portare a lui l’annuncio della nascita.

— Voi — disse indicando la bella Beatrice d’Hirson che era presente al colloquio. — Dirò al mio ciambellano di lasciarvi venire da me in qualunque momento, anche durante le riunioni del consiglio. E, se io non sarò solo, voi mi comunicherete la notizia a bassissima voce e senza parlarne con nessun altro… se mio figlio sarà un maschio. Mi fido di voi perché ricordo che voi mi avete già servito bene altre volte.— E più ancora di quanto voi non pensiate, Monsignore — replicò Beatrice, chinando leggermente il capo.Mahaut gettò un’occhiata furibonda a Beatrice. Questa ragazza, con la sua

apparente indolenza, il suo finto candore e la sua vigilante sornioneria, le metteva paura. Beatrice continuava a sorridere. E Giovanna se ne accorse, ma si guardò dal fare domande. Fra sua madre e la damigella di compagnia esistevano segrete complicità su cui ella preferiva non indagare.

Preoccupata, la contessa di Poitiers volse gli occhi verso il marito. Ma costui non si era accorto di nulla. Teneva la nuca appoggiata allo schienale e si era improvvisamente addormentato, fulminato dal sonno delle vittorie. Sul suo volto angoloso e solitamente severo, si era disegnata una maschera di premurosa dolcezza, che ricordava il bimbo che Filippo era stato. Commossa Giovanna si accostò a lui con passo cauto e posò sulla sua fronte un leggerissimo bacio.

IX • IL FIGLIO DEL VENERDÌ

L’indomani il conte di Poitiers incominciò a organizzare l’assemblea del

venerdì successivo. Sapeva che, se ne fosse uscito vincitore, nessuno avrebbe più potuto per parecchi anni opporsi al suo potere.

Inviò pertanto messaggeri e corrieri per convocare, secondo gli accordi, tutte le più importanti personalità del regno, più precisamente tutte quelle che si trovavano a non più di due giorni di cavallo, particolare questo che permetteva da un lato di non prolungare all’infinito questa situazione ambigua e dall’altro di evitare la presenza di alcuni grandi vassalli probabilmente ostili alle velleità di Filippo, per esempio il conte di Fiandra e il re d’Inghilterra.

Intanto egli aveva affidato a Gaucher di Châtillon, a Mille di Noyers e a Raul di Presles l’incarico di preparare le norme per la reggenza da sottoporre all’approvazione della assemblea. Ed essi, basandosi sulle decisioni già preventivamente approvate, stabilirono queste regole fondamentali: il conte di Poitiers avrebbe amministrato i due regni col titolo provvisorio di reggente, governatore e guardiano, percependo inoltre tutti i redditi regali. Se la regina Clemenza avesse dato alla luce un figlio, costui sarebbe divenuto naturalmente il re, e Filippo avrebbe tenuto la reggenza fino alla maggiore età del nipote. Ma, se Clemenza avesse generato una figlia?… Questa ipotesi avrebbe certamente portato a una situazione terribilmente intricata. In questo caso, infatti, per diritto di successione, la corona di Francia sarebbe spettata alla piccola Giovanna di Navarra, primogenita del Testardo. Ma costei era veramente figlia del defunto re? Era questa una domanda che assillava tutta la corte e tutto il regno. Senza gli amori della Torre di Nesle, senza lo scandalo e la sentenza di Pontoise, i diritti di questa bambina sarebbero stati fuori discussione, ed ella, in assenza di un erede maschio, avrebbe dovuto necessariamente diventare regina di Francia. Ma pesavano su di lei gravi sospetti, cui aveva soprattutto dato corpo Carlo di Valois, negoziando il secondo matrimonio di Luigi X; e Filippo non mancò in questa occasione di

trame partito. L’accostamento cronologico fra l’inizio degli amori adulterini di Margherita e la nascita di Giovanna era significativo. Ed altrettanto significativa era l’antipatia che Luigi aveva mostrato per questa bimba, tenendola sempre lontana da sé. Non aveva dunque probabilmente tutti i torti chi mormorava a questo proposito:

— È la figlia di Filippo d’Aunay.Così lo scandalo della Torre di Nesle che doveva, deformato con il trascorrere

degli anni dalla fantasia popolare, diventare una sorta di mitica leggenda, una storia d’amore, di vizio, di delitti e di orrori, questo banalissimo caso d’adulterio, poneva nella sua realtà effettiva un grave problema dinastico a soli due anni dal clamoroso divampare dello scandalo, e stava per modificare il naturale corso della monarchia francese.

Qualcuno aveva proposto di decidere fin d’ora di affidare la corona al figlio di Clemenza, indipendentemente dal sesso del nascituro.

Filippo di Poitiers accolse freddamente questo suggerimento e seppe trovare buoni argomenti per rifiutarlo. Benché i sospetti su Giovanna di Navarra avessero solide basi, non esisteva però alcuna prova definitiva — e indubbiamente né la madre di Margherita, la vecchia Agnese, duchessa madre di Borgogna, né suo figlio Eudes IV, il duca attuale, avrebbero mai accettato una brutale offesa ai diritti della nipote. Tutti i nemici del potere centrale, primo fra tutti il conte di Fiandra, ne avrebbero certamente approfittato per scegliersi la parte meglio confacente ai propri personali interessi. Si sarebbe dunque corso il rischio di aprire in Francia una guerra civile, una guerra fra le due regine.

— In questo caso — dichiarò Gaucher di Châtillon — la cosa migliore sarebbe un decreto che impedisse alle donne di salire sul trono. Ci sarà certamente qualche antica consuetudine che potrà dare un fondamento giuridico a una simile legge.— Purtroppo, cognato — replicò Mille di Noyers — ho già avuto anch’io la stessa idea e ho fatto fare delle ricerche; ma senza alcun risultato.— E fatene fare delle altre! Mettete alla frusta i vostri amici, gli esperti dell’Università e del Parlamento. Sono individui ben capaci di trovare, se vogliono, giustificazioni tradizionali a qualunque legge, nel senso loro richiesto. Possono risalire a Clodoveo per dimostrare perché si debba tagliarvi la testa, arrostirvi in piedi, o semplicemente evirarvi.— In effetti — disse Mille — non ho fatto fare ricerche in epoche così antiche. Ho solo indagato sulle usanze regie dai tempi del grande Ugo. Bisognerebbe risalire ancor più indietro, ma è comunque difficile scoprire qualcosa entro

venerdì.Ostinato e misogino come ogni militare che si rispetti, il connestabile,

irrigidendo le mascelle e raggrinzando quegli occhietti da testuggine, così continuò:

— In verità, sarebbe davvero pazzia permettere a una donna di salire sul trono! Ve l’immaginate voi una dama o una damigella comandare gli eserciti, lei, impura ogni mese e gravida ogni anno? E tener testa ai vassalli, quando non è neppure capace di far tacere i propri impulsi naturali? No, io non accetterò mai una tal soluzione, e preferirei, in un caso del genere, restituire la mia spada. Messeri, ascoltate queste parole: la Francia è un paese troppo nobile per finire in mano a una donna, per essere sottomesso a una femmina. I gigli non filano!Quest’ultima formula, anche se non le fu dato immediatamente grande rilievo,

impressionò molto tutti i presenti e venne largamente sfruttata in futuro18.Filippo di Poitiers finì per approvare una dichiarazione piuttosto tortuosa, che

rimandava qualunque decisione a data da destinarsi.— Facciamo in modo — disse — di impostare il problema, ma senza proporre alcuna soluzione. E confondiamo un poco le cose, in modo che ciascuno possa vedervi apparentemente favoriti i propri interessi.Se dunque la regina Clemenza avesse partorito una figlia, Filippo avrebbe

tenuto la reggenza fino alla maggiore età di Giovanna, la prima delle sue nipoti. Soltanto allora si sarebbe deciso a chi affidare la corona, o ad ambedue le principesse assegnando a una la Francia e all’altra la Navarra, o a una di loro, che avrebbe così conservato ambedue i regni, o a nessuna, nel caso che ambedue le principesse avessero rinunciato ai propri diritti o che l’assemblea dei pari avesse stabilito che le donne non possono regnare sulla Francia. In questo caso la corona sarebbe spettata al più prossimo parente maschio dell’ultimo re… e cioè a Filippo. Così per la prima volta egli presentava ufficialmente la propria candidatura, sottomettendola però a tanti preliminari, da apparire praticamente come un’eventuale soluzione di compromesso e d’arbitrato.Questo regolamento, sottoposto a ognuno dei più influenti baroni del partito di Filippo, ricevette unanimi approvazioni.

Soltanto Mahaut si mostrò stranamente reticente davanti a un progetto che, in effetti, preparava l’ascesa di suo genero e di sua figlia al trono di Francia. C’era qualcosa in quel documento che non le piaceva.

— Non potreste dire semplicemente — disse — «se le due principesse rinunciassero ai propri diritti…» evitando così di lasciar decidere all’assemblea dei pari se le donne sono o no in grado di regnare?

— Eh, madre — replicò Filippo — in questo caso esse non rinuncerebbero. La Camera dei pari, di cui anche voi fate parte, è la sola assemblea cui sia possibile ricorrere. In origine, anzi, spettava a loro eleggere il re, come spetta ai cardinali nominare il papa e ai palatini l’imperatore, e fu così che essi scelsero Ugo, nostro antenato, che era allora duca di Francia. E se ora non eleggono più, questo è dovuto soltanto al fatto che negli ultimi tre secoli i nostri re hanno sempre avuto dei discendenti diretti a cui lasciare il trono19.— Capita davvero a proposito il ripristino di questa antica tradizione! — replicò Mahaut. — Col vostro regolamento, riuscirete soltanto a rinfocolare le pretese di mio nipote Roberto. Scommetto che se ne varrà al più presto per cercare di riprendermi la mia contea.Ormai ella non pensava dunque alla Francia, ma alla sua lite per la successione

d’Artois.— Usanza di regno, non è usanza di feudo, madre mia. E vi sarà più facile conservare la contea se vostro genero diventerà re che non valendovi di certe sottigliezze giuridiche.Mahaut cedette, anche se tutt’altro che convinta.— Vedi la gratitudine dei generi — disse poco più tardi a Beatrice d’Hirson. — Una gli avvelena un re per agevolare la loro carriera ed essi si mettono subito ad agire di testa propria, senza tener conto di nulla.— Il fatto è, signora, che egli non sa assolutamente quanto vi deve, e ignora in che modo il nostro sovrano Luigi sia andato all’altro mondo.— Ed è indispensabile che egli non lo sappia mai, mio Dio!

— esclamò Mahaut, affrettandosi a toccare, attraverso la veste, la reliquia di san Druon, come sempre faceva quando parlava dei propri delitti. — Era suo fratello, in fondo. E poi Filippo ha una strana tendenza per la giustizia. Perciò sta’ zitta, mi raccomando, sta’ zitta!

In quegli stessi giorni Carlo di Valois, spalleggiato da Carlo della Marche e da Roberto d’Artois, si dava molto da fare, dicendo a tutti e facendo ripetere ovunque che sarebbe stata una pazzia affidare la reggenza al conte di Poitiers e ancor più considerarlo come il presunto erede. Filippo e sua suocera si erano fatti troppo nemici e la morte di Luigi giovava troppo alle loro aspirazioni, adesso apertamente confessate, per non venir loro attribuita. Valois invece offriva solidissime garanzie e si presentava come la sola persona in grado di appianare le molte difficoltà cui il paese poteva andare incontro.

Egli era in ottimi rapporti con il re di Napoli e garantiva di risolvere qualunque seccatura potesse sorgere da parte di Clemenza. Inoltre, egli era il solo membro

della famiglia reale che, nonostante le guerre, avesse mantenuto rapporti con il conte di Fiandra. E, avendo combattuto per il papato romano, egli godeva della fiducia dei cardinali italiani, senza i quali non sarebbe mai stato possibile nominare un papa, nemmeno adottando vergognosi sistemi come quello di tener prigioniero l’intero conclave. Gli ex-Templari, infine, si sarebbero ricordati che lui si era sempre opposto alla soppressione dell’Ordine e, così, anche su questo problema, l’ex-imperatore di Costantinopoli avrebbe potuto essere molto utile al regno.

Filippo, informato di questa campagna propagandistica, incaricò i suoi familiari di rispondere che era ben strano vedere lo zio del re che, per sostenere la propria candidatura, cercava appoggio nei suoi rapporti d’amicizia con i principali nemici del regno. Insomma, chi avesse voluto vedere il papa a Roma e la Francia suddivisa fra Angioini, Fiamminghi e il risorto ordine del Tempio, non avrebbe dovuto che offrire la corona al conte di Valois.

Queste cose succedevano prima del venerdì prescelto per la riunione dell’assemblea. Avanti l’alba del giorno fissato, Beatrice d’Hirson si presentò a palazzo e fu subito fatta passare nella camera del conte di Poitiers. La ragazza ansimava un poco, essendo arrivata di corsa da via Mauconseil. Filippo si levò a sedere.

— Maschio? — domandò.— Maschio, Monsignore, e molto ben fatto — replicò ammiccando Beatrice.Filippo si vestì in fretta e si precipitò a palazzo Artois.— Le porte! Le porte! Che le porte restino chiuse! — disse appena entrato in casa. — I miei ordini sono stati eseguiti?Soltanto Beatrice è uscita di qui? E allora, bisogna che nessun altro possa uscire in tutta la giornata.E infilò di corsa la scala. Aveva completamente perduto quella rigidezza e

quella compostezza che erano generalmente parte integrante del suo personaggio.La «camera del parto» era stata riccamente adornata, secondo le usanze delle

famiglie principesche. Arazzi d’alto liccio, decorati di piante e di pappagalli, quei begli arazzi d’Artois di cui la contessa Mahaut era così fiera, ricoprivano le pareti.Il pavimento era cosparso di fiori, giaggioli, rose e margherite, che venivano calpestati da tutti i presenti. La puerpera, pallidissima, con gli occhi lucidi e il viso ancora atteggiato a un’espressione di sofferenza, riposava in un grande letto circondato da cortine di seta, sotto bianche lenzuola che scendevano a terra per la lunghezza di un’auna20. Nella stessa stanza c’erano altri due lettini, circondati anch’essi da tende di seta e destinati il primo alla levatrice giurata e il secondo alla

bambinaia di turno.Il giovane reggente si diresse immediatamente verso la culla e si chinò

profondamente per meglio vedere quel bimbo che da lui era nato. Bruttissimo eppure commovente, come ogni essere alle prime ore di vita, arrossato e rugoso, con occhi cisposi, labbra bavose, e un piccolissimo ciuffo di capelli biondi sulla punta di un cranio pelato, l’infante dormiva ancora del suo sonno d’embrione e, in quelle fasce che lo avvolgevano strettamente fino alle spalle, sembrava una minuscola mummia.

— Eccolo qui, il mio piccolo Filippo21, che io ho tanto desiderato e che sembra arrivato in un momento cosi propizio — disse il conte di Poitiers.Soltanto allora egli si accostò alla moglie, la baciò sulle guance e le disse con

profonda gratitudine:— Grazie infinite, mia cara, grazie infinite. Voi mi avete dato una grande gioia e siete riuscita a cancellare definitivamente dalla mia mente il ricordo dei nostri passati dissensi.Giovanna prese la mano del marito, se la portò alle labbra e se la passò sul viso.— Dio ci ha benedetti, Filippo — mormorò. — Dio ha benedetto il nostro

incontro dello scorso autunno.Ella portava ancora le collane di corallo.La contessa Mahaut, con le maniche rimboccate su avambraccia fittamente

pelose, assisteva alla scena da trionfatrice. E si batté con energia un colpo sul ventre.

— Eh, figlio mio! — disse. — Cosa vi avevo detto? Sono ventri fecondi quelli d’Artois e di Borgogna!Ne parlava come dei pregi di una cavalla di razza.Filippo si era riavvicinato alla culla.— Non sarebbe possibile togliergli queste bende? — domandò. — Vorrei poterlo vedere meglio!— Monsignore — rispose la levatrice, — non sarebbe consigliabile. Le membra dei neonati sono molto sottili e devono rimanere legate il più possibile per rinforzarsi e per non torcersi. Ma non abbiate paura, Monsignore, lo abbiamo unto con sale e miele e avvolto di rose macinate per togliergli di dosso quel liquido viscoso. Inoltre abbiamo passato all’interno della sua bocca un dito intriso di miele per dargli appetito e per rendere più dolce il suo cibo. Insomma, potete esser certo che abbiamo gran cura di lui.— E anche della vostra Giovanna, figlio mio — aggiunse Mahaut. — L’ho fatta ungere con unguento mescolato con sterco di lepre per restringerle il ventre

secondo le ricette di messer Arnaldo di Villeneuve.Ella voleva così tranquillizzare il genero sulle qualità dei suoi futuri piaceri.— Ma, madre — disse la puerpera, — credevo fosse una ricetta contro la sterilità.— Sì, ma lo sterco di lepre va sempre bene — replicò la contessa.Filippo continuava a contemplare l’erede.— Non trovate che assomigli molto a mio padre, al grande re? Ne ha la fronte — disse — e anche il mento…— Può anche darsi — rispose Mahaut. — Ma, a essere sincera, mi par di scorgere nei suoi lineamenti qualcosa del mio povero Ottone… Gli auguro di avere la forza d’animo e il vigore fisico di ambedue i suoi nonni!— È soprattutto a voi, Filippo, che vostro figlio assomiglia — mormorò Giovanna.Il conte di Poitiers si rialzò soddisfatto.— Credo che ora, madre — disse, — voi capirete meglio i miei ordini, e soprattutto le ragioni per le quali vi ho chiesto di tener chiuse le porte. Nessuno deve per ora sapere che ho un figlio, altrimenti si potrebbe sostenere che sto preparando un codice di successione al fine di trasmettere a lui il trono dopo la mia morte, qualora Clemenza non desse alla luce un maschio. In questo caso molti, primo fra tutti mio fratello Carlo, non sarebbero per nulla contenti di veder svanire così ogni loro speranza. Se volete dunque che questo bimbo abbia un giorno la possibilità di diventare re, non parlate di lui con nessuno dei presenti all’assemblea.— Oh, già che c’è l’assemblea! Questo signorino me la faceva quasi scordare — esclamò Mahaut, accennando con la mano verso la culla. — È dunque tempo che io mi prepari e che mangi qualcosa per essere più pronta a combattere. Mi sono svegliata troppo presto e mi sento lo stomaco vuoto… Beatrice! Beatrice!Batté le mani e ordinò un pasticcio di luccio, uova lesse, formaggio bianco e

piccante, marmellata di noci, pesche, e vino bianco di Château-Chalon.— È venerdì — disse: — devo mangiare di magro.Il sole, comparendo sui tetti della città, inondò di luce quella famiglia felice.— Mangia qualcosa anche tu — disse Mahaut alla figlia.

— Il pasticcio di luccio non dovrebbe farti male.Filippo si alzò per andare a completare i preparativi in vista della riunione

ormai imminente.— Mia cara, oggi non verrà nessuno a congratularsi con voi — disse a

Giovanna, indicandole i cuscini disposti a semicerchio intorno al letto per accogliere i visitatori. — Ma domani ci sarà un mucchio di gente.Poi, mentre stava avviandosi all’uscita, Mahaut lo prese per una manica.— Figlio mio — disse; — pensate anche a Bianca che si trova tuttora a Château-Gaillard. In fondo, è la sorella di vostra moglie.— Ci penserò, ci penserò. Vedrò di migliorare la sua sorte.E s’allontanò, portando attaccato alla suola uno dei giaggioli che coprivano il

pavimento.Mahaut richiuse la porta.— Su, bambinaie — disse, — cantate un poco!

X • L’ASSEMBLEA DELLE TRE DINASTIE

Dai suoi appartamenti la regina Clemenza poteva udire il grande

trambusto provocato dall’arrivo all’assemblea dei più alti baroni e dei principali dignitari, nonché un confuso tumultuare di voci nei cortili e sotto le volte.

I quaranta giorni di isolamento cui ella aveva dovuto sottostare in segno di lutto erano finiti il giorno innanzi, e Clemenza aveva ingenuamente creduto che la data della riunione fosse stata fissata in modo da permettere a lei di presiedervi. Si era preparata a questa solenne riapparizione in pubblico con interesse, curiosità e malcelata impazienza: da qualche giorno le pareva di aver ritrovato la gioia di vivere. Ma all’ultimo momento i medici riuniti a consulto, presenti anche i clinici di fiducia del conte di Poitiers e della contessa Mahaut, le avevano proibito questa fatica, giudicandola troppo pericolosa per le condizioni di salute della regina.Nessuno si oppose a questa decisione, perché nessuno aveva interesse a

sostenere i diritti di Clemenza a diventar reggente, fosse pure in collaborazione con qualcun altro. Anche se, compiendo ricerche nella storia, qualcuno doveva aver riesumato la vicenda di Anna di Russia, vedova di Enrico I, la quale aveva governato il paese col cognato Baldovino di Fiandra «per quell’indelebile qualità a lei conferita dalla consacrazione» o, in tempi assai meno remoti, la storia della regina Bianca di Castiglia, ancora ben viva nella memoria di tutti22.

Ma il Delfino del Viennese, pur essendo cognato di Clemenza e quindi il meglio indicato a sostenerne i diritti, si era risolutamente schierato dalla parte di Filippo, soprattutto da quando era stato concluso fra loro un contratto di matrimonio per i rispettivi figli.

E neppure Carlo di Valois, che si era sempre proclamato il grande protettore della nipote, volle compromettersi per lei, anche perché troppo occupato a lavorare per se stesso.

Il duca di Borgogna, infine, che era venuto a Parigi soltanto, come da un mese

andava ripetendo, per riabilitare la memoria della sorella Margherita e per vendicarne la morte, era ovviamente assai contrario a Clemenza.

E poi ella era rimasta troppo poco tempo sul trono per potersi far conoscere e guadagnarsi l’appoggio dei grandi baroni, ormai inclini a considerarla l’ultima superstite di un regno breve, torbido e, sotto molti aspetti, funesto.

— Non ha portato fortuna al regno — dicevano, quando parlavano di lei.Così Clemenza, che agli occhi dei Francesi esisteva ancora come futura madre,

non era ormai più considerata da nessuno la regina.Confinata in un’ala del palazzo, ella sentiva le voci diminuire lentamente

d’intensità: l’assemblea stava per iniziare la propria riunione a porte chiuse nella sala del Gran Consiglio. «Mio Dio, mio Dio — pensava Clemenza; — perché non sono rimasta a Napoli?» E prese a singhiozzare, ripensando alla lontana infanzia, al mare azzurro, a quel popolo fracassone, ardente e generoso, sempre pronto a intenerirsi sul dolore altrui, a quel suo popolo che sapeva davvero amare.

Intanto, nel salone, Mille di Noyers stava leggendo le norme per la successione al trono.

Il conte di Poitiers aveva preso cura di non circondarsi dei segni esteriori della regale dignità. Il suo seggio era situato in mezzo a una predella, ma egli si era rifiutato di farlo sormontare da un baldacchino. E lui indossava un abito di stoffa scura, completamente privo di ornamenti, benché ormai il periodo di lutto ufficiale fosse finito. Aveva l’aria di dire: «Messeri, siamo riuniti qui per lavorare». Il solo segno di distinzione era costituito dai tre agenti mazzieri che lo avevano preceduto all’ingresso e che ora stavano in piedi dietro la sua seggiola. Filippo, insomma, pareva adempiere alle funzioni della sovranità, senza tuttavia considerarsene investito. Ma aveva preparato con particolare accuratezza la sistemazione della sala, fissando un posto per ognuno dei presenti, secondo un cerimoniale, rigido e arbitrario a un tempo, che non aveva mancato di stupire un po’ tutti e che ricordava da vicino i metodi di Filippo il Bello.

Il conte di Poitiers aveva fatto sedere alla propria destra Carlo di Valois e subito dopo Gaucher di Châtillon: così egli poteva controllare le reazioni dell’ex-imperatore titolare di Costantinopoli e isolarlo dai suoi fedeli. Filippo di Valois era infatti relegato sei posti più in là del padre, e alla sinistra di costui il reggente aveva fatto installare lo zio Luigi d’Evreux, che aveva a sua volta a fianco il conte Carlo della Marche; Filippo impediva così ai due Carli di mettersi d’accordo fra loro nel corso della seduta e di rimangiarsi la parola che gli avevano data qualche giorno prima.

Ma il principale oggetto delle attenzioni del conte di Poitiers era evidentemente

il cugino Eudes di Borgogna, sistemato in modo che lui poteva sempre seguirlo con gli occhi e per di più affiancato dalla contessa Mahaut e dal delfino del Viennese.

Filippo sapeva infatti che il duca avrebbe parlato in nome della madre, la duchessa Agnese, cui il fatto di essere l’ultima figlia di Luigi IX conferiva, anche se lontana, un enorme prestigio fra quei baroni. Tutto ciò che era legato al ricordo del re santificato, del difensore della cristianità, dell’eroe di Tunisi, tutto ciò che la sua mano aveva accarezzato, era indiscusso oggetto di venerazione; tutte le persone ancor vive che lo avevano visto, che avevano udito le sue parole o erano state fatte segno del suo affetto, assumevano immediatamente dignità di personaggi sacri.

Sarebbe perciò bastato a Eudes di Borgogna dire: «Mia madre, figlia di messer san Luigi, che la benedì sulla fronte prima di andare a morire fra gli infedeli…» per commuovere tutti i presenti.

Così, per sventare questo pericolo, Filippo aveva fatto comparire a proprio vantaggio un’altra figura suggestiva e del tutto inattesa: Roberto di Clermont, l’altro superstite fra gli undici figli del santo, il sesto, l’ultimo dei maschi. Visto che era necessaria la cauzione di San Luigi, il conte di Poitiers si era affrettato a procurarsela.

La presenza di Roberto, conte di Clermont, aveva qualcosa di miracoloso, anche perché l’ultima delle sue scarse comparse a corte risaliva a più di cinque anni prima; quasi nessuno ricordava più che egli fosse ancora vivo e chi accennava a lui lo faceva soltanto a bassa voce.

Il prozio Roberto era pazzo da quando, appena ventiquattrenne, aveva ricevuto un colpo di mazza sulla testa. Si trattava di una forma di pazzia furiosa ma saltuaria, con lunghi periodi di serenità che avevano permesso a Filippo il Bello di servirsi talvolta di lui per missioni a carattere decorativo. Il conte di Clermont non era infatti pericoloso per quello che diceva, anche perché parlava pochissimo, ma per quello che poteva fare. Le sue crisi scoppiavano infatti improvvise e lo scagliavano, con la spada in pugno, contro i suoi familiari, animato da un odio violento e da un’atroce furia omicida23. Era allora un ben penoso spettacolo vedere un signore di così nobile schiatta e di così bella apparenza (a sessantadue anni egli aveva ancora un aspetto maestoso) spaccare i mobili, tagliare a pezzi gli arazzi e inseguire le donne di servizio, scambiandole per i suoi avversari di torneo.

Il conte di Poitiers lo aveva fatto sedere sull’altro lato della predella, proprio di fronte al duca di Borgogna e nelle immediate vicinanze di una porta. Due colossali scudieri stavano poco distanti, pronti a bloccarlo al minimo allarme. Ed

egli volgeva intorno uno sguardo sprezzante, assente e annoiato, che sostava ogni tanto su un viso con la dolorosa inquietudine provocata da un ricordo troppo confuso, per spegnersi poi quasi subito. Tutti lo guardavano e si sentivano un po’ a disagio.

Accanto al demente sedeva suo figlio, Luigi I di Borbone, che era zoppo, cosa che gli aveva impedito di attaccare in battaglia, ma non di fuggire, come aveva dimostrato a Courtrai. Sciamannato, vigliacco e storpio, Borbone aveva però il cervello lucido, e lo aveva dimostrato anche stavolta schierandosi dalla parte di Filippo di Poitiers.

Da questo mirabile ceppo, debole nella testa e nelle gambe, doveva aver origine la lunga schiatta dei Borboni.

Così, in questa assemblea del 16 luglio 1316 si trovarono riuniti i tre rami capetingi che dovevano regnare sulla Francia nei cinque secoli seguenti. Le tre dinastie stavano l’una di fronte all’altra, chi ormai alla fine, chi ancora all’inizio: quella dei Capetingi diretti, che si sarebbe presto estinta con Filippo di Poitiers e con Carlo della Marche; quella dei Valois, che le sarebbe succeduta con il figlio di Carlo e che avrebbe portato sul trono tredici re; e quella dei Borboni, che sarebbe salita al trono soltanto all’estinzione dei Valois, quando ancora una volta sarebbe stato necessario risalire alla discendenza di san Luigi per scegliere il nuovo monarca. E ogni rottura di dinastia sarebbe stata accompagnata da guerre spossanti e disastrose.

Per una combinazione, come sempre sbalorditiva, fra le azioni degli uomini e gli imprevisti del destino, la storia della monarchia francese, con le sue grandezze e le sue tragedie, doveva partire proprio da quelle norme di successione che messer Mille di Noyers, legista, stava allora finendo di leggere.

Allineati sulle panche o appoggiati ai muri, i baroni, i prelati, i dottori del parlamento e i delegati della borghesia parigina avevano ascoltato con attenzione.

«Io ho un figlio; ho un figlio ed essi lo sapranno soltanto domani» pensava il conte di Poitiers, convinto di aver lavorato soltanto per se stesso e per il proprio rampollo. E si preparò a sostenere l’inevitabile attacco del duca di Borgogna. L’assalto venne invece da un’altra parte.

C’era un uomo, fra i presenti a questa assemblea, che niente poteva mettere a tacere, un uomo che non dava importanza al denaro col quale era stato pagato il suo appoggio, che non si lasciava impressionare dalla nobiltà del sangue essendo egli di grandissima famiglia, e che non cedeva alla forza fisica, potendo con le sue sole braccia mettere a terra un cavallo; un uomo sul quale nessun intrigo poteva far presa se non quelli che egli stesso architettava, e sul quale nemmeno lo

spettacolo della pazzia poteva fare impressione. Questo personaggio era Roberto d’Artois. E fu lui che, non appena Mille di Noyers ebbe finito di leggere, si alzò per attaccare battaglia, senza essersi messo d’accordo con nessuno.

Siccome quel giorno tutti facevano mostra della propria famiglia, Roberto d’Artois aveva portato con sé la madre, Bianca di Bretagna, una donnina dal viso sottile, dai capelli bianchi e dalle membra fragili, che pareva continuamente stupirsi di aver potuto dare alla luce un simile meraviglioso gigante.

Piantato sui suoi rossi stivali e con le dita infilate in una cintura d’argento, Roberto d’Artois incominciò:

— Sono davvero sbalordito, messeri, che ci si vengano a presentare nuove norme di successione, evidentemente preparate per l’occasione, quando ne esistevano altre, dettate dal nostro ultimo re.Tutti gli sguardi si volsero verso il conte di Poitiers e alcuni dei presenti si

domandarono inquieti se per caso Luigi X non avesse lasciato un testamento e se questo documento non fosse stato fatto scomparire.

— Non capisco, cugino — disse Filippo di Poitiers, — di quali norme voi vogliate parlare. Voi eravate presente all’agonia di mio fratello come molti altri signori che sono qui, ma nessuno mi ha mai detto che egli abbia espresso alcuna volontà su questa questione.— Perdonate, cugino — replicò Roberto in tono leggermente beffardo, — ma quando io dico «il nostro ultimo re» non voglio alludere a vostro fratello Luigi il Decimo, che Dio lo abbia in gloria!… ma a vostro padre, il nostro amatissimo sire Filippo… che Dio abbia in gloria anche lui! Ora il re Filippo aveva deciso, scritto, e fatto giurare dai suoi pari che, se lui fosse morto prima che suo figlio fosse arrivato a un’età tale da poter assumere il governo del paese, le funzioni di re e la carica di reggente sarebbero passate a suo fratello, monsignor Carlo, conte di Valois. Perciò, cugino, visto che da allora non è stata fissata alcuna nuova norma, credo sia questa quella che noi dobbiamo applicare.La piccola Bianca di Bretagna approvava con cenni del capo, sorrideva con la

sua bocca sdentata e volgeva intorno gli occhi lucidi e vivaci, per invitare i vicini ad approvare l’intervento di suo figlio. Ogni parola pronunciata da quel fracassone, ogni processo sostenuto da quell’attaccabrighe, ogni violenza, stupro o mascalzonata commessa da quel cattivo soggetto, venivano sempre da lei approvati e considerati belle manifestazioni di un prodigioso dinamismo. Ella ricevette, in questa occasione, il muto consenso, appena un battito di palpebre, del conte di Valois.

Filippo di Poitiers, leggermente chino sul bracciolo della propria poltrona, agitò leggermente la mano.

— Sono contento, Roberto, sono contento — disse — di vedere così pronto oggi a rispettare le volontà di mio padre, proprio voi che, quando lui era vivo, obbedivate con tanta mala voglia alle decisioni della sua giustizia. Evidentemente, cugino con l’età state diventando migliore! Ma, state tranquillo. È proprio la volontà di mio padre che noi abbiamo voluto rispettare. Non è vero, zio? — aggiunse poi rivolgendosi al conte d’Evreux.Luigi d’Evreux che da sei settimane assisteva esasperato alle manovre del

fratellastro Valois e del cognato d’Artois, non rinunciò al piacere di rimbeccarli.— Le norme che voi, Roberto, ci avete ricordato valgono per il principio cui si ispirano, ma non per la persona cui si riferiscono. Se infatti, fra cinquanta o cent’anni, la corona dovesse nuovamente trovarsi in un simile frangente, non ci si rivolgerà, io penso, a mio fratello Carlo per affidargli la reggenza del regno… anche se gli auguro di vivere molto a lungo. E insomma — proruppe poi, con un vigore inconsueto in un uomo tranquillo come lui, — Dio non ha creato Carlo perché egli si slanci su qualunque trono, non appena esso venga a trovarsi vacante. Se dunque la reggenza spetta al fratello maggiore del defunto re, la designazione di Filippo è a tutti ovvia, ed è per questo che l’altro giorno noi gli abbiamo reso omaggio. Vi prego pertanto di non rimettere in discussione problemi da tempo risolti.Chi credeva che queste parole sarebbero bastate a domare Roberto, lo

conosceva poco. Egli si fece avanti di due passi e abbassò leggermente il capo esponendo la nuca ai raggi del sole che penetravano attraverso le vetrate. La sua ombra si allungava minacciosa sul pavimento fino ai piedi del conte di Poitiers.

— Le disposizioni di re Filippo — continuò d’Artois — non dicevano nulla delle principesse, non le autorizzavano a rinunciare ai propri diritti e non permettevano alla Camera dei pari di decidere se esse fossero o meno atte a regnare.Queste parole suscitarono l’immediata approvazione dei signori di Borgogna, e

lo stesso Eudes esclamò:— Ben detto, cugino, stavo per alzarmi e dire anch’io le stesse cose.Di nuovo Bianca di Bretagna volse intorno i suoi occhietti vivaci. Intanto il

connestabile aveva incominciato ad agitarsi. Stava borbottando, segno questo, per chi lo conosceva bene, di un imminente scatto di collera.

— Da quando — continuò il duca di Borgogna alzandosi in piedi — si è introdotta questa novità nelle nostre leggi? Da ieri, immagino! Da quando in

qua le ragazze, in mancanza di maschi, devono essere private dei possedimenti e delle corone del proprio padre?Subito si alzò in piedi anche il connestabile.— Da quando, messer duca — disse poi con calcolata lentezza — una certa bimba non dà più al regno la garanzia di esser nata proprio da quel padre di cui si vorrebbe proclamarla erede. Sappiate una buona volta quello che tutti dicono e che lo stesso cugino Valois ci ha tante volte ripetuto in consiglio ristretto. La Francia è un paese troppo bello e troppo grande, messer duca, per potere, senza precisa deliberazione dei pari, affidarne la corona a una principessa di cui nessuno sa se ella è figlia di re o figlia di scudiero.Seguì una lunga, terribile pausa. Eudes di Borgogna era impallidito. Il suo

consigliere, Guglielmo di Mello, messogli accanto dalla duchessa Agnese, gli sussurrava all’orecchio parole che egli non udiva. Tutti pensarono che si sarebbe scagliato contro Gaucher di Châtillon che lo stava aspettando a piè fermo con il torso leggermente chinato in avanti e i pugni stretti. Anche se il connestabile aveva trent’anni più del suo avversario e se costui lo superava di un’intera testa, Gaucher non aveva paura di lui e da una lotta sarebbe uscito certamente vincitore. Il duca di Borgogna preferì dunque sfogare la propria ira a parole e rivolgersi a Carlo di Valois.

— Così siete stato voi, Carlo — esclamò, — voi che avete chiesto in moglie l’altra mia sorella per il vostro primogenito, a darvi tanto da fare per disonorare una morta?— Eh, compare — disse Valois, — se si parla di disonorare, vi garantisco che la regina Margherita - che Dio le perdoni i suoi peccati - non aveva bisogno del mio aiuto!E aggiunse sottovoce al connestabile:— Che bisogno avevate di fare il mio nome?— E voi, cognato? — continuò Eudes, prendendosela ora con Filippo di Valois. — Approvate anche voi gli insulti che si stanno rivolgendo alla mia famiglia?Filippo di Valois, che si trovava vicinissimo a lui, impacciato dalla sua alta

statura, e che cercava invano con gli occhi un consiglio del padre, si limitò ad alzare le braccia in un gesto d’impotenza e a dire:

— Dovete ammettere, fratello, che lo scandalo era clamoroso!L’assemblea incominciò ad agitarsi. Dal fondo della sala giungevano rumori di

dispute fra persone convinte che Giovanna fosse davvero bastarda e altre che credevano alla legittimità della sua nascita. Carlo della Marche, un po’ a disagio e

piuttosto pallido, teneva la testa bassa ed evitava gli sguardi altrui, come sempre faceva quando il discorso cadeva su questa vergognosa faccenda. «Margherita è morta ed è morto anche Luigi — pensava, — ma mia moglie Bianca è ancora viva e io continuo a portare sulla fronte i segni del mio disonore».

In questo stesso momento, il conte di Clermont, cui nessuno aveva più badato, incominciò ad agitarsi.

— Io vi sfido, Messeri, vi sfido tutti! — gridò l’ultimo figlio di san Luigi, balzando in piedi.— Più tardi, padre mio, più tardi andremo al torneo — disse Luigi di Borbone, che intanto faceva cenno ai due giganteschi scudieri di avvicinarsi e di tenersi pronti.Roberto d’Artois contemplava con un certo orgoglio il tumulto che le sue

parole avevano scatenato.E il duca di Borgogna, nonostante gli sforzi di Guglielmo di Mello che lo

esortava a indirizzare altrove la propria ira, continuava a urlare contro Carlo di Valois:

— Mi auguro anch’io, Carlo, che Dio perdoni a Margherita i suoi peccati, se pure ella ne ha mai commessi — disse; — ma non mi auguro affatto che Egli perdoni ai suoi assassini.— Voi date credito a menzognere calunnie, Eudes — replicò Valois. — Sapete bene che vostra sorella è morta di rimorsi nella sua prigione.Ma, a ogni buon conto, lanciò un’occhiata a Roberto d’Artois per accertarsi

che costui non si tradisse.Soltanto allora, quando ormai fra il conte di Valois e il duca di Borgogna era

venuta a crearsi una profonda inimicizia, tale da impedir loro, almeno per parecchio tempo, di far causa comune contro di lui, Filippo di Poitiers tese le mani come se desiderasse metter pace.

Ma Eudes non voleva saperne di pace: non era venuto li per questo, anzi!— Per quest’oggi ho sentito abbastanza insulti contro la Borgogna — disse. — E vi faccio sapere, cugino, che non vi riconosco come reggente e che sosterrò ancora davanti a tutti i diritti di mia nipote Giovanna.E, facendo cenno ai baroni borgognoni di seguirlo, egli abbandonò la sala.— Miei signori, messeri — disse il conte di Poitiers; — era precisamente questo che i nostri legisti avevano voluto evitare, rimandando a più tardi, se necessario, e al consiglio dei pari, l’incarico di decidere sulla eventuale ascesa al trono di una donna. Se infatti la regina Clemenza desse alla luce un maschio, tutte queste discussioni non avrebbero più ragione di essere.

Roberto d’Artois era sempre di fronte a Poitiers, con le mani ai fianchi.— Vedo, dunque, cugino — esclamò — che ormai, secondo le leggi di

Francia, viene messo in discussione il diritto di successione delle donne. Domando pertanto che mi venga restituita la contea d’Artois, indebitamente affidata a mia zia Mahaut, ben nota per aver corpo di femmina, come molti baroni qui presenti potrebbero testimoniare. E, finché non avrete reso giustizia alle mie richieste, io mi rifiuterò di comparire al vostro cospetto.

Dopo di che si diresse verso la porta laterale, seguito dalla madre che gli trotterellava dietro, orgogliosa di lui e di se stessa.

La contessa Mahaut fece un gesto verso Poitiers con l’aria di dirgli: «Ve l’avevo detto, io!»

Prima di uscire, Roberto, passando alle spalle del conte di Clermont, gli mormorò all’orecchio con estrema perfidia:

— Alle lance, cugino, alle lance!— Tagliate le funi! Urlate battaglia!24 — strillò Clermont, levandosi in piedi.— Porco maledetto, che il diavolo ti prenda — gridò Luigi di Borbone a Roberto.E poi, rivolgendosi al padre:— Rimanete ancora con noi. Le trombe non hanno ancora suonato.— Ah, non hanno ancora suonato? Ebbene, che suonino. Si sta facendo tardi — disse Clermont.E aspettava con lo sguardo immoto e con le braccia larghe.Zoppicando, Luigi di Borbone si avvicinò al conte di Poitiers e lo invitò

sottovoce ad affrettare le cose. Filippo approvò con un cenno del capo.Allora Borbone ritornò presso l’infermo e gli prese la mano dicendo:— L’omaggio, padre; è il momento.— Ah, sì, l’omaggio!Poi lo zoppo accompagnò il folle e insieme attraversarono la predella.— Messeri — disse Luigi di Borbone: — ecco qui mio padre, il più vecchio dei discendenti di San Luigi, che approva le norme fissate in ogni particolare, riconosce messer Filippo come reggente e gli giura fedeltà.— Sì, Messeri, sì… — disse Roberto di Clermont.Filippo sudava freddo: temeva per quello che il prozio avrebbe potuto dirgli.

«Mi chiamerà Signora e chiederà la mia sciarpa».Ma Clermont continuava il suo discorso.— Vi riconosco, Filippo, come il più indicato per diritto e come il più saggio. Che l’anima santa di mio padre vegli dal cielo su di voi e vi aiuti a mantenere

la pace nel regno e a difendere la nostra santa fede.Un movimento di felice sorpresa percorse i presenti. Ma che aveva in testa

quest’uomo che passava così, senza transizione, dalla follia alla ragione, dal ridicolo al sublime?

Roberto di Clermont s’inginocchiò con estrema lentezza e con estrema solennità davanti al pronipote e tese le mani; quando si alzò e si voltò, dopo l’abbraccio, i suoi enormi occhi azzurri erano pieni di lacrime.

Tutta l’assemblea si levò in piedi e tributò una lunga ovazione ai due principi.Filippo venne così riconosciuto reggente da tutto il regno, eccezion fatta per

una provincia, la Borgogna, e per un uomo, Roberto d’Artois.

XI • I FIDANZATI GIOCANO A RINCORRERSI

Le grandi assemblee baronali avevano almeno un punto in comune con

le moderne conferenze diplomatiche internazionali. Il partecipante che aveva abbandonato con grande fragore la sala della seduta, per protestare contro una decisione da lui giudicata iniqua, era pronto ad accettare, beninteso se qualcuno lo avesse un pochettino pregato, di cenar poi alla stessa tavola dei suoi avversari. Così fece anche il duca di Borgogna, cui Filippo aveva inviato un messaggero per esprimergli il proprio rammarico per l’incidente di quel mattino, rinnovargli espressioni di affetto e ricordargli quanto egli desiderasse la sua presenza al banchetto.

La cena era stata organizzata nel castello di Vincennes, le cui condizioni il reggente aveva voluto esaminare prima di restituirlo a Clemenza, e dove aveva fatto portare tutti i mobili indispensabili al convito. La corte dunque si trasferì qui e si sedette, davanti a tavole coperte da grandi tovaglie bianche, fra l’alto e il basso vespro, vale a dire verso le cinque del pomeriggio.

La presenza del duca di Borgogna rendeva ancor più clamorosa l’assenza di Roberto d’Artois.

— Mio figlio si è sentito male appena uscito da palazzo — disse Bianca di Bretagna — perché le cose che egli vi aveva udito lo hanno sconvolto.— Davvero Roberto si è sentito male? — disse Filippo di Poitiers. — Mi auguro che non abbia nulla di grave; e mi tranquillizza molto il veder voi per niente inquieta.Nessuno invece si meravigliò per l’assenza del conte di Clermont, che suo

figlio si era affrettato a riaccompagnare alla propria dimora subito dopo l’omaggio. Anzi tutti si congratularono con il duca di Borbone per la bella impressione che suo padre aveva suscitato, deplorando che la malattia di costui — nobile malattia del resto, in quanto prodotta da una ferita in battaglia — non gli permettesse di partecipare con maggiore assiduità al governo del regno.

Il pasto si apri dunque in un’atmosfera di relativo buon umore. Il connestabile era stato sistemato un po’ lontano dal duca di Borgogna e i due evitavano perfino di guardarsi. E Valois poteva arringare tranquillamente i suoi fedeli.

L’aspetto più strano di questa cena era costituito dal numero dei bimbi presenti. Eudes di Borgogna aveva infatti posto come condizione per la sua presenza che vi assistesse anche la nipote Giovanna di Navarra, a parziale risarcimento delle offese che le erano state fatte nel corso dell’assemblea. E così il conte di Poitiers aveva voluto portare con sé le tre figlie, il conte d’Evreux il figlio e la figlia che avevano ancora l’età in cui si gioca con le marionette, il delfino del Viennese il piccolo Gigues, fidanzato con la terzogenita del reggente, il conte di Valois gli ultimi rampolli nati dalle sue più recenti nozze e il duca di Borbone i suoi tre bimbi… C’era anche una gran confusione di nomi; le Bianche e le Isabelle, i Carli e i Filippi pullulavano; bastava che qualcuno gridasse «Giovanna!» perché sei teste si volgessero contemporaneamente.

Tutti questi cugini erano destinati a sposarsi fra loro, per giovare agli intrighi politici dei rispettivi genitori, i quali a loro volta si erano sposati nello stesso modo, sempre secondo stretti rapporti di consanguineità. Quante dispense si sarebbero dovute chiedere al papa per far prevalere gli interessi territoriali sulle leggi religiose e sulle più elementari precauzioni eugenetiche! Quanti altri zoppi e quanti altri pazzi sarebbero nati! La sola differenza fra la famiglia di Adamo e quella di Capeto era che in quest’ultima si evitava, se non altro, di riprodursi tra fratello e sorella.

Il delfinetto e la sua fidanzata, la piccola Isabella di Poitiers che presto avrebbe preso il nome di Isabella di Francia, mostravano una commovente concordia. Essi mangiavano dallo stesso piatto, e il delfinetto sceglieva per la futura sposa i pezzi più squisiti dell’intingolo d’anguilla, frugando meticolosamente nella salsa, e glieli infilava di forza in bocca, insudiciandole tutta la faccia. Gli altri bambini li guardavano con invidia: Gigues e Isabella erano già una coppia. Presto avrebbero avuto, nel palazzo del reggente, il loro piccolo appartamento, con, ai loro ordini, valletto a cavallo, valletto a piedi e cameriere.

Giovanna di Navarra invece non mangiava nulla. Tutti sapevano che ella era presente a quel banchetto solo per imposizione di Eudes e, essendo i bambini sempre pronti a intuire i sentimenti dei propri genitori e a esagerarne le manifestazioni, i cugini di quella sventurata orfanella non le badavano affatto. Giovanna era inoltre la più piccola, avendo soltanto cinque anni. E, pur essendo bionda, incominciava ad assomigliare molto alla madre Margherita di Borgogna, di cui ripeteva la fronte convessa e gli zigomi rilevati. Bambina solitaria, che non

aveva mai imparato a giocare e che viveva sola in mezzo ai domestici nelle sinistre stanze del palazzo di Nesle, ella non aveva mai visto tanta gente in una sola volta, né udito tante grida, e contemplava meravigliata e spaventata quei fiumi di vettovaglie continuamente portate sulle immense tavole per il nutrimento di tanti voraci mangiatori. Ella capiva che nessuno le voleva bene, sapeva che se avesse fatto una domanda nessuno le avrebbe risposto; e, per quanto ancora bambina, era abbastanza intelligente e talmente assennata da ripetersi continuamente: «Mio padre era re, mia madre era regina; essi sono morti e più nessuno mi rivolge la parola». Ella non avrebbe mai scordato la cena di Vincennes. Man mano che i toni di voce divenivano più rumorosi e le risate più frequenti, aumentava sempre più la tristezza della piccola Giovanna, la solitudine di quella bimba in un banchetto di giganti. Luigi d’Evreux, che da lontano la sentiva prossima a scoppiare in lacrime, ordinò al figlio:

— Filippo, occupati un poco di tua cugina Giovanna!25

Il piccolo Filippo cercò allora di imitare il delfinetto e le infilò in bocca un pezzo di storione con sugo d’arancia, ma lei, cui evidentemente il boccone offertole non piaceva, lo sputò immediatamente sulla tovaglia.

Poi, mentre i coppieri servivano il vino, gli adulti incominciarono a capire che presto tutta quella marmaglia vestita di broccato si sarebbe sentita male e, ancor prima della sesta portata, li mandarono a giocare in giardino. Capitò dunque a quei figli di re quello che capita a tutti i bambini nei pranzi solenni; furono cioè privati dei loro piatti preferiti, chicche, torte e frutta.

Appena finito il banchetto, Filippo di Poitiers prese sotto braccio il duca di Borgogna, e gli disse che intendeva parlare con lui da solo a solo.

— Andiamo a mangiare i confetti per conto nostro, cugino. E venite anche voi, zio — aggiunse rivolgendosi al conte di Evreux. — E anche voi, messer di Mello.Egli fece passare i tre uomini in un salottino adiacente e, mentre i camerieri

servivano loro vino zuccherato e confetti, Poitiers incominciò ad esporre al duca di Borgogna la sua volontà di giungere a un accordo nonché i vantaggi delle norme di reggenza da lui ispirate.

— Sapevo benissimo che attualmente sono tutti piuttosto eccitati — disse; — ed è per questo che ho voluto rimandare le decisioni definitive alla maggiore età di Giovanna. Ci vogliono dunque ancora dieci anni, e voi sapete meglio di me che in dieci anni possono cambiare tante cose, non foss’altro che per la possibile morte di alcuni dei più tenaci assertori di opinioni a voi troppo sfavorevoli. Ero dunque convinto di aver agito nel vostro interesse e ritengo che

non abbiate saputo interpretare bene le mie intenzioni. Così, visto che ben difficilmente potrete per ora mettervi d’accordo con Valois, vi consiglio di aprire piuttosto trattative dirette con me.Il duca di Borgogna ascoltava accigliato: egli non era molto intelligente e aveva

sempre paura di essere ingannato, cosa questa che gli accadeva di frequente. La duchessa Agnese, che non si lasciava davvero accecare dall’amore materno, giudicava il figlio al suo giusto valore e, prima che egli partisse, gli aveva rivolto precise raccomandazioni.

— Sta’ attento a non lasciarti imbrogliare. Parla solo dopo averci pensato bene e, se non riesci a pensare, sta’ zitto e lascia parlare messer di Mello, che è molto più accorto di te.Eudes di Borgogna, pur avendo ormai trentacinque anni ed essendo investito

del titolo e delle funzioni di duca, viveva ancora sotto l’incubo della madre e pensava soltanto a come giustificarsi davanti a lei. Perciò non osò rispondere direttamente alle proposte di Filippo.

— Mia madre, cugino, vi ha fatto pervenire una lettera, nella quale ella vi diceva… che cosa diceva quella lettera, messer di Mello?— La signora Agnese chiedeva che la signora Giovanna di Navarra fosse affidata alla sua custodia, ed è molto meravigliata, Monsignore, che voi non le abbiate ancora risposto.— Ma come avrei potuto, cugino? — replicò Filippo, rivolgendosi sempre a Eudes, come se Mello fosse semplicemente una sorta di interprete fra loro due. — È una decisione che solo un reggente può prendere, quindi soltanto oggi io sono in grado di accoglierla. Chi vi dice, cugino, che io non voglia acconsentire? Pensavo, anzi, che voi avreste potuto portare con voi vostra nipote, tornando a casa.Il duca, sorpreso nel vedere Filippo così pronto a condiscendere alle sue

pretese, gettò un’occhiata a Mello con l’aria di dirgli: «Mi sembra proprio che con costui ci si possa mettere d’accordo!»

— A condizione, cugino — continuò il conte di Poitiers — a condizione, s’intende, che vostra nipote non possa sposarsi senza il mio consenso. Le ragioni sono ovvie: questo matrimonio riguarderebbe troppo da vicino la corona e voi non potreste fare a meno della nostra autorizzazione per dar marito a una ragazza che può diventare un giorno la regina di Francia.La seconda parte della frase permise a Eudes di accettare la prima. Il duca di

Borgogna credette che Filippo intendesse davvero dare la corona a Giovanna, qualora la regina Clemenza non avesse partorito un maschio.

— Certo, certo, cugino — disse. — Su questo siamo perfettamente d’accordo.— E allora, visto che non abbiamo più alcun motivo di dissenso, potremmo anche mettere qualcosa per iscritto — rispose Filippo.E mandò subito a chiamare Mille di Noyers, l’uomo più adatto a redigere

trattati di questo tipo.— Messer Mille — disse poi, non appena il legista fu arrivato; — vi prego di scrivere queste parole: «Noi, Filippo, pari del regno e conte di Poitiers, per grazia di Dio reggente di Francia e di Navarra, e il nostro amatissimo cugino, il magnifico e potente signore Eudes IV, pari di Francia e duca di Borgogna, giuriamo sulle Sacre Scritture di stabilire mutui rapporti di rispetto e di reciproca amicizia…» Questo è il concetto, messer Mille, ci penserete poi voi a metterlo per iscritto… «E per questa amicizia che ci siamo vicendevolmente giurata, noi abbiamo deciso in perfetto accordo che la signora Giovanna di Navarra…»Guglielmo di Mello mormorò qualcosa all’orecchio del duca, il quale comprese

così che Filippo stava cercando di metterlo sotto.— Ma, scusate, cugino — esclamò; — mia madre non mi ha autorizzato a riconoscervi come reggente!La discussione era così giunta a un punto morto: Filippo avrebbe rinunciato

alla custodia della bimba soltanto se il duca avesse riconosciuto i suoi diritti alla carica di reggente. Era perfino pronto a garantire a Giovanna i suoi diritti sulla Navarra, la Sciampagna e la Brie. Ma l’altro teneva duro, e rifiutava un accordo sulla reggenza senza un preciso impegno in merito alla futura destinazione della corona.

«Se non ci fosse quel Mello, che è tutt’altro che stupido — pensava il conte di Poitiers, — Eudes avrebbe già ceduto». Quindi Filippo si finse stanco, distese le lunghe gambe, accavallò i piedi uno all’altro e si sfregò il mento.

Luigi d’Evreux lo guardava, chiedendosi come se la sarebbe cavata suo nipote. «Prevedo un imminente raduno di lance dalle parti di Digione» pensava quel saggio. E già stava per intervenire e consigliare a Filippo di cedere sul problema della corona, quando costui domandò improvvisamente al Borgognone:

— Vediamo un po’ cugino, non avreste voglia di ammogliarvi?L’altro lo guardò stupito, pensando, anche perché non era molto intelligente,

che Filippo intendesse farlo fidanzare con Giovanna di Navarra.— Visto che noi ci siamo giurata eterna amicizia — continuò Filippo, come se non esistesse più fra loro alcun motivo di dissenso — e che voi con questo, cugino, venite a darmi un solido aiuto, vorrei fare anch’io, a mia volta, qualcosa

per voi e sarei contento di rinforzare i nostri legami d’affetto con una più stretta parentela. Cosa ne direste di prendere in moglie la mia primogenita, Giovanna?Eudes IV volse gli occhi su Mello, poi su Luigi d’Evreux e infine su Mille di

Noyers che era sempre in attesa, pronto a scrivere quello che gli avrebbero chiesto.

— Ma, cugino, quanti anni ha? — chiese.— Otto, cugino — rispose Filippo. E aggiunse, dopo una breve pausa: — Potrebbe anche ereditare dalla madre la contea di Borgogna.Eudes sollevò il capo, come un cavallo che sente l’odore della stalla. La

riunione delle due Borgogne, il ducato e la contea, era un’antica aspirazione della famiglia ducale, fin dal tempo di Roberto I, nipote di Ugo Capeto. Fondere la corte di Dôle con quella di Digione, unire i territori che andavano da Auxerre a Pontarlier e da Mâcon a Besançon, avere una mano in Francia e una nel Sacro Romano Impero (la contea di Borgogna era infatti contea palatina), questo miraggio poteva dunque diventare realtà? I Borgognoni potevano ricominciare a sognare di ricostituire, a proprio vantaggio, l’impero di Carlomagno.

Luigi d’Evreux non poté esimersi dall’ammirare l’audacia del nipote: in una partita che pareva ormai perduta egli aveva saputo fare un formidabile rilancio. Ma, esaminandolo con attenzione, il ragionamento di Filippo era abbastanza chiaro: praticamente egli rinunciava soltanto alle terre di Mahaut. avevano dato a lei l’Artois, a spese di Roberto, perché ella cedesse la contea, la quale era finita a Filippo, come dote nuziale, per permettergli di pretendere alla corona imperiale. Ma ora Filippo aspirava al trono di Francia, o almeno alla reggenza per altri dieci anni: la contea, quindi, non gli interessava più, a condizione naturalmente che questa finisse a un suo vassallo, qual era appunto Eudes.

— Potrei vedere la vostra signora figlia? — domandò il duca senza esitare e senza più pensare di chiedere il parere di sua madre.— L’avete vista poco fa, cugino, al banchetto.— Sì, certo, ma non l’ho osservata bene… voglio dire che non l’ho guardata da questo punto di vista.Il conte di Poitiers mandò dunque a chiamare la sua primogenita, che stava

giocando a rincorrersi con le sorelle e con gli altri bambini26.— Chi mi cerca? lasciatemi giocare — disse la bambina che stava inseguendo il delfinetto nella zona delle scuderie.— È Monsignor vostro padre che ha bisogno di voi — le fu risposto.Ella fece così appena in tempo ad agguantare il piccolo Gigues toccandolo sulla

spalla e seguì immusonita e malcontenta il ciambellano che era venuto a

chiamarla.Così, tutta ansimante, con le guance madide di sudore, i capelli scompigliati e

l’abito di broccato coperto di polvere, ella si presentò al cugino Eudes che aveva ventisette anni più di lei. Era una ragazzina né bella né brutta, ancora un po’ troppo magra e ben lontana dal pensare che in quel momento il suo destino faceva tutt’uno con quello della Francia… Ci sono dei bambini sul cui volto si vede con un certo anticipo l’aspetto che essi avranno da adulti; nel volto di costei, invece, non si vedeva nulla, se non, in filigrana, la contea di Borgogna.

Una provincia è una bella cosa, ma bisogna che la moglie non sia deforme. «Se ha le gambe diritte l’accetto» pensava il duca di Borgogna. Egli era l’uomo più adatto a diffidare di questo tipo di sorprese, in quanto la sua sorella minore, che era stata appioppata a Filippo di Valois, era leggermente zoppa27. E certo questo difetto aveva influito sull’attuale ostilità dei Valois verso la Borgogna. Il duca domandò quindi, senza che la sua richiesta sorprendesse i presenti, che si sollevasse la gonna della bimba per vedere come erano fatte le sue gambe. La piccola aveva cosce e polpacci sottili, come suo padre, ma l’osso era diritto.

— Avete ragione, cugino — disse il duca. — Sarebbe questo un modo eccellente di suggellare la nostra amicizia.— Che vi dicevo io? — disse Poitiers. — Non è meglio questo che continuare a litigare? D’ora in avanti vi considererò mio genero.E gli apri le braccia: il genero aveva dodici anni più del suocero.— E adesso, figlia mia, date un bacio al vostro fidanzato — ordinò Filippo alla bimba.— Ah, è il mio fidanzato? — domandò costei.Ne era tutta inorgoglita.— Oh! — replicò: — è ancor più grande del delfinetto!«Ho fatto bene il mese scorso — pensava Filippo — a dare al delfino la mia

terza figlia, e a tenermi questa che poteva ereditare la contea!»Il duca di Borgogna dovette prendere fra le braccia la futura sposa perché ella

potesse stampargli un umido bacio sulle gote; poi la piccola si precipitò in cortile, dove annunciò fieramente agli altri bimbi:

— Mi sono fidanzata!Tutti smisero di giocare.— E non ho un fidanzatino come il tuo — disse alla sorella, indicandole il delfinetto. — Il mio è grande come nostro padre.E rivolgendosi alla piccola Giovanna di Navarra che se ne stava in disparte

piuttosto imbronciata:

— Adesso diventerò tua zia — disse.— E perché mia zia? — chiese la piccola orfana.

— Perché sposerò tuo zio Eudes.Una delle figlie minori del conte di Valois, che aveva soltanto sette anni ma che

già era avvezza a riferire tutto quello che sentiva, si precipitò nel castello dove suo padre stava complottando con Bianca di Bretagna e con altri notabili del suo partito e gli comunicò questa notizia. Carlo si alzò in piedi rovesciando la sedia, e si diresse a testa bassa verso la stanza dove si trovava il reggente.

— Oh, caro zio, siate il benvenuto — esclamò Filippo di Poitiers. — Stavo proprio per mandarvi a chiamare e chiedervi di fare da testimonio al nostro accordo.E gli tese il documento che Mille di Noyers aveva terminato di redigere con

questa frase:«… per firmare qui con tutti i nostri parenti gli accordi che noi abbiamo

concluso con il nostro amato cugino di Borgogna e per attestare che siamo completamente d’accordo su ogni punto preso in esame».

Triste settimana davvero per l’ex-imperatore di Costantinopoli, che non poté far altro che eseguire. Dopo di lui, Luigi d’Evreux, Mahaut d’Artois, il delfino del Viennese, Aimé di Savoia, Carlo della Marche, Luigi di Borbone, Bianca di Bretagna, Guido di Saint-Pol, Enrico di Sully, Guglielmo d’Harcourt, Anseau di Joinville e il connestabile Gaucher di Châtillon aggiunsero le proprie firme in calce a quel documento.

Il sole stava tramontando sul castello di Vincennes. La terra e gli alberi erano ancora impregnati del calore di luglio. Gli ospiti se n’erano già andati quasi tutti.

Il reggente andò a fare una piccola passeggiata sotto le querce, accompagnato dai suoi amici più fidati, quelli che lo avevano seguito fin da Lione e che avevano collaborato al suo trionfo. Scherzarono un poco sull’albero di San Luigi, che nessuno sapeva indicare con esattezza. Improvvisamente il reggente disse:

— Messeri, sono proprio contento; oggi la mia cara sposa ha dato alla luce un figlio.

E respirò profondamente, pieno di gioia e di entusiasmo, come se l’aria del regno di Francia appartenesse tutta a lui. Quindi si sedette sull’erba. Era appoggiato a un albero e stava contemplando il frastagliamento delle foglie sotto quel cielo color rosa, quando arrivò Gaucher di Châtillon. Il connestabile era nuovamente furioso.

— Sono venuto, Monsignore, a comunicarvi una brutta notizia.— Di già? — disse il reggente.

— Il conte Roberto è partito or ora per l’Artois.

PARTE SECONDA

L’ARTOIS E IL CONCLAVE

I • L’ARRIVO DEL CONTE ROBERTO

Una dozzina di cavalieri, provenienti da Doullens e guidati da un gigante

che indossava una cotta d’arme color rosso sangue, attraversarono al galoppo il villaggio di Bouquemaison, fermandosi sul punto più alto della strada. Il panorama che di là si poteva ammirare comprendeva un vasto altopiano coltivato a frumento, fitto di piccole valli e di faggeti e lentamente digradante fino a un lontano orizzonte di foreste.

— Qui incomincia l’Artois, Monsignore — disse uno dei cavalieri, il sire di Varennes, al capo della comitiva.— La mia contea! — disse il gigante. — Ecco finalmente la mia contea, la bella terra che da quattordici anni non ho più calpestato!Il silenzio meridiano pesava sulle campagne bruciate dal sole. Si udiva soltanto

l’ansimare dei cavalli e il ronzio dei calabroni inebriati dall’arsura.Roberto d’Artois smontò dal proprio cavallo, gettandone le redini al fedele

Lormet, si arrampicò sulla scarpata ed entrò nel campo più vicino. I suoi compagni erano rimasti immobili, per rispetto alla sua solitudine e alla sua gioia. Roberto avanzava a passi da gigante attraverso le spighe dorate, che gli arrivavano alle cosce, e le accarezzava come si accarezza il mantello del cavallo preferito o i capelli di una bionda amante.

— La mia terra, il mio grano! — ripeteva.I suoi uomini lo videro gettarsi a terra, distendervisi, avvoltolarvisi, rotolandosi fra le spighe come se volesse confondersi ad esse: egli vi mordeva dentro rabbiosamente, per ritrovare il gusto lattiginoso del chicco di grano un mese prima della mietitura; non si accorgeva nemmeno che le reste del frumento gli stavano scorticando il viso. L’azzurro cielo, la terra secca, il profumo degli steli calpestati lo inebriavano: da solo egli provocava tanti danni quanti un branco di cinghiali. Finalmente si levò in piedi, inorgoglito e ammaccato. E tornò dai suoi compagni tenendo in mano un fascio di spighe.

— Lormet — ordinò al valletto: — slacciami la cotta, e toglimi la broigne28.Dopo di che egli infilò quel fascio di grano sotto la camicia, proprio sulla pelle.— Giuro davanti a Dio, Messeri — proclamò a gran voce, — che non mi toglierò queste spighe dal petto, se non dopo aver riconquistato la mia contea, fino all’ultimo campo e fino all’ultimo albero. E ora, alla guerra!Rimontò in sella e lanciò il proprio cavallo al galoppo.— Non ti pare, Lormet — urlava nell’impeto della corsa, — che qui la terra sotto gli zoccoli dei cavalli rimandi un suono migliore?— È così, Monsignore, è così — ribatté quell’assassino dal cuore gentile, che condivideva sempre le opinioni del padrone e lo trattava con l’amorevolezza di una balia. — Ma la vostra cotta è affibbiata male; rallentate un poco perché io possa rassettarvi.Procedettero così per un poco. Poi la strada prese a digradare e Roberto scoprì

una mostruosa massa di corazze allineate in un prato e scintillanti sotto il sole: un esercito di milleottocento cavalieri, venuti lì per dargli il benvenuto. Mai aveva sperato di poter incontrare tanti suoi partigiani.

— Oh, Varennes! Hai fatto proprio un buon lavoro, amico mio! — esclamò sorpreso.Intanto i cavalieri d’Artois lo avevano riconosciuto e dalle loro fila si levò un

grido possente:— Benvenuto il nostro conte Roberto! Lunga vita al nostro sire!I più entusiasti spinsero i propri cavalli a incontrarlo; si udiva un cozzare di ginocchiere d’acciaio e si vedevano le lance oscillare come un campo di grano.— Oh, ecco qui Caumont! E Souastre! Vi riconosco dagli scudi, camerati! — gridava Roberto.Sollevate le visiere dei caschi, i cavalieri mostravano volti madidi di sudore, ma

eccitati dal piacere della guerra. Molti di quei signorotti di campagna indossavano vecchie armature fuori moda, ereditate da un padre o da uno zio, e adattate alla peggio alle loro misure: lavoro evidentemente fatto in casa. Per questo essi prima di sera avrebbero avuto le giunture indolenzite e il corpo coperto di piaghe sanguinanti; e per lo stesso motivo ognuno di loro aveva nei propri bagagli un vasetto d’unguento preparatogli dalla moglie e delle fasce di tela per medicarsi.

Roberto aveva così davanti agli occhi un campionario della moda militare dell’ultimo secolo, con tutti i tipi di elmi e di cervelliere; molti di quei giachi e di quegli spadoni avevano partecipato alle crociate. Coloro che avevano maggiori pretese d’eleganza si erano impennacchiati con piume di gallo, di fagiano o di pavone; altri invece si erano messi in testa un drago dorato e uno era arrivato ad

avvitare sul proprio cappelletto di ferro ima donna nuda che attirava gli sguardi di tutti.

Ognuno aveva verniciato di fresco i piccoli scudi in cui brillavano a colori vivaci gli stemmi di famiglia, semplici o complessi, a seconda del grado di anzianità nella cavalleria; le insegne più semplici appartenevano naturalmente alle famiglie di più antica nobiltà.

— Ecco Saint-Venant, Longvillers, Nédonchel — diceva Giovanni di Varennes, presentando a Roberto i cavalieri.— A voi fedele, Monsignore, a voi fedele — diceva ciascuno appena il suo nome veniva pronunciato.— Fido Nédonchel… fido Bailiencourt… fido Picquigny…

— rispondeva Roberto passandoli in rivista.Ad alcuni giovanetti, tutti impettiti e orgogliosi di portar corazza per la prima

volta in vita loro, Roberto promise di armarli lui stesso cavalieri, qualora si fossero comportati valorosamente negli imminenti scontri.

Decise inoltre di nominare immediatamente due marescialli, proprio come per l’esercito del re. Scelse prima di tutti il sire di Hautponlieu, che aveva lavorato indefessamente a radunare quei chiassosi cavalieri.

— E poi nominerò… vediamo un po’… te, Beauval! — continuò Roberto. — Il reggente ha un Beaumont per maresciallo e io avrò un Beauval2.E quei baronetti, molto amanti dei giochi di parole e delle freddure,

acclamarono ridendo Giovanni di Beauval che doveva dunque la propria carica nient’altro che al cognome.

— E ora, Monsignor Roberto — disse Giovanni di Varennes, — dove volete andare? Andiamo prima a Saint-Pol o ad Arras? L’Artois è interamente ai vostri comandi, scegliete voi la strada che intendete percorrere.— Qual’è la via che porta a Hesdin?— Proprio questa, Monsignore, che passa anche per Frévent.— E allora, andiamo prima al castello dei miei padri.I cavalieri si mostrarono un po’ preoccupati. Era un peccato che il conte d’Artois, appena arrivato, volesse recarsi subito a Hesdin.— Il fatto è, Monsignore… — disse Souastre, quello che portava sull’elmo una donna nuda — … il fatto è che il castello non è in condizioni di accogliervi.— Ma come? È ancora occupato da quel messer di Brosse che aveva mandato qui mio cugino il Testardo?

— No, no, Giovanni di Brosse lo abbiamo fatto scappare; ma abbiamo messo anche un po’ sossopra il castello.

— Messo sossopra? — disse Roberto. — Non l’avrete per caso incendiato?— No, Monsignore, no; i muri sono al loro posto.— Ma l’avete un po’ messo a sacco, non è così, amici miei? Eh, se è solo per questo, avete fatto benissimo. Tutto ciò che appartiene a Mahaut la briccona, a Mahaut la troia, a Mahaut la puttana, è vostro, Messeri; sono io che ve ne nomino eredi.Come non voler bene a un signore così generoso? Gli alleati urlarono di nuovo

che auguravano lunga vita al loro amatissimo conte Roberto e l’esercito ribelle si mise in marcia verso Hesdin.

Verso la fine del pomeriggio, i cavalieri arrivarono davanti alle quattordici torri della cittadella dei conti d’Artois, dove soltanto il castello occupava un’area, davvero eccezionale, di dodici «misure», quanto a dire di quasi cinque ettari.

Quante imposte, quante fatiche, quanto sudore era costato alla povera gente dei dintorni quel favoloso edificio destinato, secondo i pretesti avanzati dai feudatari, a proteggere il popolo dagli orrori della guerra! Di guerre ne passavano parecchie per quelle zone, ma la protezione non era certo molto efficace e, siccome il castello costituiva sempre la principale posta in palio, la gente di fuori preferiva rintanarsi nelle proprie case d’argilla e di paglia e pregare Dio che la valanga non li travolgesse.

Non c’era molta gente nelle strade a far festa al conte Roberto. Gli abitanti, ancora spaventati per il saccheggio dei giorni innanzi, se ne stavano nascosti. I più prudenti erano sbucati fuori dai nascondigli per schiamazzare un poco, ma i loro applausi non erano molto calorosi.

I dintorni del castello non presentavano un aspetto molto accogliente: la guarnigione reale, appesa ai merli, incominciava a puzzare; alla porta principale, la cosiddetta Porta dei Polli, il ponte levatoio era abbassato, e l’interno mostrava uno spettacolo desolante: nei cellieri il vino colava dalle botti squarciate e quasi ovunque giacevano cadaveri di animali da cortile. Dalle stalle giungevano i muggiti delle mucche non più munte e sui mattoni che pavimentavano i cortili interni, e che costituivano per quei tempi una non comune raffinatezza, grosse pozze di sangue disseccato permettevano di indovinare la storia del recente massacro.Le case d’abitazione della famiglia d’Artois comprendevano cinquanta

appartamenti, nessuno dei quali era stato risparmiato dagli alleati di Roberto. Tutto quello che non era stato portato via per andare ad abbellire i manieri dei dintorni, essi lo avevano fatto a pezzi sul posto.

Era sparita dalla cappella la grande croce di argento dorato, nonché il busto di

San Luigi che comprendeva un frammento d’osso e qualche capello del re. Era sparito il calice d’oro, di cui si era appropriato Ferry di Picquigny e che sarebbe stato ritrovato più tardi, rivenduto da lui, nella bottega di un commerciante parigino. Ed erano stati portati via i dodici volumi della biblioteca e lo scacchiere di diaspro e di agata. I baroni avevano anche preso gli abiti, le vestaglie e la biancheria di Mahaut per farne dono alle loro belle, preparandosi così calde notti di gratitudine. Perfino dalle cucine erano state sottratte e asportate ingenti scorte di pepe, zenzero, zafferano e cannella…29

I pavimenti erano cosparsi di cocci e di broccati fatti a pezzi; e le stanze erano ridotte ad ammassi di letti sfondati, di mobili fracassati e di arazzi ridotti in brandelli. I capi della rivolta seguivano Roberto leggermente confusi; ma, man mano che procedeva nella sua visita, il gigante scoppiava in risate talmente fragorose e sincere da toglier loro qualsiasi motivo di preoccupazione.Nella stanza degli scudi Mahaut aveva fatto mettere, addossate ai muri, alcune

statue di pietra che rappresentavano i conti e le contesse d’Artois dalle origini fino alla stessa Mahaut. Tutti quei visi si assomigliavano forse un po’ troppo ma l’insieme non mancava di imponenza.

— Come vedete, Monsignore — disse Picquigny, che aveva già parecchie colpe sulla coscienza — qui non abbiamo toccato nulla.— E avete fatto male, amico mio — rispose Roberto. — Tra queste statue ne vedo infatti almeno una che non mi piace per niente. Lormet, la mazza!E, afferrata la pesante mazza d’arme che il servitore gli porgeva, la fece roteare

tre volte sopra la testa e se ne valse per colpire con tutta la sua forza il simulacro di Mahaut, La statua vacillò sul suo piedestallo e la testa, staccatasi dal collo, andò a rotolare sul pavimento.

— Che capiti lo stesso alla vera testa di quella maledetta, dopo che tutti gli alleati d’Artois le avranno pisciato addosso a fontana — esclamò Roberto.Chi incomincia a fracassare e ci prova un certo piacere, trova poi difficile

smettere; per questo ora il gigante vestito di scarlatto sentiva il desiderio di adoperare nuovamente quella mazza.

— Ah, mia schifosissima zia — disse; — voi avete potuto portarmi via l’Artois perché questo individuo che mi ha generato…E fece volar via la testa anche alla statua di suo padre, il conte Filippo.— … ha fatto la sciocchezza di morire prima di quest’altro…E decapitò il nonno, il conte Roberto II.— … e io dovrei forse vivere fra queste statue che voi avete ordinato per vantarvi di un onore cui non avevate alcun diritto? Giù, giù! antenati miei;

dobbiamo ricominciare da capo e non con denaro rubato.Tremavano i muri e i pavimenti erano ingombri di frammenti di pietra. I

baroni d’Artois tacevano, col fiato mozzo, davanti a questo grande scoppio di collera, che essi consideravano quasi una lezione sull’arte della violenza. Non era evidentemente possibile esimersi dall’obbedire con tutte le proprie forze a un capo così entusiasmante!

Quando ebbe finito dì decapitare i suoi antenati, il conte Roberto III scaraventò la mazza sulle vetrate di una finestra e disse stiracchiandosi:

— Ora sì che possiamo chiacchierare tranquilli… Messeri, amici miei, miei fedelissimi vassalli: voglio che in tutte le città, le podesterie e le castellanie30 che noi libereremo dal giogo di Mahaut e dei suoi maledetti Hirson, si prenda nota di tutte le lagnanze che si può aver motivo di rivolgerle e siano accuratamente elencati tutti i suoi misfatti, in modo da mandarne poi un preciso resoconto al genero di costei, al cosiddetto Messer Porte-Chiuse… perché, infatti, appena arriva in un posto, costui si affretta a chiudere tutto, le città come il conclave, i palazzi come il Tesoro; a Messer Vista Corta, al nostro buon signore Filippo l’Orbo31, che oggi si proclama reggente e nel cui interesse quattordici anni or sono ci hanno portato via questa contea, soltanto per permettergli di papparsi lui la Borgogna! Che crepi quel porco, strangolato con le sue stesse budella!

Il piccolo Gerardo Kiérez, il più esperto in cavilli giuridici e in procedure legali, l’uomo che aveva sostenuto davanti al re i punti di vista dei baroni nella controversia con Mahaut, prese allora la parola.

— C’è un motivo di lagnanza, Monsignore — disse, — che interessa non soltanto l’Artois, ma tutto il regno. Può darsi che il reggente voglia sapere come è morto suo fratello, Luigi il Decimo.— Diavolo, Gerardo, pensi tu quello che anch’io sospetto? Hai prove che anche in questa faccenda sia entrato il malefico zampino di mia zia?— Prove, prove, Monsignore, non è facile; ma qualche solido sospetto sì, e suffragato da qualche testimonianza. Conosco ad Arras una signora che si chiama Isabella di Fériennes. Lei e suo figlio Giovanni sono entrambi venditori di magherie e sono stati loro a fornire a una certa damigella d’Hirson, precisamente a Beatrice…— Quella li, un giorno o l’altro la metterò a vostra disposizione, amici miei — disse Roberto. — La conosco; e, a occhio e croce, mi pare che debba avere delle cosce formidabili!— I Fériennes le hanno dunque fornito, per la signora Mahaut, del veleno per uccidere i cervi, esattamente due settimane prima della morte del re. E quello

che può essere adoperato contro un cervo, è certamente altrettanto efficace contro un monarca.— Sarebbe, comunque, un veleno per cornuti — precisò Roberto. — Che Dio protegga l’anima di quel becco di mio cugino!I baroni chiocciarono soddisfatti, per dimostrare di aver apprezzato questo saggio di umorismo.— E questa ipotesi, Messer Roberto — continuò Kiérez, — pare suffragata dal fatto che la signora di Fériennes si è vantata lo scorso anno di aver fabbricato lei il filtro che ha fatto riconciliare messer Filippo, che voi chiamate l’orbo, e madonna Giovanna, figlia di Mahaut…— … sgualdrina esattamente come sua madre. Avete fatto davvero male, baroni, a non strangolarla come una vipera, l’autunno scorso, quando essa era qui, completamente alla vostra mercè — disse Roberto. — Comunque, ho bisogno di quella Fériennes e di suo figlio. Fateli prendere appena arriveremo ad Arras. Ora, intanto, andiamo a mangiare: questa giornata mi ha fatto venir fame. Uccidete il più grosso bue che troverete nella stalla e fatelo arrostire allo spiedo; vuotate lo stagno di tutte le carpe di Mahaut e portatemi il vino che ieri non siete riusciti a tracannare.Due ore dopo, quando ormai il sole era tramontato, questa bella comitiva era

completamente ubriaca. Allora Roberto ordinò a Lormet, che sopportava abbastanza bene i distillati delle vigne, di recarsi in paese con una buona scorta, per procacciarsi le ragazze occorrenti a soddisfare i gagliardi desideri dei baroni. E senza guardar tanto per il sottile se le donne strappate dai loro letti fossero tenere verginelle o mature madri di famiglia, Lormet trascinò al castello un gregge in camicia da notte, belante di paura. Ne seguì una bella orgia nelle camere devastate di Mahaut. Le urla delle donne rinfocolavano l’ardore dei cavalieri che si lanciavano all’assalto con lo stesso impeto con cui avrebbero caricato gli infedeli, rivaleggiando in prodezze e in rilanci, in due o in tre attorno alla medesima preda. Roberto prendeva per se stesso, tirandole per i capelli, le ragazze più belle, senza perdere troppo tempo a spogliarle. E siccome lui pesava più di duecento libbre, alle sue vittime non rimaneva nemmeno il fiato per strillare. Intanto Souastre, che aveva smarrito il suo bel casco, se ne stava piegato, con le mani sul cuore e vomitava come una gronda durante un temporale.

Infine tutti quei valorosi, uno dopo l’altro, si addormentarono: sarebbe bastato un solo uomo, quella notte, per far fuori senza fatica tutti i nobiluomini di Artois.

L’indomani un esercito con le gambe molli, la lingua impastata e la mente annebbiata si mise in cammino diretto ad Arras, dove Roberto aveva deciso di

stabilire il proprio governo. Lui solo era fresco come un luccio appena uscito dal fiume, e questo particolare accentuò ancora di più l’ammirazione che le sue truppe sentivano per lui. Il viaggio fu spesso interrotto da brevi soste: Mahaut infatti possedeva in quei dintorni altri castelli la cui vista rinfocolò gli ardori combattivi dei baroni.

Ma quando, precisamente il giorno di Santa Maddalena, Roberto giunse ad Arras, la signora di Fériennes era scomparsa.

II • IL LOMBARDO DEL PAPA

A Lione i cardinali erano tuttora prigionieri. Essi avevano sperato di

costringere il reggente a cedere, ma i loro sforzi erano stati vani e la reclusione durava ormai da un mese. I settecento soldati del conte di Forez continuavano a montare la guardia intorno alla chiesa e al convento dei Frati Predicatori; e se, per rispettare le forme, il conte Savelli, maresciallo del conclave, portava sempre con sé le chiavi, queste chiavi non erano molto utili, in quanto servivano per porte completamente murate.

I cardinali avevano continuato a trasgredire le regole di Gregorio e lo avevano fatto in piena coscienza, anche per protestare contro questo isolamento che soltanto la coercizione aveva permesso. E ogni giorno si premuravano di dire queste cose al conte di Forez, quando costui mostrava la propria testa annata d’elmo dallo stretto spiraglio per il quale passavano solitamente i viveri. E ogni giorno il conte di Forez rispondeva che era suo dovere far rispettare la legge del conclave. evidentemente questo dialogo fra sordi avrebbe potuto continuare all’infinito.I cardinali non alloggiavano nemmeno più insieme, come sarebbe stato loro dovere; infatti, anche se la navata della chiesa era molto grande, viverci in un centinaio di persone su rozzi giacigli di paglia sarebbe stato per loro insopportabile.

Il fetore che in pochi giorni aveva invaso la chiesa non era propizio all’elezione di un papa. I prelati avevano quindi raggiunto il convento che comunicava con la chiesa e che era compreso nelle stesse mura; cacciati via i frati, essi vi si erano sistemati, tre per ogni cella, in condizioni tuttavia non molto più confortevoli. I paggi avevano invece espugnato con la forza un dormitorio e i cappellani la foresteria, sottratta così ai normali viaggiatori.

Il regime alimentare, previsto in progressiva diminuzione, non era stato applicato; insistendo su di esso, molti dei cardinali si sarebbero infatti ridotti a

scheletri. Questi alti prelati si facevano dunque mandare leccornie dall’esterno, fingendole destinate all’abate. Il segreto delle votazioni veniva continuamente violato: ogni giorno entravano e uscivano lettere, infilate in un panino o fra un piatto e l’altro. L’ora dei pasti era insomma diventata l’ora della posta e la corrispondenza che avrebbe dovuto regolare la vita dell’intera cristianità era tutta lardellata di grasso.Il conte di Forez aveva informato il reggente di tutte queste infrazioni alle

regole, ma Filippo aveva risposto di lasciar correre.«Più errori e più arbitri essi commettono — aveva scritto il conte di Poitiers, —

più ci sarà facile fare la voce grossa quando sarà venuto il momento di costringerli a una decisione. Per quanto riguarda le lettere, lasciate pure che arrivino a destinazione, ma apritene quante potete e comunicatemi il loro contenuto».

Gli vennero così annunciate ben quattro candidature, che erano state presentate senza alcun successo: prima fra tutte quella di Arnaldo Nouvel, ex-abate di Fontfroide; ma il reggente fece chiaramente sapere a mezzo di Forez, che egli «non riteneva questo cardinale abbastanza amico del regno di Francia». C’erano poi state le candidature di Guglielmo di Mandagout, cardinale di Prenestre, di Arnaldo di Pélagrue e di Bérenger Frédol senior. Guasconi e Provenzali dunque si neutralizzavano a vicenda.

Si venne anche a sapere che il terribile Caetani stava stomacando parte degli Italiani, compreso suo cugino Stefaneschi, per la bassezza dei suoi intrighi e per le sue calunnie pazzesche. Era perfino arrivato a proporre, sia pure per ischerzo — ma tutti sapevano che valore aveva lo scherzo in quella bocca — di evocare il diavolo e di affidare a lui la scelta di un papa, visto che Dio sembrava non volersi assumere questo incarico.

E Duèze con la sua voce diafana aveva risposto:— Non sarebbe la prima volta, Francesco, che Satana viene a sedere fra noi!Così, tutte le volte che Caetani chiedeva una candela, si mormorava che essa

non gli serviva per l’illuminazione, ma che egli intendeva adoperarne la cera per qualche «fattura».

Fino al momento della segregazione le ostilità esistenti fra i vari cardinali erano dovute a ragioni di prestigio, di dottrina o d’interesse. Ma, a forza di vivere insieme in condizioni così disagevoli e in uno spazio così ristretto, essi avevano incominciato a odiarsi anche per motivi personali, per ragioni fisiche. Alcuni si trascuravano, avevano smesso di radersi, e si abbandonavano a tutte le libertà primordiali. Per guadagnare voti i candidati non avevano più bisogno di

promettere denaro o beneficî ecclesiastici; bastava loro spartire le proprie razioni alimentari con i più ingordi, anche se questo era rigorosamente proibito. E le voci più maligne si andavano diffondendo:

— Il camerlengo — mormorava qualcuno — ha mangiato anche oggi tre piatti del suo partito.Ma, se gli stomaci, con queste compensazioni, riuscivano più o meno a

saziarsi, non era altrettanto facile ovviare a una forzata castità cui certi cardinali non erano assolutamente avvezzi, e che incominciava a inasprire fortemente gli animi di molti di loro. Fra i Provenzali, per esempio, circolava questa battuta:

— Monseigneur d’Auch souffre de continence de chère et messeigneurs Colonna de continence et de chair!3.I due fratelli Colonna, infatti, uomini di corporatura atletica e apparentemente più adatti alla corazza che alla sottana, aggredivano i paggi nei corridoi del convento, garantendo loro naturalmente piena assoluzione.In ogni discussione venivano rivangati antichi motivi di dissenso:— Se voi non aveste canonizzato Celestino… Se voi non aveste rinnegato Bonifacio… Se voi vi foste rifiutati di lasciare Roma… Se voi non aveste condannato i Templari…E si accusavano l’un l’altro di debolezza nel difendere la Chiesa, di ambizione e

di cupidigia. Chi avesse assistito a queste dispute, ne avrebbe tratto la profonda convinzione che nessuno di quei prelati era degno del più piccolo vicariato di campagna.

Soltanto monsignor Duèze pareva insensibile ai disagi, agli intrighi e alle maldicenze. Negli ultimi due anni egli aveva lavorato così bene a rendere difficile un accordo fra i suoi colleghi, che ora non aveva più alcun bisogno di agire e poteva permettersi di lasciare che le passioni da lui scatenate con tanta abilità compissero la propria opera. Uomo parco, egli non soffriva dei disagi imposti dalla penuria di cibo. Duèze aveva voluto dividere la sua cella con due cardinali Normanni favorevoli al partito provenzale, Nicola di Fréauville, ex-confessore di Filippo il Bello, e Michele del Bec: si trattava di due candidati che nessuno intendeva appoggiare e che erano troppo deboli per poter formare un altro partito. Nessuno aveva paura di loro e nessuno quindi poteva sospettare una congiura, vedendoli alloggiati insieme a Duèze. Del resto l’ex-cancelliere del regno di Napoli non aveva soverchi rapporti con i compagni di cella. Egli passeggiava ogni giorno nel chiostro del convento, sempre alla stessa ora, appoggiandosi di solito al braccio di Guccio che gli raccomandava continuamente:

— Monsignore, non correte così! Vedete che io faccio fatica a starvi dietro,

anche perché ho una gamba irrigidita in seguito all’incidente subito a Marsiglia, quando caddi dalla nave della regina Clemenza… Sapete bene che le vostre possibilità sono, se non sbaglio, direttamente proporzionali alla opinione che gli altri possono farsi della vostra debolezza.— È vero, è vero, avete ragione — rispondeva allora il cardinale, cercando di camminare curvo e con le ginocchia tremanti e di controllare i suoi vivaci settantadue anni.Egli passava quasi tutto il suo tempo a leggere o a scrivere, essendogli riuscito

di procurarsi le cose a lui più necessarie: candele, libri e carta. Così, quando qualcuno veniva a invitarlo a una riunione nel coro della chiesa, egli fingeva di allontanarsi con rimpianto dai propri lavori, si trascinava fino al suo stallo e si divertiva ad ascoltare i suoi colleghi ingiuriarsi o scambiarsi perfide insinuazioni. Lui invece si accontentava di mormorare ogni tanto:

— Io prego, fratelli; prego perché Dio ci aiuti a scegliere il più degno.Quelli che lo conoscevano bene lo trovavano cambiato, così pieno, ora, di virtù

cristiane e votato alla macerazione; divenuto insomma un modello di bontà e di carità. E, quando qualcuno gliene chiedeva meravigliato le ragioni, egli rispondeva, con voce diafana e gesti vaghi:

— È la morte che si approssima… E io devo essere pronto…Così assaggiava appena i pasti e li faceva passare a qualcuno dei colleghi,

prendendo a pretesto motivi di salute per giustificare la sua violazione alle regole. E Guccio arrivava ogni giorno a braccia cariche dal camerlengo, che prosperava come un bue all’ingrasso, e gli diceva:

— Monsignor Duèze vi manda questo. Vi ha trovato molto deperito, stamane.Fra quei novantasei prigionieri, il giovane toscano era uno di quelli che avevano

meno difficoltà a comunicare con l’esterno: egli era infatti riuscito a stabilire un collegamento con l’agente lionese della banca Tolomei. E attraverso questa via partivano non soltanto le lettere che Guccio indirizzava allo zio, ma anche la ben più segreta corrispondenza che Duèze inviava al reggente. Questo epistolario non aveva bisogno di passare a mezzo dei piatti sporchi, ma veniva inoltrato fra le pagine dei libri indispensabili ai pii studi del cardinale.

Il giovane Lombardo era diventato il più fidato consigliere del prelato, e la sua astuzia gli era sempre più utile. In effetti essi avevano interessi comuni: se infatti Duèze voleva uscire papa da quel convento surriscaldato dall’estate, l’altro desiderava andarsene al più presto con solide protezioni, per poter così venire in aiuto alla donna amata. Guccio non era però più tanto preoccupato per Maria da quando Tolomei gli aveva comunicato che stava vegliando su di lei come un vero

zio.All’inizio dell’ultima settimana di luglio, parve a Duèze che i suoi colleghi

fossero davvero stanchi, scossi dall’arsura e divisi in fazioni irriducibilmente ostili. Decise dunque di dare inizio a una commedia architettata da tempo con l’aiuto di Guccio.

— Ho arrancato abbastanza? Ho digiunato abbastanza? Ho un aspetto abbastanza sofferente? — chiedeva egli al suo occasionale paggio. — E i miei colleghi sono stufi abbastanza da poter accettare una soluzione di compromesso?— Credo di sì, Monsignore, credo proprio che siano pronti a tutto.— E allora avanti, figlio mio, incominciate a lavorare di lingua; io intanto mi metterò a letto e mi alzerò soltanto quando sarà indispensabile.Guccio incominciò allora a chiacchierare con i servi degli altri cardinali,

dicendo loro che monsignor Duèze era molto stanco, che sembrava ammalato e che, anche per la sua tarda età, difficilmente avrebbe potuto sopravvivere ai disagi di quel conclave.

L’indomani Duèze non partecipò alla quotidiana riunione e i cardinali commentarono con interesse questo avvenimento: ognuno di loro ripeteva, facendole proprie, le voci che Guccio andava diffondendo.

Il giorno successivo il cardinale Orsini, che aveva appena avuto un vivace alterco con i Colonna, incontrò Guccio e gli chiese se corrispondeva a verità la notizia secondo la quale monsignor Duèze era seriamente ammalato.

— Ahimè sì, Monsignore — rispose il giovane Lombardo; — ed è di questo che io soffro. Sapete che il mio amato padrone ha perfino smesso di leggere? Gli resta ormai ben poco da vivere, evidentemente.Poi, con quell’aria insieme audace e ingenua che gli era propria, egli aggiunse:— Se fossi al vostro posto, Monsignore, so bene che cosa farei: eleggerei monsignor Duèze. Così potreste finalmente uscire da questo conclave e tenerne un altro a modo vostro subito dopo la sua morte, ormai imminente. È una possibilità che fra una settimana non avrete forse più.Quella stessa sera Guccio vide Napoleone Orsini che stava discutendo con

Stefaneschi, anche lui Orsini per parte di madre, con Albertini di Prato e con Guglielmo di Longis; cioè con tutti gli Italiani favorevoli a Duèze. L’indomani nel chiostro questi stessi prelati erano di nuovo insieme, ma stavolta c’erano anche altre persone, lo spagnolo Luca Flisco, cognato di Giacomo II d’Aragona, e Arnaldo di Pélagrue, capo del partito guascone. Passando accanto a loro, Guccio sentì una voce domandare:

— E se non muore?4.— Peccato5… ma se morisse domani noi dovremmo certamente restare qui per altri sei mesi.Guccio mandò immediatamente un messaggio allo zio per raccomandargli di

riscattare dalla compagnia Bardi tutti i crediti che questa banca aveva su Giacomo Duèze. «Potete combinare l’affare anche al cinquanta per cento, perché il debitore è ritenuto moribondo e il prestatore vi crederà matto. Ma voi comperate anche all’ottanta per cento: vi garantisco infatti che l’affare è buono o io non sono più vostro nipote». Consigliava inoltre a Tolomei di venire personalmente a Lione il più presto possibile.

Il 29 luglio il conte di Forez fece pervenire al cardinale camerlengo una lettera ufficiale del reggente. Per ascoltarne la lettura, anche Giacomo Duèze accettò di lasciare il proprio giaciglio. Ma arrivò all’assemblea più trascinato dai suoi che camminando con le proprie forze.

La lettera del conte di Poitiers era assai severa ed enumerava tutte le infrazioni alle regole di Gregorio che erano state commesse. Ricordava la minaccia di demolire il tetto della Chiesa e svergognava i cardinali per le loro discordie, suggerendo loro, qualora non fossero riusciti a mettersi d’accordo altrimenti, di conferire la tiara al più anziano. E il più anziano era appunto Giacomo Duèze.

Ma, quando egli udì queste parole, agitò le braccia in un gesto da moribondo e mormorò con voce appena percettibile:

— No, fratelli! Al più degno, al più degno! Che ne fareste voi di un pastore che non ha nemmeno la forza di condurre se stesso e il cui posto è più in cielo, se il Signore acconsentirà ad accogliermi, che su questa terra?Poi si fece riportare nella propria cella, sdraiandosi sul suo pagliericcio e

voltandosi verso il muro. Soltanto chi come Guccio lo conosceva bene, poteva capire che i sussulti delle sue spalle erano segni di sfrenata ilarità e non rantoli d’agonia.

L’indomani, Duèze sembrò ritrovare un po’ di forza; un indebolimento troppo costante avrebbe infatti potuto destare sospetti. Poi, quando arrivò al camerlengo una lettera del re di Napoli, che ripeteva le raccomandazioni del conte di Poitiers, il vecchio prelato incominciò a tossire in modo pietoso: doveva essere proprio conciato male per essersi infreddato con un caldo simile!

Intanto le trattative fra i cardinali continuavano: nessuno pareva disposto a rinunciare alle proprie speranze. Fra i ventiquattro prelati non ce n’era ovviamente uno, nemmeno fra i meno potenti, che non si fosse chiesto, almeno una volta: «E perché non io?»

Fra il pubblico affluito a Lione, attratto dalla speranza in una imminente decisione, si andava diffondendo l’opinione che non esistano istituzioni perfette e che, essendo tutte dominate dall’ambizione umana, una valeva l’altra. Insomma il metodo elettivo applicato per la nomina del successore di Pietro non si dimostrava più efficace del sistema ereditario sul quale era basata la successione al trono di Francia.

Intanto il conte di Forez incominciava ad applicare misure più severe: faceva ostentatamente perquisire i viveri, ridotti del resto a una sola distribuzione quotidiana, e confiscava la corrispondenza, facendola ributtare all’interno della chiesa.

Il 5 agosto Napoleone Orsini era riuscito a guadagnare alla causa di Duèze perfino il terribile Caetani, nonché alcuni membri del partito guascone. I Provenzali incominciavano a sentire odor di vittoria.

Il 6 agosto, insomma, monsignor Duèze aveva già diciotto voti assicurati, vale a dire due di più di quella famosa maggioranza assoluta che in due anni e tre mesi nessun cardinale era riuscito a guadagnarsi. Gli ultimi dissidenti, comprendendo che l’elezione sarebbe avvenuta anche senza di loro e temendo di vedersi un giorno rinfacciata una preconcetta ostilità, si affannarono a proclamare le alte virtù cristiane di monsignor Duèze e si dichiararono pronti a concentrare su di lui i propri voti.

L’indomani, 7 agosto 1316, fu deciso di procedere a una votazione32 e vennero nominati quattro scrutatori. Duèze comparve sostenuto da Guccio e da un altro paggio.

— Non pesa davvero molto — mormorava il giovane Lombardo ai cardinali che facevano ala al loro passaggio con una deferenza che già faceva prevedere quale sarebbe stata la loro scelta.— Giacché voi lo volete, Signore, giacché voi lo volete… — mormorò Duèze davanti al foglio di carta sul quale stava per scrivere il proprio voto.Qualche minuto dopo, egli venne proclamato papa all’unanimità e i suoi

ventitré colleghi gli riservarono una calorosa ovazione.Ignoravano che quel vecchio avrebbe loro reso la vita dura per diciotto anni!Guccio allora si accostò, per aiutare ad alzarsi quel povero rudere che era

diventato la più alta autorità dell’Universo.— No, figlio mio, no — disse Duèze. — Cercherò di camminare da solo. Che

Dio acconsenta a sostenere le mie forze!Gli ingenui credettero allora di veder compiersi un miracolo, mentre gli altri

capirono di essere stati ingannati.

Intanto il camerlengo aveva già fatto bruciare nel caminetto i bollettini di voto la cui bianca fumata annunciava al mondo l’elezione del nuovo pontefice. Dal di fuori si incominciò a menare gran colpi di zappa sul muro che bloccava la porta maggiore. Ma il conte di Forez era un uomo prudente; non appena i muratori riuscirono ad aprire una breccia, egli vi si infilò personalmente.

— Sì, sì, figlio mio, sono stato eletto io — gli disse Duèze che era arrivato trotterellando fino alla porta.Allora il muro venne completamente abbattuto; i due battenti furono aperti, e il

sole, per la prima volta da ben quaranta giorni, penetrò nella chiesa dei Domenicani.

Una folla enorme era in attesa sul sagrato, e tutti, gente del popolo, borghesi di Lione, consoli, nobili e inviati delle corti straniere, si gettarono in ginocchio. Un grosso uomo dal viso olivastro e con un occhio perennemente chiuso, si fece avanti, accanto al conte di Forez, e accostò alle labbra l’orlo dell’abito del papa. Fu dunque su questa testa grigia che venne a cadere la prima benedizione di colui che da allora si sarebbe chiamato Giovanni XXII.

— Zio Spinello6 — esclamò Guccio, rivolgendosi a quel grosso uomo inginocchiato.— Ah, voi siete lo zio! Ho molta simpatia per vostro nipote, figlio mio — disse Duèze al banchiere, facendogli cenno di alzarsi. — Mi è stato molto utile e voglio che mi resti vicino. Su, abbracciatelo!Guccio si affrettò ad obbedire.— Ho comprato tutto, come mi avevi consigliato tu, e al sessanta per cento — mormorò Tolomei mentre Duèze continuava a benedire la folla. — Ora questo papa ci deve parecchie migliaia di lire. Bel lavoro, figlio mio!7 Sei veramente del mio sangue, tu!Ma alle loro spalle un terzo personaggio aveva l’aria altrettanto delusa di certi

cardinali; era il signor Boccaccio, primo viaggiatore dei Bardi.— Ah, c’eri tu lì dentro, mascalzone8 — disse a Guccio.

— Se lo avessi saputo non avrei accettato di vendere.— E Maria? Dov’è Maria? — domandò ansiosamente Guccio allo zio.— La tua Maria sta benone. Ed è bella quanto tu sei furbo. Se il piccolo Lombardo che lei porta in sé assomiglierà a voi due saprà certamente farsi strada nel mondo. Su, sbrigati, ragazzo mio! Vedi bene che il Santo Padre ti aspetta!

III • IL PREZZO DEL DELITTO

Il reggente Filippo teneva molto ad assistere alla consacrazione del papa

che lui stesso aveva contribuito ad eleggere e a presentarsi così come il protettore della cristianità.

— Mi è costato parecchia fatica — diceva. — Ed è giusto che ora sia lui ad aiutarmi a consolidare il mio potere. Voglio andare a Lione per vederlo incoronare.Dall’Artois giungevano continuamente notizie preoccupanti. Roberto aveva

conquistato Arras, Avesnes e Thérouanne, e continuava a percorrere il paese come un trionfatore. E a Parigi Carlo di Valois lo appoggiava segretamente.

Fedele alla solita tattica di accerchiamento, per lui assolutamente spontanea, il reggente incominciò a lavorare nelle regioni limitrofe all’Artois per evitare che la rivolta dilagasse. Scrisse perciò ai baroni di Picardia per ricordare loro i legami di fedeltà alla corona di Francia, facendo cortesemente capire che non avrebbe sopportato alcuna defezione. Ogni bargello ricevette così un notevole contingente di agenti e di soldati per sorvegliare la zona che da lui dipendeva. Ai Fiamminghi poi, che a più di un anno di distanza ridevano ancora della sciagurata impresa del Testardo, che aveva smarrito nel fango il suo esercito, Filippo propose un nuovo trattato di pace, le cui condizioni erano loro assai favorevoli.

— In questo guazzabuglio che noi dovremo sbrogliare — spiegò il reggente ai propri consiglieri — è indispensabile rinunciare a qualcosa se si vuole salvare il resto.Così, benché suo genero, Giovanni di Fiennes, fosse uno dei principali

luogotenenti di Roberto, il conte di Fiandra, intuendo che mai più gli sarebbero state offerte condizioni altrettanto vantaggiose, accettò di intavolare trattative e di rimanere quindi estraneo ai disordini della vicina contea.

Filippo aveva così praticamente chiuso le porte dell’Artois. Mandò allora Gaucher di Châtillon a trattare direttamente con i capi della rivolta, assicurandoli

delle buone intenzioni della contessa Mahaut.— Cercate di capirmi, Gaucher; voi non dovete discutere con Roberto — raccomandò il conte di Poitiers al connestabile. — Questo significherebbe infatti riconoscergli i diritti che egli si arroga. Per conto nostro, egli è tuttora decaduto dall’Artois, proprio come mio padre aveva deciso. Voi andrete là soltanto per dirimere il conflitto fra la contessa e i suoi vassalli, nel quale, a nostro modo di vedere, Roberto non c’entra. Fingete dunque di ignorarlo.— E allora, Monsignore — disse il connestabile, — intendete sostenere pienamente il punto di vista di vostra suocera?— Ma no, Gaucher, per lo meno non nei casi in cui ella ha abusato del proprio potere, cosa di cui sono perfettamente convinto. Donna Mahaut è una persona molto esigente e ritiene che tutti debbano servirla fin quando resti loro un quattrino nella borsa o una goccia di sangue nelle vene. Io voglio la pace — proseguì il reggente — e so che per ottenerla dovrò dare a ciascuno il suo. Sappiamo che la borghesia cittadina è ancora favorevole alla contessa, cui chiede appoggio nelle liti con la nobiltà, ma sappiamo anche che i nobili hanno sostenuto le pretese di Roberto, giudicandolo il più adatto a soddisfare le loro richieste. Cercate di scoprire se le loro lamentele hanno qualche fondamento e vedete di ovviarvi, senza peraltro ledere i diritti della Corona. Cercate inoltre di distaccare i baroni dal nostro potente cugino, mostrando loro che possono ottenere di più da noi, per via di giustizia, che non da lui, usando violenza.— Siete un uomo saggio, Monsignore, siete proprio un uomo saggio — disse il connestabile. — Non avrei mai creduto di poter servire, in così tarda età e con così grande piacere, un principe talmente accorto, che avesse appena un terzo dei miei anni.Intanto il reggente, a mezzo del conte di Forez, fece chiedere al papa di

rinviare di qualche tempo la sua incoronazione. E Duèze, per quanto legittimamente impaziente di vedere la propria dignità rafforzata dalla consacrazione, accettò di buon animo una dilazione di due settimane.

Ma, passati anche questi quindici giorni, perdurando in Artois una situazione assai confusa ed essendo stata rinviata all’uno settembre la ratifica dell’accordo con i Fiamminghi, Filippo fece nuovamente chiedere a Duèze, questa volta a mezzo del delfino, di rinviare nuovamente la cerimonia. Ma Duèze, con sorpresa del reggente, si mostrò improvvisamente ben deciso e quasi brutale, fissando in modo definitivo la sua incoronazione per il 5 settembre.

Egli teneva a questa data per imperiose ragioni che preferiva tener segrete e che

del resto non sarebbero state considerate al loro giusto valore. In effetti egli era stato nominato vescovo di Fréjus il 5 settembre del 1300; il suo protettore, re Roberto di Napoli, era salito al trono nella prima settimana del settembre 1309; e infine il falso nelle scritture reali che gli aveva permesso di ottenere il vescovato di Avignone era stato coronato da successo il 4 settembre 1310.

Il nuovo papa aveva fede nell’astrologia e sapeva servirsi dei passaggi del sole per decidere le tappe della propria carriera. «Se monsignor Filippo, reggente di Francia e di Navarra e dilettissimo al nostro cuore — egli fece rispondere — non avrà per gli obblighi inerenti alla sua carica la possibilità di essere accanto a noi in quel giorno solenne, noi ne soffriremo molto; ma in questo caso, non essendo più necessario evitargli di compiere un troppo lungo viaggio, andremo a cingere la tiara nella città di Avignone».

Filippo di Poitiers firmò il trattato con i Fiamminghi nella mattinata del 1° settembre, e all’alba del 5 arrivò a Lione, accompagnato dal conte di Valois e dal conte della Marche, che egli aveva preferito non lasciare soli e incontrollati a Parigi, nonché da Luigi d’Evreux.

— Ci avete fatti correre a una velocità da messaggero, nipote — gli disse Valois smontando di sella.Essi ebbero appena il tempo di indossare gli abiti appositamente preparati per

quella cerimonia e ordinati dall’intendente Goffredo di Fleury. Il reggente portava un abito aperto, di stoffa color fior di pesco, foderata da duecentoventisei pelli di menu-vair33. Carlo di Valois, Luigi d’Evreux, Carlo della Marche e Filippo di Valois, anche lui presente alla cerimonia, avevano invece avuto in dono abiti di camocas foderati nello stesso modo.

Lione era tutta imbandierata a festa e un’immensa folla si accalcava per assistere alla sfilata.

Giacomo Duèze arrivò a cavallo alla cattedrale di San Giovanni, preceduto dal reggente di Francia e davanti a un’immensa folla devotamente inginocchiata. Tutte le campane della città suonavano a distesa. Le redini della cavalcatura pontificia erano rispettivamente tenute dal conte d’Evreux e da quello della Marche, la monarchia francese pareva dunque incorniciare letteralmente il papato. Seguivano i cardinali, con il rosso cappello calato sul piviale e legato al collo con nastri, e poi i vescovi le cui mitre scintillavano al sole.

Fu Napoleone Orsini, discendente da una delle più illustri famiglie patrizie romane, che mise la tiara a Giacomo Duèze, figlio di un oscuro borghese di Cahors.

Guccio, che si trovava anche lui nella cattedrale, stava ammirando il suo signore.

Il vecchietto dal viso smunto e dalle spalle cadenti che solo quattro settimane prima tutti ritenevano vicino alla morte, sopportava senza fatica i pesanti attributi sacerdotali che gli facevano indossare. Le fasi successive di questa interminabile e faraonica cerimonia che lo innalzava nettamente su tutti i suoi simili e faceva di lui il simbolo vivente della divinità, agivano su di lui diffondendo a poco a poco nei nei suoi lineamenti una solennità imprevedibile e impressionante, sempre più palese man mano che il rito si avvicinava alla sua conclusione. Egli non poté tuttavia trattenere un rapido sorriso quando gli calzarono i sandali pontifici.

«Scarpinelli, mi chiamavano, Scarpinelli!. — pensava. — E mi dicevano figlio di un ciabattino. E adesso li porto davvero gli “scarpinelli”… Mio Dio! Non ho più nulla da desiderare! Non mi resta che governare bene!»

Quel giorno stesso il reggente conferì un titolo nobiliare al fratello del papa, Pietro Duèze e, nei due anni successivi, il nuovo papa conferì la porpora cardinalizia a ben cinque dei suoi stessi nipoti.

Le patenti di nobiltà che Filippo di Poitiers redasse personalmente subito dopo la cerimonia, anche se erano destinate a onorare il Santo Padre attraverso suo fratello, denotavano chiaramente certe stupefacenti convinzioni del giovane principe. Così infatti vi si leggeva:

«Non sono i beni di famiglia, né la ricchezza materiale, né gli altri beneficî della sorte a determinare l’insieme delle qualità morali e delle azioni meritorie; sono quelli doni che il caso offre ai meritevoli o agli immeritevoli, vantaggi offerti ai degni o agli indegni… In effetti ognuno è anzitutto figlio delle proprie opere e dei propri meriti, e non ha nessuna importanza da chi noi effettivamente discendiamo, se è vero che nessun uomo sa quali siano le sue lontane origini…»

Ma il reggente non aveva fatto tutta quella strada né rivolto al papa tanti segni di stima senza ottenerne niente in cambio. Fra quei due uomini, separati per età da quasi mezzo secolo — «Voi siete l’alba, Monsignore, e io il tramonto», soleva dire Duèze a Filippo — esistevano, dal primo incontro, segrete affinità e complicità continue. Giovanni XXII non aveva dimenticato le promesse di Giacomo Duèze e il reggente ricordava quelle del conte di Poitiers. Bastò dunque che il reggente accennasse ai beneficî ecclesiastici la cui prima annualità spettava al Tesoro, perché il nuovo papa gli dicesse che i documenti erano già pronti per la firma. Prima però che quei decreti venissero promulgati, Filippo ebbe un colloquio riservato con Carlo di Valois.

— Caro zio — gli domandò: — avete motivo di lamentarvi di me?— No, no certo, nipote — rispose l’ex-imperatore di Costantinopoli.Come poter dire a qualcuno che la sola cosa che si vorrebbe rimproverargli è la

sua stessa esistenza?…— E allora, zio, se non avete motivo di lamentarvi di me, perché continuate a intralciare il mio operato? Quando mi avete restituito le chiavi del Tesoro, vi ho promesso di non chiedervene i conti, e ho mantenuto la parola. Voi invece mi avete giurato omaggio e fedeltà, ma non rispettate le promesse fatte, tanto è vero che sostenete le tesi di Roberto d’Artois.Valois fece un gesto di diniego.— State sbagliando i vostri calcoli, zio — continuò Filippo — e Roberto vi costerà assai. Egli non ha denaro: la sua unica risorsa sono infatti le rendite versategli dal Tesoro, rendite che io ho smesso di pagargli. Presto sarà costretto a chiedere aiuto a voi. E come potrete voi soddisfare le sue richieste, non disponendo più delle finanze del regno? Su, non vi impermalite, non arrossite e cercate di non trascendere perché ve ne pentireste. Io intendo infatti favorirvi. Garantitemi che smetterete di appoggiare Roberto e io in cambio chiederò al Santo Padre di versare direttamente a voi le annate del Valois e del Maine, anziché al Tesoro.L’anima di Valois fu per un attimo incerta fra l’odio e la cupidigia.— E a quanto ammontano queste annate? — domandò.— Da dieci a tredicimila lire l’anno, zio: bisogna infatti tener conto anche dei beneficî che non sono stati riscossi negli ultimi tempi del regno di mio padre e durante il governo di Luigi.Per Valois, sempre indebitato, avvezzo a una vita degna dei mezzi di un

sovrano e pronto a promettere doti monumentali per assicurare alle figlie mariti degni delle sue ambizioni, un reddito supplementare di dieci o tredicimila lire rappresentava la salvezza, forse non definitiva, ma almeno provvisoria.

— Voi siete un caro nipote — rispose alfine — e sapete comprendere quali sono i miei bisogni.Le notizie inviate da Gaucher di Châtillon erano soddisfacenti e Filippo rientrò

a Parigi a piccole tappe, sistemando diverse faccende lungo la strada e fermandosi infine a Vincennes per portare a Clemenza la benedizione del nuovo papa.

— Sono felice — disse la regina — che il nostro caro Duèze abbia preso il nome di Giovanni, perché è quello che anch’io ho scelto per mio figlio in un voto che feci, durante la tempesta, sulla nave che mi conduceva in Francia.Ella sembrava sempre del tutto estranea ai problemi del regno e unicamente

interessata dai propri ricordi coniugali e dalle proprie preoccupazioni di futura madre. Vivere a Vincennes pareva farle bene: ella aveva riacquistato colorito e nella floridezza del settimo mese conosceva quell’apparente sollievo abbastanza

normale negli ultimi tempi delle gravidanze più faticose.— Giovanni non è un nome adatto a un re di Francia — disse il reggente. — Non c’è mai stato un re Giovanni, infatti.— Vi prego, fratello; devo chiamarlo così perché così ho giurato.— In questo caso non ho più nulla da obiettare. Se nascerà un maschio si chiamerà dunque Giovanni il Primo…Nel palazzo della Cité, Filippo rivide la moglie che tutta felice stava

occupandosi del piccolo Luigi-Filippo, intento a strillare con l’impeto possibile a un bambino di otto settimane.

Intanto la contessa Mahaut, appena saputo del ritorno del genero, si era precipitata da palazzo Artois con le maniche rimboccate e con aria furibonda.

— Ah, figlio mio, basta che voi restiate assente per qualche tempo che subito tutti cercano di danneggiarmi! Sapete cosa è andato a combinare in Artois quel farabutto di Gaucher?— Gaucher è il connestabile, madre, e soltanto poco tempo fa voi non lo consideravate un farabutto. Che cosa vi ha fatto?— Mi ha dato torto! — urlò Mahaut. — Mi ha condannato su ogni punto. I vostri inviati sono in combutta con i miei vassalli come compari in una fiera e si sono impegnati a impedire il mio ritorno in Artois. Capite, hanno proibito a me, Mahaut, di tornare nella mia contea, se prima non avrò accettato le condizioni che già avevo rifiutato davanti a Luigi nel dicembre scorso; vogliono inoltre che io restituisca non so quali imposte che, secondo loro, io avrei indebitamente riscosso!— Tutto questo mi sembra giusto. I miei inviati si sono limitati a eseguire i miei ordini — replicò tranquillamente Filippo.Mahaut rimase per un attimo impietrita dalla sorpresa, con la bocca aperta e gli

occhi spalancati.— È per ordine vostro che saccheggiano i miei castelli, impiccano i miei agenti e devastano i miei raccolti? È per ordine vostro che appoggiano i miei nemici? I vostri ordini! Avete scelto davvero un bel modo per compensarmi di tutto quello che ho fatto per voi!Una grossa vena violetta le si gonfiò sulla fronte e Filippo previde che prima di

sera ella si sarebbe fatta salassare.— Non mi pare, madre, che voi, oltre a darmi in moglie vostra figlia — rispose il reggente — abbiate fatto tanto per me da costringermi a danneggiare i miei sudditi e a compromettere, soltanto per farvi piacere, la pace di tutto il regno.

Mahaut esitò un attimo fra l’ira e la prudenza. Ma l’espressione «i miei sudditi» che suo genero aveva adoperato, espressione che soltanto un re poteva pronunciare, prevalse su ogni altro ragionamento.

— E avere ucciso tuo fratello — disse avanzando verso di lui — non conta dunque nulla per te?Dieci settimane di segreto mantenuto con tanta cura erano state dunque

annullate con una sola frase.Filippo non mostrò in alcun modo la propria sorpresa: si limitò a chiudere

tutte le porte e ad accertarsi con i suoi occhi da miope che nessuno potesse aver visto o sentito nulla. Inchiavardò le serrature, tolse le chiavi e se le mise nella cintura. Mahaut era terrorizzata, soprattutto quando vide con che faccia suo genero le si accostava.

— Eravate dunque voi — mormorò Filippo — ed è dunque vero quello che tutti mormorano!Mahaut reagì secondo la sua natura, vale a dire attaccando.— E chi volete che fosse, figlio mio? A chi credete di dovere la grazia di essere oggi reggente e di poter domani impadronirvi della corona? Su, non fate l’ingenuo. Vostro fratello mi aveva confiscato l’Artois, Valois lo montava contro di me e voi eravate a Lione a preoccuparvi per il papa… sempre questo papa che continua a intervenire nei miei affari nel momento meno adatto! E non fate tanto il santificetur, non venite a dirmi che mi biasimate! Voi non avevate simpatia per Luigi e dovete essere contento che io vi abbia permesso di prendere il suo posto, condendo i suoi confetti. Ma non mi aspettavo di trovare in voi un sovrano peggiore di lui!Filippo si era messo a sedere: teneva le dita incrociate e stava riflettendo.«Dovevo pur dirglielo un giorno o l’altro — pensava Mahaut. — E forse è

stato meglio così: ora egli è completamente in mia balìa».— Giovanna sa? — domandò improvvisamente Filippo.— No, non ne sa nulla: non sono cose che si confidano a una donna!— E oltre a voi, chi ne è al corrente?— Beatrice, la mia damigella di compagnia.— Troppo — disse Filippo.— Ah, no, questa lasciatela stare — esclamò Mahaut.

— Ha una famiglia troppo potente!— Lo so, lo so, una famiglia che in Artois vi ha procurato molte simpatie! E, a parte questa Beatrice? Chi vi ha fornito … il condimento, come voi lo chiamate?

— Una maga di Arras che io non ho mai visto, ma che Beatrice conosce. Ho fatto finta di volermi sbarazzare dei cervi che infestavano le mie foreste e ho infatti provveduto a eliminarne un gran numero.— Bisogna ritrovare questa donna… — disse Filippo.— Capite ora — riprese Mahaut — che non vi è più permesso abbandonarmi? Infatti, se crederanno che voi avrete cessato di proteggermi, i miei nemici non mi daranno più tregua e diffonderanno ulteriori calunnie…— Maldicenze, madre, maldicenze — rettificò Filippo.— E, se mi accusano di quello che voi sapete, la colpa ricadrà anche su di voi: si dirà che io ho fatto questo a vostro vantaggio, se non addirittura per ordine vostro.— Lo so, madre, lo so. Sono conseguenze che anch’io ho già calcolato.— Pensate, Filippo, che io ho arrischiato la salvezza della mia anima per realizzare questo progetto. E non siate ingrato.Filippo ebbe allora uno dei pochi scatti di collera di tutta la sua vita.— Ah, state esagerando, madre! Prima o poi mi chiederete di baciarvi i piedi per ringraziarvi di avermi ucciso il fratello! Se avessi saputo che per la reggenza sarebbe stato necessario pagare questo prezzo, non avrei mai accettato, mai, capite? Non mi piacciono gli omicidi; non è mai indispensabile uccidere per realizzare le proprie intenzioni: è un modo sbagliato di fare la politica e vi ordino di astenervene fin quando io sarò il vostro sovrano.Per un attimo fu tentato di agire con onestà. Riunire la Camera dei pari,

denunciare il delitto e reclamarne il castigo… Mahaut, che intuiva quello che lui stava pensando, passò qualche momento di vera ansia. Ma Filippo non si abbandonava mai ai propri impulsi, nemmeno ai più virtuosi. Agire così sarebbe equivalso a gettare discredito su sua moglie e anche su di sé. Senza contare che Mahaut, per difendere se stessa o per veder rovinato insieme a lei chi non aveva voluto proteggerla, avrebbe potuto lanciare contro di lui terribili accuse. Sarebbe stata l’occasione ideale per riaprire le discussioni sulla reggenza e sulla successione al trono. Filippo aveva già fatto troppo per il regno e maturato troppi progetti per poter correre il rischio di rinunciare al potere. Suo fratello Luigi, in fondo, era stato un pessimo re e, per di più, anche un assassino… era forse per volere della Provvidenza che l’omicida era stato punito con l’omicidio e la Francia affidata a mani più capaci.

— Dio vi giudicherà, madre — disse il conte di Poitiers.— Vorrei soltanto evitare che le fiamme dell’inferno incominciassero a lambirci, a mezzo vostro, già su questa terra. Dovrò dunque pagare il prezzo del vostro

delitto e, non potendo cacciarvi in prigione, sono costretto a difendervi… Avete manovrato con molta abilità. Messer Gaucher riceverà dopodomani istruzioni diverse. Ma non vi nascondo che questo mi dispiace assai.Mahaut cercò di abbracciarlo, ma egli la respinse.— Sappiate — aggiunse il reggente — che d’ora in avanti le vivande destinate alla mia mensa saranno assaggiate da tre persone e che, la prima volta che sentirò un po’ di male allo stomaco, il tempo che vi resterà da vivere sarà decisamente breve. Vi consiglio dunque di pregare per la mia salute.Mahaut abbassò il capo.— Vi servirò a tal punto, figlio mio — disse, — che finirete col restituirmi il vostro affetto.

IV • «VISTO CHE SIAMO COSTRETTI A MUOVERE GUERRA…»

Nessuno comprese le ragioni del brusco cambiamento di rotta di Filippo

sul problema dell’Artois. Meno che meno le poteva capire Gaucher di Châtillon. Il reggente, sconfessando senza preavviso l’opera dei propri inviati, dichiarò inaccettabili le condizioni da essi proposte ed impose di redigere un nuovo trattato più favorevole a Mahaut. Le conseguenze di ciò non tardarono a verificarsi. Le trattative furono interrotte e i rappresentanti dell’Artois, cioè i più moderati fra i baroni, si affrettarono a dichiararsi solidali col partito degli estremisti. La loro indignazione era al colmo; il connestabile li aveva beffati e traditi: ormai non restava altro che ricorrere alla forza.

Il conte Roberto, dunque, trionfava.— Ve l’avevo detto — continuava a ripetere, — che non era possibile trattare con quei felloni!E, seguito da tutto il suo esercito, marciò nuovamente su Arras.Gaucher, che si trovava in quella città con una piccola guarnigione, ebbe

appena il tempo di fuggire per la porta di Péronne, mentre Roberto faceva il suo ingresso dalla porta Saint-Omer a bandiere spiegate e a suon di tromba. Arrivando soltanto un quarto d’ora prima, egli sarebbe dunque riuscito a prendere prigioniero il connestabile di Francia, Questo accadeva il 22 settembre. Quello stesso giorno, Roberto inviò alla zia questa lettera:

All’altissima e nobilissima signora Mahaut d’Artois, contessa di Borgogna, Roberto d’Artois, cavaliere. Avendo voi ostacolato a torto i miei diritti sulla contea d’Artois, cosa che grandemente mi ha nuociuto e continuamente mi addolora, al punto che non intendo più sopportarla, vi comunico che intendo ovviare a questo stato di cose e ricuperare al più presto possibile la mia eredità.

Roberto non era un grande epistolografo: le sfumature suggerite dalle necessità diplomatiche erano estranee al suo temperamento. Egli era dunque contento di questa lettera che esprimeva con innegabile chiarezza le sue intenzioni.

Il connestabile arrivò a Parigi di pessimo umore e parlò al conte di Poitiers assolutamente fuori dai denti. Il fatto che il suo interlocutore fosse il reggente non lo intimidiva; egli lo aveva visto nascere e lo aveva tenuto in braccio quando era in fasce; glielo disse apertamente, come gli disse che non era bene comportarsi così con un buon servitore e con un affezionato parente, da vent’anni alla testa delle armate del regno; mandarlo cioè a trattare secondo determinate condizioni e modificare inopinatamente le basi stesse di queste trattative.

— Fino a oggi, Monsignore, io ero considerato un uomo leale, un uomo la cui parola nessuno aveva il diritto di mettere in dubbio. E voi mi avete fatto fare una figura da spergiuro e da furfante. Quando appoggiai le vostre pretese alla reggenza, credevo di ritrovare in voi qualcosa del mio re, vostro padre, cui sembravate assomigliare molto. Ma ora capisco di essermi sbagliato. Siete dunque così influenzabile da cambiar parere ogni volta che mutate abito?Filippo cercò di calmare il connestabile, affermando di aver sulle prime

giudicato male questo problema e di avergli dato istruzioni sbagliate. Non serviva a nulla trattare con i baroni d’Artois prima di debellare definitivamente Roberto. Roberto costituiva infatti un pericolo per il regno e un possibile nemico dell’onore della famiglia reale. Non era stato forse lui a fomentare quella campagna di calunnie, accusando Mahaut di aver avvelenato Luigi X?

Gaucher alzò le spalle.— E chi crede a queste sciocchezze? — esclamò.— Voi no, Gaucher, voi no — disse Filippo, — ma altri sono pronti a darvi retta, lieti di poterci comunque nuocere. E domani potranno sostenere che voi e io siamo stati complici di questa morte che intendono a tutti i costi far apparire come non naturale. Oggi Roberto ha fatto il gesto che attendevo da lui. Ha infatti mandato a Mahaut questa lettera…E consegnò al connestabile la missiva del 22 settembre.— Con queste parole — continuò il reggente — egli respinge la sentenza che mio padre fece promulgare dal Parlamento nel 1309. Fino a ieri egli si limitava ad aiutare i nemici della contessa, ma ora egli si è apertamente ribellato alle leggi del regno. Perciò voi tornerete in Artois.— Ah, no, Monsignore! — esclamò Gaucher. — In Artois ho fatto troppo brutta figura. Ho dovuto fuggire da Arras come un vecchio cinghiale braccato dai cani, senza aver nemmeno il tempo di pisciare. Vi prego di scegliere

un’altra persona cui affidare il proseguimento di questa faccenda.Filippo giunse le mani davanti alla bocca. «Se tu sapessi, Gaucher! — pensava

— se tu sapessi quanto mi spiace ingannarti! Ma, se ti confessassi la verità, mi disprezzeresti ancora di più!»

E così continuò:— Voi tornerete in Artois, Gaucher, per amor mio e perché io vi prego di farlo. Porterete con voi vostro cognato, messer Mille, nonché una nutrita scorta di cavalieri e di cittadini, arruolando nuove reclute in Picardia. Inviterete Roberto a presentarsi davanti al Parlamento per rispondervi delle sue azioni. E intanto fornirete denaro e soldati ai borghesi delle città che ci son rimaste fedeli. Se Roberto non intendesse arrendersi, penserò io a costringerlo in altro modo… Un principe, Gaucher, non è altro che un uomo — proseguì Filippo prendendo il connestabile per le spalle. — Può commettere un errore, ma ne farebbe uno ancor più grande insistendo sulle proprie posizioni. Il mestiere di re si impara come qualunque altro mestiere, e io ho ancora molto da imparare. Perdonatemi pertanto la brutta figura che vi ho fatto fare.Nulla commuove un uomo d’età matura quanto udire un giovane ammettere la

propria inesperienza, soprattutto se quest’ultimo è socialmente superiore a lui. Sotto quelle palpebre incartapecorite gli occhi di Gaucher palesarono una certa emozione.

— Ah, dimenticavo — riprese Filippo. — Ho deciso che sarete voi il tutore del bimbo nascituro della signora Clemenza… dèi nostro re, cioè, se Dio ci farà grazia di un maschio… e il suo secondo padrino, subito dopo di me…34

— Monsignore, monsignor Filippo… — disse commosso il connestabile.E abbracciò il reggente, come se fosse stato lui ad aver qualcosa di cui

rimproverarsi.— Per quanto riguarda la madrina, — aggiunse Filippo — abbiamo deciso con la signora Clemenza di affidare questo incarico alla contessa Mahaut, anche per mettere finalmente a tacere tutti quei pettegolezzi.Otto giorni dopo il connestabile ritornò in Artois.Roberto, come era prevedibile, rifiutò di obbedire all’ingiunzione e continuò a

infierire alla testa della sua orda di armati. Ma il mese d’ottobre non gli fu propizio. Guerriero animoso, egli era però un mediocre stratega: muoveva le proprie truppe senza ordine, spingendole oggi a sud e domani a nord, a seconda dell’ispirazione del momento. Condottiero o capitano di ventura ante-litteram, egli era più adatto a mettersi all’altrui servizio come forza di guerra — cosa che fece, del resto, quindici anni dopo a vantaggio degli Inglesi — che non a comandare

lui stesso. In quella contea che egli considerava propria, si comportava come in territorio nemico, vivendo finalmente quella vita selvaggia, spericolata e eccitante che costituiva il suo ideale. Era felice della paura che il suo arrivo ispirava, ma non si rendeva conto dell’odio che le sue azioni seminavano. Troppi corpi impiccati ai rami, troppi decapitati, troppi sepolti vivi fra le crudeli risate di tanti soldati, troppe ragazze violentate che serbavano sulla pelle la traccia dei giachi, e troppi incendi cospargevano il suo cammino. Le madri dicevano ai bambini che, se non fossero stati buoni, sarebbe venuto monsignor Roberto, ma appena lo sapevano nei dintorni, prendevano per mano l’intera figliolanza e la trascinavano nella più vicina foresta.

Le città costruivano barricate; gli artigiani, ammaestrati dall’esempio dei colleghi di Fiandra, affilavano i coltelli, e gli scabini conservavano rapporti con gli emissari di Gaucher. Roberto amava le battaglie in campo aperto e non sopportava gli assedi. Così, quando i borghesi di Saint-Omer o di Calais gli chiudevano in faccia le porte della città, egli alzava le spalle:

— Tornerò un altro giorno e vi farò crepare tutti!E andava a sfogarsi un po’ più in là.Ma intanto il denaro incominciava a scarseggiare. Valois non rispondeva più

alle richieste e i suoi pochi messaggi contenevano soltanto frasi di generica solidarietà e esortazioni a un comportamento più saggio. E anche Tolomei, il prezioso Tolomei, faceva orecchie da mercante: lui era in viaggio e i suoi impiegati non avevano ordini in proposito… Perfino il papa si impicciava degli affari di Roberto: aveva infatti scritto a lui e a parecchi dei suoi baroni per ricordargli i loro doveri…

Poi, verso la fine d’ottobre, una mattina, il reggente, durante una riunione del consiglio, dichiarò con la tranquillità che accompagnava di solito le sue decisioni più importanti:

— Da troppo tempo nostro cugino Roberto sta facendosi beffe della nostra autorità. Così, visto che siamo costretti a muovergli guerra, andremo a Saint-Denis a prendere l’orifiamma l’ultimo giorno di questo mese e, in assenza di Gaucher, sarò io stesso che guiderò l’oste posta sotto il comando di nostro zio…Gli sguardi di tutti si volsero verso Carlo di Valois, ma Filippo così aggiunse:— … di nostro zio, monsignor d’Evreux. Noi avremmo volentieri affidato questo incarico a monsignor di Valois, che già ha dimostrato altre volte le sue grandi capacità militari, se costui non dovesse recarsi nelle proprie terre del Maine a riscuotervi le annate della Chiesa.

— Vi ringrazio, nipote — rispose Valois. — Sapete che io voglio bene a Roberto e che, pur disapprovando la sua rivolta, a mio parere sciocca e insensata, mi sarebbe dispiaciuto combattere contro di lui.L’esercito riunito dal reggente per combattere in Artois, non assomigliava

affatto all’oste smisurata che suo fratello, sedici mesi prima, aveva fatto sprofondare nelle Fiandre. L’oste d’Artois comprendeva soltanto militari di carriera e truppe arruolate nei territori dipendenti direttamente dalla Corona. Le paghe erano alte: un banderese guadagnava trenta soldi al giorno, un cavaliere quindici e un fante tre. E si fece appello non soltanto ai nobili, ma anche ai plebei. Spettò ai due marescialli, Giovanni di Corbeil e Giovanni di Baumont, detto il Déramé, signore di Clichy, il compito di radunare le diverse bandiere. I balestrieri di Pietro di Galard erano già pronti e già da due settimane Goffredo Coquatrix aveva ricevuto istruzioni segrete concernenti i trasporti e i rifornimenti.

Filippo di Poitiers prese l’orifiamma il 30 ottobre. Il 4 novembre egli giunse ad Amiens e di là mandò il suo secondo ciambellano, Roberto di Gamaches, scortato da alcuni scudieri, per consegnare un’ultima ingiunzione al conte d’Artois.

V • L’OSTE DEL REGGENTE FA UN PRIGIONIERO

Lo stoppia delle messi già da tempo tagliate imputridiva sui campi spogli

e argillosi. Pesanti nubi coprivano il cielo autunnale, dando la sensazione che laggiù, oltre l’altipiano, il mondo già stesse finendo. Il frizzante venticello, che soffiava in brevi e violente raffiche, lasciava in bocca un sapore di fumo.

Dinanzi al villaggio di Bouquemaison, proprio nel punto dove tre mesi prima il conte Roberto era entrato in Artois, era adesso schierato in battaglia l’esercito del reggente. Gli stendardi posti sulla sommità delle lance sventolavano per quasi mezza lega di fronte.

Filippo di Poitiers era al centro di questo schieramento a pochi passi dalla strada, attorniato dai suoi luogotenenti. Teneva le mani, coperte da guanti di ferro, incrociate sul pomo della sella ed era a capo nudo, avendo affidato a uno scudiero la custodia del suo elmo.

— Allora è qui che monsignor Roberto ti ha detto che sarebbe venuto ad arrendersi? — domandò il reggente a Roberto di Gamaches, rientrato quella stessa mattina dalla sua missione.— Qui, Monsignore — rispose il secondo ciambellano. — È stato lui a scegliere la località… «Nel campo vicino alla pietra terminale sormontata da una croce…» mi ha detto. E mi ha assicurato che sarebbe arrivato per l’ora di terza.— E sei certo che non esistano nei dintorni altre pietre terminali sormontate da una croce? Egli è proprio il tipo capace di imbrogliarci così, presentandosi in un’altra località e facendo constatare la mia assenza… Credi proprio che verrà?— Sì, Monsignore, anche perché mi è parso assai sconvolto. Gli ho detto di quanti uomini voi disponete e gli ho comunicato che il signor connestabile controlla i confini con la Fiandra e le città del nord, dimostrandogli che finirebbe preso come in una morsa senza alcuna possibilità di scampo. Gli ho poi consegnato la lettera in cui monsignor di Valois gli consiglia di arrendersi

senza combattere, non avendo egli alcuna possibilità di vittoria, e gli fa capire che voi siete talmente adirato con lui, che egli correrebbe il rischio, se catturato in combattimento, di farsi tagliare la testa…Il reggente si piegò leggermente verso l’incollatura del cavallo. Evidentemente

non gli piaceva indossare quegli abiti da guerra, venti libbre di ferro che gli pesavano addosso, rendendo disagevoli i movimenti.

— Allora, — continuò Gamaches — egli si è consultato con i suoi baroni, ma non sono riuscito a scoprire che cosa si siano detti. Ho capito però che alcuni gli consigliavano di arrendersi, mentre altri lo pregavano di non abbandonarli. Comunque alla fine, monsignor Roberto si è nuovamente rivolto a me dandomi la risposta che vi ho comunicato e assicurandomi di aver troppo rispetto per monsignor reggente per poter pensare di disobbedirgli.Filippo di Poitiers era tuttora incredulo. Questa resa troppo immediata non

mancava di preoccuparlo, facendogli temere non si sa quale tranello. Increspando gli occhi, egli osservava il desolato paesaggio che lo circondava.

— Questo sarebbe il posto adatto per aggirarci e attaccarci alle spalle, mentre ce ne stiamo qui fermi ad aspettare. Corbeil! Déramél — aggiunse poi rivolgendosi ai due marescialli. — Mandate qualche banderese in ricognizione sulle due ali e fate perquisire le valli, per esser certi che nessun soldato vi si trovi nascosto, e che nessun contingente cerchi di aggredirci alle spalle. Se poi, quando suonerà la terza a quel campanile — concluse indirizzandosi a Luigi d’Evreux — Roberto non si sarà ancora presentato, ci metteremo in cammino.Ma presto si sentirono delle grida:— Eccolo, eccolo!Di nuovo il reggente increspò gli occhi, senza vedere nulla.— Di fronte, Monsignore — gli dissero; — proprio in direzione del collo del vostro cavallo, su quel ciglio.Roberto d’Artois veniva avanti senza compagni, senza scudieri e perfino senza

un valletto. Procedeva al passo, orgogliosamente eretto sul proprio enorme cavallo e, così solo, pareva ancora più alto. La sua sagoma gigantesca si stagliava come una macchia rossa nel cielo nuvoloso e pareva che la punta della sua lancia arrivasse a toccare le nubi.

— È un segno di disprezzo, Monsignore, presentarsi così davanti a voi.— E lascia che mi disprezzi! — replicò Filippo di Poitiers.I cavalieri mandati in ricognizione ritornavano al galoppo dichiarando che i dintorni erano assolutamente tranquilli.— Strano, lo avrei creduto più accanito in una situazione così disperata — disse

il reggente.Un altro uomo, che avesse voluto far pompa della propria autorità, sarebbe

senza dubbio andato da solo incontro a quell’uomo solo, ma Filippo di Poitiers aveva un diverso concetto della propria dignità e non gli interessava compiere un gesto da cavaliere, ma un gesto da re. Aspettò dunque senza muoversi che Roberto d’Artois venisse a fermarsi davanti a lui, infangato e accaldato.

I soldati tutti trattennero il respiro: si udivano soltanto i tintinnii dei morsi nelle bocche dei cavalli.Il gigante gettò a terra la propria lancia, e il reggente contemplò senza parlare quell’arma distesa fra la stoppia.Roberto staccò allora dalla sella l’elmo e lo spadone, gettando anche questi

oggetti a terra accanto alla lancia.Il reggente ancora non aveva aperto bocca, anzi non aveva neppure alzato gli

occhi verso Roberto. Il suo sguardo era rivolto alle armi, come se aspettasse ancora un altro gesto.

Roberto d’Artois si decise allora a smontare da cavallo e, fatti due passi avanti, tremante di collera, finì per posare un ginocchio a terra: così poté finalmente incontrare lo sguardo del reggente.

— Caro cugino… — esclamò, tenendo le braccia aperte.Ma subito Filippo lo interruppe.— Avete fame, cugino? — gli chiese.E, mentre l’altro, che si era atteso una grande scena con scambi di nobili

parole, invito a rialzarsi, abbraccio e perdono, se ne restava lì tutto stupito, Filippo soggiunse:

— E allora, rimontate in sella e andiamo subito ad Amiens, dove vi farò conoscere le mie condizioni. Voi procederete accanto a me e mangeremo durante il percorso… Héron, Gamaches! Raccogliete le armi di mio cugino!Roberto d’Artois esitava a obbedire e continuava a guardarsi attorno.— Cercate qualcosa? — domandò il reggente.— No, nulla, Filippo. Sto solo contemplando ancora una volta questo paesaggio, per non dimenticarmelo più — rispose d’Artois.E accostò la mano al petto, nel punto in cui, attraverso la broigne, egli poteva

sentire quel sacchetto di velluto ove aveva conservato, quali preziose reliquie, le spighe, ora ridotte in briciole, raccolte proprio in quel campo durante l’estate precedente. E sorrise con estrema tristezza.

Ma trottando accanto al reggente, ritrovò la propria abituale sicumera.— Avete riunito un esercito un po’ troppo numeroso, cugino — disse, in tono

beffardo — per catturare un solo prigioniero.— Oggi, cugino, la cattura di venti bandiere — replicò Filippo nello stesso tono — mi farebbe assai meno piacere della vostra compagnia… Ma, spiegatemi perché vi siete arreso così in fretta; infatti, anche se le mie truppe sono molto più numerose, non può essere questa una ragione bastevole a smontare il vostro coraggio.— Ho pensato che venendo a battaglia avremmo fatto soffrire troppa povera gente.— Siete diventato delicato, Roberto — disse Filippo di Poitiers. — Eppure, a quanto mi hanno riferito, in questi ultimi tempi non vi siete particolarmente distinto per amore del prossimo.— Il nostro Santo Padre, il papa, mi ha scritto per richiamarmi ai miei doveri.— Siete anche diventato pio! — esclamò il reggente.— Ho meditato a lungo sulla lettera di quell’eccellente papa… che, a quel che mi dicono, è stato eletto con molta facilità. E siccome le parole in essa contenute assomigliavano molto ai testi delle vostre ingiunzioni, ho deciso di comportarmi come un suddito fedele e come un buon cristiano.— Insomma, ora siete un uomo caritatevole, religioso e leale! Come siete cambiato, cugino!Intanto Filippo, sbirciando di sottecchi il volto massiccio di quel gigante,

pensava: «Continua pure a fare il furbo; ti calmerai fra poco, quando conoscerai le mie condizioni di pace!»

Ma, anche davanti al consiglio riunitosi ad Amiens subito dopo il loro arrivo, Roberto mantenne lo stesso comportamento. Egli accettò senza protestare e senza ribellarsi, tutto quello che gli venne imposto, come se non stesse neppure ascoltando il trattato che gli veniva letto.

Con esso egli si impegnava a restituire «ogni castello, fortezza o feudo e tutto quello che egli aveva preso o occupato», e si faceva garante della restituzione di tutte le località occupate dai suoi partigiani. Accettava inoltre una tregua con Mahaut fino alla prossima Pasqua; per allora la contessa avrebbe comunicato le proprie decisioni e la corte dei pari si sarebbe pronunciata sui diritti delle due parti in causa. Intanto l’Artois sarebbe stato governato direttamente dal reggente che vi avrebbe mandato guardiani, funzionari e castellani, da lui stesso scelti. Fino alla decisione dei pari, inoltre, i redditi della contea sarebbero stati riscossi dal conte d’Evreux… e dal conte di Valois.

Ascoltando quest’ultima clausola, Roberto capì a quale prezzo il reggente aveva ottenuto la defezione del suo principale alleato. Ma anche allora non batté ciglio e

firmò senza discutere.Filippo di Poitiers era seriamente preoccupato per questa eccessiva e inattesa

sottomissione. «Quale colpo mancino starà ruminando?» pensava.E, desiderando egli rientrare al più presto a Parigi per il parto della regina,

affidò ai due marescialli, affiancati da parte dell’esercito, il compito di sostituire in quella regione il connestabile e di provvedere a che il trattato venisse applicato. Roberto presenziò sorridendo alla partenza dei marescialli.

Il suo calcolo era semplice. Arrendendosi da solo egli aveva evitato la distruzione delle proprie truppe. Fiennes, Souastre, Picquigny e gli altri avrebbero continuato la guerriglia, mantenendo il disordine nel paese e logorando le forze avversarie. Evidentemente il reggente non era in grado di preparare una spedizione ogni quindici giorni: i fondi del Tesoro non glielo avrebbero permesso. Roberto aveva dunque davanti a sé parecchi mesi assolutamente scevri da pericoli. Per il momento preferiva tornarsene a Parigi ed accettava con piacere l’occasione offertagli. Fra non molto il reggente e Mahaut avrebbero potuto avere qualche guaio.

Infatti — ed era questa la ragione principale del suo sorriso — Roberto aveva rintracciato la signora di Fériennes, fornitrice di veleni per la contessa d’Artois. E ci era riuscito, facendo pedinare due spie del reggente, inviate anch’esse alla sua ricerca. Isabella di Fériennes e suo figlio erano stati arrestati mentre vendevano la materia prima indispensabile a una «fattura». Gli uomini di Roberto avevano allora eliminato le spie del reggente, mentre la maga, dopo aver sottoscritto una confessione ben particolareggiata, era tenuta prigioniera in un castello d’Artois.

«Cosa farai, cugino — pensava il conte d’Artois osservando Filippo — quando dirò a Giovanni di Varennes di condurre da me quella donna e la presenterò alla Camera dei pari perché racconti come tu hai fatto assassinare tuo fratello? Neanche il tuo caro papa potrà farci nulla!»

Nel corso di quel viaggio il reggente tenne sempre Roberto accanto a sé; durante le soste essi mangiavano alla stessa tavola e di notte, nei monasteri o nei castelli reali, dormivano in camere adiacenti. I numerosi servitori del reggente sorvegliavano d’Artois con estrema cura. Tuttavia, a forza di mangiare, bere e dormire con un nemico, non si può fare a meno di provare per lui una certa simpatia; mai prima di allora i due cugini erano stati in così stretti rapporti. Il reggente, lungi dal dimostrare a Roberto la propria collera per essere stato costretto a tante fatiche e a spese così alte, lo trattava da parente e pareva divertirsi alle grossolane facezie del gigante e ai suoi atteggiamenti di finta bonomia.

«Manca poco, che si metta a volermi davvero bene, questo furfante! — pensava

Roberto. — Lo sto proprio prendendo in giro con un certo successo».La mattina dell’11 settembre, appena i due arrivarono alle porte di Parigi,

Filippo fermò improvvisamente il proprio cavallo.— Mio caro cugino, l’altro giorno ad Amiens vi siete fatto garante della consegna di tutti i castelli ai miei marescialli. Ma vengo a sapere che parecchi dei vostri amici non intendono rispettare il trattato e si rifiutano di cedere le località occupate Roberto sorrise allargando le mani in un gesto d’impotenza.— Ve ne siete fatto garante — ripeté Filippo.— Eh, sì, cugino, ho firmato tutto quello che avete voluto. Ma mi avete tolto ogni potere e ora sono i vostri marescialli che devono farsi obbedire.Pensieroso, Filippo accarezzò l’incollatura del proprio cavallo.— È vero, Roberto, che voi mi avete soprannominato Filippo Porte-Chiuse? — domandò.— È vero, cugino, è proprio vero — replicò l’altro ridendo.

— Sembra infatti che per voi le porte siano un importante strumento di governo.— E allora, cugino — disse il reggente — voi andrete a vivere nella prigione dello Châtelet e vi resterete finché i vostri uomini non avranno sgomberato tutti i castelli dell’Artois.

Per la prima volta da quando si era arreso, Roberto impallidì. Tutto il suo piano crollava e anche la signora di Fériennes non poteva per il momento essergli utile.

PARTE TERZA

DAL LUTTO ALLA CONSACRAZIONE

I • UNA NUTRICE PER IL RE

Giovanni I, re di Francia, figlio postumo di Luigi X il Testardo e della

regina Clemenza d’Ungheria, nacque nel castello di Vincennes la notte fra il 13 e il 14 novembre 1316.

La notizia venne subito annunciata ufficialmente e tutti i nobili indossarono gli abiti di gala. Nelle taverne, vagabondi e ubriaconi, per i quali ogni avvenimento era un eccellente pretesto per bere, incominciarono fin da mezzogiorno a sbronzarsi e a schiamazzare. E i negozianti di oggetti raffinati, orefici, mercanti di seta, fabbricanti di stoffe preziose e di passamanerie, venditori di spezie, di pesci rari e di prodotti d’oltremare, si fregavano le mani calcolando in anticipo le spese che questa festosa notizia avrebbe suggerito.

Per strada tutti sorridevano e la gente incontrandosi si salutava contenta:— E allora, amico, abbiamo finalmente un re!I parigini si sentivano rinvigoriti e le donnine dai capelli gialli incominciarono presto a lavorare, benché la tramontana flagellasse i sordidi vicoletti dietro Notre-Dame, dove le aveva confinate un editto di San Luigi.Quattro giorni prima, nella foresteria del convento delle Clarisse, Maria di

Cressay aveva dato alla luce un bambino, che pesava otto libbre, prometteva di diventare biondo come la madre e poppava a occhi chiusi con la voracità di un cucciolo.

Ogni tanto, le novizie, incappucciate di bianco, entravano nella cella di Maria per vederla fasciare il bimbo, per contemplare il suo volto radioso mentre allattava, per ammirare quel seno roseo, rigoglioso e pienamente sbocciato, per assistere insomma, con occhi di ragazze destinate a un’interminabile verginità, al miracolo della maternità, visto nel suo concreto manifestarsi e non soltanto sulle vetrate delle chiese.

Infatti, anche se ogni tanto una monaca veniva meno ai suoi voti, non era questo un avvenimento frequente come avrebbero potuto far credere i pubblici

rimatori con le loro canzoni; un neonato in un convento di Clarisse non era proprio un fatto abituale.

Quel giorno le suore erano molto agitate; il cappellano aveva loro comunicato l’avvenuta nascita del re, e la gioia della città penetrava anche in quella clausura.

— Il re si chiama Giovanni come il mio bambino — diceva Maria.Ed ella vedeva in ciò un lieto presagio. Stava per nascere una nuova

generazione di bimbi che avrebbero portato il nome del re, tanto più sorprendente quanto più inusitato nella storia della monarchia francese. A tutti i piccoli Filippi e a tutti i piccoli Luigi sarebbero dunque succeduti in tutto il regno innumerevoli Giovannini.

«E il mio è stato il primo», pensava Maria.Il precoce crepuscolo d’autunno stava già per sciogliersi nella notte, quando

una monaca entrò nella cella.— Donna Maria! — disse. — La madre badessa vi prega di recarvi in parlatorio. C’è qualcuno che vi aspetta.— Che mi aspetta?— Non so, io non ho visto. Ma credo che voi dobbiate presto partire.Maria arrossì, eccitata.— È Guccio, è il mio Guccio! È il padre del bambino… — spiegò poi alle novizie. — È il mio sposo che viene a prendermi.Si riabbottonò il corsetto, si ravviò sveltamente i capelli, guardandosi nella

finestra il cui vetro le forniva un buio e rudimentale specchio, si mise il mantello sulle spalle ed esitò un attimo davanti alla culla, incerta se portare con sé il bimbo per mostrare subito a Guccio quella meravigliosa sorpresa.

— Guardatelo come dorme, questo angioletto — dicevano le novizie. — Non lo svegliate, non fategli prender freddo. Andate pure, baderemo noi a lui.— Non tiratelo fuori dalla culla, però, e non lo toccate! — disse Maria.Scendendo le scale, ella era tutta sconvolta dalle mille preoccupazioni di una

madre. «Purché non si mettano a giocare con lui e non lo lascino cadere!» Ma intanto volava letteralmente verso il parlatorio, meravigliata di sentirsi così leggera.

Nella bianca sala, ammobiliata soltanto con un grande crocifisso e con due ceri che proiettavano immense ombre sulle pareti, la madre badessa, con le mani infilate nelle maniche, stava parlando con la signora Bouville.

Scorgendo la moglie del curatore, Maria non ne fu soltanto delusa, ma sentì con immediata, inspiegabile e assoluta certezza che quella donna magra dal volto rugoso veniva da lei come messaggera di sventure.

Un’altra persona al suo posto avrebbe pensato soltanto di non aver molta

simpatia per la signora Bouville; per Maria di Cressay, invece, ogni sentimento diventava presto passione ed ella considerava ogni subitanea simpatia e ogni istintiva avversione come altrettanti segni del destino. «Sono certa che è venuta qui per farmi del male», pensava.

Intanto la signora Bouville la stava osservando con occhi attenti e per nulla benevoli.— Avete partorito soltanto da quattro giorni — esclamò — e siete già fresca e bella come una rosa! Mi congratulo con voi, mia cara: vi si direbbe pronta a ricominciare! Evidentemente Dio tratta con particolare indulgenza coloro che sprezzano i suoi comandamenti, e riserva le esperienze più dolorose alle persone più meritevoli. Sapete, per esempio, madre — continuò rivolgendosi alla badessa — che la nostra povera regina ha avuto le doglie per più di trenta ore? Mi sembra di sentire ancora i suoi lamenti! Il re ha cercato di venir fuori con il sedere e così si è dovuto ricorrere ai ferri. C’è mancato poco che morisse e che morisse anche la madre. E la causa di tutto è il dolore sofferto dalla regina per la morte del suo sposo. Personalmente sono convinta che solo per un miracolo il bambino sia nato vivo. E poi, quando il destino incomincia a colpire una casa, non interrompe tanto presto la sua attività. Prendete per esempio Eudeline, la lingerista… la conoscete, vero?…

La badessa annuì con discrezione. Nel suo convento, fra le novizie più giovani, c’era una bimba di undici anni, che era figlia naturale di Eudeline e del Testardo.

— Beh, costei era di grande aiuto alla regina e la signora Clemenza la voleva continuamente al suo capezzale — continuò la signora Bouville. — Ebbene, l’altro giorno proprio Eudeline si è rotta un braccio cadendo da uno sgabello e ha dovuto venire ricoverata all’ospedale. E ora, per colmo di sventura, la nutrice che avevamo assunta e che era già pronta da una settimana, improvvisamente non ha più latte. Farci una cosa simile in un momento così difficile! Tanto più che la regina non è in condizioni di allattare; ha ancora la febbre. E il mio povero Ugo si agita, si spolmona, si dà da fare e non sa assolutamente che decisioni prendere: non sono cose da uomini, del resto. In quanto poi al sire di Joinville, che non ha più né vista né memoria, l’unica cosa che possiamo sperare da lui è che non venga a morirci fra le braccia. Insomma, madre, sono io che devo badare a tutto.Maria di Cressay si stava chiedendo perché le venissero confidate tutte queste

sciagure della famiglia reale. Ma improvvisamente la signora Bouville si volse verso di lei:

— Per fortuna che io ho ancora la testa sulle spalle, e mi sono ricordata che

questa ragazza che io avevo portato qui da voi doveva ormai aver partorito… Certo voi allatterete bene e vostro figlio starà crescendo a vista d’occhio, non è vero?Disse queste parole, come se volesse rimproverare alla giovane madre la sua

buona salute.

— Vediamo un po’ da vicino — aggiunse.E con mano esperta, come se stesse soppesando della frutta al mercato,

palpeggiò il seno di Maria. Costei ebbe un istintivo movimento di ripugnanza che le fece fare un salto indietro.

— Siete perfettamente in grado di allattare anche due bambini — continuò la signora Bouville. — Perciò, ragazza mia, voi verrete con me e darete il vostro latte anche al re.— Non posso, signora! — esclamò Maria, ancor prima di sapere come avrebbe potuto giustificare il suo rifiuto.— E perché non potete? Per il vostro peccato? Ma voi siete lo stesso una ragazza nobile e il peccato non vi ha impedito di avere molto latte. Consideratelo un modo per riscattarvi almeno in parte.— Io non ho peccato, signora, io sono sposata!— Purtroppo siete voi la sola a dirlo, povera piccola! Prima di tutto, se voi foste davvero sposata non sareste qui… E poi, a che serve discutere? Noi abbiamo bisogno di una nutrice…— Non posso perché sto appunto attendendo mio marito che deve venire a prendermi. Mi ha fatto comunicare che sarebbe venuto qui presto e che il papa gli ha promesso…— Il papa!… il papa!… — la interruppe la moglie del curatore. — Ma davvero è impazzita, questa qui! Crede di essere sposata e crede che il papa si preoccupi per lei… Ma smettetela di dire sciocchezze e di bestemmiare il nome del Santo Padre. E venite subito a Vincennes.— No, signora, non verrò — ribatté ostinata Maria.Allora la piccola signora Bouville incominciò ad arrabbiarsi: afferrò Maria per il

colletto e si mise a scuoterla.— Ma guardate questa ingrata! Prima gozzoviglia e si fa mettere incinta. Poi, dopo che noi ci siamo preoccupati per lei salvandola dalla prigione e portandola nel miglior convento di Parigi, se veniamo a chiederle di allattare il re di Francia, questa balorda non ne vuole sapere. Siete davvero un modello di suddita! Lo sapete che vi sto offrendo una mansione talmente onorifica che per essa si batterebbero le più nobili dame del regno?

— E allora, signora — ribatté Maria con altrettanta violenza — perché non vi rivolgete a quelle nobili dame tanto più degne di me?— Perché quelle stupide non sono inciampate al momento giusto! Ma cosa mi fate dire?… Su, smettiamola di discutere e seguitemi.Se lo zio Tolomei o anche il conte di Bouville fossero venuti a fare la stessa

domanda a Maria di Cressay, ella avrebbe certamente accettato. Era una ragazza generosa e si sarebbe spontaneamente offerta di allattare qualsiasi bimbo ne avesse avuto bisogno, e quindi a maggior ragione il figlio della regina. Orgoglio e interesse avrebbero potuto aggiungersi alla sua naturale bontà. Con lei nutrice del re e Guccio paggio del papa, tutte le loro difficoltà sarebbero state risolte e il loro avvenire assicurato. Ma la moglie del curatore non aveva saputo parlarle. L’aveva trattata non come una madre felice ma come una delinquente, non come una donna rispettabile ma come una serva. E Maria, che continuava a vedere nella signora Bouville una messaggera di sventure, non era più capace di riflettere e si ostinava nella propria decisione. I suoi grandi occhi azzurroscuri risplendevano di paura e di indignazione.

— Il mio latte preferisco tenerlo per mio figlio — disse.— La vedremo, disgraziata! Visto che voi non volete saperne di obbedirmi, manderò a chiamare gli scudieri che mi stanno aspettando e che vi porteranno via di forza.Intervenne allora la madre badessa, tutt’altro che favorevole alla progettata

violazione del suo convento.— Vi assicuro che non approvo minimamente il comportamento della mia parente — disse; — ma essendo ella affidata alla mia custodia…— Ma sono stata io, madre, ad affidarvela — esclamò la signora Bouville.— Non è una buona ragione per venire a farle violenza entro queste mura. Maria non uscirà di qui se non per propria volontà o per ordine della Chiesa!— O per quello del re! Questo è un convento regale, madre, non lo dimenticate. Io agisco in nome di mio marito; se vi serve un ordine del connestabile, che è tutore del re e che è appena tornato a Parigi, oppure un ordine del reggente in persona, ci penserà messer Ugo a farglielo firmare; perderemo ancora tre ore, ma alla fine sarò obbedita!La badessa cercò allora di parlare da sola a sola con la signora Bouville e la

informò a bassa voce che quello che Maria aveva detto a proposito del papa non era del tutto falso.

— E che mi importa? — ribatté la signora Bouville. — É al re che io devo

pensare e ho soltanto lei a disposizione.Poi uscì e andò a chiamare la sua scorta, ordinando agli scudieri di portar via la

ribelle.— Voi mi siete testimone, signora — disse la badessa, — che io non ho dato il mio consenso a questo ratto.Maria, in cortile, stava intanto gridando e cercando di divincolarsi dalla stretta

di due uomini.— Il mio bambino! Voglio il mio bambino!— Ha ragione — disse la moglie del curatore. — Lasciamole prendere il bambino. Ribellandosi in questo modo, ci ha fatto dimenticare le cose più ovvie!Qualche minuto dopo, Maria, che aveva raccolto in tutta fretta i suoi abiti, e

teneva fra le braccia il piccolo Giovanni, varcava singhiozzando la porta del convento.

Fuori erano in attesa due lettighe, già pronte per la partenza.— Guardatela lì — esclamò la signora Bouville. — Veniamo a prenderla in lettiga come se fosse una principessa e lei strilla e fa un mucchio di storie!Avvolta dal buio della notte, sballottata per più di un’ora dal trotto dei muli,

chiusa in una scatola di legno e d’arazzi, le cui cortine, sollevate dal vento, lasciavano penetrare all’interno il freddo di novembre, Maria ringraziava mentalmente i propri fratelli per averla costretta a mettersi il mantello da inverno alla partenza da Cressay. Quanto aveva sofferto per il caldo arrivando allora a Parigi così imbacuccata! «Non potrò dunque mai andarmene da un posto — pensava — senza essere accompagnata dalla sventura e dalle lacrime? Ma che cosa ho fatto di male perché tutti si accaniscano così contro di me?»

Il bimbo dormiva avvolto nella spessa stoffa del mantello. E Maria, sentendo quella piccola vita, incosciente e tranquilla, rannicchiata sul proprio petto, a poco a poco riprese a ragionare. Certo ella avrebbe visto la regina Clemenza, le avrebbe parlato di Guccio, le avrebbe mostrato il reliquiario. La regina era giovane e bella e sapeva aver pietà delle altrui sventure… «La regina… è dunque il figlio della regina che io dovrò allattare!…» pensava Maria, riflettendo finalmente sugli aspetti più favolosi e più insperati di questa avventura, di cui l’aggressiva autorità della signora Bouville le aveva fatto vedere a tutta prima soltanto il lato più odioso.

Il cigolio di un ponte levatoio, il passo smorzato dei cavalli sul legno di un tavolato, e infine il battere dei loro zoccoli sui ciottoli di un cortile… Maria venne invitata a scendere, passò fra due file di soldati, percorse un corridoio di pietra malamente illuminato e vide apparire un grosso uomo vestito di un giaco,

riconoscendo in lui il conte di Bouville. La giovane madre sentì alcune parole bisbigliatele intorno: una soprattutto, la parola «febbre», ritornava spesso in quei discorsi. Le fecero cenno di venire avanti in punta di piedi e sollevarono un paramento.

Nonostante la malattia, gli usi nella camera del parto erano stati rispettati. Ma, finita ormai la stagione dei fiori, erano state sparse al suolo soltanto ingiallite foglie d’autunno che già stavano marcendo a forza di essere calpestate. Intorno al letto c’erano molte seggiole, destinate ad accogliere visitatori che mai sarebbero venuti. C’era inoltre una levatrice che sminuzzava fra le dita erbe aromatiche, mentre nel caminetto stavano bollendo sui treppiedi di ferro decotti grigiastri. La stanza era illuminata soltanto dalle fiamme del focolare e da un lumino a olio al di sopra del letto.

Nessun rumore giungeva dalla culla, sistemata in un angolo.La regina Clemenza giaceva supina, tenendo le cosce alzate per il gran dolore e

tormentando le lenzuola. Aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi. Maria vide soltanto tanti capelli d’oro sparsi sui cuscini e quello sguardo ardente che pareva non vedere nemmeno gli oggetti sui quali si posava.

— Ho sete… ho tanta sete… — gemeva la regina.E l’infermiera mormorò alla signora Bouville:— Ha tremato per più di un’ora: batteva i denti e aveva le labbra violette come sul viso di un morto. Temevamo che stesse davvero morendo. Allora l’abbiamo frizionata bene dappertutto, e la sua pelle ha incominciato a scottare e sta scottando ancora. Ha sudato tanto che avremmo dovuto cambiarle le lenzuola, ma non sappiamo dove sia la chiave del ripostiglio per la biancheria.— Ve la darò io — rispose la signora Bouville.E accompagnò Maria in una stanza vicina, anch’essa riscaldata da un fuoco

acceso.— Voi alloggerete qui — disse.Qualcuno portò la culla regale. Il re era appena visibile fra tutte le fasce che lo

avvolgevano; aveva un naso molto piccolo, gli occhi chiusi e sonnecchiava, il poverino, in una immobilità dovuta a debolezza. Bisognava andargli molto vicino per sentirlo respirare. Ogni tanto una piccola smorfia, uno spasimo di dolore, dava un certo rilievo ai suoi lineamenti.

Davanti a quel piccolo essere cui era morto il padre e stava forse morendo la madre, a quel bimbo che dava così pochi segni di vita, Maria di Cressay sentì una profonda pietà. «Lo salverò — pensava. — Lo farò grande e forte».

Poi, essendoci in quella stanza soltanto una culla, ella adagiò il proprio figlio

accanto al re.

II • «LASCIAMO FARE A DIO»

Da ventiquattr’ore la contessa Mahaut era fuori di sé.

E, davanti a Beatrice d’Hirson che l’aiutava a vestirsi per permetterle di presenziare al battesimo del re, ella si decise finalmente a sfogare la sua ira e la sua delusione.

— Si sarebbe potuto credere che, essendo Clemenza tanto sofferente, non sarebbe riuscita a portare a termine la sua gravidanza. Se ne son viste tante, anche molto più forti, abortire prima del termine. E invece no, ha saputo resistere fino alla scadenza del nono mese. Poteva almeno mettere al mondo un nato-morto? Macché, il marmocchio vive. Avrebbe potuto nascere una figlia? Ohibò, è un maschio. Valeva la pena, cara Beatrice, darsi tanto da fare e correre tanti pericoli, non ancora del tutto sventati, per essere beffate dalla sorte in questo modo?Mahaut si era andata man mano convincendo di aver assassinato il Testardo

soltanto per permettere al genero e alla figlia di regnare sulla Francia. Non era lontana dal rimpiangere di non aver ucciso la moglie insieme al marito e concentrava tutto il suo odio su quel neonato che ancora non aveva visto, su quel bimbo cui fra poco avrebbe fatto da madrina e la cui esistenza, appena sbocciata, intralciava già le sue ambizioni.

Questa donna, estremamente potente, ricchissima e dispotica, aveva l’animo di un’autentica criminale. Il delitto era per lei il modo migliore per assoggettare il destino ai propri voleri: era lieta di accarezzarne il progetto e di respirarne il ricordo, ricavandone le torbide e piacevoli sensazioni dell’orrore, la gioia di un inganno abilmente condotto a buon fine e il piacere di segreti trionfi. Se un primo omicidio non sortiva i risultati sperati, subito ella incominciava a maledire l’ingiustizia della sorte, a provar compassione per se stessa, e a iniziare, come se questa fosse la cosa più naturale del mondo, la ricerca di una nuova testa da eliminare, di un altro ostacolo da abbattere.

Beatrice d’Hirson, sempre pronta a prevenire i più segreti desideri della contessa, sussurrò, abbassando le lunghe ciglia:

— Ho conservato, signora, un po’ di quella farina che la primavera scorsa vi è stata così utile per preparare i confetti del re.— Hai fatto bene, hai fatto molto bene — rispose Mahaut.

— È sempre meglio averne un poco a disposizione: sono così numerosi i nostri nemici!

Beatrice, pur essendo donna di alta statura, doveva alzare le braccia per allacciare la gorgiera della contessa e per sistemarle il mantello sulle spalle.

— Voi terrete in braccio il bambino, signora. E forse non avrete più tanto presto un’occasione simile… — continuò la giovane. — Basterebbe un pizzico di polvere, sapete, un po’ di polvere appena visibile sul dito.Parlava con voce dolce e allettante, come se stesse descrivendo qualche

ghiottoneria.— Ah, no — esclamò Mahaut — non durante un battesimo; potrebbe portarci disgrazia!— Credete davvero? In fondo, restituireste al cielo un’anima senza peccato.— E poi Dio sa come accoglierebbe la cosa mio genero. Non ho ancora scordato che faccia ha fatto quando gli ho raccontato come era morto suo fratello, e con quale strana freddezza si comporta con me da quel giorno… C’è già troppa gente che sta mormorando contro di me. E far fuori un re all’anno è molto. Per il momento, dunque, non ci rimane che sopportare quello appena nato.Uno sparuto gruppo di gente si recò quasi clandestinamente a Vincennes per

fare di Giovanni I un cristiano; i baroni, che per l’occasione non avevano badato a spese, convinti di essere invitati a un grandiosa cerimonia, ci rimisero tempo e denaro.

La malattia della regina, la nascita avvenuta fuori Parigi, le intemperie dell’inverno e lo scarso entusiasmo con il quale il reggente aveva accolto la venuta al mondo di quel nipote, tutto questo congiurò a fare di quel battesimo una cerimonia affrettata, di pura formalità.

Filippo arrivò a Vincennes accompagnato dalla moglie Giovanna, da Mahaut, da Gaucher di Châtillon e da qualche scudiero cui era affidata la cura dei cavalli. Egli aveva evitato di avvertire gli altri membri della famiglia. Del resto Valois era nei propri feudi a riscuotere denaro e Evreux ad Amiens a sistemare la situazione dell’Artois. In quanto a Carlo della Marche, Filippo aveva avuto il giorno prima un violento alterco con lui. La Marche, approfittando della nascita del re, aveva

chiesto al fratello la dignità di Pari, nonché un aumento de] proprio appannaggio e delle proprie rendite.

— Mi spiace, fratello — aveva risposto Filippo — ma io sono soltanto il reggente; soltanto il re potrà fare di voi un Pari, e solo quando sarà maggiorenne.Le prime parole di Bouville, accogliendo il reggente nella anticorte del

maniero, furono:— Nessuno ha armi, Monsignore? Nessuno porta daghe, pugnali o misericordie?35

E non si capiva se il buon Bouville diffidasse degli uomini di scorta o addirittura dei padrini.

— Non sono avvezzo, Bouville — replicò il reggente — a farmi seguire da scudieri disarmati.L’ex-gran ciambellano pregò allora con timida insistenza che gli scudieri

restassero nel primo cortile. Questi eccessi di zelo incominciarono a innervosire il reggente.

— Io apprezzo molto, Bouville, l’attenzione con la quale avete vegliato all’incolumità della regina; ma ora voi non siete più il curatore; spetta a me e al connestabile provvedere alla salute del re. E se lasciamo ancora a voi l’incarico, cercate di non abusarne.

— Monsignore, monsignore! — balbettò messer Ugo; — non intendevo offendervi. Ma corrono tante voci nel regno… Insomma, vorrei che capiste che io cerco di essere pari al mio compito e ne riconosco l’importanza.Ma non era molto abile a dissimulare i propri sentimenti: continuava a guardar

di sottecchi Mahaut e subito riabbassava gli occhi.«Evidentemente qui tutti mi sospettano e diffidano di me» pensava la contessa.Giovanna di Poitiers finse di non accorgersi di nulla e Gaucher di Châtillon,

che non era finora intervenuto nella discussione, risolse questa imbarazzante situazione dicendo:

— E allora, Bouville, volete lasciarci qui fuori a gelare? Su, fateci entrare!Ma non andarono a trovare la regina, anche per le allarmanti notizie

comunicate dalla signora Bouville. L’ammalata era tuttora in preda alla febbre e lamentava terribili mal di testa e violenti accessi di vomito.

— La pancia si sta di nuovo gonfiando come se non avesse mai partorito — spiegò la signora Bouville. — La regina non riesce a dormire e supplica di far cessare i rintocchi di campane che le risuonano di continuo nelle orecchie. E quando parla con noi, si esprime come se stesse conversando con sua nonna,

la Signora d’Ungheria, o col defunto re Luigi. È un vero peccato vedere qualcuno che sta perdendo la ragione e non poter far nulla.Il conte di Bouville, che era stato per vent’anni il gran ciambellano di Filippo il

Bello, aveva indubbiamente una solida esperienza in fatto di cerimonie regali. Quanti battesimi aveva organizzato!

Qualcuno intanto aveva portato in quella stanza gli oggetti rituali. Bouville e due gentiluomini della guardia si misero al collo lunghi tovaglioli bianchi, tenendone le estremità tese davanti a sé, per ricoprire con quei tovaglioli rispettivamente un bacile pieno d’acqua benedetta, un catino vuoto e una coppa contenente il sale.

La levatrice che aveva aiutato a portare in vita il bimbo, teneva invece il cuffiotto che avrebbero messo in testa al re dopo il battesimo.

Poi arrivò la nutrice, tenendo fra le braccia il piccolo Giovanni I.«Che bella ragazza», pensò il connestabile.La signora Bouville aveva dato a Maria un abito di velluto vermiglio, ricoperto

di pelliccia al collo e ai polsi, e le aveva fatto ripetere più volte i gesti che ella avrebbe dovuto compiere. Il bimbo era infagottato in un mantello, grande due volte lui, sul quale era stato messo un velo di seta color violetto che scendeva fino a terra come uno strascico.

Poi tutti si diressero verso la cappella. Guidavano il corteo alcuni scudieri che portavano in mano i ceri accesi, e lo chiudeva il siniscalco di Joinville, assai barcollante benché sorretto da due uomini. Egli si era però parzialmente riavuto dall’abituale stato di rimbambimento quando aveva appreso che il neonato si sarebbe chiamato Giovanni come lui.

Le pareti della cappella erano tappezzate di arazzi e il fonte battesimale ornato di velluto violetto. Accanto al fonte era stata messa una tavola sulla quale si trovavano una coperta di menu-vair, una tovaglia finemente ricamata e alcuni cuscini di seta. L’ambiente era riscaldato da pochi fornelli a brace, insufficienti a vincere la fredda umidità del locale.

Maria posò il bimbo sulla tavola per togliergli le fasce. Attenta a non commettere errori, ella sentiva il cuore che le batteva ed era talmente commossa che quasi non vedeva i volti che le stavano intorno. Chi avrebbe mai detto che proprio lei, scacciata dalla famiglia, avrebbe un giorno partecipato con incarichi così importanti al battesimo di un re, alla presenza del reggente di Francia e della contessa d’Artois? Entusiasmata per questo inatteso favore della sorte, ella sentiva ora molta gratitudine per la signora Bouville e le aveva già chiesto scusa per le bizze del giorno prima.

Mentre continuava a spogliare il bambino sentì che il connestabile si stava informando sul suo nome e sulle sue origini, e si sentì arrossire.

Il cappellano della regina aveva soffiato quattro volte sul corpo dell’infante, nelle quattro direzioni di un’immaginaria croce, per allontanare da lui il demonio in nome dello Spirito Santo; poi si era sputato sul dito indice e gli aveva spalmato di saliva le narici e le orecchie, a indicare che egli non doveva dar retta alle parole del diavolo né respirare le tentazioni del mondo e della carne.

Filippo e Mahaut sollevarono il piccolo re, prendendolo uno per le gambe e l’altra per le spalle. Il reggente con i suoi occhi da miope fissava con insistenza il minuscolo sesso del bimbo, quel roseo vermicello che buttava in aria tutto il suo sapiente regolamento di successione, quel ridicolo simbolo della legge dei maschi, quel piccolissimo ma insuperabile ostacolo venuto a porsi fra lui e la corona. «Comunque — pensava Filippo per consolarsi — resterò reggente per quindici anni, e in quindici anni possono accadere tante cose. Potrei anche morire, per esempio. E potrebbe morire anche questo bimbo».

Ma essere reggente non è lo stesso che essere re.Il bimbo era tranquillo, anzi sonnecchiava un poco durante i riti preliminari. Si

fece sentire soltanto quando lo immersero completamente nell’acqua fredda, ma questa volta urlò fin quasi a strozzarsi, mentre le sue lacrime si mescolavano all’acqua del battesimo. Poi per tre volte, mentre gli altri padrini e madrine, Gaucher, Giovanna, i Bouville e il siniscalco, allungavano le mani su quel piccolo corpo ignudo, il re di Francia venne immerso nell’acqua, prima con la testa verso Oriente, poi a Nord, infine a Sud, a raffigurare simbolicamente il disegno della Croce36.

Il piccolo si calmò soltanto quando lo tirarono fuori da quel bagno gelato e si lasciò ungere la fronte col santo crisma senza protestare. Lo adagiarono sui cuscini e Maria di Cressay incominciò ad asciugarlo mentre tutti gli altri si erano raccolti intorno alle stufette per scaldarsi.

Improvvisamente si udì la voce di Maria di Cressay.— Mio Dio, mio Dio! Sta morendo! — gridò.Tutti corsero verso la tavola. Il piccolo re aveva assunto un colorito azzurro

che diventava sempre più scuro, quasi nero. Aveva il corpo irrigidito, le braccia contratte, il collo contorto e gli occhi stravolti.

Una mano invisibile stava soffocando questa vita incosciente, circondata da luci tremolanti e da visi ansiosamente chini.

Mahaut sentì una voce mormorare:— È stata lei.

Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo dei due Bouville.«Ma chi è stato a fare il colpo per riversarne la responsabilità su di me?»

pensava.Intanto la levatrice aveva preso in braccio il bambino e cercava di rianimarlo.— Non è detto che muoia — disse — non è detto.Il piccolo rimase immobile, rigido, nero e contratto per quasi due minuti, un

tempo che parve infinito a tutti i presenti. Poi, improvvisamente, incominciò ad agitarsi, spingendo la testa in ogni direzione. Nessuno avrebbe mai potuto supporre tanta forza in un corpo così malaticcio; la levatrice doveva tenerlo ben stretto per impedirgli di divincolarsi. Il cappellano si fece il segno della croce, come se stesse assistendo a una manifestazione diabolica, e incominciò a recitare le preghiere per gli agonizzanti. Il bambino intanto faceva smorfie e perdeva bava: ma il suo volto non aveva più quel colorito nerastro: era divenuto livido, di un impressionante pallore. Per un attimo sembrò che la crisi fosse passata: il bimbo orinò sull’abito della levatrice e tutti lo ritennero fuori pericolo. Ma subito dopo la testa ricadde nuovamente in avanti e il corpo del piccolo divenne immobile e inette.

— È stato battezzato appena in tempo! — osservò il connestabile.Filippo di Poitiers si staccò dalle mani le gocce calde colate dai ceri.Poi improvvisamente il piccolo cadavere incominciò ad agitarsi e a strillare, non

molto forte, è vero, ma comunque con una certa vivacità. E muoveva le labbra come se stesse succhiando qualcosa: insomma, il re era vivo e aveva voglia di poppare.

— Il demonio ha combattuto molto, prima di uscire dal suo corpo — disse il cappellano.— Di solito — spiegò la levatrice — i bambini non hanno le convulsioni a quell’età. Forse stavolta sono dovute alle difficoltà della sua nascita. E anche al fatto che per parecchie ore non ha avuto latte dalla nutrice.Maria di Cressay si sentiva in colpa. «Se anziché perdere il tempo a discutere

con la signora Bouville, fossi venuta qui subito…», pensava.Nessuno, naturalmente, osò cercare le ragioni di quel malessere nell’immersione

in acqua fredda, né tanto meno alludere a tare ereditarie, agli zoppi, ai dementi e agli epilettici che fiorivano numerosi su quel gloriosissimo albero genealogico.

Del resto le spiegazioni proposte dalla levatrice, soprattutto la pressione esercitata sul cervello dal forcipe, erano più che sufficienti.

— Credete che possa soffrire di altri attacchi di questo tipo? — domandò Mahaut.

— È molto probabile, signora — replicò l’infermiera.— Questo male non si sa mai quando venga né quando vada via.

— Povero piccolo! — esclamò Mahaut a voce alta.Dopo di che il re fu riportato al castello e coloro che avevano presenziato al

battesimo se ne tornarono alle proprie case.Filippo di Poitiers non apri bocca in tutto il percorso, e, tornato a Palazzo, ebbe

un lungo colloquio con la suocera.— Poco fa avete corso il rischio di diventare re, figlio mio — disse Mahaut.Filippo non rispose.— Certo che, dopo quello che abbiamo visto oggi, nessuno potrebbe meravigliarsi se il bambino morisse uno di questi giorni — continuò la contessa.Ancora il reggente non aprì bocca.— Ma, anche se egli dovesse morire, voi sareste sempre costretto ad attendere la maggiore età di Giovanna di Navarra.— Ah, no, madre. Ah, no! — replicò immediatamente il conte di Poitiers. — Ora non dobbiamo più applicare le norme promulgate lo scorso luglio. Ora non è più in discussione la successione a Luigi, si può solo parlare della successione del piccolo re Giovanni. La corona dovrebbe dunque spettare a me o a mio fratello e sarei io l’erede di mio nipote.Mahaut lo fissava ammirata: «E ha pensato a tutto questo durante il battesimo!

…», pensava.— Voi, Filippo — aggiunse poi a voce alta — avete sempre sognato di diventare re, ammettetelo! Già da bambino, ricordo, spezzavate i rami per farvene degli scettri!Egli sollevò il capo e le sorrise, lasciando passare qualche istante in silenzio. Poi

aggiunse:— Sapete, madre, che la signora di Fériennes non è più ad Arras e che sono anche scomparsi gli uomini che io avevo mandato là per rapirla e per metterla in condizioni di non poter più parlare? Sembra che ella sia tenuta segretamente prigioniera in qualche castello d’Artois e che i vostri baroni se ne vantino apertamente.Mahaut si domandò cosa intendesse dire Filippo con questa frase. Voleva

avvertirla dei pericoli cui ella poteva andare incontro? O dimostrarle che si preoccupava per lei? O confermarle la precedente proibizione, riferentesi all’eventuale utilizzazione del veleno? Oppure, con quella allusione alla fornitrice del veleno stesso, intendeva darle via libera?

— Basterebbe un altro attacco come quello di oggi per provocare la morte di quel bimbo — insistette Mahaut.— Lasciamo fare a Dio, madre mia, lasciamo fare a Dio — disse Filippo, chiudendo il colloquio.«Lasciamo fare a Dio… o lasciamo fare a me? — pensò la contessa d’Artois. —

È un uomo prudente, mio genero, e non vuole sporcarsi nemmeno la coscienza; ma mi ha capita bene… È quel maledetto idiota di Bouville, ora, l’ostacolo più difficile da superare!»

Da allora, ella mise in moto la propria fantasia. Mahaut stava progettando un delitto e il fatto che la sua futura vittima fosse un neonato, eccitava la sua immaginazione come se si fosse trattato del suo più temibile avversario.

Ella iniziò immediatamente una accurata campagna di perfidie e di pettegolezzi. Diceva a tutti che il re non era in condizioni di sopravvivere e descriveva con le lacrime agli occhi la scena penosa del battesimo.

— Tutti noi lo abbiamo creduto morto, e c’è proprio mancato poco che morisse davvero. Chiedetelo un po’ al connestabile, che era anche lui presente: non ho mai visto messer Gaucher, un uomo così forte e così coraggioso, impallidire così… Del resto tutti voi potrete constatare con i vostri occhi quanto sia debole questo piccolo re, non appena egli verrà presentato ai baroni, secondo le usanze tradizionali. A meno che egli non sia già morto e non si stia cercando di nascondercelo. La presentazione, infatti, avrebbe dovuto essere già stata fatta e nessuno si è preoccupato di spiegarci questo ritardo. Sembra che sia messer di Bouville a opporsi, perché, a quanto pare, la povera regina… che Dio l’assista!… sarebbe in pessime condizioni. Ma, dopo tutto, la regina non è il re!Gli amici di Mahaut, per esempio suo cugino Enrico di Sully e il suo

cancelliere Thierry d’Hirson, diffondevano ovunque queste voci.E i baroni incominciarono a preoccuparsi. Perché mai, in fondo, non era

ancora avvenuta la presentazione ufficiale? Il battesimo semi-clandestino, le pretese difficoltà frapposte da Bouville, l’impenetrabile silenzio che circondava il castello di Vincennes, erano altrettanti indizi di una situazione misteriosa.

Correvano in città le voci più disparate. Il re era malato, per questo non volevano mostrarlo. No, il conte di Valois lo aveva fatto rapire e lo aveva portato in segreto a Napoli, per metterlo al sicuro. E la regina non era malata, ma era tornata in patria.

— Se è morto, dovrebbero comunicarcelo — mormorava qualcuno.— È stato il reggente a farlo sparire — garantivano altri.

— Ma cosa dite? Non conoscete il reggente. È più facile che abbia voluto difenderlo da Valois.— Non è stato il reggente, è Mahaut: sta preparando un colpo o magari lo ha già fatto. Insiste troppo a dire che il re non è in grado di sopravvivere!Mentre queste voci andavano diffondendosi negli ambienti di corte e tutti si

abbandonavano alle congetture più perfide e ai sospetti più infami senza praticamente risparmiare nessuno dei personaggi più influenti, il reggente pareva non volersi occupare di questa faccenda. Fingeva di dedicare il suo tempo agli affari del regno e a chi gli chiedeva del nipote, ribatteva parlandogli delle Fiandre, dell’Artois o della riscossione delle imposte.

La mattina del 19 novembre, quando ormai il nervosismo era giunto al colmo una folta delegazione di baroni e di dottori del Parlamento chiese udienza a Filippo per chiedergli decisamente di acconsentire alla presentazione ufficiale del re. E quelli che si aspettavano una risposta negativa o, quanto meno, un rinvio, palesavano già una certa irritazione.

— Io, messeri — disse il reggente, — desidero quanto voi questa presentazione. Ma perfino a me c’è qualcuno che risponde di no, ed è messer di Bouville.Poi, rivolgendosi a Carlo di Valois, rientrato due giorni prima dalla contea del

Maine dove si era recato a restaurare le proprie finanze, egli domandò:— Siete voi, zio, che, per salvaguardare gli interessi di vostra nipote Clemenza, cercate di impedire a Bouville di farci vedere il re?L’ex-imperatore di Costantinopoli, che non comprendeva assolutamente le

ragioni di questo rabbuffo, reagì vivacemente urlando:— Ma, per il santo nome di Dio, nipote, chi vi ha messo in testa questa idea? Non ho mai chiesto né ordinato una cosa simile! Anzi, sono già diverse settimane che non vedo Bouville e che non ricevo messaggi da lui! E sono tornato a Parigi apposta per questa presentazione. Vorrei proprio che la si facesse e che venissero riprese le antiche usanze dei nostri padri, come da tempo si sarebbe dovuto fare.— E allora, messeri, — disse il reggente — siamo tutti dello stesso parere, a quanto pare… Gaucher! Voi che eravate presente alla nascita di mio fratello… è la madrina, vero?, che deve presentare il bambino ai baroni?…— Certo che è la madrina — rispose Valois, seccato che si chiedessero lumi a un’altra persona su una questione attinente al cerimoniale di corte. — Io ho assistito a tutte le presentazioni, Filippo; alla vostra, che non fu molto solenne perché eravate il secondogenito, a quella di Luigi e a quella di Carlo. E anche i

miei figli, a motivo delle mie corone, sono sempre stati presentati ufficialmente. Ed è sempre stata la madrina a portarli.— E allora — disse il reggente — comunicherò immediatamente alla contessa Mahaut di prepararsi a questa cerimonia e ordinerò a Bouville di aprirci le porte di Vincennes. Partiremo a mezzogiorno.Per Mahaut questa era l’occasione da tempo attesa. Si fece vestire da Beatrice e

si mise in testa una corona: per uccidere un re ne valeva la pena.— Quanto tempo credi che ci voglia perché la tua polvere faccia effetto su un bambino di cinque giorni?— Non lo so, signora — rispose la damigella di compagnia. — I cervi dei vostri boschi sono morti dopo una notte, ma re Luigi ha resistito per quasi tre giorni…— Potrò sempre dar la colpa — disse Mahaut — a quella nutrice che ho visto l’altro giorno, una bella ragazza, indubbiamente, ma nessuno sa da dove venga né chi le abbia affidato questo incarico. I Bouville, suppongo…— Capisco, signora — replicò Beatrice sorridendo. — Se qualcuno avesse dei sospetti, si potrebbe incolpare quella ragazza e farla squartare.— La mia reliquia, la mia santa reliquia — disse Mahaut preoccupata, accostando le mani al petto. — Ah, sì, ce l’ho.Mentre ella usciva dalla camera, Beatrice le sussurrò:— E mi raccomando, signora, state attenta a non soffiarvi il naso.

III • LE ASTUZIE DI BOUVILLE

Fuoco a tutto spiano! — ordinò Bouville ai valletti.

— Bisogna che i caminetti ardano al massimo per diffondere calore dappertutto.L’ex-gran ciambellano girava per tutti i locali, paralizzando ogni attività nella

convinzione di galvanizzare i suoi dipendenti. Correva al ponte levatoio per ispezionare le guardie, ordinava di stendere sabbia nei cortili, poi la faceva scopar via perché tendeva a mutarsi in fango, e faceva controllare certe serrature che mai sarebbero servite. Ma si agitava tanto soprattutto per distrarsi dai tristi pensieri che lo ossessionavano.

«Quella donna lo ucciderà» — continuava a ripetersi.In un corridoio incontrò la moglie.— E la regina? — le chiese.Proprio quella mattina la regina Clemenza aveva ricevuto gli ultimi sacramenti.Il volto di quella donna, celebre nei due regni per la sua straordinaria bellezza,

era attualmente sfigurato e devastato dalla malattia La pelle aveva assunto un color giallastro e si era coperta di macchie rosse, grandi come monete da due lire, che emanavano un insopportabile fetore; le orine portavano tracce di sangue, il respiro era sempre più affannoso. Clemenza gemeva continuamente, affranta da insopportabili dolori alla nuca e al ventre. E da un pezzo continuava a delirare.

— È una febbre quartana — disse la signora Bouville. — L’infermiera dice che se l’ammalata riuscisse a sopravvivere ancora un giorno, sarebbe fuori pericolo. Mahaut si è offerta di mandarci messer di Pavilly, il suo medico personale37.— A nessun costo, mi raccomando — esclamò Bouville.

— Non dobbiamo permettere che una persona fedele a Mahaut possa introdursi qui.

Una madre morente e un bimbo minacciato, più duecento baroni che sarebbero arrivati fra poco con le proprie scorte! Si preparava una giornata estremamente caotica che avrebbe offerto infinite occasioni per commettere un

delitto.— Il bambino non deve rimanere nella camera accanto a quella della regina — continuò Bouville. — Non posso mandar lì un numero sufficiente di soldati a garantire la sorveglianza, e sarebbe troppo facile scivolare nella stanza adiacente attraverso gli arazzi.— E allora, deciditi, dove lo vuoi mettere?— Nella camera del re, i cui accessi sono molto più facili da controllare.I due coniugi si guardarono in viso ed ebbero ambedue lo stesso pensiero: era quella la stanza dove era morto il Testardo.— Fa’ mettere a posto quella camera, allora, e facci accendere il fuoco — insistette Bouville.— E va bene, mio caro, ti obbedirò. Ma, anche con cinquanta scudieri di guardia, non potresti impedire a Mahaut di tenere in braccio il bambino per presentarlo ai baroni.— La sorveglierò io, personalmente.— Se lei ha deciso di ucciderlo, lo farà anche sotto i tuoi occhi, mio povero Ugo. E tu non te ne accorgerai nemmeno. Un bambino di cinque giorni non si dimena molto. E Mahaut approfitterà del primo momento di confusione per conficcargli un ago nella nuca, per fargli respirare del veleno o per strangolarlo.— E allora, che cosa dovrei fare? — esclamò Bouville.

— Non posso certo dire al reggente che noi non permetteremo a sua suocera di prendere in braccio il re perché temiamo che possa ucciderlo!

— Certo che non lo puoi! Non ci resta altro che pregare, dunque — disse la signora Bouville, allontanandosi.E Bouville si recò nella camera della nutrice.Maria di Cressay stava allattando contemporaneamente ambedue i bimbi che,

ugualmente voraci, si aggrappavano ai suoi seni con le loro tenere unghiette e poppavano rumorosamente. Istintivamente generosa, Maria aveva offerto al re la mammella sinistra, ritenuta la più ricca di latte.

— Che vi succede, messere? — domandò poi a Bouville.— Mi sembrate sconvolto.

Egli le stava di fronte appoggiato allo spadone; le ciocche bianche e nere dei suoi capelli gli scendevano sulle guance e la pancetta gli gonfiava il giaco. Era a quel povero arcangelo sessantenne che era stata affidata la difficile salvaguardia di un infante.

— Solo perché il nostro piccolo sovrano è tanto debole — rispose poi con voce triste. — Solo per questo!

— Ma no, messere, si sta rimettendo; guardatelo, adesso è quasi grasso come il mio. E tutte queste medicine che mi somministrano, a me disgustano un poco, ma a lui sembrano fare davvero bene38.Bouville allungò una grossa mano, indurita dalle redini di cavallo e dai pomi di

spada, e accarezzò dolcemente quel piccolo cranio, sul quale già una sottile lanugine bionda si andava formando.

— Non è un re come gli altri, vedete… — mormorò.Il vecchio servitore di Filippo il Bello non era capace di esprimere in parole i

sentimenti che provava. Fin dove si spingevano i suoi ricordi, e anche quelli di suo padre, — la monarchia, il regno, la Francia, insomma tutto quello che aveva dato un senso alle sue funzioni e ispirato ogni suo atto — tutto si esprimeva in una lunga e solida catena di re forti e adulti che esigevano devozione e dispensavano favori.

Per vent’anni era stato lui ad avanzare la poltrona su cui sedeva un monarca che faceva tremare la cristianità; e non avrebbe mai creduto che la catena potesse così presto ridursi a quel piccolo anello roseo dal viso impasticciato di latte, che la pressione di una mano sarebbe stata sufficiente a spezzare.

— Si è proprio rimesso bene — disse, — tanto che, senza quel segno lasciatogli dai ferri e ormai quasi invisibile, sarebbe difficile distinguerlo da vostro figlio.— Oh, no, messere! — disse Maria. — Mio figlio è assai più pesante. Vero, Giovanni secondo, che tu sei più pesante?E subito arrossì.— Visto che sono ambedue Giovanni — spiegò — il mio lo chiamo Giovanni secondo. Forse non dovrei farlo…Bouville accarezzò la testa anche all’altro bimbo, in un gesto di meccanica

cortesia. I suoi occhi passavano continuamente dall’uno all’altro.Parve a Maria che gli occhi del grosso gentiluomo fossero attratti dal suo petto,

e ciò la fece di nuovo arrossire.«Ma quando la smetterò di arrossire continuamente? — pensava. — Allattare

non è una cosa disonesta o provocante».In quel momento entrò la signora Bouville, per portare gli abiti che il re

doveva indossare. E il marito la trasse un momento in disparte, bisbigliandole:— Credo di aver trovato una soluzione.Chiacchierarono sottovoce per qualche secondo. La signora Bouville scuoteva il

capo riflettendo, e per due volte volse lo sguardo verso Maria.— Chiediglielo tu — disse. — Io non godo le sue simpatie.

Allora Bouville si riaccostò alla nutrice.— Maria, figlia mia — disse; — voi potete rendere un grosso servigio al nostro piccolo re cui siete evidentemente molto affezionata. Fra poco verranno i baroni per assistere alla sua presentazione ufficiale. Ma noi abbiamo paura che egli prenda freddo e soffra nuovamente delle convulsioni che già lo ridussero in fin di vita il giorno del battesimo. Ve l’immaginate voi che cosa succederebbe se anche stavolta egli incominciasse a contorcersi? Tutti direbbero che egli non è in grado di sopravvivere, come già i suoi nemici apertamente sostengono. Noi baroni siamo uomini di guerra e vogliamo che il re dia prove di robustezza anche in così tenera età. Così, siccome vostro figlio è più grasso e di più bell’aspetto, vorremmo presentare lui come se fosse il re.Maria, leggermente preoccupata, guardò la signora Bouville, che subito disse:— Io non c’entro. È un’idea di mio marito.— Non commetterei peccato, messere, facendo una cosa simile? — domandò la nutrice.— Un peccato, figlia mia? No, anzi, è una buona azione proteggere il proprio re. E del resto non sarebbe la prima volta che si presenta al popolo un bambino robusto al posto di un, erede troppo gracile — la rassicurò Bouville, mentendo a fin di bene.— E non se ne accorgerà nessuno?— Come potrebbero accorgersene? — esclamò la moglie dell’ex-gran ciambellano. — Sono biondi tutti e due, e a quell’età tutti i bimbi si rassomigliano e si trasformano da un giorno all’altro. E poi, chi lo ha visto il re? Messer di Joinville che non ci vede, il reggente che ci vede poco e il connestabile, che s’intende assai più di cavalli che di neonati.— La contessa d’Artois non si meraviglierà non vedendo più i segni dei ferri?— Il bambino avrà in testa cuffia e corona…— E poi non c’è molta luce. Forse si dovranno accendere i ceri! — soggiunse Bouville, indicando oltre la finestra la pallida luce di novembre.Maria non resistette oltre. In fondo l’idea di questa sostituzione la lusingava e

per di più ella non sospettava che Bouville potesse avere secondi fini. Così si divertì a vestire il proprio figlio da re, a mettergli fasce di seta, a fargli indossare un mantello azzurro cosparso di fiordalisi d’oro, nonché la cuffia cui era stata cucita una piccola corona. Tutti questi oggetti facevano parte del corredo preparato ancor prima della sua nascita.

— Come sarai bello, Giovannino! — diceva Maria. — Una corona, mio Dio, una corona. Ma dovrai restituirla al tuo re, lo sai che dovrai restituirgliela?

E faceva ballonzolare suo figlio come se fosse una bambola, davanti alla culla di Giovanni I.

— Vedete, sire, il vostro fratello di latte, il vostro piccolo servitore vi sostituirà per impedirvi di prendere freddo.E intanto pensava: «Quando racconterò tutto questo a Guccio… Quando gli

dirò che suo figlio è il fratello di latte del re e che è stato presentato ai baroni in vece sua… Strana cosa è la nostra vita, ma non la cambierei con nessun’altra. Come sono contenta di voler bene al mio Lombardo!»

La sua gioia fu interrotta da un profondo gemito proveniente dalla camera accanto.

«La regina, mio Dio… — pensò Maria. — Mi dimenticavo della regina».In quel momento entrò uno scudiero ad annunciare l’arrivo del reggente e dei

baroni. La signora Bouville prese fra le braccia il bambino di Maria.— Lo porterò nella camera del re — disse — e lo lascerò li anche dopo la cerimonia, finché i baroni non se ne saranno andati. Voi, Maria, non dovrete muovervi di qui prima del mio ritorno. E se entrasse qualcuno, superando lo sbarramento che noi metteremo qui fuori per meglio proteggervi, ditegli che questo bambino è il vostro.

IV • «MESSERI, ECCO IL RE»

Il salone era appena sufficiente a contenere tanta gente: i numerosi

baroni accorsi a Vincennes tossivano, chiacchieravano e scalpicciavano, impazienti a causa della lunga attesa, in piedi. Le loro scorte avevano invaso i corridoi per meglio godersi lo spettacolo, e grappoli di teste si accalcavano davanti alle porte.

Il siniscalco di Joinville che, per risparmiare le proprie forze, si era alzato soltanto all’ultimo momento, era fermo con Bouville davanti alla camera del re.

— Sarete voi, messere, ad annunciarlo — gli disse l’ex-ciambellano. — Voi siete il più vecchio compagno di San Luigi e spetta a voi questo onore.Intanto Bouville, estremamente ansioso e col volto grondante sudore, pensava:

«Io non potrei… no, non potrei presentarlo io. Perfino la voce tradirebbe il mio affanno».

In quel momento egli vide comparire in fondo a un oscuro corridoio la contessa Mahaut, e quel colossale personaggio gli parve ancor più grande del solito, perché portava corona e indossava un pesante mantello da cerimonia. Mai la contessa d’Artois gli era parsa così alta e così terribile.

Si precipitò nella camera per dire alla moglie:— Ecco, è il momento.La signora Bouville si presentò alla contessa, il cui passo pesante faceva

rimbombare il pavimento, e le consegnò quel leggero fardello.La stanza era buia e Mahaut non poté dare al bimbo più di una rapida

occhiata. Si accorse soltanto che rispetto al giorno del battesimo egli era ingrassato.

— Ah, ah, è cresciuto il nostro piccolo re — disse. — Mi congratulo con voi, mia cara.— Il fatto è, signora, che noi gli badiamo molto, non volendo subire rimproveri dalla sua madrina — rispose la signora Bouville con la maggior gentilezza possibile.

«Era evidentemente tempo di agire — pensava Mahaut. — Sta troppo bene questo marmocchio».

La fioca luce proveniente da una finestra illuminò il volto dell’ex-ciambellano.— Perché sudate tanto, messer Ugo? — domandò la contessa. — Oggi non è certo una giornata calda.— È per tutto quel fuoco che ho fatto accendere… Messere il reggente non ci ha lasciato molto tempo per preparare ogni cosa.E i due si squadrarono per qualche istante.— Beh, andiamo — disse alfine Mahaut, — fatemi strada.Bouville offrì il braccio al vecchio siniscalco e i due curatori si incamminarono

a passo lento verso il salone. Mahaut li seguiva a breve distanza. Era il momento più favorevole, una occasione che forse non si sarebbe più presentata. La velocità tenuta dal siniscalco le permetteva di agire con tranquillità. Lungo i muri erano appoggiati numerosi scudieri e alcune dame d’onore, e tutti volgevano gli sguardi verso il piccolo re, appena visibile nella penombra. Ma chi si sarebbe accorto di un gesto talmente rapido e naturale?

— Su, presentiamoci bene — disse Mahaut al piccolo monarca che teneva in braccio. — Facciamo onore al regno e smettiamola di perder bava.Tirò fuori un fazzoletto dalla borsa e con esso asciugò sveltamente quelle

piccole labbra inumidite. Bouville si era voltato, ma il gesto era stato compiuto e Mahaut, nascondendo il fazzoletto nella mano, fingeva di sistemare il mantello del bimbo.

— Siamo pronti — disse.Allora si aprirono le porte della sala e si fece silenzio. Ma il siniscalco non

vedeva quella folla raccolta davanti a lui.— Annunciate, messere, annunciate — disse Bouville.— Chi devo annunciare? — domandò Joinville.— Ma il re, naturalmente, il re!— Il re… — mormorò Joinville. — Sapete che questo è il quinto sovrano che mi tocca servire?— Certo, certo, ma annunciatelo — ripeté Bouville innervosito.Alle loro spalle intanto, per maggior sicurezza, Mahaut stava asciugando una

seconda volta le labbra del bimbo.Finalmente il sire di Joinville, dopo essersi schiarita la voce, si decise a

proclamare con tono chiaro e solenne:— Messeri, ecco il re! Ecco il re, messeri!— Viva il re! — risposero i baroni, prorompendo nel grido trattenuto nelle

proprie gole fin dalla morte del Testardo.Mahaut si avvicinò al reggente e a tutti i membri della famiglia reale che gli

erano raccolti intorno.— Ma è robusto… è roseo… è grasso — dicevano i baroni vedendolo.— Cosa ci raccontavano che era gracile e incapace di sopravvivere? — sussurrò Carlo di Valois a suo figlio Filippo.— Si vede che la famiglia reale di Francia è ancora molto robusta! — esclamò Carlo della Marche per non essere da meno dello zio.Il figlio del Lombardo si comportava bene, anche troppo a giudizio di Mahaut.

«Potrebbe almeno gridare, agitarsi un poco» pensava la contessa. E sornionamente cercava di pizzicarlo attraverso il mantello. Ma le fasce erano spesse e l’infante si limitava a chiocciare beato. Evidentemente lo spettacolo cui i suoi occhietti azzurri aperti da poco stavano assistendo, incontrava la sua approvazione. «Questo piccolo verme! — pensava Mahaut. — Fra un momento magari si metterà a cantare… Ma canterà meno stanotte… se la polvere di Beatrice non ha perduto ogni potere!»

Intanto qualcuno in fondo alla sala strillava.— Non lo vediamo! Vogliamo vederlo anche noi!— Prendete, Filippo — disse Mahaut al genero, consegnandogli il bimbo. — Voi che avete le braccia più lunghe delle mie, mostrate il re ai suoi vassalli.Il reggente prese alla vita il piccolo Giovanni e lo sollevò in modo che tutti

potessero vederlo. Ma improvvisamente egli si sentì colare sulle mani un liquido caldo e viscoso. Il bambino si sentiva male e stava vomitando il latte succhiato mezz’ora prima, un latte divenuto verdastro e mescolatosi alla bile. Poi anche il suo volto prese lo stesso colore, divenendo via via sempre più scuro e assumendo poi una tinta indefinibile e inquietante.

Un’unanime esclamazione di angoscia e di disappunto proruppe dai petti di tutti i baroni.

— Mio Dio, mio Dio — esclamò Mahaut. — Ha di nuovo le convulsioni!— Riprendetevelo! — disse Filippo riponendole il bimbo fra le braccia, come se volesse disfarsi di un oggetto troppo pericoloso.— Lo sapevo io! — esclamò qualcuno.Era Bouville che, tutto rosso in viso, fissava di volta in volta adirato la contessa

e il reggente.— Sì, avevate ragione voi, Bouville — disse quest’ultimo.

— Era troppo presto per presentare ufficialmente questo piccolo malato.— Lo sapevo io!… — ripeté Bouville.Ma la moglie lo prese per un braccio, onde evitargli di commettere

un’irreparabile sciocchezza. E, sotto lo sguardo di costei, l’ex-ciambellano si calmò. «Che cosa mi prende? — pensava. — Sto comportandomi come un idiota. Il vero re non corre pericolo!» Ma, pur avendo egli fatto il possibile per stornare su un altro essere l’eventuale delitto, non aveva previsto come comportarsi qualora il delitto fosse stato effettivamente commesso.

Anche Mahaut non sapeva che fare. Non si aspettava che il veleno agisse con tanta rapidità. Si limitò a dire qualche parola nell’intento di tener tranquilli i presenti.

— Calma, messeri, calma! Anche l’altro giorno temevamo che stesse per morire e vedete invece come si è ripreso! È malattia di bambino, che si manifesta con estrema violenza ma che può scomparire rapidamente. Andate piuttosto a chiamare la levatrice — aggiunse infine, pronta a qualunque rischio pur di dimostrare la propria buona fede.Il reggente guardava con paura e con disgusto le proprie mani insozzate,

attento a non accostarle al corpo e a non posarle su alcun oggetto.Intanto il bimbo, che era diventato di un color azzurrognolo, stava

agonizzando.Seguì un periodo di disorientamento e di confusione: nessuno sapeva bene

cosa fare, né cosa precisamente stava succedendo. La signora Bouville corse verso la camera della regina, ma a metà strada si fermò pensando: «Se chiamo la levatrice, lei si accorgerà certamente che non è lui il figlio della regina, e noterà la mancanza del segno lasciato dai ferri. Speriamo che intanto nessuno gli tolga la cuffia!» E tornò indietro di corsa, mentre tutti si dirigevano verso la camera del re.

Ora nessuno poteva far più nulla per quel bimbo. Sempre avvolto in quel mantello costellato di fiordalisi, con la piccola corona posta di traverso, egli giaceva come un relitto in quell’enorme letto dalle coperte di seta. Con lo sguardo vuoto, le labbra annerite, le fasce insozzate e le viscere sconvolte, colui che era stato presentato alla corte come il re di Francia aveva cessato di vivere.

V • UN LOMBARDO A SAINT-DENIS

E ora, che cosa faremo? — si domandavano i Bouville.

Si trovavano praticamente prigionieri della trappola che essi stessi avevano montato.

Il reggente non si era fermato molto a Vincennes. Aveva radunato i membri della famiglia reale e li aveva pregati di montare a cavallo e di accompagnarlo a Parigi dove al più presto si sarebbe tenuta una riunione del consiglio. Poco prima che Filippo lasciasse il maniero, Bouville aveva tentato ancora una volta un coraggioso intervento.

— Monsignore — aveva detto, afferrando la briglia al cavallo del conte di Poitiers.Ma Filippo lo aveva subito interrotto.— Ma sì, ma sì, Bouville: vi sono grato per la vostra solidarietà con il lutto che ci ha colpiti. Nessuno di noi vi rimprovera nulla, credetemi. È il destino della natura umana che lo ha ucciso. Vi farò conoscere le mie disposizioni sui funerali.Dopo aver detto queste parole il reggente aveva superato il ponte levatoio e si

era allontanato al galoppo verso la capitale.E anche il suo seguito, costretto a procedere a forte velocità, non aveva molto tempo per riflettere.

Quasi tutti i baroni avevano seguito il conte di Poitiers. Erano rimasti a Vincennes soltanto pochi, i meno importanti e i meno impegnati, che si erano raccolti in piccoli gruppi per commentare l’avvenimento.

— Lo vedi — diceva Bouville alla moglie; — avrei dovuto parlare subito. Perché me lo hai impedito?— E la nutrice? — domandò Bouville.Se ne stavano in piedi davanti al vano di una finestra, parlando a bassa voce e

osando appena confidarsi i propri pensieri.

— Ci ho già pensato io. L’ho portata nella mia camera e l’ho chiusa dentro a chiave, facendola sorvegliare da due uomini.— Non sa ancora nulla?— No.— Eppure, bisognerà dirglielo.— Aspettiamo prima che tutti se ne siano andati.— Ah, avrei dovuto parlare! — ripeté Bouville.Egli era torturato dal rimorso di non aver seguito il suo primo impulso. «Se

avessi urlato la verità in presenza di tutti i baroni, se avessi loro presentato subito le prove…»

Ma per far questo, Bouville avrebbe dovuto essere un uomo di carattere diverso, per esempio un uomo della tempra del connestabile, e soprattutto non avrebbe dovuto avere la moglie alle spalle a tirarlo per la manica…

— Ma come potevamo immaginare — disse la signora Bouville — che Mahaut colpisse con tanta rapidità e precisione e che il bambino morisse davanti a tutti?— In fondo — mormorò l’ex-ciambellano — avremmo fatto meglio a presentare il vero re, permettendo al destino di seguire il suo corso.— Te l’avevo detto io!— Eh, sì, lo ammetto. È stata mia l’idea… Ed era una cattiva idea…A questo punto, infatti, chi mai avrebbe loro creduto? A chi avrebbero potuto

raccontare di aver ingannato l’assemblea dei baroni, facendo portare la corona al figlio di una nutrice? Era un’azione quasi sacrilega!

— Lo sai il rischio che corriamo adesso, se non stiamo zitti? — disse la signora Bouville. — Lo sai che Mahaut non ci metterebbe molto ad avvelenare anche noi?— Il reggente era d’accordo con lei; ne sono assolutamente certo. Pensa che quando si è asciugato le mani, sulle quali il bambino aveva vomitato, ha gettato poi la salvietta nel fuoco. L’ho visto io con questi occhi… Ci deferirebbe certamente a un tribunale, accusandoci di fellonia ai danni di Mahaut.Ormai la cosa che maggiormente li preoccupava era la loro personale sicurezza.— E il bambino? — domandò Bouville.— L’ho lavato e vestito con una delle mie donne mentre tu accompagnavi il reggente — rispose la moglie. — E ora ci sono quattro scudieri a vegliarlo. Non c’è nulla da temere in questo senso.— E la regina?— Ho dato ordine di non dirle niente per non aggravare ulteriormente il suo male. Del resto non sembra in condizioni di capire. Ho anche detto alle

infermiere di non allontanarsi dal suo capezzale.Poco dopo arrivò da Parigi il ciambellano Guglielmo di Sériz per comunicare a

Bouville che il reggente si era fatto riconoscere re dagli zii, dal fratello e da tutti i pari presenti. La seduta del consiglio era stata breve.

— In quanto ai funerali di suo nipote — disse il ciambellano, — Filippo nostro sire ha deciso di farli al più presto, per non affliggere troppo a lungo il popolo con questo nuovo decesso. Non ci sarà neppure esposizione del cadavere. E, siccome oggi è venerdì e alla domenica non è permesso seppellire nessuno, il corpo del piccolo re sarà portato a Saint-Denis domani stesso. L’imbalsamatore è già in viaggio. Ora devo andarmene, messere, perché il re mi ha ordinato di rientrare immediatamente a Parigi.Bouville non disse una parola. «Il re… il re…» continuava a pensare.Dunque il conte di Poitiers era il nuovo re, un piccolo Lombardo sarebbe stato

seppellito a Saint-Denis… e Giovanni I era ancora vivo.Bouville tornò dalla moglie.— Filippo è stato eletto re — disse. — Che cosa sarà di noi con quest’altro sovrano rimasto fra le nostre braccia?— Dobbiamo farlo sparire.— Ah, no! — esclamò Bouville indignato.— Ma cos’hai capito? Tu non connetti più, Ugo! — replicò la moglie. — Volevo dire che bisogna nasconderlo.— Ma così, non potrà regnare.— Ma per lo meno vivrà. E un giorno, forse… Chi lo può dire?Ma come nasconderlo? A chi affidarlo senza destare sospetti? Senza contare

che aveva continuamente bisogno di latte.— La nutrice… Possiamo servirci soltanto della nutrice — disse la signora Bouville. — Andiamo a parlarle.Avevano avuto una buona idea ad attendere che tutti i baroni se ne fossero

andati prima di comunicare a Maria la morte di suo figlio. Ella infatti gettò un grido tale da risuonare in tutto il castello. A quelli che lo udirono, e ne furono agghiacciati, venne spiegato che era stata la regina a strillare così. Ma perfino Clemenza, per quanto quasi del tutto incosciente, si era levata a sedere sul letto, chiedendo:

— Che sta succedendo?E anche il vecchio siniscalco di Joinville si riscosse dall’abituale torpore.— Stanno uccidendo qualcuno — disse. — Questo è il grido di una persona strangolata…

Intanto Maria continuava a ripetere:— Voglio vederlo, voglio vederlo, voglio vederlo!Sicché Bouville e sua moglie furono costretti a prenderla per la vita per

impedirle di precipitarsi in una corsa pazza attraverso il castello.Poi per due ore cercarono di calmarla, di consolarla e soprattutto di giustificarsi,

ripetendo spiegazioni che ella neppure ascoltava.Aveva un bel dirle Bouville di non avere alcuna responsabilità in tutto questo e

un bel riversare ogni colpa sul gesto criminale della contessa Mahaut… Le sue parole si stampavano inconsciamente nella memoria di Maria, dalla quale più tardi sarebbero tornate in vita, ma per il momento non avevano per lei alcun significato.

Ogni tanto smetteva di piangere e guardava diritto davanti a sé. Poi ricominciava a gemere come un cane schiacciato da un carro.

I Bouville pensarono che ella stesse davvero per impazzire. E cercarono in ogni modo di farla ragionare: grazie a questo involontario sacrificio, Maria aveva salvato il vero re di Francia, il discendente di una così illustre famiglia…— Voi siete giovane — diceva la signora Bouville, — avrete altri bambini. Quale donna in tutta la sua vita non ha perduto almeno un bambino appena nato?E le citava i gemelli nati-morti di Bianca di Castiglia e tutti i piccoli defunti

della famiglia reale nelle ultime tre generazioni. Gli Anjou, i Courtenay, i Borgogna, gli Châtillon… Perfino i Bouville contavano nella loro schiatta molte madri schiantate da un simile lutto, e che tuttavia erano poi invecchiate felici, circondate da numerosa progenie. Per ogni dodici o quindici figli che una donna abitualmente procreava, normalmente non ne sopravviveva più della metà.

— Ma lo capisco — disse la signora Bouville. — Se è il primogenito che muore, la cosa è molto più dura.— No che non capite! — gridò allora Maria attraverso i singhiozzi. — Quello… quello non potrò mai sostituirlo!Il bimbo che le avevano ucciso era infatti il figlio dell’amore, nato da un desiderio più violento e da una speranza più incrollabile di tutte le leggi e di tutte le convenzioni del mondo; era il sogno che ella aveva pagato con due mesi di ingiurie e quattro di convento; era il perfetto risultato che ella si preparava ad offrire all’uomo della sua vita, la pianta miracolosa sulla quale aveva tanto sperato di veder fiorire, in ogni giorno della sua vita, i suoi amori contrastati e meravigliosi!

— No che non potete capire! — ripetè Maria gemendo.

— Voi non siete mai stata scacciata dalla vostra famiglia per un bambino! No, non ne avrò mai più un altro!Quando si incomincia a descrivere il proprio dolore, a tradurlo in termini immediatamente comprensibili, vuol dire che lo si è già accettato come tale: allo strazio, all’oppressione quasi fisica si sostituisce lentamente il secondo stadio della sofferenza, cioè una crudele contemplazione.

— Lo sapevo, lo sapevo io, quando non volevo venire qui, che andavo incontro alla sventura!La signora Bouville non osava ribattere nulla.— E che dirà Guccio quando lo saprà? — disse Maria.

— Come farò a dirglielo?— Non deve saperlo mai, figlia mia! — esclamò la signora Bouville. — Nessuno deve sapere che il re è ancora vivo, perché in questo caso chi ha sbagliato la prima volta non esiterebbe a colpire di nuovo. Anche voi siete in pericolo, perché eravate d’accordo con noi. E dovrete mantenere il segreto finché non sarete autorizzata a svelarlo.E mormorò poi al marito:— Vai a prendere i Vangeli.Quando tornò Bouville, che era andato a prendere quel grosso libro nella

cappella, i due coniugi convinsero Maria a giurare su di esso di osservare il più assoluto silenzio, anche col padre del piccolo morto, e perfino in confessione, sul dramma in cui ella aveva avuto una parte così importante. Soltanto Bouville e la moglie avrebbero potuto scioglierla da questo giuramento.

Nelle condizioni in cui si trovava, Maria accettò di giurare tutto quello che le venne chiesto. Bouville le promise anche una pensione, ma a lei importava poco del denaro.

— E ora, ragazza mia, dovrete tenere con voi il re di Francia e presentarlo a tutti come vostro figlio — aggiunse la moglie dell’ex-ciambellano.

Maria si ribellò: non voleva più toccare il bambino al posto del quale il suo era stato assassinato. E non voleva più rimanere a Vincennes: voleva fuggire, in qualunque posto, e morire tranquilla.

— Morirete certamente, se racconterete questa storia. Mahaut non ci metterà molto a pugnalarvi o ad avvelenarvi.— No, non dirò nulla, l’ho giurato. Ma lasciatemi andar via, ve ne supplico!— Certo che ve ne andrete, ma non avete il diritto di lasciar morire anche lui. Ha fame questo piccolo, vedete. Allattatelo almeno oggi — concluse la signora Bouville, mettendole fra le braccia il figlio di Clemenza.

Allora Maria singhiozzò ancor più intensamente: soffriva troppo, per l’assenza dell’altro bimbo, divenuta ora anche fisicamente più evidente.

— Tenetelo, dunque, e consideratelo come vostro figlio — disse la signora Bouville. — E, quando verrà il momento di riportarlo sul trono, voi sarete onorata a corte con lui e sarete considerata la sua seconda madre.Una nuova menzogna non le costava molto. D’altra parte non era la speranza

di onori futuri che poteva convincere Maria. Ma c’era la presenza di quella piccola vita che ella teneva fra le braccia e sulla quale stava inconsciamente trasferendo il suo affetto materno. Così appoggiò le labbra sul capo lanuginoso del bimbo, aprendo macchinalmente il proprio corsetto e mormorando:

— No, mio piccolo Giovanni, non posso lasciarti morire…I Bouville sospirarono sollevati: almeno per il momento, essi avevano vinto.— Bisogna che domani, quando verranno a prendere suo figlio per seppellirlo, ella non sia più a Vincennes — disse sottovoce al marito la moglie del curatore.Così l’indomani Maria, completamente prostrata e interamente sottomessa alle

decisioni della signora Bouville, venne riportata con quel bambino nel convento delle Clarisse.

La moglie dell’ex-ciambellano spiegò alla madre badessa che la mente di Maria era stata violentemente sconvolta dalla morte del piccolo re e che non bisognava badare alle cose che ella poteva raccontare.

— Ci ha fatto proprio paura — disse. — Continuava a strillare e non riconosceva nemmeno più suo figlio.La signora Bouville raccomandò inoltre di non permettere ad alcuno di far

visita alla nutrice del re e di lasciarla nel silenzio e nell’isolamento più assoluti.— Se qualcuno chiedesse di lei, non fatelo entrare, ma mandate subito ad avvertirmi.Quel giorno stesso vennero portati a Vincennes due drappi d’oro costellati di

fiordalisi, due drappi di Turchia ricamati con lo stemma di Francia e otto aune di cendal nero39 per la sepoltura del primo re di Francia che si fosse mai chiamato Giovanni. E fu effettivamente un bambino che portava questo nome a lasciare il castello in una bara talmente piccola da non richiedere neppure un carro per trasportarla. Venne infatti condotta a Saint-Denis sul basto di una mula.

Messer Goffredo di Fleury, intendente del palazzo, annotò nei suoi registri le spese sostenute per questi funerali: centoundici lire, diciassette soldi e otto danari.

Questa volta non ci furono lunghi cortei fastosi né cerimonie solenni a Notre-Dame, La corte si recò direttamente a Saint-Denis, dove il piccolo cadavere venne

inumato subito dopo la messa. Accanto al sepolcro di Luigi X, ancora bianco e fresco, i becchini avevano scavato una fossa più piccola. E qui essi seppellirono fra le ossa dei sovrani di Francia, il figlio di Guccio Baglioni, mercante senese, e di Maria di Cressay, damigella dell’Île-de-France.

Adamo Héron, primo ciambellano e maestro di palazzo, si accostò alla tomba e, fissando il suo signore, Filippo di Poitiers, disse:

— Il re è morto, viva il re!Incominciava così il regno di Filippo V, il Lungo; Giovanna di Borgogna era la

nuova regina di Francia e Mahaut d’Artois assaporava le gioie del trionfo.Soltanto tre persone in tutto il regno sapevano che il vero re era ancora vivo,

ma una di esse aveva giurato il segreto sulle Sacre Scritture e le altre due tremavano nella prospettiva che questo segreto venisse svelato.

Tutti i sovrani che da quel sabato 20 novembre 1316 regnarono sulla Francia furono dunque una lunga serie di involontari usurpatori.

VI • LA FRANCIA IN MANI SALDE

Per conquistare il trono Filippo V si era valso, pur nell’ambito delle

istituzioni fondamentali della monarchia, di una tecnica antica quanto il mondo e che in termini moderni viene chiamata colpo di stato.

Venuto a trovarsi, per la propria personale autorità e per l’appoggio di alcuni uomini particolarmente notevoli, investito di fatto di prerogative sovrane, egli aveva fatto ratificare dall’assemblea di luglio norme di successione che alla lunga avrebbero anche potuto agire in suo favore, ma soltanto attraverso improbabili circostanze e con il verificarsi di innumerevoli condizioni preliminari. Ma alla morte del piccolo re, Filippo, violando scientemente anche le regole da lui stesso promulgate, si appropriò della corona, senza sottostare né alle fasi di trapasso né al rispetto delle condizioni preliminari.

Naturalmente chi raggiunge il potere con metodi simili è spesso fatto segno, almeno nei primi tempi, a infinite ostilità.

Occupato com’era a consolidare la propria posizione, Filippo non ebbe neppure il tempo di assaporare la gioia della vittoria né di rallegrarsi per la realizzazione di tanti sogni. Era ancora troppo stretta la cima sulla quale gli era riuscito di arrampicarsi.

Le voci più disparate correvano intanto in tutto il regno e i sospetti andavano sempre più diffondendosi. Tutti sapevano che il nuovo re era un uomo energico e quelli che rischiavano di farne le spese avevano fatto causa comune col duca di Borgogna.

Costui era subito corso a Parigi per opporsi all’ascesa al trono del suo futuro suocero. Egli chiedeva che venisse convocata la Camera dei pari e nominata regina Giovanna di Navarra.

Questa volta Filippo non poté usare l’astuzia. E se, per essere riconosciuto reggente, egli aveva offerto la figlia e la contea di Borgogna, per conservare il potere era ora pronto a separare le due corone di Francia e di Navarra, da poco

tempo unite in una sola persona, e di cedere alla discussa figlia di suo fratello il piccolo regno pirenaico.

Ma se Giovanna era degna di regnare sulla Navarra, era anche degna di diventare regina di Francia. Così almeno pensava il duca Eudes, che non volle saperne di cedere. Era dunque inevitabile una lotta aperta fra di loro.

Eudes ripartì al galoppo per Digione e lanciò di qui, in nome della nipote, un proclama a tutti i nobili d’Artois, di Picardia, di Brie e di Sciampagna per invitarli a rifiutare obbedienza all’usurpatore.

La stessa richiesta venne indirizzata anche a re Edoardo II d’Inghilterra il quale, nonostante gli sforzi della moglie Isabella, fu ben felice di inasprire ancor più il litigio, schierandosi dalla parte dei Borgognoni. Ogni discordia in Francia era per il re inglese un possibile mezzo per riconquistare la Guienna.

«È dunque questo il risultato cui sono arrivata, denunciando l’adulterio delle mie cognate?», pensava la regina Isabella.

Minacciato a nord, a est e a sud-ovest, un uomo che non avesse avuto il carattere di Filippo il Lungo avrebbe probabilmente desistito. Ma il nuovo re sapeva di aver parecchi mesi a propria disposizione. L’inverno non era stagione per combattere e i suoi nemici sarebbero stati costretti ad attendere la primavera, quand’anche avessero deciso di ricorrere alle armi. La cosa più urgente era dunque per Filippo il farsi incoronare e essere così rivestito dell’indelebile maestà della consacrazione ufficiale.

Decise dapprima di organizzare questa cerimonia per il giorno dell’Epifania: la festa dei Re Magi gli pareva di buon augurio, anche perché suo padre si era fatto incoronare proprio in quella data. Gli fu però fatto presente che i borghesi di Reims non avrebbero avuto il tempo di approntare ogni cosa, ed egli acconsentì a un rinvio di tre giorni. La corte avrebbe lasciato Parigi il 1° gennaio e la consacrazione sarebbe avvenuta la domenica 9 dello stesso mese.

Dai tempi di Luigi VIII, primo re non designato mentr’era ancor vivo il suo predecessore, mai l’erede al trono aveva mostrato tanta fretta di correre a Reims.

Ma Filippo considerava ancora insufficiente la consacrazione religiosa; egli voleva anche qualcos’altro, qualcosa che colpisse in modo nuovo la coscienza del suo popolo.

Egli aveva spesso riflettuto sugli insegnamenti di Egidio Colonna, l’ex-precettore di Filippo il Bello, l’uomo che aveva maggiormente influenzato il pensiero del Re di Ferro.

«Parlando in assoluto — aveva scritto Egidio Colonna nel suo trattato sui fondamenti della monarchia — sarebbe preferibile che il re venisse eletto; soltanto

le smodate ambizioni degli uomini e il loro modo d’agire possono far preferire il sistema ereditario a quello elettivo».

— Voglio essere re col consenso dei miei sudditi — disse Filippo il Lungo. — Solo così mi sentirò veramente degno di governare. E, visto che certi grandi mi sono nemici, darò la parola ai piccoli.Suo padre gli aveva aperto la via convocando nei momenti più difficili del suo

regno assemblee in cui erano rappresentate tutte le classi, tutti gli «stati» del regno. Filippo decise dunque che due assemblee di questo tipo, ma ancor più numerose, si sarebbero tenute a Parigi e a Bourges, rispettivamente per la lingua d’oil e per la lingua d’oc, nelle settimane successive all’incoronazione. E pronunciò l’espressione «Stati Generali».

I legisti incominciarono a redigere i testi che sarebbero stati presentati agli Stati, per ratificare col voto del popolo l’ascesa al trono di Filippo. Naturalmente furono ripresi gli argomenti del connestabile, fu cioè sostenuto che i gigli non possono filare la lana e che il regno era troppo nobile per cadere in mano a una donna. Ma se ne presentarono di ancor più strani, sottolineando per esempio il fatto che fra il venerato San Luigi e Giovanna di Navarra esistevano ben tre intermediari successori, mentre fra San Luigi e Filippo ne esistevano soltanto due.

Questo cavillo suscitò le immediate reazioni di Carlo di Valois.— E allora perché non io? — esclamò costui. — Fra me e San Luigi non c’è che mio padre!…Infine i consiglieri del Parlamento, spinti da messer di Noyers, esumarono, pur

senza crederci troppo, il vecchio codice riferentesi alle usanze dei Franchi Salii, che era anteriore alla conversione di Clodoveo al cristianesimo. Questo codice non diceva nulla che si riferisse alla trasmissione del potere regale. Era semplicemente una raccolta di giurisprudenza civile e penale piuttosto confusa e per di più quasi incomprensibile in quanto redatta più di otto secoli prima. Una breve nota stabiliva che l’eredità delle terre doveva essere suddivisa in parti uguali fra gli eredi maschi. Non c’era altro.

Ma questo fu più che sufficiente a qualche dottore in diritto secolare per fornire la base di una complicata dimostrazione e per sostenere la tesi per la quale essi venivano pagati. La corona di Francia poteva spettare solo ai maschi perché corona implica possesso di terre. Del resto la prova migliore che le leggi saliche fossero state applicate fin dalle origini, stava nel fatto che Soltanto gli uomini erano finora saliti sul trono di Francia. Così Giovanna di Navarra poteva essere eliminata senza nessun bisogno di accusarla di illegittimità, accusa questa difficilmente dimostrabile.

I dottori erano maestri di manipolazioni. E così nessuno osò obiettar loro che la dinastia merovingia non discendeva dai Salii, ma dai Sicambri e dai Bructeri; come nessuno si prese la briga di andare a controllare di persona questa famosa legge salica, inventata per l’occasione e destinata a una notevole fortuna nella Storia, dopo aver rovinato il regno con cent’anni di guerre.L’adulterio di Margherita di Borgogna costava caro alla Francia.Ma per il momento il potere centrale era in mani salde. Filippo aveva

incominciato a riorganizzare l’amministrazione, a chiamare nel proprio consiglio i grandi borghesi e a creare i suoi «cavalieri al seguito», per compensare quelli che lo avevano fedelmente servito fin dai tempi di Lione.

Egli riscattò inoltre da Carlo di Valois la zecca di Le Mans, prima di riscattarne altre dieci sparse in tutta la Francia. D’ora in poi soltanto il re avrebbe così avuto la possibilità di battere la moneta che poteva aver corso nel regno.

Ricordandosi delle idee espresse da Giovanni XXII quando costui era soltanto il cardinale Duèze, Filippo preparò una riforma del sistema di ammende penali e dei diritti di cancelleria. I notai avrebbero dovuto versare ogni sabato al Tesoro le somme incassate e la registrazione degli atti sarebbe stata concessa solo dietro versamenti in denaro, secondo le tariffe stabilite dalla Corte dei conti40.

Le stesse disposizioni prese per le cancellerie vennero applicate alle dogane, alle prevosture, alle capitanerie delle città e alle esattorie. Gli abusi e le malversazioni, così frequenti dopo la morte del Re di Ferro furono energicamente repressi; e in tutte le classi sociali, in tutta l’attività della nazione, nelle corti giudiziarie, nei porti, nelle fiere e nei mercati, i cittadini compresero che la Francia era di nuovo in mani salde, le mani di un uomo di ventitré anni.

Ma è difficile guadagnarsi la fedeltà di qualcuno senza beneficarlo; così il primo periodo del regno di Filippo fu caratterizzato da numerosi atti di generosità.

Il vecchio siniscalco di Joinville si era fatto riaccompagnare al proprio castello di Wassy, dove aveva espresso il desiderio di voler morire. Sentiva infatti di essere arrivato alla fine dei suoi giorni. Suo figlio Anseau, che fin dai tempi di Lione era sempre rimasto vicino a Filippo, disse un giorno a quest’ultimo:

— Mio padre dice che a Vincennes sono successe cose strane quando è morto il piccolo re, e che gli sono pervenute voci piuttosto preoccupanti.— Lo so, lo so — rispose il re. — Anche a me, in quei giorni tante cose sono parse piuttosto sorprendenti. Volete sapere, Anseau, che cosa penso? Non ho prove, badate bene, e non voglio parlar male di Bouville. Ma mi domando a volte se mio nipote non era già morto prima del nostro arrivo e se non ci hanno presentato in sua vece un altro bambino.

— Ma perché avrebbe dovuto farlo?— Non so… Per paura di essere rimproverato, o magari accusato, da Valois o da qualcun altro. In fondo egli era la sola persona incaricata di vigilare sulla salute del bambino e, ve ne ricordate? non voleva mostrarlo a nessuno. Comunque, vi ripeto, la mia è soltanto una supposizione, che non ha alcun fondamento reale… E, comunque, sarebbe sempre troppo tardi.Fece una pausa e poi aggiunse:— Anseau, vi ho messo in lista per un dono di quattromila lire, onde dimostrarvi la mia gratitudine per l’aiuto che sempre mi avete prestato. E se, come credo, mio cugino il duca di Borgogna non sarà presente il giorno della consacrazione per allacciarmi gli speroni, sarete voi che adempirete a questo ufficio. Siete abbastanza nobile per poterlo fare.Per cucire le bocche l’oro è sempre stato il metallo migliore, ma Filippo sapeva

che con certi uomini bisogna indorare un poco anche la cucitura.Rimaneva in sospeso la faccenda di Roberto d’Artois: Filippo era ben lieto di

aver tenuto in prigione il suo pericoloso cugino durante gli ultimi avvenimenti. Ma non poteva lasciarlo allo Châtelet tutta la vita. Ogni incoronazione esige atti di clemenza, e concessione di grazie. Così, anche per esaudire le insistenti richieste di Carlo di Valois, Filippo finse di comportarsi da principe generoso.

— E va bene, per farvi un piacere, zio, metterò in libertà Roberto… — disse.Poi fece una breve pausa con l’aria di chi stesse riflettendo — … ma soltanto tre

giorni dopo la mia partenza per Reims — aggiunse — e non gli permetterò di allontanarsi da Parigi più di venti leghe.

VII • SOGNI CROLLATI

Nella sua ascesa al trono Filippo il Lungo non si era limitato a scavalcare

due cadaveri, ma lasciava alle proprie spalle altri due destini spezzati, due donne praticamente annientate: la regina e un’oscura sua suddita.

Il giorno dopo i funerali del falso Giovanni I a Saint-Denis, la signora Clemenza d’Ungheria, che tutti ritenevano vicinissima a morire, aveva lentamente incominciato a riprendersi. Le cure prestatele si rivelavano finalmente efficaci; febbre e infezione abbandonavano il suo corpo, quasi per lasciare il posto ad altre sofferenze. Le prime parole pronunciate dalla regina, non appena ebbe ripreso conoscenza, furono per chiedere di suo figlio, del piccolo Giovanni che lei finora aveva appena avuto modo di vedere. Nei suoi ricordi c’era soltanto un piccolo corpo nudo frizionato con acqua di rose e adagiato in una culla…

Poi, quando, con lunghi giri di frase, le dissero che non potevano farglielo vedere subito, ella mormorò:

— È morto, vero? Lo sapevo, lo sentivo quando stavo tanto male… Doveva accadere anche questo…Ma non ebbe la reazione clamorosa che sarebbe stato logico aspettarsi da lei.

Certo, la notizia la sconvolse, ma Clemenza non pianse e atteggiò il viso a quell’espressione di tragica ironia che si può vedere sul volto di certa gente, mentre osserva le ceneri fumanti della propria casa. Ella aprì le labbra, come se volesse ridere, e per qualche minuto tutti la credettero impazzita.

La sventura si era accanita troppo insistentemente su di lei. C’erano delle zone morte nella sua anima, talché il destino, anche continuando a colpirla con ancor più terribile pervicacia, non avrebbe potuto suscitarvi una sofferenza maggiore.

Il povero Bouville passò parecchi istanti penosi, condannato com’era alla menzognera missione di impotente consolatore. E i rimorsi lo assalivano continuamente, ogni volta che la regina gli rivolgeva parole di stima.

«Suo figlio vive e io non devo dirglielo. Quando penso che potrei renderla così

felice!»Venti volte la pietà, anzi i doveri più elementari dell’onestà, furono sul punto di

prendere il sopravvento. Ma la moglie, conscia delle sue debolezze, non lo lasciava mai solo con la regina.

L’unica consolazione era dunque per lui quella di sfogarsi a maledire Mahaut, la vera colpevole.

La regina alzò le spalle. Cosa importava a lei di quale mano le forze del male si fossero servite per colpirla?

— Sono stata pia e sono stata buona; almeno credo di esserlo stata — diceva. — Ho sempre cercato di seguire i precetti della religione e di migliorare le persone che mi erano care. Non ho mai voluto il male di nessuno. Ma Dio mi ha colpito come nessun’altra delle sue creature… E ora i malvagi trionfano su tutta la linea.E non che si ribellasse o si mettesse a bestemmiare, no: Clemenza si limitava a

constatare una sorta di orribile fatalità.Suo padre e sua madre erano morti di peste, lasciandola orfana a soli due anni.

Poi, mentre tutte, o quasi, le principesse della sua famiglia, avevano trovato marito ancor prima della pubertà, ella aveva dovuto attendere fino ai ventidue anni che si presentasse un aspirante alla sua mano. E colui che si era offerto, assolutamente insperato, sembrava l’uomo più nobile del mondo. Clemenza era venuta a quel matrimonio con la Francia, entusiasta, trasognata, preda di un amore irreale, e piena delle migliori intenzioni. Ma già prima di arrivare nel suo nuovo paese aveva corso il rischio di morire annegata; e, poche settimane dopo le nozze, aveva scoperto di essere la moglie di un assassino e di aver preso il posto di una regina strangolata. Dieci mesi dopo era rimasta vedova e incinta, e, col pretesto di volerla proteggere, i potenti del regno l’avevano allontanata dalla corte, tenendola praticamente prigioniera. Infine, dopo otto giorni di agonia, appena si era rimessa da quelle terribili condizioni, aveva appreso che suo figlio era morto, avvelenato come già lo era stato suo marito.

È difficile immaginare una vita sconvolta con tanta frequenza dalla sventura.— Al mio paese la gente crede al malocchio. E hanno ragione. Io ho il malocchio — diceva Clemenza. — E non devo più permettermi di affrontare nuove iniziative.Amore, carità, speranza, tutte le riserve di virtù che la sua anima aveva

accumulato, erano scomparse e contemporaneamente ella aveva perduto anche la fede. Del resto, ora, non le sarebbero più servite; ora non aveva più nulla da donare.

Durante la malattia ella aveva talmente sofferto e sentito con tanta insistenza l’avvicinarsi della morte, che il ritrovarsi viva, poter respirare, nutrirsi, posare lo sguardo sulle pareti, sui mobili e sui volti, le procuravano continue sorprese e le sole emozioni di cui il suo animo per tre quarti distrutto fosse ancora capace.

Poi, man mano che la sua lenta convalescenza procedeva, la regina Clemenza, che andava ritrovando l’antica leggendaria bellezza, incominciò a manifestare gusti da donna anziana e capricciosa. Proprio come se, su quella figura meravigliosa, quei capelli dorati, quel volto da Madonna, quel petto rigoglioso, quelle membra affusolate, che riacquistavano di giorno in giorno il loro fascino, fosse passata improvvisamente una quarantina di anni. In quel corpo bellissimo una vecchia vedova chiedeva alla vita le sue ultime gioie. E le avrebbe richieste per altri undici anni.

Così colei che prima, sia per motivi religiosi che per indifferenza, era stata un modello di frugalità, prese a manifestare complicate esigenze alimentari, chiedendo continuamente vivande rare e costose. Colei che aveva accolto senza entusiasmo i gioielli che Luigi X le regalava, contemplava ora con occhio soddisfatto le sue cassette per le gemme, divertendosi a contare le pietre, a calcolarne il valore, ad ammirarne l’acqua o il taglio. Ogni tanto invitava al castello degli orefici e, avendo improvvisamente deciso di cambiare un’incastonatura, disegnava con loro complicati gioielli da acquistare all’estero. E passava anche molto tempo con le lingeriste, facendo comperare a caro prezzo stoffe orientali, che ella avrebbe poi indossato dopo averle abbondantemente cosparse di profumi.

E se, quando usciva dai propri appartamenti, vestiva sempre di bianco come tutte le vedove, quando restava in casa i suoi familiari la sorprendevano spesso, con una certa sorpresa e un innegabile impaccio, distesa accanto al caminetto e coperta da trasparentissimi veli.

La sua generosità di un tempo si manifestava in assurde prodigalità. Tutti i mercanti sapevano benissimo che lei non discuteva mai i prezzi, e ne approfittavano, come ne approfittava il personale alle sue dirette dipendenze. Naturalmente la regina Clemenza era servita molto bene. In cucina i servi si contendevano l’onore di portarle da mangiare, sapendo che, per un dessert guarnito, per un lait de noisettes, o per una eau d’or in cui rosmarino e chiodi di garofano fossero ben macerati nel succo di una melagrana, la regina era pronta a distribuire doni e monete41.

Ella desiderava inoltre sentir cantare e esigeva che voci bene intonate recitassero per lei fiabe, lamenti e romanze. Ormai i suoi occhi volevano vedere soltanto visi di giovani. Un menestrello di buona corporatura e di bella voce, capace di distrarla

per un’ora e pronto a turbarsi intravedendo il corpo di lei avvolto dai veli di Cipro, riceveva una somma sufficiente a far baldoria nelle taverne per un mese intero.

Queste prodigalità allarmavano Bouville, che non poteva però fare a meno di goderne anche lui.

Il 1° gennaio, che era il giorno degli auguri e dei regali, anche se l’anno incominciava ufficialmente a Pasqua, la regina Clemenza donò a Bouville un sacchetto ricamato contenente trecento lire d’oro. L’ex-ciambellano esclamò:

— No, signora, ve ne prego, non ho meritato un simile dono!Ma non è possibile rifiutare il regalo di ima regina, anche se questa regina si

sta rovinando e anche se si è costretti a farle credere le menzogne più atroci.Il poveraccio, angosciato dal terrore e dai rimorsi, vedeva approssimarsi il

momento in cui Clemenza si sarebbe trovata in condizioni finanziarie disastrose42.Quello stesso giorno, precisamente il 1° gennaio, Bouville ricevette la visita di

messer Tolomei. Il banchiere trovò l’ex-ciambellano notevolmente dimagrito e invecchiato. Bouville pareva scomparire nei suoi abiti troppo larghi, le sue gote erano cadenti, lo sguardo inquieto e la mente distratta.

«Quest’uomo — pensava Tolomei — deve avere qualche malattia che lo fa soffrire e che potrebbe portarlo presto alla tomba. È meglio dunque che mi sbrighi a sistemare le faccende di Guccio».

Tolomei conosceva le usanze e, per l’anno nuovo, aveva portato una pezza di stoffa da regalare alla signora Bouville.

— … per ringraziarla — disse — di tutte le cure prestate alla damigella che ha messo al mondo un figlio di mio nipote…Bouville voleva rifiutare anche questo dono.— Ma tenetelo, ve ne prego — insistette Tolomei. — E poi vorrei parlarvi un poco di questa faccenda. Mio nipote sta per tornare da Avignone dove il nostro Santo Padre il papa…Tolomei si fece il segno della croce.— … lo ha trattenuto finora per farlo lavorare ai suoi conti personali. E vuol riabbracciare la moglie e il figlio…Parve a Bouville che tutto il sangue gli rifluisse al cuore.— Un momento, messere — disse. — C’è un messaggero che sta attendendo di là con una certa urgenza una mia risposta. Vogliate scusarmi per qualche minuto.E, con quella pezza di stoffa sotto il braccio, egli andò a chieder consiglio alla

moglie.

— Sta per tornare il marito — disse.— Quale marito? — replicò la signora Bouville.— Il marito della nutrice!— Ma non è sposata!— E invece pare di sì! C’è di là Tolomei che ti ha portato questa pezza in regalo.— E cosa vuole?— Che quella ragazza esca dal convento.— Quando?— Non so. Presto, credo.— Allora, cerca di saperlo, non promettergli nulla e torna qui da me.Bouville si ripresentò al suo visitatore.— Dicevate, messer Tolomei?— Vi dicevo che mio nipote Guccio sta per tornare a Parigi e che desidera fare uscire da quel convento, in cui voi avete avuto la bontà di trovar loro rifugio, sua moglie e suo figlio. Ora non hanno più nulla da temere. Guccio verrà con una lettera del Santo Padre e, per il momento, si stabilirà ad Avignone… Anche se, in fondo, preferirei tenerlo con me. Sapete che non ho ancora visto il mio piccolo pronipote? Sono stato lontano dalla capitale per un giro d’ispezione e ho avuto la notizia da una lettera piena di gioia della giovane madre. Così l’altro giorno, appena tornato, sono andato al convento delle Clarisse per portarle un po’ di dolci, ma non mi hanno permesso di vederla.— Il fatto è che le Clarisse hanno regole piuttosto severe — disse Bouville. — E poi noi, su vostra richiesta, abbiamo loro impartito precise disposizioni.— È successo qualche guaio?— Ma no… messere, niente, almeno che io sappia — disse Bouville, alquanto a disagio. — Ve l’avrei già fatto sapere, naturalmente… E quando torna vostro nipote?— Credo fra due o tre giorni.Bouville lo guardò spaventato.— Vi prego ancora una volta di scusarmi — disse — ma mi sono improvvisamente ricordato che la regina mi aveva mandato a prendere un oggetto che non le ho ancora portato. Tomo subito, aspettatemi.E si allontanò nuovamente.«Evidentemente la sua è una malattia di mente — pensò Tolomei. — Bel

divertimento chiacchierare con un uomo che ogni minuto sente il bisogno di squagliarsela! Speriamo almeno che non si dimentichi anche di me!»

Si sedette su una cassa, si rassettò una manica orlata di pelliccia ed ebbe il tempo di calcolare, con sufficiente approssimazione, il valore dei mobili di quella stanza.

— Eccomi qua — disse Bouville sollevando la tenda. — Mi parlavate, dunque di vostro nipote… Sapete che gli sono molto amico? Che caro compagno è stato quando siamo andati a Napoli insieme! Napoli… — ripetè poi con voce commossa.

— Se avessi potuto immaginarlo… Povera regina…Si era lasciato cadere sulla cassa accanto a Tolomei e si asciugava con le mani le

lacrime che questo ricordo aveva provocato.«Evviva! Adesso si mette a singhiozzare fra le mie braccia!», pensò il banchiere.

E aggiunse poi a voce alta:— Non vi ho detto nulla di tutte queste nuove sventure, e so benissimo quanto ne avete sofferto. Ho pensato molto a voi, sapete…— Ah, Tolomei, se sapeste!… È stato ancor peggio di quanto voi possiate immaginare; una cosa diabolica…Si sentì un breve colpo di tosse dietro un arazzo, e Bouville interruppe

improvvisamente queste pericolose confidenze.«Toh, ci stanno ascoltando», pensò Tolomei, che si affrettò ad aggiungere:— Per lo meno, in questo grande lutto, ci resta pur sempre una consolazione: abbiamo un buon re, non vi pare?— Certo, un ottimo re — replicò Bouville senza troppo entusiasmo.— Temevo — riprese il banchiere cercando di condurre il proprio interlocutore un po’ lontano da quell’arazzo sospetto — temevo che il nuovo re incominciasse a trattarci male, noi Lombardi. E invece sembra perfino che in certi siniscalcati egli abbia affidato la riscossione delle imposte agli agenti delle nostre compagnie… Per quanto riguarda mio nipote, dunque, che fra parentesi ha lavorato con eccellenti risultati, vorrei compensarlo delle fatiche sostenute facendogli trovare la sua bella e il suo erede a casa mia. Ho già fatto preparare una camera per gli sposi. Si parla tanto male dei giovani del nostro tempo, si dice che non sono più capaci di sincerità e di fedeltà in amore. E invece guardate quei due: si amano molto, sapete? Basta leggere le loro lettere. E anche se il matrimonio non è stato celebrato secondo tutte le regole, non ha importanza: lo rifaremo, e anzi, se la cosa non vi offende, vorrei pregare voi di intervenire come testimone.— È un grande onore, invece, un grandissimo onore, messere — rispose Bouville, guardando verso la tenda con l’aria dì chi vi stesse cercando una

ragnatela. — Ma c’è la famiglia.— Quale famiglia?— Ma sì, la famiglia della nutrice.— La nutrice? — replicò Tolomei sbalordito.Di nuovo un breve colpo di tosse si fece sentire dietro l’arazzo. Bouville

impallidì, si impappinò e incominciò a balbettare.— Il fatto è, messere… Ecco, volevo dire… Sì, stavo giusto per dirvelo, ma., con tutti questi contrattempi, me n’ero quasi dimenticato. Beh, ora bisogna proprio che ve lo dica… Vostra… la moglie di vostro nipote, visto che, a quanto dite voi, sono sposati… bene, le abbiamo chiesto… Insomma, non avevamo nutrici e lei, gentilmente, molto gentilmente, a richiesta di mia moglie, è venuta qui ad allattare il re… per quel poco tempo in cui, purtroppo, egli ha vissuto.— Allora, è venuta qui; insomma, voi avete potuto farla uscire dal convento?— E ce l’abbiamo riportata! Mi imbarazza un poco dirvelo … ma non c’era altro da fare. E poi è accaduto tutto talmente in fretta!— Ma, messere, non avete motivo di vergognarvene. Avete fatto benissimo. Questa Maria, dunque, ha allattato il re? Guarda, guarda, è una notizia davvero sorprendente, un fatto che ci onora molto! È soltanto un peccato che non abbia potuto allattarlo per più tempo — disse Tolomei, che rimpiangeva già i vantaggi che avrebbe potuto trarre da una situazione simile.

— Allora, potrete farla uscire di nuovo, vero?— Eh, no! Per farla uscire definitivamente, occorre il consenso della famiglia. Li avete più visti i suoi?— No. I suoi fratelli, dopo tutto quel baccano, sono stati ben lieti di sbarazzarsene e non si son più fatti vivi.— E dove sono andati?— A casa loro, a Cressay.— Cressay… E dov’è?— Ma, vicino a Neauphle, dove io ho un ufficio!— Cressay… Neauphle… Ah, sì!— Scusate, Monsignore, ma mi permetto dirvi che il vostro comportamento è alquanto strano — esclamò Tolomei. — Io vi affido una ragazza, vi racconto tutto su di lei, voi andate a prenderla perché vi serve una nutrice per il figlio della regina. Lei resta qui otto o dieci giorni…— Cinque — precisò Bouville.— Cinque; e voi non sapete da dove viene e magari neanche come si chiama!

— Ma sì, lo so, l’ho sempre saputo — disse Bouville arrossendo. — Ma ora non me lo ricordavo.Non poteva decentemente tornare per la terza volta dalla moglie. Ma perché

non veniva lei ad aiutarlo, anziché starsene nascosta dietro un arazzo, pronta magari poi a rimproverargli ogni parola? La signora Bouville aveva però i suoi motivi per agire così.

— Questo Tolomei è la sola persona che attualmente mi faccia paura — aveva detto al marito. — Il fiuto di un Lombardo val quello di una muta di trenta cani. Se ti vede solo, grullo come sei, non avrà sospetti e mi permetterà più tardi di fare tranquillamente il mio gioco.«Grullo come sei… Ha ragione mia moglie, sono davvero diventato grullo —

pensava Bouville. — Ma, insomma, una volta sapevo parlare ai re e trattare affari per conto loro. In fondo sono stato io a combinare il matrimonio della signora Clemenza. E mi sono anche occupato del conclave, e ho giocato d’astuzia con Duèze…»

Si interruppe: finalmente gli era venuta una buona idea.— Vostro nipote arriverà dunque con una lettera del Santo Padre… — disse. — Beh, mi pare che questo basti a sistemare ogni cosa. Tocca a Guccio andare a prendere la moglie mostrando quel documento. Così nessuno di noi avrà da subire rimproveri o processi. Il Santo Padre! Cosa si può volere di più?… fra due o tre giorni, avete detto? Beh, speriamo che tutto vada per il meglio. E grazie per quella stoffa: la mia cara sposa l’accoglierà con piacere. Arrivederci, messere, vi sono servo.Si sentiva stanco come se avesse appena finito di caricare in battaglia i suoi

nemici.Allontanandosi da Vincennes, Tolomei pensava: «O mi ha mentito per qualche

ragione che non capisco o è completamente rimbambito. Bah, aspettiamo il ritorno di Guccio».

La signora Bouville invece non perse tempo. Fece attaccare i cavalli alla lettiga e si precipitò nel quartiere di San Marcello, per conversare con Maria: dopo averle ucciso il figlio ella doveva ora chiederle di rinunciare al suo amore.

— Voi avete giurato il segreto sui Vangeli — diceva la moglie dell’ex-ciambellano. — Ma sarete capace di mantenerlo davanti a quell’uomo? Avrete il coraggio di vivere col vostro sposo (ora ella ammetteva che Guccio avesse veramente diritto a questo titolo), lasciandogli credere di essere lui il padre di un figlio che non è suo? È un grosso peccato nascondere una cosa simile al proprio coniuge! E quando potremo far trionfare la verità e qualcuno verrà a

prendere il re per portarlo sul trono, che cosa potrete dirgli? Siete una ragazza troppo onesta e troppo nobile per comportarvi con tanta bassezza!Tutte queste domande Maria se le era già fatte centinaia di volte nelle sue

lunghe ore solitarie. Non poteva pensare ad altro, anzi, e le pareva di impazzire. Ma sapeva già qual era la risposta! Sapeva già che, appena si fosse ritrovata fra le braccia di Guccio, ella non avrebbe potuto tacergli nulla, e non perché «era un grosso peccato», come diceva la signora Bouville, ma perché l’amore le vietava una menzogna così atroce.

— Guccio mi capirà, Guccio mi perdonerà. Si renderà conto che questo è accaduto senza mia colpa e mi aiuterà a sopportare questo fardello. Guccio non parlerà mai, signora, lo posso giurare per lui come per me!— Si può giurare solo per se stessi, figliola mia. E poi, un Lombardo… figuriamoci se tacerà! Si varrà di questo segreto per giovare ai propri interessi!— Signora, voi lo state insultando!— Ma no, mia cara, non insulto nessuno. Ma conosco la natura umana. Voi avete giurato di non parlarne con nessuno, neppure in confessione. Ma è il re di Francia che è affidato alle vostre cure, e voi potrete essere sciolta dal giuramento soltanto al momento opportuno.— Di grazia, signora, riprendetevi il re e lasciatemi libera!— Non sono io che ve l’ho affidato, è stata la volontà di Dio. Ed è persona sacra colui che dovete custodire! Avreste tradito Nostro Signor Gesù Cristo se lo avessero messo fra le vostre mani durante la strage degli Innocenti?… Il bambino deve vivere. Bisogna che mio marito possa sorvegliarvi ambedue e che si sappia sempre dove trovarvi, cosa evidentemente impossibile se vostro marito progetta di trasferirsi ad Avignone.— Convincerò Guccio ad abitare dove vorrete voi; e vi garantisco che non parlerà con nessuno.— Certo che non parlerà, ma solo se voi non lo rivedrete più!La lotta, interrotta da una poppata del piccolo re, durò per tutto il pomeriggio.

Le due donne si battevano come due bestie nel fondo di una trappola. Ma la piccola signora Bouville aveva denti e artigli più duri.

— E cosa farete di me allora? Mi terrete qui chiusa per tutta la vita? — gemeva Maria.«Magari — pensava la moglie dell’ex-ciambellano. — Ma sta per arrivare

quell’altro con la lettera del papa…»— E se la vostra famiglia acconsentisse a riprendervi? — propose. — Credo che messer Ugo riuscirebbe a convincere i vostri fratelli.

Tornare a Cressay da parenti ostili, accompagnata da un bimbo che sarebbe stato considerato il figlio della colpa, mentr’era invece il più degno d’onore di tutti i fanciulli di Francia… Rinunciare a tutto, tacere, invecchiare, senza aver altro da fare che meditare su un destino mostruoso, sull’orribile fine di un amore che nulla avrebbe dovuto sconfiggere… Quanti sogni crollati!

Maria si arrabbiò, ritrovando la forza che, a dispetto delle consuetudini e della volontà della famiglia, l’aveva spinta fra le braccia dell’uomo amato. E si ribellò violentemente.

— Rivedrò Guccio, gli apparterrò, andrò a vivere con lui!— disse.

La signora Bouville batté lentamente il palmo sul bracciolo della sedia.— Non lo rivedrete mai il vostro Guccio — disse, — perché se egli si avvicinasse a questo convento o a qualunque altro luogo meglio protetto in cui noi potremmo chiudervi, e se voi parlaste con lui soltanto per un minuto, questo sarebbe l’ultimo della sua vita. Mio marito, come sapete, è un uomo deciso e privo di scrupoli, quando si tratta di proteggere il re. E, se continuate a insistere di voler vedere quell’uomo, potrebbe capitarvi di vederlo con un pugnale piantato nella schiena.Maria si accasciò:— Non vi basta aver ucciso il bambino? — mormorò. — Volete ammazzare anche il padre?— Dipende da voi — replicò la signora Bouville.— Non sapevo che alla corte di Francia si tenesse in così poco conto la vita della gente. Proprio una bella corte, questa che tutto il regno rispetta. Vi odio, signora, devo proprio dirvi che vi odio!— Siete ingiusta, Maria. Ho un compito assai difficile e devo difendervi da voi stessa. Perciò scriverete quello che io vi dirò.Vinta, disarmata, con le tempie in fiamme e lo sguardo annebbiato dalle

lacrime, ella vergò rattristata frasi che mai avrebbe creduto di dover scrivere. La lettera doveva essere portata a Tolomei, che l’avrebbe poi consegnata al nipote.

Maria dichiarava di provare orrore e vergogna per il peccato commesso, e prometteva di dedicare la propria vita al bimbo che ne era stato il frutto, di non più ricadere nelle colpe della carne e di disprezzare colui che ad esse l’aveva indotta. Proibiva inoltre a Guccio di cercar mai di rivederla, in qualunque luogo ella fosse venuta a trovarsi.

Ella voleva per lo meno chiudere la missiva con questa frase: «Vi giuro di non aver mai amato nessun altro uomo in vita mia e vi prometto di non amarne mai

alcun altro».Ma la signora Bouville rifiutò.— Non deve sospettare che voi l’amate ancora. Su, firmate e consegnatemi la lettera.Maria non s’accorse neppure che la moglie dell’ex-ciambellano se ne stava

andando.«Guccio mi odierà, mi disprezzerà, e non saprà mai che io ho fatto questo

soprattutto per salvarlo!», pensava, sentendo richiudersi la porta del convento.

VIII • PARTENZE

L’indomani mattina arrivò al maniero di Cressay un messaggero che

portava dei fiordalisi ricamati sulla manica sinistra e lo stemma del re al colletto, e che fu accolto con stupore e sorpresa. I fratelli Cressay lo chiamavano «Monsignore» e, dopo aver letto una breve missiva che chiedeva loro di recarsi al più presto a Vincennes, si ritenevano già destinati a qualche comando di capitaneria o nominati siniscalchi.

— Non c’è nulla di strano — disse donna Eliabel. — Si vede che si sono finalmente ricordati dei nostri meriti e dei servigi che noi abbiamo reso al regno negli ultimi trecento anni. Evidentemente il nuovo re sa dove trovare uomini veramente degni! Su, figli miei, andate; vestitevi il meglio possibile e cercate di fare in fretta. Si vede che in cielo c’è ancora giustizia e questo onore inatteso ci consolerà un poco della vergogna che il comportamento di vostra sorella ha fatto ricadere su di noi.Ella non si era ancora rimessa dalla malattia dell’estate precedente. Si era

ingrossata, aveva perduto l’antico dinamismo e limitava le proprie manifestazioni d’autorità al trattare dispoticamente la cuoca. Aveva inoltre ceduto ai figli la direzione della loro piccola proprietà, che non per questo veniva a trovarsi in mani migliori.

I due fratelli si misero dunque in cammino, con la mente piena di ambiziose speranze. Il cavallo di Pietro ansimava talmente al suo arrivo a Vincennes da lasciar supporre che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio.— Miei giovani amici — disse Bouville accogliendoli — vi ho fatto venire qui per parlare di importanti questioni.E fece loro portare vino speziato e confetti.I due giovani se ne stavano seduti sull’orlo delle sedie, da buoni tangheri di campagna, e osavano appena accostare alle labbra quelle coppe d’argento.— Oh, sta passando la regina — disse Bouville. — Ella approfitta del bel

tempo per andare a prendere un po’ d’aria.I due fratelli, emozionatissimi, tesero il collo per scorgere, attraverso le vetrate verdastre, una bianca sagoma in un grande mantello che avanzava a passo lento, scortata da qualche servitore. Poi si guardarono in faccia: avevano visto la regina!— Vorrei parlarvi della vostra giovane sorella — riprese Bouville. — Sareste disposti a riprenderla con voi? Dovete però sapere che ella ha allattato il figlio della regina.E, col minor numero di parole possibile, spiegò loro le cose che era

indispensabile che essi conoscessero.— Ah! Ho anche una buona notizia per voi — continuò…

— Quell’Italiano che l’ha messa incinta… bene, ella non lo vuole più rivedere, mai più. Ha capito l’errore commesso, abbassandosi, lei damigella di nobile famiglia, a essere la moglie di un Lombardo, per quanto bello egli potesse sembrarle. In effetti, devo riconoscerlo, quel Guccio è un simpatico giovane, di gradevole aspetto e di intelligenza pronta…

— Ma, in fondo, è pur sempre un Lombardo — interruppe la signora Bouville, presente al colloquio. — Un uomo senza fede e senza timor di Dio, come ha ben dimostrato.Bouville abbassò il capo.«Ecco, anche te devo tradire, mio caro Guccio, mio simpatico compagno di

viaggio! Dovrò dunque finire i miei giorni rinnegando tutti coloro che mi sono stati amici?», pensava.

Ma tacque, lasciando alla moglie la guida delle operazioni.I fratelli erano delusi, soprattutto il maggiore. Essi si aspettavano cose meravigliose, e invece si trattava soltanto della sorella. Ogni avvenimento importante della loro vita doveva dunque prodursi sempre per mezzo suo? Erano quasi invidiosi di lei. La nutrice di un re! E alti personaggi come un gran ciambellano che si occupavano della sua sorte! Chi avrebbe mai potuto immaginarlo?Ma la signora Bouville non lasciò loro molto tempo per riflettere.— È dovere di ogni cristiano — diceva — aiutare il peccatore a pentirsi. Comportatevi dunque da degni gentiluomini. Forse è per volontà divina che vostra sorella ha partorito nel momento adatto, senza molto vantaggio, purtroppo, perché il piccolo re è morto; ma, comunque, lei lo ha aiutato.La regina Clemenza, per dimostrare la sua riconoscenza, avrebbe fatto versare

al figlio della nutrice un reddito annuo di cinquanta lire da prelevare sul suo

personale appannaggio. Inoltre gli sarebbe stato fin d’ora consegnato un regalo di trecento lire d’oro, già a disposizione in un sacchetto ricamato.

I due fratelli Cressay mascherarono a stento la propria gioia. Era la fortuna che cadeva loro dal cielo, il modo per far costruire un nuovo muro di cinta nel crollante maniero, la certezza di una tavola riccamente imbandita per tutto l’anno, la prospettiva di comperarsi finalmente delle armature e di equipaggiare adeguatamente anche i servi, per poter comparire come si conveniva ai raduni delle bandiere! Si sarebbe parlato di loro sui campi di battaglia!43

— Naturalmente — precisò la signora Bouville — questi doni sono destinati al bambino. Se egli venisse maltrattato o se gli accadesse qualcosa, la rendita verrebbe soppressa. Essere il fratello di latte del re gli conferisce infatti una dignità che sarà vostro dovere rispettare.— Certo, certo, d’accordo… Visto che Maria si è pentita — disse il fratello barbuto, volendo far mostra di zelo — e visto che personalità importanti come voi, messere, e voi, signora, ci pregano di perdonarle… noi vogliamo aprirle le braccia. La protezione della regina ha cancellato la sua colpa. E che nessuno d’ora innanzi, sia egli nobile o plebeo, si azzardi a riderne in mia presenza: lo farei a pezzi.— E nostra madre? — domandò l’altro.— Ci penserò io a convincerla — replicò Giovanni. — Sono io il capo della famiglia, dopo la morte di nostro padre, non dimenticartene.— Naturalmente — riprese la signora Bouville — voi giurerete sui Vangeli di non ascoltare e di non ripetere a chicchessia quello che vostra sorella potrebbe sostenere di aver visto durante il suo soggiorno in questo castello: sono cose che riguardano la corona e che devono rimanere segrete. E del resto lei non ha visto nulla: ha soltanto allattato! Ma vostra sorella ha una fantasia eccessivamente sbrigliata e si compiace di raccontare fandonie; ve lo ha già dimostrato, del resto… Ugo! Va’ a prendere i Vangeli!Il libro sacro da una parte, il sacchetto d’oro dall’altra e la regina che

passeggiava in giardino… I fratelli Cressay giurarono di non parlare mai di cose riferentisi alla morte di Giovanni I, di sorvegliare, nutrire e proteggere il figlio della loro sorella e di impedire l’accesso all’uomo che l’aveva sedotta.

— Ah, lo giuriamo volentieri! — esclamò Giovanni. — Che non si faccia mai più vedere, quel farabutto!Pietro non era così sfacciatamente ingrato. «In fondo, non fosse stato per

Guccio…» pensava.— D’altra parte — disse la signora Bouville — noi ci terremo informati e

sapremo sempre se voi manterrete questo giuramento.Si offrì poi di accompagnare i due fratelli al convento delle Clarisse.— Non vi disturbate, signora — disse Giovanni di Cressay.

— Possiamo benissimo andarci da soli.— No, no, devo venire anch’io. Senza di me la badessa non permetterebbe a Maria di lasciare il convento.Il viso del barbuto si rabbuiò: egli stava riflettendo.— Che cosa avete? — domandò la signora Bouville. — C’è qualcosa che non va?— Il fatto è che… vorrei prima comprare una mula per farvi salire mia sorella.Quando Maria era incinta, egli l’aveva fatta viaggiare da Neauphle a Parigi in

groppa a un cavallo, ma ora che ella li arricchiva egli voleva che il suo ritorno a casa fosse accompagnato dai segni esteriori della dignità. E poi la mula di donna Eliabel era morta il mese precedente.

— Se non è che questo — disse la signora Bouville — ve ne daremo una noi. Ugo! Fa’ sellare una mula!Bouville accompagnò la moglie e i fratelli Cressay fino al ponte levatoio.«Preferirei essere morto piuttosto che continuare a mentire e ad aver paura»

pensava l’infelice, dimagrito e tremante dal freddo, mentre i suoi occhi si posavano sui rami nudi degli alberi.

* * *

«Parigi!… Parigi, finalmente!» pensava Guccio Baglioni mentre superava la porta di San Giacomo.

La città era gelida e triste: il movimento, come sempre succede dopo le feste del nuovo anno, pareva essersi interrotto, e in quell’anno la cosa era ancor più evidente, essendosi allontanata dalla capitale anche la corte.

Ma il giovane viaggiatore, che vi ritornava dopo sei mesi di assenza, non vedeva la caligine che avvolgeva i tetti, né i pochi intirizziti passanti. Per lui la città aveva un volto di sole e di speranza: quel «Parigi, finalmente!» che egli continuava a ripetersi come se fosse la più bella canzone del mondo corrispondeva infatti a un: «Finalmente rivedrò Maria!»

Guccio indossava un peliçon foderato di pelliccia44 e un mantello da pioggia di pelo di cammello; alla cintura portava una borsa «à-cul-de-vilain»45, piena di lire uscite dalle zecche del papa, e aveva in testa un elegante cappello di feltro rosso,

ripiegato all’indietro e terminante in una lunga punta sopra la fronte. Nessuno avrebbe potuto vestirsi meglio per piacere a una donna e nessuno sentiva come lui la gioia di essere al mondo.

Smontò di sella nel cortile della via dei Lombardi e, proiettando in avanti la gamba che era rimasta un po’ irrigidita dopo l’incidente di Marsiglia, si precipitò fra le braccia di Tolomei.

— Zio, caro zio! Avete visto mio figlio? Com’è? E come sta Maria? Che cosa vi ha detto? Mi aspetta?Senza dir nulla, Tolomei gli consegnò la lettera di Maria di Cressay. E Guccio

la lesse e la rilesse due o tre volte… E alle parole «Sappiate che mi sono profondamente pentita del peccato commesso e che non voglio più rivedere colui che fu causa della mia vergogna. Voglio redimermi da tanto disonore…» esclamò:

— Non è vero, non può essere vero! Non è stata lei a scrivere queste cose!— Come? Non è la sua scrittura? — domandò Tolomei.— Si… Il banchiere cercò di scusarsi col nipote.— Ti avrei avvertito subito — disse — se lo avessi saputo. Ma ho ricevuto questa lettera solo due giorni fa, poco dopo aver parlato con Bouville.Ma Guccio, innervosito, impietrito dal dolore e sconvolto dall’ira, non lo

ascoltava. Domandò soltanto in quale convento Maria fosse rinchiusa.— Nel quartiere di San Marcello? — disse. — Ci vado subito!Si fece portare il cavallo, appena dissellato, e, dopo aver riattraversato la città,

andò a suonare al convento delle Clarisse. Gli risposero che la damigella di Cressay era partita il giorno prima, accompagnata da due gentiluomini, uno dei quali portava la barba. E, per quanto mostrasse il sigillo del papa, protestasse e cercasse di farsi valere, egli non poté ottenere maggiori particolari.

— La badessa! Voglio vedere la madre badessa!— Gli uomini non possono entrare nella clausura!Alla fine minacciarono di chiamare gli agenti di ronda.Ansimante, pallido e sconvolto, Guccio tornò in via dei Lombardi.— Sono stati i suoi fratelli, quegli schifosi dei suoi fratelli a portarla Via! — disse a Tolomei. — Ah, sono stato lontano troppo tempo! E lei, che mi aveva giurato eterna fedeltà, non ha saputo nemmeno resistere per sei mesi! Queste nobili dame, a quanto raccontano i romanzi, sono pronte ad attendere per dieci anni che il loro cavaliere torni dalla crociata. Ma un Lombardo non è un cavaliere e per ciò non lo si aspetta! Qui è il punto, zio: rileggete la sua lettera! Insulti e disprezzo! E, ammettendo che qualcuno possa averla costretta a non rivedermi più, che motivo avrebbe avuto di farmi offendere in questo modo?…

Vedete, zio: noi possediamo decine di migliaia di fiorini, i più nobili baroni vengono a supplicarci di pagare i loro debiti, perfino il papa mi ha scelto come suo consigliere durante il conclave, e questi zoticoni, questi paesani, mi sputano in faccia dall’alto di un castello di palta che crollerebbe alla prima spallata! E, basta che arrivino quei due rognosi, e la loro sorella mi rinnega. Come ci si sbaglia quando si crede che una ragazza non assomigli ai suoi familiari!In Guccio il dolore si mutava presto in collera e l’orgoglio lo aiutava a

difendersi dalla disperazione. Egli aveva cessato di amare, ma non di soffrire.— Proprio non capisco — diceva Tolomei desolato. — Sembrava così innamorata, così felice di essere tua… Non l’avrei mai creduto… Ho capito adesso perché Bouville l’altro giorno era così impacciato! Sapeva qualcosa, evidentemente. Ma allora è dopo che io sono stato a trovarlo che egli ha mandato a chiamare i due fratelli… Eppure le lettere che lei mi scriveva… Non capisco proprio. Vuoi che vada di nuovo da Bouville?— Non voglio nulla, non voglio più nulla! — urlò Guccio.

— Ho già importunato anche troppo i grandi della terra per il bene di quella sgualdrina. Perfino al papa, capisci, ho chiesto protezione per lei!… Innamorata, dici? Ma va’, era tutta gentile quando si riteneva respinta dalla famiglia e vedeva in noi la sola speranza di salvezza… Eppure eravamo sposati! Non vedeva l’ora di darsi, ma voleva prima la benedizione di un prete! Hai detto che è stata per cinque giorni a far da nutrice al figlio della regina Clemenza? Beh, si vede che si è montata la testa, adempiendo a un compito che qualunque camerista avrebbe potuto tranquillamente espletare. Anch’io sono stato vicino alla regina, ma ben altro è stato il mio aiuto! L’ho perfino salvata dalla tempesta…

Ormai non connetteva più: era furibondo e, a forza di camminare su e giù per la stanza proiettando in avanti la gamba irrigidita, aveva già percorso almeno un quarto di lega.

— Forse, se tu andassi dalla regina…— Né dalla regina, né da nessun altro! Che Maria se ne tomi al suo famoso tugurio, dove si sprofonda nel letame fino alle caviglie. Le troveranno un marito, naturalmente, un buon marito che assomigli a quegli zoticoni dei suoi fratelli. Un bel cavaliere tutto villoso e puzzolente, che alleverà mio figlio, quel becco! E, anche se lei venisse a trascinarsi ai miei piedi, ora non la vorrei più, capisci, non la vorrei più!— Credo invece che se lei entrasse in questa camera, tu non parleresti così! — replicò tranquillamente Tolomei.Guccio impallidì e si coprì gli occhi con le mani. «La mia bella Maria…» La

rivedeva nella loro cameretta di Neauphle, rivedeva quei riflessi dorati dentro l’azzurro scuro dei suoi occhi. Ma come potevano quegli occhi celare un tradimento?

— Me ne vado, zio.— E dove? Ritorni ad Avignone?— Bella figura ci farei! Ho detto a tutti che sarei ritornato con mia moglie, e l’ho descritta come donna adorna di tutte le virtù. Perfino il Santo Padre mi chiederebbe sue notizie…— Mi diceva l’altro giorno Boccaccio che i Peruzzi prenderanno certamente in appalto la riscossione delle imposte nel siniscalcato di Carcassona…— No, né Carcassona, né Avignone!— E nemmeno Parigi, naturalmente… — disse Tolomei con molta tristezza.Nella vita di ogni uomo, per quanto egoista egli sia stato, viene sempre un

momento, di solito quando la morte non è più tanto lontana, in cui egli si sente stanco di aver lavorato soltanto per se stesso. Il banchiere, dopo avere sperato nella presenza di una graziosa nipote e di una famiglia felice nella sua casa, vedeva improvvisamente distrutte queste prospettive e annunciarsi invece una lunga vecchiaia solitaria.

— No, voglio andarmene — disse Guccio. — Non voglio più saperne di questa Francia che s’arricchisce per merito nostro ma che ci disprezza perché siamo Italiani. Che cosa ho guadagnato io in Francia, dimmi? Una gamba irrigidita, quattro mesi di ospedale, sei settimane in una chiesa e finalmente… questo! Avrei dovuto saperlo che in questo paese non avrei mai avuto fortuna. Ricordi che il giorno dopo il mio arrivo ho corso il rischio di gettare a terra re Filippo il Bello? Non era un buon presagio! Per non parlare delle traversate in cui per due volte ho rischiato di annegare, e di tutto il tempo passato a contar soldi per i contadini in quel maledetto borgo di Neauphle, soltanto perché credevo di essere innamorato.— Però ti sei anche fatto una provvista di bei ricordi — disse Tolomei.— Bah, alla mia età non è di ricordi che si ha bisogno. Voglio tornarmene nella mia città, a Siena, dove non mancano davvero le belle ragazze, le più belle del mondo a quanto mi dicono tutti ogni qual volta dichiaro di essere senese. In ogni caso meno pitocche delle Francesi senz’altro! Mio padre mi aveva mandato da te per imparare, e ora credo di aver imparato abbastanza.Tolomei spalancò l’occhio sinistro, che era un po’ annebbiato quel giorno.— Forse hai ragione — disse. — E forse la lontananza ti farà scordare più facilmente il tuo dolore. Ma non rimpiangere nulla, Guccio. Non è stato un

brutto noviziato il tuo, in fondo. Hai vissuto, hai viaggiato, hai conosciuto le miserie dei poveri e le debolezze dei potenti. Hai trattato con le quattro corti più importanti d’Europa, Parigi, Londra, Napoli e Avignone. Non succede a tutti di partecipare a un conclave! E ti sei assuefatto agli affari. Ti darò la tua parte, naturalmente: è una bella somma! Poi l’amore ti ha fatto commettere qualche sciocchezza e tu lasci un bastardo sulla tua strada come tutti quelli che hanno molto viaggiato… E hai soltanto vent’anni… Quando vorresti partire?— Domani, zio Spinello, domani, se per voi va bene… Ma tornerò! — aggiunse Guccio con violenza.— Lo spero bene, ragazzo mio! Spero proprio che tu non lascerai morire il tuo vecchio zio senza più rivederlo!— Tornerò un giorno e porterò via mio figlio. In fondo, è tanto dei Cressay quanto mio. E perché dovrei lasciarlo a loro? Perché se lo allevino nella stalla come un cane bastardo? Me lo porterà via io, capisci, e sarà questo il castigo peggiore per Maria. Lo sai cosa dicono al nostro paese? Vendetta di Toscano…Il suo discorso venne interrotto da un enorme baccano proveniente dal pian

terreno. La casa tremava fin nelle fondamenta, come se dodici carri fossero entrati contemporaneamente in cortile. E si udivano sbattere le porte.

Zio e nipote corsero alla scala a chiocciola già sconvolta da un fracasso assordante. E sentirono gridare:

— Banchiere! Dove sei, banchiere? Ho bisogno di denaro!Poi monsignor Roberto d’Artois comparve sul più alto gradino.— Eccomi qua, banchiere e amico mio, sono appena uscito di prigione — esclamò. — Ti sembra incredibile? Eppure è proprio così: il mio gentile, il mio mellifluo, il mio orbo cugino, il re, voglio dire, perché, a quanto pare, questa è oggi la sua funzione… si è finalmente ricordato che io stavo marcendo in un carcere dove lui mi aveva scaraventato e, da quel caro ragazzo che è, mi ha restituito la libertà!— Siate il benvenuto, Monsignore — disse Tolomei senza entusiasmo.E si sporse a guardare la scala, non ancora persuaso che tutto quel baccano

potesse essere stato fatto da un uomo solo.Chinando il capo per non urtare l’architrave della porta, il conte d’Artois entrò

nello studio del banchiere e si diresse a uno specchio.— Uh! — disse, prendendosi il viso fra le mani. — Che faccia da morto mi è venuta! Basterebbe anche meno per dimagrire, però. Pensa: sette settimane senza altra luce che quella di una finestra fatta con sbarre di ferro grosse come la nerchia d’un somaro! E due volte al giorno una broda che sembrava vomito

prima ancora di mangiarla. Per fortuna il mio Lormet riusciva ogni tanto a mandarmi qualche piatto fatto a suo modo, se no sarei crepato! E il letto… parliamone! Per riguardo al mio sangue reale, mi hanno dato anche un letto. Ho dovuto sfondare la spalliera per potermici sdraiare! Pazienza, ma un giorno o l’altro mio cugino sconterà anche questo, stanne certo!In realtà Roberto non aveva perduto un’oncia di peso e la prigione lo aveva

danneggiato ben poco. Certo era un po’ più pallido, ma i suoi occhi grigi, color selce, sprigionavano bagliori ancor più inquietanti.

— Ma che bella libertà mi hanno dato! «Voi siete libero, Monsignore — continuò il gigante imitando la voce del capitano dello Châtelet — ma… non potete allontanarvi da Parigi per più di venti leghe; ma… la polizia del re deve conoscere sempre la vostra residenza; ma… se volete tornare nelle vostre terre, dovrete avvertirne la capitaneria di Evreux». In altre parole: «Resta qui, Roberto, a passeggiare sotto gli occhi della ronda o vattene a marcire a Conches. Ma, niente Artois e niente Reims! Non ti vogliamo alla consacrazione, cacciatelo bene in testa! Potresti cantare qualche salmo che non suonerebbe gradito alle nostre orecchie!» E hanno scelto il giorno adatto per liberarmi. Né troppo presto, né troppo tardi. La corte se ne è andata, non c’è nessuno a Palazzo, nessuno a casa Valois… Mi ha proprio abbandonato, questo bel cugino. E mi lascia qui, in una città morta, senza nemmeno un quattrino nella borsa per cenare e trovare qualche ragazza sulla quale trasferire i miei umori amorosi! Perché son sette settimane, capisci banchiere?… ma no, tu non puoi capire, alla tua età queste cose non interessano più. E nota che mi ero dato abbastanza da fare in Artois, quando ero lassù, così che son potuto restar calmo qualche tempo; penso che in questo periodo, nella mia contea, siano in gestazione numerosi servi che non sapranno mai che potrebbero dire «nonno», parlando di Filippo Augusto. E ho scoperto una strana cosa sulla quale quei balordi dei dottori e dei filosofi dovrebbero meditare: perché c’è un affare nell’uomo che, più lavoro fa, più di lavorare esige?Scoppiò a ridere e si sedette facendo scricchiolare una scranna di quercia. Poi

improvvisamente parve notare la presenza di Guccio.— E voi, amico mio, come vanno i vostri amori? — chiese col tono di chi dicesse «buon giorno».— I miei amori! Lasciamo perdere! — replicò Guccio, seccato che una violenza più rumorosa della sua fosse venuta a interromperlo.Tolomei fece cenno al conte di Artois che questo non era il soggetto più

adatto.

— Ma come? — esclamò d’Artois con il tatto abituale.— La vostra bella vi ha piantato? Datemi subito il suo indirizzo che ci vado io! Su, su, non fate quella faccia, le donne sono tutte sgualdrine.

— Questo si, Monsignore, tutte!— E allora dedichiamoci almeno a quelle che lo ammettono francamente! Banchiere, ho bisogno di quattrini. Cento lire. E poi porterò tuo nipote a cenare con me e gli caverò dalla zucca quelle brutte idee. Cento lire!… Sì, lo so, Io so, vi devo già molto, e voi pensate che non vi rimborserò mai; ma vi sbagliate. Fra poco Roberto d’Artois sarà più potente che mai. E Filippo avrà un bel calcarsi in testa la corona fino al naso; ci penserò io a fargliela saltar via. Perché voglio dirti una cosa che vale più delle cento lire e che ti sarà molto utile per sapere a chi presti i tuoi soldi… Come viene punito un regicidio? Impiccagione, decapitazione o squartamento? Assisterete presto a uno spettacolo spassoso: quella trippona di mia zia Mahaut, nuda come quella prostituta che è, con quattro cavalli che la tirano in diverse direzioni e con le sue schifose budella trascinate nella polvere! E quella puzzola di suo genero dovrà tenerle compagnia! L’unico guaio è che non si può giustiziarli due volte. Perché ne hanno uccisi due, quei delinquenti. Non ho detto nulla finché mi trovavo allo Châtelet per evitare che una bella notte venissero a scannarmi come un maiale. Ma m’è riuscito di tenermi informato. Lormet… sempre il mio Lormet, un uomo davvero prezioso… Ascoltatemi!Dopo sette settimane di forzato silenzio, quell’incorreggibile chiacchierone non

vedeva l’ora di rifarsi, e prendeva flato soltanto per poter parlare ancora di più.— Ascoltatemi bene — disse. — Uno: Luigi confisca a Mahaut la contea d’Artois per potermela restituire, e subito Mahaut lo fa avvelenare. Due: Mahaut, per evitarsi sorprese, spinge Filippo alla reggenza, contro Valois che avrebbe certamente sostenuto i miei diritti. Tre: Filippo fa approvare norme di successione che impediscono alle donne di salire sul trono di Francia ma non, naturalmente, di ereditare un feudo. Quattro: nominato reggente, Filippo arruola un esercito per cacciarmi dall’Artois che io sto interamente riconquistando. Io, che non sono pazzo, mi arrendo da solo, ma, poiché la regina Clemenza sta per partorire e loro vogliono avere libertà d’azione, mi scaraventano in prigione. Cinque: la regina dà alla luce un figlio. Inconveniente da poco! Basta impedire l’accesso a Vincennes, nascondere il bambino ai baroni, raccontare che non è in grado di sopravvivere, mettersi d’accordo con qualche levatrice o con qualche nutrice assoldandola o terrorizzandola, e infine far fuori anche questo re. Dopo di che ci si precipita a Reims a farsi

incoronare. Ed è così, amici miei, che si conquista una corona. E tutto questo per non restituire a me la mia contea d’Artois!Alla parola «nutrice», Tolomei e Guccio si erano guardati inquieti.— Sono cose che tutti pensano, queste — concluse d’Artois — ma che nessuno, per mancanza di prove, osa sostenere. Ma io la prova ce l’ho! E presenterò fra poco una certa signora che ha fornito il veleno. Dopo di che basterà far cantare, infilandole i piedi in stivaletti di legno, quella Beatrice d’Hirson, che in tutto questo ha agito come ruffiana del diavolo. Ed è bene farla finita subito, per evitare di morire avvelenati tutti quanti.— Cinquanta lire, Monsignore; posso darvi soltanto cinquanta lire.— Avaro!— Non mi è possibile fare di più!— E va bene. Me ne devi dunque ancora cinquanta. Mahaut ti rimborserà tutto questo con gli interessi.— Guccio — disse Tolomei, — vieni ad aiutarmi a contare cinquanta lire per Monsignore.E si ritirò col nipote nella stanza vicina.— Credete, zio, — mormorò Guccio — che ci sia qualcosa di vero in quello che ha detto questo tipo?— Non lo so, ragazzo mio, non lo so; credo però che ti convenga davvero lasciare la Francia. Non è bene essere immischiati in faccende che puzzano troppo. L’accoglienza di Bouville, la fuga di Maria… Certo non si possono prendere per oro colato tutte le affermazioni di quest’agitato; ma ho visto che, quando si tratta di misfatti, lui imbrocca spesso la verità: è il suo campo questo, del resto. Ti ricordi l’adulterio delle principesse? È stato lui a fare scoppiare lo scandalo, e ce l’aveva anche comunicato in anticipo. La tua Maria… — disse il banchiere agitando la mano grassoccia in un gesto di dubbio.

— Forse non è tanto ingenua e tanto limpida come l’avevamo creduta. C’è sotto qualche mistero, senza dubbio!

— Dopo la lettera del suo tradimento, c’è da aspettarsi di tutto — disse Guccio, il cui pensiero si smarriva in mille direzioni.— Non aspettarti niente e non cercare niente; parti: è un ottimo consiglio.Quando monsignor d’Artois entrò in possesso di quelle cinquanta lire, non si

diede pace finché non ebbe convinto Guccio a partecipare alla festicciola che lui intendeva organizzare per celebrare il ritorno alla libertà. Aveva bisogno di un compagno e, pur di non rimanere solo, sarebbe andato a ubriacarsi col suo cavallo.

Insistette talmente che alla fine Tolomei sussurrò al nipote:— Vacci, altrimenti si arrabbia. Ma cerca di non parlare troppo.Guccio terminò dunque quella triste giornata in una taverna, il cui tenutario

pagava tributi agli ufficiali di ronda per avere il permesso di tenere una specie di bordello. D’altra parte tutte le parole che venivano dette in quel locale erano poi riferite alla polizia.

Monsignor d’Artois era in gran forma: beveva continuamente, mangiava con prodigioso appetito, strepitava, parlava grasso, dimostrava un immenso affetto per il suo giovane compagno e sollevava le gonne alle ragazze per mostrare a tutti il vero volto di sua zia Mahaut.

Guccio, che non voleva restare indietro, non era però altrettanto resistente al vino. Gli occhi lucidi, i capelli scompigliati, i gesti malsicuri, strillava:

— Anch’io so qualcosa,.. Ah, se volessi parlare!— E parla!Ma, anche ubriaco, restava a Guccio un barlume di prudenza.— Il papa… — disse. — Ah, la so lunga io sul papa.E improvvisamente incominciò a piangere a cascata, sulla spalla di una

prostituta. Dopo di che la prese a schiaffi, vedendo in lei il simbolo di tutti i tradimenti femminili.

— Ma tornerò… e lo porterò via!— Chi porterai via? Il papa?— Ma no, suo figlio!L’atmosfera stava diventando sempre più caotica: gli uomini erano ubriachi e le

ragazze fomite dal taverniere non avevano più molto indosso. Lormet si accostò a Roberto d’Artois e gli sussurrò a un orecchio:

— C’è li fuori un uomo che ci sta spiando.— E tu uccidilo — replicò con indifferenza il gigante.— Bene, Monsignore.Fu così che la signora Bouville perdette un suo servo, da lei mandato a

pedinare il giovane Italiano.E Guccio non avrebbe mai saputo che Maria, col suo sacrificio, gli aveva

probabilmente evitato di finire pancia all’aria nelle acque della Senna.Sdraiato in un sordido giaciglio, sui seni della ragazza che aveva prima

schiaffeggiato e che si mostrava molto comprensiva per le sue sventure, Guccio continuava a insultare Maria e pensava di vendicarsi di lei martoriando quella carne mercenaria.

— Hai ragione! Nemmeno a me piacciono le donne; sono tutte imbroglione —

diceva la sgualdrina, di cui Guccio non avrebbe mai più ricordato i lineamenti.L’indomani, col cappello calcato fin sugli occhi, le membra stanche, il corpo e

l’anima egualmente disgustati, Guccio partì per l’Italia. Portava con sé una notevole somma in una lettera di cambio firmata dallo zio, e che rappresentava la sua percentuale sugli utili degli affari trattati negli ultimi due anni.

Quello stesso giorno, re Filippo V, sua moglie Giovanna e la contessa Mahaut, con tutto il loro seguito, arrivarono a Reims.

Le porte del maniero di Cressay si erano già richiuse sulla bella Maria che vi avrebbe vissuto, inconsolabile, un perpetuo inverno.

E il vero re di Francia sarebbe cresciuto là, come un piccolo bastardo. Avrebbe fatto i primi passi nel fangoso cortile in mezzo alle anitre, sarebbe andato a giocare nel prato dei gialli giaggioli, lungo la Mauldre, in quel prato in cui Maria, ogni volta che vi sarebbe passata, avrebbe rivisto il volto del suo seducente Senese e la stagione fugace dei suoi morti amori. Ella avrebbe mantenuto il giuramento e per trent’anni avrebbe conservato quel segreto, confidandolo solo sul suo letto di morte a un monaco spagnolo che si trovava lì di passaggio.

Maria di Cressay era votata a un ben strano destino. Innamorata e condannata alla solitudine, destinata in tutta la sua vita a lasciare una sola volta il villaggio natio, per essere trascinata, innocente e impotente, in un terribile dramma dinastico, la sua confessione, un giorno, avrebbe turbato l’Europa.

IX • LA VIGILIA DELLA CONSACRAZIONE

Le porte di Reims, sormontate dallo stemma regale, erano state

riverniciate di fresco. Le strade erano tappezzate di stoffe vivaci, di arazzi e di pezze di seta, lo stesso addobbo del resto che, un anno e mezzo prima, era stato adoperato per l’incoronazione di Luigi X. Accanto al palazzo arcivescovile si stavano affrettatamente approntando tre grandi sale in legno, una per la tavola del re, la seconda per quella della regina e la terza per i grandi ufficiali, in modo da poter ospitare tutta la corte riunita a banchetto.

I borghesi di Reims, cui spettava tradizionalmente di pagare le spese per questa cerimonia, trovavano un po’ oneroso questo privilegio.— Se i re incominciano a morire con tanta frequenza — dicevano — e se ogni anno avremo l’onore di incoronarne uno nuovo, presto saremo costretti a mangiare una sola volta all’anno e a vendere anche le camicie per poterci permettere quest’unico pasto! Finisce per costarci un po’ troppo cara l’idea che ebbe Clodoveo di farsi battezzare nella nostra città! E se qualche altra località volesse comperare la sacra ampolla, per noi sarebbe un affare.Alle difficoltà di ordine finanziario, altre se ne accompagnavano, prima fra tutte

quella di approntare in pieno inverno vitto sufficiente a tante bocche. I cittadini di Reims dovettero raccogliere ottantadue buoi, duecentoquaranta montoni, quattrocentoventicinque vitelli, settantotto maiali, ottocento conigli o lepri, ottocento capponi, milleottocentoventi oche, più di diecimila galline e di quarantamila uova, per non parlare dei barili di storioni fatti venire da Malines, dei quattromila gamberi pescati in acqua fresca, dei salmoni, dei lucci, delle tinche, delle reine, dei pesci persici e delle carpe, nonché delle tremilacinquecento anguille necessarie alla confezione di cinquecento pasticci. Avevano anche a disposizione duemila formaggi e speravano che trecento botti di vino, questo per fortuna di produzione locale, sarebbero state sufficienti a calmare tutte le gole assetate che avrebbero banchettato li per almeno tre giorni.

I ciambellani, arrivati in anticipo per l’organizzazione delle feste, mostravano curiose esigenze. Per esempio avevano deciso di presentare in un solo servizio ben trecento aironi arrostiti. Questi funzionari assomigliavano un po’ troppo al loro padrone, a questo re talmente impaziente da ordinare una consacrazione entro una settimana, come se si fosse trattato di una Messa da due soldi per ottenere la guarigione di una gamba fratturata.Da giorni e giorni i pasticcieri erano intenti alla lavorazione di torte

monumentali, fatte con pasta di mandorla e decorate con i colori di Francia.E la mostarda? Non c’era mostarda, e ne occorrevano almeno trentun sestari. E

poi gli invitati non potevano mangiare nelle mani. Era stato un grosso errore vendere a basso prezzo le cinquantamila scodelle di legno della precedente consacrazione: i Remsesi avrebbero fatto molto meglio a lavarle e a metterle da parte. Le quattromila brocche, poi, erano finite a pezzi o erano state rubate. Le cucitrici ricamarono in fretta duemila seicento aune di tovaglia, e la spesa totale si aggirò sulle diecimila lire, tutto compreso46.

A dire il vero, i Remsesi ci avrebbero tratto ugualmente un certo guadagno: la consacrazione infatti attirava a Reims un gran numero di mercanti lombardi ed ebrei, i quali dovevano pagare una tassa su ogni vendita.

Come tutte le cerimonie regali, l’incoronazione si svolgeva in un’atmosfera di kermesse. Era uno spettacolo continuo che costituiva una vera festa per la gente, in gran parte venuta di lontano. Le donne cercavano di indossare abiti nuovi, gli eleganti non risparmiavano spese di gioielleria, i mercanti di ornamenti, di pellicce e di stoffe raffinate facevano affari d’oro.I più furbi guadagnavano fortune, e un negoziante un po’ svelto nel servire la clientela poteva in una settimana ricavare di che viver tranquillo per almeno cinque anni.

Il nuovo re abitava nel palazzo arcivescovile, davanti al quale c’era sempre un gran mucchio di gente che aspettava di veder comparire i sovrani, o che contemplava sbalordita la dorata carrozza della regina.

La regina Giovanna, circondata dalle sue dame di compagnia, presiedeva, con l’agitazione di una donna felice, alla sistemazione del contenuto di dodici bauli, di quattro cofani, di una cassa per le scarpe e di un’altra per i gioielli. Il suo guardaroba era certamente il più bello che mai una Francese avesse avuto. C’era un abito per ogni giorno e quasi per ogni ora, di quel viaggio trionfale.

La regina era entrata in città indossando un mantello di drappo d’oro foderato d’ermellino, mentre lungo le strade venivano offerti ai sovrani sacre rappresentazioni, spettacoli profani e divertimenti di ogni tipo. Alla cena

precedente la consacrazione, che si sarebbe tenuta fra poco, la regina avrebbe indossato ima veste di velluto violetto orlato di menu-vair. Per la mattina dell’incoronazione ella aveva invece una veste di panno di Turchia, d’oro, un mantello scarlatto e una gonna vermiglia; per il pranzo una veste ricamata con lo stemma di Francia, per la cena un’altra veste d’oro e due diversi mantelli d’ermellino.

L’indomani ella avrebbe portato una veste di velluto verde e poi un’altra di camocas azzurro con una mantellina di petit-gris. Insomma ella non sarebbe mai comparsa in pubblico con una veste o con gioielli già altre volte indossati47.

Queste meraviglie facevan pompa di sé in una stanza di cui anche la decorazione veniva interamente da Parigi; tende di seta bianca adorne di trecentoventun pappagalli d’oro, e con in mezzo un grande stemma dei conti di Borgogna con le bocche di leone; cielo di letto, coltrone e guanciali erano decorati con settemila trifogli d’argento. I tappeti sparsi al suolo portavano le insegne di Francia e di Borgogna.

Parecchie volte Giovanna era entrata nella camera di Filippo, per fargli ammirare la bellezza di un tessuto o la perfezione di un lavoro.

— Mio dolce signore, mio amatissimo sposo — diceva; — come sono felice per merito vostro!E, per quanto istintivamente poco propensa a manifestare le proprie emozioni,

ella non poteva evitare di sentirsi commossa, soprattutto ripensando al tempo non lontano in cui era prigioniera a Dourdan. Come era mutata la sua sorte in meno di diciotto mesi! Ella pensava a Margherita, morta, e alla sorella Bianca, sempre rinchiusa a Château-Gaillard… «Povera Bianca, così amante dei begli ornamenti. Chissà come sarebbe contenta, oggi!» pensava la regina, mentre si provava ima cintura d’oro tempestata di rubini e smeraldi.

Filippo era piuttosto preoccupato e le reazioni entusiastiche di sua moglie aumentavano ancor di più il suo malumore; egli stava esaminando i conti con il primo intendente.

— Sono molto contento, amica mia — rispose infine — che tutto questo vi piaccia. Vedete, io cerco di comportarmi come mio padre, il quale, come sapete, lesinava sulle sue spese personali, ma non rifuggiva da grandi prodigalità quando era in gioco la sua regale maestà. Perciò, fate pure mostra di questi abiti, che sono stati donati a voi perché li mostriate al popolo che ve li ha pagati col suo lavoro; ma, abbiatene cura, in quanto non ne avrete di simili per un pezzo. Dopo l’incoronazione, infatti, dovremo cercare di spender meno.— Filippo — domandò Giovanna; — in un giorno simile non volete far nulla

per mia sorella Bianca?— Ho già fatto, mia cara. Ho disposto che essa sia nuovamente trattata come una principessa, purché non esca dal castello ove è tenuta prigioniera. Bisogna che colei che ha peccato venga trattata in modo diverso da voi, Giovanna, che siete sempre stata pura e falsamente accusata.E, dicendo queste parole, aveva rivolto alla moglie un’occhiata in cui si leggeva

più la preoccupazione per l’onore del re che la certezza dell’innamorato.— E poi — aggiunse, — suo marito in questi momenti non mi è molto simpatico. E’ un ben cattivo fratello, il mio!Giovanna capì che sarebbe stato inutile insistere e che ella avrebbe fatto bene a

non toccare più questo argomento. Bianca non sarebbe stata liberata; almeno fin quando Filippo fosse rimasto sul trono.

Giovanna rientrò nella propria stanza e Filippo riprese l’esame dei grossi fogli zeppi di cifre, che Goffredo di Fleury gli stava presentando.

Le spese non erano limitate agli abiti del re e della regina. Anzi, l’abito di cendal che egli indossava quel giorno, gli era stato regalato dalla nonna Maria di Brabante vedova di Filippo III; e Mahaut aveva offerto la stoffa marezzata per gli abiti delle principessine e del piccolo Luigi Filippo. Ma erano poca cosa, in confronto al resto.

Il re aveva dovuto fornire divise nuove alle sue cinquantaquattro guardie armate e al loro capo, Pietro di Galard, comandante dei balestrieri. Adamo Héron, Roberto di Gamaches, Guglielmo di Seriz e i ciambellani avevano ricevuto in dono, ciascuno, dieci aune di tessuto rigato di Douai, per farsi nuove casacche. E anche i grandi cacciatori, Enrico di Meudon, Furant della Fouaillie, Giannino Malgeneste, nonché tutti gli arcieri, avevano avuto divise nuove. E, siccome era previsto di armare il giorno della consacrazione venti nuovi cavalieri, era necessario regalare altri venti abiti. Questi regali erano abituali in una cerimonia di consacrazione, come era normale che il re facesse aggiungere al reliquiario di San Dionigi un fiordaliso d’oro tempestato di smeraldi e di rubini.

— In tutto? — domandò Filippo.— Ottomilacinquecentoquarantotto lire, tredici soldi e undici denari, Sire — rispose l’intendente. — Fareste forse meglio a imporre un nuovo contributo per celebrare il lieto evento.— L’evento sarà ancor più lieto se non imporrò altre tasse. Dovremo far fronte in modo diverso — disse il re.In quel momento venne annunciata una visita del conte di Valois e Filippo alzò

le mani al cielo.

— Eccone uno che avevamo dimenticato nei nostri conti — disse. — Vedrete, Goffredo, vedrete! Mi costerà più questo zio da solo che dieci consacrazioni! Evidentemente vien qui per trattare. Bah, lasciatemi solo con lui.Quanto era elegante quel giorno Monsignor di Valois! Tutto bello e lustro,

raddoppiato di volume a forza di pellicce e vestito di un abito costellato di pietre preziose! Se gli abitanti di Reims non avessero saputo che il nuovo re era giovane e magro, lo avrebbero scambiato per il sovrano.

— Mio caro nipote — incominciò — sono preoccupato… molto preoccupato per voi. Vostro cognato d’Inghilterra non verrà.— È un pezzo, zio, che i re d’Oltremanica non assistono più alle nostre incoronazioni — ribatté Filippo.— D’accordo; ma di solito mandano qualche parente o qualche gran signore della loro corte che li rappresenti e che occupi in nome loro il posto del conte d’Aquitania. Invece Edoardo non ha mandato nessuno, dimostrando così che non intende riconoscervi. E non è presente nemmeno il conte di Fiandra, che pure eravate convinto di aver guadagnato alla vostra causa con il trattato del settembre scorso, e neppure il duca di Bretagna.— Lo so, zio, lo so.— Non parliamo poi di quello di Borgogna: sapevamo già da un pezzo che non vi avrebbe sostenuto. Poco fa è arrivata sua madre, la duchessa Agnese, ma non credo sia qui per darvi il suo appoggio.— Lo so, zio, lo so — ripetè Filippo.Questo arrivo imprevisto dell’ultima figlia di San Luigi preoccupava Filippo più

di quanto egli non lasciasse apparire.Sulle prime egli aveva pensato che la duchessa Agnese fosse venuta a Reims per

trattare, ma costei non aveva cercato di parlare con lui, che a sua volta non intendeva fare il primo passo.

«Se il popolo che acclama al mio passaggio e crede invidiabile la mia sorte — pensava — sapesse quali ostilità e quali minacce mi circondano!»

— E così — continuò Valois — dei sei pari laici che dovrebbero domani garantirvi la corona, non ne sarà presente neppure uno48.— Ma sì, zio; avete dimenticato che sarà presente la contessa d’Artois… e che ci sarete anche voi?Valois alzò le spalle.— La contessa d’Artois! — esclamò. — Far garantire la corona da una donna, proprio voi, Filippo, che salite al trono per averne voluto escludere le donne!— Garantire la corona non significa portarla! — disse Filippo.

— Si vede proprio che Mahaut vi ha molto aiutato a diventare re, se la innalzate tanto! Così non farete altro che dar credito alle voci maligne che già circolano nel regno. Certo, è inutile rivangare il passato, ma non credete, Filippo, che spetterebbe a Roberto il seggio dei conti d’Artois alla Camera dei pari?Filippo finse di non aver sentito le ultime parole dello zio.— Ma i pari ecclesiastici sono presenti — disse.— Presenti, presenti… — disse Valois agitando le mani ingioiellate. — Anzitutto non ce ne sono che cinque, dei sei che dovrebbero essere. E poi, cosa credete che faranno questi alti prelati quando vedranno che dalla parte del regno, soltanto una mano, e quale mano!, si alzerà per incoronarvi?— Ma voi, zio, vi considerate dunque così poco importante?Questa volta toccò a Valois non raccogliere la domanda rivoltagli.— Perfino vostro fratello vi è contrario — disse.— Il fatto è che Carlo — replicò tranquillamente Filippo — non sa molto bene, mio caro zio, quanto noi siamo d’accordo e crede forse di farvi un piacere cercando di danneggiarmi… Ma state tranquillo, mi è stato annunciato il suo arrivo e domani egli sarà certamente presente.— Perché non gli conferite allora la dignità di pari? Vostro padre lo ha fatto per me e vostro fratello Luigi per voi. Così, se non altro, sarei meno solo a difendervi.«O meno solo a tradirmi» pensò Filippo, che aggiunse:— Siete venuto a sostenere Roberto o Carlo? Oppure intendete parlare per voi stesso?Valois fece una pausa, adagiandosi meglio sulla propria poltrona e

contemplando un diamante che gli brillava all’indice.«Cinquanta… o centomila — pensava Filippo. — Degli altri non mi importa.

Ma lui mi serve, e lo sa. Se rifiuta e mi fa una scenata, corro il rischio di rimetterci la consacrazione».

— Nipote mio — disse finalmente Valois; — vedete bene che non mi sono rifiutato per principio e che anzi ho affrontato grosse spese per venire a rendervi onore. Ma, vedendo che gli altri pari sono assenti, credo di dover ritirarmi anch’io. Che cosa direbbero infatti, se vedessero soltanto me accanto a voi? Che voi mi avete comprato, immagino.— Me ne dispiacerebbe molto, zio, mi dispiacerebbe davvero. Ma certo non posso costringervi a fare una cosa che non vi piace. Forse è venuto il momento di rinunciare a questa antica usanza, secondo la quale i pari dovrebbero sempre

approvare la incoronazione del nuovo re…— Ma che dite, nipote? — esclamò Valois.— … e, se è proprio necessario un consenso venuto da un’elezione — continuò Filippo — chiederlo non più a sei grandi baroni, ma al popolo; a quel popolo, zio, che fornisce uomini agli eserciti e denari al Tesoro. Questo faranno gli Stati che io mi appresto a convocare.Valois non fu più capace di trattenersi: balzò in piedi e incominciò a urlare:— State bestemmiando, Filippo, o siete completamente impazzito! Si è mai visto un monarca eletto dai propri sudditi? Una bella novità davvero, questi vostri Stati! Derivano proprio dalle idee di Marigny, che veniva dal volgo e che danneggiò tanto la politica di vostro padre. Attento, Filippo: si incomincia cosi e fra cinquantanni il popolo farà a meno di noi e si sceglierà per re qualche borghese arricchito, qualche dottore del parlamento o qualche pizzicagnolo che abbia fatto fortuna rubando. No, nipote, no, stavolta ho deciso: non approverò mai un re che è tale solo per propria volontà e che per di più vuole agire in modo che questa corona finisca al più presto in mano ai plebei!Era diventato rosso e camminava avanti e indietro a lunghi passi.«Cinquantamila… o centomila? — continuava a chiedersi Filippo. — Quale

cifra devo offrirgli?»— E va bene, zio, non approvatemi — disse. — Ma permettetemi allora di chiamare subito il mio intendente.— E perché?— Per fargli modificare la lista delle donazioni che avrei dovuto firmare domani, nella quale voi eravate iscritto per… centomila lire.Il colpo era andato a segno. Valois restò lì intontito, a braccia aperte.Filippo capì di aver vinto e, per quanto questa vittoria gli costasse cara, dovette

fare uno sforzo per non ridere davanti allo spettacolo offertogli dallo zio. Il quale, del resto, non ci mise molto a cavarsi d’impaccio. Egli era stato interrotto mentre stava sfogando la propria ira e riprese a parlare sullo stesso tono. La collera era per lui un modo per cercar di confondere le idee agli altri, quando le sue non stavano più in piedi.

— E poi, tutti i guai vengono da Eudes — gridò. — Io non lo approvo affatto e glielo scriverò! E che bisogno avevano il conte di Fiandra e il duca di Bretagna di sostenere le sue tesi e di rifiutare il vostro invito? Quando il re manda a chiamare per garantire la sua corona, bisogna obbedirgli. Non sono qui anch’io? Mi pare che questi baroni abusino dei loro diritti. Ed è proprio così che il potere rischia di finire in mano ai piccoli vassalli e ai borghesi! In

quanto poi a Edoardo d’Inghilterra, come si può prendere sul serio un uomo che si comporta da donna? Vi sarò dunque accanto per dare loro una lezione. E quello che contavate di darmi lo accetto, soprattutto per amore della giustizia! È giusto infatti che coloro che sono fedeli al re siano trattati in modo diverso da quelli che lo tradiscono. Voi siete un ottimo re. E quel… quel dono che indica la vostra stima, quando contate di firmarlo?— Anche subito, zio, se volete… — rispose re Filippo V — ma con la data di domani.Così per ben tre volte, e sempre con mezzi finanziari, egli era riuscito a far

tacere il conte di Valois.— Meno male che domani m’incoronano — disse Filippo all’intendente, quando Valois ebbe lasciato la sua camera — perché, se avessi dovuto discutere ancora una volta con lui, credo che sarei stato costretto a vendere il regno.E a Fleury, preoccupato per l’enorme somma promessa all’ex-imperatore di

Costantinopoli:— State tranquillo, Goffredo — disse; — non gli ho precisato quando gli verrà versato quel denaro. Lo incasserà a piccole rate… ma potrà valersene per ottenere prestiti…Il cerimoniale esigeva che dopo il pasto serale il re, accompagnato dai più alti

funzionari e dal capitolo, si recasse nella cattedrale e qui sostasse in raccoglimento e in preghiera. La chiesa era già pronta, tutta addobbata d’arazzi, con centinaia di ceri già preparati e con un grande palco nel coro. Filippo non pregò a lungo, ma dedicò un certo tempo a farsi insegnare ancora una volta lo svolgersi dei riti e i gesti che egli stesso avrebbe dovuto compiere. Andò a controllare le serrature delle porte laterali, volle rendersi conto delle misure di sicurezza prese per l’occasione e domandò quale sarebbe stato il posto delle personalità presenti alla cerimonia.

— I pari laici, i membri della famiglia reale e gli alti funzionari — gli dissero — staranno sul palco; il connestabile resterà accanto a voi e il cancelliere accanto alla regina. Questo trono di fronte al vostro è quello dell’arcivescovo di Reims, e le scranne sistemate intorno all’altar maggiore sono riservate ai pari ecclesiastici.Filippo percorreva il palco a passi lenti, schiacciando col piede il bordo

sporgente di un tappeto. «Che strana cosa — pensava. — Lo scorso anno ero qui in questo stesso luogo per la consacrazione di mio fratello… Ma non avevo badato a tutti questi particolari…»

Si sedette per un attimo, ma non sul trono reale: un superstizioso timore glielo

impediva. «Domani… domani sarò davvero il re». Pensava a suo padre, a tutti gli antenati che lo avevano preceduto in quella chiesa, a suo fratello soppresso mediante un delitto del quale lui non aveva colpa ma di cui era stato pronto a cogliere tutte le conseguenze a lui favorevoli; pensava all’altro delitto, a quello commesso sul piccolo Giovanni, un delitto che lui non aveva ordinato, ma di cui era stato il complice silenzioso e forse anche l’ispiratore… Pensava alla morte, alla propria morte, e ai milioni di uomini che sarebbero divenuti suoi sudditi, ai milioni di padri, di figli e di fratelli che egli avrebbe governato.

«Sono tutti simili a me, criminali se ne avessero l’occasione, innocenti solo per incapacità, pronti a servirsi anche del male per realizzare le proprie ambizioni? Eppure, quando ero a Lione, desideravo la giustizia. Ma ne sono proprio sicuro?… È davvero così odiosa la natura umana, o è soltanto la smania di regnare che ci rende così cattivi? È il pedaggio che si paga al mestiere di re questo scoprirsi così impuri e così sozzi?… Perché Dio ci ha fatti mortali, se è la morte che ci rende odiosi, sia per la paura che essa ci ispira, sia per l’uso che ne facciamo?… Forse, proprio stanotte, qualcuno cercherà di uccidermi…»

Egli vedeva immense ombre oscillare nelle alte ogive fra un pilastro e l’altro. E non provava pentimento, ma soltanto una mancanza di gioia nel regnare.

«È dunque questo quel che si definisce concentrarsi nella preghiera, ed è questa la ragione per cui ci vien consigliato di andare in chiesa la notte precedente la consacrazione…»

Egli sapeva esattamente ciò che egli era: un uomo cattivo con qualità di grandissimo re.

Non avendo sonno, egli sarebbe rimasto lì volentieri ancora un po’ a meditare su se stesso, sul destino dell’uomo, sulle ragioni dei nostri atti, e a porsi le sole grosse domande dell’umanità, quelle che mai potranno avere risposta.

— Quanto tempo durerà la cerimonia? — chiese.— Due ore buone, Sire!— Andiamo, allora! Dobbiamo cercare di dormire. Domani dobbiamo essere in forma.Ma lui, tornato al palazzo arcivescovile, andò nella camera della regina e si

sedette sul letto di lei. Parlò con la moglie di cose senza molto interesse: le spiegava la disposizione delle personalità presenti nella cattedrale e le chiedeva come sarebbero state vestite le loro figlie…

Giovanna era già semi-addormentata, e faceva fatica a stare attenta; vedeva però che il marito aveva i nervi tesi e che provava una specie di crescente angoscia, dalla quale cercava di difendersi.

— Amico mio — disse — volete dormire con me?Filippo parve esitare.— Non posso — rispose. — Non ho avvertito il ciambellano.— Voi siete il re, Filippo — ribatté Giovanna sorridendo — e potete dare al ciambellano gli ordini che meglio vi aggradano.Ma lui ci mise un po’ a decidersi: questo giovane capace di domare, con le

armi o col denaro, i suoi più potenti vassalli, si sentiva a disagio quando doveva far sapere ai servitori che, per un desiderio imprevisto, egli intendeva passar la notte con la moglie.

Finalmente, fece chiamare una delle cameriste che dormivano nella stanza vicina e la mandò da Adamo Héron per dirgli di non aspettarlo e di non dormire davanti alla sua porta.

Poi, fra le tende decorate con pappagalli e sotto i trifogli d’argento del cielo del letto, egli si spogliò e scivolò sotto le lenzuola. E quel terribile sentimento d’angoscia dal quale tutte le truppe del connestabile non avrebbero potuto difenderlo, perché era angoscia di uomo e non angoscia di re, si quietò al contatto di quel corpo di donna, di quelle gambe lunghe e forti, di quel ventre docile, di quel petto caldo.

— Amica mia — mormorò Filippo con la testa fra i capelli di Giovanna, — amica mia, dimmi, mi hai mai ingannato? Rispondimi senza timore perché, anche se tu mi avessi tradito, ti perdonerei egualmente.E Giovanna strinse fra le sue braccia quei fianchi asciutti e robusti, sentendone

l’ossatura sotto le dita.— Mai, Filippo, te lo giuro — rispose. — Ne ho avuto la tentazione, è vero, ma non vi ho mai ceduto.— Grazie, mia cara — sussurrò Filippo. — Ora non manca più nulla alla mia dignità di re.E non mancava più nulla alla sua dignità di re perché egli era in effetti simile a

tutti gli uomini del suo regno: aveva bisogno di una donna e voleva che questa donna fosse interamente sua49.

X • LE CAMPANE DI REIMS

Qualche ora dopo, disteso sopra un letto ornato dallo stemma di Francia,

Filippo, che indossava una lunga veste di velluto vermiglio e teneva le mani giunte all’altezza del petto, stava aspettando i vescovi che dovevano accompagnarlo alla cattedrale.

Accanto al letto era il primo ciambellano, Adamo Héron, anche lui riccamente vestito. La pallida mattina di gennaio diffondeva nella camera una luce lattiginosa.

Si sentì bussare.— Chi cercate? — disse il ciambellano.— Cerco il re.— Chi siete?— Suo fratello.Filippo e Adamo Héron si guardarono in viso, stupiti e seccati.— Va bene, che entri — disse Filippo, sollevandosi leggermente sul letto.— Avete ben poco tempo a disposizione, Sire… — gli fece notare il ciambellano.Ma il re, con un breve cenno, gli fece capire che il colloquio non sarebbe durato molto.Il bel Carlo della Marche era in abito da viaggio. Era appena arrivato a Reims,

ma prima di venire lì si era recato in breve visita da suo zio Valois. Aveva un’aria corrucciata e si muoveva con estremo nervosismo.

Per quanto irritato egli fosse, la vista di suo fratello tutto vestito di rosso e disteso in quella posa ieratica gli fece una certa impressione. Rimase un attimo immobile a fissarlo con gli occhi sbarrati.

«Come vorrebbe essere al mio posto!», pensava Filippo. E aggiunse ad alta voce:

— Oh, eccovi qui, mio caro fratello. Vi sono grato di aver capito qual era il vostro dovere e di aver così messo a tacere le male lingue che sostenevano che

voi non sareste intervenuto alla mia consacrazione. Ve ne sono grato; ma ora andate a vestirvi: non potete venire così, ed è già tardi.— Fratello — replicò La Marche — devo prima discutere con voi di qualche importante problema.— Si tratta di problemi importanti o di problemi che importano a voi? La sola cosa importante è adesso quella di non fare aspettare i vescovi che devono venirmi a prendere da un momento all’altro.— E allora, aspetteranno! — esclamò Carlo. — Tutti, prima o poi, trovano il modo di farsi ascoltare da voi e di trame profitto. È soltanto a me che voi, a quanto pare, non volete dar retta: ma questa volta dovrete ascoltarmi!— E allora chiacchieriamo, Carlo — disse Filippo, sedendosi sul letto. — Ma vi avverto che il colloquio dovrà essere breve.La Marche fece un gesto con la testa come a dire: «Vedremo, vedremo» e si

sedette, sforzandosi di assumere un’aria imponente e di comportarsi con alterigia.«Povero Carlo — pensò Filippo; — adesso vuole imitare i modi di nostro zio

Valois; ma, evidentemente, non ne ha la personalità».— Filippo riprese La Marche — già altre volte vi ho chiesto di conferirmi la dignità di Pari e di aumentare sia il mio appannaggio che le mie rendite…— Che bella famiglia… — mormorò Filippo.— E voi avete sempre fatto orecchie da mercante. Ora, ve lo ripeto per l’ultima volta, sono venuto a Reims ma non assisterò alla vostra consacrazione, se non da un seggio di Pari. Altrimenti, me ne vado via subito.Filippo lo fissò per un attimo senza proferir parola e, sotto quello sguardo,

Carlo si sentì diminuito, confuso, come se avesse perso la fiducia in se stesso e la coscienza della propria importanza.

Il giovane principe aveva provato altre volte la sensazione della propria nullità, soprattutto davanti al padre, Filippo il Bello.

— Un momento, fratello — disse Filippo alzandosi in piedi e avvicinandosi ad Adamo Héron che era rimasto discretamente in disparte.— Adamo — gli domandò sottovoce — i baroni che sono andati a prendere la santa ampolla all’abbazia di Saint-Rémy, sono già tornati?— Sì, Sire, sono già nella cattedrale con i sacerdoti di quella abbazia.— Bene. E allora le porte della città… come a Lione.E fece con la mano tre gesti appena accennati, che volevano dire: le

saracinesche, le stanghe, le chiavi.— Il giorno della consacrazione, Sire? — mormorò Adamo Héron, sbalordito.— Sì, il giorno della consacrazione.

Il ciambellano uscì e Filippo si riaccostò al letto.— E allora, fratello, cosa mi avevate chiesto?— La dignità di Pari, Filippo.— Ah, sì, la dignità di Pari… Sì, fratello, ve la conferirò, ve la conferirò molto volentieri; ma non adesso perché voi avete troppo insistito nel chiedermi di appagare le vostre ambizioni. Se vi dessi retta, tutti direbbero che non l’ho fatto per mia volontà ma perché costretto; e ognuno si riterrebbe autorizzato a comportarsi come voi. Senza contare che non verrà più creato né accresciuto alcun appannaggio prima della promulgazione di una legge in cui si proclamerà inalienabile ogni parte del dominio reale50.— Ma insomma, che bisogno ne avete adesso della qualifica di pari di Poitiers? Perché non la date a me? Lo sapete anche voi che la mia parte è insufficiente.— Insufficiente? — esclamò Filippo che stava andando in collera. — Voi siete nato figlio di re e siete fratello di un re: credete davvero che sia questa una parte insufficiente a un uomo del vostro cervello e dei vostri meriti?— Quali meriti? — domandò Carlo.— I vostri meriti, che sono ben scarsi. Perché, una volta o l’altra era pur necessario dirvelo apertamente, Carlo; voi siete uno sciocco, lo siete sempre stato e con l’età non migliorate certamente. Anche quando eravate bambino, vi comportavate con tanta goffaggine e con così poca intelligenza che perfino quella santa donna di nostra madre vi teneva in poco conto. Vi chiamava il papero, ricordate, Carlo, il papero… E voi eravate un papero allora e lo siete ancora adesso. Nostro padre vi invitava a partecipare alle sedute del suo consiglio, e voi cosa avete imparato? Continuavate a guardarvi in giro, mentre si discutevano i più importanti affari del regno e non ricordo di avervi sentito pronunciare una parola che non abbia fatto alzare le spalle a nostro padre o a messer Enguerrand. Credete davvero che io ci tenga tanto ad aumentare la vostra potenza? Bell’aiuto potrete darmi, voi che da sei mesi non fate altro che complottare contro di me! Avevate tutto da guadagnare comportandovi diversamente. O vi credevate talmente forte da pensare che tutti si sarebbero inchinati davanti a voi? Non abbiamo dimenticato la meschina figura che avete fatto a Maubuisson quando vi siete messo a belare «Bianca, Bianca!» e a lamentarvi per il vostro infortunio davanti a tutta la corte.— Filippo! Proprio voi avete il coraggio di dirmi questo?

— esclamò La Marche, alzandosi in piedi fuori di sé. — Proprio voi la cui moglie…

— Non una parola contro Giovanna, non una parola contro la regina — lo

interruppe Filippo alzando una mano. — Ma so benissimo che per danneggiarmi o per sentirvi meno solo nella vostra disgrazia, voi continuate a diffondere voci menzognere.— Voi credete all’innocenza di Giovanna perché volevate tenervi la Borgogna; come sempre, fate più conto dei vostri interessi che del vostro onore. Ma forse neppure a me la mia infedele sposa ha cessato di essere utile.— Che intendete dire?— So io quel che intendo dire — replicò Carlo della Marche. — E vi ripeto che se volete che io assista alla vostra incoronazione, dovete conferirmi la dignità di pari. E, se non potrò intervenirvi a questo titolo, me ne andrò immediatamente!Adamo Héron rientrò e avvertì Filippo con un cenno del capo che i suoi

ordini erano stati eseguiti. E il re lo ringraziò nello stesso modo.— E va bene, fratello, andatevene pure — disse. — Una sola persona mi è oggi necessaria: l’arcivescovo di Reims che deve consacrarmi. Voi siete arcivescovo? E allora, andatevene, andatevene pure, se vi fa piacere.— Ma perché — esclamò Carlo, — perché nostro zio Valois riesce sempre a ottenere quello che vuole e io mai?La porta era socchiusa e si sentivano i canti della processione che si stava

avvicinando.«Quando penso che se morissi io, questo imbecille dovrebbe essere il

reggente!» — pensava Filippo.E mise una mano sulla spalla al fratello.— Quando avrete danneggiato il regno per tanti anni come ha fatto nostro zio, potrete pretendere di essere pagato anche voi a prezzo così alto. Ma, grazie a Dio, voi non siete altrettanto solido nell’errore.Con un cenno gli indicò la porta e il conte della Marche uscì livido e

sconvolto da un’ira impotente, imbattendosi subito in un gran corteo di sacerdoti.Filippo tornò a letto e vi si distese nuovamente, con le mani giunte e gli occhi

chiusi.Di nuovo si sentì bussare, e questa volta erano i vescovi che battevano con le

proprie pastorali.— Chi cercate? — domandò Adamo Héron.— Cerchiamo il re — rispose una voce grave.— E chi siete?— I pari ecclesiastici.La porta si aprì e i vescovi di Langres e di Beauvais entrarono con la mitra in

testa e un reliquiario al collo. Si accostarono al letto, aiutarono il re ad alzarsi, gli offrirono l’acqua benedetta e, mentre lui si inginocchiava su un cuscino di seta, dissero una preghiera.

Poi Adamo Héron pose sulle spalle di Filippo un mantello di velluto scarlatto simile a quello del suo abito. E subito i due vescovi litigarono per una questione di precedenza. Di solito il posto a destra del re spettava all’arcivescovo-duca di Laon. Ma, essendo in quell’epoca vacante la sede di Laon, si credeva che toccasse al vescovo di Langres, Guglielmo di Durfort, sostituire l’assente. Invece Filippo offrì la destra a quello di Beauvais. E aveva due ragioni per agire così: prima di tutto il vescovo di Langres aveva accolto troppi ex-Templari nella sua diocesi, offrendo loro mansioni religiose; e poi il vescovo di Beauvais era un Marigny, parente del grande Enguerrand e del fratello di costui, che era arcivescovo di Sens, e Filippo ci teneva a rendere omaggio se non alla sua persona almeno al nome che egli portava.

Alla fine il re finì per trovarsi con due prelati alla destra e nessuno a sinistra.— Io sono vescovo-duca — diceva Guglielmo di Durfort — e la destra spetta a me.— La sede di Beauvais è più antica di quella di Langres — ribatteva Marigny.Già incominciavano a bisticciare.— Monsignori, è il re che decide — intervenne Filippo.E Durfort obbedì e si spostò alla sinistra del sovrano.«Un altro malcontento», pensò costui.Scesero così, fra le croci, i ceri e il fumo degli incensi, fino alla strada dove

tutta la corte, guidata dalla regina, era disposta in corteo, e si diressero a piedi verso la cattedrale.

Il passaggio del re venne accolto dalle urla d’entusiasmo di una folla immensa. Filippo era pallido e increspava i suoi occhi miopi. La terra di Reims gli pareva improvvisamente indurita, dandogli la sensazione di camminare sul marmo.

Il corteo si fermò davanti alla porta maggiore della cattedrale per raccogliersi in preghiera; poi, accompagnato dal frastuono degli organi, Filippo percorse la navata fino all’altare, salendo sul grande palco e andando a sedersi sul trono. Il suo primo gesto fu per invitare la regina a occupare una scranna posta alla sua destra.

La chiesa era piena di gente. Davanti a Filippo era una distesa di corone, di petti e di spalle ricamate, di gioielli e di pianete scintillanti sotto i ceri. Un vero firmamento umano ai suoi piedi, insomma.

Il re volse il capo e si guardò intorno per vedere chi era sul palco. V’erano

Carlo di Valois, e la gigantesca Mahaut d’Artois tutta bardata di velluti e broccati che lo guardava sorridendo, e, un po’ più in là, Luigi d’Evreux. Mancava invece Carlo della Marche e mancava anche Filippo di Valois, che suo padre pareva cercare con gli occhi.

L’arcivescovo di Reims, Roberto di Courtenay, che indossava i paramenti di rito, si alzò in piedi dal trono che egli occupava e che era di fronte a quello del re. Filippo lo imitò e andò a prostrarsi davanti all’altare.

E, per tutta la durata del Te Deum, continuò a chiedersi:«Le porte saranno state davvero chiuse? E i miei ordini sono stati eseguiti?

Mio fratello non è il tipo che se ne resta tranquillo in qualche stanza, mentre io mi faccio incoronare. E perché non c’è neppure Filippo di Valois? Che cosa staranno combinando quei due? Avrei dovuto lasciar fuori Galard per consentirgli di controllar meglio i suoi balestrieri».

Mentre il re stava facendo queste riflessioni, suo fratello stava diguazzando in un pantano.

Uscendo infuriato dalla camera del re, Carlo della Marche era corso dai Valois. Suo zio non c’era, essendo già partito per la cattedrale, ma era presente Filippo di Valois che stava finendo di vestirsi e a lui Carlo raccontò, ansimando, quella che lui definiva la «fellonia» di suo fratello.

I due cugini si assomigliavano molto, con la sola differenza che Filippo di Valois era fisicamente più grosso e più robusto Per il resto si equivalevano, essendo ambedue sciocchi e vanesi.— Quando è cosi — dichiarò il giovane Valois — nemmeno io assisterò alla cerimonia; vengo via con te.Dopo di che radunarono le proprie scorte e si diressero, tutti impettiti, verso

una porta della città. La loro superbia dovette però inchinarsi davanti alle guardie armate.

— Nessuno può entrare né uscire dalla città. Ordine del re.— Nemmeno i principi di Francia?— Nemmeno i principi; ordine del re.— Ah, dunque vuole obbligarci a obbedirgli — esclamò Filippo di Valois, che si stava prendendo particolarmente a cuore questa faccenda. — Ma ti garantisco che usciremo lo stesso!— E come faremo, se le porte sono chiuse?— Facciamo finta di tornare a casa e poi lascia fare a me.Il giovane conte di Valois mandò i propri scudieri a prendere delle scale, che

vennero appoggiate al muro in fondo a un vicolo, in un punto nel quale l’uscita

dalla città non era probabilmente ostacolata. I due cugini vi si arrampicarono su, ignorando che, oltre quel muro, incominciavano gli acquitrini della Vesle. Scesero poi nel fossato appesi alle funi, e Carlo di Valois, che aveva perduto l’equilibrio in quell’acqua gelida e fangosa, sarebbe certamente annegato se suo cugino, che era alto sei piedi e aveva muscoli piuttosto solidi, non lo avesse ripescato in tempo. Poi ambedue andarono avanti a tentoni nella palude. Ormai non potevano più rinunciare: andare avanti o tornare indietro era praticamente la stessa cosa: i due principi rischiavano ogni momento di lasciarci la pelle e ci misero più di tre ore per uscire da quel pantano. I pochi scudieri che li avevano seguiti sguazzavano lì accanto e non risparmiavano colorite imprecazioni all’indirizzo dei rispettivi padroni.

— Se riusciamo a uscire di qui — strillò La Marche per farsi coraggio — so io dove andare. A Château-Gaillard!Il giovane Valois, madido di sudore nonostante il freddo, lo guardò stupefatto.— Pensi ancora a Bianca? — gli chiese.— Ma no, non m’importa nulla di lei. Però può darmi qualche preziosa informazione. È la sola persona al mondo che possa ancora dirci con certezza se la figlia di Luigi è davvero bastarda e se anche Filippo è stato fatto becco come me! Con la sua testimonianza potrò svergognare mio fratello e far dare la corona alla piccola Giovanna.Intanto i due cugini sentivano, al di sopra di quei putridi canneti, il suono

festoso delle campane di Reims.— Quando penso che è per lui che stanno suonando! — diceva Carlo della Marche, semi-sprofondato nel fango…Intanto nella cattedrale i ciambellani avevano finito di spogliare il re. Filippo

il Lungo, in piedi davanti all’altare, indossava ormai soltanto due camicie, una di tela fine a contatto della pelle e l’altra di seta bianca; ambedue erano molto aperte sul petto e sotto le ascelle. Il re, prima di essere investito dei segni esteriori della maestà, si presentava dunque all’assemblea come un uomo nudo e tremante di freddo.

Tutti gli oggetti necessari alla consacrazione erano stati deposti sull’altare e affidati alla sorveglianza dell’abate di Saint-Denis che li aveva portati a Reims. Adamo Héron prese dalle mani dell’abate le chausses, lunghe mutande di seta ricamate con fiordalisi, e aiutò il re a infilarsele, e così le scarpe, anch’esse di stoffa ricamata. Poi Anseau di Joinville, in assenza del duca di Borgogna, allacciò gli speroni d’oro ai piedi del re e subito glieli tolse. E l’arcivescovo benedì la grande spada, che secondo la leggenda aveva appartenuto a Carlo

Magno, e l’appese col budriere al fianco del re, recitando:— Accipe hunc gladium cum Dei benedictione9…— Avvicinati, Gaucher — disse il re.Gaucher di Châtillon si fece avanti, e Filippo, liberatosi del budriere,

consegnò a lui la spada.Mai, in tutta la storia di Francia, un connestabile aveva a tal punto meritato

di ricevere, durante la consacrazione dal suo sovrano, il simbolo del potere militare. Quel gesto non era più un atto richiesto dal rito, ma simbolo e realtà venivano a formare una sola cosa. I due uomini si scambiarono una lunga occhiata più eloquente di qualsiasi parola.

Con la punta di un ago d’oro, l’arcivescovo prese nella santa ampolla che l’abate di Saint-Rémy gli tendeva, una goccia di quell’olio che si diceva mandato dal cielo e la mescolò al crisma già preparato su una patena. E con questo unguento unse Filippo, toccandolo sulla testa, sul petto, sulle spalle e alle ascelle. Adamo Héron agganciò gli anelletti e i fermagli delle tuniche. La camicia del re sarebbe poi stata bruciata, essendo stata sfiorata dalla santa unzione.

Furono poi fatti indossare al re gli abiti raccolti sull’altare: una cotta di raso rosso ricamata con fili d’argento, una tunica di raso azzurro filettata di perle e ornata di fiordalisi d’oro, una dalmatica dello stesso tessuto e infine il soq, un grande mantello quadrato, agganciato sulla spalla destra con una fibbia d’oro. E ogni volta Filippo sentiva le spalle un po’ più pesanti. Poi l’arcivescovo gli unse le mani, gli infilò al dito l’anello, e mise nella sua mano destra il pesante scettro d’oro, nella sinistra la mano di giustizia. Infine, dopo essersi genuflesso davanti al tabernacolo, il prelato alzò la corona, mentre il gran ciambellano iniziava l’appello dei pari presenti:

— Magnifico e potente signore, conte…In quel momento una voce squillante e autoritaria si alzò sotto la navata:— Fermati, arcivescovo! Non incoronare questo usurpatore; è la figlia di San Luigi che te lo comanda!Una profonda emozione percorse i presenti, che volsero la testa verso il punto

da cui era partito quel grido. Sul palco, laici e ecclesiastici si scambiavano sguardi ansiosi Le file della folla si aprirono.

Circondata da alcuni gentiluomini, una donna di alta statura e ancor bella di viso, con occhi chiari e pieni di collera, e in testa, sui capelli quasi bianchi, lo stretto diadema e il velo delle vedove, avanzava a passo deciso verso il coro.

— È la duchessa Agnese: è lei!Tutti allungavano il collo per vederla, sorpresi che ella avesse ancora un aspetto

così giovanile e un passo così sicuro. Infatti, essendo figlia di San Luigi, tutti se la immaginavano personaggio di altri tempi, una specie di antenata, un’ombra cadente, sperduta in qualche castello di Borgogna. E invece la vedevano per quello che era in realtà, una donna di cinquantasette anni, ancor piena di vita e di vigore.

— Fermati, arcivescovo — ripetè la duchessa, quando arrivò a pochi passi dall’altare. — E voi tutti, ascoltate… Leggete, Mello! — ordinò al consigliere che l’aveva accompagnata.Guglielmo di Mello sciolse una pergamena e incominciò a leggere:

«Noi, nobilissima signora Agnese di Francia, duchessa di Borgogna e figlia di Monsignor San Luigi, a nostro nome e a nome di nostro figlio, il nobilissimo e potentissimo duca Eudes, ci rivolgiamo a voi, baroni e signori presenti qui e in tutto il regno, per farvi conoscere il nostro veto alla proclamazione del conte di Poitiers come nuovo sovrano di Francia, non essendo egli il legittimo erede della corona, e per chiedere che si rinvii la consacrazione fino a quando saranno riconosciuti i diritti della Signora Giovanna di Francia e di Navarra, figlia ed erede del defunto re e di nostra figlia».

La situazione sul palco si faceva sempre più angosciosa e dal fondo della chiesa giungevano confusi e malevoli mormorii. Tutti attendevano una decisione.

L’arcivescovo pareva non saper che fare della corona, incerto se rimetterla sull’altare o continuare la cerimonia.

E Filippo restava immobile, a capo nudo, incerto, appesantito da quaranta libbre d’oro e di broccato, con le mani ingombre dai simboli della potenza e della giustizia. Non si era mai sentito così debole, così minacciato e così solo. Come se una mano di ferro lo tenesse stretto alla bocca dello stomaco. La sua calma metteva paura. Ma compiere un minimo gesto, pronunciare una sola parola, intavolare una discussione, poteva voler dire in quel momento provocare un tumulto, certo con risultati a lui poco favorevoli. Così preferì restare immobile come se la polemica non lo riguardasse personalmente.

Intanto i pari ecclesiastici mormoravano:— Che facciamo, adesso?Il vescovo di Langres, che non aveva dimenticato la piccola umiliazione di quel

mattino, era favorevole a interrompere la cerimonia.— Allontaniamoci per deliberare — proponeva un altro.— Non possiamo, il re è già stato unto, è già re, insomma; non si può far altro che incoronarlo — replicò il vescovo di Beauvais.

Intanto la contessa Mahaut si chinò all’orecchio della figlia Giovanna:— Merita di crepare, quella schifosa!C’era dunque in programma un altro avvelenamento.Il connestabile fece segno con gli occhi ad Adamo Héron di riprendere

l’appello.— Magnifico e potente signore, conte di Valois, pari del regno — scandì il ciambellano.Tutti gli sguardi si volsero verso lo zio del re. Se costui avesse risposto

all’appello, Filippo avrebbe vinto, in quanto Valois gli avrebbe portato l’approvazione dei pari laici, cioè del potere reale. Se invece si fosse rifiutato, Filippo avrebbe perduto.

Valois non sembrava aver molta fretta e l’arcivescovo che, essendo un Courtenay, era suo parente d’acquisto, attendeva evidentemente la sua decisione.

Finalmente Filippo fece un movimento, volgendo lo sguardo verso lo zio, uno sguardo che valeva centomila lire. La Borgogna non avrebbe mai pagato tanto.

L’ex-imperatore di Costantinopoli si alzò in piedi, e col viso contratto venne a mettersi dietro il nipote.

«Ho fatto bene a non lesinare con lui», pensò Filippo.— Nobile e potente signora Mahaut, contessa d’Artois, pari del regno — disse Adamo Héron.L’arcivescovo alzò il pesante cerchio d’oro sormontato interiormente da una

croce, e disse, finalmente:— Coronet te Deus.

Uno dei pari laici doveva prendere la corona e tenerla alzata sulla testa del re, mentre gli altri pari dovevano manifestare simbolicamente la loro adesione mettendovi sopra un dito. Valois aveva già allungato le mani, ma Filippo lo fermò muovendo leggermente Io scettro.

— A voi, madre, prendete voi la corona — disse a Mahaut.— Grazie, figlio mio — mormorò la gigantessa.Con questa spettacolare designazione, ella riceveva così la ricompensa per i due

regicidi commessi. Diventava la più importante pari del regno, e la contea d’Artois restava definitivamente sua.

— Borgogna non accetta! — esclamò la duchessa Agnese.E, seguita dalla sua scorta, si diresse verso l’uscita, mentre Mahaut e Valois

riaccompagnavano lentamente Filippo sul trono.Sedutosi il re, con i piedi posati su un cuscino di seta, l’arcivescovo posò la

mitra e venne a baciarlo sulla bocca, dicendogli:— Vivat rex in aeternum.E gli altri pari imitarono il suo gesto ripetendo:— Vivat rex in aeternum.Filippo si sentiva stanco. Aveva vinto anche l’ultima battaglia, coronando col

raggiungimento di quel potere supremo che ora più nessuno poteva contendergli, sette mesi di continue lotte.

Le campane suonavano a stormo per annunciare il suo trionfo e il popolo gridava per augurargli gloria e lunga vita; i suoi avversari erano stati battuti. Egli aveva un figlio che gli assicurava una discendenza e una sposa felice che avrebbe diviso le sue gioie e le sue pene. Il regno di Francia era ormai nelle sue mani.

«Come sono stanco!», pensava Filippo.A questo re di ventitré anni che aveva vinto soprattutto a forza di volontà, che

aveva prontamente colto le conseguenze favorevoli di un omicidio e che aveva tutte le doti di un grande monarca, sembrava che in effetti non mancasse nulla.

Il tempo del castigo poteva dunque incominciare.

1Carlo di Valois (cfr. i volumi precedenti dei Re Maledetti,) secondo figlio di Filippo III e di Isabella d’Aragona e fratello minore di Filippo il Bello, fu a tredici anni designato a succedere sul trono d’Aragona a suo zio Pietro d’Aragona, Scomunicato da papa Martino IV dopo i Vespri Siciliani. Incoronato per la forma nel 1284, durante una disastrosa spedizione guidata da Filippo III l’Ardito che doveva morire subito dopo, Valois non occupò mai di fatto quel trono e vi rinunciò definitivamente nel 1295.Più tardi, dopo aver sposato in seconde nozze Caterina di Courtenay, erede

titolare del regno latino d’Oriente, egli portò dal 1308 al 1313 il titolo di imperatore di Costantinopoli.

I legami di parentela fra Carlo di Valois e Clemenza d’Ungheria sono tra i più complicati che la storia ricordi: Valois era cugino di Clemenza, discendendo ambedue, uno alla terza e l’altra alla quarta generazione da re Luigi VIII di Francia. Ed era anche due volte suo zio d’acquisto, prima per avere sposato in prime nozze Margherita d’Anjou-Sicilia, zia di Clemenza, e poi per aver fatto sposare a costei suo nipote Luigi X.Egli era inoltre legato alla famiglia d’Anjou in un altro modo, avendo dato in

moglie nel 1313 la prima figlia avuta da Caterina di Courtenay, Caterina di Valois, a Filippo principe di Taranto, fratello della sua prima sposa. Era dunque, fra l’altro, anche prozio d’acquisto della regina Clemenza.

Fu in occasione di queste nozze Valois-Taranto che la corona titolare di Costantinopoli, passata in eredità a Caterina di Valois, fu abbandonata da Carlo a favore del genero Filippo.

2L’orpimento è un solfuro naturale d’arsenico; la tùzia un ossido di zinco, residuato dalla lavorazione del piombo; la marcassite un bisolfuro naturale di ferro. (N. d. T.).3Queste definizioni sono tratte dall’Elisir dei filosofi del cardinale Giacomo Duèze, poi papa Giovanni XXII .In questo trattato, accanto a un lessico dei principali termini dell’alchimia, si

possono trovare anche curiose ricette come questa per «spurgare» l’orina dei bambini:

«Prendila e mettila in un vaso e lasciala riposare tre o quattro giorni; poi colala lentamente e falla di nuovo riposare finché la feccia non si sia completamente raccolta sul fondo. E cuocila e schiumala in modo da diminuirne di un terzo il volume. Distillala infine con un feltro e tienila in un vaso ben chiuso per impedire l’azione negativa dell’aria».

4Solo nel 1325, cioè verso la metà del suo pontificato, Giacomo Duèze (Giovanni XXII ) incominciò a sostenere in scritti e sermoni la sua tesi sulla visione beatifica. Si può tuttavia supporre che già da un pezzo egli si interessasse a questo problema.La sua teoria fornì materia ad appassionati dibattiti fra tutti i teologi d’Europa,

dibattiti che si prolungarono per molti anni e che rischiarono di provocare uno scisma. Infine l’Università di Parigi condannò la tesi di Giovanni XXII e qualcuno sostenne la necessità dì deporre colui che per scherno veniva chiamato «il papa di Cahors». Duèze si ritrattò soltanto il giorno prima di morire quando già stava

agonizzando, probabilmente per evitare scissioni nella Chiesa. Aveva allora novant’anni.

Fra le tesi sostenute da questo curioso e affascinante pontefice merita menzione quella concernente il potere legislativo dei papi. Secondo lui, un papa poteva modificare qualsiasi legge promulgata dai suoi predecessori: egli pensava infatti che i papi, in quanto uomini, non possono vedere e prevedere tutto, per cui le loro decisioni subiscono le conseguenze dei mutamenti che si verificano nell’universo, mutamenti a cui occorre adeguarle.

Giovanni XXII si dichiarò contrario anche all’immacolata Concezione della Vergine Maria, sostenendo però che, pur essendo stata ella concepita secondo il peccato originale, Dio l’aveva purificata prima della nascita, ma in un momento difficile da determinare.

Secondo Viollet-le-Duc, sarebbe stato lui ad aggiungere sulla tiara una terza corona, di cui effettivamente non si trovano tracce nell’iconografia papale precedente il suo pontificato.

1In italiano anche nel testo originale (N. d. T.).5Consoli nel Medio Evo venivano chiamati in alcune zone della Francia certi magistrati municipali che esercitavano le funzioni dei moderni consiglieri municipali. In altre zone invece questi stessi magistrati erano chiamati scabini. (N. d. T.).6Il camocas era un tessuto di seta finemente lavorato e particolarmente prezioso, usato nel Medio Evo. Proveniva in genere dall’Oriente, soprattutto dalla Persia e dall’india, ma se ne fabbricavano anche imitazioni, assai meno pregiate, in Italia. (N. d. T.).7I signori del Viennese venivano chiamati delfini perché i loro elmi e le loro insegne erano decorate con delfini. Si chiamava perciò Delfinato la regione sottoposta alla loro sovranità e che comprendeva il Grésivaudan, il Roannez, lo Champsaur, il Briangonnais, l’Ambrunois, il Gapenfais, il Viennese, il Valentinois, il Diois, il Tricastinois e il principato di Orange.All’inizio del XIV secolo regnava su quella regione la terza dinastia dei delfini di

Vienne, quella della Tour du Pin. Soltanto negli ultimi tempi del regno di Filippo VI di Valois il Delfinato, con i trattati del 1343 e del 1349, venne ceduto da Humbert lì alla corona di Francia, a condizione che i primogeniti del re di Francia prendessero da allora il titolo di Delfino.

8Quasi tutti gli storici sostengono che i cardinali che parteciparono al conclave del 1314-1316 erano ventitré. Noi invece ne abbiamo individuati ventiquattro.Il partito dei romani comprendeva sei italiani (Giacomo Colonna, Pietro

Colonna, Napoleone Orsini, Francesco Caetani, Giacomo Stefaneschi-Caetani e Nicola Alberti o Albertini di Prato); un Angioino di Napoli (Guglielmo di Longis) e uno Spagnolo (Lucas di Flisco o Fieschi, fratello del re d’Aragona). Tutti questi cardinali erano stati nominati prima del pontificato di Clemente V e del trasferimento della sede papale ad Avignone: il cappello cardinalizio era stato loro conferito fra il 1278 e il 1303 dai papi Nicola I I I , Nicola IV, Celestino V, Bonifacio VIII e Benedetto XI.

Tutti gli altri cardinali erano stati invece nominati da Clemente V. Il partito

provenzale comprendeva Guglielmo di Mandagout, Bérenger Frédol senior, Bérenger Frédol junior, Giacomo Duèze di Cahors e i normanni Nicola di Fréauville e Michele del Bec.

C’erano infine < dieci Guasconi, e precisamente Arnaldo di Pélagrue, Arnaldo di Fougères, Arnaldo Nouvel, Arnaldo d’Auch, Raimondo-Gugliemo di Farges, Bernardo di Garves, Guglielmo-Pietro Godin, Raimondo i Got, Vitale del Four e Guglielmo Teste.

Abbiamo già parlato nei precedenti volumi dei Re Maledetti della morte di Clemente V, dell’aggressione di Carpentras e del cosiddetto conclave vagante.

9Il Quercy era una regione dell’antica Francia che comprendeva parte della Guienna o Aquitania e parte della Guascogna e che aveva come città principale Cahors. (N. d. T.).10Fino a metà del XII secolo la città di Lione era in mano ai conti di Forez e di Roannez, sotto la sovranità puramente nominale dell’imperatore di Germania.Nel 1175 l’imperatore riconobbe all’arcivescovo di Lione, primate delle Gallie,

diritti sovrani e da allora la città cessò di far parte del Forez e i Lionesi incominciarono a esser governati dal potere ecclesiastico che amministrava la giustizia, batteva moneta e poteva far leva di soldati.

Ma questo regime non piaceva al potente consiglio comunale di Lione, interamente composto di borghesi e di mercanti, i quali per più di un secolo lottarono per liberarsi da questa oppressione. Dopo numerose rivolte fallite, chiesero aiuto a re Filippo il Bello, che nel 1292 prese la città sotto la sua protezione.

Vent’anni dopo, il 10 aprile 1312, un trattato fra i consiglieri comunali, l’arcivescovo e il re, sanzionava il definitivo passaggio di Lione alla corona francese.Ma, nonostante le pressanti richieste di Giovanni di Marigny che, in quanto arcivescovo di Sens, controllava la diocesi di Parigi, l’arcivescovo i Lione riuscì a conservare il titolo di primate delle Gallie, la sola delle antiche prerogative che gli fosse rimasta.

Alla fine del Medio Evo, Lione annoverava circa 24 tavernieri. 32 barbieri, 48 tessitori, 56 sarti, 44 pescivendoli, 36 macellai, droghieri e pizzicagnoli, 57 calzolai, 36 panettieri o fornai, 25 albergatori, 87 notai, 15 orefici o gioiellieri e 20 drappieri.

La città era amministrata da un consiglio comunale (la commune) composto di commercianti borghesi che ogni anno, il 22 dicembre, nominavano 12 consoli, scelti fra le famiglie più facoltose: questo corpo consolare veniva anche chiamato il syndacal.

11La famiglia dei Varay, drappieri e cambiavalute, era una delle più antiche e stimate famiglie lionesi.Trentuno dei suoi appartenenti avevano portato il titolo di consoli; alcuni furono

più volte rieletti, e uno di loro coprì per dieci volte quella carica. Ben otto Varay erano compresi fra i cinquanta cittadini che i Lionesi nominarono come capi nel 1285 per guidare la lotta contro l’arcivescovo e ottenere l’annessione alla Francia.

12La tortura dell’acqua (question par l’eau) era prevista dal codice penale

vigente in Francia fino alla rivoluzione del 1789. Ce n’erano di due tipi: l’ordinaria e la straordinaria; la prima serviva per ottenere la confessione degli accusati e la seconda per costringere i condannati a riconoscersi colpevoli e a denunciare gli eventuali complici. In ambedue i casi il paziente veniva legato mani e piedi a anelli fissati a circa un metro d’altezza sul pavimento. Poi gli venivano bendati gli occhi e infilata in bocca dell’acqua a mezzo di un imbuto finché l’infelice non si decideva a confessare. (N. d. T.).13I cavalieri al seguito (chevaliers poursuivants) creati da Filippo V nei primi tempi del suo regno, erano nominati dal re per consigliarlo e accompagnarlo; dovevano essere con lui tutte le volte che egli si spostava, ma non tutti insieme.Fra i cavalieri al seguito cerano certi parenti stretti del re, come il conte di

Valois, il conte d’Evreux, il conte della Marche e il conte di Clermont; i grandi ufficiali della corona, come il connestabile, i marescialli e il comandante dei balestrieri, nonché altri personaggi, membri del consiglio segreto o del consiglio di governo, legisti, amministratori del Tesoro, borghesi divenuti nobili e amici personali del re. Cosi, per esempio Mille di Noyers, Geraldo Guette, Guido Florent, Guglielmo Flotte, Guglielmo Courteheuse, Martino degli Essarts e Anseau di Joinville.

Questi cavalieri furono in un certo senso i precursori dei gentils-hommes de la Chambre, creati da Enrico III e durati fino al regno di Carlo X.

14Contrariamente a quello che hanno spesso sostenuto i suoi avversari, la Chiesa romana non ha mai venduto assoluzioni. Ma si è limitata, che è cosa ben diversa, a far pagare ai colpevoli il prezzo delle bolle che essa rilasciava loro per dimostrare che erano stati assolti dai loro peccati.Queste bolle erano necessarie quando le colpe erano note ed era perciò

indispensabile provare di essere stati assolti per poter di nuovo accostarsi ai sacramenti.

Lo stesso principio veniva applicato, nel diritto civile, alle lettere di grazia e di remissione firmate dal re; sia la consegna dì queste lettere che la loro iscrizione nei registri erano infatti soggette a tasse. Quest’abitudine, antichissima, risaliva alle usanze tradizionali dei Franchi ancor prima della loro conversione al Cristianesimo. Giovanni XXII , con il suo Libro delle tasse e con la creazione della Santa Penitenzieria apostolica, si limitò a codificare e a generalizzare questa usanza, con eccellenti risultati finanziari, come dimostrano le floridissime condizioni del tesoro pontificio alla morte di questo papa.

Non soltanto i membri del clero erano soggetti a queste bolle, ma anche per i laici si prevedevano tasse ben precise. Le multe erano indicate in grossi, moneta equivalente a circa sei lire francesi.

Cosi il parricidio, il fratricidio o l’uccisione di un parente venivano tassati da cinque a sei grossi, come l’incesto, lo stupro di una vergine o il furto di oggetti sacri. Il marito che aveva picchiato la moglie o l’aveva fatta abortire doveva versare sei grossi, e sette se le aveva anche strappato i capelli. L’ammenda più cospicua, precisamente ventisette grossi, colpiva coloro che avevano falsificato una lettera apostolica, contraffacendo così la firma del papa.

Naturalmente queste tasse aumentarono col tempo, in proporzione alle successive

svalutazioni della moneta.Ma ancora una volta non si trattava di vendere le assoluzioni, ma di far pagare

un diritto di registrazione per fornire così prove autenticate.Gli innumerevoli libelli scritti su questo argomento, soprattutto dopo la Riforma,

per screditare la Chiesa romana, erano tutti basati su questa volontaria confusione.Bisogna infine ricordare che, proprio nel periodo in cui Giovanni XXII creava la

Santa Penitenzieria, re Filippo V riorganizzava dal canto suo il funzionamento della reale cancelleria, e procedeva a una completa revisione delle tariffe precedentemente stabilite.

15I Frati Predicatori, o Domenicani, venivano anche chiamati Giacobini a causa della chiesa di San Giacomo che era stata loro assegnata, a Parigi, e intorno alla quale essi avevano formato la loro comunità.Il convento di Lione dove si tenne il conclave del 1318 era stato costruito nel

1236 su terreni posti dietro il palazzo dei Templari. Il monastero occupava l’attuale piazza dei Giacobini fino a piazza Bellecour.

16Le selle alla tavoletta (à la planchette) consistevano in un basto sul quale ci si sedeva all’amazzone, appoggiando i piedi su una piccola asse. (N. d. T.).17Goffredo Coquatrix (cognome che evidentemente derivava dal termine coquatier, cioè mercante di polli e uova) che sposò in prime nozze Maria La Marcelle e successivamente Giovanna Gencien, conservò fino alla morte, avvenuta nel 1321, le cariche accumulate sotto ben tre sovrani, senza essere mai stato costretto a renderne conto. Soltanto il figlio di Carlo di Valois, re Filippo VI, cercò, dopo il 1328, di costringere gli eredi di Goffredo Coquatrix a presentare questi conti, ma dovette rinunciarvi e dispensare i figli dal giustificare la gestione del padre, purché essi versassero al Tesoro una somma a forfait di quindicimila lire.18Questi stessi argomenti vennero presentati agli Stati Generali del febbraio 1317, alla morte di Filippo V e a quella di Carlo IV, quando il problema della successione al trono di Francia si presentò più o meno negli stessi termini. È quindi indubbio che il connestabile Gaucher di Châtillon che visse e conservò la sua carica fino al 1329, abbia esercitato un’influenza decisiva nell’allontanamento delle donne dalla corona.19Non va dimenticato il carattere originariamente elettivo della monarchia capetingia, che precedette il sistema ereditario o per lo meno coesistette a esso.Dopo la morte dell’ultimo carolingio, Luigi V il Fannullone, scomparso a

vent’anni in un incidente di caccia dopo pochi mesi di regno, i duchi e i conti si misero d’accordo per eleggere re uno di loro, e scelsero Ugo duca di Francia, il cui padre, Ugo il grande, conte di Parigi, duca di Francia e di Borgogna, aveva governato di fatto il paese negli ultimi decenni della dinastia carolingia. Questo accadeva nel 987.

Ugo Capeto (cioè Ugo il capo, Ugo la testa) associò immediatamente al trono suo figlio Roberto II, facendolo eleggere suo successore e consacrare nello stesso anno in cui venne egli stesso consacrato. Accadde praticamente la stessa cosa per cinque successivi regni, fino a Filippo Augusto compreso. Il primogenito del re veniva cioè designato come presunto erede e, dopo che i pari avevano ratificato questa scelta , il

nuovo eletto veniva consacrato quando suo padre era ancora vivo.Soltanto con Luigi VIII, cioè duecentoventisette anni dopo Ugo Capeto, questa

formalità dell’elezione preliminare venne finalmente abolita.Luigi VIII ricevette la corona di Francia alla morte di Filippo Augusto, il 14

luglio 1223, esattamente come se avesse ereditato un feudo. Soltanto quel 14 luglio, dunque, la monarchia francese divenne effettivamente ereditaria.

All’epoca della reggenza di Filippo il Lungo la nuova usanza durava insomma da meno di un secolo.

20L’auna (aune) era un’antica misura di lunghezza francese, equivalente a circa un metro e diciannove centimetri. (N. d. T.).21Nelle genealogie, il figlio di Filippo V, nato nel luglio 1318, viene generalmente indicato col nome di Luigi. Viceversa nel libro dei conti di Goffredo di Fleury, intendente di Filippo il Lungo, che ne iniziò la redazione il 12 luglio di quell’anno, il bambino è citato col nome di Filippo.Altri genealogisti nominano due figli, uno del quali sarebbe nato nel 1315 e

concepito perciò quando Giovanna di Borgogna era prigioniera a Dourdan, ipotesi difficilmente accettabile conoscendo gli sforzi sostenuti da Mahaut per riconciliare la figlia col genero.

Il figlio che nacque da questa riconciliazione ricevette probabilmente parecchi nomi, fra i quali quelli di Filippo e di Luigi; e, siccome non disse a lungo, i cronisti fecero evidentemente qualche confusione.

22Nemmeno l’ascesa al potere di Bianca di Castiglia fu, del resto, una cosa facile. Benché espressamente designata da un atto di re Luigi VIII, suo marito, come reggente e tutrice, Bianca dovette combattere contro la violenta ostilità dei grandi vassalli che non potevano sopportare una donna alla testa del regno.

«Bien est France abâtardie,Seigneurs barons entendez,Quand à femme on l’a baillie».

E cioè: È davvero imbastardita la Francia, miei nobili baroni, da quando è finita in mano a una donna. Così scriveva Ugo della Ferté.

Ma Bianca di Castiglia era una donna ben più decisa che non Clemenza d’Ungheria. Era inoltre regina da dieci anni e aveva già dato alla luce dodici figli. Riuscì così a sconfiggere i baroni con l’aiuto del conte Tebaldo di Sciampagna, che la voce pubblica le attribuì come amante. Qualcuno sosteneva perfino che ella si fosse servita di lui per avvelenare il marito, ma questo sospetto non era sostenuto da alcuna prova.

23Ê da notare una singolare somiglianza fra la pazzia di Roberto di Clermont e quella che colpì re Carlo VI, due volte suo pronipote, alla quarta generazione per parte di padre e alla quinta per parte di madre.In ambedue i casi la follia incomincia con un colpo inferto da un’arma, con

traumatismo cranico per Clermont e senza traumatismo per Carlo VI, ma tale comunque da scatenare nei due colpiti una stessa mania furiosa: si constatano in tutti e due i casi periodi di crisi frenetica seguiti da lunghe fasi di calma in cui l’ammalato poteva comportarsi in modo apparentemente normale, nonché una mania ossessionante per i tornei che nessuno poteva loro impedire di organizzare e

ai quali partecipavano spesso, anche nei momenti di più acuta follia. Clermont, per quanto pazzo pericoloso, era autorizzato a cacciare in tutto il territorio dipendente dal re. E arrivò perfino a partecipare con l’oste di Filippo il Bello, a una campagna di Fiandra, mentre dal canto suo Carlo VI, già pazzo da vent’anni, partecipò sia all’assedio di Bourges che alle battaglie contro il duca di Berry.

Clermont mori il 7 febbraio 1317, un mese dopo l’incoronazione di Filippo V.24Grida regolamentari che segnavano l’inizio di ogni torneo.25Questi due bambini dovevano più tardi sposarsi fra loro e ricevere la corona di Navarra.26I giocattoli e i giochi dei bambini non sono praticamente cambiati molto dal Medio Evo a oggi. Già allora esistevano palle e palloni di cuoio o di stoffa, cerchi, trottole, bambole, cavalli di legno e piastrelle. Si giocava a mosca cieca, a barriera, alle buschette, a rincorrersi, a guancialino d’oro, a nascondersi, alla cavallina e alle marionette. I bambini delle famiglie ricche disponevano inoltre di imitazioni di armi costruite secondo le loro misure: elmi di ferro leggero, abiti di maglia, spade senza filo, precorrendo dunque i moderni corredi da generale o da cow-boy.27La seconda figlia di Agnese di Borgogna, Giovanna, che aveva sposato Filippo di Valois, futuro Filippo VI, era zoppa come il cugino germano Luigi I di Borbone, figlio di Roberto di Clermont.Esistevano zoppi anche nel ramo collaterale degli Anjou, tanto che Carlo II, re di

Napoli e nonno di Clemenza di Ungheria, era appunto soprannominato lo Zoppo. Una leggenda ripresa anche da Mistral nelle sue Isole d’oro, racconta che quando l’ambiasciatore del re di Francia, conte di Bouville, andò a chiedere in moglie Clemenza in nome del suo signore, chiese che la principessa si spogliasse davanti a lui per potersi accertare se ella aveva le gambe diritte.

La deformità di Giovanna di Borgogna era però accompagnata da una patologica malvagità che, quando ella salì al trono, le guadagnò i soprannomi di maschia regina di Francia e di regina zoppa.

La lista delle sue vittime è lunga. E forse sono state attribuite a torto a Margherita di Borgogna (che fra tutte le tare della famiglia era afflitta soltanto, a quanto pare, da una eccessiva sensualità) molte delle crudeltà commesse dalla sorella minore.

Giovanna cercò, fra l’altro, di sbarazzarsi del vescovo Giovanni di Marigny facendogli preparare un bagno avvelenato, e redasse personalmente ordini di condanne a morte che sigillava poi col sigillo del re, all’insaputa di costui. Filippo VI una volta se ne accorse e la fustigò con tanta violenza da rischiare di ucciderla.

Ella morì di peste nel 1349 e il popolo accolse soddisfatto la notizia del suo decesso, considerandolo un castigo del cielo.

28La broigne era un abito di pelle, di tela o di velluto sul quale venivano cuciti degli anelli di ferro, e che praticamente sostituiva il giaco. Sopra questa broigne, allo scopo di rinforzarla, si mettevano elementi chiamati plates — da cui il nome di armatura a plates — che erano parti di metallo pieno, forgiate sulla forma del corpo e articolate come le code di uno scorpione.2Beaumont significa notoriamente Belmonte e Beauval, Bellavalle. Si tratta

dunque di un facile gioco di parole (N. d. T.).29Mahaut presentò un inventario minuzioso dei furti e dei danni causati al suo castello di Hesdin, inventario che comprendeva centoventinove capoversi.Ella fece un processo davanti al parlamento di Parigi per ottenere un rimborso,

rimborso che le venne parzialmente concesso con la sentenza del 9 maggio 1321.30Le castellanie (châtellenies) erano signorie sottoposte a un nobile castellano, incaricato di amministrare la giustizia in nome del re o di un grande vassallo. (N. d. T.).31Orbo venirti usato nel senso di miope. Filippo V venne soprannominato il Lungo, il Grande o l’Orbo.

3Gioco di parole intraducibile: Monsignor d’Auch soffre di continenza a tavola e i Monsignori Colonna di continenza e di carne (N. d. T.).

4In italiano anche nel testo originale (N. d. T.).5In italiano anche nel testo originale (N. d. T.).

32Ci sono tre sistemi per eleggere un papa:1° Per scrutinio segreto, completato se necessario da un secondo scrutinio,

detto «d’adesione». La maggioranza richiesta sono i due terzi dei votanti.2° Per compromesso, se tutti i cardinali all’unanimità affidano ad alcuni di loro

il compito di eleggerne uno in nome di tutti.3° Per «ispirazione» o «acclamazione».

Alcuni storici sostengono che Giacomo Duèze venne eletto per compromesso, opinione probabilmente basata sulle numerose trattative diplomatiche che precedettero la sua elezione. In realtà Duèze fu invece eletto con voto regolare; tanto è vero che ci furono quattro scrutatori dei quali conosciamo i nomi.

6In italiano anche nel testo originale (N. d. T.).7In italiano anche nel testo originale (N. d. T.).8In italiano anche nel testo originale (N. d. T.).33Il menu-vair era una pelliccia grigia di sotto e bianca di sopra, prodotta da una specie di scoiattolo, il vaio. In termini di moda si chiama oggi petit-gris.34Nelle famiglie reali e principesche si usava allora dare ai bambini parecchi padrini e madrine, fino a un totale di otto. Così per esempio Carlo di Valois e Gaucher di Châtillon erano ambedue padrini di Carlo della Marche, terzo figlio di Filippo il Bello. E Mahaut era madrina di questo principe, come lo era di numerosi altri parenti. La sua scelta per portare al fonte battesimale il figlio postumo di Luigi X non era dunque sorprendente; anzi, se non avessero nominato lei, tutti avrebbero potuto ritenerla in disgrazia.35La misericordia era una daga da guerra assai appuntita, così chiamata perché usata soprattutto per minacciare il nemico abbattuto e costringerlo, appunto, a chiedere misericordia. (N. d. T.).36Nel Medio Evo il battesimo veniva sempre celebrato nel giorno successivo a quello della nascita.L’abluzione a mezzo di completa immersione in acqua fredda era il solo sistema

usato fino all’inizio del XIV secolo.

Soltanto nel 1313 un sinodo riunitosi a Ravenna consentì al battesimo mediante aspersione, nel caso in cui l’acqua benedetta non fosse sufficiente all’immersione o se si temesse che il metodo più comunemente usato potesse danneggiare la salute del bambino.

Tuttavia soltanto nel XV secolo il metodo dell’immersione venne completamente abbandonato.

Qualora si considerino, accanto a questo tipo di battesimo, anche le deplorevoli condizioni igieniche in cui avvenivano i parti, non potrà stupire l’altissimo coefficiente di mortalità fra i neonati del Medio Evo.

37Con tutta probabilità la regina Clemenza soffriva di febbre puerperale.38Quando un neonato presentava segni di malattia, non era lui che doveva prendere le medicine, ma la sua nutrice.39Il cendal era un tessuto di seta usato nel Medio Evo per vestiti, pennoni e bandiere. Poteva essere sto seta italiana che ta f fe tà che buratto; era generalmente rinforzato e aveva la proprietà di assorbire bene i colori, soprattutto l’oro, con cui si disegnavano gli stemmi. L’orifiamma di Saint-Denis era, per esempio, di cendal rosso. (N. d. T.).40Queste disposizioni riguardavano sia la registrazione degli atti privati che la concessione di patenti, autorizzazioni di residenza o di commercio per gli stranieri, e i brevetti per ufficiali reali. Con le ordinanze del 1321, per esempio, gli atti concernenti Lombardi ed Ebrei erano sottoposti alle stesse tariffe: 11 soldi per una lettera a «coda» semplice, 7 lire e dieci soldi per una lettera a «coda» doppia, e 9 lire se i sigilli posti su dette «code» erano di cera verde, colore riservato al sigillo reale. Le lettere di nomina ai pubblici u f f ic i pagavano a loro volta 51 soldi, se indirizzate a podestà o siniscalchi, 6 soldi se concernenti posti di polizia o cariche di importanza minore. Perfino i doni e i redditi accordati dal re dovevano essere legalizzati con documenti soggetti a tasse.La carta bollata che si usa ancor oggi negli atti notarili è un residuo di queste

antiche norme.41Il lait de noisettes è un dolce fatto con le nocciole, ed è simile al più diffuso latte di mandorle. (N. d. T.).42I sintomi di questa confusione mentale dovevano rapidamente accentuarsi. Giovanni XXII , che aveva sempre protetto Clemenza in quanto principessa d’Anjou (arrivando perfino, quando venne a sapere del suo parto, ad accordare venti giorni di indulgenza a quanti avessero pregato per lei o per suo figlio), fu costretto, già nel maggio seguente, a farle una ramanzina epistolare, invitando la giovane vedova a vivere casta, umile e riservata, ad essere sobria a tavola, modesta nel mangiare come nel vestire e a non farsi sempre vedere accompagnata da giovani uomini. Contemporaneamente egli intervenne presso Filippo V per fissare il vedovile di Clemenza, riuscendovi soltanto con molta difficoltà.Il papa scrisse ancora altre volte a Clemenza per incitarla a limitare le proprie

spese e per pregarla di pagare i debiti, soprattutto quelli con i Bardi di Firenze. Nel 1318, ella si ritirò, per qualche anno, nel convento di Santa Maria di Nazareth, vicino a Aix-en-Provence. Ma, prima di entrarvi, dovette lasciare in pegno i suoi gioielli per soddisfare le richieste dei suoi creditori.

Quando ella morì, dieci anni dopo, a Parigi, nel Palazzo dei Templari che Filippo V le aveva dato in cambio di Vincennes, tutti i suoi beni personali furono venduti all’asta.

43I fratelli Giovanni e Pietro di Cressay dovevano essere armati cavalieri da Filippo VI di Valois, trenta anni più tardi, e precisamente nel 1346, sul campo di Crécy, il giorno prima della famosa battaglia.44Il peliçon era una pelliccia, o un abito foderato di pelliccia in uso nel Medio Evo. (N. d. T.).45Si chiamavano borse à-cul-de-vilain certe borse rotonde di pancia e strette di collo. Ne esistevano anche di molto belle e i nobili vi portavano non soltanto il denaro ma anche i loro sigilli.46Queste cifre sono tratte dai conti per la consacrazione di Filippo VI, posteriore di dodici anni. Prezzi e quantità non dovevano essere mutati molto. Viceversa tutti i particolari sul guardaroba e sulla decorazione riportati in questi capitoli si riferiscono proprio all’incoronazione di Filippo V e sono citati nel libro dei conti del suo intendente.47Si chiamava veste (robe) un abito completo, composto di parecchi pezzi chiamati garnements, tutti dello stesso tessuto. La veste da parata comprendeva due sopravvesti, una chiusa e l’altra aperta, una cappa, un cappuccio e un mantello da parata.48Gli elettori dì Ugo Capeto — per questo chiamati pari, cioè uguali al re — erano stati il duca di Borgogna, il duca di Normandia, il duca d’Aquitania, il conte di Sciampagna, il conte di Fiandra e il conte di Tolosa.Nessuno dei titolari di queste sei parìe laiche era presente alla consacrazione di

Filippo V.49Qualche mese dopo, cioè nel settembre 1317, il papa scrisse al confessore della regina Giovanna, per dargli il potere di assolvere costei da tutti i peccati confessati tre anni prima. Difficilmente Filippo V avrebbe potuto chiedere al suo amico Duèze questa assoluzione ufficiale, se non fosse stato convinto dell’innocenza di sua moglie, almeno sulla questione dell’adulterio.50Cinque secoli più tardi, nel suo discorso alla Camera dei Pari del 21 marzo 1817, relativo a una legge economica, Chateaubriand citò questa legge di Filippo il Lungo, promulgata nel 1318, che proclamava inalienabile il dominio della corona.9Prendi questa spada con la benedizione di Dio per resistere per virtù dello

Spirito Santo a tutti i tuoi nemici…