Marx critico di Hegel e dello Stato moderno · Appunti A.S. 2019-2020 2 Marx sviluppa le idee...
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Appunti A.S. 2019-2020
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1. Marx critico di Hegel e dello Stato moderno
Marx si forma sulle opere di Hegel di cui però, fin dai primi scritti, dà una lettura critica.
Emerge in controluce l’originalità di un grande e controverso pensatore della modernità La formazione filosofica di Marx è senz’altro quella di un giovane della sinistra hegeliana. Anzi, in
un certo senso, si può affermare che Marx rimane per tutta la vita un pensatore hegeliano (se non
nei contenuti, almeno nella metodologia e nella terminologia filosofica), tanto che, anche in età
matura, ebbe modo di lamentare la mancanza di tempo da dedicare a un’opera sul metodo hegeliano.
L’influenza del metodo hegeliano su Marx è visibile soprattutto nella definizione di scienza: per
Marx esiste una concezione tutta tedesca della scienza, intesa come analisi della totalità e non come
studio specifico di un settore. Tuttavia, in sintonia con gli altri hegeliani di sinistra, la critica che
Marx muove a Hegel - già nella sua prima opera filosofica, una serie di appunti scritti nel 1843 e
pubblicati postumi nel 1927 col titolo di Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico - è
quella di aver invertito il rapporto tra realtà e spirito: per Marx non è la realtà a essere un riflesso,
una produzione dello spirito, ma viceversa è lo spirito o, se si preferisce, la coscienza e le sue
determinazioni a essere un prodotto delle condizioni materiali della realtà storica. Come sappiamo,
questa posizione della sinistra hegeliana non è solo filosofica ma anche politica. Invertire il rapporto
hegeliano tra spirito e realtà significa, infatti, attaccare la posizione dell’ala conservatrice dei
discepoli di Hegel che, attraverso il primato dello spirito come motore della storia, giustificava
anche le posizioni più reazionarie dello Stato prussiano, considerate, in quanto momenti
dell’evoluzione dello spirito, se non giuste quantomeno necessarie. Lo stesso Marx, nella prefazione
alla seconda edizione tedesca de Il Capitale, sintetizza in modo molto chiaro questa inversione tra
realtà e spirito che rappresenta il cuore della sua polemica con il “maestro”:
Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico non è solo differente da quello hegeliano, ma ne è
anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del pensiero che egli, sotto il nome di Idea,
trasforma addirittura in soggetto indipendente, è il demiurgo del reale, mentre il reale non è che il
fenomeno esterno del processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che
l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini. Marx definisce il metodo
hegeliano come un “misticismo logico”, che opera un capovolgimento idealistico tra soggetto e
predicato, tra concreto e astratto: ciò che viene prima, il concreto, viene erroneamente messo dopo
l’astratto; la realtà è predicato dell’idea divenuta soggetto. Bisogna invece invertire i termini del
processo facendo del concreto il soggetto e dell’astratto il predicato.
Marx riprende l’analisi di Ludwig Feuerbach. L’inversione strutturale dei termini della dialettica
riprende da vicino l’analisi della religione di un altro pensatore che molto ha influenzato la
formazione filosofica di Marx, Ludwig Feuerbach, secondo cui è l’uomo a creare Dio e non
viceversa: è l’uomo che, per sopportare le difficoltà e gli stenti dell’esistenza, costruisce la religione
in cui trovare conforto e la promessa di una felicità eterna. Marx del resto riprende esplicitamente la
tesi di Feuerbach nella sua critica a Hegel: celebre è la definizione del giovane Marx della
religione come «oppio dei popoli», ovvero come il mezzo tramite il quale il popolo - o in termini
già marxiani il proletariato - oppresso, bisognoso e privo di cultura prova a lenire la sua sofferenza e
a sopportare la sua difficile condizione. Successivamente Marx si spingerà oltre questa tesi: l’uomo
vive una condizione alienata non tanto poiché proietta le sue facoltà in Dio, ma in quanto è inserito
in un contesto socio-economico che lo priva, oltre che del frutto del suo lavoro, della sua stessa
umanità. Per Marx hegeliano di sinistra, dunque, è lo spirito a discendere dalla realtà e non
viceversa e, allo stesso modo, sono la religione e Dio a essere creazioni dell’uomo e non il contrario.
Compito della filosofia è quello di rimettere le cose nel loro giusto ordine, offrendo gli strumenti
concettuali, ma anche politici, per liberare il popolo dalle sue catene: in breve, comprendere la
realtà e mettere a punto gli strumenti teorici necessari a trasformarla.
La critica di Hegel è anche critica dello Stato moderno, di cui il filosofo di Stoccarda è
considerato uno dei grandi teorizzatori
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Marx sviluppa le idee emerse nello scritto giovanile su Hegel nei due lavori che pubblica a Parigi
sugli Annali franco-tedeschi del 1844. I due testi sono Sulla questione ebraica e Per la critica della
filosofia del diritto di Hegel. Introduzione. Sulla questione ebraica viene scritto in risposta alle tesi
di Bruno Bauer che aveva dedicato due testi al problema dell’emancipazione degli ebrei e al loro
diritto di essere considerati cittadini a pieno titolo. Per Bauer la soluzione alla “questione ebraica”
non può che essere la progressiva emancipazione di tutti i cittadini (anche degli ebrei quindi) e, di
conseguenza, dello Stato di cui fanno parte, dall’influenza della religione. Solo uno Stato laico può,
infatti, garantire a tutti i suoi cittadini la parità dei diritti e l’emancipazione da ogni forma di
discriminazione. La religione per Bauer deve cioè diventare un fatto quanto più possibile privato,
che non possa quindi minare gli equilibri della sfera pubblica a cui i cittadini devono poter accedere
con eguali diritti e libertà. La risposta di Marx, per l’ampiezza del suo respiro filosofico, esula dalla
sola questione ebraica e, superando le intenzioni teoriche dello stesso Bauer, chiama in causa i
fondamenti stessi dello Stato. Secondo Marx, infatti, il problema non risiede nel posto che occupa la
religione all’interno dello Stato, ovvero se essa debba riguardare solo la sfera privata dell’individuo
o anche la sfera pubblica - quella dimensione partecipativa dei cittadini che secondo Hegel
rappresenta uno dei tratti caratteristici della modernità - bensì nel fatto che per superare le
contraddizioni dello Stato moderno, tra cui anche la questione religiosa, questa distinzione tra sfera
pubblica e privata dovrebbe scomparire. Per Marx quindi nello Stato democratico ideale - quello
che progressivamente nel pensiero del filosofo tedesco diventerà la futura società comunista - la
distinzione tra sfera pubblica e sfera individuale dovrà essere abolita, così come la distinzione tra
persona e cittadino, in nome di una condizione “naturale” dell’esistenza in cui questa duplicità
venga superata.
Scrive Marx: La questione del rapporto tra l’emancipazione politica e la religione diviene per noi
la questione del rapporto tra l’emancipazione politica e l’emancipazione umana.
Ma per quale motivo avverte l’esigenza di questa emancipazione che naturalmente, almeno nelle
intenzioni, ha una forte connotazione pratica e politica? Secondo Marx la distinzione tra pubblico e
privato nasconde una grande illusione, ovvero che gli interessi privati che sono alla base dell’agire
individuale della società borghese (la proprietà privata, il profitto, l’attività imprenditoriale) siano
bilanciati e, soprattutto, armonizzati nello Stato che, in questo modo, garantisce i diritti e le libertà
di tutti i suoi cittadini. In realtà, secondo Marx, la sfera pubblica dello Stato liberale moderno è
“schiava” degli interessi privati dei singoli cittadini; allo stesso modo le libertà e i diritti dei suoi
membri (diritto di voto, eleggibilità attiva e passiva ecc.) risultano essere solamente formali, nel
senso che nel concreto soggiacciono al tornaconto dei cittadini più influenti o, in altri termini, più
abbienti. Già in quest’opera il filosofo tedesco non risparmia quindi critiche alla società e allo Stato
liberale, di cui sarà sempre un oppositore. E in questa polemica si inscrive l’analisi dei principi
sanciti dalla rivoluzione francese - uguaglianza, fraternità e libertà - che per Marx sono ancora e
definitivamente principi a difesa e protezione del singolo e non della collettività, funzionali agli
interessi privati della borghesia che si libera in questo modo dei vincoli della società medievale per
amministrare, in totale libertà, la propria ricchezza e i propri privilegi.
Al concetto di libertà negativa, propria dello Stato liberale, Marx contrappone la libertà
positiva della futura società comunista Soffermiamoci sul concetto di libertà: nello Stato liberale moderno - e nella stessa ottica sancita
dalla rivoluzione francese - essa è sempre e comunque una libertà negativa, intesa come limite a ciò
che i membri della comunità possono fare senza nuocere agli altri e ai loro interessi. A questa idea
di libertà Marx oppone un concetto di libertà positiva, intesa come la possibilità per ogni individuo
di realizzarsi pienamente all’interno della società in cui vive. Scrive a questo proposito uno studioso
di Marx, Stefano Petrucciani: «La libertà dunque, per Marx, non consiste nel fatto che ognuno possa
godere di uno spazio protetto nel quale muoversi senza interferenze; essa richiede piuttosto che gli
individui possano effettivamente controllare le circostanze della loro vita, e che quindi siano inseriti
in contesti nei quali possano sviluppare le loro capacità umane e le loro peculiari attività individuali.
In sostanza, per Marx, la libertà negativa intesa come “non impedimento” è troppo poco per essere
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davvero libertà; questa va invece pensata come libertà positiva e autorealizzazione». Marx non
abbandonerà più questo giudizio severo sullo Stato liberale e su quelle che a lui appaiono come le
sue contraddizioni insanabili: ai suoi occhi lo Stato borghese tende a ridursi a semplice
“contenitore” dell’egoismo e degli interessi dei singoli a cui si sottomettono tutte le libertà e tutti i
diritti che sembrano esserne garantiti. A che vale infatti godere formalmente dei diritti di libertà se
non si è concretamente in grado di esercitarli? La garanzia astratta del diritto è vuota se l’uomo non
è concretamente posto nelle condizioni di usufruire effettivamente dei suoi diritti: che senso ha, si
chiede Marx, non avere di che vivere e essere considerati cittadini sovrani? Un uomo sarà
veramente libero solo se non è oppresso dal bisogno. Per questo il comunismo, con l’abolizione
della proprietà privata e quindi dell’interesse del singolo, appare al giovane Marx come la soluzione
a questo impasse non solo nella teoria, ma anche nella vita reale dei cittadini.
FILOSOFI a CONFRONTO
Il giovane Marx oltre Hegel e lo Stato liberale Possiamo riassumere in tre punti essenziali la critica che Marx muove a Hegel e allo Stato liberale
nei suoi scritti giovanili: tre punti in cui già si intravede l’originalità di pensiero del futuro autore de
Il Capitale.
HEGEL MARX
Dialettica
Pensiero e realtà costituiscono un tutt’uno e
l’unità originaria di ragione ed essere precede
ogni distinzione tra coscienza e mondo.
«Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò
che è razionale è reale».
È la realtà storica che determina la
coscienza e non viceversa; quindi è su
questa che bisogna intervenire per
rinnovare la società. Non solo con il
pensiero, ma anche (e soprattutto) con le
azioni.
Religione
Dio è lo Spirito, la ragione autocosciente,
l’unica realtà metafisica, principio di tutte le
cose. La religione è la via che l’individuo
deve seguire per elevarsi a Dio.
È l’uomo il “creatore” del suo Dio e non
viceversa: l’uomo che, tramite la
religione, prova a emanciparsi dalle
condizioni della sua esistenza.
Politica
Lo Stato autentico è lo Stato nazionale che
realizza l’idea etica attraverso il consenso dei
cittadini e l’ordinamento costituzionale.
Lo Stato moderno inteso in senso
“borghese” e liberale deve essere superato
dalla società comunista che abolisce le
differenze sociali e permette la nascita di
diritti e libertà sostanziali.
2. Economia borghese e alienazione
A Parigi Marx studia gli economisti classici e sottopone a critica filosofica i meccanismi
economici che sono alla base della società civile Marx inizia a interessarsi “seriamente” di economia durante il suo soggiorno a Parigi in cui, come
detto, pubblica i suoi due primi scritti importanti sugli Annali franco-tedeschi e in cui inizia a
professare apertamente la sua adesione alla causa comunista. Da questo momento in poi il pensiero
di Marx sarà sempre più influenzato dall’economia politica che il pensatore tedesco considera
l’anatomia di quella società civile di cui si è occupato negli scritti di commento a Hegel. Marx si
dedica così a uno studio approfondito degli economisti cosiddetti “classici” come Adam Smith,
James Mill e David Ricardo e, d’ora in avanti, una delle costanti e delle peculiarità del suo pensiero
sarà quella di affrontare in modo filosofico - o meglio critico - argomenti di carattere propriamente
economico, storico e anche sociale. Altro “incontro” importante del periodo parigino è quello con le
associazioni comuniste di artigiani tedeschi e francesi, che comincia a frequentare assiduamente, e
dei circoli operai che sorgono nella capitale francese con l’intento di promuovere rivendicazioni
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sociali per la classe operaia. La vicinanza al “movimento operaio” e l’impegno nelle sue
organizzazioni saranno, infatti, un’altra costante nella vita di Marx.
Nei primi scritti influenzati dalle letture di economia emerge con forza il tema dell’alienazione
che Marx ricava da Feuerbach criticandone però i limiti Il frutto del periodo parigino di studi economici è raccolto nei Manoscritti economico-filosofici del
1844 in cui il filosofo tedesco affronta per la prima volta in modo sistematico il tema della
“condizione operaia” su cui spesso tornerà nel corso delle opere successive. Emerge così in queste
pagine l’elaborazione della tematica dell’alienazione dell’operaio che, anche a causa della
pubblicazione postuma nel 1932 di questi scritti, conoscerà solo nel corso del Novecento una
larghissima diffusione, diventando uno dei termini più utilizzati per descrivere la condizione
esistenziale dell’uomo moderno. Ma nei Manoscritti compaiono altri termini chiave del pensiero
marxiano - come salario, proprietà privata, capitale ecc. - con cui il pensatore di Treviri inizia un
lungo “corpo a corpo” filosofico e che, in questa fase del suo pensiero, si intrecciano al concetto di
alienazione. Come si evince anche da un altro appunto di questo periodo, Estratti dal libro di James
Mill “Eléments d’économie politique”, per il filosofo tedesco un’organizzazione economica e
sociale fondata sul mercato in cui è il denaro - e non ad esempio il supporto reciproco e comunitario
- a mediare il rapporto tra le persone sfocia inevitabilmente nell’alienazione degli individui che la
compongono. Forte, in questa tesi, è ancora l’influenza di Feuerbach da cui Marx riprende quello
che possiamo chiamare il “meccanismo” dell’alienazione, traslandolo tuttavia dalla religione
all’economia. In questo modo Marx pensa di porre rimedio al limite fondamentale di Feuerbach che
descrive l’alienazione religiosa ma non ne spiega la causa. Secondo Marx, questa difficoltà nasce
dal fatto che Feuerbach parla della natura umana in termini astratti, separando l’individuo dal
contesto storico-sociale in cui vive: L’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo. L’uomo
è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una
coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto (Critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico) L’uomo non è alienato perché oggettivizza la sua essenza in una
dimensione religiosa esterna. Al contrario, nella religione esprime la condizione di alienazione che
vive nella società: quella che oggettivizza, infatti, è la sfera dei suoi rapporti sociali nella fredda
dimensione del denaro che lo asserve a sé. Nella sostanza la religione non è la causa
dell’alienazione ma un effetto. A Feuerbach va riconosciuto il merito di avere rovesciato con un
approccio materialistico l’idealismo hegeliano, e la colpa di non aver svolto questa critica nella
prospettiva storica e sociale ben presente in Hegel. Marx, dunque, critica Hegel attraverso
Feuerbach e Feuerbach attraverso Hegel. In conclusione, rispetto a Feuerbach «Marx compie un
gran passo innanzi: l’alienazione economica o sociale non è una forma di alienazione accanto a
quella religiosa, ma è l’alienazione che sta a fondamento di ogni altra alienazione, senza la quale la
stessa alienazione religiosa non può essere spiegata; perciò solo la soppressione dell’alienazione
economica [...] condurrà alla soppressione dell’alienazione religiosa» (Norberto Bobbio).
Nei Manoscritti Marx descrive i quattro aspetti dell’alienazione dell’operaio: dal frutto del
suo lavoro, dal lavoro in sé, dalla sua specie e dagli altri uomini Nei Manoscritti del 1844 Marx descrive nel dettaglio la condizione alienata della classe operaia, la
condizione dell’essere altro da sé, del non coincidere con la propria essenza. Per il filosofo tedesco
l’alienazione dell’operaio si può riassumere nel fatto che tanto più egli lavora e produce, tanto più la
sua condizione di indigenza e privazione peggiora. Nello specifico sono quattro le accezioni
dell’alienazione che considerate nel loro assieme rendono l’operaio estraneo al suo lavoro e alla sua
stessa vita.
1. L’operaio non essendo padrone delle macchine e della fabbrica non è padrone neanche di quello
che produce. La merce, quindi, sta di fronte a lui come qualcosa di estraneo e ostile. Egli è alienato
dal frutto del suo lavoro.
2. L’operaio è alienato dalla stessa attività di produzione che non viene scelta e svolta
liberamente e volontariamente. Il lavoro dell’operaio è, nella società industriale, sempre coatto, è
costrizione dettata dalla necessità e dal bisogno di procurarsi mezzi di sussistenza.
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3. L’operaio è alienato dalla sua specie o, in altre parole, dalla sua natura umana. Per Marx,
infatti, la peculiarità della nostra specie sta proprio nel lavoro, inteso come capacità di trasformare
la natura. Ma se il lavoro dell’operaio diventa una merce, se diventa un’attività imposta e svilente,
allora viene meno per lui il legame profondo con la propria essenza umana.
4. Infine l’operaio è alienato nei suoi rapporti con gli altri uomini, dal momento che sono tutti
rapporti mediati dal denaro, sono tutti rapporti di produzione.
È ora importante sottolineare quali siano le conseguenze economiche, sociali e politiche che Marx
trae da questa descrizione della condizione operaia.
1. In primo luogo l’alienazione è la condizione umana direttamente collegata alla proprietà privata
che storicamente nasce, secondo Marx, proprio con la separazione dell’uomo dalla sua essenza e dal
suo lavoro.
2. Il fatto di riconoscere il carattere storico della proprietà privata, comprendere cioè che non
appartiene necessariamente all’organizzazione sociale dell’uomo, è il primo passo per incominciare
a pensare al suo superamento. Per l’economia classica, con cui Marx si confronta in questi scritti, la
proprietà privata è uno degli assiomi indiscussi alla base di ogni teoria. Per il filosofo tedesco è un
dato storico, niente affatto immutabile, che va posto al centro della critica all’economia politica.
3. Il superamento della proprietà privata può avvenire solamente con l’avvento della società
comunista in cui l’uomo si riappropria finalmente della sua essenza e di una dimensione nuova del
lavoro e del rapporto con i suoi simili. La società comunista, nei Manoscritti, appare a Marx come
«la vera risoluzione dell’antagonismo tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e
l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie».
Non è difficile scorgere in questa idea di liberazione delle classi oppresse l’eco della dialettica
hegeliana, della riappropriazione di sé attraverso il momento “negativo” dell’alienazione.
L’originalità di Marx sta nel dare una concretezza storica e sociale a questo movimento di
“riconquista”, fondando la sua analisi su criteri di rigore e di scientificità che tanta importanza
assumeranno nelle opere della maturità.
FILOSOFI a CONFRONTO L'alienazione
Anche grazie alle pagine dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, il tema dell’alienazione
dell’uomo contemporaneo è diventato un tema centrale nella filosofia del XIX e XX secolo. Anche
il sempre maggiore automatismo dei sistemi di produzione ha concorso a imporre questo tema nella
letteratura del Novecento - pensiamo a un autore come Kafka - nell’arte, così come nel cinema
(emblematica è a questo proposito la sequenza di Tempi moderni del 1936 di Charlie Chaplin in cui
il protagonista viene letteralmente risucchiato all’interno dei meccanismi della produzione
industriale). Vediamo quindi come si arriva all’idea marxiana di alienazione partendo da Hegel e
passando per Feuerbach.
HEGEL FEUERBACH MARX
Con il termine alienazione
l’autore de La fenomenologia
dello spirito indica l’estraniazione
dello spirito da se stesso. Questo
stato si verifica quando la realtà
dello spirito si oggettivizza dando
origine alla natura. Nel suo
percorso lo spirito, tramite il
lavoro fisico e l’attività spirituale
(filosofia, religione, arte), supera
dialetticamente questa condizione
di alienazione, riappropriandosi
così del mondo esterno.
L’alienazione è la situazione in
cui si trova il soggetto che crea
una realtà esterna a lui e vi si
sottomette. Nello specifico
Feuerbach si riferisce
all’alienazione dell’uomo che
si sottomette alla sfera religiosa
da lui stesso creata.
L’alienazione è “economica”.
L’uomo diventa una pedina di
un sistema economico che lo
domina e che gli sottrae i frutti
del lavoro. L’uomo è così
assoggettato ai meccanismi
della produzione che inoltre
sembrano svilupparsi secondo
logiche esterne ai suoi bisogni
e alle sue necessità reali.
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MAPPA CONCETTUALE
L’alienazione dell’operaio
3. Storia, società e rapporti di produzione
Partendo da Hegel e da Feuerbach, e superando le loro teorie, Marx ed Engels approdano a
una concezione scientifica e materialistica della storia e delle sue evoluzioni Il 28 agosto 1844 al Café de la Régence di Parigi Marx si ritrova con Friedrich Engels di passaggio
nella capitale francese. I due giovani intellettuali hanno una serie di incontri successivi in cui
progettano la loro prima opera a quattro mani, uno scritto molto polemico di critica e commento al
lavoro di Bruno Bauer (con cui Marx aveva già polemizzato ne La questione ebraica) e agli scritti
pubblicati sulla sua rivista Allgemeine Literatur-Zeitung. Il titolo dell’opera doveva essere Critica
della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, ma l’editore convinse i due autori a utilizzare il più
diretto e efficace La sacra famiglia (1845). Il lavoro successivo di Marx con Engels, L’ideologia
tedesca, è uno dei capisaldi del pensiero di Marx. L’opera viene scritta nel biennio 1845-46, quando
i due si trovano già a Bruxelles, e pubblicata postuma solo nel 1932: contiene la prima teorizzazione
compiuta di quella teoria della società e della storia che Engels, dopo la morte di Marx, definirà
materialismo storico. Di quest’opera, anni dopo, Marx scriverà: «Decidemmo di mettere in chiaro,
con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della
filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica». Marx in
questa frase usa il termine ideologia in un senso molto diverso da quello comune e con una
connotazione fortemente negativa: ideologica è per loro qualsiasi rappresentazione che falsifichi la
realtà con argomentazioni e rappresentazioni illusorie; in breve, il contrario della scienza, intesa
come rappresentazione oggettiva della realtà. Nella fattispecie, la filosofia tedesca che Marx ed
Engels contestavano era ideologica perché individuava nelle idee la causa delle innovazioni
rovesciando il rapporto tra realtà sociale e coscienza:
Del tutto all’opposto della filosofia tedesca che scende dal cielo in terra, qui è dalla terra che si
vuole ascendere al cielo. Ossia non si prendono già le mosse da ciò che gli uomini dicono, si
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immaginano e si rappresentano e neppure dagli uomini quali vengono asseriti, pensati,
immaginati e rappresentati, per giungere da ciò e con ciò agli uomini concreti; ma si prendono
invece le mosse dagli uomini realmente operanti per rappresentare - nel loro reale processo di
vita - lo sviluppo dei riflessi ideologici e gli echi di questo processo di vita. [...] Non già la
coscienza determina la vita, ma la vita determina la coscienza.
Dunque, sono le «condizioni materiali» che determinano le idee non viceversa. In particolare, è
determinante l’economia. Ma le «condizioni materiali della produzione» possono essere ricostruite
«con la precisione delle scienze naturali» pervenendo a identificare le leggi che regolano «il
movimento reale della storia»: il materialismo storico si configurerà, quindi, come una teoria
scientifica della storia. È chiaro che il materialismo di Marx ed Engels ha poco a che fare con il
materialismo classico: non si tratta cioè di una variante della tradizionale ipotesi metafisica ma del
riconoscimento della centralità del processo della «produzione materiale della vita».
Secondo Marx ed Engels, la dialettica hegeliana era la più grande conquista della filosofia
classica tedesca e in qualche modo l’adottarono nel materialismo dialettico La critica generale rivolta alla filosofia tedesca non comprende Hegel: con questo autore, Marx ed
Engels sviluppano un confronto critico che resta sempre aperto. Il giudizio nei suoi confronti è
complesso e articolato. Engels riconosce «la ricchezza enciclopedica del sistema di Hegel», salvo
valutarlo complessivamente un «colossale aborto». E Marx avrebbe voluto riprendere il confronto
con questo sistema, come dimostra una lettera del 1858 indirizzata a Engels in cui si legge:
Se mai tornerà il tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di rendere accessibile
all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha
scoperto ma nello stesso tempo mistificato.
Quel tempo non tornò mai e tuttavia nella Prefazione alla seconda edizione del Capitale, Marx
indicò abbastanza chiaramente che cosa doveva essere assolutamente salvato della filosofia di
Hegel:
Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente con il
nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell’Idea
o processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale
trasferito e tradotto nel cervello degli uomini [...]. La mistificazione alla quale soggiace la
dialettica nelle mani di Hegel non toglie in alcun modo che egli sia stato il primo a esporre
ampiamente e consapevolmente le forme generali della dialettica stessa. In lui essa è capovolta.
Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico.
Nella sostanza, dunque, il limite di Hegel è l’impostazione idealistica, il non aver compreso cioè i
principi del materialismo storico; il grande merito è la descrizione della dialettica, che per Marx ed
Engels rappresenta la più grande conquista della filosofia classica tedesca. Il materialismo di Marx
ed Engels, dunque, oltre che storico, è dialettico: riconosce, cioè, la dialettica come legge di
sviluppo della realtà. In passato la storiografia sottolineava il ruolo di Engels nell’estensione della
dialettica alla natura e nella fondazione del materialismo dialettico anche perché è sua l’opera nella
quale esplicitamente se ne enunciano i principi, l’Antidühring (1878). Attualmente, si riconosce che
Engels perlopiù fu fedele all’obiettivo che enunciò nella Prefazione dell’opera, dove affermò che la
polemica con Dühring gli offrì l’occasione di sviluppare «le opinioni che Marx e io avevamo su
questa grande varietà di soggetti»: nel complesso, cioè, si limitò a esporre posizioni che anche Marx
condivideva. Piuttosto è vero che il rapporto tra la dialettica hegeliana e quella marxista resta non
del tutto chiarito. Anche la semplificazione del rovesciamento non va presa troppo alla lettera:
accettare di partire non dal pensiero ma dai fatti, implica poi l’opera faticosa di affrontare le
questioni caso per caso, che non si può risolvere una volta per tutte con un generico confronto con i
principi hegeliani. Marx ed Engels di fatto non giunsero a questo risultato. Furono piuttosto i
marxisti russi, a cominciare da Plechanov (1857-1918) e Lenin (1870-1924), a codificare il
cosiddetto diamat (dalla prima parte delle parole materialismo dialettico) che fu la filosofia ufficiale
dei Paesi del blocco sovietico.
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La concezione materialista della storia spiega in modo scientifico l’evoluzione dell’umanità
riconducendola a una successione di modi di produzione Sono due i fattori dell’economia politica che, secondo Marx ed Engels, rappresentano l’ossatura
delle società umane: le forze produttive e i rapporti di produzione.
Le forze produttive di una società sono:
• la forza lavoro, ovvero tutte le persone che in una società lavorano e producono;
• i mezzi di produzione, cioè la terra, la tecnologia e gli strumenti utilizzati dalla forza lavoro;
• le conoscenze tecniche e scientifiche che permettono la produzione e il suo sviluppo.
I rapporti di produzione sono i rapporti che si instaurano tra gli uomini all’interno del processo
produttivo e che regolano la loro reciproca posizione. A livello giuridico si risolvono nel rapporto
dei soggetti rispetto alla proprietà, fondamentalmente nel fatto che siano o meno proprietari dei
mezzi di produzione. In un modo più semplice e diretto, potremmo anche dire che i rapporti di
produzione rappresentano la “disposizione in campo” delle forze produttive di una società. Gli attori
della produzione economica e le loro relazioni sociali rappresentano il vero motore della storia. Ciò
non è stato colto né dalla storiografia che si limita a registrare i fatti, né da quella che cerca di
interpretarli e sistematizzarli, come quella idealista di stampo hegeliano, perché non è stato
compreso un fatto capitale: che la storia stessa inizia con il lavoro dell’uomo, con la nascita
dell’uomo economico e produttivo.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per il sentimento religioso,
per quel che si vuole. Ma essi cominciano a distinguersi dagli animali, in quanto essi
cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza, passo questo che è condizionato dalla loro
organizzazione materiale. (L’ideologia tedesca)
Una teoria scientifica della storia deve quindi analizzare quello che Marx ed Engels definiscono
modo di produzione, cioè l’insieme in cui si inquadrano forze produttive e rapporti di produzione:
nella sostanza, le modalità in cui una società organizza il lavoro e la produzione dei beni necessari
al suo sostentamento.
Un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di
cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anch’esso una
“forza produttiva”; ne deriva che la quantità delle forze produttive disponibili agli uomini
condiziona la situazione sociale e che dunque la “storia dell’umanità” deve sempre essere
studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio. (L’ideologia
tedesca)
In sintesi questo brano afferma due cose:
• che un modo di produzione corrisponde sempre a una specifica formazione economico-sociale;
• che la “storia dell’umanità” va interpretata come una successione di modi di produzione.
Ebbene, esaminando l’evoluzione storica delle forze produttive e dei loro rapporti, i due filosofi
individuano tre modi di produzione, corrispondenti a tre tipi di società, in cui risolvono la storia
dell’Occidente:
• Età antica: modo di produzione schiavistico;
• Età medievale: modo di produzione feudale;
• Età moderna: modo di produzione capitalistico.
Marx identifica anche un modo di produzione primitivo, proprio soprattutto del paleolitico,
caratterizzato dalla «proprietà tribale» e da un’economia di sussistenza; e un modo di produzione
asiatico, caratterizzato dalle comunità di villaggio e dalla proprietà pubblica delle terre e dei mezzi
di produzione, che fu innanzitutto proprio delle civiltà fluviali fiorite all’epoca della rivoluzione
neolitica.
I rapporti di produzione costituiscono la struttura su cui si sviluppa la sovrastruttura degli
ordinamenti giuridici, della politica e della cultura La storia può configurarsi come scienza perché la scelta del modo di produzione non è arbitraria,
ma soggiace a una rigida determinazione. Scrive Marx:
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Nella produzione sociale della loro vita, gli uomini accedono a rapporti determinati, necessari,
indipendenti dalla loro volontà; rapporti questi di produzione i quali corrispondono a un
grado determinato della evoluzione delle forze produttive materiali. La struttura economica
della società è costituita dall’insieme di questi rapporti di produzione, i quali formano la base
reale su cui si eleva la sovrastruttura giuridica e politica, cui corrispondono forme della
coscienza sociale. (Per la critica dell’economia politica)
La vita dell’uomo è dunque determinata da «rapporti di produzione» che discendono in modo
necessario «dall’evoluzione delle forze produttive materiali»: esemplificando, la società industriale
non è nata da una deliberazione umana ma dall’invenzione della macchina a vapore. Ciò non
significa che gli uomini non sono liberi, ma solo che esercitano la loro libertà entro un quadro di
condizioni date. I rapporti di produzione costituiscono la struttura, cioè l’ossatura, la base
economica della società. Tutti gli altri aspetti che normalmente vengono ritenuti centrali per
comprendere un’organizzazione sociale, come l’ordinamento giuridico, quello politico e tutti gli
altri campi della produzione intellettuale, costituiscono la sovrastruttura che procede dalla
struttura economica della società. L’ordinamento giuridico di uno Stato, per esempio, non fa che
riflettere la struttura economica: così nell’impero romano sarebbe stata inconcepibile una legge
contro la schiavitù. I rapporti di produzione, dunque, condizionano tutte le altre forme del sociale,
compresa la produzione intellettuale e spirituale dell’uomo. Non riconoscere questo è ideologia,
significa dimenticare che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti» e
che prima vengono i fatti economici e poi le idee che li “rivestono” e, in certi casi, li nascondono.
Infatti quando si trasformano «le basi economiche della società, presto o tardi, si rivoluziona tutta la
mostruosa sovrastruttura della società». Ma come si spiegano questi mutamenti delle basi
economiche? Cioè, che cosa determina il passaggio da un modo di produzione all’altro?
A un certo punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in
conflitto con i rapporti di produzione esistenti, cioè a dire (la qual cosa non è se non
un’espressione giuridica dello stesso fatto) con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano
sin qui mossi. Tali rapporti sociali che sin qui erano state forme evolutive delle forze di
produzione, si trasformano in loro catene. Allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.
(Per la critica dell’economia politica)
Secondo Marx, dunque, i rapporti di produzione soffrono di obsolescenza e, a un certo stadio dello
sviluppo dei mezzi di produzione, cessano di essere funzionali al mantenimento e allo sviluppo
della società: l’introduzione delle tecnologie e delle pratiche commerciali dell’età moderna, ad
esempio, ha contribuito a rendere obsoleta l’organizzazione feudale della società e del lavoro. È
evidente in questa concezione della storia, in cui il negativo e la conflittualità sono necessari allo
sviluppo, l’influenza di Hegel e della sua dialettica.
La concezione materialistica di Marx ed Engels non deve essere interpretata in modo
semplicistico e deterministico Ma come va inteso il rapporto tra struttura e sovrastruttura? In altri termini la sovrastruttura è
condizionata o determinata? I testi marxiani sono ambigui e parlano sia di condizionamento che di
determinazione. Tuttavia, Marx ed Engels rifiutarono ripetutamente le interpretazioni semplicistiche
e deterministiche delle loro concezioni. Per esempio, in una lettera del 1890, Engels scrisse:
Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante
nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né
da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico
sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota,
astratta, assurda.
La struttura, dunque, sarebbe determinante ma solo «in ultima istanza» e non andrebbero
sottovalutate le interdipendenze tra le varie sfere del sociale che producono una continua influenza
reciproca. Engels si spinge oltre, fino ad ammettere una responsabilità sua e di Marx:
Il fatto che i giovani annettono al lato economico un’importanza maggiore di quello che gli
spetta, è in parte colpa di Marx e mia. Di fronte agli avversari noi dovevamo sottolineare il
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principio essenziale da loro negato, e allora non trovavamo sempre il tempo, il luogo e
l’occasione di rendere giustizia agli altri fattori che partecipano all’azione reciproca.
Altrettanta prudenza va utilizzata a proposito dei modi di produzione che Marx non intese come
tappe necessarie. In merito è illuminante il modo in cui affrontò il caso russo. Il 16 febbraio 1881, la
socialista russa Vera Zasulic scrisse una lettera a Marx chiedendogli di pronunciarsi sulla possibilità
di promuovere una rivoluzione socialista in Russia. Il Paese degli zar era all’epoca estremamente
arretrato e quindi la domanda implicava una questione che la Zasulic espresse lucidamente: il
passaggio attraverso la fase dello sviluppo capitalista andava interpretato come necessario? O era
possibile passare direttamente dal modo di produzione feudale al comunismo? Marx scrisse ben tre
bozze della risposta, come di consueto piuttosto lunghe ed estremamente documentate; infine spedì
la risposta l’8 marzo. L’analisi che conduce dimostra che si era dedicato a uno studio approfondito
della storia russa. Nella sostanza non si pronunciò in modo esplicito sul quesito che gli era stato
posto; ribadì invece con forza che l’analisi proposta nel Capitale valeva solo per i Paesi occidentali
e dunque non per la Russia. Questa vicenda mostra che Marx non concepiva la sua filosofia come
un sistema dal quale si potessero ricavare dogmaticamente tutte le risposte. Che veramente il
rovesciamento della dialettica hegeliana imponeva di partire dai fatti, dai singoli fatti. Engels non
mentiva, dunque, quando scriveva:
La nostra concezione della storia è prima di tutto una direttiva per lo studio, e non una leva
per fare delle costruzioni alla maniera dell’hegelismo. (Lettera a Conrad Schmidt, 1890)
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4. Il Manifesto del partito comunista Marx ed Engels sintetizzano in questo libro il loro pensiero e dettano le linee guida del
nascente movimento operaio. Essi scrivono il Manifesto del partito comunista tra il dicembre del
1847 e il gennaio del 1848, su invito della Lega dei comunisti (già Lega dei giusti) fondata a Londra
da un gruppo di artigiani tedeschi esuli nella capitale del Regno Unito. L’invito arriva durante il
secondo congresso dell’organizzazione che si svolge in segreto sempre a Londra nel novembre del
1847. Ai due pensatori venne richiesto di «redigere un programma pratico e teorico circostanziato
del partito, destinato alla pubblicità». Per una coincidenza storica che fa riflettere, la prima edizione
del Manifesto del partito comunista vede la luce, in lingua tedesca, negli stessi giorni in cui a Parigi
scoppia la rivoluzione, ovvero nel febbraio del 1848. Il Manifesto conosce da subito una certa
diffusione e iniziano a susseguirsi nuove edizioni e traduzioni: entro l’anno della pubblicazione si
registrano tre edizioni tedesche, una svedese e una francese. In inglese viene pubblicato a puntate
sulla rivista The Red Republican, poi in versione integrale, nel 1872 e nel 1873 a New York, nel
1886 e 1888 a Londra. In questi stessi anni si diffonde in tutta Europa, e in Italia a partire dal 1889.
Nella celebre frase di apertura, Marx ed Engels tratteggiano la situazione del comunismo europeo
del loro tempo:
Uno spettro si aggira per l’Europa - lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia
Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati
in una santa caccia spietata contro questo spettro.
Il compito del libro è quello di dare sostanza, ovvero un programma politico, a questo spettro, anche
se, è importante ricordarlo, al momento della pubblicazione del manifesto la Lega dei comunisti è
molto più simile a una organizzazione massonica che a un partito politico vero e proprio. Per
assolvere a questo compito Marx ed Engels dividono il manifesto in tre sezioni:
1. la prima - teoricamente e storicamente la più importante - dedicata al rapporto tra borghesia e
proletariato;
2. la seconda affronta il tema del rapporto tra comunismo e proletariato;
3. la terza analizza le forme di socialismo preesistenti a quello “scientifico”.
Nel Manifesto Marx ed Engels tratteggiano il ruolo della borghesia nello sviluppo della società
e propongono il concetto di lotta di classe come motore della storia Marx ed Engels riprendono, proprio all’inizio del Manifesto, la loro concezione materialistica della
storia, ma questa volta danno un nome nuovo al movimento interno che viene a determinare lo
sviluppo delle società: si parla meno, infatti, di forze e di rapporti di produzione, quanto piuttosto di
lotta di classe. La storia dell’umanità è segnata, fin dal suo principio, dalla lotta di classe, come
afferma un passo molto noto del testo:
La storia di ogni società sinora esistita è la storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e
plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola
oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta
ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.
La borghesia è l’ultima delle classi vittoriose e, di conseguenza, è l’ultima delle classi
rivoluzionarie apparse sul palcoscenico della storia: a lei va il “merito” di aver messo da parte
l’organizzazione feudale della famiglia e della società e di aver imposto quella borghese; di aver
abbattuto l’ordine sociale feudale basato sui titoli e sulle corporazioni e di aver imposto quello
borghese basato sulla proprietà, sul libero scambio delle merci e sul prevalere di rapporti sociali
fondati sul denaro. Ma la società borghese andrà incontro a sempre più frequenti crisi di
sovrapproduzione, un tipo di crisi proprio del modo di produzione capitalista che tende a produrre
più di quanto il mercato possa consumare, portando alla distruzione delle stesse forze produttive. A
questa dinamica si aggiunge una sempre maggiore polarizzazione delle classi e della ricchezza che
porta al progressivo dissolvimento delle fasce intermedie della società e all’inasprimento dello
scontro sociale. Alla fine, nella sostanza, un ristrettissimo gruppo borghese deterrà il controllo dei
mezzi di produzione e dovrà fronteggiare le masse proletarizzate. E Marx ed Engels indicano
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proprio nel proletariato la nuova forza rivoluzionaria, destinata ad abbattere il dominio della
borghesia, a conquistare il potere politico, e a instaurare la società comunista tramite l’abolizione
della proprietà privata. Il proletariato, infatti, non si libera rivendicando per sé la proprietà bensì
abolendola: in questo modo abolisce il fondamento stesso dell’oppressione e della divisione in
classi. Al proletariato, dunque, Marx ed Engels attribuiscono la missione storica di liberare l’intera
umanità:
I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di
produzione sociale [...]. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della
società umana. [...] Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi
antagonismi di classe subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è
condizione per il libero sviluppo di tutti.
Nell’ultima parte del Manifesto, Marx ed Engels contrappongono il loro socialismo scientifico alle
altre forme di socialismo e di comunismo del tempo, alle quali non risparmiano critiche anche
molto severe. Per i due pensatori è essenziale che il socialismo perda i caratteri morali o utopici che
ne hanno caratterizzato la nascita: non si tratta, infatti, di richiamarsi a una forma astratta di
giustizia o di uguaglianza fra gli uomini, ma di analizzare l’organizzazione sociale borghese con
rigore scientifico al fine di evidenziare le contraddizioni materiali che porteranno necessariamente
al suo superamento. Già nell’Ideologia tedesca, Marx ed Engels avevano messo in luce chiaramente
questo aspetto chiarendo che il comunismo non era un ideale da realizzare: d’altronde,
hegelianamente, alla filosofia spetta il compito di comprendere il reale, non di indicargli un dover
essere! Il comunismo non è dunque un’idea ma un processo oggettivamente in corso:
Il comunismo, per noi, non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale
la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente.
Nel Manifesto, invece, Marx ed Engels distinguono tre tipologie di socialismo non scientifico.
1. Socialismo reazionario, ovvero tutto quel socialismo che muove una critica alla società
borghese da un punto di vista che potremmo definire “passatista”: contrappone alla modernità un
ritorno alla società feudale e agricola. Marx individua tre sottospecie di questo socialismo:
• feudale, propugnato dall’aristocrazia che, contro la borghesia, “finge” di allearsi con il proletariato
per recuperare i privilegi perduti;
• piccolo-borghese, sostenuto dai commercianti e dai piccoli proprietari che hanno paura di non
sopravvivere alla totale industrializzazione del processo produttivo e sognano un ritorno alle
condizioni economiche pre-moderne. Rappresentante emblematico di questo pensiero è
l’economista svizzero Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842).
• tedesco o socialismo “vero”, attribuito agli intellettuali tedeschi del tempo come Bauer o Hess.
Quest’ultima forma del socialismo reazionario ignora il conflitto di classe e si preoccupa
«dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, e anzi non appartiene punto
alla realtà, ma solo al vaporoso ciclo della fantasia filosofica». Inoltre, il socialismo tedesco
riprende la critica della borghesia dei socialisti francesi senza considerare che in Germania le
conquiste borghesi non erano ancora state realizzate. In questo modo finisce per appoggiare i
governi prussiani, avversi alle conquiste del liberalismo borghese, come la libertà di stampa, di cui
anche il proletariato potrebbe avvantaggiarsi.
2. Socialismo conservatore o “borghese” di cui il pensatore più rappresentativo è Proudhon (vedi
Parte 1, cap. 1, par. 2), che Marx aveva già attaccato nel suo La miseria della filosofia. La posizione
del socialismo borghese è quella che oggi chiameremmo progressista o riformatrice, che cerca di
estendere anche alla classe operaia i privilegi e le condizioni di vita della borghesia. Questo per
Marx non è possibile, in quanto la società capitalista si regge sullo sfruttamento delle classi meno
abbienti, sfruttamento a cui non può rinunciare.
3. Socialismo e comunismo critico-utopistico che Marx attribuisce a pensatori come Saint-Simon,
Fourier e Owen che hanno compreso la necessità di un mutamento profondo dell’assetto sociale al
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fine di superare le contraddizioni del capitalismo e la condizione inumana del proletariato. Allo
stesso tempo però non hanno individuato nel proletariato l’unica forza realmente rivoluzionaria
della modernità, ma hanno puntato su una trasformazione pacifica e utopistica della società che
coinvolga tutte le classi che la compongono. Questa strategia è per Marx idealistica e fallimentare e
non può che produrre chimere o piccoli esperimenti sociali inapplicabili su larga scala. Come si
evince anche dalla vis polemica con cui si scaglia contro le altre forme di socialismo, quello del
Manifesto è un Marx “rivoluzionario”, che sente l’aria di cambiamento che sta attraversando
l’Europa del 1848 e che, infatti, seguirà da vicino i moti rivoluzionari prima a Parigi e poi a Colonia.
Dopo il fallimento della rivoluzione del 1848, la sua posizione rispetto alla possibilità di una
rivoluzione proletaria nell’Europa del suo tempo diverrà più cauta e circostanziata, arrivando anche
a prospettare, almeno in certi Paesi, una via di riforme pacifiche al posto dello scontro
rivoluzionario. In un discorso che tenne ad Amsterdam nel 1872, infatti, affermò:
L’operaio deve assumere un giorno il potere politico [...] Ma noi non abbiamo sostenuto che le
vie per giungere a questa meta siano dappertutto le stesse. Noi crediamo che si debbano
prendere in considerazione le istituzioni, i costumi e le tradizioni dei diversi Paesi, e non
neghiamo che vi sono Paesi come l’America, l’Inghilterra e, se conoscessi meglio le vostre
istituzioni, aggiungerei forse l’Olanda, dove i lavoratori possono giungere per via pacifica alla
loro meta.
La sconfitta dei moti rivoluzionari e, di conseguenza, l’attenuarsi dell’impegno diretto in politica
diedero a Marx il tempo di tornare a occuparsi degli studi di economia che sfoceranno negli scritti
della maturità e in particolare ne Il Capitale che ne rappresenta il vertice.
5. La critica dell’economia politica
Marx dedica l’intero periodo del soggiorno a Londra allo studio dell’economia, in particolare
all’analisi del modo di produzione capitalista Durante l’esilio londinese, che durerà fino alla morte, Marx si dedicò assiduamente allo studio
dell’economia, nel tentativo di produrre un’analisi quanto più esaustiva del sistema di produzione
capitalista: un’analisi critica che ne evidenziasse le contraddizioni che porteranno infine al suo
superamento. Questa elaborazione sarà lunga e faticosa, per via della complessità degli argomenti
trattati, per il respiro dell’opera, ma anche per le oggettive difficoltà in cui si dibatteva Marx («mai
si scrisse sul denaro avendone così poco», scrisse in una lettera).
Possiamo suddividere questo percorso teorico in quattro tappe:
• i Grundrisse (Lineamenti della critica dell’economia politica) scritti nel 1857-58, rappresentano il
primo abbozzo complessivo della teoria marxiana, ma ancora “grezza” e in forma di appunti;
• Per la critica dell’economia politica, pubblicata nel 1859, propone la versione rifinita dei primi
due capitoli dei Grundrisse, dedicati rispettivamente alla merce e al denaro;
• una seconda riscrittura complessiva degli anni 1861-63, di cui si conservano ventuno quaderni: i
primi continuano il lavoro precedente, sviluppando il passaggio dal denaro al capitale, i successivi
sono dedicati alla storia dell’economa politica e verranno pubblicati postumi col titolo Teorie sul
plusvalore;
• il primo libro de Il Capitale che andrà in stampa ad Amburgo nel settembre del 1867. Il secondo e
il terzo libro, come sappiamo, usciranno postumi a cura di Engels.
Il Capitale è l’opera fondamentale del pensiero di Marx in cui confluiscono sia la sua
formazione filosofica, sia l’ampiezza dei suoi studi economici Prima di addentrarci nell’analisi della teoria economica di Marx, è opportuno fare due
considerazioni sul metodo che utilizza nella sua critica dell’economia politica. In primo luogo lo
sforzo di Marx è quello di storicizzare le categorie dell’economia (merce, lavoro, capitale) in modo
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da mostrare la loro contingenza e la loro parzialità. In questo Marx si differenzia in modo netto
dagli economisti cosiddetti “classici”, come Smith e Ricardo, i quali tendono a universalizzare e
quindi ad assolutizzare le forme dell’economia borghese. In questo senso il punto di vista e il
metodo di Marx sono appunto critici, in quanto demistificano l’approccio ideologico degli
economisti classici:
Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di
istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni
artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. [...] Dicendo che i rapporti attuali - i
rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che [...] sono
leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne, sono quelle che debbono
sempre reggere la società. Così c’è stata la storia, ma ormai non ce n’è più. (K. Marx, Miseria
della filosofia)
Una seconda peculiarità, che differenza il procedere teorico di Marx (da filosofo) rispetto a quello
degli economisti, consiste nel fatto che utilizza il metodo dialettico - spogliato, come abbiamo visto,
da ogni forma di idealismo - per individuare le categorie dell’economia politica e dedurre la loro
successione. La dialettica è contemporaneamente la realtà più profonda del capitalismo e il metodo
che Marx utilizza per analizzarlo. In questa prospettiva, il capitalismo è concepito come una totalità
organica in divenire, la cui evoluzione storica scaturisce dalla contraddizione. L’analisi, dunque,
dovrà ricostruire gli elementi e i momenti del ciclo economico, evidenziando i collegamenti che ne
fanno un insieme ordinato e le contraddizioni che ne innescano la processualità. Ovviamente, questa
processualità storica non potrà essere infinita perché, secondo l’insegnamento di Hegel, una
dialettica infinita è assurda: la dialettica e la storia termineranno quando raggiungeranno il loro
obiettivo necessario, il comunismo.
La società capitalistica è innanzitutto «un’immensa raccolta di merci»: nelle merci bisogna
distinguere il valore d’uso dal valore di scambio Il Capitale si apre con l’analisi della merce, considerata come la cellula base del sistema di
produzione della società capitalistica che Marx descrive infatti come «un’immensa raccolta di
merci». Sotto il profilo logico, la merce è la categoria da cui discendono tutte le altre. Infatti, fedele
al suo proposito di dedurre le categorie senza dare nulla per scontato, Marx incomincia l’analisi
della merce assumendola in sé, come se fosse priva di un valore e soprattutto di un prezzo:
immagina, nella sostanza, una situazione in cui anche il denaro e la sua circolazione siano “da
dimostrare”. A questo punto dell’analisi la merce è solamente «una cosa che mediante le sue qualità
soddisfa bisogni umani», frutto del lavoro dell’uomo. La produzione umana si realizza fin dalla
preistoria attraverso la divisione del lavoro che tuttavia può essere organizzata in due modi:
1. a priori, tramite una ripartizione organizzata del tempo di lavoro in tutte le attività necessarie
all’esistenza. Pensiamo, per esempio, a una famiglia o a un gruppo di individui che si organizzino
dividendosi i compiti e le attività necessarie alla sopravvivenza;
2. a posteriori, tramite un coordinamento in cui gli individui producono beni indipendentemente gli
uni dagli altri e successivamente li scambiano per garantirsi la sopravvivenza reciproca.
In questa seconda modalità di produzione, propria di tutte le società sviluppate, è lo scambio, il
mercato, a garantire quel soddisfacimento di tutte le esigenze della comunità precedentemente
garantito dalla ripartizione a priori dei compiti. È solamente in questa forma di organizzazione, che
appartiene del resto a quasi tutte le società umane non primitive, che il frutto del lavoro dell’uomo
diventa merce che può essere scambiata con altre merci. Per essere tale, infatti, una merce deve
avere un valore d’uso e un valore di scambio:
• il valore d’uso riguarda la qualità di una merce; consiste nell’utilità, cioè nella sua capacità di
soddisfare un bisogno umano (un tavolo, ad esempio, ha valore perché è utile all’uomo per scrivere,
mangiare ecc.);
• il valore di scambio riguarda invece la dimensione quantitativa di una merce, ovvero la
possibilità di misurare il suo valore rispetto alle altre merci, ciò che permette, nella pratica, di
scambiarle (per cui, ad esempio, 1 tavolo vale 4 sedie).
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Il valore di scambio di una merce può essere espresso tramite tutte le merci presenti sul mercato
(oltre che 4 sedie il nostro tavolo può valere anche 1 vestito oppure 10 libri ecc.), ovvero qualsiasi
merce può diventare l’unità di misura di tutte le altre svolgendo la funzione del denaro, che non è
altro che un equivalente universale delle merci. Storicamente si sono selezionate come unità di
misura “universali” quelle merci che meglio si prestano a questa funzione: tipicamente i metalli
preziosi come l’oro e l’argento. È così che si è pervenuti alla moneta coniata, che diventando l’unità
di misura di tutte le merci, ne ha semplificato notevolmente lo scambio e la circolazione.
Il valore di scambio di una merce è determinato dalla quantità di lavoro (astratto) necessaria
alla sua produzione A questo punto la domanda che Marx si pone è la seguente: chi stabilisce il valore finale delle
merci? E secondo quali parametri? Per prima cosa Marx esclude che le merci possano avere valore
in sé: anzi chiama feticismo della merce la tendenza, tipica della società moderna, ad attribuire
valore agli oggetti in sé, dimenticando il contesto di produzione in cui sono inseriti e, di
conseguenza, il lavoro e la fatica di cui sono il frutto. Ma se il valore non è un qualcosa di intrinseco
alle merci, deve comunque essere qualcosa che sia comune a tutte, in modo da essere socialmente
condiviso e da permettere la loro circolazione. Per Marx questo fattore comune a tutte le merci è il
fatto di essere tutte prodotte dal lavoro dell’uomo. Conseguentemente, come Smith e Ricardo,
identifica il valore della merce con la quantità (il tempo) di lavoro necessario a produrla: «Il valore
di una merce sta al valore di ogni altra merce come il tempo necessario per la produzione dell’una
sta al tempo necessario per la produzione dell’altra». Il tempo di lavoro diventa quindi l’unità di
misura del valore delle merci: due oggetti che necessitano, per la loro produzione, dello stesso
tempo di lavoro avranno lo stesso valore. Ovviamente Marx parla di lavoro socialmente necessario,
ovvero quello che la società giudica come il tempo medio per produrre una determinata merce
(altrimenti si potrebbe aumentare il valore delle proprie merci semplicemente prendendosela
comoda!). Il lavoro è qui preso in considerazione come pura quantità, come lavoro astratto. Ma
mentre il valore di scambio deriva dalla dimensione temporale e impersonale del lavoro, il valore
d’uso discende dal lavoro concreto e diversificato dei singoli esseri umani. Abbiamo dunque due
tipologie di lavoro - concreto e astratto - che determinano le due forme del valore delle merci.
Riassumendo con le parole di Stefano Petrucciani: «Il lavoro umano astratto, dunque, è la sostanza
del valore di scambio e la misura della sua grandezza; i concreti e differenti lavori umani sono,
invece, la fonte dei valori d’uso, della ricchezza non come valore e denaro ma come possibilità di
soddisfare bisogni umani». A queste due forme di ricchezza se ne aggiunge una terza, quella offerta
dalla natura con la sua disponibilità di risorse e di materie prime.
Determinata la natura della merce e del suo valore, Marx può spostare la sua attenzione al
denaro che ne permette la circolazione Se dunque la merce è la cellula base del capitalismo, lo sdoppiamento del valore (e del lavoro) è il
fondamento del suo sistema di produzione. La produzione “crea” la merce che, grazie al suo valore
d’uso e di scambio, circola tramite il denaro. Ma anche il denaro ha nella teoria di Marx una duplice
determinazione. In primo luogo il denaro traduce il valore della merce in prezzo, favorendone così
la circolazione e rendendo possibile il superamento del semplice baratto. La circolazione delle
merci è rappresentata da Marx mediante la formula M-D-M (Merce - Denaro - Merce). Questa è la
circolazione nella sua forma più semplice, propria delle società precapitaliste. È dominata dal valor
d’uso che giustifica lo scambio: si può immaginare un contadino che vende una quantità di grano
che non gli serve per sfamarsi, per acquistare degli indumenti. La giustificazione dello scambio è
costituita dalla differenza qualitativa tra le due merci; il denaro è solo il mezzo per la circolazione
delle merci. Nella società capitalista il denaro assume anche un’altra valenza: viene accumulato e
diventa ricchezza in sé e per sé, come riserva o come “tesoro”, in un processo di accumulazione. In
questa nuova situazione la formula precedente si trasforma in D-M-D’: con il denaro si acquistano
merci che si rivendono per ottenere altro denaro. Chiaramente l’operazione ha senso solo se la
quantità di denaro che si ottiene al termine dell’operazione è maggiore di quella che si possedeva
all’inizio (D’ > D). La giustificazione dello scambio in questo caso è costituita dalla differenza
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quantitativa tra D e D’; il denaro non è solo il mezzo per la circolazione delle merci, è soprattutto il
fine. L’obiettivo dello scambio non è soddisfare un bisogno attraverso il valor d’uso di una merce,
ma valorizzare il denaro, cioè trasformarlo in capitale. Per capitale Marx intende semplicemente
una qualsiasi ricchezza - ovvero del denaro, giacché il denaro è l’equivalente universale delle merci
- volta alla sua valorizzazione: ciò che identifica il capitale, infatti, è il fatto di essere destinato
all’accumulazione, non a soddisfare un bisogno dell’uomo.
La nuova ricchezza è originata dal fatto che il capitalista paga al lavoratore solo parte del
valore che ha prodotto e si impadronisce del plusvalore A questo punto Marx si trova di fronte a due domande fondamentali a cui deve rispondere per dare
un senso compiuto alla sua teoria:
1. qual è l’impulso che muove il capitalista all’accumulo smodato di beni e ricchezze? Cosa
spinge, più in generale, l’uomo a produrre ricchezza al di là di quella che necessita per i suoi
bisogni?
2. In che modo si genera la nuova ricchezza (D’ > D) dal momento che, se gli scambi tra le
merci e il denaro avvenissero in modo perfettamente congruo, la quantità di ricchezza rimarrebbe costante?
- Alla prima domanda Marx dà una risposta non sempre univoca, anche se quella che prende la
forma più compiuta e definitiva è di tipo economico. Il capitalista è spinto al guadagno continuo e
all’accumulo di beni e delle ricchezze dal meccanismo della concorrenza che regola l’economia
capitalista e che lo obbliga a guadagnare sempre di più per poter reinvestire il denaro e rimanere al
passo dei propri concorrenti: Lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un
aumento continuo del capitale investito in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni
capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi
coercitive esterne.
- Più complessa è la risposta alla seconda domanda, anche perché bisogna tener presente che
spiegare la creazione di nuovo valore - il plusvalore - era all’epoca uno dei nodi problematici delle
scienze economiche. Secondo Marx, esistono delle forme primitive di valorizzazione del capitale
che consistono nel prestito e nel commercio (le grandi spedizioni coloniali dell’età moderna, per
esempio), ma queste forme non sono quelle peculiari del sistema di produzione capitalistico perché,
anche ipotizzando una circolazione delle merci in cui gli scambi non siano equi (si compra la merce
a un prezzo superiore o inferiore a quello che realmente vale), si arriva a spiegare solo lo
spostamento del capitale, ma non la sua valorizzazione. La soluzione prospettata da Marx è quella
di introdurre il concetto di forza-lavoro come merce che ha la peculiarità di avere, come valore
d’uso, proprio la capacità di produrre valore. Il filosofo tedesco definisce la capacità lavorativa
umana come «l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia
nella personalità vivente dell’uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori
d’uso di qualsiasi genere». L’operaio, nella società capitalistica, vende la sua forza-lavoro che il
capitalista acquista nella misura in cui essa è necessaria alla sua attività. È questo il rapporto di
produzione tipico dell’era industriale, un’epoca in cui la maggior parte delle persone dispone
solamente della propria forza-lavoro (diversamente, ad esempio, dal piccolo proprietario terriero) ed
è costretta a metterla in vendita per garantirsi la sussistenza. Come aveva già dimostrato Ricardo, il
valore della forza-lavoro non coincide però con il valore prodotto dal lavoro ma solo con il tempo di
lavoro socialmente necessario alla sua “produzione”: in altri termini, nel tempo di lavoro necessario
a produrre i mezzi di sostentamento dell’operaio (e della sua famiglia). L’operaio, dunque, costa
all’imprenditore esattamente il valore della sua sussistenza. Il capitalista dunque produce merci il
cui valore è dato dal tempo di lavoro in esse contenuto, acquistando forza-lavoro il cui valore non
dipende dal tempo di lavoro che fornisce, ma dai soli costi della sua riproduzione. Il plusvalore
nasce da questa differenza che porta, secondo Marx, a una situazione in cui mediamente il valore
che un operaio può produrre in una giornata di lavoro è superiore a quello dei beni necessari al suo
sostentamento. La differenza tra queste due quantità di lavoro è il pluslavoro.
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Con la teoria del plusvalore Marx ritiene di poter spiegare scientificamente la valorizzazione
del capitale, la supremazia della borghesia e lo sfruttamento del proletariato Il pluslavoro non deve essere confuso con il profitto. Per calcolare il profitto, infatti, è necessario
considerare che il costo della forza lavoro non è il solo investimento che il capitalista deve
effettuare per realizzare la produzione: in particolare, è necessario aggiungere il costo delle materie
prime e dei mezzi di produzione, i macchinari. Marx divide il capitale investito dal capitalista in
costante e variabile:
• il capitale costante è costituito dai mezzi di produzione e dalle materie prime; è così denominato
perché entra nel processo produttivo ma senza variare nel suo valore; il cotone e i macchinari
necessari per la produzione di un tessuto entrano nel valore finale del prodotto semplicemente
trasferendovi il loro valore iniziale;
• il capitale variabile è invece quello investito nell’acquisto di forza lavoro che, come abbiamo
visto, ha la caratteristica di valorizzarsi. Marx definisce composizione organica del capitale il
rapporto tra queste due grandezze. Poiché il plusvalore (Pv) deriva esclusivamente dal capitale
variabile (v), il saggio del plusvalore (s) sarà determinato dal rapporto tra queste due grandezze:
s = Pv / v
Il profitto, scrive Marx, è «la forma fenomenica del plusvalore» e deve essere identificato attraverso
un processo di analisi. Nella sostanza deriva dal plusvalore, e dunque dallo sfruttamento del lavoro,
ma va calcolato in funzione dell’intero investimento, comprendendo cioè anche il capitale costante
(c).
Il saggio del profitto (p) pertanto sarà dato dal rapporto tra il plusvalore e l’intero capitale investito:
p = Pv / c + v
Con la sua teoria del plusvalore e del pluslavoro Marx può quindi dichiarare di aver risolto il
mistero della valorizzazione del capitale e, allo stesso tempo, di aver dimostrato scientificamente
come l’arricchimento del capitalista risieda nello sfruttamento sistematico dell’operaio, che è
espropriato dal proprietario della fabbrica di una parte del prodotto del suo lavoro. La teoria del
lavoro-valore è stata molto discussa dagli economisti e, nonostante la sua indubbia importanza nella
storia delle idee, può dirsi oramai superata. Tra i principali problemi evidenziati ne riportiamo qui
due. In primo luogo la difficoltà di determinare il valore del lavoro che per Marx equivale alla
quantità di lavoro contenuta nei mezzi di sussistenza. Questa equivalenza pone non pochi problemi
in quanto è difficile definire in modo univoco cosa si intenda per sussistenza in una data epoca
(operaio e capitalista, ad esempio, saranno facilmente in disaccordo su questo punto). Marx sembra
limitarsi a considerare solo i mezzi di sostentamento primari (cibo, vestiario ecc.), ma questa
definizione, in una società complessa come quella capitalista, è senz’altro riduttiva. Il secondo
punto (senz’altro il più discusso e commentato) riguarda la difficoltà della teoria nella
determinazione dei prezzi dei beni di consumo. La teoria economica ha ampiamente dimostrato che
non si può far discendere i prezzi delle merci dal loro valore senza entrare in un circolo vizioso per
cui per determinare i prezzi delle merci è necessario conoscerne il valore, ma allo stesso tempo non
si può calcolare il valore delle merci senza conoscerne il prezzo! Per questo motivo la teoria
economica contemporanea rifiuta di considerare il valore (inteso in senso marxiano) come un
elemento centrale nelle logiche che stabiliscono socialmente il prezzo delle merci.
La teoria di Marx si conclude con la descrizione delle grandi tendenze economiche del
capitalismo che porteranno al suo dissolvimento e all’avvento del comunismo Manca, per concludere l’analisi della teoria economica di Marx, un accenno alla prospettiva
fortemente critica da cui essa prende le mosse e che vede nel superamento del capitalismo il suo
fine ultimo. In questa prospettiva “militante” si inseriscono le analisi di Marx sulle macro-tendenze
del capitalismo, destinato a generare al suo interno contraddizioni sempre più insostenibili. Per il
pensatore tedesco la forte concorrenza che necessariamente si viene a creare tra i produttori di merci,
al fine di essere più concorrenziali e aumentare il loro profitto, li porta a investire nello sviluppo
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tecnologico dei sistemi di produzione. Si verifica quindi un aumento permanente degli investimenti
in capitale costante rispetto a quelli di capitale variabile. La conseguenza di questa dinamica è la
caduta tendenziale del saggio di profitto: investendo infatti in misura proporzionalmente sempre
minore nella parte del capitale - la forza lavoro - che secondo la teoria di Marx è in grado di
generare plusvalore si tende a generare sempre meno profitto. Ma la contraddizione strutturale che
più profondamente mina l’organizzazione capitalista è quella tra la massa crescente delle merci
prodotte e le limitate capacità di acquisto delle masse: l’imprenditore investe quantità di capitale
sempre maggiori e ciò implica la crescita continua della produzione ma, affinché il plusvalore resti
alto, è necessario contenere i salari e quindi limitare la capacità d’acquisto. È questa l’origine di
quelle crisi di sovrapproduzione da cui ciclicamente è affetto il capitalismo. Questa congiuntura
causa il fallimento delle industrie, licenziamenti e quindi un aumento della disoccupazione che si va
ad aggiungere a quella normalmente presente in una società: è necessario, infatti, che vi sia sempre
disponibilità di manodopera - un esercito industriale di riserva, come lo chiama Marx - per tenere
basso il costo del denaro. Proprio il gran numero di disoccupati disposti a offrire la propria
manodopera a un prezzo inferiore consente di risolvere la crisi attraverso l’abbassamento dei salari,
ma ciò determina un'ulteriore compressione della capacità d’acquisto e prepara una crisi ancora più
grave. Lo sviluppo del capitalismo comporta dunque la progressiva concentrazione delle ricchezze
in un numero sempre minore di grossi produttori, una diffusa proletarizzazione e un peggioramento
delle condizioni della classe operaia. Questa tendenza dimostra che il capitalismo non è più un
fattore di promozione della ricchezza e che ha esaurito la sua funzione storica: è questo, secondo
Marx, che condurrà necessariamente alla rivoluzione e all’avvento del comunismo.