Mariateresa Sartori Galleria Michela Rizzo You Are the Music While the Music Lasts

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Mariateresa Sartori, You are the music while the music lasts, Galleria Michela Rizzo, Venezia "o una musica sentita così profondamente che non è affatto sentita, ma voi siete la musica finché la musica dura" T.S.Eliot, The Dry Savages, In: Four Quartets I disegnatori, video, loop, 2013 Mi è capitato di farmi ritrarre dai miei allievi di disegno. E sono rimasta così colpita dal loro sguardo: improvvisamente non si è più percepiti in quanto persona, con il proprio ruolo e carattere, ma si diventa puro spazio, un mero fenomeno fisico. Lo sguardo dei disegnatori è uno sguardo misuratore, al di là del giudizio morale ed estetico. Il video è costruito in modo tale da far vivere allo spettatore la stessa esperienza: da qualsiasi punto lo si guardi si ha l’impressione che i disegnatori stiano guardando te, e che stiano disegnando proprio te. Ogni allievo ha un proprio ritmo di sguardo sul foglio e sul soggetto. Il ritmo soggettivo di ogni singola persona che alza e abbassa lo sguardo va a formare nel suo insieme una specie di contrappunto visivo ritmico.

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artist MT Sartori

Transcript of Mariateresa Sartori Galleria Michela Rizzo You Are the Music While the Music Lasts

Mariateresa Sartori, You are the music while the music lasts,

Galleria Michela Rizzo, Venezia

"o una musica sentita così profondamente che non è affatto sentita, ma voi siete la musica finché la musica dura" T.S.Eliot, The Dry Savages, In: Four Quartets I disegnatori, video, loop, 2013 Mi è capitato di farmi ritrarre dai miei allievi di disegno. E sono rimasta così colpita dal loro sguardo: improvvisamente non si è più percepiti in quanto persona, con il proprio ruolo e carattere, ma si diventa puro spazio, un mero fenomeno fisico. Lo sguardo dei disegnatori è uno sguardo misuratore, al di là del giudizio morale ed estetico. Il video è costruito in modo tale da far vivere allo spettatore la stessa esperienza: da qualsiasi punto lo si guardi si ha l’impressione che i disegnatori stiano guardando te, e che stiano disegnando proprio te. Ogni allievo ha un proprio ritmo di sguardo sul foglio e sul soggetto. Il ritmo soggettivo di ogni singola persona che alza e abbassa lo sguardo va a formare nel suo insieme una specie di contrappunto visivo ritmico.

Video installazione I disegnatori Galleria Michela Rizzo, Venezia

Un minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori Pennarello su carta da lucido 21 x 29,7 cm 2013

Dopo aver ripreso gli allievi mentre disegnavano (vedi video I disegnatori) ho analizzato il ritmo del loro sguardo che va alternativamente sul foglio e sul soggetto. Ho ingrandito ogni singolo volto a grandezza naturale e ho appoggiato un foglio trasparente sullo schermo del computer. Poi ho seguito con un pennarello per un minuto e 15 secondi il movimento di ogni occhio. In questo modo ho registrato in modo piuttosto fedele il ritmo di sguardo di ogni disegnatore. Fedele quanto lo consente l’umana percezione, ovvero i miei occhi e la mia mano. Ho utilizzato un mezzo altamente tecnologico come il computer in modo strettamente meccanico, facendo passare la registrazione dei dati attraverso la mia percezione. Nella dimensione di esperimento empirico a me così congeniale ho scoperto una serie di cose: indipendentemente dal momento (le riprese video sono state fatte in mesi differenti) e indipendentemente dal soggetto che stavano disegnando, ogni persona mostrava una specie di impronta digitale ritmica. Le configurazioni ritmiche che possono risultare dallo sguardo di ogni singolo allievo sono certamente infinite, ma saranno riconducibili tutte a un certo pattern tipico di quella specifica persona, come si può ben vedere dall’immagine che segue in cui ci sono 4 disegni di due diversi allievi. La seconda scoperta è sullo sguardo di chi è portato o meno per il disegno. Conosco bene i mie allievi e so chi per natura ha questo dono. Nella seconda immagine si può vedere una persona non particolarmente portata, ( la quale comunque raggiunge risultati notevoli, partendo però svantaggiata, non potendo sfruttare una dotazione di base.) Nell’ultima immagine si può vedere lo sguardo di una persona particolarmente portata. Come si può ben vedere nel primo caso il pattern ritmico occupa uno spazio molto maggiore e segnala interferenze e dispersioni. Nel secondo caso invece lo sguardo diventa una specie di scanner, la persona intera si potrebbe dire si fa sguardo, sguardo puro, senza interferenze.

1 minuto e 15 secondi di sguardo di Roberta

1 minuto e 15 secondi di sguardo di Toni

1 Minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori 600 cm x 155 cm

135 disegni, 21 x 29,7 cm Pennarello su carta da lucido Galleria Michela Rizzo Venezia 2013

1 Minuto e 15 secondi di sguardo dei disegnatori 600 cm x 155 cm 135 disegni, 21 x 29,7 cm Pennarello su carta da lucido Galleria Michela Rizzo Venezia 2013

Il Progressivo. La Quarta Sinfonia di Brahms Il titolo (Il Progressivo) viene dalla definizione che Schoenberg dà del processo compositivo di Brahms: da un nucleo tematico si sviluppano le possibili variazioni; i temi quindi non sono in opposizione: ogni passaggio musicale è una variazione del tema di partenza, ogni passo genera il successivo, ogni nuova variazione genera la variazione successiva. Per rappresentare questo processo ho scelto la struttura a diramazione per due ragioni differenti. Da sempre ascoltando la Quarta di Brahms, alberi nordici, come pini e abeti, si sono imposti in modo netto come immagini mentali. Inoltre la diramazione come struttura mostra il proprio processo di sviluppo: ogni ramo genera il successivo e ogni forma determina quella accanto, in un processo autogenerativo in cui la progressione è principio costitutivo. Due quindi sono i livelli: su un piano soggettivo, ciò che quella musica particolare suggerisce a me, e più oggettivamente invece la traduzione di quel principio compositivo in un codice visivo universalmente riconoscibile.

Il Progressivo. La Quarta Sinfonia di Brahms Graffito su smalto, 370 x 440 cm, Galleria Michela Rizzo

Dettaglio da Il Progressivo

Dettaglio da il Progressivo

In Sol Maggiore/In Sol Minore

Video durata: 5' 21'' colori sonoro 2013 E' un lavoro sulla potenza pervasiva della musica, su quanto questa influenzi non solo i nostri sentimenti ma anche la nostra percezione visiva: arriviamo a deformare l'immagine pur di adattarla al ritmo e all'andamento di ciò che stiamo ascoltando. A livello consapevole prevale la sensazione che l'immagine catturi tutta la nostra attenzione e tutti i nostri sensi, in realtà, e nostro malgrado, è la musica a dettare tirannicamente sensazioni, sentimenti, percezioni, plasmando e dirottando i nostri pensieri a suo piacimento. E' un lavoro esemplificativo che utilizza quindi grandi esempi: dal mondo della musica Vivaldi e Mozart, per le immagini Heimat di Edgar Reitz.

Il concerto del mondo Video, 7’, b/w, sonoro Musica di Stefano Codin Il concerto del mondo è il concerto delle lingue del mondo: l’intrinseca musicalità di ogni lingua è sottolineata dalla traduzione in note di quella particolare conversazione che è caratterizzata da una certa lingua, da un certo timbro di voce, un certo ritmo. In relazione a tutti questi aspetti insieme al musicista Stefano Codin abbiamo scelto di volta in volta lo strumento musicale più adatto.

Il concerto del mondo, Galleria Michela Rizzo, Venezia 2013

Studio n.10 in Si minore op.25 Omaggio a Chopin Video, 7'40'' b/w sound 2010 ”…you are the music While the music lasts” T.S. Eliot La relazione tra musica e linguaggio è sancita dal brano di Chopin che esalta il valore emozionale della comunicazione, universalmente condiviso, mentre ne occulta il contenuto specifico.

Mariateresa Sartori www.mariateresasartori.it

 Dell’arte  come  conoscenza    Raffaele  Gavarro    Nel   1960,   durante   una   dolce   estate   trascorsa   in   Provenza,  Maurice  Merleau–Ponty   scrisse   il   saggio  “L’occhio   e   lo   spirito”*,   rispondendo   all’invito   di   André   Chastel   che   voleva   un   suo   contributo   per   il  primo   numero   di   Art   de   France.   Com’è   noto   quella   fu   l’ultima   estate   di   Merleau-­‐Ponty,   che   morì  d’infarto  l’anno  successivo  e  quello  rimase  il  suo  ultimo  saggio.    Naturalmente   vi   starete   chiedendo   perché   inizio   queste   riflessioni   sul   lavoro   di  Mariateresa   Sartori  partendo  da  uno  dei   testi  più  noti  e  amati  del  secolo  scorso  -­‐   tra   l’altro  principalmente  dedicato  alla  pittura,   anzi   meglio   alla   visione,   anzi   meglio   all’occhio,   anzi   meglio   al   corpo,   anzi   meglio   alla  profondità,  anzi  meglio  alla  conoscenza  e  ai  modi  limitati  o  meno,  comunque  diversi,  con  cui  si  realizza  nella  scienza,  nella  filosofia  e  nell’arte?    La  risposta  è  essenzialmente   in  una   frase  di  quel  saggio  che  non  mi  ricordavo  neppure   fosse   in  quel  saggio   e   che   mentre   Meri   mi   parlava   tentava   di   venire   fuori   dalle   nebbie   del   tempo.   Così   mentre  cercavo  senza  cercare,  ascoltando  la  quarta  sinfonia  in  Mi  minore  di  Johannes  Brahms,  con  una  certa  sorpresa  ho   ritrovato  quella   frase  e   il  molto  altro   che  non   ricordavo   così  necessario,   e  non   solo  per  l’occasione.   Eccola:   “Che   cosa   sarebbe   la   visione   senza   il   movimento   degli   occhi,   e   come   potrebbe  questo  movimento   non   confondere   le   cose,   se   fosse   lui   stesso   riflesso   o   cieco,   se   non   avesse   le   sue  antenne,  la  sua  chiaroveggenza,  se  la  visione  non  fosse  già  prefigurata  in  lui?”.  “Lo  sguardo  dei  disegnatori”  è  naturalmente  il  lavoro  che  ha  cavato  dalla  memoria  quella  riflessione  e  tutto   il   saggio   di   Merleau-­‐Ponty.   Si   tratta   di   un   esperimento   nel   quale   la   Sartori,   Meri,   dopo   aver  posizionato   un   foglio   trasparente   sul   monitor,   per   un   minuto   e   quindici   secondi   segue   con   un  pennarello  lo  sguardo,  il  movimento  degli  occhi  della  persona  impegnata  a  disegnare,  tirandone  fuori  un   tracciato   vibrante,   inquieto   e   naturalmente   doppio.  Nel   registrare   questo   fenomeno,   si   assume   a  propria  volta   il   ruolo  di  un   imperfetto  sismografo  di  quelle  vibrazioni  che  dagli  occhi  si   trasmettono  alla  mano   e   viceversa,   in   quel  momento  di  massima   concentrazione  della   visione   che   richiede   l’atto  della  riproduzione  sul  piano  di  ciò  che  si  vede  nella  realtà.  Meri  annota  che  il   tracciato  di  uno  stesso  disegnatore   si   ripete   quasi   uguale   nel   tempo,   e   forse   riuscirete   a   notarlo   anche   voi   guardando   con  attenzione,  e  questo  a  prescindere  da  quale  sia  l’oggetto  guardato  e  che  si  riproduce.  Si  potrebbe  infatti  pensare  che  lo  sguardo  segua  il  contorno  della  cosa  che  si  disegna,  risultando  quindi  di  volta  in  volta  differente.   Invece   lo   sguardo,   come   dice   Merleau-­‐Ponty,   ha   le   sue   proprie   antenne,   la   sua  chiaroveggenza   e   la   visione   è   già   prefigurata   in   lui.   Deve   essere   proprio   così.   Inoltre   questo  esperimento  mostra  senza  dubbio  la  doppia  natura  in  cui  siamo,  quella  per  la  quale  siamo  al  contempo  “vedenti   e   visibili”.   I   disegnatori,   gli   allievi   di   Meri   che   imparano   a   disegnare   e   pazienti   a   volte   si  prestano  alla  conoscenza  ulteriore  che  consegue  al  loro  stesso  imparare,  sono  il  paradigma  visibile  di  questo  doppio  stato.  Un  enigma,  come  dice  sempre  Merleau-­‐Ponty,  molto  complesso  e  affascinante  nel  quale  oltre  a  vedere  ed  essere  visti,  possiamo  anche  guardarci  e  riconoscerci.  Tutto   il   lavoro  di  Meri  procede  sulla  scarnificazione  analitica  dei  paradossi  che  contiene  questa  riflessione,  sull’essere  tra  le  cose  e  stare  al  di   fuori  di  esse  per  vederle  e  capirle,   in  una  visione  che  ci  comprende  appunto.  È  una  condizione   che   comporta   uno   stare   tra   l’analisi   scientifica   e   il   significato   metafisico   che  inevitabilmente  ne  consegue.    Sempre   Merleau-­‐Ponty   nel   saggio   citato:   “Tutta   la   storia   moderna   della   pittura,   il   suo   sforzo   per  liberarsi  dall’illusionismo  e  per  acquisire  dimensioni  sue  proprie,  ha  un  significato  metafisico.  Ciò  non  può  essere  oggetto  di  dimostrazione.”.  Perché  essa,  la  metafisica,  è  parte  integrante  della  realtà  e  della  storia  e  quindi  non  dissociabile  dall’esperienza  stessa  del  mondo.  Mentre  disegna  il  movimento  degli  occhi  dei  suoi  allievi  che  disegnano,  Meri  compie   il  riconoscimento  non  solo  dell’altro  come   identità,  ma  anche  dell’altro  come  mondo  separato  e  al  tempo  stesso  compreso  nel  mondo  in  cui  lei  stessa  e  noi,  che  a  nostra  volta  guardiamo,  stiamo.  Le  linee  descrivono  uno  stato  di  operatività,  ma  anche  uno  stato  d’animo,  e  nondimeno  sono  la  dimostrazione  di  un’espressività  diversa,  autonoma  e  generata  da  una  visione  ulteriore.  Quei  segni  partono  da  un’empatia  e  ne  producono  un’altra  in  uno  sviluppo  circolare  di  espansione  in  linea  di  principio  infinita.  Una  condizione  che  trovate  in  molti  lavori  di  Meri,  dai  video  come  “Quelli  che  vanno  quelli  che  restano”  del  2009,  “Homage  to  Chopin”  del  2011,  alle   installazioni  sonore   come   “Il   suono   della   lingua”   del   2008,   in   cui   il   sistema   di   relazioni   non   è   mai   confinato  

all’interno  dell’immagine,  del   visibile   che   si  offre   in  visione,  ma  appunto   ci   immette   in  esso   con  una  circolarità   includente  e  che   in  alcuni  casi  diventa   ipnotica  e  straniante  dalla  realtà  così  com’è  offerta  dalla  stessa  rappresentazione.  In  alcuni  casi  questa  modalità  crea  un  meccanismo  narrativo-­‐temporale  che  è  di  una  perfezione  perversa  proprio  grazie  alle  anomalie  sulle  quali  è  costruito.  È  il  caso  del  video  “In  Sol  maggiore/in  Sol  minore”  del  2013,  dove  una   relazione  non  coincidente   tra   immagini   e   suoni  crea  un’inquietante  diacronia  tra  le  stesse  immagini,  la  musica  e  i  sentimenti  che  entrambe  inducono.  La   ripetizione   di   una   scena   presa   dalla   trilogia   di   “Heimat”   di   Edgar   Reitz   (Heimat   1935-­‐43;   per   la  precisione   l’episodio   è   tratto   da   Reichshoehenstrasse   –   Via   delle   Alture   del   reich,   1938),   diventa   il  metronomo  di  uno  scorrere  del  tempo  circolare  e  ipnotico.  Ma  man  mano  che  il  cerchio  si  forma  e  si  ripete,   la  musica   di   Vivaldi   e   Mozart   -­‐   appunto   il   concerto   in   Sol  minore   del   primo   e   quello   in   Sol  maggiore   del   secondo   -­‐   cambia   le   nostre   aspettative.   Sappiamo   che   in   quel   momento   lui   e   lei   si  guarderanno  ma   il   senso  dello   sguardo  cambia,   la   scena  si   ripete  uguale  ma  non  è  più   la   stessa.  Noi  però   la   riconosciamo   come   identica   e   questo   crea   quasi   un   rifiuto   ad   assecondare   la  musica.   Ad   un  certo   punto   attendiamo,   desideriamo,   un’uscita   liberatoria   da   quel   loop   insensato   e   sfinente,  ma   la  musica  ce   lo   impedisce,  trattenendoci  all’interno  del  movimento  delle   immagini.  Certo  non  è  un  caso  che  Meri  abbia  lavorato  su  questo  tema  della  relazione  tra  il  tempo  circolare  e  il  senso  di  quello  che  vi  accade   all’interno,   scegliendo   il   capolavoro   di   Reitz,   che   vale   la   pena   ricordare   ha   una   durata  complessiva   di   circa   cinquantatré   ore   distribuite   in   quasi   altrettante   puntate   televisive.   Un’opera  complessa,   ambiziosa,   che   racconta   la   storia   di   un   tempo,   quello   del   Novecento,   fatto   di   salti  improvvisi   in  avanti  e  di  ritorni  inevitabili,   in  cui  appunto  la  circolarità  del  tempo  è  un  elemento  che  trova  il  compimento  finale  nel  ritorno  a  casa  del  protagonista  nell’ultimo  capitolo  della  trilogia.    Ma   vorrei   tornare   ancora   sulla   questione   del   segno,   della   linea,   che   ha   assunto   qui,   intendo   nella  mostra  “You  are  the  music  while  the  music  lasts”,  un  ruolo  decisivo.  E  con  ciò  mi  riferisco  sia  al  grande  disegno  dell’abete  che  è  stato  ispirato  dal  suono  della  quarta  di  Brahms,  che  continuo  doverosamente  ad  ascoltare  mentre  scrivo,  sia  alla  frammentazione  segnica  di  scotch  che  ricopre  la  parete  formando  un  trama  di  luci  e  ombre  sottili  e  brulicanti.  Non  c’è  niente  di  più  semplice  di  una  linea  tanto  nell’idea  che  nella  sostanza  della  rappresentazione,  e  non  c’è  niente  che  sia  più  distante  dal  reale  di  una  linea,  come   al   contempo   niente   che   ne   possa   di   più   e   meglio   determinare   la   forma.   La   linea   non   è   solo  un’astrazione  ma  è  un  paradosso  irrisolvibile,  almeno  fino  al  momento  in  cui  entra  in  relazione  con  la  realtà,  essendo  appunto  dotata  di  un’essenza  metafisica  che  le  consente  di  essere  compresa  proprio  in  quel  momento.  Come  ho  diligentemente  scoperto,  la  quarta  sinfonia  fu  composta  nelle  due  estati  del  1884  e  del  1885  a  Mürzzuschlag  in  Stiria,  un  boscoso  Land  del  sud  est  dell’Austria.  Sono  quattro  movimenti  che  vanno  da  un  primo  Allegro  non  troppo  ad  un  secondo  Andante  moderato,  passando  per  un  terzo  Allegro  gioioso  fino   ad   arrivare   all’ultimo   Allegro   energico,   culmine   dell’intera   composizione.   Questo   finale  rappresenta   l’esempio  migliore   di   quella   tecnica   brahmsiana   che   Schönberg   definì   della   “variazione  sviluppante”.  Per  la  precisione  si  tratta  di  trenta  variazioni  che  sviluppano  in  un  crescendo  di  sonorità  e  di  drammatica  emozione,  che  mostrano  uno  sviluppo  compositivo  decisamente  libero  e  che  appunto  caratterizza  la  tecnica  compositiva  di  Brahms.  Da  parte  mia  ho  imparato  che  la  quarta  è  un  capolavoro  e   ascoltandola,   come   ho   già   detto,   a   lungo,   ho   cercato   di   individuarne   i   momenti   di   passaggio   più  significativi.  Soprattutto  nella  ritmicità  crescente  e  nella  variazione  sviluppante  ho  cercato  i  segni  e  le  linee   realizzate   da   Meri,   che   mentre   l’ascoltava   ha   immaginato   boschi   di   conifere   e   li   ha   disegnati  riducendoli   a   graffi   che   salivano   e   si   espandevano   sulla   carta   stesa   sulla   parete,   in   un’ipotesi   di  progressione  infinita  che  anche  qui  assume  una  forza  ipnotica.    Di   quella   linea   che   non   imita   più   il   visibile   ma   “rende   visibile”   parlava   sempre   Merleau-­‐Ponty   ne  “L’occhio   e   lo   spirito”,   riprendendo   il   pensiero   di   Paul   Klee   e   le   parole   di   Henri   Michaux,   ma  soprattutto   centrando   inequivocabilmente   la   questione   dell’arte   sulla   visione   come   conoscenza.   Da  questa   idea,   o   forse   dovrei   dire   convinzione,   che   trova   molte   e   nuove   conferme   oggi,   parte   una  complessa   e   necessaria   riflessione   su   quale   sia   il   senso   attuale   dell’arte   e   la   sua   funzione   in   questo  nostro   tempo.   Domande   e   questioni   necessarie   non   solo   alla   comprensione   dell’opera,  ma   appunto  decisive  per  la  stessa  conoscenza  del  mondo  in  cui  siamo.      

• Maurice  Merleau-­‐Ponty,  “L’occhio  e  lo  spirito”,  SE  edizioni,  Milano,  1989;    Titolo  originale:  L'œil  et  L'esprit,  Èditions  Gallimard,  Paris,  1964.