Manual Ed i Psicologia Generale

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MANUALE DI PSICOLOGIA GENERALE

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MANUALEDI PSICOLOGIAGENERALE

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il Mulino

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a cura di

PAOLO LEGRENZI

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Psicologia

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I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della

Società editrice il Mulinopossono consultare il sito Internet:

http://www.mulino.it

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Manuale di psicologia generale

a cura dì Paolo Legrenzi

Seconda edizione

il Mulino

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ISBN 88-15-05732-3

Copyright © 1994, 1997 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la ripro-duzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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Introduzione, di Paolo Legrenzi P-

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I. Storia e metodi, di Riccardo Luccio

1. Introduzione2. Lo sviluppo storico della psicologia scientifica3. I metodi della psicologia

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IL Emozioni e motivazioni, di Gian Vittorio Caprara

1. Introduzione2. Tradizioni di pensiero e livelli di analisi3. Le emozioni4. Le motivazioni5. Emozioni e motivazioni

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III. Percezione, di Walter Gerbino

1. Problemi2. Codificazione3. Organizzazione4. Conclusioni

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IV. Attenzione e coscienza, di Carlo Umiltà

1. L'attenzione spaziale2. L'attenzione selettiva3. Un modello connessionista dell'effetto Stroop4. Le risorse attentive5. Processamento automatico o controllato6. La memoria di lavoro e il Sistema attentivo supervisore7. Attenzione e coscienza

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INDICE

V. Memoria, apprendimento e immaginazione, di Rossa-na De Beni p. 251

1. Tecniche di misurazione e di ricerca della memoria umana 2512. Tipi di memoria 2633. La metacognizione e le strategie di memoria 2794. Il dimenticare 2965. Immaginazione 3086. Apprendimento 319

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VI. Linguaggio, di Giovanni Battista Flores d'Arcais

1. La psicolinguistica2. La comprensione del linguaggio3. La produzione del linguaggio4. Lo sviluppo e i fondamenti biologici del linguaggio

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VII. Pensiero, di Giuseppe Mosconi

1. Problem solving2. Ragionamento3. Conclusioni

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Glossario 457

Riferimenti bibliografici 469

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Indice analitico 511

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Questo volume fa parte di una serie di manuali scritti da autori italiani e pensati specificamente per la didattica dei corsi di laurea in Psicologia. L'articolazione dei nostri corsi non sempre coincide con quella dei paesi anglosassoni. Ad esempio, il contenuto di pur ottimi manuali sui processi cognitivi - come il Reed [1992; trad. it 1994] -è troppo mirato rispetto al nostro insegnamento di Psicologia generale al primo anno del corso. Viceversa, un testo di psicologia in generale - come il Darley, Glucksberg e Kinchla [1991; trad. it. 1993] -può risultare troppo esteso, in quanto include argomenti che costituiscono materie specifiche di altri insegnamenti (psicologia dello svi luppo, clinica, sociale, ecc). Proprio per questo l'edizione italiana del Darley è suddivisa in due volumi, in modo che il primo corrisponda ai contenuti del corso di Psicologia generale. Tuttavia un volume progettato apposta e scritto da docenti che hanno esperienza della situazione italiana dovrebbe presentare dei vantaggi rispetto ad un manuale semplicemente diviso a metà. Ad esempio, nel Darley come in molti altri manuali, il blocco «emozione e motivazione» fa da ponte tra un'esposizione dei processi cognitivi asettica e gli aspetti clinici e sociali, considerati come un prolungamento del funziona-mento «caldo» della nostra mente.

Il manuale italiano che qui si presenta, al contrario, vede nei processi motivazionali, per così dire, l'energia che fa funzionare il motore e presenta successivamente i processi cognitivi come lo stu -dio dei modi di funzionare di questo motore. Fuor di metafora, lo schema di questo manuale cerca di realizzare quanto dice Caprara concludendo il secondo capitolo: «la motivazione è da considerarsi un costrutto sovraordinato a quello di emozione e a quello di cogni-zione...» (cfr. infra, pp. 108-109). Questo secondo capitolo ha la funzione di cerniera tra l'introduzione storica e metodologica di Luc-cio e lo studio della cognizione. L'analisi dei processi cognitivi viene

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INTRODUZIONE

svolta con un taglio sostanzialmente sistematico, come in un qualsiasi manuale di scienze. Lo studio dell'emozione e della motivazione ri -prende invece l'approccio storico del capitolo iniziale. Tale approccio si rivela utile per capire il passaggio dalle «liste di bisogni e istinti» ai modelli, da Lewin in avanti, centrati sulla capacità della mente di darsi delle mete e di perseguire dei fini. I capitoli successivi, dedicati alla cognizione, analizzano gli strumenti di cui disponiamo per perse-guire questi complessi di mete e fini. I processi cognitivi, dai più «bassi» ai più «alti» non sono cioè trattati come funzioni mentali indipendenti dal mondo in cui viviamo e dalla nostra interazione con esso.

Gerbino ci introduce allo studio dei processi percettivi intesi co-me uno dei modi per controllare le nostre azioni nel contesto del ciclo percezione-azione. La visione non è una registrazione passiva di quel che ci capita attorno: «il requisito essenziale della rappresenta-zione percettiva non è la veridicità ma l'adeguatezza all'azione» (cfr. infra, cap. Ili, par. 1.1). L'esplorazione e la ricerca di informazioni utili all'azione sono processi strettamente connessi all'attenzione. L'impostazione teorica centrata sui rapporti tra motivazione, azione e processi cognitivi (intesi come supporto all'azione) non può prescin-dere dall'analisi dei processi attentivi, dall'analisi cioè dei meccanismi sottostanti la nostra capacità di concentrarci su alcune informazioni trascurandone altre.

Tale analisi costituisce il filo conduttore di tutto il capitolo di Umiltà. Un approccio sofisticato sul piano metodologico ha reso pos-sibile capire in modo dettagliato come mai in certi casi raccogliamo informazioni e prendiamo decisioni in modo consapevole e altre volte lo facciamo invece senza renderce -conto. Non alludiamo qui al fatto che talvolta siamo distratti, ma alla nostra capacità di rendere automatiche molte operazioni cognitive con evidenti vantaggi adattivi sia in termini di economia di risorse psichiche che in termini di effi -cacia e precisione. Viene così esplorato in molti dei suoi aspetti un costrutto che può sembrare il cuore della disciplina: la coscienza. Il capitolo di Umiltà è prezioso anche per un altro motivo. Difficilmente nei manuali ci si può fare un'idea della «cucina» dello sperimenta tore in psicologia, di come cioè nei dettagli un ricercatore applichi le sue ricette in laboratorio, di come i risultati di un esperimento ci conducano ad impostarne di nuovi per rispondere a nuovi quesiti. Diventano così chiari dall'interno la funzione e lo scopo dell'esperi-mento condotto in laboratorio. Molte nozioni della nostra psicologia ingenua, quelle che nella vita quotidiana usiamo in modo disinvolto (si pensi alle distinzioni: stare attenti oppure no, essere consapevoli oppure no, e così via) nascondono problematiche molto complesse che solo una scienza sperimentale può affrontare. Siamo cioè troppo complicati per capire come funzioniamo con la semplice osservazione quotidiana di noi stessi e degli altri.

Questa impostazione viene ripresa anche da De Beni, che inizia il suo capitolo proprio comparando l'approccio ecologico e le ricer-

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INTRODUZIONE

che di laboratorio. E lei stessa si sofferma a lungo sullo scarto tra i modi di funzionare della memoria, dell'apprendimento e dell'immagi-nazione e quella che è la nostra concezione ingenua di tali meccani-smi. Benché i risultati di molti esperimenti non siano prevedibili, è indubbio che, nel complesso, lo studio di questi meccanismi mentali superiori - dalla memoria all'immaginazione, dal linguaggio al pen-siero - si discosti meno (rispetto ai capitoli precedenti) da quello che un non addetto ai lavori si aspetterebbe dalla lettura di un ma-nuale di psicologia generale. La memoria, l'immaginazione, l'appren-dimento, il linguaggio, il pensiero sono il nucleo della vita mentale anche in una prospettiva ingenua, non scientifica.

In sintesi, possiamo dire che questo manuale si caratterizza per l'opzione teorica sopra descritta e per il fatto di essere scritto intera-mente da studiosi italiani, tra i migliori specialisti in ogni settore. Si è cercato di far sì che questo secondo aspetto si traducesse in pregi e non in difetti. Nulla di essenziale è stato tralasciato per il fatto che non c'era produzione italiana in un dato settore: questa serie di ma-nuali cerca di non essere mai sciovinista. Tuttavia l'avere come auto-ri degli specialisti italiani presenta due vantaggi. In primo luogo, l'in-sieme dei contributi da luogo ad una panoramica aggiornata sullo stato della ricerca psicologica italiana nel più ampio contesto della situazione contemporanea delle discipline psicologiche. Molto mode-sto solo pochi decenni fa, oggi tale contributo comincia ad avere, almeno in alcuni campi, una certa consistenza. In secondo luogo, l'e-sposizione di questi lavori italiani, collocata in un più ampio quadro teorico, permette agli studenti del corso di laurea (soprattutto a mol-ti studenti del biennio iniziale, che non padroneggiano ancora la let -teratura internazionale) un uso del manuale come guida per ulteriori approfondimenti.

L'adozione da parte di autori diversi di questo stesso criterio può dar luogo a stili espositivi apparentemente molto lontani. Si ve -dano, ad esempio, gli ultimi due saggi. Flores D'Arcais ha scritto un capitolo asettico, dato che la sua esposizione della psicolinguistica contemporanea è analoga a quella che potremmo trovare in un otti -mo manuale anglosassone. L'aspetto più utile, non solo dal punto di vista manualistico e didattico, consiste nella capacità dell'autore di non soffermarsi sui singoli modelli di comprensione e di produzione del linguaggio. Flores D'Arcais è infatti riuscito ad estrarre gli aspetti centrali ed essenziali della ricchissima modellistica e a collegarli ai temi trattati negli altri capitoli. Mosconi ha scritto un capitolo molto più personale, dato che le teorie e le ricerche classiche sul problem solving e sul ragionamento — che peraltro trovano posto in questo come in qualsiasi altro manuale - sono filtrate attraverso la posizione dell'autore e dei suoi collaboratori. Ne è risultata un'impostazione originale, centrata su un'esposizione che fa riferimento alle operazioni di una data persona che ragiona per risolvere problemi, piuttosto che su teorie o modelli.

Questo libro si caratterizza anche per altri due aspetti. Il primo

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concerne la scelta di come trattare il rapporto tra teorie e dati speri-mentali. Alcuni testi introduttivi preferiscono offrire «certezze», sot-tolineando come alcuni risultati sperimentali corroborino i modelli teorici presentati. Questa opzione - per quanto scorretta in quanto si risolve necessariamente in scelte faziose di cui il lettore ignora il senso - può offrire un'opportunità didattica quando uno studente fa un solo esame di psicologia. In tal caso è infatti sufficiente che impari in modo aproblematico quello che gli serve per la sua preparazione professionale diretta altrove. Nella formazione di uno psicologo, al contrario, adottare questa scelta per «iniziare» uno studente alla disciplina può rivelarsi molto più pericoloso. Lo studente che impara dei «fatti» è poi indotto a credere che dalla evidenza e affidabilità di alcuni dati sperimentali scaturisca la «prova» di una data teoria. Questa convinzione, oltre che fuorviante, può essere dannosa: è in-fatti l'anticamera per una futura professionalità di routine, una visio-ne del mestiere dello psicologo come una persona che interviene con un sapere applicato standard che si fonda su un sapere di base con-solidato. Un approccio acritico alla professione trova le sue origini in un approccio acritico al sapere di base.

Questa serie di manuali, al contrario, è stata progettata nella con-sapevolezza «che i fatti sono essi stessi limitati e condizionati dall'o-rientamento teorico del ricercatore, dalle sue credenze, motivazioni e aspirazioni», come scrive Camaioni [1994] nell'introduzione del Ma-nuale di psicologia dello sviluppo. Senza ritornare sulla relazione tra fatti e teorie, chiaramente discussa e approfondita da Camaioni, mi basti ricordare che quell'impostazione viene qui ripresa. In tutti i ca -pitoli con taglio sistematico, da quello di Gerbino fino a quello di Mosconi, si mostra continuamente co* lo stesso «fatto» possa venire interpretato in più modi, come alcuni risultati sperimentali non permettano di dirimere tra più modelli, come più modelli siano in grado di spiegare lo stesso fatto, come l'aver corroborato una teoria non implichi necessariamente l'aver falsificato il punto di vista alter-nativo. Questo modo di procedere è faticoso ma intellettualmente onesto. Lo studente riceve in cambio di uno studio più impegnativo e complesso la possibilità di dialogare in modo paritetico con i ricer -catori di ogni settore. L'alternativa è una psicologia basata su «cer-tezze» che non si trovano né nei laboratori dei ricercatori né nei contesti professionali.

L'altro aspetto che caratterizza questo manuale riguarda i rap-porti tra teoria e applicazione. Ottimi manuali sui processi cognitivi - come il Reed [1992; trad. it. 1994], il cui sottotitolo è appunto Teoria e applicazioni — cercano di collegare i modelli teorici sui pro-cessi cognitivi ad alcune indicazioni relative ai più importanti settori applicativi. Ancora una volta, questa scelta sarebbe stata condivisibile se la lettura di questo manuale non costituisse soltanto una prima tappa di un curriculum formativo con forti valenze applicative (nel triennio di specializzazione del corso di laurea). Si è quindi preferito, data anche la vastità della materia, escludere ogni riferimento a que-

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INTRODUZIONE 11

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sto aspetto se non nel capitolo di De Beni, dove le indicazioni «pra-tiche» sono rivolte al lettore in quanto studente e non in quanto futuro psicologo (riguardano infatti le strategie per apprendere e ri -cordare) .

Spero che questa scelta di rigore nel metodo e di apertura critica sul piano teorico sia apprezzata non solo e non tanto da chi fa ricer -ca ma da chi si preoccupa di formare i futuri psicologi. Mi auguro che lo sforzo comune abbia prodotto non solo un nuovo manuale ma anche un manuale nuovo.

P.L.

Prefazione alla seconda edizione

La prima edizione di questo manuale è stata utilizzata sia all'in-terno dei corsi di laurea in Psicologia, sia in altri corsi di laurea. Il lavoro di insegnamento e la verifica sul campo della didatticità del libro da parte di molti docenti hanno dato luogo a suggerimenti e consigli che ci hanno consentito di rendere il testo ancora più utiliz -zabile e meglio fruibile. In questa seconda edizione abbiamo dunque ridotto all'essenziale le parti più tecniche, allo scopo di mantenere il tono introduttivo che ogni buon manuale di primo livello dovrebbe avere. La scelta di una prospettiva più ampia, che colloca la psicolo-gia generale nell'ambito delle scienze cognitive, implica il confronto tra tradizione sperimentale e metodi delle scienze cognitive, in primo luogo la simulazione. Come è sottolineato nelle conclusioni al capitolo dedicato alla percezione (cap. 3), all'eclettismo teorico del movimento cognitivista si è accompagnata l'integrazione di più metodi di ricerca e di tradizioni disciplinari un tempo separati tra loro. Eclettismo teorico non significa però adozione di un approccio ateoretico. Al contrario; si tratta di spiegare, come nel caso della percezione, forza e limiti di due tradizioni di ricerca, quella empirico-probabilistica (Helmholtz) e quella economico-energetica (Gestalt). In questa prospettiva diviene necessario fornire alcuni elementi delle scienze cognitive, in particolare nel campo della linguistica (cap. 6) e in quello della coscienza e dell'inconscio (cap. 4).

Lo sforzo di presentare il confronto critico tra teorie, metodi e dati - evidente in tutti i capitoli - aveva forse reso in alcuni punti la prima edizione di questo libro troppo densa. La revisione complessi -va cui è stato sottoposto per questa seconda edizione l'intero volume ne fanno, ci sentiamo di affermare, uno strumento equilibrato e ag -giornato per comprendere i meccanismi fondamentali del funziona-mento della mente umana.

P.L.

Giugno 1997

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1. Introduzione

II termine «psicologia» deriva dagli etimi greci psyché e logos, scienza dell'anima. Non si tratta però di un termine greco, ma di un neologismo creato nel rinascimento, non è chiaro da chi. Nel 1520 il poeta dalmata Marko Marulic scrisse un poemetto, Psichiologia, di cui è rimasto solo il titolo, per cui non sappiamo cosa volesse inten-dere con la parola. I primi usi testimoniati del termine sono del 1575, con Freigius, e del 1583 con Taillepied; ma è solo a partire dal 1590 che Rodolfo Goclenio lo rese di impiego comune. Di fatto, oc-corre aspettare il XVIII secolo perché si parli di psicologia in un senso analogo a quello odierno; in particolare, la distinzione di Chri-stian Wolff [1728; 1737] tra psicologia razionale e psicologia empirica, con la prima specificamente fllosofica e la seconda «naturalistica», che verrà poi largamente accettata, individuerà quella bipartizione delle riflessioni psicologiche che sarà alla base, oltre un secolo più tardi, della separazione della psicologia scientifica dalla filosofia, e della sua autonomizzazione come scienza naturale.

Questo capitolo non intende ripercorrere analiticamente tutti i passaggi che ci hanno portato dalle elaborazioni dei presocratici agli sviluppi attuali, che vedono, tra l'altro, una profonda commistione tra le teorizzazioni psicologiche e quelle della scienza dei calcolatori. Esso vuole piuttosto presentare allo studente gli aspetti fondamentali dello sviluppo storico della psicologia scientifica, e i principali metodi che essa adotta nel corso della ricerca. È un obiettivo ambizioso per-ché possa essere portato a termine in un numero ridotto di pagine. Peraltro, lo scopo non è quello di presentare né una storia della psi -cologia, né un elenco esaustivo dei metodi che la psicologia utilizza. Più semplicemente, e più concretamente, quello che si intende qui fare è mostrare quali sono state le grandi categorie concettuali con cui la nostra disciplina si è dovuta misurare.

Con forse qualche eccesso di schematismo, uno dei pochi storici

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della psicologia italiana scrisse qualche anno fa un fortunato saggio sulle antinomie della psicologia [Marhaba 1976]. Egli vedeva nello sviluppo della psicologia contemporanea la presenza di una serie di problemi bipolari, a cui le diverse scuole psicologiche avevano cercato di dare risposte indirizzandosi preferibilmente verso l'uno o l'altro polo. Vi erano così psicologie (prevalentemente) mecanomorfiche o piuttosto antropomorfìche, riduzioniste o piuttosto antiriduzioniste, soggettiviste o piuttosto comportamentiste, e così via. Sono, le cate-gorie di Marhaba, tutte pietre di paragone con cui dovremo fare an -che noi i conti. Di fatto, come vedremo, le cose sono tutt'altro che semplici, e molti degli psicologi più rappresentativi hanno spesso da-to risposte contraddittorie, nel corso dello sviluppo del loro pensiero, a questi problemi. Di più, come vedremo, spesso si tratta di polariz-zazioni solo, o in parte, apparenti.

Lo stesso può dirsi in certa misura dei metodi. La psicologia è oggi una scienza della natura, una scienza empirica (in contrapposi-zione non alle scienze dello spirito, ma alle scienze cosiddette forma-li, come la matematica o la logica). Da questo punto di vista, la psi-cologia utilizza il metodo scientifico, proprio di tutte le scienze natu -rali. Ma all'adozione di questo metodo generale, fa riscontro l'uso di metodi particolari, in parte dovuti ai settori specifici di indagine che vengono affrontati, in parte alle opzioni teoriche dei vari ricercatori. Così, se può essere tentante sul piano schematico presentare i diversi metodi in opposizione, occorre immediatamente tenere presente il fatto che spesso non si tratta di metodi mutuamente esclusivi, ma vi sono larghi settori di sovrapposizione tra l'uno e l'altro.

Questo capitolo è così organizzato. La prima parte, storica, pre-senterà in primo luogo un abbozzo r biologico dello sviluppo della disciplina. La seconda parte passerà invece in rapida rassegna i me-todi della psicologia.

2. Lo sviluppo storico della psicologia scientifica

2.1. Le condizioni per una psicologia scientifica

Potrà apparire curioso, ma prima di iniziare il nostro abbozzo dello sviluppo storico della psicologia scientifica, dobbiamo indivi-duare quelle che possiamo chiamare le «condizioni» che hanno reso possibile la nascita della psicologia come scienza. Occorre infatti te-nere presente che se la psicologia non è riuscita a svilupparsi come scienza autonoma se non molto tardi - nella seconda metà del secolo scorso - ciò non è dovuto al fatto che si trattasse di una scienza che doveva fare i conti con tecnologie nuoye, che sole consentivano di poter affrontare determinati problemi. E stato questo il caso dell'a-stronomia moderna, che non è potuta decollare prima dell'invenzio-ne del cannocchiale; o della batteriologia, che ha avuto bisogno del microscopio. Per non parlare delle «nuove» scienze di questo secolo,

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a cominciare dalla cibernetica e dall'informatica. Come vedremo, lo studio dei processi e delle funzioni psichiche poteva richiedere vera-mente ben semplici strumentazioni, che non rendevano necessario il ricorso a una tecnologia avanzata. E del resto, sin dall'antichità clas-sica si indagava sui grandi temi che sarebbero poi stati oggetto di studio della psicologia scientifica. Se si vuole, il primo trattato di psi-cologia sistematica è il De Anima di Aristotele, del 322 a.C, anche se per Aristotele l'anima è più un principio vitale, la forma della vita. E nei Parva naturalia Aristotele aveva dato una descrizione dei processi cognitivi, soprattutto di percezione e memoria, di straordinaria mo-dernità.

Ma ancor prima di Aristotele, Alcmeone aveva posto la vita psi -chica già nel cervello; Ippocrate aveva individuato delle precise rela-zioni tra attività psichica e funzioni corporee, e la sua scuola aveva sviluppato una caratterologia basata su quattro tipi (sanguigno, colle-rico, melancolico e flemmatico), a seconda del prevalere di uno dei quattro umori (sangue, bile gialla, bile nera, flegma), corrispondenti ai quattro elementi di Empedocle; caratterologia che sotto diverse forme sarebbe sopravvissuta sino all'età moderna. E dopo Aristotele, vi sarebbero state le sorprendenti descrizioni del sistema nervoso di Erofilo ed Erasistrato, che sarebbero riusciti a distinguere con due millenni di anticipo su Bell e Magendie i nervi sensoriali da quelli motori; e vi sarebbero stati, in epoca romana, contributi straordinari sul piano dei processi cognitivi (lo pseudo-Cicerone della Rhetorica ad Herennium, Quintiliano...), sul piano naturalistico (Plinio il vec-chio), medico (Galeno), e così via.

Il pensiero classico aveva gettato le basi perché la psicologia po-tesse svilupparsi come le altre scienze naturali. I problemi della mente erano stati affrontati sul piano puramente filosofico, ma anche nel lo studio naturalistico delle funzioni cognitive come percezione, lin-guaggio, pensiero, memoria; nei rapporti tra mente e corpo, con un primo tentativo di dare una rappresentazione dei rapporti tra funzio-ni del sistema nervoso (anche se ancora prevaleva in molti l'idea che fosse il cuore il centro motore della vita psichica) e funzioni mentali; nelle interrelazioni tra patologie somatiche e processi della mente.

Indipendentemente dalla profonda crisi che attraversò tutto il sa-pere occidentale dopo la caduta dell'impero d'Occidente, il cristiane-simo avrebbe prodotto una decisiva battuta d'arresto delle specula-zioni propriamente psicologiche. Infatti, per il pensiero cristiano non solo medioevale, ma sino ai primi del seicento, vi era una forte inter-dizione allo studio dell'uomo, sia da un punto di vista mentale che da un punto di vista corporeo. Da un punto di vista mentale, infatti, si affermava che i problemi che si incontravano dovevano riguardare necessariamente la natura dell'anima, e andavano quindi lasciati al-l'indagine dei teologi. Dal punto di vista corporeo, poi, l'uomo è vi-sto sì facente parte della natura, ma in posizione privilegiata, al cul-mine di una struttura gerarchica rigida, che lo pone immediatamente sotto Dio. Ciò rende in certa misura empi gli studi anatomici e fisio-

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logici; la dissezione dei cadaveri verrà proibita sino al XVII secolo, e i contravventori rischieranno le dure condanne dei tribunali dell'In-quisizione.

Con umanesimo e rinascimento inizia però un rivolgimento di questa concezione. Vi è una nuova collocazione dell'uomo nella natu-ra, che è al meglio testimoniata dalla famosa epistola sulla dignità dell'uomo di Pico della Mirandola [1494]: l'uomo viene posto (sia pure con infinite contraddizioni) al centro della riflessione, non più visto in ottica trascendente, ma semmai partecipe egli stesso degli attributi della divinità. Ma ciò non consente ancora una sua analisi scientifica. Il passo successivo, compiuto da Cartesio, consisterà nello scindere il corporeo dal mentale, aprendo così anche un dibattito filosofico-scientifico che proseguirà in modo appassionante sino ai giorni nostri.

Cartesio introduce una distinzione radicale tra res cogitans, il pen-sante, e quindi la mente, l'anima, e res extensa, ciò che occupa uno spazio fisico, il corpo. Da un punto di vista ontologico, dell'essenza, cioè, di ciò che compone queste due entità, si tratta di cose assoluta-mente distinte, irriducibili l'una all'altra. La prima è propria dell'uo-mo, la seconda è comune all'uomo e agli animali. Cartesio ritiene infatti che il corpo possa essere visto come una macchina, per esem-pio uno di quei robot idraulici che all'epoca stupivano le corti euro -pee. E la scoperta da parte di Harvey, nel 1628, della circolazione del sangue rinforzava questa idea. Ma Cartesio ha anche cominciato a vedere la regolazione da parte del sistema nervoso di questo mec-canismo; e a lui va dato a buon diritto il merito di aver iniziato lo studio degli atti riflessi, che nello stesso secolo verrà poi sviluppato dalla scuola medica iatromeccanica it?1'>.na.

Ma se il corpo è qualcosa di meccanico, allora nessuno ne può vietare un'indagine naturalistica. Veniva così ad essere superata la prima interdizione che la Chiesa aveva posto allo studio dell'uomo: lo studio, almeno, del corpo. Rimaneva però il problema fonda-mentale dell'anima (che Cartesio vedeva curiosamente interagire con il corpo a livello della ghiandola pineale, l'epifisi, una ghiandola endocrina di cui all'epoca non si conosceva la funzione). Cartesio immaginava che nella mente potessero esistere idee non solo deri-vate dai sensi o generate direttamente dalla mente, ma anche idee innate, connaturate alla mente, come l'idea di Dio, di sé, gli assiomi della matematica...

La corrente filosofica a cui Cartesio dava inizio verrà detta razio-nalismo, e si svilupperà particolarmente nel continente europeo. Ad essa si opporrà strenuamente un'altra scuola filosofica, l'empirismo, che avrà il suo massimo sviluppo in Inghilterra e in Scozia. Gli em -piristi negheranno l'esistenza delle idee innate, e sosterranno che tutto ciò che è presente nella mente dell'uomo deriva dall'esperienza, in primo luogo dall'esperienza sensoriale. Ma agli empiristi si deve il merito di aver superato l'altra interdizione della Chiesa, effettuando quella che Kantor [1969] ha chiamato la «secolarizzazione dell'ani-

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ma». Locke [1690], uno dei massimi rappresentanti di questa scuola, affermò infatti la liceità di studiare le facoltà della mente umana, se non se ne poteva studiare l'essenza. L'ontologia dell'anima, cioè, ve-niva lasciata ai teologi, ma le sue funzioni diventavano oggetto di studio filosofico-scientifico. Era così compiuto l'ultimo passo, e pote-va iniziare a svilupparsi una psicologia propriamente scientifica.

Va tra l'altro sottolineato il fatto che questi rivolgimenti avveni-vano tra il XVI e il XVII secolo, l'epoca di Bacone, di Keplero, di Galileo, di Mersenne; l'epoca, cioè, della nascita della scienza nel senso moderno del termine. Ma se le altre discipline, dalla fisica alla chimica, dall'astronomia alla biologia, avrebbero subito cominciato a svilupparsi in tale senso, per la psicologia sarebbe occorso almeno un altro secolo e mezzo per costituirsi come scienza autonoma.

I motivi di questa ulteriore difficoltà della nostra disciplina, ri -spetto alle altre, non trovano concordi gli studiosi che se ne sono occupati. Certo, il fatto che i filosofi empiristi e razionalisti avessero consentito di aggirare i divieti della Chiesa non significava un imme-diato rivolgimento di prospettive: certe acquisizioni dovevano matu-rare, e diventare vero e proprio patrimonio condiviso della comunità degli studiosi. Si pensi che ancora alla fine dell'ottocento l'Università di Cambridge rifiutava di istituire un laboratorio di psicofisica, rite-nendo che sarebbe stato un «insulto alla religione porre l'anima umana su delle scale di misurazione» [Hearst 1979, Ti. Certo, era ancora molto incerto l'oggetto di studio che avrebbe dovuto avere la psicologia (né, come vedremo, oggi la cosa si è granché chiarita): la coscienza? La mente? Il comportamento? Ma soprattutto, era ben lontana ancora la possibilità di trattare i processi psicologici come qualcosa di' naturalistico. In altri termini, la difficoltà per il decollo della psicologia come scienza era sostanzialmente questa: una psico-logia scientifica si sarebbe potuta costruire una volta che si fosse tro -vato il modo di «misurare» gli eventi psichici. Come avrebbe detto il grande Kant [1786], la psicologia non avrebbe mai potuto essere una scienza, poiché i principi a priori della matematica non avrebbero mai potuto sussumere i suoi temi, cosa che rendeva impossibile la misurazione e la sperimentazione.

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2.2. La mente e il cervello

Come abbiamo detto, la concezione secondo cui l'attività psichi -ca ha come corrispettivo materiale, somatico, l'attività cerebrale, con-cezione che oggi ci sembra scontata, è abbastanza recente nella storia dell'umanità, se è vero che ancora nel XVI secolo Cisalpino afferma-va, riecheggiando idee ampiamente diffuse, che il motore della vita mentale era il cuore. È certo che a partire dal XVII secolo nessuno mette più in dubbio il primato del cerebrale; ma la storia, rilevantis-sima, dei rapporti tra mentale e attività del sistema nervoso è tutt'al-tro che lineare.

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Nella concezione cartesiana, la res extema è sostanzialmente una macchina, una sorta di robot idraulico, il cui funzionamento è peral -tro regolato da una serie di azioni riflesse, grazie alla struttura del sistema nervoso. Le conoscenze del sistema nervoso sono però asso-lutamente insufficienti perché si possa andare al di là di una pura affermazione di principio. Sarà solo nel 1751, con R. Whyatt, che verrà compiuto un progresso decisivo. Egli infatti dimostrò che asportando il cervello della rana permanevano i movimenti riflessi, che invece cessavano quando, mantenuto il cervello, veniva asportato il midollo spinale. Ricordiamo che un arco riflesso è costituito da un ramo «afferente», che conduce le informazioni sensoriali dalla perife-ria dell'organismo al centro, e da un ramo «efferente», che dal cen-tro giunge alla periferia, per dare gli opportuni ordini ai centri effet-tori (muscoli, ghiandole...).

Whyatt dimostrava così che la congiunzione tra ramo afferente e ramo efferente si poteva avere a livello spinale, senza l'intervento del cervello, ma comunque a livello centrale; e quindi, non era un'attività puramente periferica. Il discorso dei riflessi sarebbe poi stato com-pletamente chiarito solo agli inizi di questo secolo, con il grande Charles Sherrington [1906], che avrebbe dimostrato l'integrazione e il controllo centrale delle azioni riflesse, aprendo nuove prospettive allo studio del funzionamento del sistema nervoso. Comunque, già a metà del XIX secolo un neurofisiologo russo, Ivan M. Secenov [1863], aveva proposto, in un saggio che fu colpito dalla censura zarista per il suo chiaro impianto materialistico, che tutta l'attività psichica poteva essere interpretata sulla base del meccanismo semplice dell'arco riflesso. Questo avrebbe aperto la strada alla reflessologia russa, sviluppatasi impetuosamente nel "colo successivo.

Un altro passo avanti determinante ru la cosiddetta legge di Bell e Magendie. Questi due scienziati scoprirono indipendentemente, il primo nel 1811, il secondo nel 1822, che nei nervi periferici le vie sensoriali erano indipendenti da quelle motorie. Molti nervi periferi-ci, infatti, originano dal midollo spinale con due «radici», una ante-riore e una posteriore, che si unificano poi in un tronco unico. Ora, se si recide la radice anteriore, il segmento corporeo innervato perde ogni possibilità di movimento, poiché si instaura una paralisi flaccida dei muscoli a valle, mentre la sensibilità rimane intatta. Se invece si recide la radice posteriore, la motilità non viene ?h&2X&, mentre la zona corporea innervata perde qualsiasi sensibilità.

L'importanza della legge di Bell e Magendie può non apparire immediatamente evidente; peraltro con essa per la prima volta si af -fermava un'attività non indifferenziata nel sistema nervoso, e si po-nevano le premesse per affermare una serie di funzioni specifiche dell'attività neurofisiologica, che sarebbe poi stata alla base della dot-trina dell'energia nervosa specifica (cfr. infra). Doveva peraltro tra-scorrere un cinquantennio perché due ufficiali medici dell'esercito prussiano, Fritsch e Hitzig, dimostrassero per la prima volta una rappresentazione corticale della motricità corporea.

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Lo sviluppo delle neuroscienze doveva comunque contribuire allo sviluppo della psicologia scientifica soprattutto su un altro piano: la corrispondenza tra funzioni cerebrali e attività mentali.

Un particolare rilievo, da questo punto di vista, ha l'attività scientifica di una curiosa figura di scienziato, l'austriaco Franz Jo -seph Gali [1825]. Gali (anche con la collaborazione dell'allievo Spurzheim) è stato uno dei più importanti e seri neuroanatomisti dell'inizio del secolo scorso. A una lodevole attività di ricerca anato-mico-funzionale, Gali associava un'attività speculativa, che lo portava a proporre una psicologia delle facoltà, con cui si sosteneva una divi-sione funzionale della mente sulla base delle attività psichiche svolte. Si trattava di una suddivisione che oggi si direbbe verticale [Fodor 1983]: in altri termini, secondo questa ipotesi, il pensiero matemati -co, ma anche la sublimità, la vaghezza, la fiacca, ecc, come facoltà psicologiche, sarebbero separate completamente le une dalle altre. La concezione opposta sostiene che vi sono dei processi orizzontali, al servizio di tutte le facoltà, come la memoria, la percezione, ecc. Al contrario, per una teoria alla Gali, la memoria musicale, per esem -pio, non avrebbe alcun rapporto con la memoria per la matematica.

Sin qui, nulla di scandaloso. Di recente, concezioni analoghe, co-me vedremo, sono state proposte in modo molto autorevole. Il pro-blema, con Gali, fu il tentativo, in una dottrina detta frenologia, di combinare la psicologia delle facoltà con un'analisi neuro-anatomo-funzionale del cervello. Sosteneva Gali che ogni facoltà avesse una sua sede cerebrale specifica; di più, che l'esercizio di una facoltà (o anche una sua dotazione innata) comportasse uno sviluppo particola-re, in senso di accrescimento fisico, dell'area cerebrale relativa; di più ancora, che tale zona cerebrale quantitativamente accresciuta, pre-mendo contro la scatola cranica, la deformasse. La conseguenza sa-rebbe stata la presenza sulla scatola cranica di asimmetrie (le «boz-ze», quelle che nel linguaggio comune sono rimaste come «bernocco-li»: avere il bernoccolo della matematica, ecc.) che avrebbero con-sentito, da un'ispezione del cranio, la determinazione delle predispo-sizioni dell'individuo.

Questo aspetto dell'opera di Gali non venne mai accolto con particolare entusiasmo dalla comunità scientifica, ma ebbe di contro un notevole successo nell'opinione pubblica. La morte di Gali (nel 1827) scatenò i suoi nemici, e particolarmente accanito si dimostrò Flourens, nemico di ogni localizzazione cerebrale delle attività psi-chiche, che ebbe buon gioco nel ridicolizzare la frenologia di Gali. Purtroppo, in questo modo venne seppellito nel ridicolo anche quanto di buono Gali aveva detto - e non era poco! Si doveva attendere il 1861, quando Broca scoprì il centro cerebrale del linguaggio articolato (rilevando che chi aveva un certo tipo di lesione perdeva la capacità di articolare il linguaggio, pur conservando tutte le altre funzioni linguistiche, a cominciare dalla comprensione), perché il discorso della localizzazione cerebrale delle funzioni mentali potesse riaprirsi. Venivano così progressivamente individuati altri centri, la cui

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lesione corrispondeva alla perdita di altre funzioni mentali, del lin -guaggio (le cosiddette afasie), della rappresentazione cognitiva di co-se o eventi (le agnosie), della capacità pratica di compiere azioni, ser-vendosi o meno di utensili (le aprassie), ecc.

2.3. La misurazione dell'attività psichica: i tempi di reazione e la psi-cofisica

II tempo e la mente

Come si è detto, alla fine del XVIII secolo era comune l'opinio -ne (sostenuta anche da Kant) dell'impossibilità di una misurazione dei fatti psichici. Furono molti i tentativi di aggirare l'ostacolo, tra cui quello di Herbart, che cercò di creare un «calcolo» del mentale, con una «meccanica» (statica e dinamica) basata sulla forza relativa degli elementi psichici. Ma lo stesso Herbart [1824] riteneva che «la psicologia non può fare esperimenti con esseri umani, e non esistono apparecchiature adatte allo scopo».

Gli studiosi che aderivano alle posizioni materialistiche (in con-trapposizione con il vitalismo, che dominava a livello accademico) cercavano di vincere questo ostacolo, chiedendosi se all'attività psi-chica potesse corrispondere una qualche altra variazione rilevabile su base materiale. Così, una dimostrazione della «materialità dell'intel -letto» venne, ad esempio, data rilevando che nel sistema nervoso, durante lo svolgimento del fatto psichico, si produce calore [Schiff 1866]. E, secondo Herzen [1879], «un atto psichico è una forma di movimento e ogni atto psichico deve *>ere legato dunque alla pro-duzione di una certa quantità di calore perché sappiamo che qualsia-si forma di movimento è legata alla produzione di quella forma spe-ciale che dicesi calore...».

La dimostrazione della produzione di calore nel sistema nervoso durante l'attività psichica aveva un'importanza determinante, perché equivaleva alla rilevazione della modificazione di un parametro fisico, in relazione causale con lo svolgersi dell'attività psichica. Ora, la pro-duzione di calore come equivalente fisico era un parametro troppo grossolano, senza la sensibilità sufficiente a consentire di determina-re, in base alla sua variazione, le concomitanti variazioni nello svol -gersi dell'attività psichica. Ma in realtà, vi era un altro parametro fisico in rapporto causale con lo svolgersi degli eventi psichici che poteva essere, e veniva di fatto studiato, in quel periodo: il tempo. Non furono però gli psicologi ad occuparsene, ma gli astronomi [Sanford 1888; Ribot 1879, cap. Vili]. Occorre premettere che all'e-poca il passaggio degli astri veniva determinato con il metodo di Bradley, detto anche «occhio-orecchio». Sull'oculare del telescopio era applicato un retino, con un filo visibile al centro, e nella stanza vi era un pendolo che batteva i secondi. L'astronomo aveva come punto di riferimento il filo al centro. Egli doveva prestare attenzione

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al momento esatto in cui il corpo celeste osservato traversava questo filo, e apprezzare la sua distanza dal filo dal momento del battito del pendolo immediatamente precedente, e di quello immediatamente successivo l'attraversamento del corpo.

Il compito è tutt'altro che semplice, e oggi non ci meraviglierem-mo certo degli scarti che possono verificarsi tra osservatori diversi. A Maskelyne, direttore dell'osservatorio di Greenwich, dovette invece apparire scandaloso che, rispetto alle sue osservazioni, l'assistente Kinnebrook mostrasse un ritardo compreso tra i 500 e gli 800 ms. Il risultato fu il licenziamento del povero Kinnebrook [Maskelyne 17951. Nel 1816, questa vicenda venne incidentalmente a conoscenza di un altro astronomo, F.W. Bessel, di Kònigsberg. Egli allora si chiese se le rilevazioni effettuate dai più famosi astronomi erano con-cordanti, o di fatto differenti, e cominciò a confrontare i suoi tempi di rilevazione con quelli di altri famosi astronomi, come Walbeck, Struve, e soprattutto Argelander. Egli potè così vedere che di nor-ma, da un osservatore all'altro, si avevano differenze valutabili in me-dia sui 300 ms, che potevano giungere però sino ad 1 s. Inoltre, si avevano fluttuazioni a seconda del momento della giornata, dell'at-tenzione, di particolari condizioni psicofisiche, come la fatica, ecc. Ciò che comunque metteva in evidenza Bessel nelle sue pubblicazioni era l'esistenza di un fattore soggettivo, che influiva sul tempo della rilevazione. Tale fattore sarebbe stato chiamato, con un'espressione diventata subito popolarissima, equazione personale [Bessel 1822, iii ss.]. Come diceva Ribot [1879, 301], si cominciava a «misurare, nel -la sua durata e con le sue variazioni, con l'aiuto di strumenti esatti, lo stato specifico della coscienza».

Verso la metà dell'ottocento, altri studiosi, i fisiologi, si rivolsero alle ricerche cronometriche, per misurare la velocità di conduzione degli impulsi nervosi [per una rassegna, cfr. Buccola 1883, cap. III]. Occorre sapere che i vitalisti, con il grande fisiologo Johannes Miiller in testa, negavano la possibilità di misurare la velocità degli impulsi nervosi, assunta come pressoché infinita («Die Zeit... ist unendlich klein und unmessbar» [1844, 583]), ma erano sempre più numerosi i fisiologi della nuova generazione, in larga parte suoi allievi (come i «quattro grandi», C. Ludwig, E. du Bois-Reymond, E. Briicke e H. von Helmholtz, che stipularono un famoso «patto» antivitalistico) che rifiutavano l'imposizione di questo limite, e ritenevano possibile una misurazione. Questa fu realizzata, con il ricorso alla cronometria, da Helmholtz [1850-52]. Egli utilizzava un preparato muscolo-nervoso del gastrocnemio di rana, e stimolava il nervo a diverse distanze, misurando il tempo che intercorreva tra la stimolazione e la contra-zione. Le stime ottenute da Helmholtz sono tra i 26,4 e i 27,25 ms. Si dimostrò così che la conduzione richiedeva un tempo definito e misurabile con ragionevole precisione.

Un passo avanti si ebbe con Exner [1873]. Questi - a cui si deve l'espressione ancor oggi in uso di «tempo di reazione» (prima si parlava di «tempo fisiologico») - misurava le diverse durate che si

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avevano tra la stimolazione della cute del soggetto con corrente fara -dica in un certo punto del corpo (per esempio, il piede), e in un altro punto del corpo (per esempio, la mano). Egli assumeva una velocità di transito dell'impulso nervoso nei nervi periferici pari a 62 ms. Inoltre computava le differenze di tempo di reazione tra la sti-molazione sul piede (distante di media 130 cm dal midollo: 174,9 ms) e sulla mano (distante 98 cm: 128,3 ms). Infine, tenuto conto che a livello di midollo spinale la distanza tra i punti di afferenza dei nervi provenienti dalla mano e dal piede è di 33 cm, ricavava una velocità nell'attraversamento del midollo di 7,97 ms.

L'analisi di Exner, che pure aveva rilevato l'influenza di fattori di vario ordine sui tempi di reazione (come l'attenzione, l'età, l'alcool, ecc), rimaneva comunque a livello prevalentemente fisiologico, e ben poco concedeva allo «psichico». In realtà, però, una decina d'anni prima un grande ricercatore olandese, Frans Cornelis Donders, assie-me al suo allievo Johann Jacob De Jaeger, aveva compiuto a Utrecht il passo decisivo, creando quel metodo sottrattìvo, che Wundt avrebbe poi impiegato largamente a Lipsia, come strumento fondamentale, a fianco dell'introspezione, per l'analisi della vita psichica.

Secondo Donders, gli esperimenti del tipo di quelli di Helmholtz sulla velocità degli impulsi nervosi erano criticabili. Egli infatti ritene-va che la stimolazione in punti diversi, e con intensità presumibil -mente anche diversa (non essendo controllabile con esattezza), pote-va dar luogo a processi mentali differenti, a cui potevano quindi es-sere attribuite le differenze tra i tempi. Di qui, l'idea di controllare piuttosto la complessità dei processi mentali facendo ricorso a misu-razioni differenziali dei tempi necessari allo svolgimento di processi mentali di diversa complessità. Se .' atti complichiamo il compito che il soggetto deve eseguire, la differenza tra i tempi di reazione semplici e quelli composti (come verranno chiamati quelli che metto-no in gioco processi mentali complessi) ci darà una misura oggettiva e quantitativa degli ulteriori processi mentali in gioco. In questo con-siste il metodo della sottrazione creato da Donders e poi largamente applicato negli anni seguenti nei laboratori di psicologia, particolar-mente in quello di W. Wundt a Lipsia.

Donders individuò tre tipi fondamentali di tempo di reazione. I tempi a, semplici, corrispondono a una situazione in cui a uno sti-molo deve seguire una risposta. I tempi b, composti, consistono in una situazione nella quale al soggetto viene somministrato uno stimolo scelto in un insieme di due o più stimoli prefissati; il soggetto deve a sua volta fornire delle risposte differenziate a seconda dello stimolo che gli è stato presentato. I tempi e, anch'essi composti, si hanno con la somministrazione di uno stimolo da un insieme prefis-sato di due o più stimoli, come nel caso precedente; in questo caso, però, il soggetto deve rispondere a uno solo degli stimoli. I risultati dimostrano che i tempi a sono più brevi, seguono i tempi e, e infine i tempi b, che sono i più lunghi di tutti. Per sottrazione, la differen-za tra « e e indica la lunghezza del processo mentale necessario a

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discriminare tra stimoli. La differenza tra e e b indica invece la lun-ghezza del processo mentale necessario a discriminare tra risposte.

Per la prima volta, così, a dei processi mentali veniva fatta corri-spondere una misurazione oggettiva in termini di parametri fisici. La semplicità e l'eleganza del metodo lo fecero rapidamente imporre. Donders, invece, non proseguì a lungo in questo ordine di studi. Le idee alla base di questi esperimenti cominciarono a nascere in lui verso il 1850. I primi esperimenti sono del 1862. Nel 1865 pubblicò un primo lavoro e presentò con l'allievo De Jaager una comunicazio-ne in proposito all'Accademia Reale delle Scienze, comunicazione che De Jaager [1865] sviluppò poi in una sua dissertazione, poco nota, e solo recentemente tradotta in inglese [Brozek e Sibinga 1970]. Infine nel 1868 Donders pubblicò il suo lavoro complessivo sull'argomento.

È interessante rilevare che a pochi anni dalla morte di Donders il suo nome scomparve quasi del tutto dalla storia della psicologia. Anche sfogliando i manuali di storia della psicologia, almeno sino a qualche tempo fa, le citazioni del suo nome sono sbrigative (quando non del tutto assenti) e associate quasi sempre a Wundt. I tempi di reazione sarebbero stati confinati nei gabinetti di psicotecnica, come prova cosiddetta psicoattitudinale, assieme a batterie di altre prove di performance, o carta-matita, per la selezione e l'orientamento di particolari categorie di lavoratori. Solo negli anni della seconda guer-ra mondiale, con Craik, e soprattutto nel dopoguerra, con il nascere e l'affermarsi della psicologia cognitivista, ne sarebbe stata riscoperta l'importanza.

La psicofisica

La misurazione dei fatti psichici avveniva negli stessi anni a par-tire da una prospettiva affatto diversa, con la simultanea nascita della psicofisica. Anche in questo caso sarebbe stato uno scienziato prove-niente da un settore apparentemente lontano dalla psicologia a farsi iniziatore di questo campo di indagini, tuttora oggi vivissimo: il fisi -co Gustav Theodor Fechner [1860].

Professore a Lipsia dal 1834 al 1839, Fechner era stato un fisico di rilievo nella prima metà del secolo. Una grave malattia agli occhi (che si era provocato fissando imprudentemente a lungo il sole per studiare le immagini postume retiniche) lo costrinse per lunghi anni all'inattività e all'oscurità. In questo periodo, Fechner, influenzato anche dalla filosofia indiana, sviluppò una sua dottrina filosofica, che aveva anche degli aspetti mistici che oggi ci appaiono irrimediabil-mente datati, ma che all'epoca (ricordiamo che un suo contempora-neo era, per esempio, Schopenauer) presentavano un indubbio fasci-no. Volendo schematizzare, possiamo dire che Fechner [1851] rite-neva che l'«anima» fosse una caratteristica derivante dall'organizza-zione della materia, e che quindi ogni materia, per quanto semplice,

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ne fosse dotata. Non solo, quindi, gli uomini e gli animali, ma anche le piante, e il mondo inorganico, e i sistemi in cui questo si organiz-za, dai pianeti alle pietre.

In un sistema come questo, avrebbe acquistato enorme rilievo la possibilità di determinare una relazione esprimibile in forma mate-matica chiara, di valore universale, che riuscisse a mettere in relazio ne stabile il mondo dello spirito con quello della materia. Una relazione del genere avrebbe avuto per Fechner la stessa importanza della legge di Newton sulla gravitazione universale, o quella di Coulomb sulle cariche elettriche. E fu una tale legge che Fechner ritenne di aver trovato, derivandola da una relazione scoperta qualche decennio prima dal fisiologo e anatomista Weber.

Nel 1834, infatti, Weber, studiando il tatto e l'udito, aveva fatto una scoperta che avrebbe poi avuto una notevole importanza per gli sviluppi futuri della psicologia (alla quale, peraltro, Weber non pen-sava minimamente). Egli aveva rilevato che se si presenta a un sog-getto in una certa modalità sensoriale (tatto, udito, vista, ecc.) uno stimolo di una data intensità R, e si cerca poi di vedere di quanto questo stimolo deve essere fatto variare perché il soggetto percepisca l'avvenuta variazione, questa differenza appena percepibile (AR) non è costante, ma dipende dal valore iniziale di JR. Di fatto, quello che è costante è il rapporto K (detto costante di Weber) tra AR e R:

v .. ARK ~ X

In altri termini, se partiamo da uno stimolo di intensità poniamo 10, e se per poterne apprezzare la variazione dobbiamo portarlo da 10 a 11 (AR = ì, K = 0,1), con lo .isso tipo di stimolo partendo da 20 dovremo aumentarlo di 2, da 3u di 3, e così via.

L'idea di Fechner fu di non considerare una scala discreta di intervalli percepibili tra intensità di stimoli, ma di vedere come pote-va variare la sensazione S al variare continuo dell'intensità della sti-molazione. Il risultato è la famosa legge di Fechner:

S = | l o g R + C

dove C è la costante di integrazione. In altri termini, secondo questa legge la sensazione si accresce con il logaritmo dell'intensità dello sti-molo. Possiamo subito dire che le ricerche condotte su tutte le mo-dalità sensoriali hanno potuto dimostrare la validità della legge di Fechner a un livello di approssimazione decisamente soddisfacente, salvo che per i valori più alti e più bassi delle scale di intensità.

Indipendentemente dalle concezioni filosofìche misticheggianti di Fechner, si può affermare che con la formulazione di questa legge Fechner apriva un capitolo di notevole rilievo della scienza moderna, quello della psicofisica, che avrebbe dato luogo poi a un numero rile-vantissimo di applicazioni, dal campo industriale a quello medico,

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ecc. Solo per fare un esempio, si pensi che la scala più in uso delle intensità del suono, la scala dei decibel (dB), è una scala appunto logaritmica, basata sulla legge di Fechner.

Un compito che si pose immediatamente la psicofisica consistette nel determinare per le varie modalità sensoriali il valore della costante di Weber, e i valori minimi e massimi di intensità degli stimoli che potessero essere percepiti. Queste determinazioni vengono dette valori di soglia, rispettivamente differenziale e assoluta. La soglia differenziale è in pratica quello che sopra abbiamo indicato con il simbolo AR: possiamo dire che questo è lo scarto di valore che consente di percepire il 50% delle volte il cambiamento di intensità di uno stimolo. Da questo si giunge poi alla costante di Weber per la modali tà sensoriale data. Per soglia assoluta si intende invece il valore di uno stimolo che ne consente in assoluto la percezione il 50% delle volte. Si distingue una soglia inferiore (il valore minimo) da una su-periore (il valore massimo): si osservi infatti che stimoli eccessiva-mente intensi possono non essere più percepiti, o a volte essere per-cepiti come appartenenti a un'altra modalità sensoriale: per esempio, quando un suono è troppo intenso da luogo a una percezione non più acustica, ma dolorifica.

Prima di chiudere il paragrafo, vale la pena di ricordare che, malgrado la generale soddisfazione per la buona approssimazione dei dati empirici alla legge di Fechner per i valori intermedi delle scale di intensità, gli psicofisici hanno più volte tentato di superare questa formulazione, ritenuta non del tutto soddisfacente. Sono stati soprat-tutto tre gli approcci di rilievo seguiti, sui quali non potremo dare che pochi cenni schematici: la teoria del livello di adattamento (TLA) di Helson [1964], la teoria della detezione del segnale (TDS) di Green e Sweets [1966] e la cosiddetta nuova psicofisica di S.S. Stevens [1951].

In due parole, la teoria del livello di adattamento afferma che la sensazione non può essere rilevata in astratto, indipendentemente dalla storia (recente) della stimolazione a cui è stato sottoposto un soggetto in quella modalità sensoriale. Così, se il soggetto ha avuto prima dell'esperimento (o nella parte iniziale di questo) un'esposizio-ne a stimoli molto intensi, tenderà a ritenere meno intensi degli sti -moli di valore medio che gli dovessero essere presentati; e viceversa, se il soggetto è stato sottoposto a stimoli di debole intensità, tenderà a valutare come più intenso lo stimolo di valore intermedio. In altri termini, l'esposizione crea un certo livello d'adattamento, e il giudi -zio (la sensazione) viene formulato non in astratto, ma in riferimento a questo livello.

La teoria della detezione del segnale è invece un tentativo di ap-plicare alla psicofisica la teoria della decisione statistica. Per spiegare di cosa si tratta è opportuno fare un breve esempio. Immaginiamo di trovarci in una situazione di determinazione della presenza o del-l'assenza di uno stimolo (un segnale) rispetto a un rumore di fondo (l'espressione «rumore» va utilizzata per ogni modalità sensoriale,

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non solo uditiva). Il soggetto ha così un compito di rilevazione {de-tection: di qui il brutto anglismo «detezione», ormai purtroppo entra-to nell'uso) consistente nell'affermare o meno l'esistenza del segnale. Gli si presentano così quattro possibilità: dire sì, il segnale esiste, quando questo esiste realmente (hit, H); dire sì, il segnale esiste, quando vi è solo rumore di fondo (falso allarme, FA); dire no, il segnale non esiste, quando questo esiste realmente (omissione, O); dire no, il segnale non esiste, quando questo non esiste realmente (rifiuto corretto, RC). Ora, la TDS (e un significato analogo ha la cosiddetta teoria della scelta di Luce [1959]) consente di distinguere, dal rapporto tra questi quattro tipi di risposte, due fattori che inter-vengono nel processo di rilevazione: il primo legato alla sensibilità del sistema (che viene espresso con l'indice statistico d'), il secondo legato al criterio soggettivo impiegato nel compito, e consistente nell'avere un atteggiamento più d'azzardo (gambler) o più prudente {conser-vative). Chi azzarda, infatti, preferirà fare più H che RC, ma in que -sto modo aumenterà anche il numero degli FA; chi è prudente, cer-cherà soprattutto gli RC, ma questo lo porterà ad aumentare le O. Anche per il criterio è possibile calcolare un indice statistico, che viene chiamato beta.

Un esempio convincente possiamo averlo pensando a un opera-tore radar di una base militare, che debba distinguere su uno scher -mo se la scintilla che ha visto apparire è solo rumore di fondo, o una nave nemica in avvicinamento. Evidentemente, la sua decisione sarà molto più azzardata se penserà che la base può avere a disposi -zione un numero illimitato di proiettili, mentre sarà assai più pru-dente se è rimasto un unico proiettila e non ci si può permettere di sbagliare. Secondo i teorici della TDu-alla psicofisica classica è sfug-gito il fatto che sensibilità e criterio sono sempre profondamente in-terconnessi, per cui essa, non distinguendo tra questi due fattori, ha sempre attribuito alla sola sensibilità risultati che andavano viceversa interpretati in modo più complesso.

Giungiamo infine alla nuova psicofisica di S.S. Stevens, forse il più grande teorico della misurazione di questo secolo, anche al di là dell'ambito strettamente psicologico. Secondo Stevens i metodi che si usano nella psicofisica classica non riescono a giungere direttamente al giudizio sensoriale del soggetto. Dei metodi di rilevazione diretta (e vedremo quali sono quelli che egli suggerisce) permettono di rilevare che la funzione che meglio descrive il rapporto tra giudizio sensoriale (Y) e intensità di stimolazione I è una funzione potenza, della forma

Y = kr,

dove k e n sono costanti che dipendono dal tipo di stimolo prescelto. TLA, TDA e la nuova psicofisica di Stevens sono comunque tutti

sviluppi di questo secolo. È invece opportuno che riprendiamo il discorso da dove lo avevamo cronologicamente interrotto: la nascita

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«ufficiale» della psicologia scientifica nel laboratorio di Wundt a Lipsia.

2.4. La psicologia scientifica e il laboratorio

Energia nervosa specifica e inferenza inconscia

Si afferma solitamente che la data di nascita della psicologia scientifica è il 1879, data in cui Wilhelm Wundt, padre indiscusso della psicologia moderna, fondò il primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia. Ora, se tutte le date di questo tipo sono arbi-trarie, perché tracciano una cesura in un processo che certamente è iniziato prima, questa in particolare è stata oggetto di numerose criti-che. Questo «primo» laboratorio, infatti, era stato preceduto certa-mente da altri laboratori, in cui, come del resto abbiamo visto, mol-tissimi studiosi, da Donders a Fechner a Exner a Helmholtz, allo stesso Wundt, avevano condotto ricerche di psicologia sperimentale. Si dice che il laboratorio di Wundt sia stato il primo propriamente psicologico in una sede universitaria, ma anche questo è vero solo in parte. Il laboratorio nacque come istituzione privata, finanziata dallo stesso Wundt, e passò formalmente all'università solo nel 1881. Di più, la cattedra nel cui ambito operava era di Filosofia, e non di Psicologia [Bringmann, Balance e Evans 1975]. Peraltro, se vogliamo dire che con il laboratorio di Wundt a Lipsia la psicologia ricevette una sorta di consacrazione ufficiale, in termini di riconoscimenti for -mali da parte della comunità scientifica, e in termini di diffusione di quanto la psicologia andava producendo, allora questa data va consi-derata legittimamente la data di nascita ufficiale della psicologia scientifica.

Ma chi era Wundt? Il suo albero «genealogico» scientifico ci porta veramente alle radici della nascente scienza psicologica. Si trat ta di un filo diretto che va dal grande neurofisiologo Johannes Mùl-ler, al suo allievo fisiologo e fisico Hermann Helmholtz, all'allievo di questi, infine, Wilhelm Wundt. Dei primi due abbiamo in parte già parlato nel paragrafo precedente. Vale comunque la pena di spende-re qualche parola ancora, per inquadrare meglio la figura di Wundt che qui più ci interessa.

Johannes Miiller, lo abbiamo ricordato, era un vitalista. Egli enunciò peraltro un principio che era almeno in parte incompatibile con un credo vitalista (anche se presumibilmente non se ne rese con-to): il principio dell'energia nervosa specifica [Miiller 1827; 1840; per la rilevanza del principio per la nascente psicologia, cfr. Romano 1990].

Il principio dell'energia nervosa specifica afferma che la natura degli impulsi che un nervo trasmette ai centri nervosi che ha a valle (per esempio, gli impulsi che un nervo sensoriale trasmette dai recet-tori periferici al cervello) non dipende dalla natura dell'agente che ha

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dato origine alla stimolazione, ma da quella del nervo in questione. Questo in pratica significa che, per esempio, il nervo ottico trasmette sempre al cervello impulsi visivi, anche se è stato stimolato meccani-camente, o elettricamente; e lo stesso dicasi per il nervo acustico, ecc.

Nelle mani di Helmholtz [1863; 1867], questo principio fu negli anni sessanta alla base della psicologia della percezione, e soprattutto alla base di due teorie, una visiva e una acustica, che ancor oggi conservano gran parte del loro valore: la teoria della percezione del colore e quella della percezione delle altezze tonali. In breve, Helm-holtz (come mezzo secolo prima di lui aveva detto, più a livello in-tuitivo che sostanziale, l'inglese Thomas Young) sosteneva che la percezione del colore derivava dall'esistenza nella retina di tre tipi di coni, cellule sensibili alla lunghezza d'onda della luce (ricordiamo ra-pidamente che i recettori retinici sono più in generale di due tipi: i coni, appunto, molto addensati centralmente, responsabili della visio -ne diurna, o fotopica, e della percezione cromatica; e i bastoncelli, più diffusi alla periferia della retina, responsabili soprattutto della vi-sione notturna, o scotopica, e incapaci di distinguere i colori).

Secondo Helmholtz, i coni si dividevano in tre categorie, in base alla loro sensibilità a tre colori, rosso, blu, violetto. Come nella stampa a colori cosiddetta in tricromia, in cui dalla mescolanza in proporzioni opportune di soli tre pigmenti colorati opportunamente scelti possono ottenersi tutti i colori rimanenti, così, secondo Helmholtz, la mescolanza in proporzioni opportune degli impulsi provenienti dai coni dei tre tipi suddetti avrebbe portato alla percezione dei colori di tutti gli altri tipi. È qui evidente l'influenza del principio dell'ener -gia nervosa specifica: le cellule dei t-- tipi possono rispondere solo nei termini del tipo di impulsi a cui ^-no specificamente deputate. È anche evidente come questa teoria possa poi spiegare adeguatamente i deficit di percezione cromatica, o discromatopsie. Per esempio, nel cosiddetto daltonismo (l'incapacità di distinguere il rosso dal verde -il nome deriva da quello del celebre chimico inglese Dalton, che ne era affetto, e che un secolo prima di Helmholtz formulò una teoria della percezione cromatica che anticipava molti elementi della teoria di questi), è l'assenza congenita delle cellule preposte alla percezione del rosso che porta all'incapacità di distinguere questi colori.

E sempre al principio dell'energia nervosa specifica si richiama la teoria della percezione dell'altezza tonale, che pure conserva tut-tora una sua parziale validità. Ricordiamo brevemente che i recet -tori sensibili all'altezza tonale si trovano nell'orecchio interno, nella chiocciola, entro il cosiddetto organo di Corti, al cui interno vi so -no le cellule ciliate, impiantate lungo tutto questo dotto su una membrana basilare, e dotate all'estremità opposta di ciglia che si inseriscono su un'altra membrana, detta tettoria. Il suono giunge a quest'organo trasmesso meccanicamente dal timpano alla catena de-gli ossicini, e di qui alla finestra ovale, che imprime un moto a un liquido che rempie tutto l'orecchio interno. Ora, si badi che a se-

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conda dell'altezza del tono, l'onda sonora avrà una diversa frequen-za, maggiore per i toni più acuti, minore per i toni più bassi. Questa frequenza si traduce in oscillazioni di corrispondente fre-quenza diversificata del liquido endococleare; queste oscillazioni si trasmettono alla membrana basilare, e ciò produce un movimento delle cellule ciliate, con conseguente stiramento delle ciglia, che si traduce in impulso nervoso.

Ora, la teoria di Helmholtz affermava che in base al principio dell'energia nervosa specifica, ogni cellula ciliata trasmetteva informa-zioni relative a una data altezza tonale. Il meccanismo era reso effi-ciente dal fatto che, a seconda dell'altezza del suono che giungeva all'orecchio, l'oscillazione della membrana basilare era massima in punti diversi della coclea (precisamente verso la base per i suoni acuti e verso il vertice per i gravi). E proprio verso la base sarebbe -ro state presenti le cellule ciliate responsabili della trasmissione degli impulsi relativi ai suoni più acuti, e verso il vertice quelle dei suoni gravi.

A parte queste due teorie, che vanno tenute presenti se non altro per il grande ruolo che hanno esercitato sullo sviluppo delle ricerche nei settori corrispondenti, Helmholtz va comunque ricordato come uno dei più conseguenti teorici empiristi della percezione. Tutt'oggi vi sono importantissimi teorici della percezione che, come Julian Hochberg [per esempio, 1978], si riferiscono esplicitamente alla sua teoria. E più in generale, neohelmholtziani vanno più o meno consi-derati tutti i teorici, specie in ambito cognitivista (cfr. infra), che ab-bracciano teorie di tipo costruttivistico raziomorfo, invocando cioè nell'attività percettiva una preventiva analisi di ciò a cui potrebbero probabilisticamente corrispondere gli stimoli in arrivo all'organismo, in base all'esperienza passata, o ritenendo il compito percettivo assi-milabile a un'attività di problem solving. Molto noto, anche per le sue capacità di grande divulgatore, è tra i sostenitori attuali di que-sto modo di vedere le cose l'inglese Richard Gregory [1970]. È evi-dente che le concezioni helmholtziane sono state criticate da chi ipo-tizza dei principi organizzativi strutturali innati della percezione; tra i contemporanei di Helmholtz, il compito di controbattere quasi su ogni punto le idee che esprimeva venne assunto da un grande psico-fisiologo praghese, Ewald Hering. In questo secolo, come vedremo, fu soprattutto la psicologia della Gestalt ad opporsi all'ancora vivissi-ma influenza helmholtziana.

Ma cosa diceva Helmholtz di così grave per i suoi awersari? L'idea alla base della sua teoria della percezione era tutto sommato relativamente semplice [Helmholtz 1878]. Egli sosteneva che l'e-sperienza passata fa sì che si tenda a correggere le percezioni at -tuali attraverso un atto di giudizio, una vera e propria inferenza in-conscia che ognuno di noi inconsapevolmente compie di fronte a una percezione.

Un esempio che ben chiarisce questo modo di vedere le cose è dato dalle cosiddette costanze percettive. È evidente che nella nostra

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percezione visiva ciò che abbiamo direttamente a disposizione è il cosiddetto stimolo prossimale, e cioè l'immagine che la luce riflessa dalla superficie degli oggetti che ci circondano proietta sulla nostra retina. Non abbiamo però accesso allo stimolo distale, e cioè alla lu-ce riflessa, né tanto meno all'oggetto riflettente. A questo (alla sua forma, grandezza, colore) risaliamo solo sulla base dello stimolo prossimale.

Ora, lo stimolo prossimale varia continuamente, in base alla legge della geometria proiettiva, al variare della posizione reciproca tra l'osservatore e l'oggetto osservato. Solo per fare un esempio, l'imma-gine di un oggetto si rimpicciolisce quando l'osservatore se ne allon-tana, e si ingrandisce al suo avvicinarsi. E anche la forma cambia: un cerchio (o un quadrato) proietta un'immagine circolare solo se pre-sentato all'osservatore su un piano frontoparallelo, altrimenti sarà sempre un'ellisse (e, rispettivamente, un trapezio). Eppure noi non vediamo gli oggetti ingrandirsi e rimpicciolirsi, li vediamo sempre della stessa grandezza, ma a distanze diverse; non vediamo i cerchi farsi ellissi e i quadrati trapezi: seguitiamo a vederli come cerchi e quadrati, ma inclinati.

Questo fenomeno, noto appunto come costanza, è tuttora lungi dall'essere chiaro: come vedremo, in questi ultimi anni i sostenitori della psicologia cosiddetta ecologica hanno tentato di darne un'inter-pretazione rivoluzionaria. L'interpretazione di Helmholtz era peraltro semplice: la costanza percettiva è un tipico esempio di inferenza in-conscia. Il sistema percettivo, in base all'esperienza passata, compie una sorta di ragionamento inconsapevole, per cui, per restare nell'e-sempio, quando vede un oggetto e sa che questo è lontano, corregge inconsapevolmente la grandezza pe /pita ingrandendola; e quando sa che è vicino, rimpicciolendola. E Vosi via.

Wilhelm Wundt

La formazione di Wilhelm Wundt si svolse in questa tradizione teorica e sperimentale. Allievo di Helmholtz a Heidelberg, ne fu assi-stente sino al 1874, anno in cui andò come professore di Filosofia induttiva a Zurigo, per spostarsi l'anno successivo presso la cattedra di Filosofia di Lipsia, posizione che occupò per il resto della sua vita accademica. Morì nel 1920, a 88 anni, nel pieno ancora di una pro-duzione scientifica rimasta inuguagliata anche per estensione quanti-tativa.

Fisiologo di formazione, e filosofo per destino accademico, Wundt chiamò il suo sistema psicologia fisiologica [1873-74; 1896], espressione per lui virtualmente sinonimica di psicologia sperimentale. Si badi, però, che l'aggettivo fisiologico non rimandava assolutamente a una considerazione dei processi fisiologici che si svolgono nell'orga-nismo in corrispondenza dell'attività psichica. Era psicologia fisiologi-ca, in quanto, per Wundt, da un lato utilizzava lo stesso metodo

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scientifico naturalistico della fisiologia (salvo, come vedremo, il rivol-gersi all'esperienza diretta, e non indiretta); e dall'altro, in quanto si rivolgeva alla fisiologia, e non alla patologia, della vita psichica: all'at-tività normale, e non alle sue disfunzioni.

L'oggetto di studio della psicologia era per Wundt l'esperienza diretta, o immediata. Le scienze naturali studiano invece l'esperienza mediata. Un esempio chiarirà questa distinzione cruciale. Il fisico, come il biologo, o il fisiologo, e così via, osserva degli eventi che si verificano nella natura, ma l'oggetto del suo studio non è l'osserva-zione di questi eventi, bensì l'oggetto della sua osservazione, sia compiuta direttamente attraverso i sensi, sia ulteriormente mediata da uno strumento. Se un fisico vuole determinare i rapporti che in -tervengono tra, poniamo, massa e volume di un certo corpo, ciò che costituisce l'oggetto del suo studio non è l'apprezzamento immediato della massa e del volume, ma la massa e il volume che sono stati apprezzati. Se un chimico osserva il colore che si produce in una reazione chimica, l'oggetto del suo studio non è la percezione del colore, ma il colore percepito. Di contro, la percezione del colore è proprio lo specifico oggetto di studio dello psicologo.

Il metodo privilegiato per rilevare l'esperienza immediata sarà al-lora Xintrospezione. Solo attraverso l'introspezione, infatti, l'individuo può essere in grado di rilevare cosa avviene nel momento in cui im-mediatamente esperisce la realtà. Ma l'introspezione presenta, e di questo Wundt è perfettamente consapevole, anche delle difficoltà. In primo luogo, l'introspezione, per sua natura, altera i suoi contenuti. È questa, si direbbe oggi, una sorta di «indeterminazione» della perce-zione. I contenuti di coscienza sono gli stessi in presenza e in assenza di un atto di introspezione? È impossibile saperlo, perché si dovrebbe essere consapevoli degli stati di coscienza in assenza di introspezione, il che per definizione è impossibile.

Ma vi è di più: nessuno può constare quello che consta agli altri. Come possiamo sapere qual è il reale contenuto di coscienza corri -spondente al resoconto verbale di un soggetto? Se questi mi dice di vedere un quadrato, come posso sapere che non stia di fatto veden-do qualcosa di affatto diverso? Entrambi i problemi apparivano inso-lubili. In realtà, e fu questa la soluzione geniale di Wundt, entrambi potevano essere risolti, solo che si applicasse alla psicologia il metodo sperimentale. Infatti, il metodo sperimentale consente di determina-re, come vedremo nella seconda parte del capitolo, come varia la variabile dipendente al variare di quella indipendente. Ora, quello che conta è cogliere la variazione, che si assume non sia influenzata né dalla presenza dell'atto di introspezione, né dall'eventuale diffe-renza di contenuti di coscienza tra soggetti. Di più, quest'ultimo fat-tore può essere ulteriormente minimizzato, solo che i soggetti siano quanto più possibile prossimi socioculturalmente agli sperimentatori. E non per nulla, nel laboratorio di Lipsia, soggetti e sperimentatori finivano molto frequentemente per coincidere.

Su queste basi, Wundt elaborò una complessa teoria in cui, mol-

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to schematicamente, il processo psicologico poteva essere visto arti-colato in tre fasi: la prima, quella della percezione, consisteva in un processo attraverso cui le sensazioni, che avevano impressionato gli organi di senso, si presentavano in quanto tali alla coscienza; la se-conda, detta appercezione, consisteva in un processo attraverso cui, con un atto di sintesi creatrice, gli elementi delle sensazioni venivano identificati e organizzati in complessi; la terza, detta volontà di reazio-ne, consisteva in un processo attraverso cui, grazie anche all'interven-to dei processi volitivi, si giungeva all'azione. Trascuriamo qui altri aspetti della teoria di Wundt, come la sua teoria dei sentimenti e delle emozioni, o come le sue ricerche, sviluppatesi particolarmente negli ultimi vent'anni della sua vita, sulla «psicologia dei popoli» [1900-1909], forse qualcosa di più prossimo all'odierna antropologia culturale, più che alla psicologia sociale.

A fianco dell'introspezione, il metodo più usato nel laboratorio di Wundt fu certamente quello dei tempi di reazione. In particolare, furono i Lange, allievi di Wundt, a sviluppare il metodo sottrattivo di Donders, che sembrò per un certo periodo particolarmente adatto a verificare la teoria di Wundt. Peraltro, gli esperimenti di Wundt e dei suoi allievi sui tempi di reazione composti sono stati un fallimen-to - e su questo non solo gli storici della psicologia sono tutti sostan-zialmente d'accordo, ma lo stesso Wundt doveva almeno in parte convenirne, abbandonando a un certo punto questa linea di indagi-ne. Il giudizio negativo fu tra l'altro abbastanza precoce; già nel 1893 Kùlpe criticava radicalmente questa linea di ricerca.

Ma perché la scuola di Wundt fallì così clamorosamente nel ten-tativo di proseguire le ricerche sui tempi di reazione composti? Pos-siamo rispondere dicendo che Wundt, entusiasta della tecnica sot-trattiva di Donders, commise un errore metodologico nel forzarla per adattarla alla sua teoria. Cioè, si direbbe oggi, le conferme così ottenute alle sue ipotesi erano infalsificabili. Un esempio ci aiuterà a capire come. In uno dei più famosi esperimenti condotti a Lipsia, L. Lange [1888] aveva dimostrato che in un compito di tempo di rea-zione semplice, se il soggetto aveva l'istruzione di prestare attenzione allo stimolo, mostrava un tempo di reazione più lungo che se avesse avuto l'istruzione di prestare attenzione alla risposta. Sulla base della teoria di Wundt, si dedusse che nel primo caso lo stimolo veniva appercepito, mentre nel secondo solo percepito. Per sottrazione, la differenza tra i due tempi (fissata in 1/10 di secondo circa) doveva corrispondere al tempo di appercezione.

È evidente che per trarre questa conclusione è indispensabile ga-rantirsi dal fatto che il mutato atteggiamento del soggetto, indotto dalle istruzioni, non alteri qualitativamente la serie di operazioni mentali che devono essere compiute. Proprio su questo si fondava la critica di Kùlpe: nulla ci dice che nel secondo caso di Lange il sog-getto compie solo un'operazione mentale in meno, quella dell'apper-cezione, che nel primo caso. Di fatto, ha di fronte un compito diver -so. Lange non aveva fatto altro che dimostrare l'importanza dell'at-

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teggiamento (del set, come si preferisce dire oggi) nell'esecuzione di un compito.

Lo strutturalismo

La psicologia di Wundt viene spesso detta strutturalismo, mentre è più appropriato chiamarla psicologia fisiologica. Il termine struttu-ralismo (da non confondere con tutte le concezioni strutturaliste che hanno preso piede in altri settori del sapere nel corso di questo se-colo, dalla linguistica di Saussure all'antropologia culturale di Lévy-Strauss) venne invece coniato, in un famoso articolo, da quello che è stato indubbiamente il più fedele allievo di Wundt, e propugnatore delle sue idee negli Stati Uniti, lo psicologo di origine inglese Ed-ward B. Titchener [1898].

Per Titchener, lo «scopo primario dello psicologo sperimentale è quello di analizzare la struttura della mente [...] il suo compito è la vivisezione, ma una vivisezione che darà risultati strutturali, non fun-zionali». Il metodo usato è ancora una volta quello dell'introspezio-ne, ma l'addestramento che Titchener richiedeva ai suoi soggetti era particolarmente rigoroso. Infatti, secondo Titchener [1896], il compi-to fondamentale della ricerca era isolare i singoli elementi che vengo-no a comporre gli stati di coscienza. Iniziava così un lavoro minuzio-sissimo di analisi, che avrebbe portato a isolare migliaia e migliaia di elementi sensoriali che potevano venire isolati come momenti di co-scienza non ulteriormente riducibili.

Un concetto fondamentale elaborato da Titchener è quello di er-rore dello stimolo. Con questa espressione, egli intendeva l'errore che commette il soggetto quando, nell'analizzare la propria esperienza di-retta, scambia gli elementi sensoriali primari con quella che è la loro associazione dovuta all'esperienza; scambia gli oggetti con gli elementi che li costituiscono. Va rilevato che il concetto di errore dello stimolo sarà poi ampiamente sviluppato nell'ambito della psicologia della Gestalt, particolarmente da Wolfgang Kòhler, che attribuirà però a questa espressione un significato esattamente opposto: l'errore di scambiare l'esperienza percettiva con le caratteristiche degli stimoli che la costituiscono.

Dalla sua cattedra di Cornell, Titchener esercitò per più di un trentennio (morì nel 1927) un dominio assoluto su buona parte della psicologia americana. Alla sua morte, nell'arco di poco più di un an-no, la scuola strutturalista si dissolse completamente, a dimostrazione del fatto che i tempi erano, e da diversi anni, cambiati, e solo la straordinaria personalità del suo leader riusciva a tenerla apparente-mente ancora in vita.

Evoluzionismo e funzionalismo

Nel suo definire natura e compiti dello strutturalismo, Titchener

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non svolgeva solo un ruolo definitorio, ma aveva anche degli obiettivi polemici. Il principale era indubbiamente quello di una psicologia «funzionale» e «descrittiva», non interessata alla struttura della men-te, ma alle funzioni che questa svolge. Era infatti da questa direzione che provenivano, in Europa e in America, i più robusti attacchi alla psicologia wundtiana. In Europa sarebbe stata soprattutto l'opera di Franz Brentano ad aprire le prime brecce nella costruzione struttura-listica, sul versante soprattutto descrittivo, come vedremo nel pros-simo paragrafo. In America, sarebbe stato particolarmente William James e la scuola che da lui derivò, il funzionalismo.

È curioso che in questo caso il nome alla scuola non sia stato dato dal suo fondatore, ma paradossalmente proprio da Titchener, il suo principale avversario, nell'articolo del 1898 sopra citato, in cui per la prima volta si parlava appunto di psicologia funzionale. Sareb-bero comunque stati due seguaci di James, John Dewey, in un famo-so articolo del 1896, e James Rowìand Angeli, in un altro famoso articolo del 1907, a definire i termini della nuova scuola psicologica (entrambi docenti nell'Università di Chicago, il centro del funzionali-smo americano). Ma già nel 1890, quando ancora non si parlava di psicologia funzionalista, James aveva pubblicato i suoi famosissimi Principi di psicologia (tradotti anche in italiano nel 1905 da Giulio Cesare Ferrari), che sarebbero stati per molte generazioni il fonda-mentale testo di psicologia su cui si sarebbero formati tutti gli psico -logi americani.

Parlando del funzionalismo, abbiamo spesso usato il termine «scuola». Si tratta, peraltro, in certa misura di una forzatura. La psi-cologia funzionalista, per usare le parole di Angeli in apertura dell'ar-ticolo sopra citato, «non è altro che un punto di vista, un program-ma, un'ambizione». È meno una scuola che un orientamento, un modo di vedere le cose. E ciò non rende semplice indicarne le linee fondamentali.

La prima cosa da dire è che il funzionalismo è stato profonda-mente influenzato dall'evoluzionismo. Quando nel 1859 comparve L'origine delle specie di Darwin, l'impatto che quest'opera ebbe su tutto il mondo scientifico fu enorme, e non soltanto in ambito natu-ralistico. Non rifaremo qui la storia delle polemiche, peraltro abba-stanza note, che videro le confessioni religiose schierate contro le nuove idee. Ricordiamo solo che l'evoluzionismo si coniugò in parti-colare con il positivismo, la dottrina filosofica che doveva ben presto diventare dominante nel mondo scientifico.

Per quel che riguarda la psicologia, l'importanza dell'evoluzioni-smo fu enorme. Innanzitutto, fu soprattutto grazie alla spinta evolu-zionistica che poterono sorgere una psicologia dell'età evolutiva e una psicologia animale. Le attività psichiche, secondo gli evoluzioni-sti, subiscono anche loro un'evoluzione per selezione naturale, ed è interessante ripercorrere tale evoluzione ontogeneticamente, nello svi-luppo dell'individuo, e filogeneticamente, nello sviluppo delle specie. L'uomo si adatta all'ambiente grazie alla sua attività mentale svilup-

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patissima, che sopperisce alle carenze fisiche; ma, come faceva rile-vare Darwin, soprattutto a proposito dell'espressione delle emozio-ni [1872], è possibile ripercorrere la storia evolutiva anche di tanti comportamenti.

In Inghilterra, patria di Darwin, furono soprattutto due studiosi in stretto contatto con questi a coniugare le idee evoluzionistiche con la psicologia: George John Romanes, suo intimo amico, e Francis Galton, che di Darwin era addirittura cugino. Quest'ultimo, uno dei pionieri dei test mentali, si dedicò particolarmente allo studio dell'e -reditarietà dei caratteri mentali [1889].

Romanes [1883] fu l'iniziatore della psicologia animale. Le sue ricerche ebbero un enorme successo, anche al di là dell'ambito stret -tamente scientifico, grazie ad una straordinaria efficacia narrativa. Di fatto, in larga misura egli privilegiava un approccio aneddotico, con esposizione di comportamenti spesso sorprendenti che vedevano ani-mali protagonisti, senza un particolare rigore critico nella raccolta del materiale. Di più, la tendenza di Romanes (che doveva poi svilup-parsi in un tentativo di rintracciare un'intera storia naturale evolutiva filogenetica, che giungesse all'uomo [1889] - progetto che doveva rimanere incompiuto per la sua prematura scomparsa) era quella di rintracciare nel comportamento animale elementi umani. Tutto ciò suscitò la reazione critica di Lloyd Morgan [1884], che richiamava a un maggior rigore; in particolare, Morgan enunciò il principio meto-dologico fondamentale, noto come «canone di Lloyd Morgan», in base al quale si richiede che nessun comportamento che può essere interpretato sulla base di processi mentali inferiori, venga spiegato come determinato da processi superiori.

Determinazione delle funzioni mentali, anche con l'uso di stru-menti standardizzati (i test psicologici); evoluzione dei processi men-tali, come qualsiasi altro carattere biologico; adattamento dell'indivi-duo all'ambiente. Sono questi i tre caratteri della psicologia evoluzio-nistica inglese, che ritroviamo integri, se non accentuati, nel funzio-nalismo americano. A questi il funzionalismo aggiungeva di proprio 1) una critica radicale alla psicologia fisiologica di Wundt e allo strutturalismo di Titchener; 2) un'estensione della considerazione evolutiva allo sviluppo ontogenetico, con la fondazione della psicolo-gia dell'età evolutiva; 3) un forte accento pragmatista, con un inte-resse per la psicologia applicata, che viene appunto creata in ambito funzionalista. Vediamo questi tre aspetti.

1. La critica funzionalista allo strutturalismo era soprattutto ba-sata sulla critica al concetto di coscienza. Già per James, parlare di contenuti di coscienza come di qualcosa di fisso, cristallizzato, cogli-bile attraverso un atto di introspezione, era privo di senso. La co -scienza è un flusso continuo {stream of consciousness), e ogni tentativo di «congelarne» un istante è destinato all'insuccesso, allo snatura-mento del suo carattere. Ma la critica era rivolta anche all'elementi-smo degli strutturalisti. E Dewey [1896] faceva rilevare - in un arti -colo che ebbe notevole rilievo e che viene da alcuni addirittura con-

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siderato la data di nascita del funzionalismo — che già addirittura a livello di arco riflesso non ha senso scindere questo in elemento effe-rente e elemento afferente, trattandosi di un'unità.

2. I funzionalisti sono stati i fondatori della psicologia dell'etàevolutiva. Come lo sviluppo andava seguito lungo la gerarchia dellespecie, così il suo sviluppo andava rintracciato nel suo modificarsinelle età dell'uomo. Il fondatore della psicologia dell'età evolutiva èstato G. Stanley Hall, di cui vanno ricordati soprattutto gli studi sull'adolescenza [1904]. Peraltro Hall (che era stato, come molti deifunzionalisti americani, da James a Cattell, anche lui allievo diWundt, salvo poi non condividerne affatto le idee) va ricordato soprattutto come formidabile organizzatore, «barone» accademico diincredibile potere, con poco tempo rimastogli a disposizione persvolgere un'attività scientificamente significativa.

Personaggio di notevole spessore fu invece Baldwin, uno dei più grandi teorici in assoluto della psicologia dei primi del novecento, il cui nome è stato in larga misura dimenticato, forse anche per il suo precoce abbandono del mondo accademico nel 1909, a soli 48 anni; nel resto della sua vita visse prevalentemente in Francia, dedicandosi a un'attività di conferenziere e pubblicista. Una sua conferenza a Pa-rigi influenzò così profondamente il giovane Jean Piaget, che le idee di Baldwin divennero uno dei pilastri su cui si sarebbe retto il siste -ma teorico del ginevrino.

Baldwin poneva alla base dello sviluppo cognitivo le reazioni cir-colari, schemi d'azione che il bambino è portato a ripetere per il solo piacere di ripeterle [1894; 1906]. Nel processo di adattamento al-l'ambiente, questi schemi d'azione si arricchiscono per accomodamenti, opposizioni e assimilazioni (ricordiamo che cardine della teoria di Piaget saranno sia le reazioni circolari, che l'adattamento per assimi-lazione e accomodamento). E anche il senso di sé, che è alla base dello sviluppo sociale, avviene per Baldwin [1894] attraverso gli stes-si processi, a cui si unisce {'imitazione.

Notevolissima importanza, anche al di fuori della psicologia, ha avuto un contributo teoretico che Baldwin [1902] ha offerto alla teo-ria dell'evoluzione, e che è stato per decenni al centro delle discus -sioni dei biologi, e che passa sotto il nome di «effetto Baldwin». Esso consiste nel fatto che la selezione non avviene attraverso accop-piamenti casuali dei più adatti, ma è (sia pur modestamente, ma si -gnificativamente) squilibrata a favore di individui che hanno avuto esperienze comuni di adattamento. Nel dibattito odierno sull'evolu-zione, l'effetto Baldwin è tuttora un elemento centrale [Gould 1977].

3. Il terzo aspetto che differenzia profondamente la psicologiafunzionalista dallo strutturalismo è legato al problema delle applicazioni della psicologia. Titchener sosteneva la necessità di una psicologia «pura», scienza esclusivamente sperimentale, che non avrebbedovuto impegnarsi in attività applicative. I funzionalisti, di contro,permeati dello spirito pragmatico della giovane America, che vivevaun periodo di impetuoso sviluppo economico di cui ancora non era

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visibile la strordinaria portata, sostenevano la necessità di una psico-logia impegnata anche sul versante applicativo. Di qui lo sviluppo dei test psicologici (uno degli iniziatori fu un altro vecchio allievo di Wundt, James McKeen Cattell), e in generale della psicologia appli-cata al lavoro, all'arte, alla storia...

Artefice principale delle applicazioni della psicologia fu uno straordinario personaggio, Hugo Mùnstenberg, già professore di Psi-cologia a Freiburg, anch'egli allievo di Wundt, che, entrato in con -trasto con questi, accettò nel 1890 l'offerta di James di dirigere il laboratorio di psicologia di Harvard; salvo poi, appena giunto, dedi-carsi a tutto meno che alla psicologia sperimentale. Mùnstenberg, che va considerato il vero creatore della psicologia del lavoro, mise al centro dell'attenzione per la prima volta i rapporti tra psicologia e vita reale [1899].

2.5. La psicologia della Gestalt

La reazione a Wundt in Huropa

Già nel 1874, lo stesso anno in cui usciva la Psicologia fisiologica di Wundt, Franz Brentano pubblicava la sua Psicologia da un punto di vista empirico, che sarebbe ben presto diventato il punto di par-tenza di quanti si opponevano alle idee della scuola di Lipsia. Bren-tano, personalmente, non portò molto avanti la sua battaglia teorica in campo psicologico, e l'influenza delle sue idee fu probabilmente molto più diretta in campo filosofico. Abbastanza isolato, lasciò ai primi del secolo il mondo tedesco per trasferirsi a Firenze, e anche se nel corso degli anni ritornò spesso su problemi psicologici [1889; 1907; 1911], certamente il suo impegno per la filosofia fu più conti-nuativo.

La sua psicologia viene detta psicologia dell'atto, in quanto per Brentano la mente è costituita da atti che possiedono quella che chiama, riprendendo (con qualche oscurità) un concetto dei filosofi scolastici medioevali, una in-esistenza intenzionale, la loro relazione con qualcosa come oggetto. Così, se io dico di vedere qualcosa, il vedere è un atto, e la cosa che vedo è l'oggetto in-esistente entro l'atto. I fenomeni psichici sono idee (rappresentazioni) e fenomeni basati su idee, e si distinguono dai fenomeni fisici in quanto privi di estensione. Essi sono l'oggetto esclusivo della percezione interna, e solo essi possono essere percepiti come dati immediati e accettati co-me veri. Di più, i fenomeni psichici appaiono sempre unitari, mal -grado la loro diversificazione, mentre sono quelli fisici che possono essere scomposti in elementi [1874, 126 ss.].

In quanto detto sopra è chiaro l'antielementismo di Brentano, e la sua apertura fenomenologica, che troveranno poi la loro espressio-ne nella scuola di Graz di A. Meinong, in Stumpf e nella psicologia della Gestalt.

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Ma l'opposizione a Wundt si manifestava già all'interno del suo movimento. Abbiamo ricordato il suo allievo Hugo Mùnstenberg, trasferitosi negli Stati Uniti e passato alla scuola funzionalista - e del resto, tutti i principali psicologi funzionalisti americani erano stati per periodi più o meno lunghi allievi di Wundt: James, Cattell, Hall... È tra parentesi interessante il fatto che, come nota Blumen-thal [1980], la scarsa simpatia che ci fu sempre tra gli allievi ameri-cani e Wundt abbia fatto sì che anche nella storiografia psicologica americana, a partire dal più grande storico, E.G. Boring [1942; 1950], l'immagine che viene presentata di questi sia tendenzialmente negativa.

Il più importante dissidente, fra gli allievi di Wundt, fu comun-que in Germania Otto Kùlpe [1893; 1920], fondatore della cosiddet ta scuola di Wùrzburg (che ebbe tra i principali esponenti Karl Bùh-ler), che abbiamo già ricordato per le sue critiche all'impiego che si faceva a Lipsia del metodo sottrattivo di Donders. Come in tutti i critici di Wundt, anche in Kùlpe era particolarmente evidente un approccio globalistico, contro l'elementismo wundtiano. Nella scuola di Wùrzburg venne particolarmente sviluppato il metodo introspettivo, e in particolare fece notevole scalpore l'individuazione di pensieri in cui non erano rintracciabili elementi sensoriali primitivi (il cosiddetto pensiero senza immagini). L'esistenza di un tale tipo di pensiero smen-tiva nettamente un aspetto fondamentale della teoria wundtiana (e in misura ancor superiore dello strutturalismo titcheneriano), che voleva gli elementi sensoriali come costitutivi primitivi di ogni attività di pensiero.

ha scuola della Gestalt

La scuola psicologica della Gestalt è indubbiamente la più im-portante scuola psicologica europea di questo secolo. Essa costituisce la più coerente risposta che si sia avuta nel vecchio continente allo strutturalismo, ma soprattutto all'associazionismo atomistico che era alla base di tanta parte dello strutturalismo. Gli psicologi gestaltisti si occuparono prevalentemente di processi cognitivi, e tra questi privi-legiarono lo studio della percezione e del pensiero. Ciò non impedì che la psicologia della Gestalt desse anche dei validissimi contributi in psicologia sociale e psicologia della personalità, grazie particolar-mente a un suo rappresentante un po' «eretico», Kurt Lewin, e che psicologi che si richiamavano a questa scuola abbiano sviluppato te-mi di interesse psicopedagogico, neuropsicologico o psicopatologico. Va peraltro precisato che la cosiddetta «terapia della Gestalt» non ha assolutamente nulla a che vedere con questa scuola. Precisiamo inoltre che preferiamo usare, in linea con l'uso oggi più frequente nella letteratura italiana, la parola «Gestalt», anziché tentare la tradu-zione del termine tedesco Gestalt, reso in passato in italiano (in mo-

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do inadeguato) con forma; il termine implica infatti anche un aspetto di «organizzazione» della forma difficilmente rendibile in italiano.

La data di nascita della psicologia della Gestalt viene posta di solito al 1912, anno in cui Max Wertheimer pubblicò i risultati di due anni di ricerche sul movimento apparente condotte nell'Istituto di Psicologia di Francoforte con l'assistenza di Wolfgang Kòhler e Kurt Koffka. Ma questa scuola aveva avuto un'importante premessa nella scuola di Graz fondata da Alexius Meinong, più filosofo che psicologo, il quale era stato largamente influenzato da Franz Brenta-no, e che avrebbe avuto tra i suoi allievi il triestino Vittorio Benussi, docente a Padova dopo la prima guerra mondiale, uno dei grandi maestri della psicologia italiana.

Il precursore della psicologia della Gestalt che qui interessa fu un altro allievo di Meinong, Christian von Ehrenfels [1890]. Questi co-niò l'espressione «qualità gestaltica» (Gestaltqualitàt), per indicare le caratteristiche delle configurazioni percettive che rimangono invariate al variare degli aspetti elementari delle configurazioni stesse. Così, è una qualità gestaltica la melodia di un brano musicale, che si mantie-ne anche al cambiare della tonalità, a dimostrazione che una melodia non è costituita dalla somma delle singole note che la compongono, ma dall'insieme dei rapporti tra queste; così, è indifferente che la melodia sia costituita dalla sequenza, poniamo, do-mi-sol, o fa-la-do, o re-fa diesis-la: quello che conta è che si tratta di due intervalli di terza maggiore e terza minore in sequenza. Così ancora è una qualità gestaltica la triangolarità, che è propria di tutti i triangoli, indipen-dentemente dalla lunghezza dei lati o del valore degli angoli, e così via. Nella terminologia di Meinong [1899], le qualità gestaltiche sono «oggetti di ordine superiore», frutto di un'attività di «produzione» della mente. Vittorio Benussi, che negli anni immediatamente prece-denti la prima guerra mondiale sarebbe entrato in polemica durissi-ma con Koffka [Benussi 1913; 1914; Koffka e Kenkel 1913; Koffka 1915], sviluppò a sua volta, nell'ambito della teoria della produzione, un suo modello teorico specifico della percezione, per distinguere ne-gli scostamenti tra percepito e reale i processi di origine sensoriale da quelli di origine asensoriale. Tutto ciò sarebbe apparso inaccetta-bile ai gestaltisti, che vi avrebbero visto un ritorno alTelementarismo, con la rottura delle caratteristiche globali della percezione.

Va rilevato che Wertheimer — il fondatore della psicologia della Gestalt - aveva seguito a Praga, sua città d'origine, almeno per un anno le lezioni di von Ehrenfels, prima di trasferirsi a Berlino dove sarebbe stato allievo di un altro seguace di Brentano, Stumpf; che avrebbe conseguito il dottorato a Wùrzburg con Kiilpe; e che le sue ricerche sul movimento apparente sarebbero state eseguite nell'Istitu-to di Francoforte allora diretto da Schumann, già aiuto di Stumpf. Si può quindi dire che ben difficilmente avrebbe potuto sviluppare un atteggiamento non radicalmente avverso alla psicologia wundtiana.

Nelle sue ricerche sul movimento apparente, Wertheimer analiz-zò in particolare uno specifico tipo di movimento apparente, quello

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stroboscopico, o b. È questo alla base della percezione del movimento cinematografico: come è noto, una pellicola cinematografica è costi-tuita da una serie di immagini fisse, i fotogrammi, che vengono proiettati sullo schermo per 1/48 di secondo inframezzati da periodi di buio della stessa durata, durante i quali si ha lo scorrimento da un fotogramma al successivo. Lo spettatore, però, unifica percettiva-mente i fotogrammi, e invece di vedere una sequenza di immagini statiche, vede una sola immagine in movimento continuo — vale la pena di ricordare che, contrariamente a quanto spesso si osserva, questo fenomeno, come dimostrò lo stesso Wertheimer, è assoluta-mente centrale, e non ha il minimo rapporto con la cosiddetta persi-stenza dell'immagine retinica, il fenomeno, cioè, per cui un tizzone mosso rapidamente al buio non si vede come un punto in movimen-to, ma disegna una sorta di linea luminosa apparente.

Il movimento stroboscopico era ben noto da prima che Werthei-mer lo studiasse: solo per fare un esempio, i fratelli Lumière avevano già inventato il cinematografo da quasi vent'anni! Peraltro, cosa che in ambito psicologico non era stata analizzata, questo movimento ap-parente poneva un serio problema a una teoria elementarista della percezione, di stampo wundtiano o strutturalista. Una teoria di que-sto genere doveva ammettere che non potesse darsi movimento senza uno spostamento corrispondente della stimolazione visiva sulla retina: solo in questo modo il movimento avrebbe potuto essere ricondotto, senza commettere un errore dello stimolo, agli elementi costitutivi. Ma nel movimento stroboscopico nulla del genere si verifica-va: gli elementi erano statici, ma il movimento veniva percepito. Da dove poteva allora provenire questo movimento? Esso era semplicemente il frutto dell'organizzazione degli elementi costitutivi; solo che costituiva la migliore dimostrazione del fatto che un fenomeno del genere (detto phi da Wertheimer) non avrebbe potuto costituirsi se questa organizzazione globale non fosse logicamente precedente, nel processo percettivo, rispetto agli elementi; se, come avrebbe detto Wertheimer [1923] dieci anni più tardi, il processo percettivo non fosse organizzato von oben nach unten, dall'alto in basso, e voti unten nach oben, dal basso in alto; e cioè, rispettivamente, dall'intero alle parti, e non dalle parti all'intero.

Rileviamo tra parentesi che questa espressione di Wertheimer, nella traduzione inglese top down/bottom up, è stata ampiamente usata nel cognitivismo, con un significato però profondamente diverso. Con top down i cognitivisti intendono infatti un processo concept driven, «guidato dal concetto», mentre con bottom up intendono un processo sense driven, «guidato dagli stimoli sensoriali». In altri ter-mini, top down è un processo in cui ciò che si sa influisce su ciò che si percepirà (ruolo delle attese, dell'esperienza, ecc). Da questo punto di vista, i gestaltisti negavano la possibilità di processi percetti -vi top down: l'esito del processo è assolutamente indipendente dall'e-sperienza passata, dall'apprendimento, ecc, ma deriva solo dalla di-namica del sistema nervoso.

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La psicologia della Gestalt si diffuse con notevole rapidità nel mondo psicologico tedesco, divenendo in pochi anni la scuola domi-nante. Wertheimer, Kòhler e Koffka raggiunsero tutti e tre negli an ni venti Berlino (si parla infatti anche di «scuola di Berlino»). Pro-gressivamente, la figura dominante della scuola doveva diventare Wolfgang Kòhler, che, grazie anche ad alcuni viaggi negli Stati Uniti, dove si sarebbe poi stabilito con l'avvento dei nazisti al potere in Germania, sarebbe presto diventato molto noto sul piano internazio-nale. Tutti i gestaltisti di maggior rilievo (con l'eccezione dell'allora giovanissimo Metzger) dovettero comunque emigrare negli Stati Uniti con il nazismo, da Koffka a Wertheimer, all'ultimo arrivato Kurt Lewin. Si può tra l'altro rilevare che fu praticamente solo quest'ulti -mo a conseguire un buon successo nel mondo americano; per fare questo, dovette però discostarsi in certa misura sia dai temi classici dei gestaltisti, per rivolgersi alla psicologia sociale e della personalità [Lewin 1935; 1936; 1951], sia dai principali principi teorici dei ge-staltisti.

Tornando comunque al filone più classico degli studi gestaltisti, quello sulla percezione, ricordiamo che Wertheimer [1922; 1923] enunciò le sue classiche leggi sulla costituzione delle totalità percetti -ve, quelle che venivano chiamate Gestalten. Le leggi di Wertheimer, di cui si parlerà nel capitolo della percezione, affermano che le parti di un campo percettivo tendono a costituire delle Gestalt, che sono tanto più coerenti, solide, unite, quanto più gli elementi sono: 1) vi -cini (legge della vicinanza); 2) simili (legge della somiglianzà); 3) ten-dono a formare forme chiuse (legge della chiusura); 4) sono disposti lungo una stessa linea (legge della continuazione); 5) si muovono concordemente (legge del destino o moto comune).

A queste cinque leggi, o principi, Wertheimer ne aggiungeva al -tre due, che occorre discutere un poco: la legge della pregnanza e la legge dell'esperienza passata. Per quel che riguarda la prima, occorre preliminarmente aver chiaro che per pregnanza o bontà di una forma i gestaltisti intendevano una serie di caratteristiche che rendono que-sta forma particolarmente armonica, simmetrica, semplice, ecc; o an-che un punto ausgezeichnet, eccellente, in una serie, che lo rende uni-co (singular [Goldmeier 1982]) rispetto agli altri. Così, nella prima accezione, si può dire che un cerchio è più «buono» (pregnante) di un ovale o di un ovoide, che un triangolo equilatero è più pregnante di un triangolo isoscele, e questo a sua volta di un triangolo scaleno, e così via. Nella seconda, che, ad esempio, un angolo retto è un punto di discontinuità nella serie degli angoli, che fa sì che si distin -gua nettamente da un angolo, poniamo, di 88° (che viene percepito, non a caso, in rapporto al retto: un angolo «quasi» retto, mentre non si dirà mai che un angolo retto è «quasi» di 88° gradi). Lo stesso dicasi, nella serie dei numeri, di alcuni numeri privilegiati: 10 (la decina), 12 (la dozzina), 100 (il centinaio), e così via.

Ora, la legge della pregnanza afferma che le parti di un campo percettivo tendono a costituire le Gestalt più pregnanti possibili nelle

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condizioni date. In altri termini, vi sarebbe una tendenza spontanea verso la pregnanza. Questa tendenza alla pregnanza è stata tra l'altro messa al centro della loro teoria da due grandi gestaltisti della «se-conda generazione», Metzger [1954; 1975] e Rausch [1966], ma è stata anche messa in dubbio [Kanizsa e Luccio 1986], ritenendosi da parte di alcuni che vi sia piuttosto una tendenza verso l'equilibrio e la stabilità del campo percettivo, piuttosto che verso la pregnanza: il campo percettivo tende ad essere stabile, anche se questa stabilità si realizza con Gestalt poco pregnanti. Piuttosto, a livelli ulteriori dei processi cognitivi questa tendenza alla pregnanza appare in modo evidente, e particolarmente nelle trasformazioni che subisce la traccia mnemonica che tende a farsi con l'andare del tempo sempre più re-golare, armonica, a cancellare eventuali disarmonie e contraddizioni [Goldmeier 1982]. Il concetto di pregnanza è comunque considerato uno dei concetti della psicologia della Gestalt che ha più conservato la sua validità, anche al di fuori della scuola.

L'altra legge che merita una discussione a parte è quella dell'é'-sperienza passata. Nell'eterna controversia che è sempre esistita nella storia della psicologia tra nativisti (sostenitori di strutture psicologi-che innate) ed empiristi (sostenitori dell'influenza esclusiva dell'espe-rienza nella strutturazione dei processi psicologici) i gestaltisti si sono posti preferibilmente con i primi. Ciò era dovuto al fatto che a loro giudizio i processi psicologici erano il frutto di un sostrato materiale che non poteva agire che secondo delle leggi fìsiche, invarianti ri -spetto sia all'esperienza passata dell'individuo, sia rispetto alla storia evolutiva della specie. Come sosteneva Kòhler [1920], le Gestalt si trovavano non solo nell'esperienza fenomenica dell'individuo, ma an-che in natura; anzi, la natura dimostrava questa tendenza a struttu-rarsi delle parti in unità secondo leggi uguali a quelle che determina-vano il campo fenomenico dell'individuo. Questo concetto (meglio, metafora) di campo non andava inteso in senso generico, ma con precisa corrispondenza con il concetto di campo come inteso in fisi -ca, e cioè con il campo elettromagnetico.

L'esperienza passata non poteva quindi giocare alcun ruolo nei processi psicologici? No di certo. Quello che i gestaltisti negavano era la possibilità che influisse sui processi di base che portavano alla strutturazione del campo fenomenico; ma ammettevano che influisse sull'orientare tali processi in particolari direzioni rispetto ad altre. Si osservi la figura 1.1. A prima vista, essa appare come una serie di spezzate. Se però diciamo che questa figura in realtà è una lettera E maiuscola, in rilievo, illuminata dall'alto in basso e da sinistra a de-stra, in modo che se ne vedano solo le ombre, ecco che la figura apparirà improvvisamente; non solo, non sarà più possibile non ve-derla.

Significato analogo hanno le figure di Street, costituite da mac-chie apparentemente senza senso, ma che, non appena vengono sug-geriti certi significati (un cane, un cavaliere, ecc), vengono organiz-zate in modo coerente e stabile, e non è più possibile vederle in

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FlG. 1.1.

altro modo. In altri termini, l'esperienza passata non modifica le leg -gi di organizzazione strutturale, ma può imporre dei vincoli (con-straints) che impongono certe organizzazioni piuttosto che altre [Kòhler 1950].

Un altro tema che, a fianco della percezione, avrebbe attirato l'attenzione dei gestaltisti sarebbe stato quello del pensiero. Il punto di partenza sarebbe stato costituito da alcune classiche ricerche di Kòhler sugli scimpanzè [1918; 1921]. Tra il 1912 e il 1920, Kòhler diresse la stazione primatologica dell'esercito prussiano a Tenerife, nelle isole Canarie, e la cosa gli diede modo di sperimentare la capa-cità degli scimpanzè di risolvere problemi. All'epoca, la teoria domi-nante sull'intelligenza animale era quella che si doveva all'americano Thorndike, precursore del comportamentismo, che sosteneva, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, che gli animali risolvono i problemi con un comportamento casuale, per tentativi ed errori, e che il successo rende solo più probabili le risposte corrette.

A questa teoria, Kòhler oppose un modello ben diverso: quello dell'apprendimento per intuizione {Einsicht, insight). Kòhler propone-va diversi tipi di problemi ai suoi animali, dal raggiungere un obietti -vo che poteva essere afferrato solo se lo scimpanzè si fosse servito di qualche ausilio, al cosiddetto aggiramento {Umweg), consistente nel dover raggiungere un obiettivo oltre una barriera che non poteva es-sere scavalcata ma doveva essere aggirata.

Il comportamento che Kòhler osservava negli scimpanzè non po-teva assolutamente essere interpretato in termini di tentativi ed errori, ma si rivelava come propriamente «intelligente». Per esempio, supponiamo che l'animale dovesse raggiungere del cibo appeso al soffitto della gabbia, ma che per far questo avesse a disposizione due canne, nessuna di per sé di lunghezza sufficiente, ma abbastanza lun-

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ghe se innestate l'una nell'altra. Si osserva che lo scimpanzè inizial -mente fa dei tentativi con una canna alla volta, infruttuosi, e dopo un poco abbandona i tentativi. Successivamente, però, l'animale mo-difica improvvisamente il suo comportamento: bruscamente, dimo-strando di aver «capito», afferra le due canne, le unisce, e raggiunge il cibo, senza alcuna incertezza. Ha compiuto un insight: in altri ter-mini, è riuscito a strutturare in modo radicalmente diverso gli ele-menti del suo campo fenomenico, dando loro un significato in una struttura globale di pensiero, corrispondente alla soluzione del pro-blema.

Questo modo di risolvere i problemi venne chiamato da Wert-heimer [1920; 1925a; 1945], nei suoi studi sull'uomo, pensiero produt-tivo, in opposizione con il pensiero cieco, tipico degli apprendimenti per tentativi ed errori, di cui i gestaltisti non negavano la realtà, ma a cui assegnavano un ruolo inferiore.

Sono certamente questi i temi che hanno più attratto l'attenzione degli psicologi della Gestalt. Volendo riassumere i concetti più im-portanti sviluppati da questa scuola, possiamo affermare che i gestal -tisti affermavano una supremazia della struttura globale (non intesa però come significato, ma come organizzazione) sulle parti compo-nenti le Gestalt. Questa supremazia viene spesso tradotta (impro-priamente) con l'aforisma: «il tutto è più della somma delle parti». Più corretto sarebbe dire: «il tutto precede le parti, che assumono significati diversi a seconda del tutto di cui sono parti». È in questo l'antielementismo dei gestaltisti.

Gli psicologi della Gestalt vedevano inoltre i processi di perce-zione, pensiero, ecc, come autoorganizzantisi all'interno di un campo, in analogia con il concetto di campo come definito dalla fisica. Si tratta perciò di una concezione dinamica dei processi cognitivi, che si fonda su concetti come la tendenza all'equilibrio e alla pregnanza.

Gli psicologi della Gestalt avevano una concezione fenomenologi-ca. Essi studiavano quanto avviene nel mondo fenomenico dell'indi-viduo, in ciò che gli appare, e ritenevano un errore pensare invece a un mondo della realtà al di là dei fenomeni. Ma erano anche interes -sati a vedere cosa accadeva nel sistema nervoso centrale in corrispon-denza con i fenomeni, affermando un'identità strutturale, o isomorfi-smo, tra mondo fenomenico e accadimenti cerebrali.

La psicologia della Gestalt ha avuto il periodo di massimo rigo-glio negli anni venti. Come abbiamo detto, i principali esponenti della scuola non trovarono un terreno favorevole negli Stati Uniti, e non si creò una scuola gestaltista americana. Fuori degli Stati Uniti nel dopoguerra la psicologia della Gestalt avrebbe avuto un buono svi-luppo in Italia, con Musarti, Metelli e Kanizsa; in Germania con i citati Rausch e Metzger; in Giappone, unico paese dove forse esiste ancora una maggioranza di psicologi sperimentali che si autodefini-scono gestaltisti. Oggi, se una scuola gestaltista come tale probabil -mente non esiste più, sono comunque numerosi gli studiosi che, pur

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riconoscendosi maggiormente nel cognitivismo, si identificano in tutto o in parte nella tradizione gestaltista.

2.6. Il comportamentismo

Solo un anno dopo la comparsa dell'articolo di Wertheimer sul fenomeno phi, che segnava la nascita della psicologia della Gestalt, un altro famoso articolo, questa volta scritto nel 1913 da J.B. Wat-son sull'altra sponda dell'Atlantico, doveva segnare la data di nascita dell'altra grande scuola psicologica (o meglio, forse, movimento, data la sua natura abbastanza composita [Zuriff 1985, 6]), che avrebbe segnato tutta la psicologia generale dagli anni immediatamente prece-denti la prima guerra mondiale, a quelli immediatamente successivi la seconda. In questo articolo la psicologia, «dal punto di vista di un comportamentista», veniva definita come un settore sperimentale del le scienze naturali, il cui scopo è la previsione e il controllo del com -portamento.

L'oggetto di studio del comportamentismo non era la coscienza né tanto meno la mente, ma il comportamento osservabile intersog-gettivamente, definito da Watson come l'insieme delle risposte mu-scolari o ghiandolari. Il metodo di studio rimaneva rigorosamente quello sperimentale, con le stimolazioni ambientali (intese come va-riazione dell'energia fisica presente nell'ambiente: energia radiante, meccanica, ecc.) come variabili indipendenti, e il comportamento (la risposta dell'organismo) come variabile dipendente, con un rifiuto deciso dell'introspezione e del colloquio clinico.

Secondo i comportamentisti, infatti, se la psicologia voleva essere una scienza, doveva scegliere come oggetto di studio qualcosa che fosse suscettibile di essere osservato naturalisticamente. «La psicolo-gia come la vede il comportamentista è una branca sperimentale pu -ramente oggettiva delle scienze naturali» [Watson 1913, 158]. E quindi vanno rifiutati come oggetto di studio i contenuti della co -scienza, che sono esperienze private e non osservabili intersoggettiva-mente, le esperienze dirette, ecc. Di più, va respinto ogni metodo che non sia suscettibile degli stessi controlli che si utilizzano in tutte le scienze naturali.

Watson, studioso di psicologia animale, che si era formato alla scuola funzionalista di Chicago, ed era stato in particolare allievo di Loeb — l'uomo che più aveva fatto negli Stati Uniti per portare la psicologia animale fuori dell'impressionismo aneddotico alla Romanes e condurla a studi rigorosi di laboratorio - interpretava certamente un'esigenza di rigore e oggettività vivissimi nella psicologia animale nordamericana, ma estremamente diffusi in tutta la psicologia degli Stati Uniti. Peraltro, perché questa esigenza potesse trovare gambe per camminare, occorreva che i comportamentisti individuassero al-tre possibili unità di analisi psicologica. Queste gli erano però offerte negli Stati Uniti dalle ricerche di E.L. Thorndike, il più grande pre-

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cursore del comportamentismo, con i suoi studi sull'apprendimento per tentativi ed errori (trials and errors); dalla Russia, con la fonda-mentale scoperta del condizionamento cosiddetto classico, fatta dallo scienziato russo I.P. Pavlov.

Thorndike [cfr. in particolare 1911; 1949], che chiamava il suo sistema teorico «connessionismo», una forma particolare di associa-zionismo (assolutamente da non confondere con il connessionismo, di cui parleremo a proposito degli ultimi sviluppi del cognitivismo), aveva iniziato già negli ultimi anni del secolo scorso alcuni esperi-menti su quella che chiamava «intelligenza animale» — in realtà, ap-prendimento e problem solving, soluzione di problemi. Una situazio-ne prototipica in cui Thorndike poneva i suoi animali (in larga misu-ra, gatti) era costituita dalle cosiddette scatole problema: l'animale ve-niva posto all'interno di una gabbia, completamente chiusa, e per uscire doveva agire tirando delle funi, che erano collegate con un sistema di pulegge alla porta della gabbia. Ora, l'osservazione di Thorndike, che avrebbe avuto un'importanza capitale, consisteva in questo: l'animale non passava bruscamente da una fase in cui non era capace di trovare la soluzione, a un'altra in cui la soluzione, una volta trovata, era poi sempre immediatamente disponibile. Al contra-rio, quello che era visibile era un progressivo accorciamento dei tem-pi di soluzione del problema, senza discontinuità, sino a un minimo.

Da questo, Thorndike enunciò tre principi fondamentali. Il primo principio affermava che l'apprendimento si verifica per tentativi ed errori (trials and errors): l'animale compie tentativi alla cieca, e quindi commette casualmente errori e da risposte giuste. // secondo principio era formulato sotto forma di legge, detta àtW effetto: le risposte corrette tendono ad essere ripetute, quelle erronee ad essere abbandonate. In questo modo, l'animale progressivamente riduce il numero di emissione di risposte erronee, aumentando quello di risposte corrette, e riduce così gradualmente i tempi di soluzione del problema. Anche il terzo principio era enunciato sotto forma di legge, detta dell'esercizio: i comportamenti più spesso esercitati vengono appresi più saldamente, ed è più facile che vengano di nuovo emessi, in si -tuazioni analoghe a quelle in cui sono stati appresi.

Come vedremo, questi tre principi costituiranno un cardine della teoria comportamentista dell'apprendimento. L'altro, come abbiamo accennato, è stato il condizionamento classico. I.P. Pavlov non era uno psicologo, era un fisiologo tanto importante da aver vinto il pre-mio Nobel per la fisiologia nel 1904, per i suoi studi sulla digestione. L'anno seguente, Pavlov era impegnato nello studio di quella che ve-niva chiamata «secrezione psichica»: la secrezione salivare e gastrica che si produce nell'animale affamato alla sola vista del cibo, prima dell'ingestione di questo.

Per poter studiare queste secrezioni e confrontarle con quelle che l'animale produceva a contatto con il cibo ingerito, Pavlov aveva in-ventato una particolare tecnica chirurgica (la cosiddetta «fistola di Pavlov») che consentiva di raccogliere all'esterno queste secrezioni.

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Nel corso delle ricerche, potè però osservare che la secrezione, dopo qualche tempo che l'animale stava in laboratorio, veniva emessa an-cor prima della vista del cibo, ma al solo udire il rumore dei passi dell'inserviente che lo portava. Decise quindi di sistematizzare le sue osservazioni, e giunse così a formulare lo schema del condizionamento classico il questi termini.

Ogni animale possiede un corredo di atti riflessi, che vengono evocati automaticamente alla presentazione degli stimoli adeguati. È così un atto riflesso quello che fa estendere la gamba quando viene percossa la rotula, che fa flettere le dita del piede alla stimolazione della pianta, che fa ammiccare quando un oggetto si avvicina brusca-mente all'occhio. E anche un riflesso la salivazione e la produzione di succo gastrico alla vista di cibo, in condizioni di fame. Chiamiamo stimolo incondizionato (Si) lo stimolo che scatena in queste situazioni il riflesso, e riflesso incondizionato (Ri) l'atto evocato. Ora, quello che aveva osservato Pavlov era che uno stimolo indifferente, e cioè inca-pace di evocare Ri, se presentato ripetutamente in contiguità tempo-rale con Si viene associato a questo, e diventa capace di evocare il riflesso; a questo punto, questo nuovo stimolo si dirà condizionato, come pure il riflesso.

Il sogno di Secenov sembrava così avverarsi. Era stato scoperto il meccanismo che permetteva, a partire dal corredo innato dei riflessi, di ipotizzare una modificazione dei comportamenti in risposta alle esigenze ambientali. Oggi sappiamo che il ricorso al condizionamento classico non è assolutamente sufficiente a spiegare la straordinaria flessibilità del comportamento umano. Negli anni successivi, del re-sto, Pavlov [1928] avrebbe sviluppato una teoria complessa e di sor-prendente modernità, se vista con gli occhi di oggi, e che gli avrebbe da un lato permesso di formulare una teoria personologica di estre-mo interesse (anche se basata sulla suscettibilità al condizionamento di cani); dall'altro, attraverso il cosiddetto secondo sistema di segnala-zione, gli avrebbe fatto attribuire un ruolo determinante al linguaggio nello sviluppo dei processi cognitivi dell'uomo. Questi aspetti della teoria di Pavlov ebbero peraltro una risonanza molto modesta in Oc-cidente, e sarebbero stati apprezzati solo alla fine degli anni cinquan-ta, in un contesto scientifico profondamente cambiato.

Apprendimento per prove ed errori e condizionamento classico sembravano comunque fornire al nascente comportamentismo la chiave per la costruzione di una psicologia interamente oggettiva. Di più, era ferma convinzione di Watson la vastissima applicabilità pra-tica della psicologia così definita [1919; 1930]. Nel 1919, con la Ray-ner, Watson tentò per la prima volta di applicare queste idee in campo psicopatologico: essi riuscirono con tecniche di condiziona-mento classico a indurre una nevrosi fobica in un bambino, il famo-so «little Albert» [Watson e Rayner 1928]. Si apriva così la strada alle cosiddette terapie comportamentali, che avrebbero conosciuto un

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enorme successo negli Stati Uniti specie in questo dopoguerra. Peral-tro, Watson fu costretto nel 1920 a lasciare l'Università, non ammet-tendo la società americana puritana del tempo che proseguisse nel -l'insegnamento dopo il suo divorzio dalla moglie. Diventò peraltro un ricco uomo d'affari, applicando la psicologia alla pubblicità, e scrisse libri di enorme successo sull'applicabilità del comportamenti-smo alla vita quotidiana.

Come si è detto, in pochissimi anni il comportamentismo con-quistò una posizione di netto predominio nella psicologia americana. La dottrina fondamentale appariva poter essere riassunta in questi termini: l'organismo era una «scatola nera» {black box), al cui inter-no lo psicologo non può entrare; farebbe così solo della metafisica. Su questa scatola nera impattano gli stimoli ambientali S, e in conco-mitanza l'organismo emette delle risposte R. Lo psicologo comporta-mentista studia le associazioni S-R: come dipende il variare delle ri-sposte (variabile detta perciò dipendente) al variare degli stimoli (va-riabile detta perciò indipendente).

Già negli anni venti-trenta, però, questo schema doveva apparire troppo angusto agli stessi comportamentisti. Doveva essere E.C. Tol-man [1932; 1951], certamente il comportamentista più avvertito sul piano epistemologico, a indicarne con chiarezza i limiti. Facciamo un esempio: poniamo di porre un topo in un labirinto; per tentativi ed errori, egli apprenderà a trovare l'uscita del labirinto; nei termini di Watson, avrà associato S (gli stimoli corrispondenti al labirinto) a R d'insieme delle risposte, e cioè degli atti muscolari necessari ad ar-rivare all'uscita). Ma poniamo ora di riempire il labirinto d'acqua; evi-dentemente, gli atti per nuotare verso l'uscita sono completamente diversi da quelli per giungervi camminando. E altrettanto evidente-mente, se Watson avesse ragione, l'apprendimento dovrebbe reinizia-re da capo, per associare S al nuovo R. Ma, e nessuno se ne sor -prende, il topo, appena messo nel labirinto, trova immediatamente l'uscita a nuoto. È allora chiaro che quello che ha appreso non è una sequela di movimenti, ma qualche altra cosa: una rappresentazione astratta della forma del labirinto, che Tolman chiama «mappa cogni-tiva». Ma questa mappa cognitiva è chiaramente nella testa del topo, ed è tutt'altro che osservabile. Si deve allora tornare alla psicologia dei contenuti di coscienza? E cosa dire di altri elementi analoghi alle mappe cognitive, che palesemente influenzano il comportamento del-l'animale, ma sono altrettanto inosservabili? Tra questi, particolare importanza assegnava Tolman alle intenzioni - il suo sistema è detto anche comportamentismo intenzionale (purposive behaviorism).

La soluzione di Tolman è costituita dall'introduzione di un con-cetto che avrebbe avuto un'enorme importanza per tutti gli sviluppi successivi del comportamentismo, segnando il passaggio dal paleo-comportamentismo watsoniano al cosiddetto neocomportamentismo: il concetto di variabile interveniente, interposta tra variabile dipenden-

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te e variabile indipendente. Una variabile interveniente modifica, a seconda del suo valore, la dipendenza della variabile dipendente da quella indipendente. Se l'organismo possiede una mappa cognitiva, a seconda di come questa è costituita ci sarà un diverso influsso di S su R. Ma S e R sono eventi «reali», possono essere misurati oggetti-vatnente sulla base dei loro parametri fisici. Lo stesso vale per la mappa cognitiva? Evidentemente no. Una variabile interveniente non è «reale» in questo senso; è un puro costrutto ipotetico, la cui realtà non solo non possiamo, ma neppure ci interessa determinare.

Negli anni successivi vennero introdotte nuove e diverse variabili intervenienti. Di particolare rilievo fu il sistema proposto da Clark Hull [1943a; 1943b], altamente formalizzato, in cui particolare rilie-vo avevano come variabili intervenienti la pulsione D (da drive) e la forza dell'abitudine SHR (habit strength), forza del legame associativo interposto tra stimolo e risposta.

Verso la fine degli anni trenta si affacciò però sulla scena scienti -fica quello che sarebbe stato il più grande dei neocomportamentisti, Burrhus Frederic Skinner. Il suo atteggiamento si manifestò peraltro immediatamente come opposto a quello degli altri comportamentisti. Quanto i vari Tolman, Hull, Miller, Spence, ecc, cercavano di siste-matizzare e teorizzare, tanto Skinner [1938] ostentava un atteggia-mento sostanzialmente antiteoretico, nemico del concetto di variabile interveniente, attento sostanzialmente solo alle contingenze associati-ve immediatamente rilevabili all'esterno.

Con una distinzione che sarebbe stata prontamente accettata da tutto il comportamentismo, Skinner distingueva tra due tipi di com-portamenti: i rispondenti, derivanti da riflessi innati o appresi per condizionamento classico (associazione S-S, stimolo condizionato-sti-molo incondizionato), e gli operanti, emessi spontaneamente dall'orga-nismo, appresi per associazione S-R, e la cui probabilità di occorren-za aumenta o diminuisce a seconda del rinforzo (premio o punizio-ne) che l'organismo riceve in corrispondenza della loro emissione.

Il comportamentismo skinneriano si traduceva così in una raccolta di un'immensa mole di dati sulle contingenze di rinforzo. Si studiava se erano più efficaci i rinforzi dati dopo ogni risposta, o intermittente-mente; con rapporto fisso o variabile; e così via. Ma contemporanea-mente Skinner proponeva applicazioni continue delle tecniche di ap-prendimento operante nella vita quotidiana, dalla scuola (dalle abitudi-ni di studi alla cosiddetta istruzione programmata), agli armamenti (nel corso della seconda guerra mondiale iniziò un programma di addestramento di piccioni suicidi; la fine della guerra non ne consentì l'utilizzo), alla psicoterapia. Tutte forme di tecnologia psicologica.

Negli anni cinquanta, il comportamentismo era all'apice del suo successo e dominava incontrastato la psicologia nordamericana. Ma il crollo era vicino, e sarebbe giunto tanto più repentino e totale quan -to meno era atteso. L'agente del crollo sarebbe stato il cognitivismo.

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2.7. Il cognitivismo

La nascita del cognitivismo e il paradigma Hip

Al termine della seconda guerra mondiale, la psicologia speri-mentale era saldamente in mano al comportamentismo. Questo era soprattutto vero per la psicologia americana, ma lo era anche per la psicologia inglese e francese (non però per l'Italia, dove fino a tutti gli anni sessanta, aveva una posizione di eccellenza la tradizione spe-rimentale della scuola gestaltista dei Musatti, Metelli, Kanizsa). Ma una nuova corrente psicologica in breve tempo avrebbe dominato il campo: il cognitivismo, movimento diffìcile da definire, in quanto è un suo tratto peculiare il rifiuto delle «grandi teorie» che, secondo Welford [1967], «non rendono giustizia alla complessità del compor-tamento», con il conseguente rifugio nell'elaborazione di modelli spesso molto limitati.

L'oggetto di studio della psicologia cognitivista è stato costituito ovviamente dai processi cognitivi (pensiero, linguaggio, percezione, ecc), affrontati, sul piano metodologico, con una particolare «rilassa-tezza» dai cognitivisti («Cognition», la rivista forse più prestigiosa della psicologia cognitivista, avverte, nelle norme per i collaboratori, che i lavori vengono scelti in base «ai loro scopi piuttosto che ai metodi specifici, e per la loro pertinenza teoretica ai problemi cogni-tivi piuttosto che per l'aderenza a principi metodologici, la cui ade-guatezza è più un problema di fede che di utilità»). Si pensi al rigo-re metodologico della tradizione comportamentista, e ci si renderà rapidamente conto dell'enorme differenza di impostazione.

Per capire non solo cosa sia in realtà la psicologia cognitivista, ma anche perché essa ha avuto un impatto tale sulla psicologia contempo-ranea, occorre rendersi conto della sua diretta derivazione dal com-portamentismo. È una derivazione in negativo, una reazione a volte violenta contro la psicologia «del gettone nella macchinetta» [Miller, Galanter e Pribram 1960], contro «l'area geografica infestata da ani-mali di laboratorio» [Wepman e Heine 1963]. Ma questa reazione nasce in larga misura da comportamentisti, come Miller, come Broad-bent [1973], che si rendono conto dell'inadeguatezza e della sterilità dell'approccio sin allora seguito. E se non si tratta di comportamenti-sti (ma ciò vale soprattutto per i non psicologi, primo tra tutti Chomsky), il loro approccio alla psicologia è comunque condizionato dal comportamentismo, sia pure per distinguersene. Si pensi solo alla critica chomskyana del Verbal Behaviour di Skinner [Chomsky 1959].

Il fatto che il punto di partenza sia il comportamentismo — sia come formazione per gli psicologi, sia come pietra di paragone con cui confrontarsi per i non psicologi - non è privo di conseguenze. Si osservi, tra parentesi, che il nome di «psicologia cognitivista» con cui oggi si designa questo movimento è abbastanza recente, e segue la pubblicazione nel 1967 del famoso volume di Neisser Cognitive Psy-chology. Miller, Galanter e Pribram [I960] si erano autodefiniti «be-

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havioristi soggettivi»; e Berlyne [1968] aveva chiamato il movimento che si stava affermando «ceno-behaviorismo», vedendolo come la forma più matura del comportamentismo.

Forse il primo nome da ricordare è quello di Craik [1947], che concepì per primo l'uomo come servomeccanismo, e che per primo riscoprì l'importanza vitale, dopo Donders, dell'impiego dei tempi di esecuzione di un compito (anche se Craik aveva fermato la sua at-tenzione sui tempi di correzione in un compito di tracking, una sorta di gioco di «pista» su cui mantenere fisso un puntatore, e non sui tempi di reazione). Craik aveva rilevato che il soggetto umano non era in grado di compiere, in un compito del genere, più di due cor-rezioni al secondo. Ciò gli aveva fatto ipotizzare l'esistenza di un meccanismo di autocorrezione automatica.

Da Craik possono essere rintracciate alcune linee di estremo inte -resse per la psicologia cognitivista. Innanzitutto, l'impiego, sempre più accentuato in seguito, dell'uso di diagrammi di flusso nella de -scrizione dei processi cognitivi. In secondo luogo, come già accenna-to, la maggior considerazione dell'importanza del tempo, in partico-lare con Welford [1952; 1967] e la conseguente elaborazione della teoria del «canale unico». Altra opera di capitale importanza è il fa-moso articolo di Miller [1956] sul «magico numero 7», che poneva per primo, in modo sistematico, sul tappeto il problema dei limiti alle capacità di elaborazione dell'informazione da parte dell'uomo. Negli stessi anni Cherry [1953] e Broadbent [1954] riprendevano gli esperimenti sull'attenzione, argomento anche questo di fondamentale importanza all'inizio della psicologia sperimentale, e in seguito pres-soché dimenticato, e nel 1958 usciva Perception and Communication di Broadbent, opera che doveva segnare un altro punto fermo rilevante, con la proposta della «teoria del filtro», nella storia della psicologia cognitivista.

Sempre in quegli anni, Brown [1958] trae dal dimenticatoio, in cui era rimasto per oltre mezzo secolo, il problema della memoria a breve termine, e nel 1960 Sperling «scopre» la memoria iconica -una memoria a brevissimo termine (i tempi di immagazzinamento sono compresi tra i 100 e i 500 ms), precedente al riconoscimento degli stimoli in arrivo, e la cui esistenza, dimostrata ingegnosamente da Sperling nel 1960, non era mai stata sospettata, anche perché gli elementi immagazzinati in tale memoria, se non passano attraverso fasi ulteriori di elaborazione, vengono irrimediabilmente persi. In po -chi anni si assiste a un enorme sviluppo delle ricerche su memoria a breve termine e memoria iconica, con un cambiamento radicale nella tradizionale impostazione degli studi sulla memoria. Merita anche il ricordare che questi lavori, unitamente a quelli sul hackward masking (fenomeno per cui, presentando in determinate condizioni per tempi molto brevi due stimoli visivi, il secondo cancella percettivamente il primo), costituiranno un fondamentale punto di partenza per il già citato saggio di Neisser [1967].

Ancora di questi anni sono i fondamentali lavori di Newell, Shaw

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e Simon sui metodi euristici nella soluzione di problemi [Newell e Simon 1956; Newell e Shaw 1957], che avranno a loro volta una determinante importanza soprattutto nel mostrare le potenzialità del -la simulazione dei processi cognitivi. Sempre nel 1957 esce infine Syntactic Structures di Chomsky, che segna la nascita della linguistica generativa, e costituisce la prima alternativa, dopo quasi mezzo seco-lo, allo strutturalismo (e ai modelli comportamentisti di apprendi-mento linguistico e di controllo del comportamento verbale, da Bloomfield [1933], a Skinner [1957]). È superfluo soffermarsi sul-l'importanza della psicolinguistica sulla psicologia cognitivista, e in generale su tutta la cultura contemporanea. Semmai vi sono alcuni aspetti che vanno ulteriormente sottolineati ai fini del nostro discorso e che possono essere così schematizzati. Innanzitutto, e ciò vale an-che per il discorso di Newell, Shaw e Simon, il comportamento lin-guistico dimostra una sua natura gerarchica, il che impedisce qualsia-si possibile analisi in termini di processi stocastici. In secondo luogo, la concezione di Chomsky è innatista, e nel tempo si preciserà sia nella sua impostazione etologica, sia nei suoi rapporti con le strutture neurofisiologiche. In terzo luogo, dalla psicolinguistica emergono due innovazioni metodologiche fondamentali: il ricorso alle intuizioni del parlante nativo (e quindi, in certo senso, un ritorno all'introspezio-ne) e l'osservazione naturalistica, particolarmente per lo studio del linguaggio infantile, mediante l'uso di registrazioni.

Anche sul piano istituzionale, le cose cominciavano a muoversi. Nel 1978, come raccontano Posner e Schulman [1979], si verificava «il principale evento responsabile della nascita della scienza cogniti-va». Ad Harvard, per iniziativa di Jerome Bruner e George A. Mil-ler veniva istituito presso il Dipartimento di Psicologia un Centro per gli Studi Cognitivi.

Nel 1960 usciva Piani e struttura del comportamento di Miller, Ga-lanter e Pribram. Abbiamo qui il primo discorso organico sulla nuo-va psicologia che sta nascendo, e l'analisi è in questo caso centrata sulla possibilità di trovare una nuova unità di comportamento, che sostituisca quella del «riflesso» che ha imperato nel comportamenti-smo; l'unità che viene proposta è quella del TOTE (acronimo dalle iniziali delle parole test, operate, test, exit). Secondo Miller, Galanter e Pribram, ogni azione è diretta a uno scopo e ogni volta che un indi -viduo vuole compiere un'azione formula un piano di comportamento per ottenere lo scopo prefissato. Il primo passo del piano consiste nel compiere un test mirante a verificare la congruenza esistente tra la realtà esterna e tale scopo. Se, ad esempio, il mio scopo è quello di avere un chiodo conficcato in un certo punto del muro, inizial -mente effettuerò un test per verificare che il chiodo non vi sia già. Se c'è, il piano non viene sviluppato oltre, e si passerà direttamente all'uscita, e quindi all'effettuazione di un nuovo piano tad esempio, appendere un quadro a quel chiodo). Se non c'è, passerò alla fase operativa, in questo caso piantare il chiodo. Eseguita la fase operati-va, eseguirò un nuovo test per verificare che il chiodo sia conficcato

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nella giusta posizione. Se è così passerò all'uscita, in caso contrario effettuerò una nuova operazione per correggere la posizione del chiodo. Si può però tener conto anche degli aspetti gerarchici del comportamento, e l'unità può essere utilizzata a più livelli, dal mole-colare al molare.

La successiva opera organica sarà quindi quella, anch'essa più volte citata, di Neisser [1967]. Si ha qui un poderoso sforzo di sintesi delle acquisizioni ottenute in poco più di dieci anni, e il tentativo quindi di dare un panorama organico di una nuova realtà che si è progressivamente realizzata nella psicologia sperimentale. Il paradig-ma che viene enunciato, e che caratterizzerà tutta la prima fase del cognitivismo, passerà sotto il nome di Human information processing (HIP) O elaborazione delle informazioni da parte dell'uomo.

Oggetto di studio della psicologia cognitivista sono sostanzial-mente dei processi, i processi cognitivi. Sembrerebbe superfluo dirlo, ma in realtà è importante proprio mettere l'accento sul fatto che è una psicologia che si occupa non di contenuti, o di comportamenti, o di vissuti, ma di processi. È in un certo senso una psicologia men-talistica, ed è interessante osservare che spesso l'accusa di mentali -smo, rivolta dai comportamentisti ai cognitivisti non è mai stata smentita da questi ultimi. Oggetto della psicologia è cosa fa una per-sona, ma questo «cosa fa» non va inteso nel senso di un comporta-mento esterno, bensì di un processo di elaborazione delle informa-zioni che l'individuo compie. Ogni modalità di accesso a tale/i pro -cesso/i è lecita, sia che sia possibile ricavarla da un comportamento esterno, sia che si debba ricorrere all'introspezione.

L'altro metodo riportato in auge dai cognitivisti, a cui già abbia-mo accennato, si riferisce al computo delle frazioni di tempo neces-sarie a compiere determinate operazioni. Per capire che uso ne è stato fatto nell'ambito della psicologia cognitivista, potremmo limitar-ci ad un esempio. In un esperimento di Miller e McKean [1964] i soggetti, premendo un pulsante, potevano leggere una frase che veni-va presentata tachistoscopicamente; al soggetto veniva richiesto di operare una certa trasformazione sintattica della frase (per esempio, da affermativa attiva a negativa passiva); una volta che il soggetto aveva chiara in mente la trasformazione, doveva premere una seconda volta il pulsante; sarebbe allora comparsa una lista di frasi, e il soggetto doveva rintracciare quella corrispondente alla trasformazione operata, e premere per la terza volta il pulsante. Secondo Miller e McKean, la differenza tra i tempi intercorrenti tra la prima e la se -conda pressione del pulsante nella condizione sperimentale e di con-trollo starebbe a indicare i tempi di trasformazione della frase. Ven-nero così dimostrati tempi diversi per le diverse trasformazioni, e si potè così dimostrare anche l'additività dei tempi di trasformazione. Ad esempio, il tempo di trasformazione di una frase da attiva affer-mativa a passiva negativa è pari alla somma dei tempi di trasforma-zione da attiva affermativa ad attiva negativa e da attiva affermativa a passiva affermativa. Ora questi risultati parlano a favore di una

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teoria trasformazionale della sintassi, ipotizzando che a tempi diversi corrispondano processi diversi.

Ecologia e scienza cognitiva

Se quello che abbiamo sin qui abbozzato è il quadro generale del cognitivismo, come si è venuto delineando nel corso dei suoi primi vent'anni circa di vita, è però importante tentare di cogliere una se-rie di elementi più recenti che hanno portato a una svolta radicale nell'ambito di questo movimento. All'interno stesso del cognitivismo si è aperta una riflessione critica (e autocritica) molto profonda. L'i-nizio di questa riflessione può essere fatta risalire ai convegni tenutisi nell'ottobre del 1972 alla Pennsylvania State University su processi cognitivi e processi simbolici e l'anno successivo all'Università del Minnesota [Shaw e Bransford 1977]. In queste occasioni si assiste a un diffuso rifiuto dei «micromodelli» e all'affacciarsi di sostanziali perplessità nei confronti dell'analogia tra uomo e calcolatore; o me-glio, dell'uomo concepito in puri termini di elaborazione delle infor-mazioni.

Ma il punto forse più significativo di questa riflessione è rappre-sentato dalla pubblicazione, avvenuta nel 1976, di un discusso nuovo libro di Neisser, Cognition and Reality, che ha suscitato numerose po-lemiche. Va comunque anche ricordato che si tratta appunto di quel Neisser che, con il suo Cognitive Psychology del 1967 aveva pratica-mente segnato l'inizio «ufficiale» del cognitivismo, fornendo anche un nome al movimento.

Neisser muove ora tre fondamentali critiche alla psicologia cogni-tivista, per come si è andata configurando nei dieci anni circa succes -sivi all'uscita del suo primo libro. Innanzitutto egli ritiene che vi sia stato un progressivo restringimento di campo, con un'attenzione fe-calizzata sempre di più sull'esperimento di laboratorio e sempre di meno rivolta al mondo esterno, quello della vita quotidiana. In se -condo luogo, secondo Neisser, se le ricerche attuali sono sempre più sofisticate e ingegnose, allo stesso tempo viene fatto di domandarsi quanto siano genuinamente produttive. Si assiste, in altri termini, a un progressivo ripiegarsi della ricerca su se stessa, e gli esperimenti che vengono effettuati sembrano sempre più rivolti alla situazione sperimentale stessa, e sempre meno volti a comprendere il funziona-mento dell'uomo. Ma l'aspetto più interessante delle osservazioni di Neisser è rivolto alla critica che egli oggi muove al concetto di «ela-borazione delle informazioni», centrale, come abbiamo visto, per tut-ta la psicologia cognitivista. Questo concetto, apparentemente così chiaro, soffre invece di un'ambiguità di fondo; di fatto, esso muta del tutto significato nel momento in cui le «informazioni» vengono definite in modo diverso dai differenti autori. Secondo Neisser, le «informazioni» che l'individuo elabora vanno viste nell'ambiente, perché è li che sono, ed è l'ambiente che le offre. Nella sua nuova

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concezione, l'individuo possiede nella sua struttura cognitiva degli «schemi» che gli consentono di coglierle, e che costituiscono il fon-damentale legame tra percezione e pensiero.

Con i due suddetti convegni, e con il libro di Neisser, si afferma così una nuova linea all'interno del cognitivismo, che, dati anche i richiami a Gibson di molti di questi autori, si è venuta a chiamare «ecologica». E sarà Gibson - scomparso nel 1979, proprio l'anno in cui vede la luce la sua opera più importante (e di più durevole in-fluenza) - con la proposta di un approccio ecologico alla percezione visiva, il nume ispiratore di gran parte della ricerca successiva.

Può apparire curioso citare a proposito del cognitivismo un auto-re che come Gibson rifiuta quello che è il postulato primo del cogni -tivismo: la mente come capace di rappresentazione ed elaborazione delle informazioni. Per Gibson tutto ciò è irrilevante: le informazioni sono già presenti nella stimolazione come si presenta direttamente al soggetto, e da questi possono essere direttamente colte (si parla di teoria della percezione diretta) senza dover ricorrere a sistemi compu-tazionali, flussi informazionali, strutture rappresentazionali. E hanno senso per l'organismo che le coglie direttamente dalla stimolazione in quanto affordances (un intraducibile neologismo coniato da Gibson, e derivante da to afford, fornire, presentare, ma anche essere in grado di far qualcosa) presentate dall'ambiente in relazione al valore evolu-tivo che hanno per l'organismo.

La prospettiva ecologica ha immediatamente un notevole succes-so. Tra l'altro, essa offre strumenti di analisi dei problemi percettivo-motori che sino a questo momento erano rimasti marginali nel qua-dro della psicologia sperimentale, nonostante la loro notevole rilevan-za sul piano applicativo. Ma non per questo il cognitivismo ha ritro-vato una sua unitarietà. In direzione opposta alla tendenza ecologica si ha infatti l'inizio della cosiddetta «scienza cognitiva». È questo un movimento che nasce nel 1977, quando R. Schank, A. Collins e E. Charniak fondano una nuova rivista così appunto chiamata. Il pro-gramma della rivista è enunciato sul primo numero da Collins [1977]: esiste un insieme di problemi comuni, che riguardano intelli-genza naturale e artificiale per studiosi provenienti da psicologia co-gnitivista e sociale, tecnologie dell'educazione, intelligenza artificiale, linguistica computazionale, epistemologia. I problemi su cui possono incontrarsi sono costituiti dalla rappresentazione delle conoscenze, dalla comprensione del linguaggio, dalla comprensione delle immagi-ni, dalle risposte alle domande, dall'inferenza, dall'apprendimento, dalla soluzione dei problemi, dalla pianificazione. L'anno successivo gli studiosi della scienza cognitiva fondano una società, il cui primo congresso si tiene a La Jolla nell'agosto del 1979. Nell'occasione, Norman [1980] stabilisce in dodici punti le aree di indagine della disciplina: sistemi di credenze, coscienza, evoluzione, emozione, inte-razione, linguaggio, apprendimento, memoria, percezione, prestazio-ne, abilità, pensiero.

I due paradigmi che hanno dominato il campo nella scienza co-

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gnitiva sono quelli del modularismo e del connessionismo. Le opere che hanno imposto all'attenzione degli studiosi questi due paradigmi sono comparse entrambe all'inizio degli anni ottanta: un importante libro di Fodor [1983], Modularity of Mind, e un articolo di Hopfield [1982], che ha esercitato immediatamente un influsso dirompente.

Il modularismo, nella versione di Fodor, prevede un'architettura cognitiva distinta, almeno per quel che riguarda i sistemi di analisi di input, in strutture verticali, i moduli, appunto, che trasformano com-putazionalmente gli input in rappresentazioni che offrono alla parte centrale del sistema cognitivo. Questi sistemi di analisi dell'input hanno queste sostanziali caratteristiche: 1) sono specifici per domi-nio: in altri termini, si tratta di strutture altamente specializzate, che possono analizzare dei tipi di input molto particolari e differenziati da modulo a modulo; 2) il loro funzionamento è obbligato (manda-tary): in altri termini, quando sono in presenza del tipo specifico di input che sono deputati ad analizzare, non possono fare a meno di entrare in azione; 3) c'è solo un accesso centrale limitato per le rap-presentazioni che computano: in altri termini, i livelli intermedi di analisi dell'input sono relativamente inaccessibili agli stati centrali di coscienza; 4) sono dotati di notevole velocità di funzionamento; 5) sono incapsulati informazionalmente. In altri termini, durante il loro funzionamento non possono avere accesso né in generale alla rappresentazione delle conoscenze dell'individuo, memorizzata a lun-go termine, né ad informazioni comunque provenienti da altre parti del sistema cognitivo dell'individuo.

Questo modello ha riscosso un notevole successo soprattutto in neuropsicologia, dove la verifica dell'esistenza di strutture di tipo modulare è dato costante. Se però vogliamo fare un bilancio quanti-tativo, è probabile che dovremmo concludere, nell'ambito delle scienze cognitive, per una prevalenza numerica dei sostenitori del connessionismo.

Vediamo dunque questi modelli connessionisti (cfr. Rumelhart e McClelland [1986]; e le discussioni aperte su «Behavioral and Brian Sciences» da Feldmann [1985], e Ballard [1986]; per un'introduzione esemplarmente chiara in italiano, cfr. Parisi [1989]). Questi modelli si sono affermati in pochissimi anni e in modo clamoroso, tanto da far parlare di nuovo «paradigma» nella scienza cognitiva, sotto la spinta di due ordini di considerazioni, tecnologiche e (neuro)psicolo-giche. Dal punto di vista tecnologico, la struttura degli attuali calcolatori (terza-quarta generazione) si è rivelata sempre più inadeguata rispetto ai compiti in continuo incremento di complessità che il mondo moderno affida loro. Essi sono concepiti in base a una architettura sequenziale, con una memoria passiva che non può essere utilizzata per compiere le operazioni, e con una strozzatura, quindi, tra memoria e processore. Sul versante neuropsicologico, d'altra parte, esiste una notevole incongruenza tra l'hardware del sistema nervoso centrale e quello dei calcolatori. Il primo, infatti, opera con elementi

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relativamente lenti, che scaricano con tempi dell'ordine dei millise-condi, ma il numero delle interconnessioni tra elementi è molto ele-vato, e l'incredibile rapidità con cui il sistema nervoso centrale è in grado di operare appare frutto soprattutto del fatto che le operazioni avvengono a un grado elevatissimo di parallelismo. In altri termini, sinora i calcolatori hanno operato (e, nell'lA, cercato di simulare il comportamento) con elementi rapidissimi operanti serialmente; mentre il sistema nervoso opera con elementi relativamente lenti, ma massivamente interconnessi in parallelo. La modellistica si è dunque oggi indirizzata prevalentemente, sia nella progettazione dei calcola-tori cosiddetti di quinta generazione, sia nella interpretazione del funzionamento del sistema nervoso, verso il connessionismo, con l'e-laborazione di modelli di funzionamento a parallelismo massivo. Si tratta di modelli tra l'altro compatibili con alcune vecchie idee della psicologia classica, e in particolare compatibili con la concezione in-terattiva di campo, cavallo di battaglia della psicologia della Gestalt, che sembrava tramontata. Come notano Hatfield e Epstein [1985, 181 ss.], di fatto i principi di minimo, o di economia, che regolano il funzionamento del campo possono essere concepiti anche attraverso l'interazione diretta di numerosi eventi mutuamente indipendenti. Una situazione di questo genere si può concettualizzare in termini di connessioni laterali a livello di corteccia visiva, ma in generale di si-stema nervoso centrale. I modelli connessionisti a parallelismo massivo consentono di far uscire queste nozioni dal vago, ma soprattutto tendono a risolvere la controversia tra modelli processuali e modelli computazionali, poiché è il concetto stesso di «calcolo» a modificarsi, potendosi concepire l'aspetto computazionale in termini di interazione diretta tra un ampio numero di unità locali nel cervello. Questa concezione della computazione può essere concepita come una ver-sione formalizzata di due tradizioni di pensiero tradizionalmente di-stinte. Essa è nello spirito delle idee qualitative delle funzioni del cervello come introdotte da Kòhler e dai suoi collaboratori, e può essere vista come una discendente dell'approccio connessionista rap-presentato da Hebb [1949]. Stando così le cose, le teorie di campo potrebbero trovare un nuovo e ben più potente impulso basandosi su questi modelli.

Ma vediamo cosa c'è al cuore del connessionismo, e cioè la mo-dellizzazione in termini di reti neurali. Un esempio di rete (ma le architetture possibili sono numerose) può essere rappresentato da una cosiddetta rete feed-forward, con apprendimento per back-propa-gation. Di cosa si tratta è, molto schematicamente, presto detto. La rete ha almeno tre layers di unità: di input, cosiddette «nascoste», e di output. Le unità sono collegate da legami, che hanno dei «pesi», che possono essere variati durante il periodo di apprendimento (cfr. fig. 1.2). Questi pesi sono nuli'altro che dei coefficienti, che, dato un legame tra un'unità a monte e una a valle, trasformano per moltipli-

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FIG. 1.2. Modello di rete neurale.

cazione l'output dell'unità a monte nell'input dell'unità a valle. Du-rante il periodo di apprendimento, viene proposto un input e un target che corrisponde all'output desiderato. Se l'output della rete non corrisponde al target, esso viene modificato forzandolo dall'ester-no, ma questo provoca a ritroso (per back-propagation) una modifica-zione di tutti i pesi a monte, in modo che siano compatibili con l'output della rete così modificato (per un esempio più dettagliato, cfr. cap. IV, par. 3).

Un'ultima notazione: questa eccessivamente succinta trattazione delle linee fondamentali dei modelli connessionisti appare in contra-sto con le teorie modulari cui si è accennato precedentemente; e di fatto le polemiche tra connessionisti e modularisti sono aspre [Fodor e Pylyshyn 1988; Smolensky 1990], In realtà, le affinità potrebbero essere molto più rilevanti delle differenze.

3. I metodi della psicologia

3.1. Il metodo scientifico

Come si è detto, la psicologia si è costituita in scienza autonoma alla metà del secolo scorso nel momento in cui ha trovato il modo di utilizzare, come le altre scienze naturali, il metodo scientifico. Ma co-me può definirsi il metodo scientifico, e come si differenzia questo da altri metodi che nella storia delle idee l'uomo ha sviluppato per mettere ordine tra le sue conoscenze?

Caratteristici del metodo scientifico sono tre concetti chiave: a) quello di aggettività, b) quello di variabile e e) quello di controllo. Do-

Unità di input

Unità nascoste

Unità di output

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vremo inoltre esaminare anche il concetto di misurazione, la cui im-portanza per la scienza è palese. Vediamoli uno alla volta.

L'aggettività

Più volte abbiamo parlato dei problemi che si sono posti alla psicologia, quando questa ha voluto costituirsi come scienza naturale, e abbiamo discusso il problema dell'oggettività dei dati su cui co-struire la teoria. È questo un problema di tutte le scienze, ovviamen-te, ma se nelle altre scienze il problema raramente si è posto, sem-brando naturale che la scienza si costruisse su dati oggettivi (e que -sto ancor prima di Galileo), in psicologia il problema ha sempre avuto un rilievo fuori dell'ordinario.

Parlando della crisi che portò alla costituzione del comportamen-tismo, negli anni attorno alla prima guerra mondiale, abbiamo già in parte discusso questo problema. L'oggettività, secondo i comporta-mentisti, poteva essere ottenuta solo eliminando la coscienza dagli oggetti di studio della psicologia. Sostituendo alla coscienza il com-portamento, la psicologia avrebbe osservato qualcosa di «oggettivo», come la fisica e le altre scienze naturali. Si trattava, peraltro, di una grossolana semplificazione dei problemi. Come scriveva Kòhler [1947]

questo è l'errore del comportamentista: egli dimentica che dimostrare l'esi-stenza di un mondo fisico indipendente è assai arduo [...] le mie osserva-zioni dei fatti fisici appartengono sempre alla stessa classe generale a cui appartengono quelle riguardanti le immagini consecutive, o la scarsa defini-zione delle immagini che trovo nella visione periferica, o la mia sensazione di benessere [...] io non la evito l'esperienza diretta nelle operazioni della fisica, perché non è evitabile [...] perciò alcune osservazioni riferentesi all'e-sperienza diretta devono di necessità costituire una base interamente ade-guata per la scienza.

L'oggettività nella scienza, infatti, è semplicemente legata alla possibilità di consentire che persone diverse, nelle stesse circostanze, compiano le stesse osservazioni. Da questo punto di vista, gli stessi dati introspettivi possono essere accettati. Possiamo ricordare che anche gli epistemologi più rigorosi da un punto di vista empiristico, e cioè i cosiddetti neopositivisti logici, primo tra tutti Carnap, hanno finito con l'ammettere la validità dei dati introspettivi. Ricordiamo infatti che, in una prima fase, Carnap [1928] aveva ritenuto possibile che tutti i termini delle scienze empiriche potessero essere definiti (con definizioni esplicite o contestuali) mediante termini osservativi («empirismo ristretto»). Ci si dovette però accorgere rapidamente che questi processi definitori non erano applicabili ad almeno due classi di termini scientifici, i termini disposizionali (che non designano delle caratteristiche direttamente osservabili degli eventi fisici, ma delle caratteristiche che tali eventi mostrano solo in determinate cir-costanze) e quelli quantitativi.

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Si dovette così giungere progressivamente a una «liberalizzazione dell'empirismo», con cui [Carnap 1956; Hempel 1952; 1958] ci si rese conto dell'impossibilità di introdurre i termini teorici solo sulla base di procedimenti definitori e riduttivi, con partenza da osserva-bili, e si riconobbe quindi la necessità di introdurre un insieme di termini primitivi non definiti nella teoria, e un insieme di postulati: il sistema teorico, contrariamente a quanto ingenuamente pensavano i comportamentisti, non può reggersi unicamente sull'osservazione. Per quel che riguarda poi specificamente il problema dell'oggettività in psicologia, lo stesso Carnap [1956, 273] ammise che «il tipo logico di un concetto psicologico è indipendente dalla sua natura meto-dologica, ad esempio dal fatto che sia basato sull'osservazione del comportamento, piuttosto che sull'introspezione»; perché i concetti psicologici abbiano le caratteristiche essenziali dei concetti teorici, ciò che conta è che si tratti di «proprietà, relazioni o grandezze quanti -tative assegnate a certe regioni spazio-temporali (generalmente orga-nismi umani o classi di organismi umani)». Il più maturo comporta-mentismo, del resto, come rileva ad esempio Hempel [1952], am-mette i termini mentalistici, purché non siano tra quelli del vocabola -rio osservativo di base, e purché si tratti di termini disposizionali (e quindi definibili per riduzione). È in tale modo che di fatto nel comportamentismo sono così potute entrare le «variabili intervenien-ti» (cfr. par. 2.6 e Tolman [1951]).

Tornando quindi al nostro problema dell'oggettività, oggi la psi-cologia, consapevole dell'impossibilità di risolvere il problema sempli-cisticamente, e consapevole del resto della complessità del problema anche nelle altre scienze della natura, accetta liberamente anche dati di tipo mentalistico, purché inseriti in un costrutto teorico che sia fondato su dati osservativi.

Le variabili

Gli eventi del mondo che osserviamo (dati mentalistici compresi, se raccolti secondo le indicazioni sopra date) possono rientrare in diverse categorie, e assumere all'interno di tali categorie diversi valori. Così, una categoria è, ad esempio, se parliamo di esseri umani, il sesso: in questo caso i valori possibili sono due, maschio o femmina. Un'altra categoria è la professione: possono incontrarsi ingegneri, me-dici, idraulici, casalinghe, ecc. Un'altra categoria ancora è il prestigio sociale: alle diverse professioni di cui sopra, così, è associata una cer -ta considerazione all'interno di una determinata società, per cui l'in-gegnere ha più prestigio sociale dell'idraulico, la casalinga meno del giudice. Ancora un'altra categoria è Yintelligenza, ad esempio misura-ta in termini di QI (quoziente di intelligenza): una persona di intelli -genza media si dice che ha un QI di 100, una persona con intelli -genza superiore avrà un QI di 120, una con intelligenza inferiore, di

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80. E così via. È a queste categorie a cui possono essere associati valori diversi che diamo il nome di variabili.

In altri termini, tutti gli eventi che cadono sotto la nostra osser-vazione, e a cui possono essere attribuiti valori differenti, sono po-tenzialmente delle variabili. Si sarà notato che parlando di valori si sono indicate delle attribuzioni come il sesso, la professione, il presti -gio, a cui difficilmente nel linguaggio quotidiano si attribuisce un si-gnificato quantitativo. Come vedremo tra breve, parlando di misura-zione, esistono diversi livelli di scale di misura, e «maschio» e «fem-mina», al livello appropriato (come vedremo, nominale), sono due valori perfettamente legittimi di misurazione. Quel che qui piuttosto ci interessa è il concetto di variabile.

Il compito principale che ogni scienziato si pone è determinare il rapporto che esiste tra le variabili che osserva. Lo scienziato può così interessarsi al rapporto che esiste tra sesso e professione: è significa-tivamente differente la frequenza delle donne e degli uomini che si dedicano a certe professioni? Tra gli ingegneri si trovano più ma-schi? Tra i pediatri, più femmine? E che relazione c'è tra professio-ne e prestigio sociale? Hanno più prestigio gli idraulici o le casalin-ghe? E che rapporto può esserci t^a intelligenza e prestigio sociale? E così via.

Abitualmente si distinguono le variabili in indipendenti e dipen-denti. Si dice che le prime vengono manipolate dallo scienziato, men-tre delle seconde si osserva il variare dei valori in dipendenza della variazione dei valori delle prime. Questa formulazione richiede qual-che spiegazione.

Quando si dice che le variabili indipendenti vengono «manipola-te» dallo sperimentatore, si intende dire due cose che possono essere profondamente diverse. In un primo caso, è lo sperimentatore che produce direttamente i diversi valori della variabile indipendente: per esempio, somministrando o meno un certo farmaco a diversi gruppi di soggetti e rilevando poi (variabile dipendente) l'effetto del farma-co, ad esempio in termini di ore di sonno, o di variazione di peso corporeo, o di sedazione, ecc. In un secondo caso, i valori della va-riabile indipendente sono già esistenti nella loro gamma: se lo speri-mentatore vuole studiare come variano le scelte professionali (varia-bile dipendente) al variare del sesso dei soggetti (variabile indipen-dente), dire che manipola questa variabile certamente non può im-plicare l'invio dei soggetti in centri attrezzati di chirurgia plastica al di là del mediterraneo; più semplicemente, sceglierà (con i criteri che vedremo) i suoi soggetti tra i due sessi.

In ogni ricerca, è purtroppo ineliminabile il fatto che la variabile dipendente vari anche in dipendenza di altre variabili non comprese dallo sperimentatore tra le variabili indipendenti. Tali variabili ven-gono riassuntivamente poste sotto l'etichetta di errore statistico. Del resto, si badi che è assolutamente impossibile pensare di poter tene-re sotto controllo tutte le variabili estranee. Ciò che una persona è attualmente è frutto di un'infinità di fattori differenti: l'appartenenza

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alla specie umana, in primo luogo, ma anche l'appartenenza a una certa cultura, l'essere nata in una certa famiglia, avere un determina-to corredo genetico suo peculiare, avere fatto determinate esperienze, avere avuto una determinata alimentazione, aver subito certi traumi, ecc. L'elenco potrebbe essere infinito. Tra tutti questi fattori, noi, per esempio, scegliamo come variabile indipendente il sesso, e lo po -niamo in relazione alle scelte professionali.

Parlando del comportamentismo, abbiamo accennato alle variabi-li intervenienti. Si tratta di un concetto teorico e non legato al dise-gno della ricerca. Di fatto, le variabili intervenienti dei comporta-mentisti sono specificamente delle variabili confondenti, «celate», co-me diceva HulI [1943a], nel sistema nervoso, ma a cui non veniva assegnato uno status di realtà, ma solo di costrutto ipotetico. Così, le variabili intervenienti vengono invocate dai comportamentisti quando il rapporto tra variabile indipendente (la situazione di stimolazione S) e variabile dipendente (la risposta organismica R) si rivela non univoco, e occorre invocare qualcosa di interposto tra S e R, che «moduli» l'influenza di S su R.

Controllo e previsione

La ricerca scientifica può ottenere dei risultati attendibili solo se conduce le sue osservazioni in modo controllato. Per controllo si in-tende la capacità di eliminare le influenze di variabili diverse da quelle la cui influenza reciproca viene studiata. Da questo punto di vista, le variabili estranee a quelle indipendenti e dipendenti si di-stinguono in variabili sistematiche e asistematiche.

Le prime, dette anche confondenti, esercitano un loro influsso costante sulla variabile dipendente - se venissero individuate, sa-rebbero in senso proprio variabili indipendenti. Tra queste, parti -colare attenzione va posta agli effetti che si verificano quando la ri-cerca richiede misurazioni prima e dopo il trattamento. In questo caso possono entrare in gioco due tipi di variabili confondenti: la maturazione e Xapprendimento. La prima entra in gioco particolar-mente in età evolutiva, quando nel corso del tempo che passa tra la prima e la seconda rilevazione il soggetto va incontro a modifi -cazioni legate a fattori biologici, apprendimenti estranei alla speri-mentazione, ecc. Così, studiare l'influenza di una determinata tecnica di apprendimento su bambini, con distanza di mesi tra la prima rilevazione pretrattamento e la seconda post trattamento, ci può mettere nell'impossibilità di determinare se i risultati ottenuti sono dovuti al fatto che il bambino è passato da una fase cognitiva ad una di maggiore maturità, se le necessarie esperienze che nel frat -tempo ha fatto lo hanno portato a elaborare in modo diverso le informazioni pertinenti, e così via.

Il problema dell'apprendimento è invece legato specificamente al-le modalità di misurazione che utilizziamo. Se, per esempio, la prima

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rilevazione si basa sulla capacità di risolvere determinati problemi, evidentemente nella seconda misurazione dovremo tener conto del fatto che il soggetto nel corso della prima può avere appreso a risol -vere quei problemi specifici.

Per quel che riguarda le variabili estranee asistema'tiche, anche in questo caso i disegni sperimentali tendono ad eliminarne l'effetto. Peraltro, lo sperimentatore deve cercare di ridurne comunque l'enti-tà. Se una piena eliminazione è utopistica, l'uso di condizioni per quanto possibile identiche in tutte le prove (il cosiddetto ceteris pari-bus) certamente è da perseguire. Anche lavorare in condizioni di sti-molazione impoverita da un buon aiuto in proposito; in questo caso, però, si corre un rischio differente; la condizione che si ottiene non è assolutamente «ecologica», allontanandosi di molto da quella della vita abituale del soggetto. E non sappiamo se questo non può costi -tuire di per sé l'insorgere di un'altra variabile estranea, f metodi principali comunque sono quelli dell'introduzione dei controlli, asse-gnando casualmente i soggetti ai gruppi o ai trattamenti.

Il fine della scienza, l'abbiamo detto, è la previsione. I dati che si raccolgono hanno senso se ci consentono di prevedere cosa accadrà, date determinate condizioni. Ciò si ottiene in un solo modo: deter -minando una dipendenza causale tra variabile indipendente e dipen-dente, che ci permette di dire che in presenza di determinati valori della prima si dovranno riscontrare determinati valori della seconda.

La misurazione

Parlando di variabili, negli esempi che abbiamo proposto abbia-mo visto che i valori che possiamo attribuire agli eventi del mondo non sono necessariamente «quantitativi», nel senso usuale del termi-ne, o quanto meno nell'uso che se ne fa quotidianamente. Più preci-samente, possiamo dire che ogni operazione di misurazione corri -sponde a mettere in relazione certe proprietà degli eventi che osser -viamo con proprietà dei numeri reali, e quindi operare su questi ulti -mi, come se stessimo operando sui primi. Peraltro, esistono diversi livelli di misurazione, corrispondenti a quali proprietà dei numeri reali vogliamo utilizzare. S.S. Stevens [1951], il grande teorico della misurazione in psicologia, di cui già abbiamo parlato a proposito della legge psicofisica, propone di utilizzare quattro livelli di misura-zione: nominale, ordinale, di intervallo, di rapporto.

Livello nominale. Una prima proprietà dei numeri reali è quella della cardinalità, che fa sì che ogni numero sia differente dagli altri. Negli esempi sopra dati, si faceva riferimento a variabili i cui valori indicavano semplicemente una differenza tra un evento e un altro. Così, si parlava di sesso o di professioni. Ma gli esempi possono essere moltiplicati pressoché all'infinito. Possiamo parlare per esem-pio di fecondità, con due valori: fertilità contrapposta a sterilità; di appartenenza a scuole diverse: studenti di liceo classico, di liceo

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scientifico, di istituto tecnico, ecc; di appartenenza a gruppi etnici: italiani, sloveni, ladini, ecc; e così via. In tutti questi casi, l'unica cosa che conta è la differenza, ma non viene determinata nessuna re-lazione asimmetrica, del tipo maggiore/minore, che consenta di met-tere su una scala ordinale i valori. Essi sono solo differenti, ma nes-suno può dire che femmina è più o meno di maschio, che sloveno è più o meno di italiano. E se attribuiamo dei numeri ai valori che osserviamo, questi valgono solo in quanto diversi gli uni dagli altri. Così, possiamo dire che femmina = 1 e maschio = 2, ma ciò non ci autorizza a dire che due femmine equivalgono a un maschio. O possiamo dire che ingegnere = 1, idraulico = 7, talassografo = 13, ma ciò non significa che per fare un talassografo occorre sottrarre un ingegnere da due idraulici. I numeri vengono scelti solo in quanto diversi l'uno dall'altro, la scelta è del resto assolutamente arbitraria, purché si rispetti la differenza.

Livello ordinale. A livello ordinale, oltre alla differenza tra valori, definiamo anche una relazione asimmetrica d'ordine, o in altri termini una relazione maggiore/minore ( >, < ). In questo caso, dati due eventi, possiamo dire se il valore dell'uno è maggiore o minore (o uguale) di quello dell'altro; ciò che non possiamo dire è di quanto è maggiore o minore - e, si badi bene, non perché non lo sappiamo, ma perché la grandezza degli intervalli non è definita. Un esempio assolutamente classico di scala ordinale è in mineralogia la scala di Moss delle durezze, una scala a dieci livelli, che vanno dal talco (il meno duro) al diamante (il più duro), dove il criterio per collocare una certa sostanza a un determinato gradino della scala è dato dal fatto che tale sostanza viene graffiata da quella posta al gradino su-periore, e graffia quella posta al gradino inferiore. Ovviamente, sa-rebbe del tutto insensato pensare che questi gradini siano distanziati tra di loro, con intervalli uguali, come gli intervalli di una scala di lunghezze, o di pési, ecc. E ognuno si rende conto del fatto che dieci pezzi di talco non hanno, seppure messi insieme, la durezza di un diamante.

Livello di intervallo. A livello di intervallo, si ha un ulteriore au-mento nelle proprietà della misurazione. Qui, infatti, non solo i valori possono essere posti su una scala ordinale, ma possono anche essere precisate le grandezze dell'intervallo che separa un valore dagli altri. In altri termini, esiste un'unità di misura, che vale a tutti i livel li della scala. Un esempio tipico di scala di intervallo è quello delle temperature. Ma proprio l'esempio delle temperature ci indica immediatamente qual è il limite di questa scala. Noi utilizziamo nel nostro paese la scala in gradi centigradi, che pone lo 0 alla temperatura di congelamento dell'acqua, e il 100 alla temperatura di ebollizione con pressione atmosferica di 760 mm di mercurio. Ora, si tratta di valori assolutamente arbitrari: nessuno potrebbe impedirci, mantenendo la scala esattamente le stesse caratteristiche metriche, di indi-

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care con 0° la temperatura di fusione del piombo o di passaggio allo stato solido del mercurio. Ben diverso sarebbe stato il caso in cui avessimo posto lo 0° a livello del cosiddetto zero assoluto ( — 273°), della temperatura, cioè, minima in assoluto, perché al di sotto di essa il concetto non è definito. Avendo uno zero arbitrario, come in tutte le misurazioni in scale di intervallo, possiamo operare sui valori utilizzando molte delle operazioni aritmetiche che abbiamo di-sponibili; ma certo non possiamo fare rapporti. Infatti, perché l'ope-razione di rapporto abbia senso occorre che l'origine della scala sia fissa e non arbitraria.

Livello di rapporto. E giungiamo così al livello più alto di misura-zione, quello in cui, muovendoci su una scala la cui origine non è arbitraria, tutte le operazioni definite sui numeri reali, compresa quella di rapporto, possono essere eseguite tranquillamente sui valori che rileviamo. Un esempio immediato di scala di rapporto è dato dalle lunghezze: evidentemente, l'origine della scala è data da uno 0 non arbitrario.

Quando i dati vengono raccolti, occorre che si abbia piena chia-rezza su qual è il livello di misurazione a cui ci muoviamo, perché evidentemente non tutti i test statistici possono essere utilizzati indif -ferentemente a qualsiasi livello di scala.

3.2. La raccolta dei dati

II metodo comportamentale

Parlando del comportamentismo, e poco sopra dell'oggettività, abbiamo avuto modo più volte di parlare del rigorismo metodologi-co, spesso angusto e non particolarmente avvertito epistemologica-mente, che è stato proprio di questa scuola di pensiero. Il comporta-mentismo si è distinto nel porre veti su veti alle tecniche più usate nella raccolta dei dati in psicologia. Dovremmo allora concluderne che il comportamentismo, sul piano metodologico, è stata una stagio -ne tutta negativa in psicologia? Certamento no. Come osserva Le-grenzi [1994],

se volessimo tracciare un bilancio brutale, a settantacinque anni dall'articolo di Watson, dovremmo forse concludere che questi veti, in forma attenuata, sono entrati a far parte del bagaglio professionale di ogni psicologo. Quan-ti'anche si cercano di analizzare i contenuti mentali non lo si fa più con una cieca e totale fiducia nel metodo introspettivo o nel colloquio, limitandosi cioè a descrivere quello che passa per la testa nostra o altrui.

Diciamo meglio: ogni psicologo oggi segue un metodo che a grandi linee può essere definito comportamentale. Per metodo com-portamentale, intendiamo allora un metodo tale per cui lo sperimen-tatore esercita un duplice livello di controllo: da un lato, sui dati

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ambientali (versante dello stimolo, S), dall'altro sui dati comporta-mentali (versante delle risposte, R). L'uso più semplice del metodo comportamentale è quindi quello in cui lo sperimentatore sceglie tra gli eventi ambientali quelli che vanno considerati variabili indipen-denti, che manipolerà adeguatamente, mantenendo costanti gli altri; e tra le risposte, quelle che dovrà osservare come variabili dipendenti. Evidentemente, con la progressiva «liberalizzazione dell'empirismo», a cui si accennava sopra, il numero di variabili comportamentali ritenute accettabili si è ampliato, ed è andato oltre le sole risposte «muscolari» e «ghiandolari» accettate da Watson. In particolare, la ricerca accetta senza alcun problema risposte neurofisiologiche idonee, come ad esempio i potenziali evocati, risposte elettriche di determinate strutture del sistema nervoso centrale alla presentazione di stimoli. E, per quello che riguarda i resoconti verbali dei soggetti umani, un tempo accettati dai comportamentisti solo come «comportamento verbale», e cioè come risposte muscolari degli organi fonato-ri, oggi vengono accettati evidentemente anche per il loro contenuto, per quanto mentalistico possa apparire.

II metodo fenomenologico

Su un versante del tutto diverso dal metodo comportamentale si basa invece il metodo fenomenologico. Precisiamo immediatamente che quando parliamo in questa sede di metodo fenomenologico, non intendiamo assolutamente alludere a quel modo allusivo, metaforico, indefinito di intendere i concetti psicologici, che è tipico della psico-logia (e della psichiatria) cosiddette fenomenologiche, e che ha un suo ambito di riferimento soprattutto clinico. Il metodo fenomenolo-gico di cui qui si parla è quello che è stato utilizzato largamente dalla psicologia della Gestalt, e tuttora viene usato, particolarmente nel campo della psicologia della percezione e della psicologia del pensiero, da una larga tradizione di fenomenologia sperimentale che ha alla sua base questo metodo. Di cosa si tratti non è facile dire, perché pochi sono i contributi specifici nei quali gli studiosi hanno cercato di chiarire di cosa si trattasse. Quando nel 1979 venne pub-blicata quella straordinaria raccolta di saggi che è Organization in Vi-sion di Kanizsa, nell'entusiastica recensione che ne fece Frank Restie su «Contemporary Psychology», grande era anche l'imbarazzo che traspariva in uno psicologo americano, da sempre abituato al metodo comportamentale, nel trovarsi di fronte a una così pura applicazione del metodo fenomenologico.

Sostanzialmente, possiamo definire il metodo fenomenologico co-me il metodo che utilizza sempre dei dati fenomenologici come va-riabile dipendente. In altre parole, lo sperimentatore deve innanzitutto definire il campo fenomenico in cui il soggetto si trova, determinandone le caratteristiche specifiche. Per campo fenomenico si intende l'insieme delle sue percezioni, di ciò che il soggetto vede, od ode,

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ecc; non ciò che sa, o pensa di sapere, di come sia il mondo reale al di là delle sue percezioni; ciò che gli appare, il fenomeno, non la pretesa cosa in sé al di là di questo. Si tratta, si badi bene, di un procedimento che non ha nulla di impressionistico, e che richiede, palesemente, la determinazione dei parametri fisici delle condizioni di stimolazione che si utilizzano. Ma il fatto di utilizzare linee, ponia-mo di una certa lunghezza, movimenti di oggetti di determinata ve-locità, chiarezza di superficie di determinati valori, non significa che questi valori «fisici» siano rilevanti (come nel metodo comportamen-tale): ciò che è cruciale è il valore fenomenologico che essi hanno per i soggetti.

Il fenomenologo sperimentale distingue tra gli stimoli quelli pros-simali da quelli distali. Questi ultimi sono quelli che hanno origine negli oggetti che circondano il soggetto; sono costituiti, ad esempio, dalla Juce che viene riflessa dalla loro superficie. I primi sono invece quelli che originano dagli organi di senso, stimolati dai secondi. Così, la luce riflessa dalla superficie di un oggetto viene a stimolare la retina, proiettando su di essa la cosiddetta immagine retinica; è questa che costituisce lo stimolo prossimale, ed è lo stimolo prossi-male che costituisce la reale variabile indipendente, a cui il soggetto reagisce. Si badi che lo stesso stimolo prossimale può essere origina-to da più stimoli distali differenti; per fare un esempio banale, una linea lunga, ma lontana, proietterà sulla retina un'immagine della stessa lunghezza di quella di una linea corta, ma vicina. Ma il sogget to ha a disposizione solo la linea proiettata sulla retina.

All'interno del metodo fenomenologico, particolare rilievo assume l'atteggiamento che il soggetto ha di fronte alle proprie esperienze, percettive, di ragionamento, ecc. Ad esempio, già Wertheimer [1922; 1923] aveva mostrato l'importanza di osservare le situazioni, con cui dimostrava le sue classiche leggi, in modo «spontaneo», «naturale», senza forzare l'osservazione, cercando di raggruppare percettivamen-te, ad esempio, cose che con l'osservazione naturale non si raggnip-perebbero tra di loro. E più di recente, in ambito del tutto diverso, Julész [1984] ha dovuto insistere sulla necessità che le situazioni per-cettive da lui realizzate si osservassero without scrutiny, senza forzare l'osservazione, ma in modo spontaneo.

Se nel metodo comportamentale è sostanzialmente proibita qual-siasi interazione tra soggetto e sperimentatore, al di là di un'illustra -zione standardizzata e identica per tutti i soggetti della natura del compito da parte dello sperimentatore, e se vi è sostanzialmente un veto (oggi molto attenuato) ad indagare sui motivi che hanno con-dotto il soggetto a fornire determinate risposte, nel metodo fenome-nologico il perché il soggetto ha certe modificazioni del suo campo fenomenico anziché altre è un oggetto primario di indagine. Viene quindi incoraggiato il colloquio tra sperimentatore e soggetto, anche se non con la sistematicità del metodo clinico, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. Di più, c'è chi propone, con risultati di un certo interesse, il metodo dell'interosservazione; e cioè, la sistematica osser-

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vazione comune tra soggetti, con discussione tra di loro dei risultati della loro osservazione [Bozzi 1989; Bozzi e Martinuzzi 1989]. Si as-sume che ciò non crei modifiche dovute a suggestione, ma che, anzi, la discussione critica comune annulli i possibili effetti suggestivi.

II metodo dinico

Parlando in questa sede di metodo clinico, dobbiamo immediata-mente precisare che non alludiamo minimamente a un procedimento utilizzato in psicologia clinica, intesa come quella branca della psico-logia applicata che si occupa di diagnosticare e risolvere problemi psicopatologici. Si tratta viceversa di un metodo di indagine in cui i dati vengono raccolti in modo peculiare, attraverso un certo modo di rapportarsi dello sperimentatore con il soggetto dell'esperimento. Questo metodo è stato proposto per lo studio psicologico dei pro-cessi cognitivi in età evolutiva soprattutto da Jean Piaget, ed è stato largamente utilizzato nella sua scuola. A partire dagli anni sessanta, poi, è stato applicato anche nella ricerca su soggetti adulti da Wason [Wason e Johnson-Laird 1972]. Il procedimento può essere illustrato molto semplicemente. Il soggetto viene posto di fronte a un compito e lo sperimentatore non si limita a prendere nota di come risolve il compito, come il metodo comportamentale vorrebbe, se rigorosa-mente attuato, ma gli chiede, man mano che procede nell'esecuzione, quali sono i processi mentali che lo portano a individuare un certo percorso, anziché un altro.

Facciamo un esempio: in un famoso esperimento di Wason, al soggetto venivano presentati alcuni numeri, gli si diceva che i numeri erano stati messi in serie in base a una regola, e si chiedeva al sog-getto di proseguire nella serie, e spiegare di che regola si trattava. Ora, la regola era molto semplice (e risultava particolarmente irritante per i soggetti, quando veniva spiegata): i numeri erano semplicemente posti in modo tale che il successivo fosse più grande, di quanto non importa, del precedente. Quello che era interessante era il fatto che i soggetti, ritenendo che ci si trovasse di fronte alla necessità di scoprire una regola ben più complessa, tentavano di individuare delle regolarità matematiche che potessero valere per i numeri proposti. Ora, scopo dell'esperimento era proprio quello di capire quali fossero le regole che venivano (invano) tentate. Evidentemente, l'unico modo per saperlo è chiederle direttamente ai soggetti, man mano che vengono loro in mente.

Il metodo clinico è di uso molto complesso e richiede sperimen-tatori molto addestrati. Il rischio è quello di influenzare il corso dei pensieri dei soggetti, male interpretare quanto dicono, dirigere invo-lontariamente la loro attenzione sugli aspetti della situazione speri-mentale importanti per lo sperimentatore, ma che di per sé non avrebbero mai attratto il loro interesse. Molte delle critiche che si sono appuntate su Piaget e la sua scuola sono state anche originate

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dai dubbi che i protocolli sperimentali resi pubblici hanno prodotto, per un uso del metodo clinico apparso, soprattutto ai ricercatori di formazione comportamentista, un po' disinvolto.

I metodi psicofisici

I metodi psicofisici sono largamente utilizzati non solo nella psicologia della percezione, per raccogliere giudizi sensoriali, ma, con gliopportuni adattamenti, in tutta la psicologia sperimentale, ogni voltache il soggetto deve dare dei giudizi sui materiali di stimolazione chegli vengono presentati. Nel corso della storia della psicologia ne sonostati proposti moltissimi; qui ci limiteremo ad accennare ai principali[per un classico trattamento dei metodi psicofisici, cfr. Guilford1954].

Metodo dei limiti. Il metodo dei limiti è forse il metodo psicofi-sico più utilizzato per la determinazione dei valori di soglia: soglia assoluta, quando si vuole determinare il valore minimo di intensità di uno stimolo per cui questo inizia ad essere percepito; e soglia differenziale, quando si vuole determinare il valore minimo di diffe-renza di intensità tra due stimoli (JND, just noticeable difference, o differenza appena rilevabile), per cui questi riescono ancora ad es-sere differenziati.

Per la determinazione della soglia assoluta, lo sperimentatore ini-zia a presentare uno stimolo (per esempio, un suono di una certa lunghezza d'onda) a un valore di intensità nettamente superiore (o inferiore) a quello supposto di soglia, e inizia quindi a diminuirne (o ad aumentarne) il valore, sinché il soggetto non dice di non essere più in grado di percepirlo (o di cominciare a percepirlo). A questo punto, presenterà la serie degli stimoli in senso inverso alla prece-dente, ascendente se la prima serie era discendente, o viceversa. L'aumento o la diminuzione non vengono fatti lungo un continuo, ma per intervalli discreti (per esempio, a intervalli di 2 decibel alla volta), e per ogni intervallo si annota la risposta del soggetto. Le serie vengono ripetute un certo numero di volte, e si considera valore di soglia quello a cui il soggetto ha risposto il 50% delle volte. È importante alternare serie ascendenti e discendenti, poiché si rileva sistematicamente un effetto della direzione della serie: la soglia è sempre più bassa nelle serie ascendenti che nelle discendenti, e l'ef-fetto viene così ad essere posto sotto controllo.

II procedimento è analogo per la determinazione della soglia differenziale. In questo caso, dovendosi differenziare tra due stimoli,uno viene mantenuto costante {standard) mentre l'altro viene fattovariare {variabile). Anche qui, si faranno serie ascendenti e discendenti, iniziando da valori della variabile nettamente inferiori allostandard nelle prime, e nettamente superiori nelle seconde, e arrestandosi quando il soggetto dichiara di non percepire differenze tragli stimoli. Il valore di JND è il valore di differenza che viene rilevato

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il 50% delle volte. All'errore della direzione della serie, qui se ne possono aggiungere altri due: il cosiddetto errore del campione, che fa sì che lo standard tenda ad essere spesso sovrastimato rispetto alla variabile (cosa che consiglia di alternare variabile e standard); e il possibile errore della posizione, che fa sì che se gli stimoli sono posti spazialmente in posizioni diverse (per esempio, nel caso di stimoli visivi, uno a destra e l'altro a sinistra) può esserci una sovrastima legata alla posizione.

Metodo dell'errore medio o dell'aggiustamento. Questo metodo ha esattamente lo stesso campo di impiego del metodo dei limiti. In questo caso, però, è l'osservatore che modifica il valore degli stimoli, in modo continuo, nelle serie ascendenti e discendenti.

Metodo degli stimoli costanti. Questo metodo ha lo stesso campo di impiego dei due precedenti. In questo caso, però, non vi sono serie ascendenti o discendenti. Lo sperimentatore seleziona un picco-lo numero di valori di intensità dello stimolo (o della variabile, nella determinazione della soglia differenziale), usualmente da 5 a 10, e presenta questi valori al soggetto un numero elevato di volte (non meno di dieci volte per valore), in ordine assolutamente casuale.

Metodi diretti. S.S. Stevens [1951], nel proporre la sua nuova psi-cofìsica, che lo ha condotto a proporre la sua legge sostitutiva di quella di Fechner in forma di funzione potenza, ha criticato i metodi psicofisici classici quali quelli sopra esposti, affermando che essi non portano che apparentemente a un giudizio diretto dell'intensità degli stimoli; ma si basano sempre su un giudizio relativo solo a un aspet -to di questi: il valore di intensità appena rilevabile, in assoluto o per differenza. I metodi proposti da Stevens consentirebbero invece di dare giudizi diretti su tutta la gamma delle diverse intensità degli stimoli.

Il metodo di più largo uso è quello della cosiddetta stima di gran-dezza. Al soggetto viene preliminarmente presentato il cosiddetto mo-dulo, costituito da due stimoli, uno di intensità molto piccola, l'altro di intensità molto grande, e gli si dice che al primo va assegnato un valore arbitrario di 1, al secondo un valore arbitrario di 10, o 100, o un altro valore comunque maggiore del primo. Si presentano quindi, in ordine casuale, gli stimoli da valutare, di intensità intermedia tra i primi due, e il soggetto viene invitato ad attribuire un valore nume -rico proporzionale all'intensità percepita, compreso nella gamma 1-10 o 1-100, a seconda del modulo iniziale.

Un altro metodo di largo uso è il cosiddetto confronto cross-moda-le. Al soggetto viene data un'apparecchiatura che gli consente di pro-durre stimoli dell'intensità da lui desiderata per una certa modalità sensoriale (ad esempio, intensità sonora). Anche qui, gli viene indi-cato un modulo, e cioè un valore massimo e uno minimo entro cui

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si deve muovere. Gli vengono successivamente presentati, in ordine casuale, gli stimoli di diversa intensità che dovrà valutare, apparte-nenti a un'altra modalità sensoriale (per esempio, intensità lumino-sa). La valutazione verrà fatta dal soggetto producendo, per ogni sti -molo nella seconda modalità, uno stimolo di intensità ritenuta corri-spondente nella prima modalità.

Gli artefatti

Nella conduzione delle ricerche, sono molti i fattori che possono intervenire e che, non controllati, portano a delle conclusioni erro-nee, producendo risultati che vengono interpretati in modo scorretto. Abbiamo già accennato sopra alle variabili confondenti, e in generale alle variabili estranee. Gli artefatti di cui qui parliamo solo in parte sono dovuti a variabili confondenti. Più in generale, fanno par te di quella che viene frequentemente definita la «psicologia sociale» della ricerca; intendendosi con ciò il fatto che una situazione sperimentale è una situazione in cui interagiscono soggetti e sperimentatori, con effetti di natura interpersonale che sono tipicamente studiati dalla psicologia sociale, ma che curiosamente vengono ignorati spesso proprio dagli psicologi che conducono la ricerca, forse proprio perché coinvolti nella situazione te non esterni e superiori ad essa, come piacerebbe credere). [Per un'antologia di saggi che coprono tutti i diversi aspetti degli artefatti nella ricerca, cfr. Luccio 1985.]

Parlando di queste fonti di artefatti, le divideremo in fattori legati allo sperimentatore, fattori legati al soggetto, fattori legati alla situa-zione sperimentale (tra cui, di particolare importanza, il compito).

Fattori legati allo sperimentatore. Questi fattori sono stati partico-larmente studiati da Rosenthal [1976]. Il più importante di questi fattori è legato alle aspettative dello sperimentatore: si tratta del co -siddetto «effetto Rosenthal», detto anche delle profezie autoaweran-tesi. A quanto pare, lo sperimentatore, in modo sovente del tutto inconsapevole, e spesso non verbalmente, riesce a trasmettere le sue aspettative sull'esito dell'esperimento al soggetto, alterandone invo-lontariamente il comportamento. Ad esempio, lo sperimentatore può mostrare, senza accorgersene, la sua soddisfazione, o rispettivamente insoddisfazione, in coincidenza con le risposte del soggetto. Questo effetto si elimina con il cosiddetto metodo del doppio cieco, che com-porta la necessità, specie in esperimenti i cui risultati sono molto te-nui, e particolarmente suscettibili a effetti di suggestione, di disporre di almeno due figure distinte: sperimentatore e conduttore della ricer-ca, quest'ultimo tenuto all'oscuro delle ipotesi dello sperimentatore.

Vi sono comunque altre caratteristiche dello sperimentatore che possono essere causa di alterazione dei risultati, specie in interazione con determinate caratteristiche dei soggetti. Una di queste è il sesso; un'altra l'età; un'altra ancora la razza, o il gruppo etnico di apparte-

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nenza; un'altra ancora, il prestigio sociale di cui comunque gode lo sperimentatore di fronte al soggetto. Evidentemente, il sesso avrà ef-fetti diversi a seconda del sesso dei soggetti, del tipo di compito, ecc; lo stesso dicasi della razza, e così via. Lo spazio impedisce di prendere in esame tutti questi aspetti; è peraltro opportuno tener -ne conto nella conduzione degli esperimenti. Ci limitiamo ad osser-vare che il loro effetto sui soggetti è spesso dovuto a quanto modifi-cano la desiderabilità sociale; il desiderio, cioè, di porsi, anche incon-sapevolmente, sotto una luce comunque favorevole.

Fattori legati al soggetto. La stragrande maggioranza degli esperi-menti di psicologia viene condotta in tutto il mondo su studenti uni-versitari, soprattutto di psicologia. I motivi di questo stato di cose sono molto semplici: si tratta di materiale umano di facilissima repe-ribilità per gli sperimentatori, che di solito operano nelle strutture universitarie; di più, si tratta di soggetti che si possono con molta facilità convincere ad operare come volontari negli esperimenti. Que-sto perché di solito lo sperimentatore, essendo un loro docente, ha su di essi un indubbio potere. Di più, particolarmente negli Stati Uniti, i soggetti sono spesso obbligati a prestarsi come soggetti in almeno uno o due esperimenti a trimestre, per ottenere crediti indi-spensabili per passare da un semestre al successivo.

Tutto ciò rende molto squilibrato il campione di umanità su cui conduciamo le nostre ricerche, e rende precaria la generalizzabilità dei risultati. Uno dei problemi maggiori è legato alla particolare rela-zione di dipendenza che si instaura così necessariamente tra soggetto e sperimentatore. Il primo può essere portato, per i problemi di de-siderabilità sociale di cui abbiamo detto sopra, e che in situazione di dipendenza si fanno particolarmente acuti, a cercare di compiacere il proprio docente.

Un particolare problema sorge se si considera il fatto che i sog-getti possono o meno essere volontari. Di fatto, i soggetti volontari tendono ad essere più motivati ad impegnarsi nella ricerca, tendono a dare il meglio di se stessi, e tendono anche a manifestare un mag-gior bisogno di approvazione. Questo li può indurre a cercare di capire cosa si attende da loro lo sperimentatore, e quindi a rispondere su questa base, e non sulla base delle caratteristiche della situazione sperimentale.

Evidentemente, anche nel considerare i soggetti, i fattori legati al loro sesso, alla razza o appartenenza etnica, al prestigio sociale, pos-sono giocare un ruolo non secondario, speculare a quello che gioca-no nel caso già accennato dello sperimentatore.

Vattori legati al compito, e in genere alla situazione sperimentale. Questi fattori sono stati particolarmente studiati da Orne [1962], in diverse situazioni sperimentali, ma essi comunque costituiscono un problema più generale. Si può tranquillamente affermare che in psicologia ogni situazione sperimentale crea delle aspettative nel sog-

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getto, che tende a rispondere sulla base delle aspettative, più che del compito propostogli dallo sperimentatore. Un caso ben noto, che va sempre tenuto sotto controllo nella sperimentazione farmacologica (e non solo nella sperimentazione di psicofarmaci o di analgesici, come i medici tendono frequentemente a credere) è quello dell'e/-fetto placebo. Ogni farmaco genera delle aspettative nel soggetto a cui viene somministrato. Se mi si da una pillola, e mi si dice che si trat -ta di un sonnifero, questa comunicazione mi indurrà un'aspettativa di sonno, e di fatto io potrò dormire più a lungo di quanto non farei, dopo avere assunto la pillola, se non sapessi che si tratta di un sonnifero. Per tenere l'effetto placebo sotto controllo, sarà allora op-portuno utilizzare un gruppo placebo a cui viene somministrata una sostanza inerte (per esempio, una compressa d'amido), a fianco a quello sperimentale, a cui è stato somministrato il farmaco, e a quel lo di controllo a cui non viene somministrato nulla. Evidentemente, i soggetti del gruppo sperimentale e del gruppo placebo non devono sapere a quale gruppo appartengono, o, in altri termini, cosa conte -neva la sostanza che hanno assunto. L'esperimento viene detto per questo motivo cieco. Peraltro, per evitare che le aspettative dello spe-rimentatore possano trasmettersi anche inconsapevolmente ai sogget-ti, di solito anche chi somministra le compresse ignora la natura di ciò che somministra. L'esperimento viene detto in tal caso doppio cieco (cfr. supra). Ora, l'esistenza dell'effetto placebo viene allora di-mostrata se c'è una differenza significativa tra i risultati del gruppo placebo e quelli del gruppo di controllo; ma, più importante, solo se c'è una differenza significativa tra i risultati del gruppo placebo e quelli del gruppo sperimentale possiamo concludere per l'efficacia del farmaco.

Al di là dell'effetto placebo, sono comunque molti gli artefatti che la natura della situazione sperimentale può generare. Per esem-pio, il soggetto può essere portato ad escludere che il compito richie-da delle risposte di natura troppo semplice. Se si chiede, per esem-pio, a un soggetto come si chiama il fiore dell'ibisco, ben difficilmente risponderà (correttamente) «ibisco», perché la domanda gli apparirà troppo facile. Wason ha sfruttato questo effetto nell'esperimento della serie di numeri, a cui abbiamo fatto riferimento parlando del metodo clinico. Il soggetto scartava la soluzione evidente (serie di numeri in ordine crescente), e cercava le più astruse regole che potessero sovrintendere alla costruzione della serie.

Ma Orne ha dimostrato che il mancato controllo di questo effet to di «richiesta implicita» del compito può portare a fraintendimenti gravi dei risultati che si ottengono. Solo per fare un esempio, in una serie di esperimenti (tanto famosi, quanto deontologicamente dubbi), Milgram [1963] dimostrò che i suoi soggetti, studenti universitari, se convinti di non essere soggetti, ma aiutanti dello sperimentatore, si mostravano in larga misura allegramente disposti a somministrare ad un altro soggetto (in verità, questa volta complice dello sperimenta-tore) scariche di corrente elettrica assai dolorose (che evidentemente

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74 STORIA E METODI

il complice simulava soltanto di ricevere), per dimostrare l'influenza delle punizioni in un compito di apprendimento. L'interpretazione che Milgram dava di questo fatto allarmante era in termini di «obbe-dienza»: i soggetti, se legittimati da una qualche istanza sentita come di ordine superiore (in questo caso, i fini scientifici, a cui tutto può sacrificarsi; in altri casi, la difesa della razza, o della propria «civiltà», ecc), sono capaci di autogiustificarsi per le nefandezze che possono compiere. Ma in realtà, come dimostrava Orne, la situazione di labo-ratorio ha implicito il fatto che in essa nessuno corre seriamente un pericolo reale. Tant'è vero che, aumentando il «realismo» della scena (con un buon attore, con urla e convulsioni ben simulate), è difficile che i soggetti giungano a risposte estreme.

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

Per lo studente che intenda approfondire le situazioni che hanno portato la psicologia agli sviluppi attuali, si consiglia la lettura di al-cuni testi, anche eccellenti, oggi disponibili in lingua italiana, come Schultz [1969]; Hearst [1979]; Dazzi e Mecacci [1982]; Legrenzi [1992]; Mecacci [1992], ecc. Per quel che riguarda la metodologia della ricerca, i testi disponibili in italiano sono Ercolani, Areni e Mannetti [1990]; McBurney [1994]; Pedon [1991].

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tivazioni Capitolo 2

1. Introduzione

Emozione e motivazione sono termini che condividono una me-desima radice etimologica derivante dalle espressioni latine «emove-re» e «movere», e si associano, nell'uso corrente, ad immagini di movimento e di attività.

Con essi ci si riferisce ad una varietà di fenomeni che, tuttavia, non sempre è facile o possibile distinguere come appartenenti alla sfera dell'emozione o a quella della motivazione. Attenendoci in sen-so stretto alla radice dei termini, potremmo ascrivere all'emozione principalmente ciò che si traduce in un «muovere fuori» e alla moti-vazione soprattutto ciò che si traduce in un «muovere verso», sotto-lineando in un caso il carattere di emergenza e nell'altro la funzione di direzione.

Quando parliamo di emozioni come la rabbia, la paura, la sor-presa, il disgusto ci riferiamo a fenomeni che, in presenza di deter-minati eventi o situazioni, insorgono dall'interno e coinvolgono la persona pervasivamente e intensamente al di là della sua consapevo-lezza e della sua intenzionalità. La persona emozionata è attraversata da «fremiti» che ne alterano l'aspetto, la voce, la condotta. Il caratte -re di emergenza è efficacemente veicolato da espressioni che si riferi-scono alle varie reazioni ed esperienze emotive, facendo ricorso a verbi come trasalire, assalire, travolgere.

Nel caso della motivazione, invece, si può notare come tale con-cetto sia connesso a bisogni, fini, strategie, nel complesso ad un in-sieme di fenomeni che si trovano in una posizione intermedia e han-no una funzione di raccordo e di regolazione nei rapporti tra la per -sona e l'ambiente. La persona motivata è portatrice di un bisogno da soddisfare, è orientata al perseguimento di un fine, è impegnata nello sviluppo e nel dispiegamento di una strategia. Qui la funzione di direzione è efficacemente veicolata dall'intrecciarsi, e a volte dal

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sovrapporsi, della nozione di motivazione con quelle di intenzionali-tà, responsabilità, causalità.

Sarebbe tuttavia riduttivo attenerci ad una lettura dei due feno-meni esclusivamente in base a tali distinzioni che in larga misu ra si appoggiano ad apparenze di superficie, a risonanze del senso comune e a ciò che può venire suggerito dalla riflessione sulla pro-pria esperienza.

In particolare, sarebbe riduttivo tracciare linee di demarcazione che possano finire col confinare i fenomeni emotivi nella sfera del-l'incontrollabile e quelli motivazionali nella sfera dell'intenzionale.

I due fenomeni, in realtà, sono soprattutto distinguibili in rap-porto al rilievo che ad essi è stato riconosciuto dai diversi indirizzi di pensiero e di ricerca.

Allo stato attuale non siamo in grado di fornire dell'emozione e della motivazione una teoria esaustiva e generalmente condivisa di che cosa esse siano e di quali siano i loro rapporti. Siamo ancora al punto in cui il nostro desiderio di conoscenza può soprattutto proce-dere attraverso la riflessione sull'eredità del passato e il confronto tra diverse ipotesi e direzioni di ricerca.

In questa ottica sono stati concepiti i paragrafi che seguono. Nel successivo, è mia intenzione porre l'accento sull'uso che possiamo fare delle intuizioni dei classici. Nel terzo e nel quarto intendo presentare a grandi linee i temi e le coordinate principali della ricerca psicologica contemporanea in materia di emozione e motivazione.

2. Tradizioni di pensiero e livelli di analisi

Dall'antichità greca sino al XIX secolo la storia della riflessione sistematica sui processi mentali, tra cui anche quelli connessi all'emo-zione e alla motivazione, segue vicende che scandiscono lo sviluppo della riflessione sulla natura umana, da un pensiero fondato sulla ri-velazione e sulla speculazione attorno a essenze e principi universali a un pensiero fondato sull'esame sistematico della realtà e sulla sco-perta di regolarità nell'ambito dei fenomeni naturali.

La psicologia che conosciamo è quella che si è venuta esprimendo in seno alla cultura occidentale, che affonda le proprie radici nel pensiero greco, che pone le premesse di un proprio sviluppo autono-mo rispetto alla riflessione filosofila nel 1600 e nel 1700 e si caratte-rizza come disciplina scientifica soltanto alla fine del secolo scorso. Essa non esclude la possibilità di altre psicologie derivanti da matrici culturali diverse e con diversi itinerari; ma di tali psicologie e di altre forme dell'interrogarsi psicologico non sappiamo praticamente nulla. La storia che conosciamo è quella che si accompagna alla riflessione sistematica sulla natura umana nella sua lunga marcia di avvicina -mento a una concezione dell'uomo come parte della natura e, in quanto tale, oggetto di indagine scientifica. Lungo questa marcia si sono alternati principalmente due grandi indirizzi di pensiero, l'em-

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EMOZIONI E MOTIVAZIONI 77

pirismo e il razionalismo, i quali in vario modo affrontano i principali aspetti della speculazione filosofica, della ricerca scientifica, dell'or-ganizzazione politica e sociale.

Non si tratta soltanto di scuole di pensiero, ma più estensiva -mente di tradizioni culturali che implicano vere e proprie opzioni esistenziali, nella misura in cui abbracciano tutti i principali interro-gativi che l'uomo si pone su se stesso e sul mondo a lui circostante.

Da Democrito, Piatone e Aristotele, attraverso le diverse media-zioni della cultura romana e della scolastica cristiana, sino ai grandi sistemi filosofici di Leibniz, Cartesio, Locke, Hume, Kant, Hegel, la diversa considerazione delle proprietà della ragione e della funzione dell'esperienza ha fornito le coordinate lungo cui articolare i proble -mi cruciali dell'accadere psichico: la sua genesi, la sua organizzazio-ne, i suoi limiti. Praticamente non vi è interrogativo della moderna ricerca psicologica che, in qualche modo, non trovi un'anticipazione o una premessa nelle intuizioni e nelle speculazioni dei grandi mae-stri del pensiero del passato.

È tuttavia difficile stabilire quanto di tali intuizioni e speculazioni sia da considerarsi un'eredità sulla quale capitalizzare o piuttosto un'i -poteca dalla quale emanciparsi. Apparentemente, temi che oggi appar-tengono all'indagine scientifica sulle emozioni e sulle motivazioni, in vario modo e a più riprese, sono stati oggetto dell'attenzione di medici, filosofi e religiosi al crocevia dei rapporti tra mente e corpo da un lato e dei rapporti tra filosofia e disciplina morale dall'altro.

Si potrebbe discutere, ma, per motivi di spazio, rimando ad altre sedi tale compito, quale possa essere il corretto uso che possiamo fare delle speculazioni dei classici, in ordine alle passioni e agli istin-ti, rispetto alle risposte che oggi attendiamo dalla ricerca scientifica in ordine alle emozioni e alle motivazioni. Non vi è dubbio che le riflessioni sulle emozioni, sulle passioni, sui sentimenti di Aristotele, di Cicerone, di Seneca, di Spinoza, di Cartesio, di Malebranche, di Hobbes e di Hume possano tuttora esercitare un grande fascino, sa-rebbe tuttavia un errore appiattire l'istanza morale che pervade tali riflessioni e l'acutezza intellettuale che fa ad esse da sostegno, a causa di un confronto, del tutto improponibile, con gli interrogativi e i risultati di un'attività di ricerca che ha diversi fini e obbedisce a di-versi criteri.

A questo proposito quanto Magri ha recentemente sostenuto per le emozioni potrebbe parimenti valere per le motivazioni. Effettiva-mente già nelle teorie classiche, come nelle teorie moderne, sia pure secondo prospettive diverse, emozioni e motivazioni, «si configurano come stati o processi psicologici complessi, entro cui interagiscono rappresentazioni, credenze e valutazioni, cambiamenti fisiologici ed esperienze, anche molto differenziate, legate al piacere e al dolore» [Magri 1991, 31].

Le analogie tuttavia non possono spingersi oltre la descrizione, sia pure accurata, della semplice esperienza e, anche a questo livello, non può essere dato per scontato che i termini emozione, desiderio

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e cognizione abbiano lo stesso significato e mantengano per gli stu-diosi dei nostri tempi la stessa risonanza affettiva e conoscitiva che essi avevano per l'uomo del seicento.

Apparentemente, nel filosofo del seicento al pari di quanto sem-bra nel filosofo del IV secolo a.C, l'istanza esplicativa relativa ai processi e ai distinti meccanismi che sottendono e regolano le diver -se emozioni e motivazioni è totalmente sussunta dall'istanza etica protesa ad affermare il primato della razionalità sugli elementi di perturbazione, di confusione e di deviazione della natura corporea.

Secondo l'insegnamento di Cartesio, al pari di quanto possiamo evincere dall'insegnamento di Aristotele e di Seneca, «non c'è anima tanto debole che non possa, ben guidata, acquistare un assoluto do-minio sulle passioni» [in D'Urso e Trentin 1990, 10].

Approfondire la storia, oltre che un esercizio al riconoscimento delle somiglianze e delle repliche, può essere anche un esercizio al-l'individuazione delle novità e delle specificità di ogni epoca.

Inoltre, nel confronto storico è importante non trascurare i diver-si livelli di analisi lungo i quali può svilupparsi l'esame dei fenomeni, tanto più quando questi sono complessi, si prestano a diverse pro-spettive e presentano componenti di differente natura.

Vi è un livello di analisi descrittivo, che analizza i fenomeni così come si presentano all'osservatore esterno; vi è un altro livello d'ana -lisi che, invece, procede dai vissuti soggettivi che a tali fenomeni si associano; un altro che mira a individuare e spiegare i meccanismi e i processi che sottendono i fenomeni e i vissuti; un altro che mira a ricostruire e a seguire la genesi e gli sviluppi degli stessi; un altro ancora che mira a rendere ragione dei fini e delle funzioni cui essi assolvono nel tempo, nel rapporto con la realtà fisica e con quella sociale. Si tratta di livelli di analisi diversi, non riducibili l'uno all'al -tro e solo in taluni casi riconducibili a medesimi programmi di ricer-ca entro cui ha senso tentare una qualche loro integrazione.

Ai diversi livelli gli stessi costrutti possono avere un differente rilievo, possono risultare diversi gli osservabili che vengono presi in esame, possono essere diverse le grandezze e le misure che vengono considerate e impiegate.

Già in Aristotele è matura la convinzione che convergano nell'e-mozione e ne siano i costituenti gli stati d'animo, le credenze e le valutazioni dei comportamenti e delle alterazioni corporee. Si tratta tuttavia di una convinzione che, sino ad epoche non lontane, ha fat to pochi progressi nella conoscenza della effettiva natura dei vari co-stituenti e dei loro rapporti.

In realtà la storia della psicologia delle emozioni e delle motiva-zioni, in quanto ricerca sugli elementi, sui processi e sui meccanismi che ne costituiscono e ne regolano le diverse manifestazioni, è relati-vamente recente e testimonia il lento e cumulativo avanzamento della conoscenza scientifica.

Tra l'intuire e lo spiegare ci possono essere distese più grandi degli oceani. Appropriarsi dell'eredità del passato, mentre da un lato

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EMOZIONI E MOTIVAZIONI 79

può essere un deterrente rispetto all'illusione di talune scoperte o novità, dall'altro può parimenti essere un deterrente rispetto all'as -sunzione delle medesime lenti che in passato hanno offuscato la co-noscenza dei fenomeni.

Nel caso delle emozioni e delle motivazioni, in particolare, l'i -stanza morale del passato assume rilievo soprattutto rispetto ai limiti che essa può opporre all'istanza conoscitiva, nel rendere ragione dei processi e dei meccanismi che accompagnano la genesi e le diverse manifestazioni emotive e motivazionali.

Parimenti il riconoscimento dei grandi indirizzi di pensiero, con tutto il loro armamentario di modelli e di metafore, assume rilievo per cogliere ciò che fa da sfondo, resta implicito, condiziona nelle premesse e nelle mete l'attività di ricerca.

Alcuni dibattiti che sembrano svolgersi tra interlocutori che par-lano lingue differenti e reciprocamente incomprensibili, come alcune polemiche che sembrano perpetuarsi senza alcun apparente motivo di contesa, in realtà riflettono punti di vista diversi che usano lo stes-so linguaggio con una diversa punteggiatura e diverse accentuazioni. Di ciò è in un qualche modo paradigmatica la storia dei nessi tra emozione, motivazione e cognizione.

Come accenneremo di seguito, ostinarsi a difendere un primato o l'altro è poco produttivo se non si definiscono con maggiore preci -sione i termini del problema che sono essenziali per la sua soluzione, come ad esempio il ruolo della percezione e della consapevolezza in un'analisi cognitiva dell'emozione e il ruolo degli affetti e della moti-vazione in un'analisi dei processi cognitivi.

In rapporto a ciò, anche per le emozioni e per le motivazioni, come per molti altri fenomeni centrali dell'indagine psicologica, rima-ne da approfondire quali siano le implicazioni delle diverse concezio-ni del mondo e delle diverse tradizioni di ricerca, nell'opporre una teoria all'altra o nel privilegiare, nell'analisi dei medesimi fenomeni, alcuni aspetti piuttosto che altri.

Apparentemente, la storia del pensiero occidentale è attraversata da una dialettica tra ragione e natura alle cui vicissitudini non resta -no estranee le diverse-trattazioni dell'emozione e della motivazione. A seconda che si sia considerato motivante l'intelletto o il desiderio, a seconda che si sia ritenuto di procedere dalla ragione o dagli appe-titi, le barriere che sono state erette tra il corpo e la mente hanno prefigurato diverse dicotomie e separazioni tra affetti e cognizioni che non hanno lasciato indenni gli indirizzi di ricerca che si sono innestati sulle diverse tradizioni di pensiero.

Come suggerito da D'Urso e Trentin è rintracciabile una linea di continuità tra «l'etica stoica di Zenone e Crisippo e le considerazioni di Cartesio, di Telesio e Spinoza, i quali — pur con argomentazioni diverse - riecheggiano Cicerone, che definiva le passioni perturbatio-nes animi» [1990, 91.

Parimenti è rintracciabile una linea di continuità tra Aristotele, Hobbes e gli enciclopedisti nel riconoscere alle passioni una valenza

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positiva come di elementi tonici capaci di integrarsi con il giudizio nel guidare l'azione. Ad una concezione dispotica degli affetti come affezioni o morbi dell'anima da contrastare e soggiogare, ha dunque fatto costantemente da contraltare una concezione degli affetti come energie da integrare e da incanalare secondo il principio del «giusto mezzo».

Si rivela d'altro canto impossibile tracciare linee di demarcazione precise nell'uso che, di volta in volta, è stato fatto di termini quali: passioni, affetti, sentimenti, desideri, avversioni. Questi hanno in va-rio modo riflesso il conflitto di fondo, che ha permeato l'interrogarsi del mondo occidentale sulla personalità umana, tra intelletto e appe-titi, tra volere e sentire, tra ambizioni della mente e richiami del cor-po, tra soggezione nei confronti della rivelazione e gusto della sco-perta. E hanno assunto una diversa valenza in rapporto ai diversi oggetti su cui la riflessione nìosofica prima e quella scientifica poi sono venute di volta in volta a fecalizzarsi: da un lato, i fenomeni «micro» connessi agli elementi di base e ai meccanismi elementari, dall'altro, i fenomeni «macro» che risultano dai primi e che danno coerenza e continuità al rapporto dell'individuo con la realtà e che, nel caso delle emozioni e delle motivazioni, esprimono tutta la loro complessità e rendono ragione delle loro funzioni.

La mia impressione è che sia stato più congeniale alla tradizione empirista mirare al «micro» e sottolineare nell'esame delle proprietà delle emozioni e delle motivazioni la loro funzione adattiva, in accor -do con l'ipotesi di un fitting in larga parte biologicamente program-mato. Mi pare d'altro canto che sia stato più congeniale alla tradizione razionalista non perdere di vista il «macro» e sottolineare, nell'esame delle costituenti delle emozioni e delle motivazioni, la funzione regolativa dei processi cognitivi.

Una diversa enfasi ha portato da un lato alla caratterizzazione delle varie emozioni e motivazioni in rapporto alle loro componenti biologi-che e comportamentali e alle situazioni capaci di elicitarle, e dall'altro a privilegiare gli aspetti esperienziali e strutturali con una forte accentua-zione della loro organizzazione in funzione autoregolativa.

3. Le emozioni

Nell'introdurre il tema delle emozioni, per soffermarci sulle loro componenti, sulla loro genesi e sulle loro funzioni potremmo indiffe-rentemente esordire con la confidenza che deriva da un consenso acquisito su ciò che esse siano o piuttosto con lo scetticismo di chi dubita che tale consenso possa mai essere raggiunto.

Zimbardo che è un ottimista, oltre che l'autore di uno dei più autorevoli testi di psicologia generale [1988], ritiene che, nonostante le differenze nella definizione, vi sia un consenso generale tra gli psi-cologi contemporanei nel considerare l'emozione un pattern complesso di modificazioni che includono un'eccitazione fisiologica, dei senti-

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menti, dei processi cognitivi e delle reazioni comportamentali in ri-sposta ad una situazione che è percepita dal soggetto come impor-tante per il mantenimento del proprio equilibrio e del proprio be-nessere.

L'eccitazione fisiologica include alterazioni neurali, ormonali, vi-scerali e muscolari. I sentimenti includono stati e tonalità affettive lungo l'asse buono/cattivo o l'asse positivo/negativo. I processi cogni-tivi includono interpretazioni, ricordi e aspettative dell'individuo, sia come contenuti, sia come modalità di «processare» cognitivamente il proprio rapporto con la realtà. Le reazioni comportamentali includo-no sia quelle espressive (piangere, ridere) sia quelle strumentali (chiedere aiuto, fuggire, ecc).

Ad una considerazione più attenta della letteratura e da una pro-spettiva meno conciliante, tuttavia, il quadro che risulta è talmente variegato da limitare significativamente la portata di tale consenso.

L'accordo sul fatto che le emozioni siano «sistemi coordinati» o «sindromi reattive multidimensionali» che svolgono una parte essen-ziale nel rapporto tra l'individuo e l'ambiente, che interessano l'orga-nismo e la personalità a tutti i livelli e che perciò presentano aspetti e componenti diverse, testimonia un consenso che è soprattutto sulla complessità del fenomeno piuttosto che sulle modalità di rendere ra-gione di esso.

A questo proposito può fornire un utile motivo di riflessione, nella pur breve storia della psicologia, notare che a fronte del proli-ferare di una varietà di teorie in taluni periodi, l'interesse per le emozioni sia stato in vario modo accantonato o contestato in altri periodi. La nozione di emozione è sempre stata poco congeniale per il comportamentismo e la sua riscoperta da parte dei cognitivisti è relativamente recente. Allo stesso modo, anche se per motivi molto diversi, il rinnovato interesse degli psicoanalisti per le emozioni è nella scia delle incerte vicende che hanno segnato le nozioni di affet to e di pulsione.

Come opportunamente ha osservato Liotti: «le emozioni umane si offrono all'indagine con due aspetti distinti: una specifica attivazio -ne neurovegetativa (viscerale) e comportamentale che può essere os-servata dall'esterno, e una altrettanto specifica esperienza soggettiva che può essere descritta da chi fa quell'esperienza» [1991, 231].

Non sorprende perciò che rispetto a questi due aspetti si siano sviluppati indirizzi di indagine che hanno riflesso la diversità dei li -velli di analisi implicati, nei metodi, nei significati dei termini, negli oggetti di ricerca. Né possono sorprendere le difficoltà di portare a integrazione i contributi di quanti hanno privilegiato l'esame dei vis-suti soggettivi con i contributi di quanti hanno invece privilegiato l'esame dei correlati biologici e delle espressioni comportamentali delle varie emozioni. In questa direzione la ricerca scientifica ha compiuto grandi progressi, ma è tuttavia ancora lontana dall'aver realizzato tra i vari indirizzi un accordo pieno sulla definizione, sulle componenti, sulle funzioni e sulla genesi delle varie emozioni e dal-

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l'essere pervenuta ad una effettiva integrazione conoscitiva dei loro diversi aspetti.

3.1. Definizione delle emozioni

Sinora abbiamo parlato di emozioni dando per scontato che sia chiaro per tutti quali esse siano. In realtà anche questa materia è oggetto di discussione e, a seconda delle premesse da cui si prendo-no le mosse, si possono privilegiare diversi aspetti e si può in defini-tiva pervenire a diverse conclusioni.

In genere si distinguono delle emozioni primarie o semplici e delle emozioni complesse. Mentre le emozioni primarie sono partico-larmente radicate biologicamente, quelle complesse risultano dal di -verso concorso di alcune delle prime e sono più significativamente condizionate e plasmate dall'esperienza.

Secondo Plutchick [1984] le quattro polarità, gioia/tristezza, pau-ra/rabbia, sorpresa/anticipazione e accettazione/disgusto, definireb-bero le emozioni fondamentali dalla cui combinazione deriverebbero tutte le altre (tra cui l'amore, la sottomissione, la delusione, il rimor -so, ecc).

Secondo Izard [1979] le emozioni primarie fondamentali sareb-bero 10: tristezza, gioia, sorpresa, sconforto, rabbia, disgusto, di-sprezzo, paura, vergogna/timidezza, colpa.

Secondo Tomkins [1984] sarebbero 9: interesse, gioia, sorpresa, sconforto, paura, vergogna, disprezzo, disgusto, rabbia.

Secondo accezioni più restrittive le emozioni primarie sarebbero 7 per Argyle [1975]: felicità, sorpresa, paura, tristezza, collera, disgu-sto, interesse; 6 per Ekman [1984]: felicità, sorpresa, paura, tristez-za, collera, disgusto; 5 per Campos e Barrett [1984]: felicità, paura, tristezza, collera e interesse.

Tali elenchi possono lasciare perplessi, a motivo delle loro omis-sioni o piuttosto delle loro inclusioni, ma forniscono le caratteristiche che, di massima, vengono ascritte ai fenomeni emotivi. Se anche re-stano da chiarire la natura di tutti i sistemi biologici attivati e il ruo-lo dei processi di maturazione e di sviluppo rispetto alle diverse loro manifestazioni e alla loro regolazione, vi è un accordo di massima nel riconoscere alle emozioni i caratteri della spontaneità, della pervasivi-tà e della transitorietà oltre a una valenza per cui esse possono esse -re distinte in positive (la gioia, la sorpresa) e negative (la collera, la paura), a seconda della gradevolezza o della sgradevolezza dell'espe-rienza che ad esse fa riscontro.

Il consenso viene meno e assumono rilievo le diverse istanze me-tateoriche, i diversi punti di vista e i diversi oggetti su cui si sono focalizzati i vari indirizzi quando i temi della spontaneità, della per-vasività e della transitorietà riaccendono il dibattito su ciò che è in -nato e su ciò che è appreso e ripropongono i molteplici interrogativi sui rapporti tra mente e corpo.

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Quando l'emozione si pone al punto di congiunzione tra innato e appreso, tra mentale e corporeo e tra psichico e sociale, da un lato può accadere che i confini tra emozione, cognizione e motivazione diventino talmente tenui da rendere incerta ogni distinzione, mentre dall'altro può accadere che chi si occupa dei correlati biologici dell'e-mozione abbia ben poco in comune con chi si occupa dei suoi cor -relati sociali.

Viene infine meno la portata degli elementi caratteristici comuni quando l'esame puntuale delle varie emozioni ne mette in risalto le specificità e rende plausibile una psicologia della collera, della paura, della sorpresa, perciò una psicologia delle emozioni, piuttosto che una psicologia dell'emozione.

3.2. Le componenti delle emozioni

Le emozioni sono sistemi di reazione coordinati e complessi che comprendono:

- risposte fisiologiche (alterazioni della frequenza cardiaca e respiratoria, della pressione sanguigna, della conduttività elettrica dellapelle, ecc);

- risposte motorie strumentali (attaccare, fuggire, gridare, ecc);- risposte motorie espressive (alterazioni della mimica facciale,

dei gesti, della voce, ecc);- una varietà di risonanze che ascriviamo alla nozione di vissuto

per riflettere gli aspetti più intimi e più pervasivi dell'esperienza soggettiva (le modificazioni dell'umore, le rappresentazioni e i significatiinterni).

Rendere ragione di questo insieme di reazioni prefigura diversi oggetti e ambiti di indagine che, a loro volta, implicano diversi livelli di analisi e diverse strategie.

A livello di come l'esperienza viene interpretata e riportata nella forma di parole e di auto ed eterovalutazioni, contributi di diversa ispirazione sembrano oggi convergere nel configurare l'insieme delle diverse emozioni in rapporto a componenti di tipo edonico e a com-ponenti di tipo energetico. Non vi è invece una piena identità di vedute su quali in definitiva siano le dimensioni fondamentali che definiscono l'ipotetico spazio che racchiude le varie emozioni.

Alcuni come Russell [1980] ritengono che le dimensioni di base corrispondano all'asse piacere/dispiacere e all'asse forza/debolezza dell'attivazione (arousal). Ogni emozione verrebbe perciò ad essere definita rispettivamente dall'apporto della dimensione edonica e dal-l'apporto della dimensione energetica, entrambe intese come unitarie e bipolari.

Altri come Watson e Tellegen [1985] invece ritengono che le due dimensioni principali siano l'Affetto negativo e l'Affetto positivo,

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intese queste come indipendenti «descrittivamente bipolari, ma affet-tivamente unipolari». Mentre le emozioni positive si pongono nella parte «alta» dell'Affetto positivo, quelle negative si collocano nella parte «alta» dell'Affetto negativo.

Le due posizioni, nella misura in cui riflettono soluzioni tecnico-metodologiche differenti ma parimenti accettabili (vari tipi di analisi fattoriali), possono anche apparire non incompatibili. Esse, tuttavia, nel porre una diversa attenzione sulla specificità dei diversi stati af -fettivi possono considerare in modo altrettanto differente i vari fatto-ri in campo e dischiudere diverse prospettive per l'indagine dei pro-cessi che sottendono la loro energetizzazione e organizzazione.

Per quanto riguarda i processi di energetizzazione, per un certo periodo ha prevalso una concezione unitaria deW'arousal congeniale ad una concezione del cervello di tipo idraulico-meccanico e consona ad una nozione di emozione come fenomeno largamente regolato da automatismi sottratti alla consapevolezza e al controllo intenzionale.

Recentemente tale concezione è entrata in crisi e la nozione di arousal, da un lato si è venuta scomponendo - per rendere ragione di forme di attivazione differenti come Xarousal di orientamento e l'attivazione collegata al conseguimento di risultati con valore edoni-co [Pribram e McGuinnes 1975] - dall'altro si è venuta coniugando con la nozione di inibizione collegata alla previsione di conseguenze spiacevoli [Gray 1982].

Per quanto riguarda i processi di organizzazione d'altro canto, la maggiore confidenza nella possibilità di procedere per inferenza ver-so la conoscenza dei fenomeni mentali, ha portato al centro dell'in-dagine psicologica sull'emozione i processi cognitivi interessati alla sua regolazione. Contemporaneamente si è fatta strada la convinzio-ne che il cervello e le varie sedi dell'organismo interessati alle emo-zioni non siano tanto luoghi in cui si generano, si accumulano e si scaricano delle «energie», quanto insiemi di sistemi interconnessi che scambiano e trasformano informazioni ed equilibri.

Da tali sviluppi è derivato che lo studio dell'emozione si è venu to sempre più intersecando con lo studio della motivazione e dei vari processi cognitivi: percezione, attenzione, memoria, pensiero.

Gli interrogativi che oggi ci poniamo concernono da un lato qua -le attivazione e con quale importo regoli una determinata emozione, e dall'altro quale sia il contributo della percezione, dell'attenzione, della memoria, dell'intenzionalità nel determinare alcune reazioni in certi individui e in determinate circostanze, ed altre reazioni, in altri individui e in altre circostanze. Sono inoltre oggetto di studio il ruolo che l'emozione svolge nell'orientare selettivamente la nostra attenzione e la nostra percezione, nel potenziare la memorizzazione e il ricordo degli eventi, nel migliorare o piuttosto nel compromettere la lucidità delle nostre decisioni, la tenacia del nostro impegno, l'efficacia delle nostre azioni. Ci si pone infine interrogativi sul ruolo che i processi di maturazione e di sviluppo psicologico-sociale svolgono nella costruzione dei diversi sistemi di regolazione e di autoregolazio-

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ne. In questa direzione il discorso sulle componenti delle emozioni si intreccia inestricabilmente con quello sulla genesi e sulle funzioni del-le emozioni.

Prima tuttavia di arrivare al successivo paragrafo, mi pare impor-tante non trascurare, nell'analisi delle componenti delle emozioni, quanto risulta dalla ricerca sulle strutture biologiche più direttamente interessate alla attivazione e alla regolazione dei diversi aspetti della fenomenologia emotiva. Non vi è infatti dubbio che l'approfondi-mento delle strutture biologiche abbia svolto una parte di grande ri-lievo rispetto al progressivo allargamento di prospettiva e alla mag-giore articolazione della ricerca psicologica sulle emozioni.

Tra i vari sistemi — nervoso centrale, nervoso autonomo, endocri-no, immunitario - che a vari livelli e in vari modi sono interessati alle emozioni, è soprattutto il sistema nervoso centrale quello più di-rettamente interessato alla loro attivazione e alla loro regolazione. A questo proposito, come è stato notato da Le Doux [1986], la mag-gior parte della ricerca attuale sulla neurobiologia delle emozioni è debitrice ad una tradizione di ricerca che si snoda nella prima metà di questo secolo attorno ai contributi di Cannon e Bard, di Papez, di Kluver e Bucy e di Mac Lean.

Cannon e Bard hanno messo in evidenza il ruolo dell'ipotalamo nell'espressione emotiva e quello della corteccia cerebrale nell'espe-rienza emotiva.

Papez ha proposto un modello in cui le connessioni tra ipotala-mo, nucleo talamico anteriore, giro cingolato e ippocampo prefigura-vano il reticolo essenziale che presiede alla regolazione dell'emozione tra stimoli provenienti dagli organi sensoriali e corteccia.

Kulver e Bucy hanno sottolineato la funzione cruciale dell'ippo-campo nell'essere interfaccia tra sistemi sensoriali e comportamento emotivo.

Mac Lean ha individuato in un complesso di strutture neurali distribuite attorno all'ippocampo un cervello viscerale, filogenetica-mente più antico (successivamente identificato come sistema limbi-co), che sembra fornire il principale sostrato biologico dell'emozione.

Benché sia rimasto ben poco di quelle originali intuizioni (come risulta dalla sistematica esposizione di Le Doux [1986], al quale si rimanda anche per i riferimenti agli autori menzionati) esse hanno segnato lo sviluppo di una ricerca che, nella sostanza, condivide quanto veniva anticipato circa la multicausalità, la natura sistemica delle strutture interessate, le interconnessioni multiple tra aree corti-cali e sistemi sottocorticali. Muovendo da tali basi la ricerca più re-cente ha portato ad una maggiore conoscenza di come i diversi siste-mi risultano coinvolti nell'esperienza emotiva e ad una più puntuale definizione delle strutture e delle parti di essi maggiormente interes-sate.

Mentre è parso decisivo l'intervento della corteccia per il rilievo delle componenti cognitive nelle diverse manifestazioni emozionali, gli studi sulla specializzazione emisferica, pur non pervenendo a con-

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clusioni definitive sulla superiorità di un emisfero (in genere il de -stro) rispetto all'altro, hanno favorito una più puntuale distinzione delle diverse emozioni in rapporto alla loro organizzazione. Questa sembra complessivamente coinvolgere entrambi gli emisferi, ma plau-sibilmente con un ruolo diverso nel caso delle emozioni positive e di quelle negative, nell'ambito dell'esperienza privata e del rapporto co-municativo interpersonale. A questo proposito, come ha notato Gai-notti [1990], è possibile ipotizzare che, nonostante la generale supe-riorità dell'emisfero destro per compiti di natura emozionale, l'emi-sfero sinistro sia interessato più alle emozioni positive che non a quelle negative. Quest'ultimo è, infatti, per definizione l'emisfero del la comunicazione verbale fondamentale nel rapporto comunicativo intenzionale. Essendo simultaneamente legate alla sfera dell'esperien-za emozionale e a quella delle attività comunicative intenzionali, le emozioni positive potrebbero, quindi, avere una rappresentazione bi-emisferica, mentre una lateralizzazione sempre più netta dell'emisfero destro riguarderebbe le emozioni negative che l'emisfero sinistro ten-derebbe ad inibire più che ad assumere in proprio per scopi comu-nicativi.

Lo studio approfondito del «sistema limbico» (nozione contro-versa per la diversità delle strutture che in esso vengono incluse dai vari autori) ha portato a sottolineare la specificità delle diverse strut -ture e a riconoscere un ruolo di particolare rilievo nella regolazione delle emozioni all'amigdala, all'ippocampo e alle porzioni di esso più strettamente connesse alla corteccia. È stato ulteriormente analizzato il ruolo che l'ipotalamo, in qualità di coordinatore centrale del siste -ma vegetativo (simpatico e parasimpatico) e di regolatore centrale dell'ambiente interno, svolge rispetto alla varietà di alterazioni del-l'organismo che si accompagnano all'esperienza emotiva e che di essa rappresentano le manifestazioni somatiche più eclatanti.

Parimenti nel caso della sostanza reticolare si è considerata la sua funzione rispetto ai processi di attivazione corticale per via ascenden te e alle varie espressioni viscerali per via discendente.

Delle strutture sottocorticali l'amigdala, in qualità di elemento di raccordo e di mediazione tra i vari sistemi afferenti ed efferenti, rap-presenta l'elemento di integrazione fondamentale tra valutazione, espressione ed esperienza emotiva, sia rispetto alle aree corticali e alle strutture sottocorticali, sia rispetto ai vari sistemi viscerali, ormo-nali e neurochimici che si rivelano coinvolti nell'esperienza emotiva.

Apparentemente, mentre il ruolo dell'ipotalamo sembra essere prevalentemente esecutivo e quello della sostanza reticolare di facili-tazione e amplificazione, soprattutto l'amigdala per le sue connessioni con i due emisferi sembrerebbe svolgere una funzione sovraordi-nata di modulazione e di controllo. Il quadro che risulta dalla complessità dei sistemi implicati solo in parte è confortato da un'appro-fondita conoscenza di ciascuno di essi in rapporto alle diverse emo-zioni.

Le emozioni negative-difensive della rabbia e della paura sono

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state più a lungo studiate di quelle positive, ma perlopiù su paradig -mi animali che ne limitano la generalizzabilità agli esseri umani. Di alcune componenti (ad esempio, l'ipotalamo e l'amigdala) si conosce molto, di altre (ad esempio, i vari neurotrasmettitori) assai meno.

Anche se pare plausibile che le varie emozioni siano formate da parti che si articolano a livelli funzionali diversi, organizzati gerarchi-camente, i vari elementi che fanno da sostrato biologico ai loro di-versi aspetti pongono fortemente in risalto il carattere di specificità di ogni emozione.

Secondo quanto risulta dalla rassegna di Le Doux [1986]:- l'emozione non è un fenomeno o un processo unitario: essa

consiste di aspetti valutativi, espressivi ed esperienziali;- neuroni della sezione limbica anteriore (forebrain) codificano il

valore biologico degli stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno e dall'interno del corpo;

- tale valutazione del significato emozionale degli stimoli sensoriali avviene inconsciamente;

- tale valutazione influenza l'espressione comportamentale dell'emozione e le reazioni viscerali che si accompagnano ad essa;

- l'esperienza emotiva consapevole è mediata dai sistemi di elaborazione cognitiva che ricevono l'informazione emotiva;

- le sorgenti di tale informazione cognitiva includono sistemi difeedback dai muscoli periferici, organi che sono attivi durante l'espressione del proprio comportamento e che mediano l'osservazionedi esso nel contesto in cui si produce, messaggi dai neuroni limbiciche riconoscono e attribuiscono significato emozionale;

- i meccanismi di valutazione del significato della stimolazionesono filogeneticamente antichi e sono distribuiti tra le varie specieanimali;

- i meccanismi dell'esperienza emotiva sono filogeneticamenterecenti; essi appaiono presenti soprattutto nella specie umana e sembrano essere associati allo sviluppo del linguaggio e dei processi cognitivi;

- fonti indirette di informazione emotiva (come quelle derivantidall'osservazione del comportamento e del contesto) svolgono unruolo centrale nella costruzione delle esperienze emozionali consapevoli.

Diversi sistemi di strutture interconnesse tra loro fanno dunque da sostegno ai diversi aspetti dell'emozione e alle loro integrazioni.

Quanto risulta dai recenti contributi e indirizzi della ricerca neu-ropsicologica e psicofisiologica fa apparire superata la controversia che, dai tempi di James 118901 e ài Cannon L19271, Via opposto i sostenitori di una teoria periferica ai sostenitori di una teoria centrale dell'esperienza emozionale e insoddisfacente il tentativo di integrazione tra le due teorie proposto da Schachter [1964].

Non è vero che «abbiamo paura perché scappiamo via», non è soltanto vero che «scappiamo perché abbiamo paura», né è soltanto vero che abbiamo paura e scappiamo tutte le volte che si realizza la

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EMOZIONI E MOTIVAZIONI

concomitanza tra un alto livello di eccitazione e stimoli esterni che suggeriscono di fuggire.

Secondo i fautori della teoria periferica l'attivazione vegetativa provocata dalla percezione dello stimolo emotigeno sta alla base del-l'esperienza emotiva per un meccanismo retroattivo dalla periferia vi-scerale al sistema nervoso centrale. Secondo James e Lange (lo scien-ziato danese che negli stessi anni aveva elaborato una teoria analoga) l'esperienza emozionale è conseguenza del comportamento emoziona-le, infatti: «i cambiamenti corporei seguono direttamente la percezione dell'evento eccitante, e i sentimenti che si associano a tali cambiamenti costituiscono l'emozione» [James 1890].

Secondo i fautori della teoria centrale, invece, le modificazioni viscerali non sono rilevanti ai fini dell'esperienza emotiva, ma servo-no a preparare l'organismo ad affrontare la situazione di emergenza che ha innescato la risposta emozionale [Cannon 1927].

Il fatto che gli animali potessero continuare a produrre risposte emozionali anche quando i visceri venivano separati chirurgicamente dal sistema nervoso e il fatto che le reazioni viscerali che accompa -gnano le diverse emozioni siano spesso indistinguibili, sono parsi motivi sufficienti per invalidare l'ipotesi che subordinava l'esperienza emotiva al riconoscimento delle semplici reazioni comportamentali e delle loro concomitanti reazioni viscerali.

Secondo Schachter [1964] l'esperienza emozionale si verifica quando una persona è in uno stato di alto arousal e associa (attribui-sce) tale stato ad un qualche evento emozionale. Secondo questa po-sizione l'esperienza emozionale, ad esempio della gioia o della tristez-za, risulterebbe dall'attribuzione di uno stato di arousal ad un evento lieto o triste.

Come ho anticipato, nessuna delle tre posizioni è passata indenne al vaglio di un esame critico che ne ha posto in evidenza le insuf-ficienze e limitato la generalizzabilità; va d'altro canto riconosciuto che gli sviluppi di tali posizioni, nel mettere a fuoco aspetti diversi della complessa fenomenologia emotiva, hanno in vari modi contri-buito all'acquisizione di una sua maggiore conoscenza.

Nella scia della tradizione periferalista, Tomkins [1962] e i suoi due allievi Izard [1979] ed Ekman [1984] hanno nuovamente sotto-lineato l'importanza delle determinanti somatiche dell'emozione po-nendo in rilievo il ruolo che i movimenti muscolari della faccia han-no non soltanto nel segnalare ma anche nel determinare i vari stati emotivi.

Zaionc [1984], d'altro canto, ha posto l'accento sul ruolo giocato dagli input sensoriali, dai fenomeni somatici e dalle risposte motorie in una varietà di manifestazioni emotive in cui i «sentimenti» si rive -lano indipendenti dalle «preferenze», in cui gli input sensoriali da soli possono determinare delle reazioni emozionali senza che essi si «trasformino in» o «si associno a» alcuna rappresentazione.

Altri autori, come Lazarus [1980] e Weiner [1985], hanno svi-luppato posizioni centraliste secondo prospettive cognitivo-fenomeno-

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logiche molto diverse da quelle della ricerca neurobiologica di Can-non e sostanzialmente indipendenti dai recenti sviluppi della ricerca neurologica. In Lazarus e in Weiner, le valutazioni cognitive e le at-tribuzioni di significato che accompagnano le varie transazioni tra la persona e l'ambiente svolgono un ruolo cruciale nella determinazione delle diverse emozioni. La persona è triste o felice a seconda di co-me interpreta la situazione in cui si trova e a seconda dei significati che attribuisce a tale situazione.

Altri autori, come Mandler [1984], hanno ripreso gli argomenti della teoria bifattoriale accentuando l'importanza dei processi cognitivi.

Altri infine, come Leventhal e Scherer [1987], hanno avanzato nuove soluzioni che sembrano prefigurare la possibilità di integrare a diversi livelli di analisi i contributi dei diversi punti di vista. Leven-thal e Scherer in particolare propongono un modello gerarchico-evo-lutivo secondo cui l'emozione è una costruzione alla quale concorro-no diverse componenti, percettivo-motorie e valutative, ordinate ge-rarchicamente e secondo livelli di articolazione e complessità crescen-ti con il progredire dello sviluppo.

Nel complesso viene avvertita la necessità di modelli esplicativi capaci di conciliare la multicausalità, la multicomponenzialità, la reci-procità e la sincronicità dei vari fattori che concorrono a definire di volta in volta le varie manifestazioni emotive. In quest'ottica sembra plausibile ipotizzare architetture di processi organizzati a diversi li -velli funzionali ordinati gerarchicamente. Sembra anche plausibile la coesistenza di sistemi relativamente indipendenti, capaci di funziona-re in parallelo e in alternanza, diversamente nei diversi stadi evoluti-vi, nelle diverse circostanze e per le diverse emozioni.

3.3. La genesi e le funzioni delle emozioni

II discorso sulla genesi delle emozioni può snodarsi lungo diversi itinerari argomentativi.

Se per genesi si intende il prendere forma dei vari aspetti che qui-ed-ora caratterizzano l'emozione, restano sostanzialmente valide le argomentazioni svolte in margine alle teorie periferiche o centrali-stiche.

Apparentemente l'emozione è una costruzione complessa che prende forma nel tempo e alla quale concorrono diverse componenti, con un rilievo che può rivelarsi differente nelle diverse circostanze e nelle diverse stagioni evolutive. In merito a ciò, come si è visto, dispo-niamo di una varietà di ipotesi, non risolutive, né esaustive, ma a differenti livelli plausibili. Il riconoscere il ruolo costitutivo dei processi cognitivi non è incompatibile con la possibilità che altri fattori pari-menti costitutivi concorrano alla costruzione dell'emozione indipen-dentemente, prima, dopo o in concomitanza con i primi. Né sminuisce l'importanza delle reazioni somatiche viscerali, muscolari e motorie

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constatare che esse non sono le stesse e non hanno la stessa rilevanza per le diverse emozioni, nelle diverse età e nei diversi individui.

Il tempo svolge un ruolo essenziale. Ciascuna emozione si svilup-pa, infatti, in un particolare intervallo di tempo nel quale prende forma, si trasforma, tocca diverse intensità, mostra diverse caratteri-stiche. Lo scorrere del tempo è spesso talmente veloce che si rivela impossibile distinguere tra i vari fenomeni quali si presentano sincro-nicamente e quali diacronicamente, quali prima e quali dopo, secon -do quali retroazioni e interconnessioni le varie reazioni possano risul-tare amplificate o piuttosto attenuate. Le reazioni viscerali possono indurre a riconoscere l'emozione e a intensificare i sentimenti e le reazioni comportamentali dell'individuo. Uappraisal può generare particolari scansioni e modulazioni delle reazioni viscerali e compor-tamentali: in taluni casi suscitare un'amplificazione, in altri un'atte-nuazione di tali reazioni. L'innesco e la regolazione di determinate reazioni sembra procedere, in talune circostanze, secondo automati-smi che si sottraggono ai controlli dell'individuo. L'attività riflessiva dell'individuo sembra, invece, essenziale in altre circostanze. Anche per quanto riguarda il suo declinarsi nel tempo, la sorpresa è diversa dalla paura e le reazioni di paura di un bambino di pochi mesi sono diverse da quelle di un bambino di pochi anni, al pari di come que-ste e quelle sono differenti da quelle dell'adulto.

Per questo, mi pare preferibile, come ho già notato, trattare di una psicologia delle emozioni al plurale, di cui sia tratto distintivo l'esame delle specificità rispetto al novero di somiglianze superficiali e spesso soltanto apparenti.

Allo stato attuale resta in larga parte da chiarire quali siano tutti gli elementi costitutivi del sistema coordinato di reazioni che defini-sce ciascuna emozione e come ognuna di esse rifletta l'emergere e il perfezionarsi di processi di energetizzazione, di valutazione e di dire-zione, in parte tributari di strutture e meccanismi presenti alla nasci ta e in parte risultanti dal dialogo che, dalla nascita, prende a svolgersi tra l'organismo e l'ambiente.

A questo riguardo il modello di Leventhal e Scherer è uno dei tentativi più articolati per rendere ragione di come le emozioni si costruiscano e di come le reazioni emozionali possano cambiare nella storia individuale. Tale modello da un lato contempla tre livelli di organizzazione percettivo-motoria e dall'altro cinque tipi di controllo valutativo (stimulus evaluatìon check o SEC) che si integrano con i primi.

A livello «sensomotorio» l'emozione si manifesta nelle sue espres-sioni più primitive ed elementari governate da sistemi di attivazione e da meccanismi innati e involontari. A livello «schematico» si ha l'integrazione, nella forma di schemi, delle reazioni sensoriomotorie con l'esperienza di particolari situazioni e delle reazioni prodotte in esse. A questo livello si ha un'elaborazione emotiva rapida e automa -tica, in forza di come determinate sollecitazioni e reazioni emotive si sono depositate nella memoria nella forma di concrete rappresenta-zioni. A livello «concettuale» l'integrazione dell'esperienza emotiva

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coincide con la capacità di riflettere su di essa, di parlare di essa e di predisporre le reazioni conseguenti. I tre livelli sono in vario modo interconnessi e attraversati da flussi di influenze reciproche del tipo vertice-base (top down)/hase-vettice {bottoni up), retroazione (feed-back)/anticipazione (feedward).

I cinque tipi di controllo valutativo, come i tre livelli di organiz-zazione percettivo-motoria, caratterizzano diversi gradi di differenzia-zione, articolazione e complessità dell'esperienza emotiva e un diver-so coinvolgimento corticale e cognitivo. Essi sono:

a) il controllo della novità dello stimolo;b) il controllo della piacevolezza/spiacevolezza dello stimolo;e) il controllo della rilevanza dello stimolo rispetto agli obiettivi e

ai bisogni dell'organismo;d) il controllo delle capacità dell'organismo di affrontare/control

lare gli eventi-stimolo;e) il controllo della compatibilita degli eventi rispetto al concetto

di sé e alle norme interiorizzate.Le espressioni dell'organizzazione percettivo-motoria e dei con-

trolli prendono forma, si succedono e si integrano differentemente nelle fasi evolutive sino al perfezionarsi dei vari sistemi di reazioni coordinate che hanno tutte le proprietà dell'emozione. Mentre nel neonato sono essenzialmente coinvolti componenti sensomotorie e controlli valutativi del tipo a e b sulla base di meccanismi innati e con un coinvolgimento minimo delle funzioni corticali, con l'avanzare della maturazione e dello sviluppo le varie manifestazioni emotive ri-sultano soprattutto dall'integrazione di componenti schematiche e concettuali con controlli valutativi del tipo e, d ed e.

In tale prospettiva il discorso sulla genesi è destinato a snodarsi lungo due direttrici. Da un lato, lungo un itinerario di considerazioni che concernono quanto si svolge nel corso dell'ontogenesi, dall'emer-gere al caratterizzarsi dei vari sistemi nella loro completezza. Dall'al -tro, lungo considerazioni che proiettano la genesi delle emozioni e le loro funzioni nella storia non soltanto dell'individuo singolo ma della specie. Nel caso della genesi delle emozioni nel corso dello sviluppo individuale è indispensabile tener conto, oltre che delle strutture e dei processi maturativi implicati, delle loro trasformazioni in conco-mitanza e a seguito degli scambi con l'ambiente fisico e sociale. In particolare è essenziale considerare la possibilità di trasformazioni che assolvono ad una funzione generativa rispetto al costituirsi di schemi di elaborazione e di azione che, a loro volta, fondano la pos-sibilità di nuove relazioni affettive e di nuove interazioni sociali. A questo riguardo è plausibile che già alla nascita siano presenti pro-grammi di recezione e di reazione in grado di svolgere una funzione primitiva di attivazione e di regolazione dell'emozione nelle sue ma-nifestazioni più periferiche, involontarie e irriflessive e in tal modo in grado di modulare una varietà di interazioni con l'ambiente circo-stante. Parimenti è plausibile che ciò che risulta da queste prime in-

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terazioni faccia da appoggio all'emergere di nuove strutture e alla possibilità di sperimentare nuove interazioni.

L'accoglienza dell'ambiente svolge d'altro canto un jruolo essen-ziale nelTaccompagnare e nel sostenere lo svolgersi dei processi ma-turativi. L'ambiente infatti fornisce le occasioni, seleziona le reazioni, suggerisce i modelli che, depositatisi nella memoria, forniscono i con-tenuti alle strutture cognitive emergenti e gli elementi per la costru-zione di nuovi schemi di reazione.

Soprattutto le prime reazioni, che accompagnandosi alla soddisfa-zione e alla frustrazione forniscono i segnali precursori e prototipici della gioia, della paura e della rabbia, sembrano svolgere una funzio-ne cruciale di segnalazione e di appoggio per il costruirsi di nuove strutture capaci di differenziare e di regolare più armonicamente le varie manifestazioni emotive.

In questa prospettiva lo sviluppo delle varie emozioni appare strettamente interconnesso con lo sviluppo delle varie forme di co-gnizione. Mentre da un lato la maggiore o minore organizzazione delle varie emozioni risulta dal diverso importo della funzione cogni-tiva, dall'altro le occasioni concrete di esperienza emotiva che vengo-no offerte al bambino dal suo ambiente assumono un rilievo signifi -cativo rispetto agli ulteriori sviluppi della funzione cognitiva. E men-tre da un lato lo sviluppo delle strutture cognitive vincola le forme più avanzate di regolazione emotiva, dall'altro le risposte che l'am-biente fornisce alle domande emotive del bambino influenzano il suo modo di rappresentarsi la realtà e perciò le strategie di rapporto con essa. Rispetto a ciò le intuizioni psicoanalitiche circa l'importanza delle prime esperienze di piacere e dispiacere, di attaccamento, di contenimento e di sintonizzazione nel fornire i sostegni necessari allo sviluppo dell'affettività e della cognizione [Bowlby 1969; 1973; 1980; Stern 1985; Winnicott 1965] sembrano in larga parte convergere con gli indirizzi di ricerca più recenti della psicologia dello sviluppo [Bat-tacchi 1988; 1990; Izard 1979; Sroufe 1996; Trevarthen 1984]. Se da un lato viene fortemente avvalorata l'esistenza, sin dalla nascita, di complessi sistemi coordinati di recezione e di reazione, dall'altro ven-gono sottolineate le strette interconnessioni tra sviluppo emotivo, svi-luppo cognitivo e sviluppo sociale, viene riconosciuta grande impor-tanza alle prime relazioni del bambino con chi si prende cura di lui, viene sottolineato il ruolo che le emozioni svolgono nell'adattamento sociale e nella costruzione del sé.

Qui il discorso sulla genesi si allarga dall'ontogenesi alla filogenesi e si accompagna a quello sulle funzioni che le emozioni svolgono ri-spetto alla sopravvivenza della specie e rispetto allo sviluppo della personalità, sia per quanto concerne la sua organizzazione interna, sia per quanto concerne il suo adattamento sociale. Il valore che il repertorio emotivo di una specie ha per la sua sopravvivenza è stato inizialmente intuito da Darwin [1872], che ha sottolineato soprattut to la funzione comunicativa delle espressioni emotive. Le intuizioni di Darwin sono state successivamente sviluppate da numerosi studio-

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si in diversi ambiti scientifici. Oggi, pur con notevoli differenze di intonazioni e di sfumature, vi è ormai un largo consenso nel configu -rare le emozioni come parti della nostra eredità biologica e come espressioni di quanto nel corso della filogenesi è stato il prodotto della selezione naturale al fine di incrementare le possibilità di adat-tamento e di sopravvivenza della specie. Pari consenso vi è nel rico-noscere alle emozioni analoghe funzioni nel corso dell'ontogenesi, ai fini dell'adattamento intraindividuale e sociale.

Mentre l'equipaggiamento emozionale di natura biologica è ciò che consente immediatamente al bambino di interagire efficacemente con l'ambiente, la gamma di emozioni e di affetti che su questo si innesta e che da questo si sviluppa, grazie al concorso dei processi maturativi e delle interazioni sociali, è ciò che assicura successivamente l'adattamen-to e il pieno sviluppo della personalità individuale.

Lo studio delle espressioni facciali delle emozioni, sin dai primi anni di vita e su popolazioni molto diverse, ha avvalorato l'ipotesi dell'esistenza di un repertorio biologico di base destinato a restare in parte inalterato, nonostante l'innestarsi sopra di esso nel corso del-l'ontogenesi di tutta una varietà di caratteri emotivi che in larga mi-sura riflettono il contesto culturale e vengono assimilate in virtù del -l'apprendimento e dello sviluppo dei processi cognitivi [Izard 1979; Oster e Ekman 1978].

L'esistenza alla nascita di risposte emotive «primarie» non è evi-dentemente incompatibile con una integrazione cognitiva che nel corso dello sviluppo le specifica e le modula ulteriormente. A questo riguardo, l'esame delle diverse emozioni mostra non soltanto l'impos-sibilità di omologarsi ad un unico modello di sviluppo, ma altresì la specificità dei diversi aspetti della medesima emozione in quanto a fasi di sviluppo, reazioni corporee, espressioni comportamentali, riso-nanze soggettive. Tra le reazioni emotive più precoci lo sconforto, il sorriso, il disgusto hanno una funzione comunicativa di segnalazione e di richiamo essenziali per la sopravvivenza e il benessere del bam-bino. Esse attirano l'attenzione, sollecitano la cura, innescano e orientano le prime interazioni, creano i primi legami affettivi. Succes-sivamente la rabbia, la paura, la vergogna, la sorpresa riflettono i primi tentativi di confrontarsi con la novità e con le frustrazioni. Tali reazioni, mentre da un lato si configurano come strategie primitive di evitamento e allontanamento delle fonti di dispiacere e di pericolo e di avvicinamento e richiamo delle possibili sorgenti di benessere, dall'altro fanno da sostegno ai vari processi di differenziazione dell'e-sperienza e di costruzione del sé.

Lo sviluppo emotivo si intreccia con i processi di maturazione neurologica e con lo sviluppo cognitivo-sociale, al tempo stesso come determinante e come risultante di livelli di organizzazione mentale che gradualmente vengono a comportare la capacità di distinguere il mondo interno dal mondo esterno, l'acquisizione della permanenza dell'oggetto, lo sviluppo della coscienza di sé come oggetto separato, lo sviluppo del pensiero rappresentativo.

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Fin dai primi mesi di vita le emozioni svolgono dunque una parte critica nel modulare il rapporto dell'individuo con la realtà, in qualità di precursori di sistemi motivazionali che soltanto più tardi nel corso dello sviluppo faranno la loro comparsa e di cui le emozioni condividono alcuni ingredienti e anticipano alcune funzioni, sia in rapporto al mondo esterno sia in rapporto al costituirsi del proprio mondo interno.

In tal senso le varie emozioni svolgono un ruolo cruciale non sol-tanto nella relazione con il mondo, ma altresì nella formazione in-traindividuale di strutture di conoscenza e di direzione. Può perciò risultare ad un certo punto problematico tracciare i confini tra emo-zione, cognizione e motivazione. È fuori di dubbio infatti che le emozioni svolgano dall'inizio una funzione vicaria di cognizione e motivazione e che continuino a svolgere nel corso della vita una fun-zione di appoggio insostituibile nell'allertare, nell'orientare, nel predi-sporre all'azione [Frijda 1986], È inoltre fuori di dubbio la funzione sociale che le emozioni svolgono, non solo di segnalazione dello stato di benessere dell'individuo e di richiesta di aiuto, ma altresì rispetto alla condivisione e al consolidamento dei legami affettivi, dei controlli sociali, delle norme e dei valori culturali [Arcuri e Boca 1991; Ricci Bitti 1990].

Sarebbe però sconveniente se il giusto apprezzamento delle inter-connessioni e delle comunanze portasse a perdere di vista la specifi-cità della sfera emotiva rispetto a quella motivazionale e a quella co-gnitiva. Rispetto a ciò che definisce l'adattamento in termini di stati di equilibrio, di gerarchle di scopi, di piani di comportamento, le emozioni si configurano come sistemi coordinati di segnalazione e di assimilazione di discrepanze ed emergenze impreviste o improvvise.

Tra le emozioni che principalmente insorgono in presenza di una discrepanza rispetto ad una «norma» o ad uno «standard», vi sono quelle che predispongono all'anticipazione di un dispiacere e quelle che predispongono all'anticipazione di un piacere. Quando la discre-panza comporta il riconoscimento di una violazione o di una carenza e ad essa si associa l'anticipazione di una riprovazione o di una sva-lutazione, abbiamo emozioni come la rabbia, la pietà, la vergogna, la colpa. Quando la discrepanza comporta invece un allargamento del sentimento della propria competenza e dell'apprezzamento sociale, abbiamo emozioni come la gioia e l'orgoglio.

Tra le emozioni che insorgono principalmente in presenza di una emergenza, a seguito di una rottura di un equilibrio o della necessità di un cambiamento di stato, vi sono emozioni di allerta come la sor -presa o il trasalimento.

In taluni casi i principali correlati cognitivi sono soprattutto i processi attentivi, in altri casi sono soprattutto i processi attribuzio-nali. In taluni casi i correlati motivazionali sono soprattutto processi di preparazione e intensificazione dell'azione (rabbia-aggressione; or-goglio-impegno; pietà-aiuto), in altri casi sono soprattutto processi di

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sospensione o attenuazione dell'azione (sorpresa-curiosità; trasalimen-to-rilassamento).

Fondamentalmente la spontaneità, l'intensità, la simultaneità delle reazioni che si attivano in modo coordinato in presenza di un qual-che cosa di «noto» ma «non previsto», di «prevedibile» ma non «at -teso», il più diretto radicamento nel biologico, il più pervasivo coin-volgimento di tutto l'organismo, il fare da giuntura e da cinghia di trasmissione a vari livelli tra biologico, psicologico e sociale sono i caratteri che fanno della sfera emotiva un ambito di indagine privile-giato e interconnesso, ma non riducibile, agli ambiti dell'indagine sui processi cognitivi o motivazionali.

4. Le motivazioni

Anche per la motivazione, come in genere per la psicologia, si può parlare di un lungo passato e di una breve storia. Nonostante la riflessione fìlosofica sulla motivazione, al pari di quella sulle emozioni e sul pensiero, risalga molto indietro nel tempo e annoveri tra i pro-pri cultori i nomi più illustri della nostra tradizione culturale, la ri -cerca psicologica sulla motivazione è ancora lontana dal costituire un sistema consolidato di conoscenze e di metodi.

Lo stesso concetto di motivazione è recente, diversamente da al-tri come desiderio, bisogno, ragione, intenzione, e in parte ha sosti -tuito nel lessico del ricercatore questi ultimi con cui a volte ancora si alterna e confonde.

La motivazione in senso lato concerne il «perché» del comporta-mento: le cause, le ragioni, i motivi, i fini. Facciamo ricorso allo stes -so costrutto sia quando ci interroghiamo su ciò che origina, regola, dirige e perciò «motiva» l'agire di un individuo sia quando ci propo-niamo di «motivare» una persona a fare ciò che altrimenti, sponta-neamente, non farebbe. In entrambi i casi, sia quando ci domandia-mo «che cosa motiva una condotta», sia quando ci domandiamo «come è possibile motivare ad una condotta», facciamo riferimento a qualche cosa che fa da interfaccia tra l'organismo e l'ambiente e da cui dipende l'innesco, l'ampiezza, l'intensità, la durata, la cessazione di un comportamento.

I territori di indagine che si dischiudono alla ricerca sulla motiva-zione sono in larga parte quelli che in passato erano appartenuti alla speculazione sugli istinti e sulla volontà, a corollario della duplice na-tura dell'uomo: animale e razionale.

In una cornice in cui la nozione di istinto appare definitivamente obsoleta e quella di volontà quanto meno problematica, i problemi che si pongono all'indagine sulla motivazione riguardano il rapporto tra la variabilità ascrivibile a fattori in qualche modo ancorati ai pro-cessi di maturazione e alle caratteristiche fisiche dell'organismo e quella imputabile ai processi di autoregolazione mentale che dai pri -mi si sviluppano per essere poi funzionalmente autonomi. Da ciò de-

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riva una distinzione plausibile tra motivazioni biologiche, in cui è si-gnificativo l'importo dei primi fattori, e motivazioni personali e so-ciali in cui, al contrario, sono soprattutto determinanti i secondi.

La plausibilità, in ogni caso, non può mettere in ombra il carat -tere di provvisorietà di qualsiasi classificazione e l'inapplicabilità di qualunque rigida distinzione. Come non esiste una motivazione bio-logica che non risulti in larga parte plasmata dall'esperienza indivi-duale e in qualche modo regolata da processi mentali, non abbiamo motivo di escludere, soltanto perché non ne siamo a conoscenza, l'importanza di una varietà di fattori biologici anche nel caso delle cosiddette motivazioni personali e sociali. Come nel caso dell'esame dei determinanti dell'emozione, anche per quelli della motivazione vanno tenuti presenti diversi livelli di organizzazione e diversi livelli di analisi.

A questo proposito la storia della ricerca psicologica sulla motiva-zione sembra aver percorso un itinerario analogo a quello che nel-l'ontogenesi sembra segnare l'emancipazione dello «psicologico» ri -petto al «biologico», in concomitanza con l'emergere di strutture e processi mentali che presiedono al coordinamento delle condotte in accordo con piani e programmi di rapporto con la realtà sempre più complessi. Di tale progresso sembra rendere testimonianza il graduale staccarsi della psicologia della motivazione dalle liste di istinti e di bisogni, per passare a un modello sostanzialmente tensio-riduttivo come quello della «pulsione x abitudine», alle prime formulazioni di modelli cognitivi del tipo «aspettativa x valore», sino agli sviluppi più recenti di tali modelli.

4.1. Liste di istinti e liste di bisogni

Molto di ciò che oggi costituisce l'oggetto della ricerca sulla moti-vazione, sino ai primi anni di questo secolo, è stato sussunto, più o meno genericamente, nel concetto di istinto. L'istinto è stato utilizza-to per descrivere e spiegare l'intensità, la varietà e la direzione del comportamento. Con esso indifferentemente si è fatto riferimento a delle spinte, a delle mete, a degli attributi della condotta come «in-nato», «involontario», «impulsivo».

In James [1890], che per primo ne ha tentato una sistematizza-zione nel linguaggio della psicologia moderna, l'istinto corrisponde «alla facoltà di agire in modo da produrre certi effetti finali senza aver preveduto e senza previa educazione ad agire in quel modo».

McDougall, che di esso è stato il più convinto assertore, lo defi -nisce come «una disposizione psicofisica congenita o innata che spin-ge l'organismo a prestare attenzione a certe categorie di oggetti, a sperimentare alla loro percezione un certo eccitamento emotivo, e ad agire o almeno a sperimentare un impulso ad agire in un certo mo -do» [McDougall 1926].

Mentre ciò che caratterizza gli istinti in James è soprattutto la

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natura stereotipale del comportamento e il loro essere conformi al tipo generale dell'azione riflessa, in McDougall gli istinti rappresenta-no i veri propulsori di ogni condotta e attività psichica in quanto capacità innate di agire intenzionalmente.

L'individuazione e la delimitazione dei vari istinti resta in ogni caso problematica e la lista di propensità che McDougall propone (tra cui la fame, il sesso, l'evitamento della paura, l'autoaffermazio-ne) mostra tutta la sua provvisorietà e precarietà, dal momento che rimangono in definitiva opinabili i criteri che hanno indotto ad includere alcune propensità e ad escluderne altre.

In assenza di riscontri anatomo-fisiologici e di una precisa artico-lazione dei rapporti tra organismo e ambiente, la nozione di istinto può dilatarsi a tal punto da costituire un ostacolo all'avanzamento delle conoscenze su ciò che effettivamente nelle diverse circostanze sostiene e dirige la condotta.

Nel 1922 Dunlap denuncia l'arbitrarietà di liste di istinti che ri -spondono soltanto ai criteri di convenienza del singolo studioso. Nel 1924 Bernard conta oltre 14.000 istinti. Risulta evidente che all'e -stensione del concetto corrisponde la sua svalutazione sul piano co-noscitivo ed è inevitabile che le fortune della categoria giungano al tramonto.

Un'esigenza di rigore, in concomitanza con una maggiore confi -denza nella possibilità di isolare e rendere ragione dei vari fenomeni raccolti sotto la generica categoria dell'istinto, portano in definitiva a respingere con esso tutta una varietà di implicazioni più o meno fi-nalistiche che risultano estranee alla ricerca psicologica.

Da un lato l'azione della selezione filogenetica non sembra ri-guardare rigide disposizioni ad agire in determinati modi e a perse -guire determinati fini, quanto piuttosto le potenzialità suscettibili di tradursi in inclinazioni e condotte in relazione alle diverse opportuni-tà che si vengono a creare nel corso dell'ontogenesi. Dall'altro la maggiore attenzione alle pressioni selettive dell'ambiente sollecita a controllare, per i diversi bisogni o motivi che sottendono la condot-ta, quali sono le influenze dell'esperienza e dell'apprendimento ri -spetto alla loro genesi e alle loro espressioni.

Varie liste di bisogni e motivi vengono gradualmente a sostituirsi alle liste di istinti e la riflessione sulla loro genesi e sul loro funziona-mento apre la strada e pone le basi della ricerca sulla motivazione.

Per quanto concerne le liste di bisogni, i contributi di Murray [1938] e di Maslow [1954] danno un'idea degli sviluppi di tale im -postazione nella quale lo studio della motivazione si intreccia stretta-mente con quello dello sviluppo della personalità e delle differenze individuali.

Murray a più riprese rielabora una tassonomia di bisogni in cui vengono sostanzialmente distinti bisogni primari o viscerogeni e biso-gni secondari o psicogeni. I primi corrispondono alla necessità di soddisfare le esigenze fisiche dell'organismo come l'aria, l'acqua, il cibo. I secondi, se pure in connessione con i primi dai quali si origi-

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nano nel corso dello sviluppo, non hanno riscontri specifici in alcun processo organico e corrispondono ai bisogni che l'individuo sviluppa e sperimenta nel corso della sua esperienza interpersonale e socia le. Sono tali i bisogni di acquisizione, di successo, di riconoscimento, di dominio, ecc.

I bisogni, in quanto espressioni di forze che organizzano la co-gnizione, l'affetto e l'azione, rappresentano le tendenze direzionali fondamentali della condotta e gli elementi distintivi della personalità. Entrambi infatti riflettono sempre una particolare organizzazione e una particolare gerarchia di bisogni.

Mentre la condotta esprime il bisogno o la costellazione di biso-gni che è dominante in un dato momento, la personalità rappresenta l'ordine di importanza e le connessioni che, tra i vari bisogni, si sono venute stabilizzando nel tempo in forza delle particolari vicende che hanno caratterizzato la loro soddisfazione segnando, inequivocabil-mente, l'esperienza personale dell'individuo. Sulla stessa scia anche Maslow ipotizza una gerarchia di bisogni e tra essi una sequenza evolutiva in cui la soddisfazione dei più primitivi rappresenta la con-dizione per l'emergere di bisogni più evoluti sino alla comparsa di bisogni che trascendono l'esistenza stessa dell'individuo.

All'origine della vita i bisogni fisiologici, connessi alla sopravvi-venza fisica dell'organismo, fanno da base ad una ipotetica piramide che viene edificandosi sopra di essi in concomitanza con le soddisfa-zioni che rendono possibile l'emergere e il susseguirsi di esperienze di diversi stati «motivazionali». Ogni stadio è caratterizzato dalla do-minanza di un nuovo tipo di bisogni. Sulla soddisfazione dei bisogni fisiologici come il bisogno di cibo, di acqua, di sonno, si innestano bisogni di sicurezza come il bisogno di protezione, di libertà dalla paura, di tranquillità; mano a mano che anche questi trovano soddi-sfazione emergono bisogni di attaccamento come il bisogno di amo-re, di appartenenza, di affiliazione; quando anche questi trovano ap-pagamento emergono e si impongono bisogni di stima come il biso-gno di sentirsi competenti, rispettati, apprezzati; seguono quindi i bi-sogni di conoscenza, i bisogni estetici, i bisogni di autorealizzazione e infine i bisogni spirituali di identificazione cosmica e di trascenden-za. Mentre i bisogni dei primi gradini della piramide sono sostanzial-mente «di carenza» e declinano in concomitanza con la loro soddi -sfazione, i bisogni dei gradini successivi sono sostanzialmente di cre-scita e, più che superati, vengono sussunti dai bisogni dei livelli su-periori.

Come quella di Murray, anche la teoria dei bisogni di Maslow ha goduto di grande popolarità in ambito clinico, educativo e lavorativo mentre ha avuto risonanza minore in ambito strettamente scientifico.

Apparentemente gli stessi elementi di semplicità e di ottimismo che hanno fatto sì che tali teorie fossero allettanti e fruibili in ambito applicativo, le hanno rese criticabili quando si è tentato di valutare la loro effettiva portata conoscitiva. In realtà rimangono disattesi dalla

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teoria di Maslow come da quella di Murray i principali interrogativi ai quali una teoria della motivazione dovrebbe rispondere.

Né l'una né l'altra rendono ragione delle componenti e dello svi -luppo delle varie motivazioni in relazione con lo sviluppo dei proces-si cognitivi e affettivi, né rendono ragione di cosa determini e carat-terizzi nelle diverse circostanze l'innesco, l'intensità e la persistenza delle varie condotte, la scelta delle direzioni e la realizzazione degli scopi. Questi sono in realtà i temi della ricerca moderna sulla moti-vazione: ciò che attiva e ciò che dirige il comportamento e ciò che regola, al di là delle varie classificazioni e liste di bisogni, l'emergere degli scopi e il fluire della condotta in relazione al loro perseguimen-to.

4.2. I determinanti della motivazione

La ricerca sistematica sui determinanti e sui meccanismi della motivazione ha seguito nel suo sviluppo le vicende della teoria del-l'apprendimento e del cognitivismo, lungo itinerari spesso indipen-denti l'uno dall'altro.

Nella tradizione della teoria dell'apprendimento il modello «pul-sione x abitudine» è stato il punto di partenza di una elaborazione che ha dato i suoi frutti migliori nei decenni immediatamente prece-denti e successivi al secondo conflitto mondiale.

In ambito cognitivista il modello «aspettativa x valore» è stato il punto di avvio di una riflessione che ha largamente dominato gli in-dirizzi più recenti della ricerca.

I due modelli riflettono non soltanto quelle che Weiner [1992] ha indicato come le due metafore «dell'uomo macchina e dell'uomo dio», ma sostanzialmente due ordini di fenomeni e due livelli di ana-lisi.

Nel modello «pulsione x abitudine» l'attenzione del ricercatore è parimenti rivolta ai processi di energetizzazione e ai processi di dire-zione, e mira a privilegiare nell'esame della motivazione i suoi costi-tuenti più elementari.

Nel modello «aspettativa x valore» il focus dell'indagine finisce con il riguardare esclusivamente i processi più evoluti e complessi di autoregolazione e di direzione.

Nel modello «pulsione x abitudine» le proprietà e le esigenze dell'organismo fisico si pongono all'origine della varietà di bisogni o motivi che, nel corso dell'ontogenesi, fanno da sostegno e da guida al comportamento, e le varie motivazioni, pur con gradi diversi di complessità, condividono nella sostanza gli elementi e le modalità es-senziali di funzionamento delle motivazioni biologiche.

Le pulsioni, le abitudini e gli incentivi sono gli elementi costituti-vi delle diverse motivazioni. Mentre le pulsioni forniscono le compo-nenti energetiche dei vari motivi, le abitudini e gli incentivi presiedo-

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no alla loro direzione. L'attivazione che si crea in relazione all'emer-genza di un bisogno [Hull 1943b] e l'attivazione che l'organismo ge-nera e di cui l'organismo ha bisogno per mantenere un livello otti-male di stimolazione dell'organismo [Hebb 1955; Berlyne 1973], for-niscono i principi esplicativi delle componenti pulsionali. Le abitudi-ni che l'apprendimento ha generato hanno la duplice proprietà di estinguere gradualmente la stimolazione interna e di dare direzione al comportamento in forza di una serie di risposte interne anticipato-rie della meta. Gli incentivi corrispondono al valore-meta il cui rag-giungimento realizza lo stato ottimale perseguito, e agiscono sulla ba -se di una serie di risposte anticipatorie della meta capaci di fungere da stimolazioni interne.

I principi del condizionamento classico e operante (cfr. infra, pp. 321-325) rendono d'altro canto ragione delle connessioni che forma-no le abitudini e che legano pulsioni, abitudini e incentivi. Tutta la dinamica motivazionale, in definitiva, risulta dalla necessità di mante-nere un livello di rapporto ottimale tra l'organismo e l'ambiente e ciò si Te.?ÌÀz7,& in virtù delle capacità dell'apparato psichico di gover-nare l'azione tramite meccanismi automatici e intenzionali che riflet -tono complessi reticoli associativi stimolo-risposta-segnale-affetto.

Secondo McClelland [1985], che nella letteratura sulla motivazio-ne occupa un posto di rilievo e in un certo modo di transizione tra il modello «pulsione x valore» e quello della «aspettativa x valore», è sostanzialmente in virtù di processi associativi che certe situazioni diventano incentivi in quanto assumono la proprietà di risvegliare stati affettivi originariamente connessi a esperienze primitive di sod-disfazione o insoddisfazione. Soprattutto è in virtù di processi asso-ciativi che, da relazioni primitive di stimoli-affetti-riposte, in parte già presenti alla nascita e che rappresentano veri e propri «incentivi naturali», si generano nel corso dello sviluppo complesse costellazioni di motivi.

Gli incentivi naturali corrispondono a connessioni naturali tra se-gnali-stimolo, uno stato di eccitazione emotivo-affettiva e un atto con-sumatorio, e sono strettamente legati alle prime reazioni emotive che in larga misura si attivano e procedono da essi.

I motivi corrispondono a stati appresi, connessi all'anticipazione di uno stato finale caricato affettivamente e perciò capaci di attivare l'organismo a produrre o ad apprendere la risposta strumentale ne-cessaria a realizzare quello stato finale. Sin dall'inizio i vari incentivi naturali si intrecciano e si combinano tra loro, generando nuovi mo-tivi e nuovi incentivi, in concomitanza con l'avanzare dei processi di maturazione e di sviluppo e in rapporto alle diverse opportunità di apprendimento e alle diverse esperienze di soddisfazione.

Lungo itinerari complessi si possono rintracciare elementi di con-tinuità tra l'incentivo naturale connesso all'avere un impatto sulla realtà e la motivazione al potere, tra l'incentivo naturale connesso alla ricerca di varietà e la motivazione al successo, tra l'incentivo na-turale connesso all'attaccamento e il motivo affiliativo. Le diverse op-

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portunità e modalità di soddisfazione e insoddisfazione, che segnano gli itinerari delle diverse esistenze individuali, determinano l'espres-sione e l'importanza dei vari motivi.

A seconda che gli itinerari rinforzati, positivamente o negativa-mente, siano quelli del dominio, della realizzazione o piuttosto dell'a-more, prendono forma disposizioni personali che riflettono vere e proprie gerarchie motivazionali rispetto alle quali taluni motivi più ricorrenti e più intensi di altri si configurano come gli elementi cen-trali di una strategia generale di rapporto con la realtà.

In questa direzione la riflessione sulla motivazione si allarga a quella sulla personalità, e i bisogni di successo, di affiliazione, di po-tere, in relazione alla loro dominanza e alle loro diverse combinazio-ni, si configurano come gli elementi di un nuova tassonomia della motivazione e della personalità.

Il bisogno di successo corrisponde ad una spinta a fare le cose al meglio per un intrinseco bisogno di perfezione e di eccellenza. La persona prevalentemente motivata al successo è attratta da compiti moderatamente difficili che rappresentano una sfida e una prova se-vera delle proprie capacità.

Il bisogno di affiliazione equivale a una spinta a ricercare la pre-senza degli altri, per il piacere che deriva dallo stare insieme e dal sentirsi parte di un gruppo. La persona prevalentemente motivata all'affiliazione offre il meglio di sé in presenza di incentivi affiliativi, presta molta attenzione alla cura delle relazioni interpersonali, tende a evitare le critiche e le controversie anche al prezzo di assumere posizioni esageratamente accondiscendenti.

Il bisogno di potere corrisponde alla spinta ad esercitare dovun-que possibile la propria influenza e il proprio controllo sulle altre persone. La persona motivata al potere mira a posizioni di comando, tende a richiamare e a concentrare l'attenzione altrui su di sé, è competitiva, non esita di fronte a quelle prove, anche rischiose, dalle quali può risultare un aumento del suo potere e prestigio.

L'interesse pratico di tale tassonomia, soprattutto a fini diagnosti -ci e predittivi, è stato in vario modo documentato in diversi contesti educativi, clinici e lavorativi.

È parso invece minore il contributo di tale impostazione all'ap-profondimento dei processi, dei meccanismi, delle strutture che go-vernano l'azione dei vari motivi, il loro emergere e declinare, il pre-valere di alcuni su altri, il costituirsi di vere e proprie gerarchie di scopi, l'alternarsi e il susseguirsi delle varie condotte e il mutare del-l'ordine delle mete in rapporto alle conseguenze dell'azione. A que-sto proposito, sono soprattutto gli sviluppi del modello «aspettativa x valore» che sembrano avere fatto i progressi più significativi.

In tale modello la capacità di darsi delle mete e di perseguire dei fini si configura, fin dall'inizio, nei lavori di Lewin et al. [1944], co-me una proprietà dell'apparato psichico che giustifica l'affrancamen-to di larga parte dell'indagine sulla motivazione da ogni residua con-siderazione biologica. L'attenzione si sposta decisamente sui processi

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cognitivi che presiedono alla individuazione delle mete, alla valuta-zione delle probabilità di successo, alla ponderazione delle probabili-tà di insuccesso, all'alternarsi dei diversi scopi nel tempo [Atkinson 1964; Atkinson e Birch 1970], alle attribuzioni di causalità in ordine al controllo che il soggetto percepisce di poter esercitare sui vari ele-menti da cui dipende il raggiungimento degli scopi [Weiner 1972; 1986], alla valutazione delle conseguenze delle proprie condotte [Heckausen 1980], alla capacità di perseverare in accordo con i pro-pri piani [Kuhl 1984], al ruolo dei valori [Feather 1986], all'assun-zione di una prospettiva temporale in cui la rappresentazione del fu-turo si rivela non meno importante dell'esperienza del passato nel-l'attenuare in taluni casi e nell'intensificare in altri la risolutezza a perseguire determinate mete [Raynor 1982].

In questa prospettiva i contributi di Atkinson hanno costituito per oltre un trentennio un elemento di propulsione fondamentale [Atkinson 1983; Brown e Veroff 1986; Kuhl e Atkinson 1986]. Dal modello di Atkinson e dai suoi sviluppi la ricerca sulla motivazione ha continuato a essere alimentata da nuovi contributi e nuove idee con conseguenze rilevanti in vari contesti applicativi.

Un punto di riferimento importante per le elaborazioni di Atkin-son è la teoria di Edwards [1954], secondo cui gli individui agiscono in modo da massimizzare non già il valore o l'utilità in termini og-gettivi, quanto Yutilità soggettivamente attesa (USA).

L'utilità soggettivamente attesa risulta dalla somma dei prodotti delle probabilità soggettive (P) per le utilità (U) dei vari obiettivi o delle diverse mete perseguite (n), come risulta dall'equazione:

USA = PI x Ul + P2 x U2 + . . . P n x U n

Ciò che in tale formulazione è determinante, rispetto alla teoria classica della decisione, è il ruolo delle aspettative.

Nella valutazione dell'aspettativa va considerato non solo quanto l'oggetto è attraente, ma altresì quanto può essere attraente di per sé l'ottenimento dell'oggetto. Viene così sottolineata l'importanza del-l'incentivo rappresentato dalla nuova esperienza di successo.

A partire dalla teoria di Edwards e dai risultati delle ricerche sul ruolo delle differenze individuali nella motivazione al successo (misu-rata con il test di appercezione tematica), Atkinson propone l'equa-zione:

T s = M s x P s x I s

In essa la tendenza al successo (Ts) (alla riuscita) è uguale al pro-dotto della predisposizione individuale al successo (Ms), intesa come variabile indipendente e quindi relativamente costante nell'individuo, per la probabilità di successo (Ps), per l'incentivo rappresentato dal successo (Is), e risulta matematicamente massimizzata dove P s è uguale a 0,50 e Is, dato da 1 — Ps, è uguale a 0,50. A questo ri-guardo è importante notare la distinzione condivisa da Atkinson tra

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«motivo» e «motivazione». Mentre il motivo corrisponde ad una di-sposizione individuale verso certe classi di incentivi (nel caso del suc-cesso, lo riuscire nei compiti che ci si propone), la motivazione è lo stato che si determina quando in presenza di particolari indizi o si -tuazioni si attivano le aspettative che l'esecuzione di una certa attività porti al raggiungimento degli incentivi cui la persona attribuisce particolare valore.

La tendenza al successo espressa dall'equazione riportata si rive-la, tuttavia, solo in parte sufficiente a spiegare una varietà di risultati empirici, nonché una varietà di interrogativi connessi alla persistenza e al realismo delle scelte comportamentali in situazioni di difficoltà e di rischio. In particolare essa non spiega perché in taluni casi perso-ne molto motivate a riuscire si ritraggono da compiti molto difficili, diversamente da persone poco motivate a riuscire che insistono an-che di fronte a compiti impossibili.

A questo proposito diventa inevitabile per Atkinson fare riferi -mento ai contributi di Festinger [1942] e di Lewin et al. [1944] sul livello di aspirazione come risultante dalla «risoluzione di un conflit-to» in cui tre fattori appaiono predominanti: a) l'attrattiva del suc-cesso; b) la repulsione per l'insuccesso; e) il fattore cognitivo di un giudizio di probabilità.

Accanto alla tendenza al successo viene perciò considerata la ten-denza a evitare l'insuccesso o il fallimento quale risulta dalla nuova equazione:

Tef = Mef x p f x i f

In essa la tendenza a evitare il fallimento (Tef) è uguale al prodotto della predisposizione individuale (motivo) a evitare il fallimento (Mef) per la probabilità di fallimento (Pf = 1 — Ps), per l'incentivo rappresentato dal fallimento (If) il quale non può essere che di segno negativo e perciò fa sì che Tef abbia in definitiva un segno negativo.

Le scelte e il comportamento dei soggetti corrispondono in defi-nitiva alla risultante della Ts e della Tef come indicato dall'equazione:

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T s = (M s x P s x (Mef x P f x (- L))

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Può così accadere, in presenza di una elevata inclinazione perso-nale a evitare il fallimento, che il soggetto si orienti verso mete il cui perseguimento è altamente probabile o verso mete il cui persegui -mento è altamente improbabile. Mentre sono evidenti le ragioni del la prima scelta, la seconda può apparire paradossale. Anche quest'ul tima, tuttavia, si rivela plausibile se si tiene conto che fallire in compiti molto difficili, e perciò di improbabile successo, può essere meno frustrante e comunque preferibile al fallimento in compiti di media difficoltà dove un numero considerevole di persone può al contrario riuscire.

L'equazione si arricchisce ulteriormente nell'ultima elaborazione della teoria proposta da Atkinson in collaborazione con Birch [At-

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kinson e Birch 1970] con la denominazione di dinamica dell'azione. In questo caso, la condotta viene colta nella prospettiva temporale e le scelte del soggetto sono considerate nel loro susseguirsi in rappor-to all'emergere e al declinare dei diversi bisogni nel tempo.

L'attività in corso di un individuo si configura come l'espressione della tendenza attualmente dominante tra tutte quelle di cui l'indivi-duo è portatore. In particolare, un'attività è più o meno dominante in rapporto al tempo che essa impegna, alla frequenza, alla regolarità e alla continuità con cui essa si presenta.

Lo studio della motivazione, nella prospettiva temporale, viene perciò a implicare lo studio dei processi che sostengono nel tempo il cambiamento delle varie attività e introduce, rispetto alle precedenti formulazioni, i concetti di istigazione all'azione (ciò che aumenta la tendenza verso una determinata attività), di consumazione nell'azio-ne (il diminuire della tendenza a produrre una determinata attività che si associa all'esecuzione della medesima attività), di resistenza al-l'azione (ciò che si oppone alla tendenza a produrre una determinata attività).

Contemporaneamente Weiner [1972] approfondisce l'esame delle componenti cognitive connesse ai processi di attribuzione della cau-salità nell'anticipazione e nella percezione del successo e dell'insuc-cesso. Emerge infatti empiricamente che le tendenze verso determi-nate attività, a motivo di caratteristiche di personalità del soggetto e delle sue passate esperienze, risultano significativamente influenzate dalle difficoltà del compito come percepite dal soggetto, dalle abilità che egli ritiene di possedere, dall'impegno che il soggetto ritiene ven -ga richiesto dal compito, dalla sua percezione del ruolo attribuibile al caso o alla fortuna. Tali elementi, in qualità di fattori fissi (la difficol tà del compito e le abilità del soggetto) o variabili (la fortuna e l'im-pegno), e a loro volta suscettibili di essere percepiti come più con-trollati (le abilità e l'impegno) o meno (la difficoltà e la fortuna) dal soggetto, concorrono significativamente, secondo Weiner, nel deter-minare le aspettative di successo e perciò le mete che il soggetto si prefigge.

Heckausen [1991] e Kuhl [1984], riallacciandosi alla riflessione di Ach [1910] sui «processi volizionali», distinguono tra intenzione a fare certe cose e la capacità di realizzare l'intenzione stessa, tra ciò che determina la decisione in favore di un'azione e ciò che distingue la persistenza di un'azione sino al raggiungimento dei fini originaria-mente perseguiti. In questa prospettiva assumono un particolare ri-lievo l'azione dei vari processi, meccanismi e stili individuali di auto-regolazione dai quali dipende la scelta delle mete in rapporto alle stime delle probabilità del loro raggiungimento, le valutazioni degli esiti delle condotte poste in atto, la persistenza e l'organizzazione dell'azione sino al raggiungimento dei fini. A questo proposito Kuhl ha concettualizzato l'insieme dei processi che favoriscono o che pos-sono ostacolare il coinvolgimento delle varie operazioni mentali ne-cessarie all'espletamento dell'azione e al raggiungimento della meta

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rispettivamente in termini di «orientamento all'azione» e di «orienta-mento allo stato» [Kuhl e Beckman 1991].

Feather [1986], d'altro canto, sottolinea l'importanza dei valori in quanto standard di «doveri», aspetti centrali del sé, veri determi -nanti di atteggiamenti e di comportamenti in forza delle loro pro-prietà normative e delle loro valenze affettive.

Raynor [1982], infine, proietta lo studio della motivazione al si' cesso oltre le immediate aspettative, probabilità ed esperienze di cesso o insuccesso. Le sorgenti di ciò che caratterizza il valore e meta e perciò di un'azione appartengono al passato, al prese futuro.

Il passato e il futuro, in particolare, rappresentano n' Raynor le coordinate entro le quali si inscrive la tender determinate condotte e perciò dischiudono la prospetr' l'esame della motivazione nel quadro più ampio de'1

funzionamento della personalità. Il raggiungimene essere intrinsecamente fonte di soddisfazione, pe mento che ne deriva immediatamente senza p colari fini, o può invece avere un valore str cessivi obiettivi, così da rappresentare la t? corso capace di chiudere, alimentare o a* naie.

L'immagine di sé e, in particolar autostima sono fonti di valore co r che, sul piano esistenziale, familiare, solidano un positivo sentimento di se k

Le condotte e le mete, che in passati, rienze di successo o insuccesso, rappresentane il futuro, elementi di riferimento centrali rispetta tative e perciò rispetto ai propri sforzi e ai propri o. creti. Il successo e l'insuccesso del passato ipotecano . nei confronti del presente; il successo e l'insuccesso del pas. presente condizionano i propri piani per il futuro; il successo successo del passato e i propri piani per il futuro condizionano proprie scelte per il presente.

La costellazione di valori, di credenze, di giudizi, di attese che informa il sistema di sé è dunque ciò che determina le scelte del soggetto, le quali possono risultare molto diverse nelle varie circo-stanze.

Nell'economia di questa esposizione sarebbe troppo lungo tentare di chiarire più analiticamente tutti gli sviluppi del modello «aspet-tative x valore». Nel complesso quello che risulta dalle varie impo-stazioni non è ancora un quadro unitario e integrato, piuttosto un insieme di contributi che forniscono degli indispensabili punti di ri-ferimento per rendere ragione dei complessi processi e delle struttu re mentali che possono differentemente sottendere quanto dell'equa-zione originaria viene genericamente indicato come aspettativa e co-me valore.

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Nella percezione soggettiva dell'una e dell'altro entrano la memo-ria, l'attenzione, il pensiero, la capacità di fare inferenze e le inferen-ze che infine si fanno, la capacità di programmare e le concrete pre -visioni che prendono forma, la capacità di contemplare delle alterna-tive e delle conseguenze, la capacità di decidere se insistere o rinun-ciare, la capacità di monitorizzare le proprie intenzioni in accordo con i propri obiettivi e con gli esiti della propria condotta. L'accen-tuazione degli aspetti cognitivi è stato il tratto che in definitiva ha caratterizzato la ricerca sulla motivazione in concomitanza con l'affer-marsi del paradigma cognitivista.

Della conversione da un modello «pulsionale» ad un modello «cognitivo», i teorici dell'«aspettativa x valore» non sono stati gli unici protagonisti.

Tra i contributi non riconducibili alla tradizione «aspettativa x va-lore» vanno segnalati i lavori di Castelfranchi e Parisi [1980] attorno alle nozioni di scopi e di gerarchie di scopi. Tali nozioni in concomi-tanza con lo sviluppo di modelli connessionisti, prefigurano interes-santi ipotesi e prospettive di ricerca, sia in relazione allo sviluppo delle motivazioni, sia in relazione ai rapporti tra emozione e motiva-zione. Motivazioni ed emozioni si configurano rispettivamente come sistemi gerarchici di scopi e come sistemi di sorveglianza nel raggiun-gimento di questi. Motivazioni ed emozioni in parte si costruiscono, in parte si perfezionano nel corso dello sviluppo venendo a funziona-re in parallelo, in alternanza, o in vari tipi di sintonia [Castelfranchi 1991; Parisi 1991]. Va inoltre segnalato il contributo di Nuttin [1980b] nel cogliere l'importanza della prospettiva temporale e in particolare di quella futura. Nei suoi lavori la riflessione sulla motiva-zione è strettamente connessa a quella sulla personalità di cui riflette la trama unificante. Tra i contributi più recenti l'elaborazione di Bandura [1986; 1997] attorno al concetto di self efficacy esercita una grande influenza anche in ambito motivazionale dove, sia pure indi-rettamente, sembra restituire attualità a varie riflessioni sulla motiva-zione, rimaste ai margini e con caratterizzazioni autonome rispetto ai due modelli della «pulsione x abitudine» e dell'«aspettativa x valo-re». Mi riferisco, a questo proposito, al contributo di White [1959] sulla «motivazione alla competenza», di De Charms [1968] sulla «causalità personale», di Deci [1975] sulla «motivazione intrinseca». Secondo Bandura è una proprietà della mente umana agire attiva-mente nel mondo attraverso la capacità di simbolizzazione, di antici-pazione, di apprendimento per imitazione, autoriflessione e autore-golazione. La motivazione si inscrive dunque nell'ambito delle capa-cità individuali di dirigersi e regolarsi in accordo a standard persona-li traendo vantaggio dall'esperienza e concorrendo attivamente alla costruzione della personalità.

La novità del contributo di Bandura è l'articolazione e la specifi -cità della nozione di autoefricacia percepita. Da un lato essa risulta ancorata ad un preciso modello di funzionamento dell'apparato psi-chico, dall'altro a particolari situazioni, capacità e obiettivi. Mentre

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qualunque manifestazione psichica si configura sempre come la risul-tante del reciproco determinarsi tra persona, situazione e condotta (reciproco determinismo triadico), l'autoefficacia percepita in quanto convinzione di saper impiegare al meglio le proprie capacità e di sa-per valorizzare a pieno le opportunità offerte dall'ambiente, è una misura dell'equilibrio e dell'efficienza dell'intero sistema personale quanto più risulta avvalorata dall'esperienza.

Secondo una prospettiva analoga, attorno alla nozione di sé e di personalità, lo studio delle motivazioni in altri autori [Dweck e Leg-gett 1988; Pervin 1983; Cantor e Zirkel 1990; Emmons 1986; Little 1983; Markus e Nurius 1986] si intreccia con quello delle credenze, delle capacità e delle mete, per trovare un filo conduttore nel corso dello sviluppo individuale.

Il declinarsi dei vari motivi nel quotidiano e nel corso delle di -verse esistenze induce ad un'analisi sottile di differenze, soglie e gra-dazioni rispetto alle combinazioni e alle risultanti dei processi di base implicati. È perciò necessaria una prospettiva capace di cogliere l'i -diosincrasia di ogni organizzazione personale e il coniugarsi in tale organizzazione di fenomeni che appartengono a diversi livelli di fun-zionamento.

Alle singole motivazioni possiamo ricondurre ciò che determina l'innesco, il mantenimento e l'interruzione di specifici comportamen-ti, ma è sostanzialmente un'organizzazione ad esse sovraordinata che può rendere ragione dell'intero flusso di condotte che risulta dal combinarsi o alternarsi delle diverse motivazioni [Caprara 1996].

5. Emozioni e motivazioni

È inevitabile che la ricerca sulle emozioni si intrecci con la ricer-ca sulle motivazioni. Le emozioni si configurano come discrepanze rispetto a sistemi di piani, di mete e aspettative in autori come Mandler [1984]; come fondamentali sistemi motivazionali in autori come Frijda [1986]; come precursori di sistemi motivazionali com-plessi in autori come Tomkins [1980] e McClelland [1985].

Se da un lato è plausibile che emozioni e motivazioni condivida-no larga parte degli ingredienti di base che presiedono alla «energe-tizzazione» della condotta, è d'altro lato evidente che sono sistemi di motivi che regolano sia il dispiegarsi dell'azione sia il declinarsi delle varie emozioni in rapporto al raggiungimento delle diverse mete.

Qui l'assunzione di una prospettiva capace di riconoscere la spe-cificità dei fenomeni in ordine al livello della loro organizzazione, allo stadio di sviluppo psicologico che essi riflettono e alla funzione che essi assolvono nel rapporto con l'ambiente diventa essenziale per chiarire rapporti che possono essere di derivazione, di regolazione reciproca o di mera coesistenza. Parimenti si rivela indispensabile fa-re ricorso a definizioni, sia pure convenzionali, che consentano di ancorare a degli osservabili quelli che di volta in volta sono gli ogget-

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ti in esame e che consentano di cogliere gli elementi che segnano il passaggio da un ordine di fenomeni (quello dell'emozione) a un altro (quello della motivazione).

Vanno in particolare distinte situazioni di trasformazione in cui la reazione emotiva si trasforma in motivazione o, viceversa, la moti-vazione rende inclini a particolari tipi di reazione emotiva, da altre situazioni in cui la reazione emotiva è come l'elemento nucleare della motivazione che di essa rappresenta in parte l'involucro e in parte il modulatore.

Va in ogni caso preservata la distinzione tra emozioni e motiva -zioni. Le emozioni sono transitorie, hanno carattere d'urgenza e una volta innescate sono vissute come scarsamente controllabili nelle loro manifestazioni e nel loro corso. Le motivazioni, al contrario, sono stabili e permanenti, si dispiegano nel tempo con carattere di conti -nuità e discrezionalità.

Le emozioni sono le risultanti di combinazioni tra eccitazione e rappresentazioni, relativamente primitive in quanto a complessità or-ganizzativa e perlopiù stereotipali nelle loro manifestazioni espressive e comportamentali.

Le motivazioni, invece, sono organizzazioni complesse, che risul-tano da combinazioni e trasformazioni di affetti e rappresentazioni in piani di comportamento e intenzioni, che gradualmente si perfezio-nano nel corso dell'ontogenesi in forza di una interazione continua e reciproca con l'ambiente.

Le emozioni sono reazioni ad emergenze del mondo interno o del mondo esterno secondo l'asse piacere/dispiacere, che tradiscono la rottura di un equilibrio, per una discrepanza o per una emergenza.

Le motivazioni sono tendenze orientate ad agire nel mondo esterno secondo l'asse possibilità/impossibilità, che mirano alla realiz-zazione di nuovi equilibri al proprio interno e che esprimono dei progetti rispetto a possibili scenari futuri dell'interazione tra l'indivi-duo e l'ambiente.

La motivazione è il dispiegarsi di una strategia, cioè di una serie di rappresentazioni mentali e di opzioni comportamentali possibili per il raggiungimento di fini più o meno dilazionati nel tempo.

L'emozione è la tattica che si accompagna nel «tempo breve» al dispiegamento di questa strategia nel «tempo lungo», che ne registra e segnala i progressi, gli arresti, le variazioni.

Geneticamente è plausibile che il costituirsi delle emozioni secon-do copioni largamente «condizionati» anticipi e faccia da modello al costituirsi delle motivazioni.

Le emozioni sono più arcaiche e affondano maggiormente le loro radici nel biologico e nel protomentale; le motivazioni riflettono inve-ce livelli di organizzazione propri di una più decisa emancipazione del mentale rispetto al biologico.

Ciò che segna il costituirsi effettivo delle motivazioni, e la loro emancipazione dagli schemi stereotipati e quasi-automatici delle emo-zioni o la trasformazione di queste in motivazioni, è un salto di qua-

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lità sul piano dell'organizzazione cognitiva al quale si associano nuo-ve capacità di rappresentazione, di anticipazione, di autoregolazione.

È perciò plausibile che emozioni e motivazioni interpretino livelli di organizzazione propri di momenti diversi della filogenesi, che l'on-togenesi in parte ripete nel medesimo ordine sequenziale e in parte ripropone per l'azione di sistemi funzionalmente autonomi. Nel mo-mento in cui si costituiscono le motivazioni è possibile che queste soggioghino e regolino le emozioni alle quali si sono appoggiate nel proprio sviluppo. Ciò tuttavia non è incompatibile col riconoscimento di una sfera di autonomia reciproca che potrebbe rendere ragione, da un lato, dello sviluppo di sistemi motivazionali indipendenti da sistemi emozionali e, dall'altro, del persistere di sistemi emozionali relativamente arcaici, in quanto a livello di organizzazione, e pur-tuttavia in grado di competere con sistemi di regolazione della con-dotta assai più evoluti.

A questo proposito, la nozione di autonomia funzionale vale tan-to per i nessi che, in una prospettiva evolutiva, sembrano legare lo sviluppo dei sistemi motivazionali su preesistenti sistemi emozionali, quanto per il persistere di forme di organizzazione relativamente pri-mitive in concomitanza col formarsi di sistemi di direzione della con-dotta assai più sofisticati.

Il criterio discriminante tra i due ordini di fenomeni sta dunque, a mio parere, nel diverso contributo o rilievo dell'organizzazione co-gnitiva, che fa da sostegno e che si associa all'emozione e alla moti-vazione. Mentre, d'altro canto, la proprietà della motivazione di assi-milare e disciplinare le componenti energetizzanti dell'emozione è il criterio discriminante tra l'ordine dei fenomeni cognitivi e l'ordine dei fenomeni motivazionali.

Nel caso dei rapporti tra motivazione e cognizione emerge la mutua influenza tra funzioni cognitive e sistemi motivazionali: le pri -me infatti regolano lo sviluppo dei secondi che, a loro volta, finisco-no con lo svolgere una funzione strategico-regolativa su tutto l'appa-rato cognitivo orientando la percezione, la memoria, il pensiero.

Per questo ho sostenuto [Caprara 1990; 1991] che la motivazio-ne sia da considerarsi un costrutto sovraordinato a quello di emozio -ne e di cognizione, in quanto si riferisce a forme di organizzazione psichica che risultano dal concorso di componenti emotive e cogniti-ve e che risolvono, ad un livello più complesso, il problema dei rap-porti tra emozione e cognizione.

È di conseguenza naturale che emergano per la motivazione pro-blemi di delimitazione e di articolazione ancor più difficili di quelli che si pongono per l'emozione. Qui le maggiori difficoltà sono diret-tamente proporzionali alla maggiore complessità dei fenomeni che di-ventano oggetto di indagine.

Di fronte a tale complessità e varietà il perfezionamento di una teoria generale non può sacrificare all'eleganza dei modelli la viscosi tà dei fenomeni reali, né l'ambizione di più estese generalizzazioni può indurre a sottovalutare importanti differenze a vantaggio di so-

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110 EMOZIONI E MOTIVAZIONI

miglianze largamente congetturali. Per questo mi pare opportuno trattare di una psicologia delle motivazioni, al pari di una psicologia delle emozioni, a salvaguardia degli elementi di specificità che con-traddistinguono i vari sistemi interessati, a giusto riconoscimento del-la complessità dell'oggetto di indagine.

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

Per quanto riguarda le emozioni, possono essere consultati con profitto i seguenti testi: il più volte citato nel corso del capitolo D'Urso e Trentin [1990]; Tiberi [1988]; D'Urso e Trentin [1992],

In relazione agli aspetti motivazionali del comportamento si pos-sono vedere: Caprara [1996]; Schmalt [1986]; Pervin [1989]; Wei-ner [1992].

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1. Problemi

Studiare la percezione richiede una forma particolare di consape-volezza: quella che il metodo scientifico utilizzato per svelare la realtà fisica, cioè il mondo così com'è, può spiegare anche il velo dei feno-meni percettivi, cioè il mondo così come appare.

In questo capitolo cercheremo dunque di rispondere a una do-manda semplice ma disarmante, posta da Kurt Koffka nei Principi di psicologia della forma [1935, cap. Ili]: «Perché le cose appaiono co-me appaiono?». E lo faremo, in accordo con Koffka, trattando i per-cetti come prodotti di due processi: la codificazione dell'informazione proveniente dall'esterno (par. 2) e Xorganizzazione interna all'organi-smo (par. 3).

Parleremo soltanto della percezione visiva di proprietà oggettuali quali colore, forma, grandezza, movimento, e non di altre proprietà visive come quelle espressive né delle modalità diverse dalla visione. Tuttavia riusciremo a toccare molti punti di interesse generale, a par -tire dai concetti discussi nei prossimi tre paragrafi: la contrapposizione geografico/comportamentale; la nozione di catena psicofisica; il principio del rispetto/sospetto.

1.1. Ambiente geografico e ambiente comportamentale

La contrapposizione geografico/comportamentale è un altro dei contributi teorici di Koffka [ibidem, cap. II], Si tratta di una distin-zione chiave, anche se il termine «comportamentale» è molto legato all'interlocutore dei Principi: il comportamentista che spiegava le ri-sposte come semplici funzioni degli stimoli fisici (l'ambiente geografi-co). Per dimostrare che le risposte dipendono invece dall'ambiente così come l'organismo se lo rappresenta, Koffka evocò una leggenda tedesca.

Capitolo 3

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112 PERCEZIONE

Una sera d'inverno, mentre infuriava una tempesta di neve, un cavaliere raggiunse una locanda, felice di trovarsi al sicuro dopo ore e ore trascorse a cavallo per attraversare la pianura spazzata dal vento, dove la neve gelata aveva coperto ogni traccia di sentiero e ogni segno di riferimento. Sulla soglia, il locandiere accolse sorpreso lo straniero e gli chiese da dove fosse venuto. Quando il cavaliere si voltò indicando un punto lontano, nella dire-zione opposta alla casa, il locandiere esclamò con voce tremante di spavento e meraviglia: «Ma sapete di aver attraversato a cavallo il lago di Costan-za?». Sentendo quelle parole il cavaliere rimase impietrito e cadde morto ai suoi piedi [ibidem, 27-28].

La leggenda drammatizza la presa di coscienza del conflitto tra realtà e apparenza. L'evento fisico «cavalcata sul lago ghiacciato», che si svolge nell'ambiente geografico, è diverso dall'evento psicologi-co «attraversamento lungo la via più breve», che si svolge in un am-biente comportamentale in cui, come dimostra la reazione del cava-liere, il lago non esiste. L'idea di Kofìka è che noi ci muoviamo nel mondo trasformato dall'attività percettiva un po' come il cavaliere sul lago reso cavalcabile dal gelo.

La contrapposizione geografico/comportamentale è coerente con il dualismo metodologico [Kòhler 1938, cap. IV], che distingue l'espe-rienza indiretta, fondamentale nelle scienze naturali, dall'esperienza diretta, fondamentale per studiare le caratteristiche dell'osservatore. Le peculiarità dell'esperienza diretta sono messe in evidenza da illu-sioni come quella di Ebbinghaus, in cui due dischi tìsicamente iden-tici appaiono diversi: quello circondato dai dischi piccoli appare più grande di quello circondato dai dischi grandi (fig. 3.1). L'effetto è misurabile mediante la tecnica dell'annullamento, in cui uno scosta-mento sulla scala dei valori percepiti viene compensato da uno sco-stamento, in direzione opposta, sulla scala dei valori fisici: l'osserva -tore aggiusta la grandezza del disco di destra fino a renderlo appa-rentemente identico al disco di sinistra. L'aggiustamento è uno dei metodi della psicofisica classica, la disciplina che tratta l'osservatore come metro delle grandezze fisiche (cfr. supra, cap. I, pp. 23 e 68). La misura dell'effetto è data dalla differenza tra il PES, il punto di eguaglianza soggettiva corrispondente all'annullamento della diversità percepita, e il PEO, il punto di eguaglianza oggettiva corrispondente alla congruenza geometrica.

L'osservatore che aggiusta il disco modifica l'ambiente geografi-co, ma la sua azione è regolata dalla percezione, cioè dall'ambiente comportamentale. L'azione termina quando viene raggiunto uno sta to di equilibrio in cui l'ambiente comportamentale non contiene più la differenza di grandezza percepita che funge da determinante per l'azione sull'ambiente geografico. Ambiente geografico e ambiente comportamentale sono quindi gli elementi del ciclo percezione-azione, l'unità di analisi proposta da Neisser [1976] per descrivere la visione attiva, tipica dell'osservatore che esplora e che muovendosi genera cambiamenti nell'informazione ottica.

Ciclo percezione-azione e visione attiva sono concetti utilizzati sia

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PERCEZIONE 113

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FIG. 3.1. Illusione di Ebbinghaus [Robinson 1972]. Appare più grande il disco circondato dai dischi piccoli o quello circondato dai dischi grandi?

in ambito biologico sia in ambito computazionale [Gibson 1966; 1979; Sandini, Tistarelli e Tagliasco 1992; Wechsler 1990] per evitare che il dualismo metodologico costituisca una specie di barriera teorica tra l'organismo che percepisce e l'ambiente in cui ha luogo l'azione. Il requisito essenziale della rappresentazione percettiva non è la veridicità, ma l'adeguatezza all'azione. Come insegna la leggenda del lago di Costanza, in cui il gelo crea un inganno che consente l'avvicinamento diretto alla locanda, i percetti possono essere di sup-porto all'azione anche quando (o proprio perché) celano una ben diversa realtà.

1.2. La catena psicofisica

II contatto visivo con gli oggetti esterni è fenomenicamente im-mediato, ma fàsicamente mediato da una serie di trasformazioni, che compongono la cosiddetta catena psicofisica.

All'origine della catena sta lo stimolo distale. Per organismi come l'uomo, esso corrisponde al mondo della fisica macroscopica, popolato da corpi più o meno compatti, delimitati da superfici e immersi in un mezzo, l'aria, in cui la luce si propaga in linea retta. I corpi hanno forma, grandezza, posizione spaziale; sono in quiete o in moto; interagiscono con la luce. Le loro proprietà, descrivibili nel linguag-gio oggettivo della geometria e della fisica, sono indipendenti dallo specifico osservatore (umano, animale, artificiale).

La prima mediazione è costituita dallo stimolo prossimale. Ciascun punto di un ambiente illuminato consente la raccolta di informazione sulle proprietà dei corpi {information pick-up) [Gibson 1979], infor-mazione contenuta nell'assetto ottico {optic array) o immagine (termi-ne non del tutto univoco, cfr. par. 2.1). Un occhio, una macchina fotografica, una telecamera, tutti i dispositivi che catturano la «luce

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114 PERCEZIONE

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come informazione» piuttosto che la «luce come energia» (par. 2), raccolgono un'immagine del mondo distale. L'immagine contiene in-formazione ottica sui corpi; o meglio, è l'informazione ottica. Rispet-to al mondo distale, l'immagine comporta una perdita di dimensio-nalità da cui dipendono vari tipi di indeterminazione (par. 3.1).

Lo stimolo prossimale è il potenziale informativo a disposizione del sistema visivo. L'informazione effettivamente utilizzata è definita da un altro anello della catena psicofìsica, la stimolazione prossimale, corrispondente al pattern di attivazione dei recettori retinici. Un ul-teriore anello è l'insieme dei processi di codificazione e organizzazione che portano agli stati percettivi.

All'altro estremo della catena psicofisica stanno i percetti, che di-pendono da tutti gli anelli precedenti ma che, per garantire un ade-guato supporto all'azione, debbono fornire una buona rappresenta-zione dello stimolo distale all'origine della catena (che forse trovere-ste logico chiamare fisico-psichica, considerato il flusso di informazio-ne dall'esterno verso l'interno).

Schemi analoghi sono adottati anche in ambito computazionale. La filosofia costruttiva della macchina di visione, che David Marr riassumeva nel motto to thè desiderable via thè possible [1982, 36], si basa sulla fondamentale tripartizione tra mondo distale, immagine e percetto. La macchina deve produrre ciò che è desiderabile - una rappresentazione dei corpi aderente alla loro costituzione fisica e agli scopi dell'azione - ma nei limiti del possibile, cioè compatibilmente con l'immagine in input (par. 2.1).

All'interno del ciclo percezione-azione la catena psicofisica è un segmento relativamente stabile, indipendente dagli specifici atti esplorativi compiuti dall'osservatore. Ciò non significa che i percetti siano univocamente determinati dagli stimoli, come presuppone il realismo ingenuo, che confonde mondo fisico e mondo percepito (am-biente geografico e ambiente comportamentale). Anzi, proprio la parziale indeterminazione della catena psicofisica (par. 3.1) pone le condizioni per il verificarsi dei fenomeni di organizzazione percettiva che analizzeremo nei paragrafi 3.3-3.8.

1.3. Il principio del rispetto-sospetto

II nostro breve viaggio nel mondo della percezione sarà illumina-to dal principio del rispetto-sospetto [Galli 1985; Metzger 1941], in cui si riassume l'atteggiamento critico che consente il superamento del realismo ingenuo. I fenomeni percettivi, sia quelli banali sia quelli sorprendenti, vanno considerati con il dovuto rispetto, come fonti potenziali di evidenza; vanno invece scrutate con sospetto le nostre convinzioni e aspettative, spesso ispirate a pregiudizi. Si riduce così il rischio che le descrizioni dei fenomeni contengano l'errore dello sti-molo o l'errore dell'esperienza [Kòhler 1929; Koffka 1935, 97-98].

Commette l'errore dello stimolo chi, senza rispetto per la realtà

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PERCEZIONE 115

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► ►

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►FIG. 3.2. L'esagono distorto. Gli angoli parzialmente coperti appaiono deformati [Gerbino

1978].

fenomenica e senza sospetti sui propri giudizi, descrive non ciò che vede ma ciò che sa. L'errore può verificarsi nei casi in cui lo stimolo prossimale non preserva una particolare proprietà distale. Descriven-do un bastone immerso a metà nell'acqua limpida qualcuno potrebbe dire «vedo un bastone diritto»; ma così andrebbe perduto il dato fondamentale, il fatto che il bastone appare spezzato. Il bastone spezzato è un fenomeno ottico, non un fenomeno visivo; cioè riguarda la luce che media il passaggio dallo stimolo distale allo stimolo prossimale, non i processi di codificazione sensoriale e di organizza-zione percettiva. Ma nello stesso errore può incorrere chi descrive un'illusione visiva in cui il percetto non corrisponde né allo stimolo prossimale né allo stimolo distale. Lo commetterebbe chi dicesse di vedere nella figura 3.2 un esagono regolare soltanto perché sa che tale regolarità è verificabile con un righello. Quello che si vede è un esagono irregolare, ed è pericoloso persino dire «l'esagono è regolare ma appare irregolare». Trattare i fenomeni come mere apparenze può portare a trascurarli; mentre noi vogliamo spiegare proprio le apparenze.

Per chiarire la distinzione tra ciò che si vede e ciò che si sa, tra percetti e concetti, richiamiamo un esempio classico, quello del tra-monto. Se la percezione dipendesse dalla conoscenza concettuale sul mondo distale, Tycho Brahe avrebbe descritto il tramonto come un avvicinamento del sole all'orizzonte, mentre Keplero lo avrebbe de-scritto come un avvicinamento dell'orizzonte al sole [Hanson 1958, 23]. E invece no; teniamo ben salda l'idea che tutti, geocentristi e eliocentristi, vedono muoversi il sole. Tuttavia ciò non accade in for -za dell'attaccamento umano per i miti più antichi, ma in forza di una legge che fa dipendere la percezione del movimento dallo schema di riferimento (par. 3.6); una legge che spiega anche perché l'astrono-

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mia ingenua, fondata sull'esperienza diretta, sia geocentrica e non eliocentrica.

L'errore dell'esperienza è complementare al precedente e consiste nell'attribuire agli stimoli, distali o prossimali, una proprietà fenome-nica attribuibile soltanto ai percetti. Prendiamo il caso della dimen-sione percettiva freddo/caldo, che dipende dalla codificazione senso-riale del continuum fisico della temperatura. Quando tocchiamo l'ac -qua e diciamo «è proprio bella calda», non descriviamo un attributo fisico. Proviamo a tenere per un po' una mano nell'acqua molto cal-da e l'altra nell'acqua molto fredda. Immergendole entrambe nella stessa bacinella risulterà chiaro che attributi come «caldo» e «fred -do» hanno senso soltanto in quanto predicati dell'esperienza senso-riale.

Nel caso della visione l'errore dell'esperienza può insinuarsi pro-prio nell'uso del termine «immagine» in riferimento a uno stimolo pittorico, all'informazione ottica o alla stimolazione retinica [Koffka 1935, 98]. Ma allora, come dobbiamo raffigurarci lo stimolo prossi-male per la visione? Questa domanda ci introduce alla parte dedicata all'informazione ottica e alla sua codificazione.

2. Codificazione

Come avrete notato, lo stesso anello della catena psicofisica è sta -to chiamato in vari modi: input, stimolo prossimale, mediazione, im-magine, informazione ottica. Una scelta esclusiva sarebbe inopportu-na, dato che ciascun termine ha la sua storia e porta con sé un pez -zo di teoria.

Se si considera il sistema visivo come un elaboratore, il termine più neutrale è «input»: ciò che viene fornito in ingresso. Il termine «stimolo», duramente criticato da Gibson [1979], implica un po' troppo, cioè l'esistenza di un legame causa-effetto tra input e percet-to. Il termine «informazione ottica» ha due vantaggi. In primo luogo mette in evidenza che per l'occhio non è importante l'energia conte-nuta nella luce, ma il segnale mediato dalla luce. In secondo luogo è esplicitamente relazionale: l'input contiene informazione intorno alle proprietà distali e informa il percetto, cioè gli da forma [Cutting 1987]. Il termine «immagine» è forse il più usato, ma richiede alcune precisazioni.

2.1. L'immagine in input

E difficile raffigurarsi l'immagine in input senza scivolare nell'er-rore dell'esperienza (par. 1.3). In particolare, è quasi impossibile ve-dere uno stimolo pittorico (una fotografia o un dipinto prospettico) come un insieme di dati grezzi. Per cogliere la distanza che separa l'immagine sia dal percetto sia dallo stimolo distale è utile riflettere

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PERCEZIONE 117

FIG. 3.3. «Opus 1 n. 293 aa» di Oscar Reutersvard [da Ernst 1992].

su un caso limite. La figura 3.3 è un autentico enigma visivo scoper -to da Oscar Reutersvard nel 1934 [Ernst 1992]. Ciascun elemento appare come un cubo orientato in modo univoco rispetto ai cubi vicini. Ma nel complesso la struttura tridimensionale non funziona. Osserviamo la sequenza in senso orario, partendo dall'alto: ci sono quattro cubi in verticale... poi altri tre via via più vicini a noi... poi altri due ancora più vicini... ma allora l'ultimo dovrebbe stare davan-ti e non dietro ai cubi da cui siamo partiti!

Reutersvard ha creato una «proiezione impossibile», nella quale l'informazione prospettica è localmente coerente ma globalmente in-coerente. La curiosità suscitata da questa figura si spiega proprio con la nostra difficoltà a vedere le tracce grafiche come cosa distinta dal -l'oggetto rappresentato. Quando non derivano da una proiezione ot-tica (come nella fotografia) e sono invece disposte ad arte, le tracce possono contenere frammenti locali di significato senza avere senso compiuto. Ma come dimostra la figura 3.3, l'occhio tende a vedere oggetti anche quando l'immagine viola le regole proiettive. Per que-sto è così difficile raffigurarsi l'immagine come un insieme di dati grezzi e comprendere quale formidabile problema sia la costruzione di una rappresentazione visiva del mondo a partire dall'input ottico.

Nel sistema visivo umano, l'immagine viene codificata mediante il pattern di attivazione dei recettori retinici. Ma riflettiamo adesso su un altro caso limite. Che cosa succede se una piccola zona della retina è insensibile? La domanda è opportuna, perché l'occhio è tea -tro di un curioso «esperimento in natura». In ciascuna retina esiste una zona del tutto priva di recettori, la macula caeca, nella quale la luce non può produrre alcun effetto. Tenete la pagina a circa 40 cm

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FIG. 3.4. Nella parte nasale della retina di ciascun occhio c'è una zona priva di recettori. Per far sparire la croce fissate il disco con l'occhio sinistro. Per far sparire il disco fissate la croce con l'occhio destro.

di distanza e guardate la figura 3.4 con l'occhio sinistro, fissando il centro del dischetto. Senza spostare lo sguardo, fate attenzione alla croce di sinistra e avvicinate la pagina: ad un certo punto la croce sparisce. Sempre fissando il dischetto con l'occhio sinistro, saggiate la grandezza della macula caeca muovendo la pagina.

La macula caeca venne scoperta nel 1666 dal fisico francese Ed-me Mariotte (lo stesso della legge di Boyle-Mariotte) del quale si rac-conta che avesse deliziato Carlo II d'Inghilterra insegnandogli a «de-capitare» i suoi cortigiani con una semplice occhiata (monoculare). Particolare macabro: qualche decennio prima, non solo fenomenica-mente, era stato decapitato Carlo I, padre di Carlo II.

È facile spiegare perché, in visione binoculare, la macula caeca eluda la nostra osservazione: la zona non rappresentata nell'occhio sinistro è rappresentata nell'occhio destro, e viceversa. Ma nemmeno in visione monoculare compare un buco; e non perché la macula cae-ca sia di grandezza trascurabile, dato che si estende per circa 6° in orizzontale e 8° in verticale, a un'eccentricità di circa 13-19° in dire-zione nasale (quanto basta per farci cadere dentro un uovo tenuto in mano a braccio steso). Il buco è invisibile perché ha luogo un'inter-polazione visiva: una superficie omogenea continua ininterrotta; una linea non si spezza in due segmenti (fig. 3.5). Si realizza cioè un

FIG. 3.5. Fissate con l'occhio sinistro il punto nero a destra. E poi con l'occhio destro il punto bianco a sinistra. In entrambi i casi il lato opposto appare completo (o perlo -meno non interrotto). Rispetto alla fig. 3.4 dovrete tenere la pagina più vicina al-l'occhio poiché la larghezza della figura è minore.

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riempimento (filling-in) coerente con la metafora del colore che si spande finché non incontra un contorno.

Benché l'interpolazione nella macula caeca si presti a interpreta-zioni contrastanti [Dennett 1991; Kanizsa 1991, 115], possiamo trarre una conclusione generale, valida anche per altri completa -menti (par. 3.5). L'assenza di informazione locale va distinta dal-l'informazione sull'assenza. Per vedere una macchia, un buco o un troncamento, l'occhio deve registrare i contorni che ne segnalano l'esistenza.

2.2. Un codice per la luce

Salvo che nella macula caeca, il sistema visivo è ben attrezzato per trattenere l'input ottico, cioè le variazioni di intensità e composi -zione spettrale della luce che arriva in un punto di vista. Il pattern di intensità viene registrato accuratamente, grazie ad un codice costi-tuito dalla gamma dei colori neutrali, o acromatici, che vanno dal nero (intensità minima) al bianco (intensità massima). Meno accura-tamente vengono registrate le variazioni di composizione spettrale, riguardanti la qualità della luce che arriva in un dato punto della retina.

Per la composizione spettrale il sistema dispone di un codice co-stituito dalla gamma cromatica, in cui si trovano, oltre al bianco e al nero, anche rosso, verde, blu, giallo, e così via. Tuttavia, l'insieme di tutti i colori visibili non è in grado di rappresentare l'intera varietà di possibili differenze tra le miscele di radiazioni. L'osservatore uma-no (anche quello normale) codifica la luce in modo incompleto. E non soltanto perché è cieco all'infrarosso e all'ultravioletto; ma per una ragione ben più importante, su cui è opportuno soffermarsi, considerato che i modelli del codice cromatico hanno influenzato profondamente l'intera concezione del sistema visivo.

L'esplorazione scientifica del problema inizia con gli esperimenti di Isaac Newton pubblicati in Opticks: Or, a Treatise of thè Reflec-tions, Refractions, Inflections and Colours of Light (1704), che riguarda-no, da un lato, la natura fisica della radiazione solare e, dall'altro, il modo in cui l'occhio la percepisce. La dimostrazione base sfrutta la scomponibilità della luce solare mediante un prisma, che rivela l'esi-stenza di una varietà di raggi «differentemente rifrangibili», per usa-re l'espressione newtoniana, e diversamente colorati (fig. 3.6, p. 161). Ma se il bianco della luce solare è in realtà una miscela, allora anche altri colori potrebbero esserlo! Una cosa divenne estremamen-te chiara a Newton: il sistema visivo non è in grado di analizzare una miscela di luce e di risalire alle radiazioni che la compongono (come invece fa lo scienziato, che inferisce la composizione serven-dosi della differente rifrangibilità).

Si sarebbe invece dimostrata insostenibile un'altra ipotesi di

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Newton, descritta nel passo seguente, secondo la quale ogni singola radiazione semplice attiva uno specifico meccanismo sensoriale.

Quesito 12. «Non è forse vero che i Raggi di Luce, quando cadono sul fondo dell'Occhio, eccitano delle Vibrazioni nella Tunica Retina?».

Quesito 13. «Non è forse vero che tipi diversi di Raggi producono Vibra-zioni di ampiezza diversa, che in accordo con la loro ampiezza eccitano Sensazioni di Colore diverso, in modo simile alle Vibrazioni dell'Aria, che in accordo con le loro diverse ampiezze eccitano le Sensazioni dei diversi Suoni? E in particolare, non è forse vero che i Raggi più rifrangibili eccitano le Vibrazioni più corte producendo una Sensazione di Viola cupo, e quelli meno rifrangibili le più ampie producendo una Sensazione di Rosso cupo, e che i vari tipi di Raggi intermedi [eccitano] le varie Vibrazioni di ampiezza intermedia producendo i vari Colori intermedi?» [ibidem, libro III],

Prima di descrivere la teoria tricromatica (par. 2.3), che invece presuppone l'esistenza di poche classi di recettori, esaminiamo le im-magini consecutive, un fenomeno di adattamento che è compatibile con qualsiasi sistema basato su recettori soggetti ad affaticamento, indipendentemente dal loro numero. Illuminate bene la figura 3.7 a p. 162 e fissate un incrocio tra i quadrati per circa 30 s, senza spo-stare lo sguardo. Poi portate lo sguardo su un punto che avrete col-locato al centro di un foglio bianco. Vi appariranno delle forme uguali ma dotate di nuovi colori. La zona di sovrapposizione è ora la più chiara, quella blu appare gialla, quella rossa appare verde, lo sfondo appare scuro. Dopo alcuni secondi l'effetto svanisce, ma po-tete rinfrescarlo sbattendo le palpebre.

I colori delle immagini consecutive sono coerenti con la scoperta newtoniana che il bianco è il corrispettivo fenomenico di una miscela contenente tutte le radiazioni dello spettro, ugualmente intense. In condizioni normali la miscela proveniente dal foglio bianco attiva in modo bilanciato tutti i recettori. Ma se a causa del precedente adat-tamento selettivo alcuni recettori sono momentaneamente meno sensi-bili di altri, allora il pattern prodotto dal foglio bianco sarà sbilancia-to: quelli affaticati non riusciranno a equilibrare quelli non affaticati, e si produrrà un pattern di attivazione simile a quello normalmente prodotto da una miscela di radiazioni complementare a quella usata nell'adattamento (in cui cioè sono invertiti tutti i rapporti di intensi tà tra le radiazioni dello spettro).

Un'osservazione analoga si può fare adattando al buio un occhio; ciò consente di verificare l'esistenza di due sottosistemi visivi. Si trat ta del fenomeno di Purkinje, un curioso effetto che forse avete già notato vagando di notte nei campi, e che potete riprodurre seguen do il metodo suggerito da Nagel all'inizio del secolo [Southall 1937, 275]. Copritevi un occhio con la mano o con una benda, e state con l'occhio tappato per mezz'ora, se siete in un ambiente molto illuminato, o per 15-20 min, se siete in un ambiente poco illuminato. Bene, se avete un occhio bendato riprendete a leggere.

Nel 1825 il fisiologo boemo Jan Evangelist Purkinje aveva osser-

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vato che quando l'illuminazione è debole e gli occhi sono adattati al buio «i colori che danno sul rosso e che alla luce diurna appaiono molto brillanti, come il carminio, il vermiglione e l'arancione, appaio-no di gran lunga tra i più scuri». Una rosa rossa, che di giorno ap-pare più chiara delle foglie verdi, di notte appare più scura delle foglie, quasi nera; e il fiorellino azzurro, sempre per l'occhio adattato al buio, è sorprendentemente chiaro, quasi luminoso.

Mentre scorrono i minuti, il vostro sistema visivo sta diventando un interessante preparato di laboratorio. L'occhio scoperto rimane adattato alla luce mentre quello coperto sta progressivamente adattan-dosi al buio. Attendete che siano trascorsi i minuti necessari e poi portatevi in una zona poco illuminata. Osservate ora la figura 3.8 (cfr. p. 162) con l'occhio che avete tenuto scoperto. Se l'illuminazione è abbastanza bassa, entrambi i fiori saranno appena discernibili sullo sfondo nero. Liberate ora l'occhio adattato al buio, coprendo quello adattato alla luce, e osservate i due fiori: il fiore azzurro vi apparirà molto più luminoso dell'altro. Alternate l'osservazione con un occhio e con l'altro. Vi convincerete che il fenomeno di Purkinje dipende dalla diversa sensibilità dei due canali monoculari, adattati selettivamente a due diversi livelli di illuminazione. È come se la scena fosse vista attraverso uno strano paio d'occhiali, con due filtri diversi.

Quella dei filtri non è un'analogia superficiale, in quanto per molti aspetti il sistema visivo periferico funziona come un insieme di filtri. L'adattamento al buio determina il passaggio dalla visione foto-pica, dominata dal sottosistema dei coni (la cui sensibilità è descritta, nella figura 3.6, dal grafico in alto), alla visione scotopica, dominata dal sottosistema dei bastoncelli, più sensibili nella porzione corta del-lo spettro. L'intensità relativa dei colori è influenzata dallo sposta -mento {Purkinje shift) del massimo di sensibilità.

2.3. La teoria tricromatica

Le basi per la moderna teoria della codificazione del colore ven-nero poste da Thomas Young, un secolo dopo gli esperimenti di Newton [Southall 1937, 338]. Grazie alla valorizzazione che ne fece Hermann von Helmholtz [1867], la teoria di Young sarebbe diven-tata un modello per l'intera scienza della visione. Due sono i concetti di interesse generale.

Il primo è il principio dell'univarianza. Contrariamente all'ipotesi di Newton, i recettori non hanno una risposta specifica alla lunghez-za d'onda. Ogni recettore risponde a larga banda di radiazioni, con intensità variabile a seconda della sensibilità in quel particolare punto dello spettro. Di conseguenza, uno stesso valore di attivazione può corrispondere tanto a una radiazione molto intensa in una zona dello spettro in cui il recettore è poco sensibile quanto a una radiazione poco intensa in una zona in cui il recettore è molto sensibile.

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s M L; y

-,' ."' y y \

- \ \

> ti \ \t L^,

f y

400500 600(a) (b)Lunghezza d'onda (nm)

1,0 r—

700

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FIG. 3.9. Sensibilità relativa di ciascuna delle tre classi di coni (in unità arbitrarie, u e a), in funzione della lunghezza d'onda. Il grafico rappresenta anche una miscela di due radiazioni di pari intensità, una di 500 nm (a) e una di 600 nm (b).

Il secondo è il piccolo numero di parametri del codice, nel caso specifico soltanto tre. L'ipotesi newtoniana secondo la quale ogni ra-diazione è codificata separatamente da una diversa classe di recettori è inutilmente complicata. La combinazione di tre valori è sufficiente a contraddistinguere una grande varietà di miscele.

In visione diurna, la luce attiva tre classi di recettori, i coni, con curve di sensibilità spettrale ampiamente sovrapposte, ma con massimi dislocati su bande differenti dello spettro: corta, media, lunga (S, M, L; short, medium, long). Nella figura 3.9 ciascuna curva rappresenta la sensibilità relativa di una delle tre classi di coni, in funzione della

S M L S L

FIG. 3.10. A sinistra sono riportate le attivazioni prodotte nelle tre classi S, M e L della mi -scela di radiazioni di 500 nm (a) e 600 nm (b) della fig, 3.9. Ciascuna radiazione, intersecandosi con le curve S, M e L, produce una corrispondente attivazione nel sistema: Sd, Ma, LB) M/, e Lh. Le altezze delle colonne a sinistra corrispondono alla somma delle intercette delle tre curve di fig. 3.9 (S = S«: M = M. + M4; L = La + Li,). A destra è illustrata la posizione del colore risultante e, all'interno del triangolo di Maxwell utilizzato per rappresen-tare l'attivazione relativa alle tre classi di coni [adattato da Boynton 1979, 142].

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lunghezza d'onda. Sono anche indicate due radiazioni (barra nera a 500 nm e barra grigia a 600 nm), che producono l'attivazione com-plessiva descritta nella figura successiva.

Nella figura 3.10, il grafico a sinistra rappresenta l'attivazione nelle tre classi S, M e L, ricavabile sommando le intercette tra le barre e le curve di sensibilità. Il grafico a destra è il triangolo di Max-well (lo spazio dei colori introdotto da James Clerk Maxwell), in cui ogni colore percepito è individuato da un punto. Innalzando da ogni lato del triangolo equilatero un segmento corrispondente all'attivazio-ne di una classe di coni, viene individuato un punto interno che rap-presenta una particolare tripletta di attivazioni, cioè un colore.

Talvolta, incautamente, le tre classi di coni vengono identificate usando non le bande dello spettro (lunghe, medie, corte), ma i colo ri RGB (red, green, blue; rosso, verde, blu). Per questo motivo la teoria viene chiamata tricromatica. Essa costituisce lo schema di riferimento della colorimetria, che nasce nel 1931 con l'adozione di alcuni standard da parte della CIE, la Commission Internationale de l'Éclairage [Boynton 1979; Wyszecki e Stiles 1967].

La colorimetria consente di prevedere se due miscele fàsicamente differenti appaiono diverse oppure identiche. Nel secondo caso esse sono dette metanieri. Il metamerismo discende direttamente dalla na-tura del codice cromatico. Come abbiamo visto nelle figure 3.9 e 3.10, data una miscela di radiazioni, il sistema SML porta a indivi-duare nel triangolo di Maxwell un unico punto, corrispondente a un certo colore. Ma non è vero l'inverso: ogni punto, cioè ogni colore, corrisponde a tutte le miscele che attivano il sistema SML nello stes -so modo.

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2.4. Analisi delle caratteristiche

II codice cromatico comporta quindi una particolare forma di ce-cità alle differenze di composizione spettrale, che ha una rilevanza paradigmatica. Molti modelli della visione ipotizzano infatti che an-che gli aspetti spazio-temporali dell'immagine siano codificati più o meno nello stesso modo.

La codificazione sensoriale del colore realizza un compromesso tra efficienza ed economicità. La natura aveva davanti un problema di ottimizzazione: descrivere il maggior numero di miscele di radia-zioni (analiticamente rappresentabili come funzioni dello spettro) con il minimo numero di descrittori (i filtri corrispondenti alle varie classi di coni). Il costo di una soluzione con pochi filtri è il metamerismo, cioè l'equivalenza percettiva di miscele fisicamente diverse; il costo di una soluzione con molti filtri è la perdita di risoluzione spaziale (nella medesima area retinica bisogna impacchettare molti recet-tori... che quindi debbono essere piccoli... ma tanto piccoli non si possono fare...).

Come sottolineano Churchland e Sejnowski [1992, cap. IV], tre

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Fio. 3.11. Non sempre gli occhi sanno cosa dire. Qui è difficile discriminare in base alla connessione [Minsky e Papert 1968].

filtri univarianti generano triplette di valori in grado di rappresentare una gran quantità di miscele differenti, con limitata perdita di infor-mazione sulla composizione spettrale. Lo spazio delle radiazioni (di dimensionalità enorme) viene compresso in uno spazio a tre dimen-sioni. Più miscele metameriche vengono mappate nello stesso punto, ma la gamma di miscele distinguibili rimane comunque molto ampia. La codifica cromatica è quindi una sorta di categorizzazione per attri-buti, i tre filtri, che probabilmente tiene conto delle condizioni pre-valenti nell'ambiente in cui il nostro sistema visivo si è evoluto [Ma-loney e Wandell 1986; Bruno 1992].

Alla codifica per attributi, o caratteristiche (features), si ispira un intero approccio della visione preattentiva, di orientamento esplicita-mente analitico. L'oggetto viene concepito come fascio di caratteristi-che, e le sue proprietà sono ricondotte alla combinazione delle pro-prietà delle caratteristiche costituenti.

La dicotomia preattentivo/attentivo pervade la psicologia [Neis-ser 1967; Julesz 1971] (cfr. infra, cap. IV, par. 2.1). Un'elegante di-mostrazione di Minsky e Papert [1968] ne chiarisce il significato ri-spetto alla percezione visiva. Guardando la figura 3.11 senza ispezio-narla, sapreste decidere dove c'è un verme attoreigliato e dove due vermi? Distinguere una mela da due mele è un'operazione fenomeni-camente immediata; ma Minsky e Papert hanno dimostrato che la differenza tra uno e due non sempre è disponibile in visione preat-tentiva. Potete verificare quale configurazione contiene un verme so-lo, ma per farlo dovete scrutare, non soltanto guardare, magari aiu-tandovi con la punta della matita.

Lo studio della visione preattentiva condivide con la teoria tri-cromatica un importante presupposto. Un oggetto fenomenicamente unitario può corrispondere all'attivazione di più classi di rilevatori. Ogni oggetto è rappresentabile come un luogo nello spazio multidi-mensionale delle caratteristiche, identificato in base all'intensità con cui sono attivati i vari rilevatori.

Ma quali sono le caratteristiche elementari utilizzate nella descri-zione sensoriale dell'immagine, ammesso che tale alfabeto esista? I candidati sono: colore, contrasto, orientamento, grandezza, movi-

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FIG. 3.12. Effetto consecutivo di orientamento. Per un minuto muovete lo sguardo nel rettangolo a sinistra. Poi fissate il quadratino a destra.

mento, disparità binoculare (generalizzando alle coppie di immagini, cfr. par. 3.8). I sottosistemi specializzati nella rilevazione delle carat-teristiche elementari sono oggetto di interi filoni di ricerca [Beck 1982; Julesz 1991; Treisman 1988], che cercheremo di illustrare uti-lizzando come esempio l'orientamento.

Nella figura 3.12 le barre a destra sono (e di solito appaiono) verticali. Trascorrete un minuto sulla sinistra, ispezionando il rettan-golino tra i reticoli obliqui senza fissare, per evitare immagini conse-cutive del tipo illustrato nella figura 3.7, e poi guardate il quadratino a destra. Ora i reticoli non appaiono verticali. Nell'erto consecutivo di orientamento {tilt after-effect) si verifica una rotazione in direzione opposta a quella dello stimolo di adattamento, spiegabile ipotizzando che l'orientamento percepito rifletta l'attivazione di più classi di rile-vatori, sensibili su zone parzialmente sovrapposte del continuum del-l'orientamento. L'affaticamento di una classe di rilevatori fa sì che lo stimolo verticale presentato dopo l'adattamento determini un pattern di attivazione squilibrato.

Secondo il modello dell'analisi per caratteristiche elementari {feature analysis), a livello periferico i rilevatori sensibili a una caratte-ristica sono indipendenti dai rilevatori sensibili a un'altra; il che sem-bra confermato dagli effetti consecutivi semplici come quelli per il co-lore (fig. 3.7, p. 162) e per l'orientamento (fig. 3.12). Ma gli oggetti

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FIG. 3.14. Un reticolo orizzontale/verticale da utilizzare dopo la fig. 3.13.

m percepiti sono unitari, e quindi a livello centrale le caratteristiche debbono venire combinate. Ciò significa forse che possiamo adattare il sistema visivo a congiunzioni di caratteristiche e ottenere degli ef-fetti consecutivi complessi?

Nel 1965 «Science» pubblicò un breve resoconto che avrebbe aperto un inesauribile filone di ricerche. Celeste McCollough scopre il primo effetto consecutivo contingente {contingent after-effect). Armatevi di pazienza, perché la preparazione del vostro sistema visivo richiederà parecchi minuti. Per l'adattamento utilizzate la figura 3.13 (cfr. p. 163) e per la fase secondaria la figura 3.14.

La figura 3.13 contiene due reticoli, uno orizzontale rosso-nero e uno verticale verde-nero, che vanno osservati sotto una buona illumi-nazione. Dovete guardare il centro di uno per 10 s, poi dell'altro per 10 s, e così via per 5 min. Completato l'adattamento guardate il cen-tro del reticolo bianco e nero (fig. 3.14). La porzione orizzontale apparirà verdastra e quella verticale rossastra. I colori indotti vanno nella direzione del contrasto, come nell'immagine consecutiva sempli-ce, ma la loro localizzazione è contingente all'orientamento del reti-colo di adattamento.

L'effetto McCollough dura molto. Se l'adattamento è stato con-dotto ad arte potrete sperimentare l'effetto, riguardando la figura 3.14, anche fra un paio d'ore. Ma soprattutto è molto significativo, poiché suggerisce un'architettura del sistema visivo coerente con la codifica delle caratteristiche elementari e delle loro combinazioni. So-no stati scoperti effetti consecutivi contingenti praticamente per tutti gli accoppiamenti di caratteristiche elementari [per una teoria gene-rale, cfr. Barlow 1990].

Un altro paradigma che ha messo in evidenza il ruolo dell'orien-tamento nella visione preattentiva è la segregazione di tessiture, un campo segnato dai contributi contrapposti di Jacob Beck e Bela Julesz. La migliore introduzione al problema si deve a Beck [1966; 1982].

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T

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FIG. 3.15. La forma centrale è più simile a quella di destra o a quella di sinistra?

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Nella figura 3.15 la forma centrale (T diritta) vi sembra più simile alla T obliqua o alla L? Se badate soltanto alla prima impressione, sarete d'accordo con i soggetti di Beck [1966], i quali, valutando la somiglianzà con un voto da 0 a 9, giudicarono molto simili la T diritta e la T obliqua (voto 8,0) e poco simili la T diritta e la L (voto 3,8).

Sempre sulla base della prima impressione, dite ora se la figura 3.16 è uniforme oppure no. Dove vedete un confine che divide la tessitura in due parti? Verso destra o verso sinistra? Beck [1982] ha scoperto che la somiglianzà percepita sotto attenzione fecalizzata (fig. 3.15) non predice la segregazione di una tessitura contenente le stesse forme come elementi. Come dimostrano moltissime ricerche [Perona 1992], nella segregazione di tessiture conta la distribuzione spaziale delle caratteristiche di basso livello, e non la somiglianzà simbolica. Una delle caratteristiche critiche è appunto l'orientamento dei tratti costitutivi. Nella figura 3.16 la segregazione si realizza più facilmente tra le T diritte e le T oblique che non tra le T diritte e le L diritte perché queste ultime due forme contengono segmenti con lo stesso orientamento. Contrapponendo la figura 3.15 alla figura 3.16 Beck non ha messo in discussione il ruolo della somiglianzà -uno dei fattori di unificazione descritti nel paragrafo 3.4 - ma ha contribuito a definire meglio le dimensioni di somiglianzà che contano nella visione preattentiva.

Alcune peculiarità dell'orientamento come caratteristica elementare sono state messe in evidenza dal paradigma della ricerca visiva {visual search), reso popolare dagli ingegnosi esperimenti di Anne

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FIG. 3.16. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe in base alla fig. 3.15, questa tessitura appare segregata lungo il confine tra le T diritte e le T oblique.

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Target verticale

Target obliquo

• Target presente

A Target assente

L_LTarget verticale

Target obliquo

12 N

R T /

(ms)

900

800

700

600

500

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Fic;. 3.17. Asimmetria nella ricerca visiva. A sinistra, in alto una prova positiva in cui si deve trovare un target verticale tra 11 distrattori obliqui, e in basso una prova positiva in cui si deve trovare un target obliquo tra 11 distrattori verticali. A destra i tempi di risposta in funzione della numerosità degli elementi e del tipo di prova [adattato da Treisman e Gormican 1988, fig. 6].

Treisman. La figura 3.17 illustra due stimoli e i tempi di risposta nelle varie condizioni di un esperimento di Treisman e Gormican [1988], in cui il target era un segmento o verticale od obliquo. Os-servate lo stimolo a sinistra in alto e immaginate di dover segnalare la presenza di un target verticale; poi osservate lo stimolo in basso e immaginate di dover segnalare la presenza di un segmento obliquo. Nel secondo caso dire di sì è più facile! Si fa prima a trovare un segmento obliquo tra tanti segmenti verticali che non un segmento verticale tra tanti segmenti obliqui. \1 asimmetria nella ricerca visiva -questo il nome dato all'effetto - dipende da ciò che il sistema per -cettivo considera deviante dalla norma, e non soltanto diverso dai distrattori; conta cioè il riferimento al valore standard della caratteri-stica, al suo punto àncora.

Soffermiamoci ora sul grafico a destra, in cui l'ordinata indica il tempo medio di ricerca, cioè il tempo intercorrente tra l'inizio dello stimolo e la pressione del tasto con cui il soggetto da la risposta e fa sparire lo stimolo. I dati si riferiscono a due condizioni sperimentali, in ciascuna delle quali c'erano 4 tipi di prove (ecco perché in tutto ci sono 8 punti). In una condizione il target era verticale, nell'altra obliquo. Ovviamente il compito comprendeva prove positive (target presente) e prove negative (target assente). Veniva inoltre variata la numerosità degli elementi (o 6 o 12), per cui nelle prove positive il target era accompagnato o da 5 o da 11 distrattori.

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PERCEZIONE 129

II grafico della figura 3.17 mostra due effetti. Il primo è una marcata asimmetria: rispetto ai 500 ms necessari in media per dire sì o no quando i distrattori sono verticali, ci vogliono altri 250 ms per eseguire il compito se i distrattori sono obliqui. Poi c'è un altro ef-fetto. Quando la discriminazione è facile, con target obliquo e di -strattori verticali, la numerosità di questi ultimi è irrilevante: il de-viante salta fuori (pop-out) con la medesima facilità, pochi o molti che siano i normali. Quando la discriminazione è più difficile, con target diritto e distrattori obliqui, la numerosità di questi ultimi con -ta, e il tempo di ricerca cresce al crescere del numero di elementi. L'effetto pop-out non va confuso con la salienza soggettiva. Esso è definito operazionalmente da un tratto diagnostico: il tempo di ricerca costante al variare del numero di distrattori [Neisser 19641. L'irri-levanza della numerosità costituisce evidenza a favore di un'elabora-zione parallela; mentre una funzione crescente costituisce evidenza a favore di un'elaborazione sequenziale. Ma l'argomento è trattato da Umiltà (cfr. infra, cap. IV, par. 2.1) e quindi ci fermiamo qui.

3. Organizzazione

La codificazione è soltanto il presupposto per la percezione; un presupposto necessario, come conoscere l'alfabeto cirillico per legge-re il russo, ma non sufficiente. L'immagine, per quanto codificata in modo efficiente dai primi processi visivi (early visioni, rimane parzial-mente indeterminata. La luce che arriva in un punto di vista è un formidabile mediatore di informazione sul mondo distale e sull'osser -vatore, ma è gravata da alcuni limiti peculiari che sono alla base di un'intera serie di problemi connessi con il recupero-ricostruzione [recovery] del mondo distale a partire dall'immagine.

Riconsideriamo i tre anelli fondamentali della catena psicofisica: stimolo distale, stimolo prossimale e percetto. La validità dei percet-ti, cioè la loro corrispondenza con gli stimoli distali, non è ovvia, poiché il sistema visivo è in contatto soltanto con lo stimolo prossi-male, che tipicamente è il prodotto di più fattori distali. Molti pro-blemi di percezione visiva corrispondono ad altrettanti problemi mal posti di ottica inversa [Poggio 1985; Wechsler 1990], in quanto la rappresentazione percettiva del mondo distale sembra coinvolgere una sorta di recupero dell'informazione perduta nello stimolo prossi -male.

Un esempio aritmetico servirà a chiarire la nozione di problema mal posto. L'addizione è una funzione: dati due addendi (3 e 4) la somma è univocamente determinata (7). Ma poiché la corrisponden-za addendi-somma è molti-uno, il problema inverso «data la somma trovare gli addendi» è mal posto: la soluzione è parzialmente inde-terminata. La soluzione diventa determinata se si introducono dei vincoli: per esempio, se si sa che gli addendi sono due e che la diffe-renza vale 1, allora gli addendi possono essere soltanto 3 e 4.

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130 PERCEZIONE

3.1. Tipi di indeterminazione ottica

Per capire in che senso l'input ottico è indeterminato, sondiamo lo stimolo prossimale mediante uno schermo di riduzione: un ampio cartone nero con al centro una piccola apertura. Osservando in tal modo una porzione ridotta del campo visivo, si evidenzia che sull'in-formazione locale gravano vari tipi di indeterminazione [Gerbino e Bruno 1991].

Indeterminazione fotometrica

Usiamo lo schermo di riduzione per isolare la luce che arriva da una parete bianca. Vedremo comparire nell'apertura una zona chia-ra, localizzata sul cartoncino anche quando la superficie retrostante è lontana. La chiarezza della zona dipende dalla luminanza, la grandez-za fotometrica appropriata per descrivere l'intensità dello stimolo prossimale, cioè la quantità di luce (registrata dai recettori) corri-spondente ad un'unità di angolo ottico.

La luce che arriva all'occhio dall'apertura è un ibrido. Tipica-mente, la luminanza di una superficie come una parete omogenea-mente illuminata è descritta dall'equazione L = rl; dove L è la lumi-nanza (la quantità di luce che arriva al punto di vista entro un ango-lo ottico unitario); r la riflettanza (un coefficiente tra 0 e 1 che espri-me la proporzione di luce che la superficie è in grado di riflettere); e I l'intensità dell'illuminazione incidente sulla superficie.

Determinare il colore di una superficie distale equivale a risolvere il problema inverso r—L/I. Mettetevi nei panni dell'occhio: cono-scendo il valore di L, l'intensità locale, ma non quello di I, l'illumina-zione incidente, è impossibile determinare r. Il valore L = 90 u.a. (unità arbitrarie) può corrispondere a un cartoncino bianco poco il -luminato (r = 90%; I— 100 u.a.), a un cartoncino grigio cupo molto illuminato ir = 9%; 1= 1000 u.a.), oppure a una qualsiasi altra combinazione. Come facciamo allora a distinguere un foglio bianco in ombra da un foglio nero sotto la luce solare? Un problema analo-go si pone per la composizione spettrale: come facciamo a distingue-re tra un foglio bianco sotto una lampada rossa e un foglio rosa sot -to una lampada bianca? Sembrano problemi insolubili; e in assenza di ulteriori vincoli, questi come altri problemi mal posti sono effetti-vamente insolubili.

Indeterminazione connettiva

Nel 1929 Wolfgang Kòhler criticava così l 'idea che l 'immagine retinica contenga delle unità segregate, corrispondenti ai corpi distali:

Ogni elemento di una superficie fisica riflette la luce indipendentemente dagli altri; e a questo riguardo due elementi della superficie di un oggetto

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PERCEZIONE 131

FIG. 3.18. I dischi sono tutti sovrapposti al triangolo oppure quelli a destra in realtà sono dei buchi?

quale, per esempio, una pecora non si connettono tra loro più strettamente

di quanto faccia l'uno o l'altro dei due con l'elemento di una superficie nell'ambiente dell'animale. Così nella luce riflessa non resta alcuna traccia delle unità esistenti di fatto nel mondo fisico [...] Fisiologi e psicologi sono inclini a discorrere del processo retinico corrispondente a un oggetto, come se la stimolazione entro l'area retinica dell'oggetto già costituisse un'unità isolata. Eppure questi scienziati non possono mancare di rendersi conto che gli stimoli formano un mosaico di eventi locali del tutto indipendenti fra loro [Kòhler 1929].

L'indeterminazione connettiva non è legata a una descrizione dello stimolo prossimale come aggregato di radiazioni elementari, o della stimolazione come mosaico di attivazioni di singoli recettori. Un oggetto distale connesso può dar luogo ad una proiezione ottica sconnessa se è parzialmente occluso (fig. 3.18); d'altra parte, due segmenti distali sconnessi possono dar luogo ad un unico stimolo prossimale connesso se, per una coincidenza, le estremità si trovano allineate con il punto di vista.

Indeterminazione occlusiva

Poniamoci il problema della corrispondenza tra contorni dell'im-magine e contorni dei corpi distali. Un medesimo tratto di contorno visibile, per esempio quello che divide una zona nera da una zona bianca, può corrispondere a superfici con differenti relazioni di oc-clusione.

La figura 3.19 illustra tre eventi distali corrispondenti al medesi-mo tratto di contorno in moto traslatorio. Il mondo potrebbe conte -nere due superfici distinte: una che si ritrae progressivamente, rive-lando l'altra, o una che avanza, coprendo l'altra. Oppure potrebbe

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132 PERCEZIONE

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4

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a) b) e)

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FK;. 3.19. Tre diversi eventi distali corrispondenti ad un contorno in moto orizzontale: a) ritrarsi di una superficie bianca che scopre una superficie nera; b) avanzamento di una superficie nera che copre una superficie bianca; e) rotazione di un diedro in-torno all'asse verticale.

contenere un unico oggetto tridimensionale, un diedro, che ruotando svela una faccia e nasconde l'altra. Il movimento rende il problema più evidente, ma un bordo statico è ugualmente indeterminato.

Indeterminazione cinematica

II movimento di un elemento e il movimento di un contorno specificano solo parzialmente i corrispondenti movimenti distali. Esa-miniamo i due casi a livello delle velocità istantanee.

Nel vettore velocità istantanea associato a un elemento dell'im-magine sono confusi tutti i moti dei sistemi cui appartiene il corri -spondente elemento distale. La figura 3.20 illustra due tra le infinite combinazioni distali compatibili con lo stesso moto prossimale.

FIG. 3.20. L'elemento nell'apertura è ancorato al rettangolo bianco, che si sposta rispetto al rettangolo nero. In a il rettangolo bianco si muove verso sinistra-basso rispetto a quello nero che si muove verso destra-alto. In b il rettangolo bianco si muove verso destra rispetto a quello nero che si muove verso sinistra-basso.

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A

/

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FIG. 3.21. Tre differenti traslazioni distali di un contorno continuo che danno luogo al mede-simo evento prossimale.

La figura 3.21 illustra il cosiddetto problema dell'apertura, etichetta utilizzata da Ullman [1979] per l'indeterminazione cinematica dei contorni, ma adatta anche ad altri tipi di indeterminazione. I contorni continui complicano l'analisi locale del moto, in quanto la loro omogeneità fa sì che lo stimolo prossimale perda parte dell'informa-zione cinematica. Tutte le velocità distali con la stessa componente ortogonale al contorno determinano lo stesso stimolo prossimale, cioè possiedono la stessa informazione cinematica locale.

Indeterminazione radiale

La distanza degli oggetti dal punto di vista è otticamente indeter-minata: una stessa regione dell'immagine può corrispondere a un piccolo oggetto vicino o a un grande oggetto lontano. L'indetermina-zione radiale (lungo la direzione dello sguardo) riguarda quindi l'as-senza di informazione sulla distanza assoluta dal punto di vista, ma anche la perdita di informazione locale sulla grandezza degli oggetti.

L'ampiezza dell'angolo ottico dipende sia dalla grandezza dell'og-getto distale sia dalla sua distanza. Questi fattori sono confusi nel-l'ampiezza proiettata proprio come riflettanza e illuminazione sono confusi nella luminanza. E infatti i fenomeni riconducibili all'indeter-minazione fotometrica e quelli riconducibili all'indeterminazione ra-diale presentano molte analogie.

3.2. Superare l'indeterminazione ottica

Con Perkins e Cooper [1980] possiamo ora chiederci: come fa l'occhio a recuperare ciò che la luce si è lasciata sfuggire?

Una risposta classica venne fornita da Helmholtz nel terzo volume dello Handbuch der Physiologischen Optik (1867). Lo stimolo prossimale determina le sensazioni prive di riferimento all'oggetto distale e osservabili in condizioni semplificate come quelle prodotte dallo schermo di riduzione. Le sensazioni (i dati) alimentano un motore inferenziale che determina i percetti sulla base di regole (le premes-

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ai

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b)

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e)

Fio. 3.22. Il profilo delle colline in a viene visto come in b e non come in e. Secondo Helm-holtz, questa preferenza riflette la conoscenza tacita sulla forma più probabile delle colline, derivata dall'esperienza passata dell'osservatore.

se) derivate dall'esperienza passata. Per la teoria raziomorfa, la per-cezione è una inferenza inconscia. Un esempio discusso da Helmholtz è quello del profilo delle colline (fig. 3.22^): la plurivocità delle sen-sazioni, corrispondenti punto a punto ai tratti di contorno dell'im-magine, verrebbe superata grazie alle conoscenze sulla forma delle colline, cioè alla minore probabilità soggettiva della soluzione e ri-spetto alla soluzione b.

Una risposta alternativa venne proposta dagli psicologi della Ge-stalt [Kòhler 1929; Koffka 1935], secondo i quali l'indeterminazione è superabile, senza ricorrere a conoscenze sullo stato di cose più pro-babile nel mondo esterno, grazie all'attività ordinatrice di un piccolo insieme di fattori di organizzazione (par. 3.4). Il problema di seg-mentazione della figura ò.22a si risolve con la buona continuazione delle linee: la giunzione a T viene segmentata facendo appartenere allo stesso oggetto i due tratti che continuano uno nell'altro e isolando il tratto trasversale. La soluzione e è più complessa perché comporta tre tratti invece di due. Per i gestaltisti, l'organizzazione segue il principio di minimo, in quanto tende a minimizzare la complessità (massimizzare la semplicità) dell'output, compatibilmente con l'in-put. I processi di minimizzazione rifletterebbero direttamente la di-namica del sistema nervoso e solo indirettamente l'adattamento am-bientale; infatti, gli stessi fattori che di norma portano a percetti ve-ridici a volte portano a percetti non veridici.

L'indeterminazione ottica, un presupposto comune alla teoria helmholtziana e a quella gestaltista, venne criticata da Gibson [1979], il quale poneva l'enfasi sulla ricchezza dell'informazione disponibile nelle regolarità spazio-temporali dell'input ottico, analizzato a livello non elementare. L'esistenza di tali regolarità, dette invarianti di ordine

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PERCEZIONE

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superiore, renderebbe superflua sia l'attività raziomorfa sia l'organizzazione sensoriale.

Recentemente si sono affermati due approcci eclettici. Il primo è l'approccio computazionale, che ripropone la teoria raziomorfa depurata dal riferimento a conoscenze specifiche sul mondo esterno. L'indeterminazione viene superata grazie all'utilizzo di vincoli naturali [naturai constraints), cioè di assunzioni generali sulle regolarità ambientali [Poggio, Torre e Koch 1985]. Per esempio, siccome molti corpi fisici sono rigidi, l'assunzione di rigidità può guidare l'analisi di una trasformazione ottica che ammette un'infinità di soluzioni non rigide, oltre a quella rigida. L'altro approccio è Xutilitarismo percettivo di Ramachandran [1985; 1990], secondo il quale la percezione visiva riflette una quantità di processi eterogenei (« bag of tricks), non ri-conducibili a leggi o principi generali: il sistema visivo è il risultato di una lunga evoluzione in cui l'unico criterio per raffermarsi di uno specifico meccanismo è stata la sua utilità pratica, non la coerenza con altri meccanismi. Purché funzioni, qualunque trucco è buono.

Tenendo presenti queste alternative teoriche, ci occuperemo dei fenomeni connessi con i vari tipi di indeterminazione (par. 3.1). Spesso i fenomeni significativi si presentano come costanze percettive, casi in cui la relazione tra lo stimolo distale e il percetto rimane costante anche al variare dello stimolo prossimale. Le costanze percettive sono fenomeni che falsificano la cosiddetta ipotesi della costanza — attenti alla possibile confusione! — la quale presuppone invece l'esistenza di un rapporto costante tra lo specifico stimolo prossimale e il corrispondente percetto [Koffka 1935, 86].

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3.3. Il colore superficiale

Ventanni fa un bel manuale avvertiva: «La visione del colore è un enigma. È chiaro che si tratta di un argomento molto importante, ma è quasi impossibile trovare dei testi che ne forniscano una tratta-zione intellegibile» [Lindsay e Norman 1972, 215]. La situazione non è molto cambiata. Per cui limitiamoci al colore acromatico, cer-cando di guadagnare in chiarezza ciò che andrà perduto in comple-tezza.

Se la codificazione della luce è un nodo risolto (parr. 2.2 e 2.3), resta irrisolto il problema della costanza del colore. È un fatto che ogni superficie tende a mantenere un colore costante, anche se la luminanza varia con l'illuminazione (par. 3.1); ma la spiegazione di tale fatto è controversa.

Poiché la costanza del colore contraddice l'ipotesi della costanza, si potrebbe pensare che il colore non sia mai correlato alla luminan-za. Non è così. Disponete sul tavolo tanti cartoncini di diversa riflet-tanza e ordinateli sulla scala che va dal nero perfetto al bianco per -fetto, cioè sul continuum della bianchezza {lightness; oppure whiteness

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in Koffka [1935]). Se l'illuminazione è comune, ogni riflettanza cor-risponde a una specifica luminanza, ogni luminanza a una specifica bianchezza, e viceversa.

Sfruttiamo questo momento di fortuna dell'ipotesi della costanza per notare che comunque la bianchezza non è una funzione lineare della riflettanza: il grigio percettivamente intermedio tra due, non ha riflettanza media. Proviamo a usare un miscelatore a settori, detto disco di Maxwell, con cui si possono generare delle riflettanze a piacere. Per esempio, una riflettanza del 24% si ottiene miscelando un settore di 90° bianco (riflettanza a = 90%) e un settore di 270° nero (riflettanza b = 2%). In rotazione veloce, poiché l'alter-nanza bianco-nero è sotto la soglia di risoluzione temporale (o fre -quenza critica di sfarfallamento, criticai flicker frequency), la miscela di settori equivale a un disco omogeneo con riflettanza virtuale de-siderata (24% = 1/4 90% + 3/4 2%). La non linearità è evidente, considerato che il disco non appare grigio scuro, come ci si aspette-rebbe da una miscela con più nero che bianco, ma grigio medio, anzi un po' verso il bianco.

La funzione bianchezza-riflettanza si può ricavare con la tecnica della bisezione, inventata da Plateau nel secolo scorso. Date due ri-flettanze estreme nero e bianco, l'osservatore aggiusta un disco di Maxwell a settori variabili e genera il grigio medio. Poi, dato un nuovo intervallo definito da questo grigio medio e da uno degli estremi precedenti, l'osservatore individua un altro grigio interme-dio; e così via, finché l'intervallo risulta nullo. Sulla bisezione si ba-sa il sistema di classificazione del colore proposto nel 1898 da Al -bert H. Munsell e poi sviluppato dalla fondazione Munsell [Boyn-ton 1979].

TAB. 3.1. II valore al bianco

Munsell (V) definisce una scala a (10). La scala è in relazione non

intervalli soggettivamente lineare con la scala delle

uguali dal nero (0) riflettanze

Nero Grigio scuro Grigio Grigio chiaro Bianco

Munsell

V

Riflettanz

C/o)1,5 2 3,5 9 5,5

25

7,5

50

9,5

90

Nel sistema Munsell la bianchezza è chiamata valore (V) e varia da 0, nero assoluto, a 10, bianco assoluto (tab. 3.1). La scala V ori-ginaria era una funzione logaritmica della riflettanza, in accordo con la legge di Fechner; nella versione attuale la scala V approssima una funzione potenza con esponente intorno a 0,5, in accordo con la legge di Stevens (cfr. supra, cap. I, pp. 23-27). Come mostra la figura 3.23, si tratta di una funzione negativamente accelerata (all'aumenta-re della riflettanza la bianchezza cresce sempre meno), ma coerente

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PERCEZIONE 137

con l'ipotesi della costanza: a ogni riflettanza corrisponde una bian-chezza, e viceversa.

Ma la figura 3.23 vale anche per la relazione bianchezza-lumi-nanza? Sì, se tutte le riflettanze sono sotto la medesima illuminazio-ne. Ma certamente no nell'ambiente ordinario, in cui ci sono luci e ombre. Se il colore acromatico di una superficie - il fatto che questa appaia bianca, grigia o nera - fosse esclusivamente funzione della luminanza locale, ogni mutamento dell'illuminazione dovrebbe pro-durre un cambiamento del colore percepito. Per fortuna ciò non ac-cade: due pezzi ricavati dallo stesso cartoncino nero appaiono di co-lore simile anche quando uno dei due è collocato sotto un'illumina-zione molto intensa.

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1U *8-

t

sei

C3 4 2 y

bD ^^

2-n . /

20 40 60 80

Riflettanza (%)

FIG. 3.23. Rappresentazione grafica della funzione potenza V = r"\ che lega la bianchezza (Munsell V) alla riflettanza. La curva diviene, in un sistema di coordinate logarit-miche, una retta con coefficiente angolare 0,5.

In laboratorio il fenomeno viene riprodotto usando il paradigma di Katz [1935; Musatti 1953]. In una stanza illuminata lateralmente da una finestra, un tramezzo crea una zona d'ombra in cui arriva soltanto luce riflessa dalle pareti e non luce diretta. Se il colore del -le pareti è neutrale, l'illuminazione indiretta nella zona d'ombra avrà la stessa composizione spettrale della luce diretta ma un'inten -sità minore. L'osservatore confronta due dischi di Maxwell: uno collocato nella zona in luce e l'altro collocato nella zona in ombra. Il paradigma serve a contrapporre due ipotesi. I dischi potrebbero apparire di eguale bianchezza quando hanno uguale luminanza (ipo-tesi della costanza) oppure quando hanno uguale riflettanza (feno-meno della costanza del colore al variare dell'illuminazione). Anche se è difficile ottenere un uguagliamento perfetto (un grigio in luce non appare mai identico a un grigio in ombra), la massima somi -glianzà si avvicina all'uguaglianza delle riflettanze. Quando le due lu-minanze sono identiche, il che si ottiene incrementando il settore bianco del disco in ombra fino a compensare la ridotta luce inci -dente, i due dischi appaiono molto diversi: quello collocato in om-bra appare quasi bianco.

1 log

(Riflettanza)

100

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II colore percepito dipende dall'informazione effettivamente uti-lizzata dall'osservatore. Secondo Rock [1977] il colore corrisponde alla riflettanza se prevale il normale atteggiamento esplorativo, che porta a vedere il mondo nel modo della costanza, mentre corrisponde alla luminanza se prevale un atteggiamento critico-pittorico, che por-ta a vedere il mondo nel modo prossimale. Si spiega così il fenomeno del diedro di Mach [Mach 1886]. Prendete un cartoncino bianco, del formato biglietto da visita, e piegatelo in modo da creare un diedro che collocherete in piedi su un piano omogeneo, meglio se scuro. Ruotate il diedro rispetto ad una sorgente di illuminazione in modo che una faccia riceva luce piena e l'altra soltanto luce indiretta o ra -dente. In tal modo da una faccia arriverà molta più luce che non dall'altra. In visione binoculare e senza fissare - condizioni che favo-riscono il modo della costanza — si vede quello che c'è nello stimolo distale: un cartoncino bianco con una faccia più illuminata dell'altra. Ma in visione monoculare e fissando lo spigolo - condizioni che fa-voriscono il modo prossimale - si ha un improvviso mutamento. Il diedro perde tridimensionalità e cambia colore: la faccia in luce ap-pare quasi luminosa e quella in ombra grigio cupo. Qualunque sia la ragione della perdita di tridimensionalità (par. 3.7), essa influenza il colore oggettuale. Le due regioni di luminanza diversa vengono viste come zone complanari di diversa intensità e non come parti di un'u-nica superficie omogenea ma variamente orientata rispetto alla luce.

Se l'osservatore possiede adeguata informazione ottica sulla diffe-renza tra le rispettive illuminazioni, due superfici possono apparire eguali anche se le luminanze differiscono di parecchi ordini di gran-dezza. Jacobsen e Gilchrist [1988] lo hanno dimostrato in una va-riante dell'esperimento di Katz. L'osservatore regolava un grigio di confronto in una scatola poco illuminata uguagliandolo al grigio stan-dard in una scatola molto illuminata. Nella condizione sperimentale gli stimoli erano presentati a entrambi gli occhi (visione binoculare). Nella condizione di controllo, per verificare il ruolo dell'adattamento alla luce, il grigio standard nella scatola molto illuminata veniva pre-sentato soltanto all'occhio sinistro, e il grigio di confronto nella scato-la poco illuminata soltanto all'occhio destro (visione dicottica). In en-trambe le condizioni la costanza è quasi perfetta, anche quando l'il-luminazione standard è un milione di volte superiore.

I tentativi di spiegazione della costanza di bianchezza sono ricon-ducibili a due approcci contrapposti, quello di Helmholtz e quello di Hering [Musatti 1953; Beck 1972]. Per Helmholtz il bianco continua ad apparire bianco anche quando all'occhio arriva un'intensità debo le perché un meccanismo raziomorfo rimuove l'indeterminazione fo-tometrica locale tenendo conto del basso livello di illuminazione (sul taking-into-account, cfr. Epstein [1973] e Rock [1983]). Il problema inverso r = L/I verrebbe risolto pesando il dato sensoriale L con il valore di I, ricavato da una stima dell'illuminazione. Ma così il pro-blema viene spostato, più che risolto, dato che anche l'illuminazione andrebbe stimata usando le luminanze in input. (A chi è venuto in

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PERCEZIONE 139

Osservatore

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Fase 2

FIG. 3.24. Effetto Gelb. Su un disco di riflettanza molto bassa cade un fascio di luce. Se nulla rivela la presenza del fascio aggiunto, il disco appare bianco luminoso. Acco-stando al disco una striscia ad alta riflettanza elevata si crea un sottosistema a chia -rezza elevata, e il disco appare grigio scuro. Il disco perde in bianchezza quanto guadagna in chiarezza.

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mente il mitico barone, che emerge dal pantano tirando il suo stesso codino?) Per Hering, invece, la costanza del colore dipende da mec-canismi sensoriali di basso livello, come l'adattamento alla luce. L'a-dattamento è cruciale nelle misure di soglia, ma il suo ruolo nella costanza di bianchezza sembra escluso proprio dall'equivalenza tra visione binoculare e visione dicottica trovata da Jacobsen e Gilchrist [1988; in polemica con Jameson e Hurvich 1964].

Rifiutata la spiegazione di Hering, mettiamoci al riparo dalla cir-colarità dell'ipotesi helmholtziana, cercando anzitutto di capire quan-do il sistema visivo sembra tenere conto dell'illuminazione e quando invece sembra ignorarla. Il fenomeno critico è Xeffetto Gelb [Gelb 1929]. Dal soffitto di una stanza semibuia pende un disco a bassa riflettanza («ero nel linguaggio quotidiano), illuminato dal fascio di un proiettore in modo che la luce non intercettata cada dietro una quinta (fig. 3.24). Poniamo che la luminanza del disco sia 50 volte superiore a quella della stanza semibuia, le cui pareti hanno però una riflettanza superiore a quella del disco. L'osservatore, privato dell'informazione ottica sulla presenza dell'illuminazione aggiuntiva, vede brillare un disco bianco: l'equivalente della luna di notte. A questo punto lo sperimentatore accosta al disco appeso una striscia ad alta riflettanza {bianca nel linguaggio quotidiano). Sotto gli occhi dell'osservatore si verifica allora un curioso mutamento di colore del disco, da bianco a grigio scuro, o addirittura nero: il valore preciso dipende dai rapporti tra illuminazione della stanza, intensità del fa-scio, riflettanze in gioco.

Come si spiega l'effetto Gelb? Secondo l'analisi di Koffka [1935, 245-247], il mutamento dipende da una diversa distribuzione dell'il-

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luminazione percepita. L'ambiente geografico contiene sempre due illuminazioni, mentre l'ambiente comportamentale (par. 1.2) contie -ne nella prima fase un'unica illuminazione e nella seconda due. Nella prima fase (illuminazione unica) il disco ha bianchezza massima, mentre le superfici della stanza si collocano vicine al nero. Nella se-conda fase (sottosistema con disco e striscia più illuminati) la bian-chezza massima è assunta dalla striscia, mentre il disco viene sospin to verso il nero, dove sta normalmente.

Resta da definire un particolare. Nella seconda fase, quando il disco diventa nero, di che colore appaiono le pareti della stanza, cui corrispondono luminanze ancora minori? Qui va introdotta una dimensione percettiva che finora abbiamo volutamente trascurato. Ogni superficie acromatica ha una bianchezza, definibile come ri-flettanza percepita, e una chiarezza (brightness), definibile come lu-minanza percepita tArend e Goldstein 1987]. Nella seconda fase dell'esperimento di Gelb, quando l'ambiente si articola in due sot-tosistemi diversamente illuminati, disco e striscia occupano gli estremi del continuum della bianchezza, ma a un livello di chiarezza superiore a quello delle pareti. Il mutamento del disco è un de-cremento di bianchezza cui si accompagna un incremento di chia-rezza. A parità di luminanza locale, nella prima fase il disco appare bianco ma poco illuminato; nella seconda appare nero ma molto illuminato. Questa compensazione, chiamata invarianza bianchezza x chiarezza in analogia con le invarianze proiettive (par. 3.7) [Koffka 1935], è una covariazione percetto-percetto [Epstein 1977; Rock 1983].

L'effetto Gelb dimostra che la variabile da cui dipende la bian-chezza non è la luminanza locale. Ma esiste forse un'altra variabile prossimale? Una risposta viene dal principio del rapporto tra luminanze adiacenti proposto da Hans Wallach [1948; 1976], Depurando il pa-radigma di Katz si ottiene il paradigma di Wallach (fig. 3.25). L'in-formazione è ridotta a pochi rapporti di luminanza, ma sufficienti a indurre degli illusori colori di superficie. L'esperimento simula infatti un caso di costanza, con colori non veridici. Nel buio, quattro proiettori gettano su una parete omogenea quattro fasci di luce, di intensità regolabile a piacere: un fascio proietta un anello, il secondo un anello di intensità minore, il terzo un disco coincidente con il buco del primo anello, e il quarto un disco coincidente con il buco del secondo anello. L'osservatore regola l'intensità del disco di con-fronto in modo che i due dischi appaiano della stessa bianchezza. In queste condizioni l'uguagliamento non si ottiene quando la luminan-za del disco standard è uguale alla luminanza del disco di confronto, ma quando il rapporto di luminanza tra disco e anello standard è uguale a quello tra disco e anello di confronto.

Come nel paradigma di Katz, la bianchezza non corrisponde alla luminanza locale; ma a differenza del paradigma di Katz, non corri-sponde nemmeno alla riflettanza, in quanto Wallach ha soltanto si-mulato i rapporti di luminanza normalmente disponibili quando

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DI = 10 Al = 50

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D2 = 4 A2 = 20

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Fio. 3.25. Nel paradigma di Wallach, il soggetto regola la luminanza del disco di confronto fino a quando la bianchezza è identica a quella del disco standard. L'ambiente è buio. Si ha uguagliamento quando i due rapporti di luminanza disco/anello sono uguali. Se DI = 10 e Al = 50, e se A2 — 20, l'osservatore regola il disco D2 in-torno a 4 (luminanze in u.a.) .

l'ambiente geografico contiene più illuminazioni. Il paradigma di Katz ricalca le condizioni naturali, in cui l'illuminazione comune fa sì che i rapporti tra luminanze adiacenti tendano a essere identici ai rapporti tra riflettanze, e in cui il principio del rapporto tra luminan-ze adiacenti ha significato ecologico. Il paradigma di Wallach ripro-duce lo stesso stimolo prossimale in condizioni artificiali: esiste un'u-nica riflettanza, quella della parete, e le luminanze sono ottenute ma-nipolando le illuminazioni locali.

Nell'esperimento di Wallach il sistema visivo si comporta come davanti a una scena naturale, generando un'illusione (comune a tutte le tecniche di proiezione) così efficace da neutralizzare la no-stra meraviglia. Le quattro zone non vengono viste in modo veri-dico, quattro macchie di luce su una parete omogenea, ma come due configurazioni «disco su sfondo chiaro» sotto due illuminazio -ni diverse. L'illusione si spiega in base a un metaprincipio di or-ganizzazione gestaltica: la dipendenza delle proprietà fenomeniche dal sistema di riferimento includente [Koffka 1935, cap. VI]. Date due regioni, una inclusa e una includente, il colore di quella inclusa sarà determinato dal rapporto di luminanza con quella includen te, che definisce il livello di illuminazione in quella porzione della scena.

Per definire una precisa posizione sulla scala delle bianchezze, non basta ipotizzare che il colore superficiale venga riferito aH'illumi-nazione. È necessario stabilire il valore di illuminazione che funge da àncora per l'intera scala. Il criterio per Xancoramento coinvolge un aspetto configurazionale: a parità di altre condizioni la scala si àncora al bianco rappresentato dalla luminanza della zona includente. In tal

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Visione binoculare Modo della costanza

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Visione monoculare Modo prossimale

FIG. 3.27. Principio del rapporto tra luminanze complanari [Gilchrist 1977]. La figura illustra le bianchezze percepite nelle due modalità osservative, rimanendo identiche le lu -minanze in input. I due lembi hanno valore 30; la faccia superiore del diedro 900; la faccia inferiore 1 (valori di luminanza in u . a . ) .

modo viene minimizzata l'intensità dell'illuminazione, dato che que-sta è il sistema di riferimento includente per i colori delle superrìci.

Il principio del rapporto tra luminanze adiacenti è il nucleo di una teoria relazionale del colore acromatico in grado di spiegare anche un effetto ben noto: il contrasto simultaneo di bianchezza (fig. 3.26, p. 163). A parità di dilettanze il grigio su sfondo nero appare più chiaro del grigio su sfondo bianco. Il contrasto di bianchezza è debole rispetto a quanto previsto dal principio di Wallach, ma va nella stessa direzione. Gli sfondi bianco e nero simulerebbero due zone diversamente illuminate. Poiché i due grigi hanno la stessa lu-minanza, l'invarianza bianchezza x chiarezza fa sì che il grigio nella zona scura appaia più bianco del grigio nella zona chiara. L'effetto è debole perché il dislivello di luminanza tra i rispettivi sfondi si tra-duce quasi completamente in un rapporto tra bianco e nero sotto un'illuminazione comune [Gilchrist 1988].

Il principio del rapporto tra luminanze adiacenti, combinato con un criterio per l'ancoramento, spiega la percezione veridica, ma a condizione che la zona includente sia un valido indicatore dell'illumi-nazione locale. L'effetto Gelb dimostra che l'anomalia sta negli og-getti sospesi, la cui immagine si staglia su uno sfondo diversamente illuminato. Il problema venne affrontato da Gilchrist [1977; Rock 1975] con un'elaborazione del diedro di Mach (fig. 3.27). Costruite un diedro con una faccia ad alta riflettanza (cartoncino bianco), una faccia a bassa riflettanza (cartoncino nero) e due lembi complanari alle facce del diedro: uno ad alta riflettanza complanare alla faccia nera e uno a bassa riflettanza complanare alla faccia bianca. Fate in modo che la faccia bianca e il lembo nero siano molto illuminati, e che la faccia nera e il lembo bianco siano poco illuminati. Nell'espe-

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rimento di Gilchrist le luminanze delle facce erano pari a 900 e 1 (in u.a.), mentre la luminanza di ciascun lembo era pari a 30. In visione binoculare {modo della costanza) i lembi appaiono nel loro effettivo orientamento tridimensionale e con una bianchezza corrispondente alla riflettanza: quello a bassa riflettanza appare nero e quello ad alta riflettanza appare bianco. In visione monoculare e in fissazione stabi le {modo prossimale) le bianchezze si invertono: il lembo a bassa ri-flettanza, circondato prevalentemente da una luminanza ancora più bassa, appare quasi bianco, mentre il lembo ad alta riflettanza, cir -condato prevalentemente da una luminanza ancora più alta, appare quasi nero. Gilchrist [1977] spiega l'inversione in base al principio del rapporto tra luminanze complanari, una specificazione del principio di Wallach. Il colore dipende soltanto dai rapporti tra luminanze corrispondenti a superfici ugualmente orientate e quindi ugualmente illuminate.

Questa analisi è generalizzabile ai colori cromatici. Una superficie apparirà rossa, gialla o verde in funzione della composizione spettrale del corrispondente stimolo prossimale, ma anche deH'illuminazione percepita. Come nel dominio acromatico, anche nel dominio croma-tico la costanza prevale se l'illuminazione è comune; ma viene meno se l'ambiente contiene zone illuminate da sorgenti con diversa com-posizione spettrale. Avete mai notato le ombre colorate} Accendete una lampadina bianca e una rossa, e intercettate il fascio rosso con la mano facendo cadere l'ombra su un foglio bianco: l'ombra non è grigia ma verdastra. Dovreste essere sorpresi! La luce riflessa dalla zona d'ombra è neutrale (grigia), come potete verificare spegnendo la lampadina rossa. E allora? L'illuminazione è il sistema di riferi-mento per i colori di tutti gli oggetti, ombre comprese. Quando en-trambe le lampadine sono accese, l'illuminazione fisica è spostata verso il rosso, ma quella percepita tende sempre al bianco. Una zona che riflette una miscela neutrale appare grigia se l'illuminazione è neutrale (lampadina rossa spenta); mentre appare verde se l'illumina-zione è fàsicamente sbilanciata verso il rosso ma percettivamente con-trobilanciata verso il verde, per una tendenza verso il livello neutrale. Per i fondamenti della teoria relazionale del colore cromatico si ve-dano Koffka [1935, 256]; Land [1977]; Gerbino [1983].

3.4. Unificazione/segregazione

II problema dell'indeterminazione connettiva (par. 3.1) è il co-mune denominatore di fenomeni superficialmente eterogenei.

Cominciamo con il raggruppamento percettivo di elementi di-screti. In un articolo classico, Wertheimer [1923] analizzò i casi in cui un raggruppamento predomina su un altro, più difficile da perce -pire oppure soltanto teorico, e ipotizzò che le preferenze percettive dipendano da un piccolo insieme di fattori di unificazione.

Osservate la figura 3.28a. Con l'attenzione è possibile raggruppa-

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ai b)

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FtG. }.2H. La matrice a può essere organizzata per righe o per colonne mediante l'imposta-zione attentiva, ma spontaneamente appare come un tutto omogeneo. In b la pros-simità favorisce il raggruppamento per colonne.

re i punti della matrice per righe o per colonne; oppure vedere dei quadrati. Ma si tratta di organizzazioni instabili, prive del carattere coercitivo normalmente posseduto dai dati visivi. Osservate ora la fi-gura 3.28é>. Quando la distanza relativa tra i punti non è omogenea, la matrice appare naturalmente articolata in colonne: gli elementi di ogni colonna si appartengono più di quanto non si appartengano gli elementi di una medesima riga. Sotto forma di legge (la prima delle leggi di Wertheimer) il ruolo del fattore prossimità è formulatale così: «A parità di altre condizioni si unificano gli elementi prossimi».

Ma la prossimità che conta è retinica o fenomenica? Al quesito hanno risposto Rock e Brosgole [1964] con la seguente dimostrazio-ne. Osservate la figura 3.28£ nel modo illustrato nella figura 3.29,

Direzione dello sguardo

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Vista prospettica

Laterale

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Fic. 3.29. Osservate la tìg. }.2&b nel modo qui illustrato. In visione binoculare prevale sem-pre il raggruppamento in colonne. Il raggruppamento per righe (sulla pagina) si impone soltanto in visione monoculare, quando la pagina perde la sua inclinazione tridimensionale [Rock e Brosgole 1964].

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FIG. 3.30. Manipolando la prossimità tra gli elementi emerge una struttura ben riconoscibile, che era totalmente assorbita nella fig. 3.28a.

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ruotando la pagina di 90° e inclinandola fino a quando i punti in riga (sulla pagina) sono retinicamente più vicini tra loro rispetto ai punti in colonna (sulla pagina): invertite cioè le relazioni di prossimi tà esistenti sul piano frontoparallelo. In visione binoculare la matrice si articola sempre in colonne sulla pagina (righe nel nuovo orienta-mento): predomina la prossimità fenomenica, che coincide con quella distale essendo favorito il modo della costanza. In visione monoculare la matrice si articola in righe sulla pagina (colonne nel nuovo orientamento): predomina la prossimità retinica, essendo favorito il modo prossimale. Il risultato di Rock e Brosgole {ibidem] non esclude che la prossimità operi a livello retinotopico, ma richiede che operi anche a livello dello spazio tridimensionale. Non vi sarà sfuggita l'analogia con l'esperimento sui rapporti tra luminanze complanari (par. 3.3) di un allievo di Rock [Gilchrist 1977].

Torniamo alla figura 3.28<2. È difficile vedere nella matrice il nu-mero 5, riconoscibile invece nella figura 3.30. Le relazioni di prossi-mità possono portare al mascheramento di configurazioni ben radica-te nelle conoscenze pregresse dell'osservatore.

Il raggruppamento può dipendere da proprietà locali degli ele-menti, come tono di grigio (fig. ò.ò\d) o la forma (fig. 3.31i>). Il se-

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• • • • • # L • • • • Lli # i! f§ il # ^ I L L L Lfi • # • !t li L. • • • L. Lli il il il ̂ II L L L L § LII II li II # L L L L # L

• • • • L • • • L La) b)

FIG. 3.31. Gli elementi simili per tono di grigio (a) o per forma (b) tendonoa unificarsi.

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FIG. 3.32. Le linee che delimitano una regione chiusa tendono a unificarsi.

condo fattore individuato da Wertheimer è infatti la somiglianzà: «A parità di altre condizioni si unificano gli elementi simili». Per la so-miglianzà di forma, ricordiamo comunque che le differenze salienti in visione attentiva non sempre portano alla segmentazione preatten-tiva di tessiture (par. 2.4).

La terza legge di Wertheimer riguarda la somiglianzà nel domi-nio spazio-temporale, il destino comune: «A parità di altre condizioni si unificano gli elementi che condividono lo stesso tipo di movimen-to». Disegnate su un lucido trasparente i vertici di un triangolo e su un altro lucido un gruppo più ampio di punti. Proiettando i due lucidi sovrapposti si ottiene una costellazione statica che assorbe il triangolo, rendendolo invisibile. Ma il triangolo emerge non appena uno dei lucidi viene mosso. Il destino comune ha un'enorme impor-tanza nell'ecologia visiva di un osservatore attivo, poiché il flusso ot-tico generato dal cambiamento del punto di vista contiene una tipica prospettiva di movimento [Gibson 1950], in cui gli elementi dell'im-magine in moto solidale corrispondono a differenti oggetti distali.

Il problema dell'unificazione/segregazione esiste non soltanto per le costellazioni di elementi discreti, ma anche per le configurazioni di linee. Due sono le proprietà cruciali: chiusura e continuità di direzione.

Osservate la figura 3.32. La chiusura ostacola il riconoscimento immediato delle configurazioni che, opportunamente segmentate, rappresentano i numeri quattro e tre.

La figura 3.33<2 illustra invece un caso di conflitto tra fattori, in cui prevale la buona continuazione. La percezione di un filo unico che ritorna su se stesso formando degli anelli predomina sulla soluzione alternativa rappresentata nella figura ò.òòb, a favore della quale gio-cano la chiusura e la somiglianzà delle parti (le rette si unificano con le rette e le curve con le curve).

Recentemente Stephen Palmer [1992] ha proposto un nuovo fat-tore di unificazione: la legge della regione comune: «A parità di altre

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b)

FIG. 3.33. In a il fattore della buona continuazione favorisce la percezione di un filo unico. La soluzione h è invece favorita dalla chiusura e dalla somiglianzà delle parti.

condizioni si unificano gli elementi collocati entro una medesima re-gione, identificata da un colore uniforme o da un contorno a tratto». Come nelle altre dimostrazioni classiche, anche il fattore della regio-ne comune può entrare in conflitto con altri fattori. Nella figura 3.34 esso prevale sulla prossimità.

FIG. 3.34. L'inclusione in una medesima regione determina il raggruppamento degli elementi, contro la prossimità.

Nel continuum dello spazio-tempo il problema dell'unificazione si traduce in quello delle condizioni per la percezione del movimento, un attributo che abbiamo dato per scontato parlando del destino co-mune. Non sempre la controparte fisica di un movimento percepito è

a)

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uno spostamento continuo. A certe condizioni la controparte è una sequenza sconnessa nello spazio-tempo. Si produce allora il movimento stroboscopico, il fenomeno alla base della cinematografìa in cui si ha l'interpolazione di un insieme di punti dello spazio-tempo (fig. 3.35). Sotto una certa soglia, l'alternanza di due fotogrammi non appare come la sostituzione di un oggetto da parte di un altro un po' sposta-to, ma come il movimento continuo di un unico oggetto.

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1 2 1 2

• • • •

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Tempo 100 200 300

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FIG. 3.35. La sequenza stroboscopica (a sinistra) corrisponde a una serie di segmenti dello spazio-tempo (a destra). La linea tratteggiata rappresenta il movimento apparente.

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Variando la frequenza di presentazione, Wertheimer [1912] di-stinse il movimento beta, indistinguibile da un movimento reale di pari escursione, dal fenomeno phi puro, la dinamicità disgiunta dal-l'unicità dell'oggetto. Il phi puro si ottiene quando la frequenza è elevata: non si vede allora il movimento di un unico elemento, ma due elementi quasi simultanei accompagnati da una sensazione di movimento senza oggetto, inafferrabile come il ghigno del gatto del Cheshire. Il movimento non è quindi riducibile al concatenamento di istantanee statiche mediante un'inferenza inconscia su base probabili-stica. La spiegazione raziomorfa funziona per il movimento beta, in-terpretabile come una risposta normalmente indotta dalla stimolazio-ne continua e generalizzata alla stimolazione intermittente; ma è con-traddetta dal phi puro, in cui l'impressione di movimento non esclu-de la percezione di due oggetti distinti.

Se ciascuna istantanea contiene più oggetti si creano le condizioni per l'alternativa stroboscopica [von Schiller 1934; Bozzi 1969] e quindi per l'instabilità percettiva tipica del conflitto tra fattori di uni-ficazione. La figura 3.36 è l'analogo spazio-temporale della figura 3.2&z. Il pattern è plurivoco e da luogo a due movimenti distinti, ciascuno dei quali può verificarsi in due versi opposti. Il primo mo -vimento è lo scorrimento, verso il basso o verso l'alto, rappresentato nel grafico in alto a destra dai due fasci di rette; l'altro è l'oscillazio-ne, rappresentata nei grafici in basso dai due fasci di spezzate. L'in-stabilità percettiva della sequenza dipende dall'equidistanza degli ele-menti nello spazio-tempo. Modificando la prossimità nello spazio-tempo si ottiene una configurazione univoca (fig. 3.37): i punti della prima istantanea si unificano con i punti dell'istantanea successiva ad

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1 2 1 2

• • • •A

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Tempo Tempo

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A

A

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Tempo Tempo

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FIG. 3.36. La sequenza a sinistra in alto è percettivamente instabile. 11 grafico a destra in alto illustra lo scorrimento, verso l'alto (rette ascendenti) o verso il basso (rette discen-denti); i grafici in basso illustrano le due varianti dell'oscillazione. Lo scorrimento rende omogeneo nel tempo il verso del movimento; l'oscillazione minimizza lo spo-stamento spaziale di ogni elemento.

essi più vicini, dando luogo ad uno scorrimento in un verso ben de-terminato.

Un movimento fisico continuo, campionato mediante illuminazio-ne stroboscopica o ripresa cinematografica, genera stimoli prossimali come quelli delle figure 3.36 e 3.37. Si può creare così un'illusione ben nota agli amanti del western, cioè la controrotazione dei raggi delle ruote dei carri. Siccome tutti i raggi sono uguali, ogni raggio

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1 2 3 1

• • • •

Tempo Tempo

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FIG. 3.37. La prossimità nello spazio-tempo favorisce lo scorrimento verso l'alto (rette ascen-denti nel grafico a destra). L'unificazione in base alla prossimità minimizza la velo -cità lineare apparente (cioè l'inclinazione della retta interpolante).

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Tempo

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J. A \T

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Tempo Tempo

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Fio. 3.38. Effetto Ternus. Lo stimolo in alto da luogo a due possibili percetti (in basso). La distanza totale coperta dai tre elementi è identica. Nel caso a sinistra il salto stro -boscopico è tutto a carico di un elemento; nel caso a destra ciascun elemento com -pie un salto pari a un terzo del totale.

del primo fotogramma si unifica con quello più vicino, indipendente-mente dalla plausibilità rispetto al movimento del carro. Tutto di-pende dal rapporto tra frequenza di campionamento, velocità di ro-tazione, ampiezza dell'angolo tra i raggi. Poniamo che in ogni 24esi-mo di secondo la cinepresa riprenda un fotogramma e che i raggi ruotino di 20°; se l'angolo tra i raggi misura 30°, ogni raggio si unifi -ca non con se stesso, più avanti di 20°, ma con il raggio che lo se -gue, più indietro di soli 10°, dando luogo alla controrotazione.

Infine, esaminiamo un caso speciale di alternativa stroboscopica, Y effetto Ternus [1926]: entrambe le presentazioni contengono una fila di tre elementi, due dei quali spazialmente coincidenti (fig. 3.38 in basso a sinistra). Per un certo ritmo di presentazione - per esempio, 60 ms per ogni stimolo e per ogni intervallo - si verificano alternati-vamente due fenomeni: o il movimento dell'elemento estremo, rappre-sentato nel grafico in basso a sinistra dalla linea obliqua che incrocia le due parallele, corrispondenti agli elementi centrali statici: o il mo-vimento del gruppo, rappresentato nel grafico in basso a destra dalle tre spezzate. La terminologia è quella di Pantle e Picciano [1976], i quali hanno trovato che il movimento dell'elemento predomina quando l'intervallo tra gli stimoli (Isi, inter-stimulus internai) è breve; mentre il movimento del gruppo prevale quando l'intervallo è lungo oppure in presentazione dicottica (prima tripletta a un occhio e se -conda all'altro). I risultati si spiegano con l'attivazione di uno dei

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due meccanismi per il movimento apparente ipotizzati da Braddick [1973; 1974; 1980]: se funziona quello a corto raggio, attivabile per Isi < 20 ms soltanto in visione monoculare, si unificano i due ele -menti centrali; altrimenti, se funziona quello a lungo raggio, attivabile per Isi fino a 200 ms anche in visione dicottica, si produce il movi-mento del gruppo [Anstis 1978; 1980; Gerbino 1984].

3.5. Occlusione e presenza amodale

In base all'ipotesi della costanza tutte le immagini dovrebbero es-sere percepite come un mosaico di regioni giustapposte. Di solito, invece, il contorno tra due regioni appare come il bordo di una su-perficie che occlude un'altra. L'indeterminazione occlusiva (par. 3.2) è superabile sfruttando alcune proprietà dell'immagine analizzate dal danese Edgar Rubin [1915; recensito entusiasticamente da Koffka 1921].

Rubin fu attratto dall'ubiquità dell'articolazione figura/sfondo. Le regioni dell'immagine si organizzano in figure con proprietà fenome-niche diverse dallo sfondo (come potete constatare guardando prima la fig. 3.39 e poi la fig. 3.40).

La figura ha forma, mentre lo sfondo è amorfo; il contorno svol-ge una funzione unilaterale, contiene la figura ma non lo sfondo, che continua amodalmente dietro alla figura [Michotte 1962]. La figura è dotata di colore oggettuale, resistente allo sguardo; mentre lo sfondo appare come non-cosa, dotato di un colore più penetrabile. La figura ha una definita localizzazione in profondità; mentre lo sfondo si colloca a una distanza indefinita. La figura ha risalto e colpisce l'at-tenzione; in seconda presentazione, la regione con ruolo figurale è più riconoscibile della regione con ruolo di sfondo.

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Fio. 3.39. Osservate brevemente questa figura e poi voltate pagina.

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FIG. 3.40. Riconoscete la forma di sinistra? E quella di destra?

Anche l'articolazione figura/sfondo, come l'unificazione, dipende da fattori indipendenti dall'impostazione soggettiva e dall'attenzione [Metzger 1975; Kanizsa 1980], Per isolare un fattore gli altri vanno bilanciati, poiché le preferenze percettive valgono sempre «a parità di altre condizioni». Le dimostrazioni classiche utilizzano quindi sti-moli piuttosto poveri, che rappresentano dei casi limite nel dominio delle occlusioni.

Cominciamo con i fattori isolabili nelle immagini statiche compo-ste da due regioni.

Inclusione. A parità di altre condizioni diventa figura la regione inclusa (fig. 3.41 [Rubin 1915]).

Convessità. A parità di altre condizioni diventa figura la regione convessa (fig. 3.42 [Rubin 1915; Arnheim 1954; Kanizsa e Gerbino 1976]). La convessità equivale all'inclusione locale: un tratto di con-torno è convesso se nessuno dei segmenti che connettono i suoi pun-ti lo incrocia, cioè se tutti sono localmente inclusi.

Si noti che per dimostrare l'inclusione è stata bilanciata la con-vessità, e viceversa. In entrambe le dimostrazioni (figg. 3.41 e 3.42) è stata inoltre bilanciata l'area relativa.

Area relativa. A parità di altre condizioni diventa figura la regio-ne di area minore. Questo fattore è stato accuratamente pesato [Graham 1929; Goldhamer 1934; Kiinnapas 1957]. Utilizzando pro-prio il pattern a settori (figura 3.43), Oyama [I960] ha trovato una relazione lineare tra ampiezza dell'angolo e proporzione di tempo durante il quale prevale la soluzione «settori stretti in primo piano».

FIG. 3.41. Inclusione.

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FIG. 3.42. Convessità.

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FIG. 3.43. Area minore.

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FIG. 3.44. L'orientamento lungo le direzioni principali dello spazio percepito fa emergere le figure nere a sinistra e le figure bianche a destra.

Se tutti i settori hanno la stessa ampiezza si ha una forte instabilità (all'origine del dinamismo del marchio BMW).

Orientamento. A parità di altre condizioni diventano figure le re-gioni i cui assi intrinseci sono allineati con le direzioni principali del -lo spazio percepito, verticale e orizzontale (figura 3.44 [Rubin 1915; Kùnnapas 1957]).

Simmetria. A parità di altre condizioni diventano figure le regioni a simmetria bilaterale rispetto ad un asse. Ciò vale sia per l'asse rettilineo (fig. 3A5a [Bahnsen 1928]) sia per quello curvilineo (fig. 3.45^ [Mori-naga 1941]). Questo secondo tipo di simmetria viene anche chiamata «grossezza costante» (Ebenbreite). Il carattere coercitivo dell'articolazio-ne sulla base della simmetria è ben illustrato dalla figura 3.46.

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FIG. 3.45. Simmetria bilaterale rispetto ad un asse rettilineo U) e rispetto ad un asse curvilineo(b).

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FKÌ. 3.46. Una bella dimostrazione dell'effetto coercitivo della simmetria. Sopra prevalgono le colonne bianche e sotto quelle nere, senza che l'occhio trovi riposo in una soluzione coerente [Shepard 1991].

Le ultime dimostrazioni utilizzano il pattern iterativo a colonne, che tuttavia ha un difetto: la preferenza per la scansione da sinistra a destra [Bouman 1968] determina uno sbilanciamento locale dovuto all'inclusione. Si osservi la figura 3.47, in cui tutti i fattori sono bi -lanciati: localmente la prima colonna bianca a sinistra è inclusa e quindi tende a diventare figura.

Articolazione senza resti. Le regioni estreme hanno un ruolo cru-ciale in una bella dimostrazione di Metzger [1975] sulla preferenza per l'organizzazione senza resti (fig. 3.48). A parità di altre condizio-ni prevale l'articolazione che riduce al minimo le parti senza ruolo figurale.

Le dimostrazioni precedenti si riferiscono a tassellature di regioni internamente omogenee. Ma va ricordato che il ruolo figurale dipende

FIG. 3.47. Una preferenza per la scansione da sinistra a destra sbilancia il pattern a favore della soluzione bianco su nero, indotta dall'inclusione locale della prima colonna bianca a sinistra.

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a)

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b)

Fio. 3.48. In a tendono ad apparire come figure le zone bianche; in b quelle nere. Vengono così utilizzati tutti gli elementi ed evitati i resti.

anche dal colore e dalla tessitura. Secondo Koffka [1935] tendono a diventare figura le regioni internamente meno omogenee. Tuttavia si tratta di preferenze non facilmente riconducibili a regole generali [Graham 1929; Goldhamer 1934; Harrower 1936; Oyama I960],

Consideriamo un altro aspetto della mancata corrispondenza tra figure e regioni dell'immagine. La figura 3.49 illustra Xorganizzazione duale di una regione unitaria [Koffka 1935, 141 e 153]. Le condizioni che determinano la segmentazione del contorno omogeneo (fig. 3.49£) sono le collinearità tra alcuni lati del perimetro (1-5 e 7-11, numerando i lati dal vertice destro del triangolo) e le inflessioni del contorno [Hoffman e Richards 1985]. La preferenza per la stratifica-zione e, rispetto alla d, viene chiamata effetto Petter [1956]. La sua spiegazione chiama in causa il principio di minimo e la distinzione fra tre tipi di contorni generati dal sistema percettivo. I contorni mo-dali corrispondono a dislivelli di luminanza nello stimolo prossimale e sono dotati dell'evidenza fenomenica tipica della modalità visiva, cioè la differenza di colore; i contorni amodali sono privi di contro-

a)

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b)

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e)

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d)

FIG. 3.49. La regione nera in a non appare con la forma illustrata in b. Si scinde in una forma occludente ed una occlusa, con una dominanza della soluzione e sulla solu -zione d.

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a)

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b)

Fio. 3.50. Il completamento dietro il rettangolo nero avviene in base alla continuità di dire -zione o in base alla simmetria? Nel caso a sono valide entrambe le ipotesi; mentre il caso b è compatibile soltanto con la continuità di direzione.

parte prossimale e privi dell'evidenza fenomenica modale (tipici sono quelli delle parti occluse); i contorni anomali sono privi di controparte prossimale ma sono dotati di evidenza fenomenica modale, cioè ap-paiono illusoriamente nell'esperienza visiva. Il completamento del rettangolo dietro al triangolo (soluzione e) richiede di generare due brevi contorni anomali, per completare il triangolo occludente, ac-compagnati da due lunghi contorni amodali, per completare il ret-tangolo occluso. Viceversa, il completamento del triangolo dietro al rettangolo (soluzione d) richiede di generare due lunghi contorni anomali, per completare il rettangolo occludente, accompagnati da due brevi contorni amodali, per completare il triangolo occluso. La preferenza per la soluzione e si spiega assumendo che i tratti anomali costino più dei tratti amodali, corrispondenti alle parti occluse.

Un problema analogo si pone quando l'immagine contiene tre regioni adiacenti. La figura 3.50a viene normalmente vista come un quadrato grigio che continua amodalmente dietro a un rettangolo ne-ro, entrambi collocati su uno sfondo bianco. La scarsa salienza del pentagono grigio potrebbe riflettere la tendenza alla buona continua-zione oppure alla simmetria. Il completamento in un quadrato è pre-visto da entrambe le ipotesi. La figura 3.50b consente invece di ri-gettare la seconda ipotesi. Se prevalesse la simmetria, la regione gri -gia dovrebbe essere vista come un esagono, senza continuazione amodale. La continuazione invece c'è, anche a scapito della simme-tria [Kanizsa 1975].

L'organizzazione duale non si verifica soltanto nella scissione di un'unica regione omogenea in due figure. Talvolta la scissione corri-sponde alla creazione di contorni anomali tra figura e sfondo. Questo tipo di contorni illusori, studiati originariamente da Kanizsa [1955; 1980], sono divenuti oggetto di un fecondo filone di ricerche [Petry e Meyer 1987]. Un esempio, adattato da una delle molte configurazioni prodotte da Gaetano Kanizsa, è riportato nella figura 3.51. Il contor-no del triangolo è definibile nell'immagine soltanto vicino ai vertici e

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PERCEZIONE 157

in corrispondenza dei terminatori dei segmenti bianchi. Molto poco, rispetto all'evidenza quasi allucinatoria della figura centrale.

Interessanti fenomeni di stratificazione e presenza amodale si ve-rificano in molte configurazioni in movimento [Bruno e Gerbino 1991; Kellman e Loukides 1987; Kellman e Shipley 1991], Qui ci

FIG. 3.51. Nonostante sia specificato solo in parte, il triangolo centrale appare completamente delimitato da contorni.

Tempo

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Rettangolo in movimento Dischetti immobili

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Tempo

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Tempo

Fio. 3.52. La sequenza in alto da luogo al movimento stroboscopico del rettangolo (grafico in basso a sinistra), che alternativamente copre uno dei due dischetti immobili (grafi -co in basso a destra).

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158 PERCEZIONE

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occupiamo soltanto di un effetto che mette in rapporto la presenza amodale con il movimento beta. Per l'approccio helmoltziano, il sal-to stroboscopico rappresenta la «migliore spiegazione» di sequenze di istantanee come quella della figura 3.35 (cfr. p. 148). Sigman e Rock [1974] hanno dimostrato che almeno in alcuni casi questa ipotesi è convincente. Esaminate la figura 3.52. Nella sequenza si alternano, nelle medesime posizioni spaziali, il solito dischetto e un rettangolo più grande. Potremmo vedere un incrocio di salti strobo-scopici: un dischetto che salta verso l'alto mentre un rettangolo salta verso il basso, e così via. Invece no. Il rettangolo salta su e giù (grafico a sinistra) coprendo e scoprendo due dischetti immobili (grafico a destra). Il movimento apparente di un dischetto si ottie -ne soltanto eliminando i rettangoli. Qui la spiegazione raziomorfa è calzante. Pur sussistendo le condizioni spazio-temporali per il salto stroboscopico del dischetto, esso non si realizza perché esiste una spiegazione migliore: la coesistenza di due dischetti (uno modale e uno amodale).

3.6. Direzione e velocità del movimento

Parlando del destino comune come fattore di unificazione (par. 3.4) abbiamo trattato direzione e velocità dei moti come dati. Tutta -via, nel paragrafo 3.1 avevamo chiarito che l'immagine è gravata an-che da indeterminazione cinematica: il moto di ciascun elemento è intrinsecamente plurivoco. Che cosa determina quindi traiettorie e velocità percepite? Purtroppo potremo soltanto descrivere alcuni esperimenti chiave, che invece vanno visti, considerata la loro impor-tanza teorica. Provate comunque a riprodurli con qualche semplice meccanismo o con delle animazioni su computer.

Cominciamo con una straordinaria dimostrazione di Edgar Ru-bin [1927] in cui una circonferenza rotola entro una circonferenza di raggio doppio (fig. 3.53). Quando sono visibili i vertici dell'esagono regolare inscritto nella circonferenza minore, oltre a tutta la circonfe-renza maggiore, non si vede niente di sorprendente: un esagono rigi -do che rotola. Attenzione! I vertici, e così tutti i punti della circonfe-renza minore, stanno eseguendo delle oscillazioni armoniche su una traiettoria rettilinea. I moti individuali possono essere seguiti dallo sguardo evidenziando i diametri: ci si accorge allora che ogni punto scorre sul diametro come su un binario. Ma l'effetto davvero sor-prendente si ha rendendo visibile un solo punto della circonferenza piccola: allora il rotolamento sparisce e l'oscillazione rettilinea diventa l'unico rendimento percettivo possibile.

Letteralmente, non si crede ai propri occhi quando si deve con-statare che lo stesso evento fisico può essere visto come un rotola-mento uniforme o come un'oscillazione rettilinea. La ruota di Rubin ci aiuta a capire che un medesimo movimento è compatibile con molte descrizioni cinematiche, alcune delle quali sono visibili. Se le

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PERCEZIONE 159

FIG. 3.53. In a sono indicati i vettori velocità rispetto alla circonferenza maggiore. Se è visibi -le soltanto un punto (b) allora viene percepito il moto individuale lungo il diame-tro. Se sono visibili più punti emerge il rotolamento, rappresentato in e dai vettori corrispondenti alla rotazione antioraria intorno ad un centro virtuale, e dai vettori corrispondenti alla rivoluzione intorno al centro della circonferenza maggiore.

condizioni sono favorevoli, l'indeterminazione cinematica si traduce in un'effettiva plurivocità percettiva.

La spiegazione dell'effetto chiama in causa un aspetto fondamen-tale della fenomenologia visiva. Nonostante il movimento appaia co-me una caratteristica assoluta e individuale degli oggetti, esso è sem-pre rapportato a un sistema di riferimento. La circonferenza maggio-re, essendo grande e includente, funge da sistema di riferimento so-vraordinato. Quando l'informazione ottica disponibile è ristretta a un solo punto, il movimento viene rapportato direttamente alla circonfe-renza maggiore, e quindi rivela le sue accelerazioni e decelerazioni, e la sua traiettoria rettilinea. Quando l'informazione ottica disponibile è allargata a più punti, allora questi formano un sottosistema in rota -zione intorno ad un centro virtuale, che a sua volta - come baricen-tro di questa costellazione - compie una rivoluzione intorno al cen-tro della circonferenza maggiore. Il rotolamento, quando viene perce-pito, richiede l'articolazione in un sistema principale (la circonferen-za maggiore), in cui si muove soltanto il centro virtuale della circon-ferenza piccola, e in un sottosistema, in cui i punti si muovono ri -spetto al centro virtuale.

Il principio che regola l'articolazione è la separazione dei sistemi [Duncker 1929]: direzione e velocità del movimento dipendono uni-camente dal sistema di riferimento prossimo, non da quello sovraor-dinato. Si tratta di un principio di organizzazione percettiva quanto mai sensato alla luce della meccanica classica. Quando si osserva un passeggero che cammina dentro a un tram, il principio sorregge un percetto aderente alla dinamica dell'evento: il movimento percepito del passeggero è quello rispetto al tram e non quello rispetto al ter -reno, che può essere nullo se il passeggero sta camminando contro-marcia. Il principio della separazione dei sistemi spiega anche come mai un oggetto in quiete possa essere visto in movimento. Si tratta dell'illusione illustrata nella figura 3.61a (cfr. infra), chiamata movi-

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Stimolo Stimolo

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Percetto Percetto

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a)

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b)

FIG. 3.54. Movimento indotto. In a un punto in quiete appare in movimento se la cornice si muove. In b lo stesso moto relativo è percepito come movimento di entrambi i punti.

mento indotto [ibidem]. Se in una stanza totalmente buia è visibile soltanto un punto luminoso immobile entro una cornice che oscilla lentamente, l'osservatore vede soltanto il movimento del punto inclu-so, in direzione contraria a quella del moto fisico della cornice. Il movimento del punto è visibile anche quando l'oscillazione della cor-nice è così piccola e lenta da risultare impercettibile.

Secondo Wallach [1982] il movimento indotto dipende dalla coe-sistenza di più meccanismi per l'analisi dei cambiamenti ottici. Il meccanismo che registra le variazioni relative al soggetto ha una so-glia più elevata (è meno sensibile), per cui non segnala né la quiete del punto né il movimento della cornice; mentre il meccanismo che registra i cambiamenti configurazionali ha una soglia più bassa (è più sensibile) e segnala il moto relativo punto-cornice, che va tutto a ca-rico del punto, perché il sistema di riferimento tende a rimanere sta -zionario, cioè a mantenere un valore neutrale (si noti l'analogia con l'illuminazione, par. 3.3). Se la cornice è sostituita da un punto, mancando le condizioni figurali per l'organizzazione gerarchica tra si-stema di riferimento ed elemento incluso, il moto relativo si riparti -sce in parti uguali tra i due punti, nonostante uno di essi sia fisica-mente immobile (fig. Ò5Ab).

Il movimento indotto si verifica in alcune situazioni naturali, quando un oggetto fàsicamente immobile è collocato su uno sfondo molto ampio e in movimento. Il caso tipico è quello della luna che scorre rispetto alle nuvole, quando in realtà sono queste a correre

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Sensibiltà dell'occhio umano

500 600 700

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Lunghezza a onda (nml

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Spettro visibile

Prisma

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1000 2000Lunghezza d'onda (nm)

Fio. 3.6. Porzione visibile dello spettro di energia radiante.

3000

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162 PERCEZIONE

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FIG. 3.7. Fissate per 30 s un incrocio e poi guardate il punto a destra.

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FIG. 3.8. Osservate questa figura dopo aver adattato un occhio al buio.

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PERCEZIONE

163

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[ FIG. 3.13. Adattate il vostro sistema visivo per un tempo complessivo di almeno 5 min, guardando alternativamente i reticoli rosso-nero e verde-nero, ciascuno per 10 sec. Poi fissate la fig. 3.14.

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FIG. 3.26. Contrasto simultaneo di bianchezza. La riflettanza dei due grigi è identica, ma la bianchezza è influenzata dalla zona immediatamente circostante.

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FIG. 3.59. Invarianza forma/inclinazione. Fissate il centro del disco rosso per 30 sec e poi sp lo sguardo sul punto a destra, inclinando molto la pagina. Che forma vedete?

PERCEZIONE 165

FIG. 3.62. Chiaroscuro a struttura tridimensionale delle superfici. Osservate bene e poi capovolgete! la pagina.

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Stimolo Stimolo

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Percetto

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Percetto

a)

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b)

FIG. 3.55. Due effetti studiati da Johansson. In a è illustrata un'oscillazione in fase in cui una traiettoria verticale e una orizzontale sono percepite come movimento obliquo di una coppia di punti che si avvicinano e si allontanano. In b la traiettoria obliqua del punto centrale risulta invisibile nel momento in cui l'oscillazione orizzontale dei punti estremi diventa il sistema di riferimento: la componente orizzontale del moto obliquo viene assorbita e il punto centrale sembra spostarsi soltanto in direzione verticale.

sospinte dai venti e la luna sta praticamente ferma. I movimenti rela-tivi tra elementi dell'immagine si ripartiscono in funzione di principi configurazionali, che consentono di superare l'indeterminazione cine-matica con risultati generalmente validi dal punto di vista ecologico; ma non sempre - direte giustamente - visto che luna e nuvole ap-partengono all'ambiente naturale.

Alcuni importanti casi di organizzazione delle traiettorie sono stati studiati dallo svedese Gunnar Johansson [1950; 1975], La sua di-mostrazione più nota è descritta nella figura 3.55a. Due punti oscil-lano in fase, uno in verticale e uno in orizzontale. Ma l'osservatore, in assenza di riferimenti visivi come i bordi dello schermo, non vede le traiettorie fisiche; vede invece una coppia di punti che si avvicina-

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a)

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b)

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e)

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FIG. 3.56. Il movimento fisico del reticolo obliquo è sempre orizzontale, ma il movimento percepito è quello corrispondente ai vettori indicati nelle figure di destra. Nella finestra circolare (a) si vede una traslazione obliqua; nella finestra verticale (b) uno scorrimento verticale; nella finestra a doppia L (e) un movimento prima verticale, poi orizzontale e poi ancora verticale.

no e si allontanano, mentre la coppia si sposta lungo il suo asse. Come nella ruota di Rubin, i moti individuali dei due punti vengono percepiti rispetto al centro della coppia, che a sua volta si sposta in obliquo con la velocità residuale (la velocità prossimale meno la com-ponente di moto relativo). Secondo Johansson, il sistema visivo effet-tua un'analisi vettoriale, operazione inversa rispetto alla composizione vettoriale dei moti di un elemento e del suo portatore, che si attua nel passaggio dallo stimolo distale allo stimolo prossimale. La figura 3.55b illustra un fenomeno analogo.

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Interessante è anche il rotolamento sul piano [Proffitt e Cutting 1980; Gerbino 1983]. Durante un rotolamento, ciascun punto della circonferenza di una ruota compie una curiosa curva, detta cicloide, visibile quando è illuminato un solo punto della circonferenza. La spiegazione è identica a quella data per la ruota di Rubin e per tutti gli altri effetti di organizzazione cinematica: la separazione dei siste-mi e la loro gerarchla figurale.

L'altra forma di indeterminazione cinematica, quella relativa ai tratti di contorno (par. 3.1), è coinvolta nella percezione delle viti senza fine e nell'illusione dell'insegna del barbiere {barberpole illusion) studiata da Wallach [1935; Wallach e O'Connell 1953]. La condizio-ne base è costituita dalla traslazione fisica, per esempio orizzontale, di un reticolo obliquo (fig. 3.56). Viste entro un'apertura circolare le linee non sembrano muoversi nella direzione veridica ma in direzio-ne perpendicolare al loro orientamento, con una velocità che risulta essere minima rispetto alla famiglia di velocità compatibili con l'in-formazione cinematica localmente disponibile. Se invece l'apertura è un rettangolo verticale, allora le stesse linee vengono viste in moto verticale. In generale, se l'apertura è stretta e appare come una cor-sia, le linee si muovono lungo la direzione specificata dallo scorri -mento dei terminatori lungo i bordi dell'apertura. Il fenomeno è coe-rente con nozioni come quelle di propagazione dei vincoli e di motion capture [Ramachandran 1990; Anstis 1990].

I fenomeni descritti nella figura 3.56 si verificano soltanto se l'a-pertura non viene vista come tale, cioè se le linee oblique non sem-brano continuare dietro la superficie nera. Shimojo, Silverman e Na-kayama [1989] hanno dimostrato che, quando l'osservatore può sfruttare la visione binoculare e le linee oblique sono chiaramente dislocate in secondo piano, allora la velocità viene minimizzata (dire-zione perpendicolare all'orientamento della linea). Se le linee si pro-lungano amodalmente nello spazio occluso dietro alla superficie nera, allora lo scorrimento delle giunzioni a T non cattura più il movimento globale semplicemente perché queste non fungono più da terminatori.

3.7. La terza dimensione

L'indeterminazione radiale (par. 3.1) è coinvolta nella percezione di molte proprietà degli oggetti (grandezza, forma, movimento) oltre che della profondità, cioè della distanza tra l'osservatore e gli oggetti.

Nel caso della grandezza, l'ipotesi della costanza coincide con una semplice teoria, formulata da Euclide, secondo la quale la gran -dezza percepita corrisponde all'ampiezza dell'angolo ottico sotteso dall'oggetto. È facile trovare casi che confermano la teoria. Un libro e un quadro, di differente grandezza fisica ma ugualmente distanti dall'osservatore, sottendono angoli ottici di ampiezza differente e ap-paiono anche di grandezza differente. Ma è altrettanto facile trovare

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FIG. 3.57. Uno stesso angolo ottico corrisponde alla proiezione di oggetti di grandezza diver-sa, collocati ciascuno ad una distanza proporzionale.

casi che la confutano. Lo stesso quadro continua ad apparire più grande anche quando il libro viene avvicinato all'osservatore e i due angoli ottici diventano uguali. In generale, la grandezza fenomenica degli oggetti tende a rimanere costante a dispetto delle variazioni dell'angolo ottico sotteso (costanza di grandezza).

Naturalmente potremmo attribuire l'effetto alle nostre conoscen-ze specifiche, cioè al fatto di sapere che quel libro e quel quadro sono grandi così. Anche se l'ipotesi non è molto promettente, essen-do inutilizzabile per gli oggetti sconosciuti, mettiamola alla prova nella seguente dimostrazione, che sfrutta l'immagine consecutiva (par. 2.2). Fissate nuovamente la figura 3.7 (cfr. p. 162) tenendo la pagi-na alla normale distanza di lettura e poi, invece di proiettare l'imma-gine su una superficie alla medesima distanza, fissate un punto sulla parete bianca a un paio di metri di distanza. L'immagine consecutiva apparirà molto più grande.

L'effetto è spiegato dalla legge di Emmert (dallo studioso che la formulò nel 1881). Poiché l'immagine consecutiva è un fantasma pri-vo di localizzazione propria, che si incolla come un'ombra sulla pri -ma superficie ambientale incontrata dallo sguardo, la sua grandezza fenomenica viene rapportata alla distanza alla quale viene percepita. Rimanendo costante l'angolo ottico, a distanze maggiori corrispondo-no grandezze maggiori. La legge di Emmert non vale soltanto per le immagini consecutive. Tutta l'organizzazione visiva obbedisce a un importante vincolo naturale, valido a parità di angolo ottico: l'inva-rianza grandezza/distanza. Il fondamento proiettivo illustrato nella fi-gura 3.57 si traduce, a livello percettivo, in una covariazione tra at-tributi oggettuali che determina normalmente la costanza di grandez-za e talvolta effetti assai curiosi.

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FIG. 3.58. Invarianza grandezza/distanza. Le barre a sinistra appaiono più o meno uguali (pur essendo diverse nell'immagine), mentre quella in primo piano a sinistra appa re più piccola di quella in fondo a destra (pur avendo la stessa grandezza sul piano immagine).

Osservate la figura 3.58 e confrontate le grandezze delle barre nere, quella in primo piano a sinistra appare più piccola di quella collocata a destra, in fondo al corridoio. È difficile convincersi che entrambe sottendono lo stesso angolo ottico. D'altra parte, anche se il disegno è schematico, la profondità pittorica è sufficiente a far sì che i due oggetti a sinistra appaiano più o meno della stessa gran -dezza, nonostante le corrispondenti porzioni di immagine (e quindi gli angoli ottici) siano molto diverse.

La covariazione percettiva tra grandezza e distanza porta a effetti ancora più appariscenti, come nel caso della grandezza apparente della luna. Salvo variazioni trascurabili, l'angolo ottico sotteso dal di-sco lunare è sempre uguale e quindi in base alla legge di Euclide la

PERCEZIONE 169

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luna dovrebbe apparire di grandezza costante. Invece la luna all'oriz-zonte appare molto più grande della luna allo zenith; un'illusione che, in condizioni favorevoli può raggiungere proporzioni molto ele-vate, nell'ordine di 3 : 2 . In alcuni esperimenti molto ingegnosi l'ef-fetto venne riprodotto con lune artificiali di cui si poteva manipolare con precisione ampiezza e posizione nello scenario naturale [Kauf-man e Rock 1962; Rock 1984]. La spiegazione più convincente risul ta proprio quella basata sulla dipendenza della grandezza percepita dalla localizzazione a distanza. La luna appare come un disco collo-cato sulla volta celeste, la cupola squisitamente percettiva che segna il limite del mondo visivo. Ma questa cupola è ribassata, non semi -sferica: il cielo sopra di noi appare più vicino del cielo all'orizzonte. La luna si colloca fenomenicamente sulla volta celeste (così come l'immagine consecutiva si incolla sulla superficie di supporto) e assu-me la grandezza corrispondente. La forza della spiegazione dipende proprio dalla covariazione tra grandezza e distanza. Infatti l'ingrandi-mento della luna all'orizzonte è maggiore quando, grazie al converge-re di più fattori di profondità, l'orizzonte appare molto lontano.

I fattori più importanti in una scena a campo aperto sono i gra-dienti prospettici, quali l'addensamento della tessitura e la conver -genza delle parallele, tutti concentrati in prossimità del terreno. La luna allo zenith appare piccola perché, lontano dall'orizzonte, il cielo vuoto appare vicino. Un campo totalmente omogeneo - quello che nel linguaggio di laboratorio viene chiamato Ganzfeld [Metzger 1930] - da luogo alla percezione di un «cielo artificiale» collocato ad una profondità apparente di 2-3 m, valore probabilmente legato al limite di accomodazione del cristallino.

Un altro vincolo di natura proiettiva incorporato nel funziona-mento visivo è l'invarianza forma/inclinazione, dimostrabile sempre usando l'immagine consecutiva. Fissate per 30 s il disco rosso della figura 3.59 (cfr. p. 164) tenendo la pagina sul piano frontoparallelo; poi guardate il punto alla destra inclinando la pagina rispetto allo sguardo. L'immagine consecutiva apparirà deformata in direzione opposta alla deformazione proiettiva di un disco rigido inclinato: ap-parirà cioè un'ellisse allungata nella direzione dell'inclinazione (non scorciata, come accade quando si osserva un reale disco inclinato).

Le invarianze proiettive (grandezza/distanza e forma/inclinazio-ne) sono buoni esempi di vincoli naturali incorporati nei processi visivi (par. 3.2). Un potente effetto dei vincoli proiettivi venne sco-perto nel 1971 da Roger Shepard [1982]. Guardate la figura 3.60 e confrontate la faccia superiore delle tre scatole. Quella centrale è più simile a quella di destra o a quella di sinistra? Senza dubbio a quella di destra; quella di sinistra appare troppo lunga. Ora ripassate il contorno della faccia centrale su una velina e sovrapponetelo sulla faccia di destra, e poi sulla faccia di sinistra. Piuttosto sorprendente, non è vero? Cerchiamo di spiegare l'effetto. A dispetto dell'ugua-glianza geometrica, lo spigolo obliquo della scatola centrale, essendo percepito come inclinato in profondità, appare più lungo dello spigo-

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PERCEZIONE 171

Fio. 3.60. La scatola centrale somiglia di più alla scatola di destra o a quella di sinistra? Confrontate a occhio le tre zone retinate. Poi fate una verifica ricalcando quella centrale e sovrapponendola alle altre [Shepard 1982].

lo orizzontale della scatola di sinistra. E viceversa: lo spigolo orizzon-tale della scatola centrale appare più corto dello spigolo obliquo della scatola di sinistra. La scatola di sinistra appare perciò molto più al -lungata delle altre. Ma l'aspetto più impressionante dell'illusione di Shepard è la resistenza alle influenze cognitive. L'effetto permane anche dopo che l'osservatore ha effettuato ripetuti controlli e si è convinto che la faccia centrale è uguale a quella di sinistra.

La forza dei vincoli prospettici incorporati nell'organizzazione vi-siva era già stata dimostrata da Michotte [1962]. La struttura a trat to riprodotta nella figura 3.61 normalmente appare come un paralle-lepipedo regolare (quasi un cubo) visto un po' dall'alto, con tutti i triedri retti. Ma è molto facile che si produca un'inversione e che la faccia più vicina all'osservatore diventi quella a destra in alto. Con l'inversione si ha anche la perdita di regolarità della struttura, che appare più simile a un tronco di piramide.

Abbiamo quindi scoperto che la grandezza e la forma dell'ogget-to, proprietà fenomenicamente assolute, sono relative alla distanza e all'inclinazione percepite. Tuttavia, quali informazioni consentono di assegnare un valore a queste variabili, dato che proprio queste sono

FIG. 3.61. La struttura può apparire come un parallelepipedo rettangolo visto un po' dall'alto o, dopo l'inversione percettiva, come un tronco di piramide distorto, con la faccia grigia più vicina all'osservatore [Michotte 1962].

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gravate da indeterminazione radiale (par. 3.1)? Si tratta di informa-zioni molto diverse, chiamate «indizi» o «suggerimenti» di profondi-tà (clues o cues), disponibili in parte soltanto a livello binoculare (par. 3.8) e in parte anche a livello monoculare. Un indizio monocu-lare è Y accomodazione: l'osservatore può registrare lo sforzo associato alla curvatura del cristallino e la sfocatura dell'immagine per conclu-dere che l'oggetto si trova a una distanza diversa dalla superfìcie a fuoco, senza tuttavia discriminare se l'oggetto è più vicino o più lon-tano. Più importanti sono i molti indizi pittorici, relativi alle proprietà proiettive delle immagini statiche, e la prospettiva di movimento, infor-mazione veicolata dalle trasformazioni ottiche conseguenti allo spo-stamento del punto di vista.

Gli indizi pittorici sono molti ed eterogenei. Fra questi spesso è inclusa l'interposizione, che però è in odore di truismo: non sembra sensato ribadire che le superfìci percepite come occludenti appaiono più vicine all'osservatore di quelle percepite come occluse. Individua-te le condizioni per la stratificazione (par. 3.5), rimane di per sé definito un ordinamento in profondità. Fungono invece da determi-nanti della distanza percepita i cosiddetti gradienti prospettici, come la convergenza delle linee, l'addensamento della tessitura, la riduzione delle ampiezze -ottiche, l'attenuazione del contrasto. Si tratta di fatto-ri che, tradotti in accorgimenti pittorici, consentono un vero e pro -prio illusionismo spaziale [Gombrich I960].

Tra gli induttori di profondità, un posto particolare è occupato dal chiaroscuro, che coinvolge la struttura dei corpi e la distribuzione delle ombre. Osservate la figura 3.62 (cfr. p. 164). Per la maggior parte degli osservatori (anche se esistono interessanti eccezioni) il frammento di tavoletta tardo-babilonese a sinistra contiene dei solchi sottili, mentre quello a destra contiene delle larghe valli. Il chiaroscu -ro, pur essendo un'importante fonte di informazione sull'orientamento locale delle superfìci (il cosiddetto shape-from-shading), non è del tutto univoco. L'ambiguità residuale — concavo o convesso? — è tuttavia superabile con un'assunzione, ecologicamente molto sensata, sulla direzione dell'illuminazione: prevale infatti l'orientamento 3D coerente con un'illuminazione proveniente dall'alto.

Il significato teorico degli indizi pittorici non è univoco. Gibson [1950; 1966] pensava che i gradienti di rarefazione della tessitura o di attenuazione del contrasto fossero stimoli specifici per la profondi-tà. Rock [1975; 1984, 79] ha dimostrato che almeno in alcuni casi l'efficacia dei gradienti è subordinata al riconoscimento. Koffka [1935, 159-160] ipotizzava che la tridimensionalità fenomenica basa-ta sulla prospettiva lineare fosse espressione di una più generale ten-denza alla massima regolarità. Negli ultimi due decenni, questa ipo-tesi è stata sostenuta da Leeuwenberg nella cornice della teoria del-l'informazione strutturale (SIT, structural information theory), un'espli-citazione del principio di minimo che si contrappone all'approccio neohelmholtziano basato sull'inferenza probabilistica [Pomerantz e Kubovy 1986; Leeuwenberg e Boselie 1988].

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a)

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b)

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Fio, 3.63. In b si alternano un intreccio piatto e un solido irregolare. In a prevale un esagono piatto diviso da diagonali e in e un cubo, come previsto dalla tendenza alla massi-ma regolarità [Kopfermann 1930; Koffka 1935].

La tendenza alla regolarità come determinante della profondità percepita è dimostrata nella figura 3.63. In e prevale la soluzione cubo perché più regolare del mosaico di regioni irregolari sul piano immagine. In a la configurazione piatta è già regolare e quindi un'e-ventuale riorganizzazione tridimensionale, per altro possibile, non au-menterebbe la regolarità. In b si redazza, una condizione intermedia e il percetto è instabile.

Concludiamo il paragrafo prendendo in esame il movimento co-me informazione sulla struttura tridimensionale dei corpi (strueture-from-motion). Vanno anzitutto distinti due fenomeni paradigmatici: l'effetto cinetico di profondità e l'effetto stereocinetico [Proffitt et al. 1992; Caudek e Proffitt 1993].

\Jeffetto cinetico di profondità (KDE, kinetic depth effect) è prodotto dalla trasformazione prospettica di uno stimolo così semplice da ap-parire, se visto istantanea per istantanea, come una sagoma sul piano immagine [Wallach e O'Connell 1953]. Secondo Wallach, la trasfor-mazione che costituisce la condizione necessaria e sufficiente per il KDE è il cambiamento simultaneo di lunghezza e orientamento. Pen-sate all'ombra di un bastoncino obliquo che ruota intorno a un asse verticale. L'unificazione delle varie istantanee, in ciascuna delle quali l'ombra appare piatta, produrrebbe l'oscillazione di un oggetto non rigido; mentre l'osservazione della sequenza in movimento permette di percepire la rotazione in profondità di un segmento di lunghezza costante. Il KDE potrebbe dipendere da una tendenza a regolarizzare le variazioni simultanee di lunghezza e orientamento; ma contro tale ipotesi va una dimostrazione di Rock [1984, 67] sulla prospettiva di movimento. In una stanza buia l'osservatore si sposta rispetto a tre gruppi di punti luminosi; siccome ciascun gruppo è collocato a una diversa profondità, si crea un flusso che contiene tre velocità retini-che (la minore per i punti più lontani e la maggiore per i punti più vicini). La tendenza a regolarizzare dovrebbe portare sempre a un percetto veridico, anche quando l'osservatore usa un occhio soltanto. Invece in visione monoculare si vede il moto relativo tra i punti ma

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FIG. 3.64. La rotazione del disco in alto genera un solido illusorio: o cono in rilievo o tubo in profondità. Un effetto analogo si ottiene con la trasformazione illustrata in basso, descrivibile come una traslazione proporzionale degli anelli rispetto al cerchio includente [Proffitt et al. 1992].

non la profondità. Il gradiente di velocità contenuto nel flusso è effi cace soltanto se i punti, grazie a fattori che favoriscono l'identificazione della forma, sono raggruppati in una struttura riconoscibile; solo in tal caso prevarrebbe la tendenza a mantenere costante la forma tridimensionale.

L'effetto stereocinetico (SKE, stereo-kinetic effect) venne studiato da Cesare Musatti [1924; 1975], che ne attribuiva la scoperta a Vittorio Benussi. Si tratta di un'illusione facile da generare e diffìcile da spiegare. La lenta rotazione di un pattern bidimensionale come un insieme di cerchi eccentrici (fig. 3.64 a sinistra) da luogo a un percetto tridimensionale di evidenza quasi allucinatoria: o un cono con il vertice rivolto verso l'osservatore o un tubo che recede in profondità. Il fenomeno è curioso proprio perché lo stimolo contiene soltanto un cambiamento di orientamento. Tuttavia, lo SKE non dipende dalla rotazione in sé, ma dalla particolare trasformazione cinematica contenuta nell'insieme di spostamenti relativi tra i vari elementi; l'effetto si ottiene anche con una traslazione, purché l'insieme di spostamenti relativi sia approssimativamente compatibile con l'oscillazione rigida di un oggetto 3D. Si tenga presente che lo stimolo per lo SKE non è

Tempo

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la proiezione di un solido in movimento rigido: per rappresentare un cono inclinato, ciascun elemento della figura 3.64 dovrebbe essere un'ellisse leggermente schiacciata e non un cerchio. Tuttavia, lo spo-stamento relativo tra le parti è ben più rilevante di questa deforma-zione prospettica, al punto che la stereopsi cinetica emerge anche se lo stimolo non è perfettamente legale.

3.8. Un altro punto dì vista

Della visione binoculare sappiamo che facilita la percezione se-condo il modo della costanza (par. 3.3). La disponibilità di due campi visivi ampiamente sovrapposti riduce di molto, se non elimi-na, alcuni tipi di indeterminazione ottica (connettiva, occlusiva, ra-diale); ma pone un nuovo problema, quello delle immagini doppie. Provate a tenere allineate con il naso due matite verticali, una a 20 cm e l'altra a 50. Fissate la matita vicina e vedrete due matite lonta-ne; fissate la matita lontana e vedrete due matite vicine.

A che serve questa esercitazione? Anzitutto conferma che i per-cetti visivi sono autonomi rispetto alle conoscenze generali sul mondo e alle informazioni provenienti da input extraottici: la matita su cui non convergono gli assi ottici vi appare sdoppiata anche se siete perfettamente convinti della sua unicità fisica e se al tatto la sentite come unica. Inoltre, così facendo ci alleniamo a mantenere la conver-genza su un punto mentre spostiamo l'attenzione su un piano più lontano o più vicino. Qualcuno fa fatica a dissociare il fuoco dell'at -tenzione dal punto di convergenza e dalla zona di fissazione, corri -spondente all'accomodazione del cristallino e alla visione nitida. Ma questa abilità tornerà preziosa; perciò allenatevi. Scoperte le immagi-ni doppie, viene da chiedersi: come mai non ne siamo perseguitati, dato che le condizioni ottico-geometriche per il loro verificarsi sono onnipresenti? Consideriamo tre risposte, ciascuna con un briciolo di verità.

1) Le immagini doppie ci sono sempre, ma non vengono notateperché l'attenzione visiva si concentra spontaneamente intorno alpunto di convergenza, dove le immagini doppie sono comunque meno probabili.

2) Se i due input monoculari sono identici si ha fusione. Se invece sono incompatibili (tipico è l'incrocio di contorni), si verifica larivalità binoculare e uno dei due input viene soppresso. Rivalità efusione sono entrambe coinvolte nell'illusione del dito sospeso [Sout-hall 1937, 31]. Fissate con entrambi gli occhi un punto all'infinito,su una nuvola, e allineate orizzontalmente l'indice sinistro e l'indicedestro, intercettando lo sguardo a circa 40 cm dagli occhi. Avvicinategli indici fino a toccarvi i polpastrelli e poi allontanateli lentamentedi pochi millimetri mantenendo lo sguardo all'infinito. Succede unacosa mostruosa: oltre ai due indici normali, ciascuno attaccato allasua mano, compare a mezz'aria uno strano dito simmetrico con

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b)

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a) b) ci

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FIG. 3.65. Il diagramma in alto illustra il principio dello stereoscopio di Wheatstone (in pian-ta). Gli specchi riflettono gli stereogrammi a e b, che simulano due barre a profon-dità differenti. Lo stereogramma e è una replica di a, utile per la fusione in visione libera (cfr. testo).

un'unghia per parte. Il dito sospeso risulta dalla fusione di una parte delle immagini doppie, quella compatibile, e dalla rivalità che soppri-me i contorni incompatibili. Pensateci fino a quando non siete com-pletamente convinti.

3) Le piccole differenze tra le due immagini monoculari, chiamate disparità binoculari, non portano alle immagini doppie: al contrario, generano la stereopsi, cioè la dislocazione in profondità degli elementi disparati. Le ricerche sulla visione binoculare, di cui parleremo ora, si occupano soprattutto di questo aspetto positivo delle dif ferenze interoculari.

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La scoperta che le disparità producono stereopsi, anche in assen-za di altri indizi, è piuttosto recente e si collega all'invenzione dello stereoscopio a specchi da parte di Charles Wheatstone [1838]. La figura 3.65 illustra il caso in cui a ciascun occhio viene inviato uno stereogramma contenente due barre verticali. La barra destra apparirà più lontana se è più distanziata dall'altra nello stereogramma destro (disparità non-crociata o omologa); mentre apparirà più vicina se è più distanziata nello stereogramma sinistro (disparità crociata). Potete anche provare a fondere la coppia bc senza stereoscopio, dopo aver coperto lo stereogramma a con un foglio bianco. Tenete la pagina a 60 cm e convergete sulla punta della matita tenuta a circa 30 cm in modo da vedere tre quadrati: quello centrale risulta dalla so-vrapposizione di b e e, come potete verificare guardando le due let-tere rivali. L'immagine sarà sfocata, ma con un po' di allenamento dovreste riuscire a rilassare il cristallino e a mettere a fuoco sul piano della pagina, pur mantenendo la convergenza sulla matita. L'emerge -re della stereopsi può richiedere anche qualche minuto, ma con un po' di pazienza vedrete la barra destra più lontana. Attenzione: più lontana e non più vicina perché con la tecnica della convergenza a metà strada avete fuso l'immagine e dell'occhio sinistro e la b dell'oc-chio destro. Se volete vedere la barra destra più lontana fondete, con la medesima tecnica, la coppia ab.

Lo stereoscopio a specchi di Wheatstone è soltanto uno dei molti metodi impiegabili per la fusione di immagini piatte. Altri sono lo stereoscopio a lenti di Brewster (commercializzato come ViewMas-ter); la presentazione di immagini disparate sovrapposte ma separate mediante filtri polarizzanti o colorati; la presentazione alternata di fotogrammi disparati ad un osservatore munito di occhiali con ottu-ratori a cristalli liquidi.

Al di là dei dettagli tecnici, va ribadito il significato della stereo-psi. Nel caso di semplici stereogrammi come quello della figura 3.65, tutte le informazioni monoculari favoriscono la percezione di una su-perficie piatta. Uguaglianza di grandezza delle barre, assenza di gra-diente microstrutturale, uguale accomodazione del cristallino sono tutti «indizi di piattezza», che probabilmente spiegano la latenza tal-volta elevata della stereopsi. Tuttavia la profondità alla fine emerge, in quanto la disparità attiva meccanismi robusti e precisi, che opera -no anche in circostanze avverse.

Un'ottima dimostrazione della potenza della stereopsi è l'illusione del pendolo di Pulfrich [Pulfrich 1922], un fenomeno che dipende dalle disparità cinematiche tra gli input monoculari. Per osservare il fenomeno è sufficiente un filtro scuro, come quello degli occhiali da sole, e un pendolo oscillante su un piano verticale (va bene qualun-que oggetto appeso a uno spago). Quello che si vede guardando con entrambi gli occhi non vi stupirà: il pendolo descrive una traiettoria apparente uguale a quella reale. Se invece davanti a un occhio tenete il filtro (ma sempre guardando con entrambi gli occhi), le cose cam-biano: il pendolo sembra descrivere un'orbita ellittica intorno alla

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verticale passante per il punto di sospensione. E basta coprire con il filtro l'altro occhio per invertire il verso in cui viene percorsa l'orbita apparente.

Prima di pensare alla spiegazione, provate una variante racco-mandata dallo stesso Pulfrich. Invece di guardare direttamente il pendolo, guardate un'ombra in moto armonico (la proiezione di un moto circolare uniforme). Se non avete ripudiato il vinile, potete realizzarla in due minuti fissando sul piatto del giradischi due astine verticali, una al centro e l'altra verso la periferia; illuminate il tutto con un fascio di luce radente, in modo da ottenere su una parete la configurazione cinetica desiderata: un'ombra verticale immobile, proiettata dall'astina collocata al centro del piatto, periodicamente at-traversata da un'ombra in moto armonico. Il vantaggio delle ombre cinesi sta nell'eliminazione di molte informazioni sulla profondità: niente è più piatto delle ombre che si stagliano su un piano. Osser-viamo questa variante. In visione libera l'evento è plurivoco: si può vedere l'ombra oscillante che scivola sulla parete attraversando l'om-bra centrale immobile, ma si può anche vederla ruotare in profondi-tà, o in un verso o nell'altro. Guardando la parete da vicino e con un occhio solo, otterrete facilmente la rotazione in profondità (un caso semplice di SKE, par. 3.7). Tuttavia l'evento diviene del tutto univoco se coprite un occhio con il filtro. L'ombra ruota in un verso ben definito, che dipende da quale occhio viene filtrato. A nulla vale la consapevolezza che la parete non è penetrabile: l'ombra entra ed esce dalla parete, perché la stereopsi sfrutta un'informazione irresisti-bile. Vediamo quale.

Secondo la spiegazione già proposta da Pulfrich, e ritenuta tutto-ra valida [Julesz e White 1969; Julesz 1971, 252; Enright 1970; Zan-forlin 1982] il filtro attenua la stimolazione che arriva ad uno degli occhi. Il segnale più debole viene elaborato più lentamente, per cui a un unico stimolo distale corrispondono informazioni monoculari asincrone. Per esempio, nel momento in cui l'occhio non filtrato ela-bora l'incrocio delle due ombre, nell'occhio filtrato l'immagine del-l'ombra in moto non ha ancora raggiunto l'ombra immobile. Se il filtro sta sull'occhio destro l'ombra ruota nel verso della rotazione terrestre; se il filtro sta sull'occhio sinistro l'ombra ruota nel verso opposto. La dipendenza del verso di rotazione dall'occhio filtrato è illustrata nella figura 3.66. Il grafico spazio-tempo descrive un tratto del moto armonico dell'ombra. L'asincronia indotta dal filtro è rap-presentata dallo sfasamento tra la sinusoide continua (occhio non fil-trato) e quella tratteggiata (occhio filtrato). Sul piano immagine il ritardo si traduce in disparità spaziale. I diagrammi riportano le di-sparità per 5 istanti successivi. L'intersezione delle direzioni visive corrispondenti a ciascuna coppia di posizioni disparate definisce la posizione del mobile nello spazio 3D. Interpolando queste posizioni si ottiene l'orbita corrispondente all'asincronia indotta dal filtro.

Finora ci siamo occupati di casi in cui l'oggetto è riconoscibile in ciascuno stereogramma. In questi casi la stereopsi è spiegabile, in

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fi fi fi fi fi II 1 /

II II 11 II II fi 1

/t /1 fi fi 1

nr tj t2 t3 t4 t5 Tempo

Ritardo apparentea)

f

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IFiltro mm ^m Filtro

Occhio sinistro O O Occhio destro Occhio sinistro O O Occhio destro

b) e)

Legenda: Disparità sul piano immagine ■■■••«■■■Traiettoria percepita • —► • —► •

Fio. 3.66. Pendolo di Pulfrich. Il filtro davanti a un occhio induce un'asincronia, rappresen -tata in a dallo sfasamento delle due sinusoidi, che equivale a una disparità spaziale riportata sul piano immagine nei diagrammi b e e. Il verso della rotazione percepita dipende da quale occhio viene filtrato: sinistro (b) o destro (e). Le frecce nei diagrammi b e e illustrano le traiettorie in profondità indotte dalla disparità delle coppie di punti sul piano immagine.

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chiave helmholtziana, come la miglior soluzione al problema posto dalle piccole disparità tra viste monoculari. Fu Bela Julesz [1960; 1971] a inventare degli stimoli stereoscopici per i quali questa spie-gazione non è applicabile. Nella figura 3.67 ciascuna distribuzione casuale di celle bianche e nere appare come una tessitura uniforme, priva di un'univoca articolazione figura/sfondo. Ma se fondete i due stimoli con lo stereoscopio o incrociando gli occhi, vedrete emergere un quadrato centrale. A seconda del metodo, e quindi del verso del -le disparità, compare una figura in rilievo o un buco. Il quadrato corrisponde ad una sottomatrice che si ripete identica ma con uno slittamento orizzontale in entrambi gli stimoli, detti per questo corre-logrammi casuali {random-dot correlograms). Ciascuna matrice è casua-

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1 0 1 0 1 0 0 1 0 1 1 0 1 0 1 0 0 1 0 1

1 0 0 1 0 1 0 I 0 0 1 0 0 1 0 1 0 1 0 0

0 0 1 1 0 \ \ 0 1 0 0 0 1 1 0 1 1 0 1 0

0 1 0 Y A A B B 0 1 0 1 0 A A B B X 0 1

1 1 1 X 3 A B A 0 1 1 1 1 B A B A Y 0 \

0 0 1 X A A B A t 0 0 0 1 A A B A Y 1 0

1 1 1 Y 9 B A B 0 1 1 1 1 B B A B X 0 I

1 0 0 1 I 0 1 1 0 1 1 0 0 1 1 0 1 1 0 \

1 1 0 0 T 1 0 1 1 J 1 1 0 0 1 0 1 1 1

0 \ 0 0 0 1 1 1 1 0 0 1 0 0 0 1 1 1 0

FIG. 3.67. Provate a fondere la coppia di correlogrammi in alto incrociando gli occhi. Emer -gerà un quadrato in rilievo. Come mostra lo schema in basso, una porzione del correlogramma di sinistra è replicata nel correlogramma di des fra con una trasla-zione orizzontale, mentre il vuoto prodotto dalla traslazione viene riempito con altre celle a caso. Si crea così una collettività di elementi disparati.

le, se presa isolatamente, ma la correlazione tra le due è una regola -rità cui il sistema visivo è sensibile. Gli stereogrammi di Julesz sono stimoli ciclopici, nel senso che attivano meccanismi situati dopo l'inte-grazione delle immagini monoculari, a livello del mitico occhio cen-trale con cui ci sembra di vedere il mondo. La stereopsi non richie de che l'oggetto sia già segregato a livello monoculare. Anzi, l'oggetto è creato proprio dal meccanismo di integrazione binoculare.

Negli stereogrammi classici (fig. 3.65) la differenza tra le imma-gini monoculari sta nella disparità spaziale degli elementi, che tutta -via sono presenti in ciascuna immagine. Ma nella visione ordinaria le differenze tra gli input monoculari sono anche di altra natura. L'esi-stenza di corpi occludenti fa sì che alcune porzioni dell'ambiente sia-no proiettate soltanto su un occhio: una parte dell'immagine sinistra non ha alcun corrispettivo a destra, e viceversa. Che ne è della visio-ne binoculare in queste condizioni?

La figura 3.68 illustra il caso limite di Panum [Panum 1858]. Al-

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Fio. 3.68. Caso limite di Panum. Fondendo la coppia di stereogrammi a sinistra si genera un'impressione di profondità coerente con il diagramma di destra.

l'occhio sinistro viene presentata solo una barra e a quello destro due. In visione binoculare potremmo attenderci di vedere due barre (di cui una risultante della fusione), ma nessuna impressione di pro-fondità. Invece la barra di destra appare più lontana, coerentemente con l'occlusione: la coppia di stereogrammi corrisponde infatti al ca -so limite in cui due oggetti distali si trovano allineati con un asse ottico ma non con l'altro. Un fenomeno analogo, scoperto da Law-son e Gulick [1967], mette ancor meglio in evidenza che i processi visivi incorporano vincoli ottici specifici all'occlusione binoculare. Fondendo gli stereogrammi della figura 3.69 si vede un quadrato opaco, di colore bianco compatto, che occlude una matrice di punti completata amodalmente. L'occlusione binoculare, già descritta da Leonardo, è oggetto di studi recenti [Nakayama, Shimojo e Silver-man 1989; Nakayama e Shimojo 1990].

FIG. 3.69. La fusione di questa coppia di stereogrammi fa emergere un quadrato occludente opaco [Lawson e Gulick 1967].

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Che cosa possiamo concludere, in generale, sulla visione binocu-lare? Helmholtz [1867] considerava la stereopsi binoculare un'evi-denza a favore della spiegazione raziomorfa della percezione. E an-che Rock [1983; 1984] l'ha spesso trattata come la conclusione più probabile che la mente può trarre a partire dai dati monoculari e dalle conoscenze generali sul mondo. Non va tuttavia dimenticato che questa apparenza di razionalità non ci aiuta a capire i limiti en-tro i quali tali conclusioni vengono raggiunte. La zona in cui le di -sparità sono risolvibili mediante fusione e dislocazione in profondità, chiamata area di Panum, sottende un piccolo angolo ottico variabile tra i 6 min in fovea e i 30 min a 8° di eccentricità. La stereopsi, una volta ottenuta, si mantiene anche se la disparità viene gradualmente incrementata fino a quasi 2° [Julesz 1971, 43]; ma si tratta comun-que di un ambito limitato. Più problematico ancora è il fatto che l'impressione di profondità non esclude la presenza delle immagini doppie. Se la percezione fosse guidata dalla logica, le immagini dop-pie dovrebbero sparire quando sono «spiegate» dalla profondità. Con disparità intermedie può invece accadere che la fusione fallisca (l'elemento disparato appare doppio) ma che si crei, comunque, un'impressione, poco logica, di profondità.

4. Conclusioni

Chissà se questo capitolo ha indotto in voi più sospetto o più rispetto. Il primo vada all'autore, se non è riuscito a condurvi in piena sicurezza attraverso il lago di Costanza e il mare di costanze, né a farvi evitare lo scoglio dell'ipotesi della costanza. Comunque, dovrebbe risultare accresciuto il vostro rispetto per i fenomeni per-cettivi. Se ben sorretti dalla logica sperimentale, i dati ricavati dalle risposte degli osservatori umani forniscono importanti indicazioni sui processi periferici che codificano l'input ottico estraendo l'informa-zione disponibile nell'immagine, e costituiscono l'evidenza principale su cui basare la comprensione dei processi - più difficili da modella -re - grazie ai quali i percetti rimangono aderenti all'input senza veni-re per altro compromessi dalla sua scarsa determinazione e dalla sua forte variabilità.

L'analisi dei fenomeni di organizzazione visiva dovrebbe avere reso evidente quanto difficile sia sostenere una teoria unitaria della percezione, basata su principi di tipo empirico-probabilistico (Helm-holtz) o economico-energetico (Gestalt). Il riferimento a tali principi continua a svolgere un ruolo importante nella scoperta dei fenomeni, ma gli approcci eclettici sembrano adattarsi meglio alla complessità del sistema visivo. All'eclettismo teorico si accompagna l'integrazione tra più metodi di ricerca. Questo capitolo, facendo parte di un ma-nuale di psicologia, ha privilegiato l'osservazione fenomenologica e i dati comportamentali, ma la convergenza con i dati neurofisiologici e con i risultati della simulazione si è ormai imposta come criterio di

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validità generale per ogni spiegazione del funzionamento percettivo. E in tal senso lo studio della visione fornisce un paradigma per l'in -tera scienza cognitiva.

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

Alcuni dei testi italiani già citati nel capitolo possono utilmente integrare lo studio del materiale qui presentato. In particolare, va suggerita la lettura di alcuni classici, a cominciare dalle due raccolte di saggi che illustrano l'opera di Gaetano Kanizsa [1980; 1991]. Per l'approccio fenomenologico si veda il volume di Bozzi [1969]. A questi andrebbero affiancati i capitoli sulla percezione dei Principi di psicologia della forma di Kurt Koffka [1935; trad. it. 1970].

Per un inquadramento storico sono utili i due volumi di Masin [1978], e per la psicofisica della visione il volume di Casco [1992]. Alcuni contributi classici sono stati recentemente tradotti nel volume di fonti commentate curato da Anolli [1996].

Un'area solo marginalmente trattata in questo capitolo, e che lo studente può affrontare da solo, è quella della percezione pittorica. Gran parte delle opere di due grandi del settore, Ernst Gombrich [1960; trad. it. 1972 e 1982; trad. it. 1985] e Rudolf Arnheim [1954; trad. it. 1962] sono tradotte in italiano.

Lo studente universitario, fin dai primi anni, non deve per altro esitare dall'avvicinarsi direttamente alle riviste che pubblicano contri-buti sperimentali, rassegne e discussioni teoriche. Articoli rilevanti per la percezione appaiono sulle seguenti riviste: «Giornale Italiano di Psicologia», «Rivista di Psicologia», «Ricerche di Psicologia», «Ar-chivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria», «Sistemi Intelligenti» (utile quest'ultima per allargare l'orizzonte alle neuroscienze e alle scienze dell'artificiale).

Le indicazioni date finora si limitano alla produzione disponibile in lingua italiana. Va tenuto presente che il contatto diretto con la ricerca, come anche l'accesso ai testi più aggiornati, richiede di legge -re in inglese. Vanno segnalate anzitutto un certo numero di riviste che riguardano l'area «percezione e processi cognitivi»: «Percep-tion», «Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance», «Perception and Psychophysics», «Acta Psychologi-ca», «Psychological Research», «Cognition», «Cognitive Psychology». E poi altre più specialistiche, riferite a modalità o aspetti particolari, come «Vision Research» e «Music Perception».

Sono parecchi i buoni manuali in inglese che coprono le varie modalità sensoriali. Ne segnalo uno, molto diffuso e più volte revi -sionato: E.B. Goldstein [1996].

Lo studente più interessato non manchi di leggere direttamente autori come Gibson [1950; 1966; 1979], Rock e Marr. Il libro che riflette meglio il punto di vista neohelmholziano di Irvin Rock è The

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Logic of Perception [1983]; ma il suo gioiello espositivo è Perception [1984]. Quasi mitico, ormai, è Vision di David Marr [1982].

Buona lettura e buoni esperimenti! Nessuno infatti può appro-fondire le proprie conoscenze sulla percezione se non attraverso l'e-sperienza del laboratorio e dell'osservazione controllata dei fenomeni. Riproducete gli effetti che trovate descritti nei libri e nelle riviste, e scoprirete di avere capito veramente.

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1. L'attenzione spaziale

Un osservatore umano può selezionare una posizione nello spazio orientandovi l'attenzione. Normalmente, l'orientamento dell'attenzio-ne è accompagnato da una rotazione degli occhi e del capo e, a vol -te, anche del corpo. Ciò crea un problema per lo studio dell'atten -zione spaziale. Infatti, la rotazione degli occhi fa sì che sulla posizio-ne selezionata sia allineata, non solo l'attenzione, ma anche la fovea, cioè la porzione della retina in cui la capacità di risoluzione è massi-ma. Risulta, perciò, impossibile separare gli eventuali effetti prodotti dall'attenzione spaziale dagli effetti prodotti dall'acuità retinica.

Il primo problema da risolvere nello studio dell'attenzione spa-ziale è, dunque, quello di separare la direzione dell'attenzione dalla direzione dello sguardo. Fortunatamente, si tratta, come si vedrà, di un problema non insormontabile. Per la verità, il problema era stato affrontato, e risolto, ben prima degli studi in laboratorio.

Tutti noi abbiamo avuto esperienza del fenomeno di «guardare con la coda dell'occhio», cioè di dirigere lo sguardo verso una posi-zione nello spazio mentre si presta attenzione a ciò che accade da qualche altra parte. Il trucco può funzionare perché chi ci osserva assume che sguardo e attenzione siano allineati. In diversi sport, questa tendenza ad assumere che sguardo e attenzione siano allineati viene sfruttata per trarre in inganno l'avversario e l'abilità a separare10 sguardo dall'attenzione è esplicitamente allenata (la cosiddetta «visione periferica»).

Gli antichi astronomi avevano a loro disposizione, per esplorare11cielo, soltanto dei telescopi abbastanza rudimentali. Per rilevare ladebole luce proveniente da certi corpi celesti, la parte più utile dellaretina è la periferia, dove la sensibilità alla luce è massima, mentrel'acuità è minima (nella fovea succede l'opposto: la sensibilità allaluce è minima, mentre l'acuità è massima). Era, perciò, necessarioche un astronomo si allenasse ad esplorare il cielo con la periferia

Capitolo 4

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del campo visivo. Ciò era possibile a patto che si riuscisse a separare la direzione dello sguardo dalla direzione dell'attenzione.

La separazione dello sguardo dall'attenzione è, però, solo il pri-mo problema da affrontare nello studio dell'attenzione spaziale. Gli altri problemi sono più delicati e complessi e richiedono l'impiego di situazioni di laboratorio accuratamente controllate. Passerò, perciò, a descrivere un esperimento effettivamente condotto.

1.1. Una situazione sperimentale

La situazione sperimentale è illustrata in modo schematico nel riquadro A della figura 4.1 [per maggiori dettagli, si rimanda a Umiltà et al. 1991; cfr. anche Rizzolatti et al. 1987].

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Fio. 4.1.

Ad ogni prova, si presentano sullo schermo il punto di fissazione (la piccola croce al centro) e i quattro quadrati allineati in alto, con-trassegnati dai numeri 1-4. Dopo 500 ms compare un numero (il segnale) appena sopra il punto di fissazione, poi, dopo altri 600 ms, compare un cerchietto luminoso (lo stimolo) dentro uno dei quattro quadrati.

Le consegne date all'osservatore (il soggetto sperimentale) riguar-dano i movimenti oculari, i movimenti dell'attenzione e la modalità di risposta. All'apparire del punto di fissazione, gli occhi vi devono essere diretti e restare immobili per tutta la durata della prova. La posizione degli occhi è controllata (per esempio, per mezzo di una apparecchiatura a raggi infrarossi o di una telecamera) e tutte le prò-

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ve nelle quali si rileva un movimento oculare sono scartate. L'atten -zione deve essere diretta sul quadrato corrispondente al numero che appare sopra al punto di fissazione.

Per esempio, nel riquadro A della figura 4.1, sopra al punto di fissazione appare il numero 3 e l'attenzione deve essere portata, sen-za muovere gli occhi, sul secondo quadrato da destra. Se il numero sopra al punto di fissazione fosse stato l'I, allora l'attenzione avrebbe dovuto essere portata sul primo quadrato da sinistra. Se sopra al punto di fissazione appare uno 0, che non indica nessuno dei quat -tro quadrati, l'attenzione deve essere distribuita fra tutti i quadrati. In altre parole, uno 0 segnala al soggetto che tutti i quadrati devono essere tenuti sotto controllo attentivo. Il soggetto viene anche infor-mato che lo stimolo può essere presentato soltanto dentro uno dei quadrati. La risposta richiesta consiste nel premere il più rapidamen-te possibile un pulsante; sempre lo stesso, dovunque sia comparso lo stimolo.

La variabile dipendente è il tempo, misurato in millesimi di se -condo, che intercorre fra la comparsa dello stimolo e l'esecuzione della risposta: tempo di reazione (TR) semplice. Per evitare che la risposta venga anticipata, a volte non si presenta alcuno stimolo dopo il segnale numerico e il soggetto non deve rispondere. Nel 70% dei casi lo stimolo compare nel quadrato segnalato dal numero presentato sul punto di fissazione e si parla di «prove valide». Nel 30% dei casi, lo stimolo compare in uno dei tre quadrati non segnalati (10% per ciascuno) e si parla di «prove invalide». Nell'esempio del riquadro A della figura 4.1, lo stimolo ha una probabilità del 70% di comparire nel quadrato 3, mentre può comparire con una probabili tà del 10% nei quadrati 1, 2 e 4. Lo 0 è un segnale non informativo: lo stimolo può comparire con uguale probabilità (25%) in ciascuno dei quattro quadrati e si parla di «prove neutre».

1.2. Benefici e costi attentivi

Nella situazione sperimentale appena descritta i movimenti ocula-ri sono esclusi. Inoltre, gli stimoli cadono sempre alla periferia del campo visivo, lontano dalla zona di proiezione della fovea (i quadrati sono allineati ad una distanza di 6° di angolo visivo dal punto di fissazione). È, perciò, ragionevole supporre che le eventuali differen-ze osservate nei TR siano di origine attentiva, piuttosto che retinica.

Nelle prove valide, il soggetto ha diretto l'attenzione sulla posi-zione «giusta», cioè sul quadrato in cui successivamente è comparso lo stimolo da rilevare. Nelle prove invalide, invece, l'attenzione è sta-ta portata sulla posizione «sbagliata», cioè su un quadrato diverso da quello in cui è poi comparso lo stimolo. Nelle prove neutre, l'atten-zione è stata distribuita su tutte le posizioni, cioè su tutti i quadrati. Se si considerano le prove neutre come una condizione di controllo, è possibile stimare i «benefici» prodotti dal corretto orientamento

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dell'attenzione e i «costi» prodotti da un errato orientamento dell'at-tenzione [Posner 1980a].

Nell'esperimento condotto da Umiltà et al. [1991], dal quale è stata tratta la situazione sperimentale descritta, il TR medio per le prove valide è stato di 218 ms, il TR medio per le prove neutre è stato di 230 ms e il TR medio per le prove invalide è stato di 254 ms. Perciò, il benefìcio ottenuto per avere orientato l'attenzione sulla posizione giusta è stato di 12 ms (TR per le prove neutre meno TR per le prove valide), mentre il costo pagato per avere orientato l'at -tenzione sulla posizione sbagliata è stato di 24 ms (TR per le prove invalide meno TR per le prove neutre).

Ci si può chiedere se i benefici e i costi attentivi dipendano da cambiamenti di criterio di risposta oppure da cambiamenti di sensi-bilità del sistema visivo. Se si tratta di veri effetti attentivi, i benefici e i costi dovrebbero essere attribuibili alla sensibilità del sistema visi-vo. Che si tratti proprio di sensibilità è stato dimostrato, per esem-pio, da Downing [1988], che ha calcolato gli indici della teoria della detezione del segnale ed ha trovato benefìci e costi per d' ma non per beta (cfr. supra, cap. I, pp. 25-26) [cfr. anche Darley, Gluck-sberg e Kinchla 1991].

In conclusione, gli esperimenti di questo tipo hanno dimostrato che l'attenzione può essere orientata nello spazio anche in assenza di movimenti oculari e che ciò da origine a benefici e costi attentivi [per rassegne più dettagliate, Posner 1980a; Umiltà 1988aL Saranno ora affrontati altri aspetti dell'attenzione spaziale. Si ricordi che ver-ranno quasi sempre riportati risultati ottenuti in assenza di movi -menti oculari (orientamento implicito dell'attenzione). Quando, inve-ce, la situazione sperimentale è tale da permettere movimenti oculari (orientamento esplicito dell'attenzione), ciò sarà espressamente se-gnalato.

1.3. Orientamento volontario e orientamento automatico

Abbiamo visto che l'attenzione si può orientare nello spazio ver -so posizioni indicate da segnali presentati al centro del campo visivo (si parla di segnali centrali), come i numeri del riquadro A della fi-gura 4.1. Questi segnali indicano una posizione soltanto a patto che vengano correttamente interpretati (si parla anche di segnali cogniti-vi). Non c'è nulla, infatti, nel numero 3 che, per esempio, induca a dirigere l'attenzione in alto e a destra. Il numero 3 acquista un signi -ficato direzionale soltanto sulla base delle consegne date all'osservatore e della sua volontà di seguirle. Dunque, l'orientamento di cui abbiamo finora parlato è volontario (controllato). Se vuole, l'osservatore, dopo avere riconosciuto il numero 3, può dirigere l'attenzione dovunque o, anche, mantenerla sul punto di fissazione.

Prendiamo ora in considerazione i riquadri C e D della figura 4.1. Nel riquadro C, il secondo quadrato da destra comincia improv-

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visamente a lampeggiare. Nel riquadro D, una freccia compare im-provvisamente sotto lo stesso quadrato. Per il resto, la situazione sperimentale è identica a quella già descritta. In questo caso, però, le consegne sono superflue. Lo voglia o no, l'osservatore porterà l'at-tenzione sulla posizione segnalata, e dovrà esercitare un certo sforzo per non muovere anche gli occhi. Quando, poi, comparirà lo stimo-lo, si osserveranno benefici per le prove valide (se lo stimolo compa-re nel quadrato che ha lampeggiato o sotto il quale è stata presentata la freccia) e costi per le prove invalide (se lo stimolo compare in un quadrato diverso). Si noti che le prove neutre sono caratterizzate dal lampeggiare di tutti i quadrati o dalla presentazione di una freccia sotto ciascun quadrato.

Nel caso dei riquadri C e D, il segnale è stato presentato alla periferia del campo visivo (si parla di segnali periferici) e non è stato necessario interpretarlo: l'orientamento è avvenuto in modo automa-tico. Il riquadro B presenta un segnale misto perché la linea parte dal centro ma si dirige verso la periferia e non richiede molto impe-gno interpretativo.

Anche se la distinzione fra orientamento volontario e orienta -mento controllato dell'attenzione risale a James [1890], furono Pos-ner [1980a] e Jonides [1981] [cfr. anche Henderson e Macquistan 1993; Umiltà et el. 1991; Yantis e Jonides 1990] ad approfondirla sperimentalmente, con esplicito riferimento alla distinzione fra pro-cessi cognitivi automatici e controllati proposta precedentemente da Shiffrin e Schneider [1977], Jonides impiegò tre criteri per distin-guere i due tipi di orientamento: l'orientamento automatico, a diffe-renza di quello volontario, non può essere interrotto, non dipende dalle probabilità che la prova risulti valida e non è soggetto ad inter -ferenza da parte di un compito secondario (dell'interferenza prodotta da un compito secondario si parlerà in seguito, a proposito dell'aspetto intensivo dell'attenzione; si rimanda alle pp. 221-232).

Il primo criterio afferma, dunque, che l'orientamento automatico non può essere interrotto, mentre l'orientamento volontario può es-sere interrotto. Consideriamo il riquadro A della figura 4.1. Il sog-getto ha appena visto il numero 3 e sta dirigendo l'attenzione verso il quadrato corrispondente (orientamento volontario), quando im-provvisamente il quadrato 1 comincia a lampeggiare. Ciò che si os-serva è che l'orientamento volontario si interrompe ed è sostituito da un orientamento automatico verso il quadrato 1 (se lo stimolo com-pare qui, si hanno benefici). L'attenzione non raggiunge il quadrato 3 (se lo stimolo compare qui, non si hanno benefici ma costi).

Passiamo ora al riquadro C. Il quadrato 3 comincia a lampeggiare e ciò provoca l'orientamento automatico dell'attenzione verso quella posizione. Mentre l'orientamento automatico è in corso, co-mincia a lampeggiare anche il quadrato 1. L'orientamento automati-co non si interrompe e l'attenzione raggiunge prima il quadrato 3 e poi il quadrato 1. Ciò è dimostrato dal fatto che in un primo mo-

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mento si hanno benefici se lo stimolo compare nel quadrato 3 e costi se lo stimolo compare nel quadrato 1; successivamente la situazione si inverte e si hanno benefici nel quadrato 1 e costi nel quadrato 3.

In base al secondo criterio, solo l'orientamento volontario dipende dalle probabilità di comparsa dello stimolo nella posizione segnalata. Dunque, quando il segnale è un numero, i benefici ottenuti nelle prove valide e i costi pagati nelle prove invalide saranno maggiori se le probabilità di comparsa dello stimolo nel quadrato segnalato aumentano dal 50% al 90%. Se, invece, il segnale è, per esempio, una freccia alla periferia o un lampeggiamento, i benefici e i costi non cambiano quando la probabilità passa dal 50% al 90%.

In base al terzo criterio, la presenza di un compito secondario interferisce solo con l'orientamento volontario. Immaginiamo di fare svolgere ai nostri soggetti sperimentali il solito compito di orienta-mento dell'attenzione con segnali centrali o periferici. Questa volta, però, chiediamo di svolgere contemporaneamente un secondo compi-to, per esempio memorizzare una serie di parole che dovranno esse-re ricordate subito dopo. Ovviamente, nella situazione di controllo c'è un solo compito, cioè quello di orientamento dell'attenzione. Se il segnale è periferico (orientamento automatico), benefici e costi sono identici, indipendentemente dalla presenza o assenza del compito di memoria. Se, invece, il segnale è centrale (orientamento volontario), sia i benefici che i costi diminuiscono quando i soggetti devono an-che svolgere il compito di memoria.

Posner [1980a] e Jonides [1981] ritenevano che l'orientamento automatico e l'orientamento volontario, pur possedendo, come si è visto, caratteristiche diverse, dipendessero da un unico meccanismo che poteva essere innescato automaticamente da un segnale periferi-co, oppure controllato volontariamente dall'osservatore. L'evidenza empirica più recente, sembra, invece, dimostrare che esistono due meccanismi indipendenti, uno per l'orientamento automatico e l'altro per l'orientamento volontario. Per esempio, Muller e Rabbitt [1989; cfr. anche Koshino, Warner e Joula 1992], hanno usato sia segnali periferici che centrali e hanno osservato che i loro effetti sono additi -vi. Perciò, sulla base del principio dei fattori additivi introdotto da Sternberg [1969], hanno concluso che esistono due meccanismi indi-pendenti per l'orientamento dell'attenzione nello spazio.

Làdavas et al. [in stampa] sono giunti alla stessa conclusione per mezzo dello studio di pazienti con lesioni cerebrali localizzate, nei quali hanno osservato una doppia dissociazione (si rimanda a Shalli-ce [1988], per una discussione del metodo della doppia dissociazione nella ricerca neuropsicologica). I pazienti con lesioni al lobo parietale dimostrano difficoltà nell'orientamento automatico, mentre l'orienta-mento volontario è conservato. I pazienti con lesioni al lobo frontale presentano la dissociazione inversa, cioè difficoltà per l'orientamento volontario ma non per l'orientamento automatico.

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1.4. Il fuoco dell'attenzione

II fuoco dell'attenzione è stato descritto, metaforicamente, come un fascio di luce [Posner 1980a] o come il fuoco di una lente [Erik-sen e St. James 1986]. Sia un fascio di luce che il fuoco di una lente possono essere diretti su una posizione nello spazio. Questa posizio-ne viene ad essere illuminata (fascio di luce), oppure è rappresentata in modo più dettagliato rispetto al resto dello spazio (lente).

Entrambe le metafore pongono quesiti interessanti [Umiltà 1988al: come si muove il fuoco dell'attenzione nello spazio? Le di-mensioni del fuoco dell'attenzione sono variabili? Esiste una relazio-ne fra dimensioni del fuoco dell'attenzione ed efficienza di processa-mento degli stimoli che cadono al suo interno? Il fuoco dell'attenzio-ne ha dei confini netti rispetto allo spazio circostante oppure sfuma in modo graduale? Della prima domanda mi occuperò nel paragrafo successivo. L'ultima domanda non ha ancora ricevuto una risposta chiara. Qui di seguito presenterò i risultati di un esperimento che ha permesso di dare risposte affermative alle altre due domande [per una rassegna della letteratura, si rimanda a Umiltà 1988al.

Castiello e Umiltà [1990; 1992] hanno presentato ai loro soggetti sperimentali una configurazione come quella della figura 4.2. In ogni prova veniva prima presentato il punto di fissazione (la piccola croce centrale), poi, dopo un intervallo di 500 ms, veniva presentato un singolo quadrato vuoto. Il quadrato appariva, con uguale probabilità, a destra o a sinistra del punto di fissazione e aveva dimensioni diverse (il lato poteva essere di 1°, 2° o 3° di angolo visivo). Dopo la comparsa del quadrato trascorreva un intervallo molto breve (40 ms), oppure un intervallo più lungo (500 ms), alla fine del quale veniva presentato, al centro del quadrato, lo stimolo (una piccola croce, simile a quella che indicava il punto di fissazione). Vi era an-che una condizione di controllo, caratterizzata dalla presentazione si-multanea di due quadrati.

Le principali consegne date al soggetto erano, nel caso di un solo quadrato, di spostare l'attenzione sul quadrato (che agiva da segnale periferico e provocava un orientamento automatico dell'attenzione), fecalizzare l'attenzione sullo spazio delimitato dal quadrato e rispon-dere il più rapidamente possibile alla comparsa dello stimolo pre-mendo un pulsante (TR semplici). Nel caso dei due quadrati, le con-segne richiedevano di mantenere entrambi sotto controllo attentivo e di rispondere il più rapidamente possibile allo stimolo, dovunque ap-parisse.

Il soggetto era anche informato che il quadrato singolo segnalava che lo stimolo sarebbe certamente comparso al suo centro (prove valide, con probabilità del 100%), mentre quando i quadrati erano due, lo stimolo aveva la stessa probabilità di comparire al centro di uno dei due (prove neutre, con una probabilità del 50%).

L'analisi dei risultati permise di stabilire che i TR variavano in funzione delle dimensioni del quadrato, ma soltanto nel caso dell'in-

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FlG. 4.2.

tervallo più lungo fra il segnale (il quadrato o i quadrati) e lo stimolo a cui si doveva rispondere. Quando l'intervallo era di 500 ms, il TR medio era di 239 ms per il quadrato più piccolo (1° di lato), di 272 ms per il quadrato intermedio (2° di lato) e di 297 ms per il quadrato più grande (3° di lato). Quando l'intervallo era di soli 40 ms, il TR medio era praticamente identico, indipendentemente dalle dimensioni del quadrato (330, 329 e 332 ms).

La spiegazione proposta da Castiello e Umiltà [1990] fu che le dimensioni del fuoco dell'attenzione sono variabili e, perciò, si adat-tavano all'area, segnalata dal quadrato, dove sarebbe comparso lo sti -molo. L'operazione di dimensionamento del fuoco attentivo, però, richiedeva un certo tempo e non era ancora avvenuta dopo 40 ms (l'intervallo breve), mentre era già conclusa dopo 500 ms d'intervallo lungo).

Inoltre, sembra che l'efficienza di processamento sia funzione in-versa dell'area del fuoco attentivo. Era perciò massima per il quadrato piccolo e minima per il quadrato grande. È possibile che le risor se attentive (si rimanda alle pp. 221-227) siano fisse e che vengano maggiormente concentrate quando l'area coperta dal fuoco dell'atten-zione è più ristretta.

Il fatto che i TR siano più rapidi per un intervallo lungo che per un intervallo breve (269 ms contro 330), non è particolarmente inte-ressante e, probabilmente, riflette la migliore preparazione alla rispo-sta che si raggiunge dopo un certo tempo dalla comparsa del segnale di allerta (il quadrato o i quadrati, in questo caso).

Più interessante è che i TR per le prove valide fossero più rapidi dei TR per le prove invalide ad entrambi gli intervalli (284 ms con-tro 316). In altre parole, si osservava un beneficio attentivo circa uguale per i due intervalli. Ciò indica che 40 ms sono sufficienti per

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orientare l'attenzione verso il lato indicato dal segnale periferico (il quadrato): dopo 40 ms l'attenzione era già orientata verso il lato do -ve sarebbe comparso lo stimolo, anche se il fuoco non aveva ancora avuto il tempo di assumere le dimensioni più adatte per quel tipo di prova.

Un altro punto di grande interesse è che la relazione fra dimen-sioni del quadrato in cui compariva lo stimolo e TR medio si verifi-casse sia nelle prove valide, cioè con un solo quadrato (270, 284 e 297 ms) che nelle prove neutre, cioè con due quadrati (299, 318 e 331 ms). Ciò suggerisce che, come è stato successivamente confer-mato da Castiello e Umiltà [1992], un osservatore può produrre si -multaneamente due fuochi dell'attenzione, uno per campo visivo, e adattarli alle dimensioni dei due quadrati.

I quadrati delle figure 4.1 e 4.2 costituiscono degli oggetti salienti su uno sfondo omogeneo. Dunque, non è chiaro se il fuoco del-l'attenzione possa essere diretto su una posizione spaziale «vuota», indicata da un segnale centrale o periferico o se, invece, sia necessa-ria la presenza di un oggetto per permettere al fuoco dell'attenzione di operare. Ci si può chiedere se si otterrebbero gli stessi risultati se il quadrato che agisce da segnale fosse presente per un tempo molto breve. Sarebbe possibile, in queste circostanze, fare operare con ac-curatezza il fuoco dell'attenzione in uno spazio vuoto? La risposta sembra essere negativa [Castiello e Umiltà 1992; Driver e Baylis 1989]. È necessario un oggetto percettivo saliente che funzioni da bersaglio perché il fuoco dell'attenzione si sposti e venga regolato con precisione.

1.5. I movimenti del fuoco dell'attenzione

Si è appena detto che è necessario un oggetto che funzioni da bersaglio perché il fuoco dell'attenzione si sposti con precisione. Ciò fa sorgere il problema di come si muova il fuoco dell'attenzione nello spazio.

Si consideri, per esempio, il riquadro D della figura 4.1 (ma si tenga presente che ciò che si dirà si applica anche agli altri riquadri; i movimenti del fuoco dell'attenzione non sembrano avere caratteri-stiche molto diverse a seconda che l'orientamento sia automatico o volontario). Se quattro frecce, una per quadrato, segnalano una pro-va neutra, il fuoco dell'attenzione si allargherà in modo da interessa -re tutte le posizioni nelle quali può comparire lo stimolo. Non è, perciò, necessario che il fuoco dell'attenzione si sposti.

Supponiamo, invece, che la freccia compaia sotto un solo qua-drato (il secondo da destra, come nella figura) e che il soggetto ab -bia tempo per adattare il fuoco dell'attenzione alle dimensioni di quel quadrato. Contrariamente alle aspettative, lo stimolo compare invece nel primo quadrato da sinistra. Si tratta, dunque, di una pro -va invalida. Il fuoco dell'attenzione deve essere spostato da un qua-

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drato all'altro. La domanda è: come si sposta il fuoco dell'attenzione, senza che si muovano gli occhi? Le possibili modalità di spostamento sono state discusse in dettaglio da Umiltà [1988a]. Qui mi limite rò ad accennare alle principali.

Se si assume che la metafora giusta per descrivere il fuoco del-l'attenzione sia quella del fascio di luce, il fuoco si muoverà in modo continuo, cioè, andando dalla posizione di partenza a quella di arri -vo, occuperà tutte le posizioni intermedie. Ma può farlo sia a veloci -tà costante che a tempo costante. Se si muove a velocità costante, andrà ad «illuminare», in momenti successivi, posizioni sempre più lontane da quella di partenza. Poiché la velocità di movimento è co-stante, il tempo impiegato per raggiungere la posizione finale aumen-terà in funzione della distanza da percorrere.

Se, invece, il fuoco dell'attenzione si muove a tempo costante, impiegherà sempre lo stesso tempo a raggiungere la posizione finale, indipendentemente dalla distanza che deve percorrere. Ciò, ovvia-mente, richiede che la velocità aumenti in funzione della distanza. Gli occhi sembrano muoversi proprio così: la velocità tende ad au-mentare in funzione della distanza, così da compensare, almeno in parte, le differenze nelle distanze che devono essere percorse.

Se si assume che la metafora giusta per descrive il fuoco dell'at-tenzione sia il fuoco di una lente, si possono fare altre previsioni. Quando lo stimolo compare in un quadrato diverso da quello sul quale si era fecalizzata l'attenzione, il diametro del fuoco si allargherà fino a comprendere il quadrato nel quale è inaspettatamente comparso lo stimolo, e poi si restringerà sul nuovo bersaglio. In questo caso, avverrà una sorta di «salto» fra la posizione di partenza e la posizione di arrivo, senza che vengano ad essere interessate le posizioni intermedie. Inoltre, il tempo di spostamento non dovrebbe dipendere dalla distanza da percorrere.

Nell'esperimento di Umiltà et al. [1991], descritto in precedenza (riquadro A della figura 4.1), si è trovato che il tempo necessario per riorientare il fuoco dell'attenzione in una prova invalida aumenta con la distanza da percorrere: 253 ms per una distanza di 4°, 268 ms per una distanza di 8° e 282 ms per una distanza di 12°. Si è anche osservato che, a parità di distanza da percorrere (4°), è neces-sario un tempo maggiore quando il riorientamento avviene attraverso il meridiano che divide le due metà del campo visivo rispetto a quando il riorientamento avviene all'interno dello stesso campo (253 ms contro 233). Questi risultati possono essere facilmente interpretati se si assume che il fuoco dell'attenzione si muova a velocità co-stante e che, perciò, impieghi tempi più lunghi a raggiungere posi -zioni più lontane.

Altri autori [Shulman, Remington e McLean 1979; Tsal 1983] hanno affrontato lo stesso problema. La procedura consisteva nel presentare un segnale centrale o periferico che dava inizio ad un mo-vimento del fuoco dell'attenzione verso la posizione segnalata. Per esempio, nel riquadro A della figura 4.1, l'attenzione è inizialmente

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fecalizzata sul quadrato 1, poi un segnale indica che la posizione più probabile per la comparsa dello stimolo è il quadrato 4. Ciò da ori-gine ad un orientamento dal quadrato 1 al quadrato 4. Di solito, lo stimolo viene presentato, 200 ms dopo il segnale, nel quadrato 4. La prova è valida e si osserva un beneficio rispetto ad una situazione di controllo.

Più interessante è ciò che succede quando lo stimolo viene pre-sentato inaspettatamente (prove invalide) nel quadrato 2 o nel qua-drato 3. Se l'intervallo fra il segnale e lo stimolo è breve (diciamo, 50 o 100 ms), i benefici si osservano in queste posizioni intermedie. In particolare, i benefici si osservano nel quadrato 2 per un interval lo di 50 ms e nel quadrato 3 per un intervallo di 100 ms.

L'interpretazione è piuttosto chiara: il fuoco dell'attenzione si muove a velocità costante e in modo continuo lungo una traiettoria, così che è possibile intercettarlo, in momenti successivi, su posizioni successive lungo il percorso che porta dalla posizione di partenza alla posizione di arrivo.

1.6. Il gradiente attentivo

In base a quanto detto finora, appare indubbio che il fuoco del -l'attenzione può spostarsi nello spazio in assenza di movimenti ocula -ri. Non c'è modello dell'attenzione spaziale che neghi questo punto cruciale. I modelli differiscono, invece, sulle caratteristiche di questo movimento. Si pensa a un movimento continuo di velocità costante (a mio parere, l'evidenza empirica è a favore di questa possibilità), oppure a un movimento continuo con tempo costante, oppure anche a un movimento discontinuo, a «salti».

Il movimento del fuoco dell'attenzione dopo un segnale periferi -co o centrale spiega bene i benefici attentivi che si ottengono nelle prove valide. Lo stimolo appare nella posizione interessata dal fuoco dell'attenzione e viene processato più rapidamente e più accurata-mente a paragone di quanto avviene in una situazione di controllo.

Più controversa è la spiegazione da dare ai costi che si pagano nelle prove invalide, cioè quando lo stimolo appare in una posizione diversa da quella interessata dal fuoco dell'attenzione. Ovviamente, è possibile che i costi siano dovuti, come si è detto, al tempo necessa-rio a riorientare il fuoco dell'attenzione. Poiché lo stimolo appare in una posizione mentre l'attenzione era fecalizzata su un'altra posizio-ne, il fuoco dell'attenzione deve essere riorientato e ciò richiede tem-po. Questo tempo si riflette nei TR, causando un costo in termini di rapidità di risposta.

Se il riorientamento avviene in modo discontinuo o a tempo co-stante, non ci sarà relazione fra TR e distanza, fra posizione dove era fecalizzata l'attenzione e posizione stimolata. Se, come sembra indi-

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care l'evidenza empirica, il riorientamento avviene a velocità costan-te, ci sarà una relazione fra distanza da percorrere e TR.

I costi si possono, però, spiegare ricorrendo ad un modello del tutto diverso, che non invoca una operazione di riorientamento nel caso di una prova invalida. Secondo questo modello [Downing e Pinker 1985; LaBerge e Brown 1989], dopo la presentazione di un segnale, il fuoco dell'attenzione si muove e raggiunge la posizione indicata. Nel campo visivo si viene a creare un gradiente di risorse attentive che ha il suo massimo in coincidenza della posizione del fuoco dell'attenzione e da qui decade in modo più o meno lineare con l'aumentare della distanza dal fuoco dell'attenzione.

I TR, ad uno stimolo che compare in una posizione data, sarebbero inversamente proporzionali alla quantità di risorse attentive disponibili in quella posizione. I TR raggiungerebbero, perciò, la rapidità massima nella posizione occupata dal fuoco dell'attenzione (prove valide) perché qui c'è la massima concentrazione di risorse attentive. Nel caso delle prove invalide, non si verificherebbe alcun riorientamento dell'attenzione. I TR sarebbero più lenti perché nelleposizioni non interessate dal fuoco dell'attenzione le risorse attentivedisponibili sarebbero minori. Poiché le risorse attentive decadonocon l'aumentare della distanza dal fuoco dell'attenzione, il modellonon ha difficoltà a spiegare perché esista una relazione inversa fradistanza dal fuoco dell'attenzione e rapidità dei TR.

Questo modello non è economico perché deve ricorrere a due meccanismi diversi per spiegare benefìci e costi. I benefici sarebbero dovuti a movimenti del fuoco dell'attenzione nello spazio, che provo-cano spostamenti del punto di massima concentrazione di risorse at-tentive. I costi sarebbero dovuti ad una minore disponibilità di risor-se attentive nella posizione in cui cade lo stimolo. Il modello non incontra, però, una grossa difficoltà che, invece, devono affrontare gli altri modelli.

Per illustrare questa difficoltà, è utile fare, ancora una volta, ri -corso al riquadro A della figura 4.1. Il segnale numerico ha diretto il fuoco dell'attenzione sul quadrato 3. La prova è invalida e lo stimolo appare nel quadrato 1. I modelli che spiegano i costi in base a un'o-perazione di riorientamento sostengono che il fuoco dell'attenzione deve essere spostato dal quadrato 3 al quadrato 1 e ciò richiede tem-po (probabilmente, tanto più tempo quanto maggiore è la distanza da percorrere). Ci si può ragionevolmente chiedere come possa il fuoco dell'attenzione dirigersi proprio dove è comparso lo stimolo. La risposta può essere che lo stimolo è già stato rilevato e la sua posizione è già stata individuata.

II problema diventa allora spiegare perché, se lo stimolo è stato già rilevato, non viene data subito la risposta, senza riorientareil fuoco dell'attenzione. Infatti, la consegna è di rispondere subito,appena lo stimolo è stato rilevato, indipendentemente dalla sua posizione.

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Una possibilità è che una risposta arbitraria, come schiacciare un pulsante alla comparsa di una luce, possa essere data soltanto se lo stimolo è percepito coscientemente e uno stimolo può raggiungere il livello di coscienza soltanto se cade all'interno del fuoco dell'attenzio-ne [Posner 1980a; 1980b] (per una discussione più approfondita, si rimanda alle pp. 239-245).

Dunque, il semplice rilevamento dello stimolo sarebbe sufficiente a guidare il riorientamento del fuoco dell'attenzione, ma non sarebbe sufficiente per permettere una risposta arbitraria. Perché la risposta arbitraria sia data, è necessario che lo stimolo entri nel fuoco dell'at-tenzione.

L'ipotesi del gradiente non richiede una spiegazione così com-plessa perché prevede che lo stimolo provochi immediatamente una risposta, dovunque compaia. La velocità della risposta dipende, pe-rò, dalla quantità di risorse attentive disponibili in quella posizione.

2. L'attenzione selettiva

Abbiamo visto che un osservatore umano è in grado di selezio-nare una posizione nello spazio (probabilmente, a condizione che sia marcata da un oggetto percettivamente saliente) e che l'informazione proveniente da questa posizione è elaborata in modo particolarmente efficiente. Quando la caratteristica che è oggetto della selezione at-tentiva è la posizione nello spazio, si parla di attenzione spaziale.

La posizione nello spazio è una caratteristica particolarmente im-portante per la selezione attentiva [Keele et al. 1988; Nissen 1985], ma, certamente, non è l'unica che possa essere selezionata. Immagi-niamo un esperimento nel quale si presentino su uno schermo degli stimoli che differiscono per colore (per esempio, possono essere ros-si, gialli o verdi), per forma (quadrati, triangoli o cerchi) e per di -mensione (1° o 3° di angolo visivo). Il compito è di rilevare la pre -senza di uno stimolo bersaglio, che è, di volta in volta, definito da una sola caratteristica (per esempio, il colore), o dalla combinazione di due caratteristiche (colore e forma), oppure dalla combinazione di tre caratteristiche (colore, forma e dimensione). Dunque, in una pro-va il bersaglio può essere un qualsiasi stimolo di colore rosso; in un'altra prova il bersaglio può essere un quadrato rosso; in un'altra prova ancora, il bersaglio può essere un quadrato rosso di 3°.

Se il tempo di esposizione è sufficientemente lungo e le caratteri -stiche sono ben discriminabili, il compito risulta facile. Il soggetto non ha difficoltà a selezionare le caratteristiche rilevanti per indivi-duare il bersaglio. Questo è un tipico compito di attenzione selettiva. Si osservano, però, delle interessanti differenze nella prestazione, a seconda che il bersaglio sia definito da una sola caratteristica oppure dalla combinazione di due o più caratteristiche.

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2.1. Processamento preattentivo e attentivo

Secondo Treisman [Treisman 1988; Treisman e Gelade 1980], le singole caratteristiche di uno stimolo sono processate senza l'inter-vento dell'attenzione (in modo preattentivo, dunque). L'attenzione (localizzata) è invece necessaria per combinare le caratteristiche.

Nell'esempio precedente, colore, forma e dimensione sarebbero processate in parallelo e preattentivamente. Quando il bersaglio è definito da una sola caratteristica (il colore) il compito viene svolto in modo estremamente rapido e il tempo di risposta è indipendente dal numero di «distrattori», cioè di stimoli che non contengono la caratteristica che definisce il bersaglio. Se l'unica caratteristica rile-vante è il colore rosso, uno stimolo rosso viene individuato altrettan-to rapidamente quando è mescolato a 5, 10, o 15 stimoli di colore diverso.

La situazione cambia radicalmente quando il bersaglio è definito dalla combinazione di due caratteristiche. Se il bersaglio è un qua -drato rosso, allora deve intervenire l'attenzione focalizzata, che opera in modo seriale, spostandosi sui vari stimoli fino a quando il bersa-glio è individuato, oppure tutti gli stimoli sono stati esaminati. In questo caso, ovviamente, il tempo di risposta aumenta con l'aumen-tare del numero di distrattori. Il tempo necessario a individuare il bersaglio sarà più lungo in presenza di 10 distrattori che in presenza di 5 distrattori, e ancora più lungo in presenza di 15 distrattori.

Quando l'attenzione focale opera in condizioni difficili, possono verificarsi delle «congiunzioni illusone». Treisman e Schmidt [1982] mostravano ai loro soggetti gruppi di tre lettere colorate (per esem-pio, A rosse e H verdi) fiancheggiate sui due lati da due numeri neri. Il tempo di esposizione era di soli 100 ms e poi gli stimoli venivano mascherati. Il compito consisteva nell'individuare prima i due numeri e poi le tre lettere, nella sequenza corretta. In queste circostanze si osservavano congiunzioni illusone: i soggetti combina-vano in modo errato la caratteristica forma con la caratteristica colo-re e individuavano inesistenti A verdi e H rosse.

La spiegazione proposta da Treisman e Schmidt [1982] fu che forma e colore vengono processati in parallelo e in modo preattenti -vo. Il soggetto ha, perciò, rapidamente a disposizione l'informazione relativa alla forma (presenza di A e di H) e al colore (presenza di rosso e di verde). Solo successivamente le due caratteristiche vengo-no combinate, grazie all'intervento dell'attenzione focalizzata. Se l'at-tenzione focalizzata opera in condizioni ottimali, si formano le con-giunzioni corrette e il soggetto vede A rosse e H verdi. Se l'attenzione focalizzata opera in condizioni non ottimali, il soggetto vede anche congiunzioni illusone, come A verdi e H rosse.

Un buon esempio di che cosa Treisman intenda per processa-mento preattentivo e attentivo, lo si può trovare in un lavoro di Treisman e Souther [1985] (cfr. supra, cap. Ili, p. 129). In una condizione (fig. 4.3a), al soggetto venivano mostrati su uno schermo

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dei cerchietti (2, 6 o 12) e il compito (compito di ricerca visiva) consisteva nel decidere se uno di essi conteneva un trattino verticale. Il soggetto premeva un pulsante per la risposta affermativa (appunto, il caso della fig. 43a) e un altro pulsante per la risposta negativa. Il compito era, perciò, di TR di scelta e gli stimoli restavano visibili fino a quando la risposta non era stata fornita.

La condizione sperimentale illustrata nella figura 4.3b è identica, a parte il fatto che ora il bersaglio è il cerchietto senza trattino, men-tre i distrattori hanno tutti il trattino. Perciò, anche l'esempio della figura 43b richiede una risposta affermativa.

La figura 4.4 dimostra come i risultati siano molto diversi nelle due condizioni sperimentali. Quando il bersaglio da rilevare è il cer-chietto con il trattino, il TR medio non è influenzato in modo signifi-cativo né dal numero di elementi presentati (2, 6 o 12), né dal fatto che la risposta sia affermativa (bersaglio presente) o negativa (bersa-glio assente). Il TR è sempre di circa 420 ms. Questo è esattamente il risultato da attendersi se tutti gli elementi vengono processati in parallelo, simultaneamente.

Quando il bersaglio è il cerchietto senza trattino, il TR medio aumenta con l'aumentare degli elementi presentati ed è più lungo per una risposta negativa che per una risposta affermativa. Le diffe-renze sono sensibilissime, dal momento che il TR varia da circa 475 ms (risposta affermativa con 2 soli elementi) a circa 950 ms (risposta negativa con 12 elementi). Questo risultato dimostra che la ricerca del bersaglio avviene in modo seriale ed autoterminante. In altre pa-role, i singoli elementi vengono esaminati ad uno ad uno in tempi successivi (ciò causa l'aumento del TR in funzione del numero di elementi presentati) e la ricerca si interrompe quando il bersaglio è individuato (ciò causa un TR più lungo per le risposte negative ri-spetto alle risposte affermative).

I risultati riportati nella figura 4.4 dimostrano che in un caso (cerchietto con trattino) il processamento avviene in parallelo, men-tre nell'altro caso (cerchietto senza trattino) il processamento avviene in modo seriale e autoterminante (per un'approfondita discussione dei vari modi di processamento, si rimanda a Corcoran [1971]). Sembra anche chiaro che il processamento seriale autoterminante è dovuto alla scansione operata dal fuoco dell'attenzione, che viene ad interessare, una dopo l'altra, le posizioni che possono contenere il bersaglio.

È, invece, legittimo dubitare che il processamento in parallelo sia preattentivo. Diversi studi hanno dimostrato che il processamento in parallelo si verifica anche in compiti nei quali il bersaglio è definito dalla combinazione di due caratteristiche o dall'assenza di una carat-teristica [cfr., per esempio, Duncan e Humphreys 1992; McLeod, Driver e Crisp 1988]. Ciò significa che, contrariamente all'ipotesi di Treisman, anche il modo attentivo ammette il processamento in pa-rallelo, oppure che anche la combinazione di caratteristiche può av-venire a livello preattentivo. Inoltre, come si è visto parlando dell'at-

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6

Numero di elementi

Fio. 4.4.

12

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tenzione spaziale, il fuoco dell'attenzione è di dimensioni variabili. È probabile, perciò, che, quando nei compiti di Treisman il bersaglio è definito da una sola caratteristica, il processamento sia attentivo ma il fuoco dell'attenzione sia abbastanza ampio da coprire tutta la con-figurazione [Braun e Sagi 1990; Mack et al. 1992; Rock et al. 1992]. Il fatto che il TR medio sia più breve quando il fuoco copre tutta la configurazione (fig. 4.4), non contraddice il principio della relazione inversa fra dimensioni del fuoco dell'attenzione ed efficien-za di processamento. Infatti, il rallentamento della risposta che si os-

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serva, nelle situazioni sperimentali impiegate da Treisman, quando il fuoco dell'attenzione è più ristretto va attribuito al tempo necessario a spostarlo da una posizione all'altra (processamento seriale).

Duncan e Humphreys [1989] hanno convincentemente argomen-tato che il processamento preattentivo porta semplicemente alla seg-mentazione del campo visivo in oggetti percettivamente salienti. Suc-cessivamente interverrebbe l'attenzione per il processamento delle ca-ratteristiche che sono necessarie allo svolgimento del compito. Nelle situazioni sperimentali mostrate nella figura 4.3, il processamento preattentivo farebbe emergere le posizioni rilevanti (i cerchietti) ri-spetto allo sfondo. L'attenzione poi opererebbe in parallelo (fig. 43a) oppure in serie (fig. 4.3b) per la ricerca del bersaglio.

2.2. Il destino dell'informazione non rilevante

L'attenzione selettiva permette, come si è visto, di selezionare l'informazione rilevante per lo svolgimento di un compito. Ci si può chiedere che fine faccia l'informazione non rilevante. Se la caratteri -stica rilevante è, per esempio, il colore, l'attenzione selettiva opera sul colore e la decisione sul tipo di risposta da fornire si basa sul risultato del processamento del colore. Lo stimolo, però, ha anche una forma e un orientamento, possiede delle dimensioni (può essere grande o piccolo) e occupa una posizione nello spazio. Qual è il de-stino dell'informazione relativa a forma, orientamento, dimensioni e posizione?

Vedremo che a questo proposito esistono due posizioni teoriche contrapposte: l'ipotesi della selezione precoce e l'ipotesi della selezio -ne tardiva. La prima sostiene che il processamento dell'informazione non rilevante viene bloccato molto presto. La seconda sostiene che il processamento dell'informazione non rilevante è praticamente com-pleto. Prima, però, di discutere queste due ipotesi, è necessario prendere in esame alcune situazioni sperimentali che possono aiutare a chiarire il problema. Si tratta delle situazioni sperimentali che pro-ducono gli «effetti» Simon, Stroop, Navon e il priming negativo.

L'effetto Simon .,

Questo effetto fu descritto per la prima volta da Simon [1969] ed è stato poi oggetto di studio particolarmente in relazione al pro-blema più generale della «compatibilita spaziale stimolo-risposta» [per una rassegna, si rimanda a Umiltà e Nicoletti 1990]. Qui lo illustreremo sulla base di un lavoro di Nicoletti e Umiltà [1989].

La situazione sperimentale è mostrata nella figura 4.5, dove la piccola croce centrale indica il punto di fissazione, mentre i 6 rettan-goli vuoti, disposti a 2°, 6° e 10° di angolo visivo a sinistra e a destra del punto di fissazione, indicano le posizioni spaziali nelle quali pote-vano comparire gli stimoli da discriminare. Gli stimoli, un piccolo

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ATTENZIONE E COSCIENZA 203

quadrato o un piccolo rettangolo, venivano presentati, uno alla volta e in modo casuale, dentro uno qualsiasi dei rettangoli vuoti. Il com-pito del soggetto era molto semplice: premere un pulsante posto a sinistra della linea mediana del corpo per il quadrato e un pulsante posto a destra per il rettangolo. La durata degli stimoli era di 100 ms e veniva misurata la latenza della risposta (TR di scelta).

FIG. 4.5.

Al soggetto veniva richiesto di eseguire una discriminazione di forma (quadrato contro rettangolo) e l'unica caratteristica rilevante dello stimolo era la forma. In particolare, la sua posizione spaziale era del tutto irrilevante: quadrato e rettangolo richiedevano, infatti, la stessa risposta, dovunque fossero comparsi. L'effetto Simon emer-geva perché i TR erano più rapidi quando posizione dello stimolo e posizione della risposta coincidevano (entrambe sinistra o destra) ri-spetto a quando non coincidevano (una sinistra e l'altra destra). In questo particolare esperimento, l'effetto Simon fu in media di 31 ms (TR medio di 453 ms quando le posizioni coincidevano e di 484 ms quando non coincidevano).

In questo contesto, l'effetto Simon è interessante perché dimostra che una caratteristica non rilevante dello stimolo (la sua posizione nello spazio) ha un effetto sulla rapidità della risposta fornita in base alla caratteristica rilevante (la forma).

Probabilmente, l'orientamento automatico dell'attenzione, causato dalla comparsa dello stimolo alla periferia del campo visivo, porta alla codifica della sua posizione spaziale; la presenza di questo codice spaziale irrilevante può poi facilitare o rallentare la formazione del codice spaziale, rilevante, della risposta [Umiltà 1991; Umiltà e Nico-letti 1992]. Per esempio, se il quadrato richiede una risposta con il pulsante di sinistra, alla sua comparsa il codice «sinistra» deve essere formato per selezionare la risposta corretta. Se lo stimolo ha prodot to il codice «sinistra», il codice per la risposta è formato più rapidamente rispetto a quando lo stimolo ha prodotto il codice «destra». Ciò anche se il codice spaziale dello stimolo non ha alcuna rilevanza per la scelta della risposta corretta.

L'effetto Stroop

Questo effetto, descritto per la prima volta da Stroop [1935], è

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stato oggetto di un numero veramente impressionante di studi [per una rassegna, si rimanda a MacLeod 1991]. Ovviamente, numerosis-sime sono state anche le procedure sperimentali impiegate. Qui farò riferimento alla procedura attualmente più in uso (molto diversa da quella originale di Stroop), riportando un importante studio di Gla-ser e Glaser [1982].

Gli stimoli erano le parole «rosso», «giallo», «verde» e «blu», presentate su uno sfondo di colore rosso, giallo, verde o blu. La pa-rola e il colore potevano essere congruenti (per esempio, «rosso» su sfondo rosso) oppure incongruenti (per esempio, «rosso» su sfondo verde). Vi erano poi delle stringhe di I maiuscole e uno sfondo gri-gio (stimoli neutri). Il compito dei soggetti era di pronunciare a voce alta il nome del colore, oppure di leggere la parola. Venivano regi-strati i TR vocali. Una manipolazione sperimentale importante era anche che il colore poteva precedere o seguire la parola di 400, 300, 200 o 100 ms. Ovviamente, colore e parola potevano anche apparire simultaneamente. La simultaneità è la procedura sperimentale di soli to impiegata per ottenere l'effetto Stroop e questa, perciò, è la con-dizione che qui interessa di più.

Quando il compito era di dire il nome del colore, i TR erano nettamente più rapidi (88 ms in media) per gli stimoli congruenti (colore rosso-parola «rosso») che per gli stimoli incongruenti (colore rosso-parola «verde»). L'interferenza della parola sulla denominazio-ne del colore è, appunto, l'effetto Stroop.

Non vi era in questo studio, anche se è stato trovato, ma rara-mente, da altri, l'effetto Stroop inverso. I TR per la lettura erano praticamente identici (la differenza era di soli 2 ms) per le due con-dizioni con sfondo congruente e sfondo incongruente.

Nessuna spiegazione convincente è stata ancora trovata per l'ef-fetto Stroop, anche se molte sono state proposte [MacLeod 1991], La spiegazione più ovvia, e anche la più antica, è in termini di com-petizione per la risposta. Sia il colore che la parola competono per avere accesso al sistema di risposta, ma normalmente la parola arriva prima, perché, per un adulto non analfabeta, il processo di lettura è più automatico del processo di denominazione del colore. Perciò, quando il compito è di denominazione, il nome del colore trova il sistema di risposta già occupato dalla parola. Se la parola è con -gruente, la risposta è facilitata, se la parola è incongruente, la rispo-sta è ritardata.

Questa spiegazione, pur semplice e attraente, va però respinta proprio sulla base dei risultati di Glaser e Glaser [1982], i quali tro-varono un effetto Stroop anche quando il colore precedeva di 200 ms la parola. Se l'interferenza della parola sulla denominazione del colore dipendesse da una differenza nella velocità di processamento, concedere al colore un vantaggio di partenza di 200 ms dovrebbe portare all'annullamento dell'effetto Stroop.

MacLeod [1991] sostiene che l'interpretazione più convincente è in termini di «forza» relativa delle vie che portano alla lettura della

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S s s o oFlG. 4.6.

parola e alla denominazione del colore. Questa interpretazione si ba -sa anche su di un modello connessionista proposto da Cohen, Dum-bar e McClelland [1990], del quale parlerò più avanti (cfr. infra, pp. 213-221). Ciò che è importante qui, è che una caratteristica non rile-vante dello stimolo (il significato della parola) ha un effetto sulla ra-pidità della risposta fornita sulla base di una caratteristica rilevante (il colore dello sfondo).

L'effetto Navon

Questo effetto fu descritto da Navon [1977] e successivamente è stato oggetto di diversi studi, volti a chiarire le condizioni che lo producono e, soprattutto, a dimostrarne l'origine attentiva [rassegne della letteratura si possono trovare in Kimchi 1992; Stablum e Si-mion 1986]. In una situazione paradigmatica (cfr., per esempio, Lamb e Robertson [1988] e la fig. 4.6), al soggetto vengono presen-tate delle lettere grandi (livello globale) composte da lettere piccole (livello locale). Sia a livello globale che a livello locale, le lettere pos-sono, per esempio, essere delle H o delle S. Vengono così a crearsi quattro combinazioni globale-locale, due congruenti (una H globale formata da H locali, oppure una S globale formata da S locali) e due incongruenti (una H globale formata da S locali, oppure una S glo-bale formata da H locali).

Il soggetto ha a disposizione due pulsanti, uno per la risposta H e uno per la risposta S. Il compito è perciò quello tipico dei TR di scelta. Le consegne al soggetto sono di due tipi: a volte deve tenere conto del livello globale e trascurare il livello locale (una H globale richiede la risposta H, indipendentemente dal fatto che sia formata da H o S locali); a volte, invece, deve tenere conto del livello locale (una H globale formata da S locali e una S globale formata da S

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locali, richiedono entrambe una risposta S). È chiaro che la conse-gna di tipo globale induce il soggetto a dirigere l'attenzione sul livel-lo globale, mentre la consegna di tipo locale induce il soggetto a diri -gere l'attenzione sul livello locale.

L'effetto Navon è in realtà scomponibile in due effetti indipen-denti [Robertson e Lamb 1991]. Il primo, meno interessante in que -sto contesto, è che i TR sono più rapidi quando il livello rilevante per la risposta è quello globale piuttosto che quello locale (la diffe-renza dipende da molti fattori, ma in media è di circa 100 ms). Il secondo effetto, più interessante, è che, nel caso delle combinazioni globale-locale incongruenti, vi è un effetto di interferenza asimmetri -co. Quando il livello rilevante è quello locale, la presenza di una let-tera incongruente a livello globale (non rilevante) provoca un netto rallentamento dei TR (l'interferenza è di circa 150 ms). Quando il livello rilevante è quello globale, la presenza di lettere incongruenti a livello locale (non rilevante) produce un'interferenza molto più pic-cola o addirittura nulla.

// «prirning» negativo

L'effetto Stroop e l'effetto Navon sono molto interessanti perché sembrano dimostrare come l'informazione non rilevante (informazione sulla quale l'osservatore, presumibilmente, non dirige l'attenzione), a volte interferisce con la risposta fornita sulla base dell'informazione rilevante, mentre, altre volte, non ha alcuna influenza. Nel caso dell'effetto Stroop, il significato della parola interferisce con la rispo-sta data sulla base del colore, mentre il colore non interferisce con la risposta data sulla base del significato della parola. Nel caso dell'ef-fetto Navon, il livello globale interferisce con la risposta data in base al livello locale, mentre il livello locale non interferisce con la risposta data in base al livello globale.

Come già detto, al problema del ruolo dell'attenzione nell'elabo-razione dell'informazione dedicherò un'apposito paragrafo. Prima, però, è opportuno porsi due domande: È veramente possibile soste-nere che nelle situazioni sperimentali appena descritte l'attenzione non sia diretta sull'informazione non rilevante? La mancanza di in-terferenza è prova sufficiente per sostenere che l'informazione non rilevante non ha avuto alcun effetto?

Mi sembra che l'evidenza empirica permetta di rispondere nega-tivamente alla prima domanda. Nelle situazioni paradigmatiche per la dimostrazione degli effetti Simon, Stroop e Navon, l'attenzione spaziale è diretta sia sull'informazione rilevante che su quella non ri-levante. Nell'effetto Simon, l'attenzione si orienta verso la posizione spaziale nella quale è comparso lo stimolo. Nell'effetto Stroop, colore e parola compaiono nella stessa posizione spaziale. Nell'effetto Na-von, il fuoco dell'attenzione deve dirigersi sulla posizione delimitata

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dal livello globale e poi, eventualmente, restringersi su una delle let-tere che costituiscono il livello locale.

Se si impedisce al soggetto di muovere l'attenzione spaziale verso lo stimolo, l'effetto Simon scompare [Umiltà e Nicoletti 1992]. Se l'attenzione spaziale è attratta da un distrattore che compare alla pe -riferia del campo visivo, oppure la parola interferente è allontanata dal colore che deve essere nominato, l'effetto Stroop diminuisce o scompare [Kahneman e Chajczyk 1983; Kahneman e Henik 1981]. Se si induce il soggetto a distribuire in modo uniforme l'attenzione spaziale fra il livello globale e il livello locale, l'effetto Navon diventa simmetrico [Miller 1981].

Si può, perciò, concludere che gli effetti Simon, Stroop e Navon, probabilmente evidenziano una difficoltà dell'attenzione selettiva ad operare nella posizione dello spazio dove è diretta l'attenzione spa-ziale, piuttosto che un'elaborazione non attentiva dell'informazione non rilevante.

La risposta alla seconda domanda richiede una breve descrizione dell'effetto di priming negativo. Il termine priming è di solito impiega-to per indicare una facilitazione (cfr. infra, cap. VI, p. 354): la rispo-sta ad un dato stimolo è facilitata quando lo stimolo che lo ha prece-duto aveva certe caratteristiche. Nel caso del priming negativo, inve-ce, la risposta ad uno stimolo è rallentata a causa delle caratteristiche dello stimolo che l'ha preceduto.

L'effetto di priming negativo è emerso dalle ricerche di Tipper e collaboratori [Allport, Tipper e Chmiel 1985; Tipper 1985; per una rassegna, si rimanda a Stablum e Pavese 1992]. Qui sarà descritto facendo riferimento ad un lavoro, più recente, di Driver e Tipper [1989]. La situazione sperimentale è schematizzata nella figura 4.7.

Primo stimolo

H H c 4 4 Y M 2 M

C H 4 4 2 2

H C H Y 4 Y 2 2 M

Secondo stimolo A D A D

A A

FlG. 4.7.

Le quattro configurazioni erano presentate su di uno schermo una alla volta per 200 ms ed erano immediatamente seguite da un mascheramento di 100 ms. Il compito del soggetto era di dire a voce alta, il più rapidamente possibile (TR vocali), il numero di elementi di colore rosso (in grassetto, nella figura), trascurando gli elementi di

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colore nero (chiari, nella figura). Dunque, per le tre configurazioni poste in alto nella figura 4.7, la risposta corretta era sempre «tre», perché questo è il numero di elementi rossi.

Le tre configurazioni differiscono per i distrattori, cioè gli ele-menti neri non rilevanti: nella prima configurazione a partire da sini -stra si tratta di lettere (H), mentre nelle altre due si tratta di numeri (4 o 2 ) .

Se gli elementi non rilevanti fossero processati, ci si dovrebbe attendere un'interferenza (TR più lenti) nel caso dei numeri. Ciò perché il soggetto, al momento della selezione della risposta, avrà a disposizione una risposta («tre») prodotta dal conteggio degli ele-menti rilevanti e un'altra risposta («quattro» o «due») prodotta dal processo di lettura, presumibilmente molto rapido, degli elementi non rilevanti. Quando gli elementi non rilevanti sono lettere, non ci dovrebbe essere interferenza, perché il rapido processo di lettura non produce una risposta in grado di competere con la risposta ri -chiesta dal compito.

I risultati dimostrarono che i TR per le tre configurazioni erano praticamente identici: rispettivamente, 621, 619 e 619 ms. Si poteva sostenere, perciò, che gli elementi non rilevanti non avevano alcun effetto sul TR per gli elementi rilevanti. Ma si poteva anche conclu-dere che gli elementi non rilevanti non erano stati processati?

In base a quanto si è detto a proposito dell'interferenza asimme-trica che si osserva negli effetti Stroop e Navon, sembrerebbe di po-ter concludere in senso affermativo. I numeri neri non influenzano la risposta ai numeri rossi (esattamente come il colore non influenza la risposta alla parola nell'effetto Stroop, o come il livello locale non influenza la risposta al livello globale nell'effetto Navon). Invece, la presentazione, dopo circa 1,5 s, di una nuova configurazione (quella in basso nella figura 4.7) dimostrò che gli elementi non rilevanti era-no stati processati.

La risposta corretta per la configurazione in basso nella figura 4.7 era «due», perché questo è il numero di elementi rilevanti (rossi) in essa contenuti. Solo la configurazione in alto a destra contiene dei 2 neri (non rilevanti). Tuttavia, se gli elementi non rilevanti non fos-sero processati, questa circostanza sarebbe dovuta risultare ininfluen-te. I risultati dimostrarono il contrario. I TR alla configurazione in basso dipendevano da quale delle tre configurazioni in alto l'aveva preceduta: 587 ms se era stata la prima da sinistra (degli H, come elementi non rilevanti), 593 ms se era stata quella di centro (dei 4, come elementi non rilevanti) e 616 ms se era stata l'ultima a destra (dei 2, come elementi non rilevanti).

L'esperimento di Driver e Tipper [1989] ha perciò dimostrato un priming negativo di circa 25 ms, nel senso che una caratteristica non rilevante di uno stimolo precedente (i 2 neri) ha causato un ritardo nella risposta alla caratteristica rilevante (i 2 elementi rossi) dello stimolo successivo. L'unica spiegazione possibile è che la carat-teristica non rilevante della prima configurazione sia stata elaborata e

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poi sia intervenuto un processo di inibizione che ha permesso di se-lezionare la risposta corretta. Il processo di inibizione relativo alla caratteristica non rilevante della prima configurazione non scompare immediatamente e fa, perciò, sentire i suoi effetti negativi {priming negativo, appunto) quando quella stessa caratteristica diventa rilevante per la risposta alla configurazione successiva.

Non è stato ancora definitivamente chiarito se il processo inibito-rio agisca a livello della selezione della risposta oppure a livello di elaborazione percettiva, anche se l'evidenza empirica ora disponibile sembra in favore della seconda possibilità [Tipper, MacQueen e Bre-haut 1988; Tipper et al. 1991].

Nell'esperimento di Driver e Tipper [1989], le risposte alle con-figurazioni presentate per prime non evidenziavano alcuna influenza degli elementi non rilevanti. Sembrava, perciò, possibile concludere, in accordo con l'ipotesi della selezione precoce, che gli elementi non rilevanti delle prime configurazioni non fossero stati processati. La risposta alla seconda configurazione evidenziava, però, il priming ne-gativo. Ciò dimostra, in accordo con l'ipotesi della selezione tardiva, che gli elementi non rilevanti delle prime configurazioni erano stati processati.

2.3. Selezione precoce oppure selezione tardiva?

A condizione che non diventi un soggetto sperimentale, un osser-vatore umano si trova normalmente di fronte ad un ambiente com-plesso e ricchissimo di oggetti. Per produrre un comportamento in-tegrato deve selezionare alcuni di questi oggetti e trascurare gli altri [Allport 1989]. Il problema viene risolto per mezzo dell'orientamento dell'attenzione spaziale e dell'intervento dell'attenzione selettiva. Il fuoco dell'attenzione è diretto su una porzione delimitata dello spa-zio e alcuni oggetti sono classificati come rilevanti. Gli oggetti che cadono entro il fuoco dell'attenzione e sono classificati come rilevan-ti, guidano il comportamento e raggiungono il livello di coscienza (cfr. infra, pp. 239-245).

La domanda cruciale è quella che è stata posta nel paragrafo precedente. Che cosa accade degli oggetti non rilevanti e di quelli che cadono al di fuori del fuoco dell'attenzione? Qui farò riferimento ad un numero ristretto di studi, tutti riguardanti la modalità visiva. Per rassegne più complete, rimando ai lavori di Bagnara [1984]; Johnston e Dark [1986]; Kinchla [1992]; e, in particolare, al volume a cura di Parasuraman e Davies [1984].

I sostenitori della selezione precoce [per esempio, Broadbent 1958; 1982; Johnston e Dark 1986; Treisman 1988] affermano che soltanto singole caratteristiche fisiche degli stimoli (come il colore o l'orientamento) possono essere processate senza l'intervento dell'at -tenzione spaziale o selettiva; sono, cioè, processate preattentivamen-te, come si è detto in un paragrafo precedente. Non è, però, possibi-

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le identificare stimoli che cadono al di fuori del fuoco dell'attenzione o le cui caratteristiche non siano combinate per mezzo dell'attenzio-ne selettiva. In breve, secondo l'ipotesi della selezione precoce, l'at-tenzione agisce come un filtro che esclude dal processamento gran parte dell'informazione proveniente dal mondo esterno.

I sostenitori dell'ipotesi della selezione tardiva [per esempio, Deutsch e Deutsch 1963; Keele e Neill 1978; Posner e Snyder 1975; van der Heijden 1981] affermano che il processamento è identico, cioè completo, per tutte le caratteristiche degli stimoli, indipendente-mente dall'intervento o meno dell'attenzione spaziale o selettiva. Quegli stimoli che cadono al di fuori del fuoco dell'attenzione o che non sono classificati come rilevanti in termini di attenzione selettiva, sono processati completamente e identificati. Il filtro attentivo inter-verrebbe molto tardi, al momento della selezione della risposta.

L'interferenza prodotta da stimoli non rilevanti (o da caratteristi-che non rilevanti degli stimoli) che si osserva negli effetti Simon, Stroop e Navon, viene portata come prova a favore della selezione tardiva. Se la selezione fosse precoce, il processamento degli stimoli non rilevanti dovrebbe essere bloccato molto presto e non si dovreb-bero avere effetti di interferenza.

Anche un effetto descritto inizialmente da Eriksen e Eriksen [1974] può essere interpretato nel senso della selezione tardiva. Que-sti autori mostravano ai loro soggetti delle stringhe di lettere e la consegna era di rispondere tenendo conto soltanto della lettera cen-trale. Per esempio, doveva essere fornita una risposta se la lettera centrale era una A oppure una B e un'altra risposta se la lettera cen-trale era una X o una Y. I TR erano più rapidi quando le lettere poste ai lati (le lettere non rilevanti) avrebbero richiesto, se presentate al centro, la stessa risposta richiesta dalla lettera centrale (la lettera rilevante), per esempio BAB. I TR erano intermedi se le lettere late-rali non avrebbero richiesto alcuna risposta, per esempio SAS. I TR erano più lenti se le lettere laterali avrebbero richiesto la risposta opposta, per esempio XAX. È chiaro che le lettere laterali, pur non rilevanti, influenzano la rapidità di risposta alla lettera rilevante.

Come già si è accennato, gli effetti di interferenza non convinco-no pienamente perché possono essere attribuiti a particolari condi-zioni sperimentali che rendono inefficiente l'attenzione selettiva o, più probabilmente, il controllo del fuoco dell'attenzione. Si trattereb-be di casi, insoliti, di insuccesso della selezione precoce. A sostegno di questa posizione viene, per esempio, portato il fatto che l'effetto Eriksen dipende dalla distanza fra lettera centrale e lettere laterali. In particolare, diminuisce con l'aumentare di questa distanza, man ma-no, cioè, che il restringere il fuoco dell'attenzione alla sola lettera centrale diviene più agevole [Eriksen e Eriksen 1974].

Si è anche già visto come l'effetto Stroop diminuisca, o addirittura scompaia, con l'aumentare della distanza fra colore che deve essere nominato e parola interferente [Gatti e Egeth 1978; Kahneman e Henik 1981]. Lo stesso risultato si ottiene anche con altre manipola-

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zioni sperimentali che, come accade con l'aumento della distanza, rendono più facile escludere dal fuoco dell'attenzione l'informazione non rilevante e potenzialmente interferente [Francolini e Egeth 1980; Kahneman e Chajczyk 1983].

Simili argomentazioni si applicano all'osservazione che l'effetto Simon scompare quando si impedisce all'attenzione di orientarsi sullo stimolo [Umiltà e Nicoletti 1992]. L'argomentazione complementare vale, invece, per la dimostrazione che si può ottenere un effetto Navon delle lettere locali sulla lettera globale se si induce il soggetto a distribuire omogeneamente l'attenzione fra i due livelli [Miller 1981].

Per i sostenitori della selezione precoce, i casi, molto più nume-rosi, di mancanza di interferenza sono più dimostrativi dei pochi casi di interferenza. I primi sono così scontati da non essere ritenuti inte-ressanti e, perciò, sono studiati assai raramente. I secondi sono molto sorprendenti e perciò suscitano un grande interesse. Normalmente, la selezione attentiva opererebbe molto precocemente. I fenomeni di interferenza caratterizzerebbero quei rari casi nei quali la selezione precoce fallisce.

A mio parere, l'ipotesi della selezione precoce non regge alla prova dell'evidenza empirica [ma si vedano, per una posizione contraria, Mack et al. 1992; Rock et al. 1992]. Essa è, infatti, contraddetta in modo decisivo dal fenomeno del priming negativo e dai risultati otte-nuti con pazienti affetti dalla sindrome di eminegligenza spaziale. Del priming negativo si è già detto. Esso dimostra che l'assenza di interferenza immediata non è prova sufficiente di selezione precoce [Driver e Tipper 1989]. Infatti, anche gli stimoli non rilevanti posso-no essere processati completamente, pur non provocando immediata-mente interferenza. L'interferenza si manifesta solo successivamente e può essere evidenziata per mezzo di appropriate procedure speri-mentali.

L'eminegligenza spaziale è causata da lesioni al lobo parietale (di solito, il lobo parietale destro) e si manifesta come una grave defi -cienza dell'attenzione spaziale, con incapacità di orientare l'attenzio-ne verso una metà dello spazio (di solito, la metà sinistra dello spa-zio). Per una esauriente descrizione della sindrome, rimando al volu-me a cura di Jeannerod [1987]. Qui è sufficiente dire che il paziente si comporta come se la metà sinistra dello spazio non esistesse e sembra essere del tutto ignaro degli stimoli che in essa vengono pre-sentati. A prima vista, il comportamento di questi pazienti parrebbe confermare l'ipotesi della selezione precoce: l'attenzione non può orientarsi verso sinistra e ciò rende impossibile il processamento de-gli stimoli che cadono nella metà sinistra dello spazio. Si è visto, pe -rò, che le cose non stanno esattamente così.

Volpe, LeDoux e Gazzaniga [1979] presentarono ai loro pazienti coppie di oggetti o di parole, contemporaneamente nel campo visivo di destra e di sinistra. Se il compito consisteva nel nominare i due oggetti o nel leggere le due parole, i pazienti nominavano soltanto

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l'oggetto di destra o leggevano soltanto la parola di destra, ometten -do l'oggetto o la parola di sinistra. Se il compito consisteva nel deci -dere se i due elementi erano uguali o diversi, i pazienti fornivano una prestazione corretta nell'88-100% dei casi.

Ancora più dimostrativo è uno studio di Berti e Rizzolatti [1992]. Ai pazienti venivano presentati nel campo visivo destro (in-tatto) dei disegni di animali o frutti. I disegni erano presentati bre-vemente e uno alla volta. I pazienti dovevano classificarli in base alla categoria di appartenenza (animali o frutti), fornendo un TR di scelta. Contemporaneamente, nel campo visivo sinistro (leso) venivano presentati disegni analoghi. I disegni presentati nei due campi visivi potevano appartenere alla stessa categoria (situazione congruente), oppure a categorie diverse (situazione incongruente).

A differenza di quanto accade con soggetti normali, i pazienti sono del tutto inconsapevoli che nel campo visivo sinistro sia appar-so qualcosa. Tuttavia, esattamente come per i soggetti normali, i TR sono più rapidi nella situazione congruente che nella situazione in-congruente. Si noti che nella situazione congruente, lo stimolo pre-sentato nel campo visivo sinistro (e che viene ignorato dal paziente, pur producendo un effetto di facilitazione) non è identico allo stimo-lo percepito nel campo visivo destro (al quale il paziente risponde). Perché si abbia l'effetto di facilitazione, è sufficiente che si tratti di due animali o di due frutti. Dunque, lo stimolo sul quale il paziente non può dirigere l'attenzione viene elaborato almeno fino a livello della categoria di appartenenza.

Veramente sorprendente era poi il comportamento di una pa-ziente studiata da Marshall e Halìigan [1988]. Quando le venivano presentati i disegni di due case, identiche fuorché per delle fiamme che provenivano dalla parte sinistra di una delle due, la paziente non riusciva a riferire di alcuna differenza fra i due disegni. Se, però, le veniva chiesto di indicare in quale casa avrebbe preferito vivere, la scelta cadeva sulla casa che non era in fiamme. La paziente non era, tuttavia, in grado di dare una ragione della preferenza per una casa che a lei sembrava identica all'altra.

I pazienti con eminegligenza spaziale tipicamente leggono soltan-to la parte destra di una parola, omettendo o sostituendo le lettere di sinistra (si parla di dislessia da eminegligenza spaziale). Esistono, però, numerose prove del fatto che l'informazione relativa alla parte sinistra della parola è stata processata.

Nel caso di sostituzioni, il numero di lettere sostituite corrispon-de quasi sempre al numero di lettere effettivamente presenti a sini-stra [Ellis, Flude e Young 1987; Behrmann et al. 1996]. Le caratteri-stiche ortografiche della parte sinistra della parola influenzano la let -tura della parte destra [Kinsbourne e Warrington 1962]. Una parola che designa un colore, pur non essendo letta correttamente provoca interferenza in un compito di tipo Stroop, quando il paziente deve denominare il colore dell'inchiostro in cui è scritta [Berti, Frassinetti e Umiltà 1994].

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Recentemente, Làdavas, Umiltà e Mapelli [in stampa] hanno trovato che alcuni di questi pazienti riescono ad eseguire con un'accuratezza del 80-90% un compito di decisione lessicale o di categorizzazione, pur non essendo in grado di leggere correttamente le parole che vengono loro mostrate (il compito di decisione lessicale richiede di decidere se una stringa di lettere forma una parola o una non parola; il compito di categorizzazione richiede, per esempio, di decidere se una parola designa un essere vivente oppure un oggetto).

In conclusione, i pazienti con eminegligenza spaziale dimostra-no che l'informazione è processata anche quando la mediazione dell'attenzione può essere esclusa sulla base del loro gravissimo de-ficit attentivo. L'informazione processata in assenza di attenzione ha anche accesso al sistema di risposta, non raggiunge, però, il li -vello di coscienza (cfr. pp. 239-245). Ciò è incompatibile con l'i -potesi della selezione precoce, mentre è in pieno accordo con l'i -potesi della selezione tardiva.

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I 3. Un modello connessionista dell'effetto Stroop

Nel precedente paragrafo, l'effetto Stroop è stato trattato fra i fenomeni paradigmatici dell'attenzione selettiva. Sembra, perciò, giusto presentarne a questo punto un modello connessionista. La mia scelta è caduta sul modello descritto da Cohen et al. [1990] perché, a differenza di altri modelli, per esempio, quello di Phaf, van der Hejden e Hudson [1990], utilizza un'architettura e algoritmi di processamento più rappresentativi di una rete neurale tipica. Prima di passare alla presentazione del modello, è necessario dedicare qualche parola alle reti neurali in generale. Per una trattazione più approfondita, rimando a Rumelhart e McClelland [1986] e a Floreano [1996].

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3.1. Una rete neurale tipica

Una rete neurale, come quella rappresentata nella figura 4.8, è caratterizzata da un'architettura e da algoritmi di processamento. L'architettura è definita dal modo come sono organizzate le unità di processamento (dette anche neuroni, per analogia con i neuroni del sistema nervoso). Nell'esempio, le unità sono organizzate in tre strati: strato di ingresso (6 unità), strato intermedio o nascosto (4 unità) e strato di uscita (2 unità).

Le unità di uno strato sono collegate alle unità dello strato im-mediatamente successivo. I collegamenti fra le unità sono indicati nella figura da linee continue. Per esempio, la prima unità da sinistra nello strato di ingresso è collegata con le prime due unità da sinistra nello strato nascosto. I collegamenti fra le unità sono caratterizzati da

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pesi (assenti nella figura), che possono essere paragonati alle sina-psi del sistema nervoso. Ogni peso è un numero, il cui valore assoluto definisce la «forza» del collegamento (della sinapsi) e il cui segno definisce l'effetto, eccitatorio o inibitorio, del collegamento (della si-napsi). Per esempio, un peso di 1,53 e un peso di 0,38 indicano due sinapsi entrambe eccitatone, la prima di forza maggiore della secon-da. Un peso di —1,47 e un peso di —0,16 indicano due sinapsi entrambe inibitorie, la prima di forza maggiore della seconda. All'ini-zio della simulazione, i valori dei pesi sono stabiliti in modo casuale dallo sperimentatore.

Le unità dello strato di ingresso trasmettono alla rete l'informa-zione proveniente dall'esterno, le unità dello strato nascosto proces-sano l'informazione, le unità dello strato di uscita trasmettono all'e -sterno l'informazione processata dalla rete. In altre parole, le unità di ingresso ricevono lo stimolo e le unità di uscita forniscono la risposta della rete allo stimolo, sulla base del processamento effettuato dalle unità nascoste.

Tutte le unità sono caratterizzate da un grado di attivazione. L'at-tivazione è un numero che, come nel caso dei pesi, ha un valore assoluto, che indica il grado di attivazione, e un segno, che indica se l'unità è eccitata o inibita. Per esempio, un valore di 0,95 indica che l'unità è eccitata, mentre un valore di —0,09 indica che l'unità è leggermente inibita. Un valore di 0 indica attivazione nulla, cioè che l'unità non è né eccitata né inibita.

L'informazione alle unità di ingresso è data direttamente dallo sperimentatore, che attribuisce loro attivazioni scelte in base al tipo di simulazione che la rete deve eseguire. Nell'esempio che esporrò successivamente, alcune unità di ingresso saranno eccitate (attivazione uguale a 1) mentre altre saranno inattive (attivazione uguale a 0).

L'attivazione delle unità nascoste e delle unità di uscita deve in-vece essere stabilita dalla rete per mezzo di un algoritmo che calcola la propagazione in avanti (feed-fonvard) dell'attivazione, dalle unità di ingresso alle unità nascoste e dalle unità nascoste alle unità di uscita. La procedura di calcolo è molto semplice: l'attivazione di una unità nascosta è data dalla somma algebrica delle attivazioni delle unità di ingresso ad essa collegate, moltiplicate per i pesi delle relati-ve sinapsi. Analogamente, l'attivazione di una unità di uscita è data dalla somma algebrica delle attivazioni delle unità nascoste ad essa collegate, moltiplicate per i pesi delle relative sinapsi. Di solito, le somme dei prodotti sono sottoposte ad una trasformazione sigmoide.

Per mezzo della propagazione feed-fonvard, la rete fornisce una risposta allo stimolo in ingresso, sotto forma di attivazione delle unità di uscita. Poiché i pesi sono stati stabiliti casualmente, la ri -sposta sarà casuale, nel senso che non avrà nessuna relazione siste-matica con lo stimolo presentato alla rete. Nelle reti supervisionate, l'apprendimento procede per mezzo dell'algoritmo della back-propa-gation, cioè con un processo di aggiustamento a ritroso dei pesi fra

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unità di uscita e unità nascoste e fra unità nascoste e unità di in-gresso.

L'algoritmo è assai complesso, qui è sufficiente dire che viene calcolata la differenza (l'errore) fra risposta ottenuta e risposta atte-sa. La risposta attesa è la risposta che lo sperimentatore ha deciso debba esse e considerata quella «giusta» per lo stimolo presentato alla rete. L'errore è dato dalla somma delle differenze, elevate al quadrato, fra attivazione ottenuta per ciascuna unità e attivazione che quella unità dovrebbe avere se la risposta fosse stata quella «giu-sta». Per esempio, per una unità di uscita l'attivazione ottenuta è stata 0,35, mentre l'attivazione attesa era 0,99. Il quadrato della dif-ferenza fra le due attivazioni è l'errore per quella unità di uscita. Si procede allo stesso modo per tutte le unità di uscita e si somma il risultato. Sulla base dell'errore globale così calcolato, i pesi vengono modificati a ritroso in modo tale che, quando lo stimolo verrà pre-sentato di nuovo, l'errore globale sarà minore.

Gli stimoli vengono presentati più volte, in modo che le fasi di propagazione in avanti delle attivazioni e di aggiustamento a ritroso dei pesi si succedono fino a quando l'errore globale si annulla. A questo punto la rete ha appreso a classificare gli stimoli in ingresso e per ciascuno fornisce la risposta «giusta».

3.2. Caratteristiche del modello

L'architettura del modello è rappresentata nella figura 4.8. In es-sa sono individuabili due vie di processamento indipendenti. Una via è dedicata al processamento dell'informazione relativa al colore, mentre l'altra è dedicata al processamento dell'informazione relativa alla parola. Le due vie convergono poi sulle stesse 2 unità di uscita, de-dicate all'emissione della risposta. Ciascuna via comprende 2 unità di ingresso e 2 unità nascoste.

Le 2 unità di ingresso della via dedicata al processamento del colore corrispondono a due possibili colori, il rosso e il verde. L'atti -vazione dell'unità corrispondente al colore rosso e l'assenza di attiva-zione nell'altra unità, simula la presentazione del colore rosso. Analo-gamente, l'attivazione dell'unità corrispondente al colore verde e l'as-senza di attivazione nell'altra unità, simula la presentazione del colore verde.

Le 2 unità di ingresso della via dedicata al processamento della parola corrispondono alle due possibili parole-colore. L'attivazione di un'unità e l'assenza di attivazione nell'altra, simulano la presentazio-ne della parola «rosso» oppure della parola «verde».

Le 2 unità di ingresso sono connesse con le 2 corrispondenti uni-tà nascoste, ma non con le 2 unità nascoste appartenenti all'altra via. Le 2 unità nascoste di entrambe le vie sono collegate con le 2 unità di uscita. Se, dopo la presentazione degli stimoli alle unità di ingres -so, si attiva un'unità di uscita soltanto, la risposta sarà «rosso» o

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Fio. 4.8.

«verde», a seconda di quale unità è attivata. Si noti che la risposta è la stessa sia che alla rete sia stato presentato un colore oppure sia stata presentata una parola-colore. Sarà la «consegna» data alla rete a stabilire quale delle due alternative, cioè risposta al colore o alla parola-colore, deve realizzarsi.

La «consegna» è trasmessa alla rete per mezzo di altre 2 unità di ingresso, che sono collegate con tutte e 4 le unità nascoste. L'attiva -zione di una di queste unità di ingresso addizionali e l'assenza di attivazione nell'altra, sta ad indicare che la rete deve rispondere al colore oppure alla parola-colore. È importante notare che in questo modo viene simulata l'attenzione selettiva. Infatti, l'attivazione dell'u-nità corrispondente alla consegna «rispondi al colore», indica che l'attenzione deve selezionare il colore trascurando il significato della parola. Analogamente, l'attivazione dell'unità corrispondente alla consegna «rispondi alla parola», indica che l'attenzione deve selezio -nare il significato della parola, trascurandone il colore.

Alcuni esempi possono essere utili. La situazione nella quale ven-gono attivate in ingresso le unità corrispondenti al colore rosso, alla parola «rosso» e alla consegna «rispondi al colore», simula una situa-zione sperimentale reale nella quale ad un soggetto viene presentata la parola «rosso» scritta in rosso, con la consegna di denominare il colore e di trascurare il significato della parola (risposta richiesta: «rosso»). Se vengono attivate le unità di ingresso corrispondenti al colore rosso, alla parola «verde» e alla consegna «rispondi al colore», si simula la presentazione ad un soggetto della parola «verde» scritta

«verde»

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in rosso, quando la consegna è quella di denominare il colore (rispo-sta richiesta: «rosso»).

L'attivazione dell'unità di ingresso corrispondente alla consegna «rispondi alla parola», cambia il tipo di risposta richiesto. L'attiva-zione delle unità di ingresso corrispondenti al colore rosso e alla pa-rola «verde», deve portare alla risposta «verde».

Si possono così simulare tutte le combinazioni che caratterizza-no il paradigma sperimentale dell'effetto Stroop, semplicemente pro-ducendo diverse configurazioni di attivazioni a livello delle unità di ingresso. È importante notare che in questo modello, gli stimoli e le risposte sono rappresentati in modo discreto. Ciascun colore è rap-presentato da una singola unità di ingresso della via dedicata al processamento del colore. Ciascuna parola-colore è rappresentata da una singola unità di ingresso della via dedicata al processamento del-la parola. Ciascuna risposta è rappresentata da una singola unità di uscita.

Il modello è del tipo feed-forward e l'algoritmo di apprendimento impiegato è quello della back-propagation. Le operazioni che si svol-gono nella rete possono essere così riassunte: presentazione di una configurazione di attivazioni a livello delle unità di ingresso; trasmis-sione delle attivazioni dalle unità di ingresso alle unità di uscita; pro-duzione di una configurazione di attivazioni a livello delle unità di uscita; calcolo della differenza fra la configurazione di attivazioni in uscita ottenuta e quella voluta; propagazione all'indietro di questa differenza alle unità nascoste e alle unità di ingresso; aggiustamento conseguente dei pesi delle connessioni fra unità nascoste e unità di uscita e fra unità di ingresso e unità nascoste. L'insieme di queste operazioni costituisce ciò che è stato definito come «ciclo», allo sco-po di simulare il TR della rete.

La ripetuta presentazione di stimoli (configurazioni di attivazio-ni) alla rete, con conseguente succedersi dei passi sopra indicati, fa sì che la rete apprenda a fornire la risposta corretta ad ogni stimolo. Va tenuto presente che Cohen et al. [1990] hanno leggermente mo-dificato l'algoritmo classico della back-propagation, introducendo alcune delle caratteristiche del modello a cascata di McClelland [1979] e uno speciale meccanismo per stabilire un valore di soglia per le unità di uscita. Ciò permette il calcolo dei cicli e, perciò, anche la simulazione del TR.

3.3. Fase di apprendimento

Inizialmente la rete apprendeva a fornire la risposta corretta per ciascuno dei 4 possibili stimoli: colore rosso, colore verde, parola «rosso» e parola «verde».

Nella fase di apprendimento mancavano sia le situazioni con-gruenti che quelle incongruenti. L'attivazione di una delle 2 unità di ingresso della via dedicata al processamento del colore (colore rosso

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218 ATTENZIONE E COSCIENZA

o colore verde) non era mai accompagnata dall'attivazione di una delle 2 unità di ingresso della via dedicata al processamento della parola. Analogamente, l'attivazione di una delle 2 unità di ingresso della via dedicata al processamento della parola (parola «rosso» o parola «verde») non era mai accompagnata dall'attivazione di una delle 2 unità di ingresso della via dedicata al processamento del colo-re. Per esempio, potevano essere attivate solo le unità corrispondenti al colore rosso e alla consegna «rispondi al colore» (risposta richie -sta: «rosso»), oppure solo le unità corrispondenti alla parola «verde» e alla consegna «rispondi alla parola» (risposta richiesta: «verde»).

All'inizio, ai pesi delle connessioni fra unità di ingresso e unità nascoste e fra unità nascoste e unità di uscita erano attribuiti valori casuali molto piccoli. Facevano eccezione i pesi delle connessioni fra unità di ingresso corrispondenti alla consegna e unità nascoste. Gli effetti dell'attenzione selettiva venivano simulati manipolando questi pesi in modo tale che, per la consegna «rispondi al colore», la sensi -bilità agli stimoli fosse massima per le unità della via dedicata al pro-cessamento del colore, mentre, per la consegna «rispondi alla paro-la», la sensibilità fosse massima per le unità della via dedicata al pro-cessamento della parola.

Come è tipico dell'apprendimento basato sulla back-propagation, con il succedersi delle presentazioni, i valori dei pesi delle connessio-ni si andavano aggiustando in modo tale che le risposte, inizialmente casuali, diventassero sempre più precise, fino a che la rete apprende-va a classificare in modo corretto i 4 stimoli. I valori dei pesi delle connessioni fra le unità di ingresso corrispondenti alla consegna e le unità nascoste non potevano, invece, variare. Questa è una impor-tante eccezione al procedimento classico della back-propagation, in cui tutti i pesi hanno all'inizio valori casuali, che poi si modificano con il procedere dell'apprendimento.

Le unità di ingresso corrispondenti alla consegna «rispondi alla parola» e alle parole-colore venivano attivate molto più frequente -mente (per un rapporto di 10 : 1) rispetto alle unità di ingresso cor -rispondenti alla consegna «rispondi al colore» e ai colori. Alla rete venivano presentate molto più frequentemente situazioni che simula-vano la richiesta di leggere una parola-colore piuttosto che di nomi-nare un colore. Questo accorgimento faceva sì che la «forza» delle connessioni (cioè il valore dei loro pesi) risultasse, alla fine della fase di apprendimento, maggiore per la via dedicata al processamento delle parole rispetto alla via dedicata al processamento dei colori.

3.4. Fase test

Dopo che la rete aveva appreso a classificare correttamente i 4 stimoli, venivano presentati, nella fase test, anche le condizioni con-gruenti e incongruenti.

Quando era attivata l'unità di ingresso corrispondente alla conse-

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gna «rispondi al colore», vi poteva essere una condizione neutra, identica a quella della fase di apprendimento, con attivata solo l'uni -tà di ingresso corrispondente al colore rosso; oppure una condizione congruente, con attivate le unità di ingresso corrispondenti al colore rosso e alla parola «rosso»; oppure una condizione incongruente, con attivate le unità di ingresso corrispondenti al colore rosso e alla paro-la «verde». In tutti i tre casi, la risposta corretta era l'attivazione della unità di uscita corrispondente alla risposta «rosso».

Analogamente, quando era attivata l'unità di ingresso corrispon-dente alla consegna «rispondi alla parola», la condizione neutra, identica a quella della fase di apprendimento, era data dall'attivazio-ne della sola unità corrispondente alla parola «rosso». La condizione congruente era data dall'attivazione delle unità corrispondenti alla parola «rosso» e al colore rosso. La condizione incongruente era data dall'attivazione delle unità corrispondenti alla parola «rosso» e al colore verde. Anche in questo caso, le tre risposte corrette erano sempre caratterizzate dall'attivazione dell'unità di uscita corrispon-dente alla risposta «rosso».

Per ogni prova, l'unità corrispondente alla consegna appropriata veniva attivata per prima e si dava tempo alle unità della rete di raggiungere uno stato di attivazione stabile. Poi veniva presentato lo stimolo vero e proprio, consistente nell'attivazione di una sola unità di ingresso (condizione neutra), oppure di due unità di ingresso (condizioni congruenti e incongruenti). Si permetteva alla rete di eseguire tutti i cicli necessari perché una delle 2 unità di uscita rag-giungesse il valore di soglia (cioè, di fornire una risposta). Il numero di cicli compiuti prima di fornire la risposta veniva assunto come stima del TR in quella prova. La rete veniva poi riportata allo stato iniziale, cioè lo stato raggiunto alla fine della fase di apprendimento, e si dava inizio alla prova successiva.

3.5. Simulazione dell'effetto Stroop

La procedura appena descritta nelle linee generali ha permesso di replicare, in una serie di esperimenti, le caratteristiche tipiche del -l'effetto Stroop, osservate in soggetti umani. Qui mi limiterò a segna-lare le principali.

Per la rete, come per un soggetto umano, la lettura della parola da luogo a TR più rapidi di quelli che si ottengono per pronunciare il nome del colore. Naturalmente, nel caso della rete, ciò significa che, per esempio, l'unità di uscita corrispondente alla risposta «ros-so» raggiunge il valore di soglia dopo un numero minore di cicli, quando in ingresso sono attivate le unità corrispondenti alla conse-gna «rispondi alla parola» e alla parola «rosso», rispetto a quando sono attivate le unità corrispondenti alla consegna «rispondi al colo-re» e al colore rosso.

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220 ATTENZIONE E COSCIENZA

Se si prende come base la condizione neutra, il significato della parola ha, per un soggetto umano, un effetto di facilitazione, se con-gruente, e di inibizione, se incongruente, sul TR necessario a pro-nunciare il nome del colore. Per la rete i cicli necessari perché l'atti -vazione dell'unità corrispondente, per esempio, alla risposta «rosso» raggiunga il valore di soglia, data l'attivazione dell'unità corrispon-dente alla consegna «rispondi al colore», diminuiscono, rispetto alla condizione neutra, se è attivata l'unità di ingresso corrispondente alla parola «rosso», oltre, naturalmente, all'unità di ingresso corrispon-dente al colore rosso. I cicli, invece, aumentano, se è attivata l'unità di ingresso corrispondente alla parola «verde».

Quando è attivata l'unità di ingresso corrispondente alla conse-gna «rispondi alla parola», per la rete il numero di cicli necessario a fare raggiungere il valore di soglia all'unità di uscita corrispondente alla risposta «rosso» è sempre lo stesso, indipendentemente dal fatto che in ingresso sia attivata solo l'unità corrispondente alla parola «rosso» (condizione neutra), questa unità più quella corrispondente al colore rosso (condizione congruente), oppure quella corrisponden-te al colore verde (condizione incongruente). Per la rete, dunque, come per un soggetto umano, il nome del colore non ha influenza sul TR necessario a leggere la parola.

Infine, per la rete come per un soggetto umano, l'effetto di facili-tazione, stimato dalla differenza fra TR nella situazione neutra e TR nella situazione congruente, è inferiore all'effetto di inibizione, stima-to dalla differenza fra TR nella situazione incongruente e TR nella situazione neutra.

Come si è detto (cfr. p. 204), fino a qualche anno fa, la spiega-zione più accettata dell'effetto Stroop si basava sulla diversa velocità di processamento delle parole e dei nomi dei colori. Poiché le parole sono processate più rapidamente dei nomi dei colori, le parole han-no accesso al sistema di risposta prima dei nomi dei colori. Perciò, se il compito richiedeva di denominare il colore, si pensava si avesse facilitazione quando la risposta preattivata dalla parola era la stessa richiesta dal colore (situazione congruente: per esempio, parola «ver-de» e colore verde), e si avesse invece inibizione quando la risposta preattivata dalla parola era diversa da quella richiesta dal colore (si-tuazione incongruente: per esempio, parola «rosso» e colore verde). Ovviamente, se il compito richiedeva di leggere la parola, il colore non poteva avere alcun effetto poiché il nome del colore aveva acces-so al sistema di risposta solo dopo che la risposta era stata selezionata sulla base del significato della parola.

Si è anche detto che questa spiegazione ha perso molto credito da quando si è accertato che il significato della parola continua ad avere effetti di facilitazione e di inibizione sui TR prodotti dal deno-minare il colore, anche quando il colore viene presentato diverse de-cine di millesimi di secondo prima della parola [Glaser e Glaser

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ATTENZIONE E COSCIENZA 22 1

1982]. Se l'effetto Stroop fosse interamente attribuibile al più rapido processamento della parola, dovrebbe scomparire, o addirittura in-vertirsi, in una situazione sperimentale nella quale si da un vantaggio di partenza al processamento del colore. Ciò, però, non si verifica.

Cohen et al. [1990] hanno simulato questa situazione sperimen-tale di Glaser e Glaser [1982], attivando l'unità di ingresso corri-spondente al colore prima dell'unità di ingresso corrispondente alla parola, quando la consegna era di rispondere al colore. In termini di numero di cicli, il vantaggio di partenza della via dedicata al proces-samento del colore era equivalente ai tempi impiegati nell'esperimento con soggetti umani. Anche il risultato fu identico a quello ottenuto con soggetti umani: l'effetto Stroop rimaneva praticamente invariato. La conclusione fu che la differenza nei tempi di processamento fra parola e colore è irrilevante. È invece cruciale la differenza nella «forza» dei pesi delle connessioni, che è a favore della via per il processamento della parola, a causa del maggior numero di stimoli del tipo parole-colore presentati alla rete durante la fase di apprendimento.

4. Le risorse attentive

Non abbiamo bisogno di molte prove sperimentali per convin-cerci che a volte (ma non sempre) è più difficile eseguire due compi ti contemporaneamente che separatamente. Di solito siamo costretti a smettere di leggere un articolo interessante, se ci viene richiesto di avere uno scambio significativo con un interlocutore. Possiamo deci -dere di continuare a leggere, ma la nostra conversazione indubbia -mente ne soffre. È molto difficile cercare di risolvere un problema impegnativo mentre si segue alla radio un'avvincente partita di cal-cio.

Ho detto che «a volte» è difficile fare due cose contemporanea-mente perché, invece, può anche risultare molto facile. Non abbiamo difficoltà a parlare mentre camminiamo o ascoltare la musica mentre leggiamo.

In altri casi, la possibilità di eseguire in modo efficiente due compiti simultanei dipende dalle circostanze. In condizioni di traffico normale, non è difficile, per un pilota esperto, condurre una conver-sazione con un passeggero, oppure ascoltare le notizie alla radio. Ri-sulta molto più difficile accoppiare le due attività durante un sorpas -so impegnativo o quando la visibilità è scarsa.

Nel paragrafo che segue mi occuperò del perché a volte è possi-bile fare due cose contemporaneamente e a volte non lo è. Qui mi occuperò del problema dell'interferenza da doppio compito. La do-manda è: perché svolgere due compiti contemporaneamente può portare ad uno scarso rendimento per almeno uno dei due?

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222 ATTENZIONE E COSCIENZA

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4.1. Interferenza strutturale

Se i due compiti che devono essere eseguiti contemporaneamen-te condividono uno stadio di processamento, o richiedono l'impiego di uno stesso meccanismo, è impossibile mantenere l'efficienza ad un livello paragonabile a quello che si raggiunge quando i compiti sono eseguiti separatamente.

È praticamente impossibile masticare e parlare contemporanea-mente, perché entrambe le attività dipendono dagli stessi muscoli. È molto difficile ascoltare musica mentre si segue una conversazione, perché entrambe le attività richiedono l'uso delle vie acustiche. Que-sti sono esempi di interferenza strutturale causata dalla competizione per meccanismi, di uscita e di ingresso, rispettivamente, piuttosto pe-riferici.

L'interferenza strutturale può insorgere, però, anche quando i due compiti competono per l'accesso a stadi di processamento cen-trali [McCann e Johnston 1992; Fagot e Pashler 1992; Pashler e Johnston 1989; Umiltà et al. 1992]. In particolare, l'interferenza da doppio compito si verifica quando il meccanismo comune è il ma-gazzino fonologico, o il magazzino visivo-spaziale, o, soprattutto, l'e-secutivo centrale [Baddeley 1992a; 1992b] (per una descrizione di questi meccanismi, tutti appartenenti alla memoria di lavoro, cfr. in questo stesso capitolo le pp. 233-234 e, infra, cap. V, pp. 267-271). Sono stati descritti anche molti casi di interferenza da doppio compito causati da competizione per lo stadio di selezione e/o emissione della risposta [Keele 1973; Keele e Neill 1978].

4.2. Interferenza da risorse

I casi più interessanti per una trattazione dei problemi dell'atten-zione sono, però, quelli nei quali l'interferenza da doppio compito si verifica anche in assenza di competizione per un meccanismo (o sta-dio di processamento) comune.

Guidare un'automobile e ascoltare un notiziario radiofonico sono due compiti che non richiedono alcun meccanismo comune. Si può, perciò, escludere un'interferenza strutturale. Tuttavia, un pilota prin-cipiante è costretto a trascurare il notiziario se vuole guidare in mo -do efficiente; e anche un pilota esperto perderebbe i dettagli di mol -te notizie se la situazione del traffico rendesse la guida particolar-mente impegnativa.

Dunque, l'interferenza da doppio compito si verifica anche quan-do non ci sono le condizioni per un'interferenza strutturale. Il feno-meno viene generalmente attribuito al fatto che le operazioni mentali non automatiche richiedono una certa quota di «risorse» attentive (per una distinzione fra operazioni automatiche e controllate, riman-do al paragrafo successivo).

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ATTENZIONE F. COSCIENZA 223

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Poiché la quantità globale di risorse attentive sarebbe limitata, tanto maggiore è la quota di esse impegnata per l'esecuzione di un compito, tanto minore è la quota residua disponibile per l'esecuzione di un secondo compito [Bagnara 1984; Kahneman 1973; McLeod 1977; Wickens 1984].

Il compito che riceve la quota di risorse sufficiente per un'esecu-zione ottimale viene di solito definito come «compito primario» (nel-l'esempio, il compito primario sarà, presumibilmente, guidare). Il compito che riceve solo la quota residua di risorse e che, perciò, non sarà eseguito in modo ottimale, o non sarà eseguito affatto, viene di solito definito come «compito secondario» (nell'esempio, il compito secondario sarà, presumibilmente, ascoltare il notiziario).

Manca una definizione precisa di cosa esattamente si intenda per «risorse attentive». Il fatto stesso che i termini introdotti per indicar -le siano molteplici e, spesso, usati in modo interscambiabile, ne atte -sta lo stato concettualmente incerto. Si parla, oltre che di «risorse attentive», di «capacità», di «impegno mentale», di «impegno atten-tivo», di «risorse di processamento» e, anche, semplicemente, di «ri-sorse». È chiaro, tuttavia, che ci si vuole riferire ad una sorta di «energia mentale» aspecifica, che può essere abbastanza liberamente trasferita da un compito a un altro [Bagnara 1984; Kahneman 1973; Wickens 1984]. È anche chiaro che tutti noi abbiamo introspettiva-mente esperienza del fenomeno. Risulta, infatti, facile intendersi quando parliamo dell'impegno attentivo necessario per l'esecuzione ottimale di un compito tSheridan 1980],

Le possibili basi organiche delle risorse attentive potrebbero es -sere cercate nell'attività della sostanza reticolare del tronco dell'ence-falo [Beatty 1982], nel flusso sanguigno cerebrale [Gur e Reivich 1980], oppure nel metabolismo di alcune sostanze cerebrali [Sokoloff 1977]. Purtroppo, questi processi cerebrali sembrano verificarsi trop-po lentamente per rendere conto dei rapidi mutamenti di prestazione attribuibili allo spostamento di risorse da un compito all'altro.

Non è sorprendente che un costrutto teorico così elusivo abbia fatto sorgere seri interrogativi sulla sua utilità [Navon 1984; 1985]. Si è anche cercato di renderlo meglio definibile prospettando la pos-sibilità che le risorse attentive non siano completamente aspecifiche ma che esistano, invece, risorse attentive specifiche, attivabili per cer ti compiti e non per altri [Kinsbourne e Hicks 1978; Navon e Go-pher 1979]. Va, però, notato che il procedere lungo la via teorica del le risorse attentive specifiche rende il concetto di interferenza da risorse difficilmente distinguibile da quello di interferenza strutturale. Non è, infatti, chiaro come si possa distinguere un'interferenza causata dalla competizione per un meccanismo (interferenza strutturale) da un'interferenza causata dal limitato ammontare di risorse attentive disponibili per quello stesso meccanismo (interferenza da risorse spe-cifiche).

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224 ATTENZIONE E COSCIENZA

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4.3. La procedura del compito secondario

Sia l'ipotesi delle risorse attentive aspecifiche che l'ipotesi delle risorse di processamento specifiche pongono il problema di stimare la quantità di risorse che è necessario erogare affinchè un compito sia eseguito in modo ottimale.

I sostenitori dell'ipotesi delle risorse aspecifiche si sono prevalen-temente indirizzati verso la ricerca di misure di tipo fisiologico. In particolare, sono stati proposti come indici della richiesta di risorse, la frequenza del battito cardiaco, la quota di attività di tipo alfa nel-l'elettroencefalogramma, la grandezza del diametro pupillare e l'am-piezza della risposta psicogalvanica cutanea [Williges e Wierwille 1979]. La frequenza del battito cardiaco, il diametro pupillare e la risposta psicogalvanica varierebbero in funzione diretta della quantità di risorse erogate durante lo svolgimento di un compito, mentre l'at -tività di tipo alfa varierebbe in funzione inversa.

I sostenitori dell'ipotesi delle risorse attentive specifiche hanno, invece, privilegiato valutazioni di tipo soggettivo [Moray 1982; Sheri-dan 1980], oppure, e soprattutto, la procedura del compito seconda-rio [Bagnara 1984; Kahneman 1973; McLeod 1977].

La procedura del compito secondario stima la quantità di risorse attentive erogate durante lo svolgimento di un compito (il compito primario) sulla base del livello di prestazione ottenuto in un altro compito (compito secondario), svolto simultaneamente al compito primario. L'idea è che il compito secondario sia eseguito sfruttando le risorse attentive lasciate libere dall'esecuzione del compito prima-rio. La prestazione nel compito secondario sarebbe, perciò, inversa-mente proporzionale alla quantità di risorse utilizzate dal compito primario.

Per esempio, se la prestazione nel compito secondario è inferiore quando è eseguito contemporaneamente al compito primario A, ri-spetto a quando è eseguito contemporaneamente al compito prima -rio B, si può concludere che il compito primario A richiede più ri-sorse del compito primario B. Se il compito secondario non può es-sere eseguito contemporaneamente ad un compito primario, ciò si-gnifica che quel compito primario utilizza tutte le risorse in quel mo-mento disponibili.

L'uso della procedura del compito secondario per misurare le ri-sorse erogate nell'esecuzione di un compito primario, richiede che siano ottemperate alcune assunzioni preliminari, non sempre facili da verificare. La prima è che il compito primario e il compito seconda -rio non competano per l'accesso ad un meccanismo comune. Deve essere esclusa un'interferenza strutturale. La seconda assunzione è che entrambi i compiti richiedano, per essere eseguiti, l'impiego di risorse attentive. Nessuno dei due deve essere eseguito automatica-mente, cioè senza erogazione di risorse (si veda il paragrafo seguen-te). La terza assunzione è che il compito primario sia eseguito ad un livello di prestazione ottimale. Ciò assicura che per il compito secon-

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ATTENZIONE E COSCIENZA 225

dario rimanga disponibile solo la quota minima di risorse residue. La quarta assunzione, strettamente legata alla precedente, è che il sog-getto abbia una sufficiente capacità di controllo sulla suddivisione delle risorse fra i due compiti, sia cioè in grado di attribuire al com -pito primario la quota di risorse minima indispensabile per eseguirlo in modo ottimale. In caso contrario, risulterebbe difficile determinare con precisione quale dei due compiti sia in realtà quello primario, al quale vengono riservate tutte le risorse necessarie, e quale sia quello secondario, al quale vengono riservate soltanto le risorse residue.

Un'altra, importantissima, assunzione, esplorata in dettaglio da Norman e Bobrow [1975; Wickens 1984], è che il livello di presta-zione nel compito primario e nel compito secondario dipenda esclu-sivamente dalle risorse attentive ad essi erogate, e non dalla qualità dei dati disponibili.

Per esempio, in un compito di discriminazione di forme, il livello della prestazione può dipendere dalla qualità degli stimoli che devo-no essere correttamente classificati. Se la qualità degli stimoli è insuf-ficiente (tempo di esposizione molto breve, basso contrasto figura-sfondo, presenza di rumore di fondo o di un mascheramento, lumi-nosità ambientale scarsa), la prestazione risulterà in larga misura in-dipendente dalla quantità di risorse attentive erogate nell'esecuzione del compito. Anche se la qualità degli stimoli è troppo buona, e quindi il compito è troppo facile, la prestazione non dipenderà dalla quantità di risorse attentive erogate: l'impiego di quote variabili di risorse attentive produrrà modificazioni minime nel livello di presta-zione.

Per potere impiegare in modo attendibile la procedura del com-pito secondario, è necessario creare condizioni sperimentali tali da assicurare che il manipolare la quota di risorse attentive dedicate ai due compiti possa produrre modificazioni rilevabili nel livello di pre-stazione.

4.4. Un esperimento con il compito secondario

Castiello e Umiltà [1988] hanno impiegato la procedura del com-pito secondario per stimare le risorse attentive necessarie per ottene-re una prestazione ottimale in alcune fasi del gioco della pallavolo.

I soggetti sperimentali erano 10 giocatori professionisti, appartenenti ad una squadra di serie A.

II compito primario, cioè quello per il quale si intendeva stimarela quota di risorse attentive necessarie per un'esecuzione ottimale,era la ricezione. Il compito di ricezione era poi stato suddiviso in 3fasi successive: momento in cui l'avversario eseguiva il servizio (Ti),momento in cui la palla superava la rete (T2) e momento in cui ilricevitore colpiva la palla (T3). Un'altra variabile indipendente era iltipo di servizio: servizio a salto o servizio flottante. Vi erano, dun-

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que, 6 situazioni sperimentali, definite dalla combinazione dei 3 tempi del servizio e dei 2 tipi di servizio.

Il compito secondario consisteva in un compito di TR semplici vocali: al giocatore che si apprestava a ricevere il servizio veniva ri-chiesto di emettere la sillaba «hop», il più rapidamente possibile, in risposta ad un segnale acustico della durata di 50 ms. Due auricolari e un microfono assicurati ad un caschetto indossato dal giocatore, permettevano di controllare a distanza sia la presentazione dello sti -molo che la registrazione del TR (tempo che intercorreva fra la pre-sentazione dello stimolo e l'emissione della risposta). Ciascun atleta riceveva 50 servizi, durante i quali il segnale acustico (che richiedeva la risposta vocale) veniva presentato, a caso, in corrispondenza di Ti, T2 o T3. Vi era anche una condizione di controllo, consistente nell'esecuzione del compito secondario da solo.

Si assumeva che quando il compito secondario veniva eseguito in assenza del compito primario (condizione di controllo), ricevesse tut te le risorse attentive necessarie alla sua esecuzione ottimale. Il TR doveva essere, dunque, estremamente veloce, la prestazione essendo limitata soltanto dalla qualità dei dati. Quando si aggiungeva il com-pito primario, il compito secondario poteva usufruire soltanto delle risorse residue, non utilizzate dal compito primario, e la prestazione avrebbe dovuto peggiorare.

Il peggioramento avrebbe dovuto manifestarsi in un allungamento del TR al segnale acustico. Più precisamente, tante più risorse ve-nivano dedicate all'esecuzione del compito primario, tanto più lento sarebbe dovuto diventare il TR. Si assumeva che l'allungamento del TR, rispetto alla condizione di controllo, avrebbe fornito una stima delle risorse necessarie ad eseguire in modo ottimale il compito pri-mario.

I risultati sono riassunti nella figura 4.9. Come si può vedere, il TR al segnale acustico fu molto veloce (212 ms) nella condizione di controllo e si allungò di più per il servizio flottante (268 ms) che per il servizio a salto (236 ms). Inoltre, il TR si allungò anche in modo differenziale durante le tre fasi del servizio: in media, 218 ms, 260 ms e 279 ms, rispettivamente per i tempi Ti, T2 e T3. Ai vari tem-pi, però, la differenza a favore del servizio a salto andò accentuando-si. Statisticamente, risultarono significativi sia i due effetti principali (tipo di servizio e tempo) che la loro interazione.

Questi risultati si prestano ad un'interpretazione piuttosto chiara in termini di risorse attentive erogate durante l'esecuzione delle varie fasi del compito primario.

Le risorse attentive erogate dal ricevitore aumentano da TI (quando l'avversario sta servendo), a T2 (quando la palla supera la rete), a T3 (quando la palla sta per essere ricevuta). Indipendente-mente dalla fase del servizio, il ricevitore deve erogare più risorse attentive durante un servizio flottante che durante un servizio a sal-to. La quota aggiuntiva di risorse attentive richiesta dal servizio flot-

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300 -Servizio flottante

Servizio a salto

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controllo TI

Fio. 4.9.

T2 T3

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tante aumenta con il succedersi delle varie fasi del servizio ed è mas-sima quando la palla sta per essere ricevuta.

E anche interessante notare che, al tempo Ti, per il servizio a salto, la richiesta di risorse attentive è minima. Infatti, il TR è praticamente identico a quello che si ottiene nella condizione di controllo.

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5. Processamento automatico o controllato

La prestazione di un soggetto umano in un gran numero di com-piti percettivo-motori si modifica profondamente con l'esercizio. Per esempio, quando si impara a guidare l'automobile, a giocare a tennis o a suonare uno strumento musicale, ci si rende conto con disappunto che, inizialmente, ogni singola azione è preceduta da una decisione cosciente (cfr. infra, pp. 245-249). La prestazione richiede molto

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impegno attentivo (nel senso di risorse: si veda il paragrafo prece-dente) e risulta lenta e goffa. Gli errori sono frequenti. Non si può svolgere contemporaneamente nessun altro compito; neppure pensare all'azione successiva (interferenza da doppio compito: si veda il paragrafo precedente).

Con il protrarsi dell'esercizio, le cose cambiano radicalmente e tutto diventa più facile. Intere sequenze di azioni si svolgono in mo-do fluido e rapido, in assenza di decisioni coscienti, e richiedono scarso o nullo impegno attentivo. Gli errori sono molto rari. Si trova il tempo per mettere a punto strategie anche complesse che guide-ranno le azioni successive. Si può ragionevolmente sostenere che ciò che caratterizza la prestazione dell'esperto è la possibilità di elabora-re una strategia mentre esegue in modo rapido e accurato i movi -menti richiesti dalla situazione contingente.

Cambiamenti simili si verificano non solo nel caso di compiti percettivo-motori, ma anche nell'apprendere compiti nei quali l'a-spetto puramente cognitivo è prevalente. Quando si impara a leggere in una lingua nuova, è necessario grande impegno attentivo, per pro-cessare le singole lettere e assemblarle in parole. Il significato del te -sto sfugge quasi completamente. Quando si diventa esperti, si posso-no processare un gran numero di lettere al secondo, le parole emer-gono senza impegno attentivo e si afferra immediatamente il senso di ciò che si sta leggendo.

Gli effetti dell'esercizio nelle attività umane sono così clamorosi e sorprendenti da avere indotto molti studiosi a sostenere l'esistenza di due modi di processamento, qualitativamente diversi [LaBerge 1975; Posner e Snyder 1975; Schneider, Dumais e Shiffrin 1984; Shiffrin e Schneider 1977]. I termini che si sono affermati per indicare i due tipi di processamento sono quelli di processamento automatico e processamento controllato [Schneider et al. 1984; Shiffrin e Schnei-der 1977; per una valutazione assai critica di questa dicotomia, si rimanda, però, al lavoro di Kahneman e Treisman 1984].

Molti lavori sono stati dedicati alla dicotomia fra processi auto-matici e processi controllati e agli effetti dell'esercizio. L'esposizione che segue è soprattutto basata su quelli che ritengo più importanti, ai quali rimando il lettore: Brown e Carr [1989]; Carlson et al. [1990]; Fisk e Schneider [1984]; Logan [1988]; Logie et al. [1989]; Strayer e Kramer [1990]; Zbrodoff e Logan [1986].

5.1. Processamento automatico

II processamento automatico è rapido, non coinvolge la Memoria a breve termine (MBT) (cfr. infra, cap. V, pp. 266-274) e non ri-chiede risorse attentive. Poiché non richiedono risorse attentive e non sono soggetti ai limiti di capacità della MBT, diversi processi au-

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ATTENZIONE E COSCIENZA 229

tornatici possono svolgersi simultaneamente, in parallelo, senza causa-re fenomeni di interferenza (si veda il paragrafo precedente). Intro-spettivamente, producono l'impressione di svolgersi senza il controllo diretto del soggetto. In genere, non possono essere interrotti volonta-riamente e, una volta iniziati, si completano.

Tipicamente, il processamento automatico compare con l'eserci-zio. Per esempio, il comporre un numero telefonico che è stato usa to centinaia di volte, diviene un processo completamente automatico. La semplice decisione di chiamare quella specifica persona permette di recuperare dalla Memoria a lungo termine (MLT; cfr. infra, cap. V, pp. 263-271) il numero desiderato. Non sono necessarie strategie di recupero coscienti. Non è neppure necessario alcun impegno at-tentivo per mantenere il numero in MBT per il tempo necessario a comporlo. La stessa operazione di comporlo non richiede impegno attentivo ed è eseguita in modo rapido e accurato, anche se si è impegnati in altre attività. In assenza di impegno attentivo, può an-che accadere di comporlo inavvertitamente quando, invece, si vuole comporre un altro numero che comincia con la stessa sequenza di 2 o 3 cifre.

5.2. Processamento controllato

II processamento controllato è lento, è soggetto ai limiti di capa-cità della MBT e richiede risorse attentive. I processi controllati non possono svolgersi in parallelo, ma devono svolgersi in serie, a causa sia dell'interferenza strutturale, dovuta alla competizione per l'accesso alla MBT, che dell'interferenza da risorse. Introspettivamente, pro-ducono l'impressione di essere continuamente sotto il controllo diret-to del soggetto e possono, perciò, essere volontariamente interrotti in qualsiasi momento.

Se si riprende l'esempio precedente, quando il numero da com-porre è raramente usato, è necessario un impegno attentivo per recu-perarlo dalla MLT; a volte si devono impiegare strategie di ricordo specifiche o ricorrere a un'agenda o a una guida telefonica. Una volta recuperato, il numero deve essere mantenuto attivo nella MBT per il tempo necessario a comporlo, impiegando notevoli risorse attentive. Non è possibile comporlo mentre si svolge un'altra attività.

5.3. Flessibilità del processamento controllato

Dalla sommaria descrizione appena fornita delle caratteristiche dei due tipi di processamento, si potrebbe ricavare l'impressione che il processamento controllato rappresenti uno spreco di risorse atten-tive che conduce a risultati assai poco soddisfacenti. È, perciò, utile

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230 ATTENZIONE E COSCIENZA

delineare brevemente le funzioni essenziali svolte dai processi con-trollati. Come si vedrà, il ruolo principale giocato dal processamento controllato è quello di assicurare il massimo di flessibilità al compor-tamento, che, in assenza di controllo, sarebbe limitato ad attività ste-reotipate.

Prima che un soddisfacente grado di apprendimento sia stato raggiunto, qualsiasi processo che poi si svolgerà in modo automatico deve essere praticato in modo controllato. Non potremmo aggiunge-re alcuna attività al repertorio di quelle che normalmente svolgiamo automaticamente, senza prima averla praticata in modo controllato. Non è possibile imparare a leggere, scrivere, giocare a tennis, guidare l'automobile direttamente in modo automatico. In generale, si può dire che, per depositare in MLT l'informazione che poi ci permetterà di svolgere in modo automatico queste attività nuove, è necessario averla prima processata in modo controllato [Moscovitch e Umiltà 1991; Underwood 1978].

Si presentano spesso situazioni nelle quali svolgere un'attività in modo automatico non può portare ad una prestazione efficiente. Le condizioni di visibilità possono rendere difficile la lettura. Si può es -sere costretti a scrivere con alcune dita fasciate. Il vento può alterare la traiettoria della palla e il terreno irregolare produrre rimbalzi inat -tesi. Il ghiaccio può rendere infido l'asfalto. In tutti questi casi, è necessario riportare temporaneamente sotto controllo molti processi che normalmente avvengono in modo automatico.

È possibile che, per migliorare la prestazione, desideriamo modi-ficare la sequenza dei processi di un'attività che già avevamo auto-matizzato. Esistono procedure che rendono più rapida la lettura. È preferibile scrivere con una grafia leggibile da tutti. Un tennista può migliorare il proprio servizio. Ci si trova a guidare in un paese dove si deve tenere la sinistra della strada. In tutti questi casi, la modifica dei processi automatici passa per una fase nella quale essi vengono di nuovo svolti in modo controllato, seguita da una fase di riautoma-tizzazione.

Molte attività richiedono modifiche di strategia. Una modifica della strategia non altera necessariamente i processi automatici. Fre-quentemente la modifica consiste in un diverso «assemblaggio» (pro-cesso controllato) dei processi automatici già disponibili. Il tennista che decide di cambiare strategia, non porta sotto controllo l'esecu-zione dei singoli colpi. Semplicemente compie una diversa scelta fra i colpi possibili, che continuano ad essere eseguiti in modo automati-co. La decisione di usare più spesso il diritto lungo linea che il dirit -to incrociato, non altera il modo in cui i due colpi vengono eseguiti. Oppure, la decisione di inviare la palla nell'angolo destro del campo opposto, posizione in quel momento sguarnita, porta all'esecuzione di un colpo le cui caratteristiche dipendono da circostanze del tutto contingenti. La stessa decisione può portare all'esecuzione di un di-

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ritto lungo linea o incrociato, di un rovescio lungo linea o incrociato. In tutti i casi, il colpo viene eseguito in modo automatico.

5.4. Esistono processi veramente automatici?

La dicotomia fra processamento automatico e processamento controllato ha goduto vasta popolarità negli anni immediatamente successivi alla proposta di questa distinzione da parte di Shiffrin e Schneider [1977].

Hasher e Zacks [1979] hanno proposto sei «criteri» di automati-cità per i processi di memorizzazione, cioè sei condizioni che devono essere ottemperate perché un processo di memorizzazione possa es-sere considerato veramente automatico. Questi criteri sono poi stati estesi a tutti i processi cognitivi [cfr., per esempio, Jonides, Naveh-Benjamin e Palmer 1985].

Un processo automatico 1) deve iniziare indipendentemente dal-le intenzioni dell'osservatore; 2) non deve essere influenzato dalle in-tenzioni dell'osservatore (l'idea è che la quantità di risorse attentive erogabili dipenda dalla volontà dell'osservatore); 3) deve essere scar-samente influenzato dall'età dell'osservatore d'idea è che le risorse attentive erogabili aumentino nel corso dello sviluppo, raggiungano un massimo nell'età adulta, per poi diminuire nel corso dell'invec-chiamento); 4) non deve essere influenzato dall'esecuzione contem-poranea di altri processi cognitivi (non deve, cioè, essere soggetto all'interferenza da doppio compito che, come si è appena visto, può causare una diminuzione delle risorse attentive disponibili); 5) la sua efficienza non deve dipendere dall'esercizio; e 6) deve essere in larga misura indipendente da differenze individuali d'idea è che esistano differenze individuali nella possibilità di erogare risorse attentive e che queste differenze individuali varino con l'esercizio). È chiaro che i sei criteri sono riducibili ad uno soltanto: un processo automatico non deve richiedere risorse attentive.

Successivamente le critiche si sono moltiplicate e, appunto, han -no riguardato soprattutto l'idea che esistano processi che non richie-dono affatto risorse attentive. Kahneman e Treisman [1984] hanno sostenuto che tutti i processi richiedono una certa quota di risorse attentive e che quelli inizialmente considerati come pienamente auto-matici, lo sono in realtà soltanto parzialmente, perché ne richiedono sempre una certa quota, anche se relativamente piccola.

Neveh-Benjamin [1987; 1988; 1990], in particolare, ha pubblica-to una serie di lavori che dimostrano come, se si applicano rigida-mente i criteri proposti da Hasher e Zacks [1979], processi prima considerati come tipicamente automatici (la codifica della posizione spaziale di uno stimolo, il ricordo della sua posizione spaziale e la codifica dell'ordine temporale di eventi) devono essere invece riclas-sificati come controllati.

Particolarmente importante è la dimostrazione da parte di Prit-

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chard e Warm [1983] che il processare i margini quasi-percettivi di Kanizsa [1980] tcfr. supra, cap. Ili, p. 157) richiede risorse attenti-ve, almeno se si considera come indice di richiesta di risorse attenti-ve l'osservazione di effetti di interferenza in una situazione di doppio compito (si veda il paragrafo precedente).

In questa ricerca il compito primario consisteva nel classificare come uguali o diverse coppie di forme definite da margini quasi-percettivi o da margini reali. Al soggetto veniva chiesto di premere un pulsante se le due forme erano uguali oppure un altro pulsante se le due forme erano diverse. La variabile dipendente era la latenza (TR) di una risposta corretta. Nella situazione di compito singolo, questa era la sola prestazione richiesta al soggetto. Nella situazione di doppio compito, il soggetto doveva anche svolgere simultanea-mente un compito secondario, consistente nel mantenere in MBT una serie di 6 numeri.

I risultati dimostrarono che i TR si allungavano in presenza del compito secondario, rispetto alla situazione nella quale veniva svolto soltanto il compito primario, sia per figure definite da margini reali che per figure definite da margini quasi-percettivi. Il rallentamento era maggiore, però, per i margini quasi-percettivi (262 ms) che per i margini reali (87 ms), soprattutto nel caso di risposte «uguale».

Un compito primario di classificazione «uguale-diverso» richiede l'intervento di processi di percezione, confronto e decisione. I pro-cessi di confronto e di decisione non dovrebbero dipendere dal tipo di margine che definisce le figure. I processi decisionali sicuramente non sono automatici e, perciò, sono soggetti ad un rallentamento per l'addizionale richiesta di risorse attentive causata dal compito secon-dario. L'ammontare di questo rallentamento è probabilmente eviden-ziato dall'allungamento dei TR osservato quando le figure sono defi-nite da margini reali. Sembra, perciò, che l'ulteriore allungamento dei TR che si osserva con figure definite da margini quasi-percettivi possa essere attribuibile a processi percettivi.

In conclusione, il percepire figure definite da margini quasi-per-cettivi richiederebbe una quota non irrilevante di risorse attentive. Se un processo così semplice e, apparentemente, così automatico, non può svolgersi senza erogazione di risorse attentive da parte del-l'osservatore, è lecito mettere in dubbio l'esistenza di processi che ottemperino alla principale, e forse unica, condizione di automaticità.

Altri lavori confermano questo dubbio. Epstein e Lovitts [1985] hanno trovato evidenza che il fenomeno della costanza di forma (cfr. supra, cap. Ili) dipende da un processo che è solo parzialmente au-tomatico, in quanto richiede l'erogazione di una certa quota di risorse attentive. Anche i processi che portano ad accedere al lessico interno, come accade quando l'osservatore deve compiere una decisione lessicale parola-nonparola (cfr. cap. VI), richiedono risorse attentive [Herdman 1992; ma una posizione più articolata è proposta da Posner et al. 1989].

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6. La memoria di lavoro e il Sistema attentivo supervisore

Tutti i modelli di memoria (cfr. infra, cap. V) possono essere ricondotti al modello di Atkinson e Shiffrin [1968], che, a sua volta, può essere considerato una rielaborazione di un modello ancora pre-cedente, proposto da Broadbent [1958]. Questo modello di base è caratterizzato da magazzini di memoria di tre tipi.

I magazzini sensoriali mantengono l'informazione per un tempomolto breve (1-2 s). L'informazione presente in questi magazzini hacaratteristiche determinate dalla modalità di ingresso: è di tipo visivo(memoria iconica), quando la modalità di ingresso è visiva; è di tipoacustico (memoria ecoica), quando la modalità di ingresso è acustica;è di tipo tattile, quando la modalità di ingresso è tattile.

II magazzino di MBT ha una capacità limitata (la quantità di informazione che in esso può essere contenuta è limitata) e mantienel'informazione per un periodo più prolungato (circa 30 s). Il tempodi permanenza dell'informazione in questo magazzino può, però, aumentare per effetto della ripetizione volontaria (rehearsal) o diminuire per effetto dell'interferenza. L'informazione in MBT ha caratteristiche che non dipendono in modo diretto dalla modalità di ingresso.

Il magazzino di MLT ha una capacità molto maggiore (forse illi-mitata) e mantiene l'informazione per tempi estremamente lunghi (forse illimitati). L'informazione in MLT ha caratteristiche astratte, che non dipendono dalla modalità di ingresso.

Nella versione iniziale di Atkinson e Shiffrin [1968], il modello prevedeva che l'informazione fluisse dai magazzini sensoriali alla MBT e alla MLT. Questo aspetto del modello è stato abbandonato, ma gli altri, più importanti, aspetti sono stati sostanzialmente mante -nuti anche nei modelli più recenti (sui quali cfr. infra, cap. V, pp. 263-271).

6.1. La memoria di lavoro

Baddeley [1986; 1992a; 1992b] ha sostenuto che non è giustifica-to assumere l'esistenza di un magazzino unitario di MBT e ha propo-sto in alternativa un sistema molto più complesso, composto da di -verse componenti indipendenti e isolabili. Dunque, secondo questo autore, la MBT è in realtà un sistema complesso, meglio definibile come Memoria di lavoro (ML).

Una delle componenti che fanno parte della ML è il Circuito fo-nologico, a sua volta scomponibile in un magazzino fonologico e in un meccanismo di ripetizione {rehearsal) subvocale. Il magazzino fo-nologico ha tutte le caratteristiche della MBT, ma contiene soltanto informazione verbale o ricodificabile verbalmente. Il meccanismo di ripetizione interviene per ricodificare verbalmente l'informazione non verbale in entrata e nel prolungare la permanenza dell'informazione nel magazzino fonologico (cfr. infra, cap. V, p. 267).

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La componente della ML che riveste maggiore interesse per l'at-tenzione è indubbiamente l'Esecutivo centrale. L'Esecutivo centrale, infatti, è visto come un sistema di controllo attentivo che svolge fun-zioni di coordinamento delle operazioni del Circuito fonologico e del Magazzino visivo-spaziale, di integrazione delle informazioni elabora-te da queste due strutture (e da altre strutture non comprese nella ML) e, soprattutto, di elaborazione e selezione di strategie volontarie coscienti.

Per descrivere la ML mi sono basato fino a questo punto esclusi-vamente sui lavori di Baddeley [ibidem]. Per descrivere la compo-nente più importante della ML, l'Esecutivo centrale, preferisco, inve-ce, basarmi sui lavori di Shallice [Norman e Shallice 1986; Shallice 1988]. Shallice, infatti, ha proposto un sistema centrale di controllo, il Sistema attentivo supervisore (SAS), che è certamente assai simile all'Esecutivo centrale di Baddeley, ma ha il vantaggio di essere stato descritto in modo molto più preciso. Lo stesso Baddeley [1992a] si rifa esplicitamente al SAS quando tratta dell'Esecutivo centrale.

6.2. Il Sistema attentivo supervisore

Un processo cognitivo complesso, costituito da una serie di ope-razioni elementari che devono essere eseguite secondo una sequenza predeterminata, può svolgersi in modo non intenzionale, senza con-trollo attentivo, oppure può svolgersi in modo intenzionale, con con-trollo attentivo. Gli esempi che più facilmente vengono alla mente riguardano l'esecuzione di prestazioni percettivo-jnotorie, ma non è difficile pensare ad esempi diversi, come il leggere [Carr et al. 1982] o l'eseguire operazioni aritmetiche [Zbrodoff e Logan 1986].

Prendiamo in considerazione, per rifarci ad un esempio già di-scusso, ciò che avviene quando guidiamo un'automobile; prestazione questa che richiede l'esecuzione di un gran numero di operazioni mentali. Se guidiamo un'automobile che ci è familiare, lungo un per-corso ben noto, con condizioni buone di traffico e di visibilità, la sequenza di operazioni necessarie alla prestazione si svolge in modo fluido e rapido. Le singole operazioni non richiedono controllo at-tentivo. L'attenzione è diretta verso le informazioni (prevalentemente visive) che provengono dal mondo esterno e innescano automatica-mente le sequenze motorie più appropriate.

Una prestazione di guida così fluida non si verificava, invece, quando eravamo piloti principianti. Allora le singole operazioni veni-vano svolte sotto controllo attentivo e la loro sequenza era assai me-no fluida ed efficiente. Un ritorno a questa condizione di controllo attentivo sulle singole operazioni che compongono la prestazione si verifica per un pilota già esperto se l'automobile non è familiare, il percorso non è noto o le condizioni di traffico sono difficili.

È importante notare che qui vengono contrapposti due modi di-versi di selezionare e coordinare le operazioni elementari necessarie

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ATTENZIONE E COSCIENZA 235

alla prestazione globale, non due modi diversi di eseguire le opera -zioni elementari. Si assume, infatti, che le operazioni elementari si svolgano sempre in modo automatico, al di fuori del controllo attenti-vo. Se, mentre si guida, l'auto che precede rallenta improvvisamente, la percezione del suo rallentamento innesca automaticamente l'opera-zione «frenare». Se desidero fermarmi per una qualche ragione, l'o-perazione «frenare» consegue ad una decisione cosciente che richie-de attenzione, ma si svolge ancora automaticamente.

Ciò non avveniva quando ero un pilota principiante perché, allo-ra, l'operazione «frenare» si svolgeva sotto controllo attentivo (per esempio, il pedale del freno doveva essere «cercato» con il piede). Tuttavia, anche quando ero un pilota inesperto, l'operazione ancora più elementare, compresa nell'operazione «frenare», di muovere il piede per cercare il pedale del freno era svolta automaticamente. Dunque, nella discussione che segue, verranno messi a confronto due modi, uno attentivo e uno non attentivo, di controllare (nel sen-so di selezionare e coordinare) sequenze di operazioni elementari, le quali si svolgono in modo automatico perché sono innate o perché si sono automatizzate con l'esercizio.

Secondo Shallice [1988; Norman e Shallice 1986], ciascuna ope-razione elementare (o «schema», nella sua terminologia) ha ad ogni momento un livello di attivazione che dipende dalla quantità di se-gnali attivanti che riceve. Quando un livello di attivazione «soglia» è raggiunto (o superato), l'operazione è selezionata ed eseguita, a meno che non venga inibita da una diversa operazione che con essa è in competizione. Questo è un processo di selezione del tutto automatico, che Shallice chiama «selezione competitiva» icontention sched-uling). L'operazione che viene eseguita in un momento dato è quel la che vince la competizione con tutte le possibili operazioni concorrenti, perché è quella che, in quel momento, raggiunge il massimo livello di attivazione. Quando l'automobile che mi precede rallenta improvvisamente, l'informazione proveniente dal mondo esterno fa sì che l'operazione «frenare» vinca la competizione e inibisca tutte le altre. Il processo di «selezione competitiva» seleziona automaticamente l'operazione «frenare», che viene automaticamente eseguita.

Questo processo di «selezione competitiva» non spiega però per-ché io possa frenare anche quando l'operazione «frenare» non è atti-vata in modo prevalente dalla stimolazione ambientale, ma semplice-mente perché ho deciso di farlo per una ragione qualsiasi. Come già detto, anche in questo caso, però, l'operazione «frenare» si svolge automaticamente. Non spiega neppure come mai io possa non frena-re, anche se l'auto che mi precede rallenta improvvisamente (e cerca-re, invece, di superarla, avendo avuto l'impressione che, frenando, non eviterei il tamponamento). La «selezione competitiva» non tiene conto dei casi nei quali le operazioni vengono selezionate, non auto-maticamente, ma in seguito ad una decisione volontaria.

Shallice [1988; Norman e Shallice 1986; Shallice 1994] sostiene

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Sistemaattentivo

supervisore

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Informazione sensoriale

Strutture di elaborazione

psicologica

Strutture percettive sensoriali

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FIG. 4.10.

che esiste un sistema di controllo (detto, come si è visto, SAS) che ha accesso ad una rappresentazione completa del mondo esterno e delle intenzioni dell'individuo. Il SAS esercita un controllo attentivo, non direttamente sulle operazioni mentali («schemi», secondo Shalli-ce, si ricordi) ma indirettamente, intervenendo sulla «selezione com-petitiva». Il SAS interviene nel processo di «selezione competitiva», dando un'attivazione aggiuntiva ad una operazione. Questa operazio-ne, perciò, prevale sulle altre, indipendentemente dalle condizioni di stimolazione (l'operazione «frenare» viene selezionata ed eseguita an-che se nulla nel mondo esterno la richiederebbe). Oppure, il SAS interviene nel processo di «selezione competitiva» inibendo un'ope-razione. Questa operazione, perciò, non prevale sulle altre anche se, in assenza del SAS, vincerebbe, invece, la «selezione competitiva» in base alle condizioni di stimolazione (l'operazione «frenare» non vie-ne selezionata anche se l'automobile che precede frena improvvisa-mente).

6.3. Le funzioni di controllo del Sistema attentivo supervisore

Le funzioni della «selezione competitiva» e del SAS sono illustra-te in modo schematico nella figura 4.10.

L'informazione proveniente dal mondo esterno è elaborata dalle

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ATTENZIONE E COSCIENZA 237

strutture percettive che hanno caratteristiche modulari [Fodor 1983] (cfr. supra, cap. I, pp. 55-56). L'informazione percettiva ha accesso ad un sistema dove sono rappresentate le possibili operazioni, che vengono, perciò, attivate in vario grado. A questo sistema giunge an -che l'informazione che origina dall'interno dell'organismo (si pensi, per esempio, alla fame e alla sete) e che pure contribuisce all'attiva-zione differenziale delle operazioni in esso rappresentate. Le opera-zioni competono in base al meccanismo della «selezione competitiva» e l'operazione che raggiunge il massimo livello di attivazione prevale e inibisce tutte le altre.

L'operazione che ha «vinto» la «selezione competitiva» viene tra-smessa alla memoria procedurale, nella quale sono rappresentate le procedure delle azioni che rientrano nel repertorio dell'organismo, e attiva la procedura specifica per l'azione corrispondente. L'azione è poi eseguita per mezzo del sistema effettore. Se l'esecuzione di que -sta azione modifica le condizioni di stimolazione esterne e interne, i livelli di attivazione delle varie operazioni cambiano e la nuova «sele-zione competitiva» porta ad un risultato diverso: prevale un'altra operazione e un'altra azione viene eseguita.

Tutto il processo basato sulla «selezione competitiva» è automati-co e non richiede attenzione. Il SAS può, però, intervenire sulla «se-lezione competitiva» e alterarne il risultato. Il SAS non esercita alcun controllo attentivo diretto sulle operazioni. Semplicemente modula il livello di attivazione delle operazioni, prodotto dalle stimolazioni esterne e interne, e ciò fa sì che l'attenzione possa determinare il risultato della «selezione competitiva». Indipendentemente dalle con-dizioni di stimolazione, un'operazione che benefici dell'attivazione supplementare prodotta dall'attenzione, di solito prevale nella «sele-zione competitiva». Al contrario, un'operazione la cui attivazione sia diminuita dall'inibizione prodotta dall'attenzione, di solito, è sopraf-fatta nella «selezione competitiva».

I pazienti con lesioni dei lobi frontali (in particolare, delle aree prefrontali) presentano due sintomi, la perseverazione e la distraibili-tà, che illustrano bene il funzionamento della «selezione competitiva» quando il SAS è leso [Duncan 1986; Shallice 1988]. Questi pazienti ripetono coattivamente un'azione già eseguita anche quando essa è diventata del tutto inutile (perseverazione), oppure eseguono azioni non rilevanti per il compito che stanno svolgendo (distraibilità).

Nel primo caso, essendo costanti le condizioni di stimolazione, la «selezione competitiva» produce sempre lo stesso risultato, e il SAS, essendo leso, non interviene per fare prevalere una nuova operazione che porti ad un'azione diversa. Nel secondo caso, al variare delle condizioni di stimolazione, il risultato della «selezione competitiva» cambia in modo imprevedibile, e il SAS, leso, non interviene per fare prevalere un'operazione che porti all'azione più appropriata per lo svolgimento del compito.

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6.4. Evidenza empirica sul Sistema attentivo supervisore

In soggetti normali, le funzioni del SAS sono state indagate una ricerca di Umiltà et al. [1992]. La situazione sperimentale base era quella tipica del paradigma di doppio compito. Il compito primario consisteva nella discriminazione della posizione spaziale uno stimolo formato da una coppia di lettere (per esempio, BB BC), che veniva presentato sullo schermo di un calcolatore per un tempo relativamente lungo (2 s). I soggetti dovevano premere il più rapidamente possibile un tasto posto a destra della linea mediana del corpo se lo stimolo era apparso a destra del punto di fissazione, op-pure dovevano premere il tasto posto a sinistra della linea mediana del corpo se lo stimolo era apparso a sinistra del punto di fissazione. La variabile dipendente era il TR.

Il compito secondario consisteva nel riferire a voce se le due let -tere che formavano lo stimolo erano uguali o diverse. Si noti che il compito secondario era eseguito senza alcuna pressione temporale: non veniva registrato il TR, lo stimolo restava disponibile sullo scher-mo per 2 s, la prova successiva iniziava dopo altri 2 s.

I soggetti avrebbero benissimo potuto fornire la risposta manuale relativa alla discriminazione spaziale (il cui TR medio era inferiore ai 400 ms), trascurando il compito secondario, e poi confrontare le due lettere, che restavano ancora sullo schermo per almeno 1,6 s. Inoltre, le istruzioni suggerivano proprio questa strategia, perché ai soggetti veniva detto di fornire per prima, e il più velocemente possibile, la risposta relativa alla discriminazione di posizione e, successivamente, la risposta relativa al confronto di forma, per la quale non era richie -sta una rapidità particolare.

Abbastanza sorprendentemente, tuttavia, il compito secondario provocava un allungamento di circa 100 ms dei TR per il compito primario. Il TR era, in media, di 310 ms quando il compito primario era eseguito da solo e di 404 ms quando era seguito dal compito secondario.

Una serie di esperimenti di controllo hanno permesso di escludere che il rallentamento delle risposte al compito primario fosse attri-buibile ad effetti di competizione per risorse attentive o per risorse di processamento visivo. Gli autori sostengono, invece, che il rallen-tamento dei TR per il compito primario, causato dal successivo com-pito secondario, è da attribuirsi all'intervento del SAS [per un'estesa discussione, si rimanda anche a Umiltà 1988b].

La presentazione dello stimolo fornisce l'informazione necessaria allo svolgimento di entrambi i compiti, cioè la posizione (per la di-scriminazione di posizione) e la forma (per il confronto di forma) delle due lettere. Quando deve essere eseguito solo il compito pri -mario, l'informazione relativa alla forma non attiva alcuna operazione nel processo di «selezione competitiva», e la risposta di discrimina-zione di posizione è fornita prontamente.

Quando si aggiunge il compito secondario, sia l'informazione

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relativa alla posizione che l'informazione relativa alla forma attiva-no le corrispondenti operazioni nel processo di «selezione competi-tiva». Dovrebbe, perciò, essere la «selezione competitiva» a deter-minare, di volta in volta, quale risposta è fornita per prima e qua le per seconda.

Tuttavia, la particolare situazione sperimentale (una risposta rapi -da è richiesta soltanto per la discriminazione di posizione) e le istru -zioni (la risposta di discriminazione di posizione deve essere fornita per prima), richiedono l'intervento del SAS. Il SAS interviene sulla «selezione competitiva» e determina l'ordine temporale per le due risposte: prima la risposta di discriminazione di posizione, poi la ri-sposta di confronto di forma. L'intervento del SAS, però, richiede tempo e ciò rallenta i TR per il compito primario.

Questa interpretazione è stata confermata da un altro esperimen-to, nel quale l'informazione relativa al compito primario era presen-tata 1,8 s prima dell'informazione relativa al compito secondario. In questo caso non era più necessario il SAS per determinare la sequen-za delle due risposte. Infatti, non vi era competizione fra le corri-spondenti operazioni a livello di «selezione competitiva»: le due ope-razioni non erano attivate contemporaneamente, ma in momenti suc-cessivi. Come previsto, il compito secondario non provocava alcun allungamento dei TR per il compito primario.

7. Attenzione e coscienza

Le ricerche sui rapporti fra attenzione e coscienza possono essere raggruppate attorno a tre questioni fondamentali. I processi di elabo-razione dell'informazione tipici della mente umana possono essere in-consci? Esistono differenze qualitative e/o quantitative fra il proces-samento conscio e il processamento inconscio? Che ruolo specifico gioca la coscienza nel processamento dell'informazione? Qui di segui-to prenderò in considerazione separatamente queste tre questioni.

7.1. Il processamento inconscio

In questi ultimi anni è venuta affermandosi la concezione che le operazioni mentali si svolgano normalmente in modo inconscio e che soltanto in casi particolari, grazie all'intervento dell'attenzione seletti-va o spaziale, le rappresentazioni prodotte dal processamento dell'in-formazione possano diventare conscie [per rassegne, si rimanda a Johnson-Laird 1988a; Umiltà 1988b; Velmans 1991].

Precedentemente (cfr. pp. 209-213), si è sostenuto che, in accor -do con l'ipotesi della selezione tardiva, il processamento dell'informa-zione si svolge compiutamente anche in assenza di attenzione. Se si considera l'attenzione (spaziale e selettiva) come la «porta» che per-mette l'ingresso delle rappresentazioni in coscienza [Umiltà 1988b;

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Velmans 1991], si può ragionevolmente sostenere che tutti gli esperi-menti che dimostrano che il processamento dell'informazione avviene anche senza mediazione attentiva, dimostrano anche il verificarsi del processamento inconscio.

Nel caso degli effetti Stroop, Simon e Navon, si vede che l'infor-mazione non rilevante (alla quale non si presta attenzione) viene compiutamente processata. Si potrebbe, perciò, concludere che gli effetti Stroop, Simon e Navon dimostrano che l'informazione non ri-levante è processata in modo inconscio. Non si può, però, esserne certi. Altre ricerche hanno fornito evidenza più convincente.

Il paradigma sperimentale più usato per affrontare questo pro-blema (detto «paradigma della stimolazione dicotica») fu introdotto circa quaranta anni fa da Cherry [1953] e poi sviluppato da Treis-man [1964]. Al soggetto vengono presentati simultaneamente due messaggi (per esempio, due liste di parole), uno ad un orecchio e l'altro all'altro orecchio. Il compito consiste nel dirigere l'attenzione su un orecchio e ripetere a voce alta il messaggio udito. Successiva-mente al soggetto viene richiesto di rispondere a domande relative al messaggio presentato all'orecchio al quale non ha prestato attenzio-ne. Il soggetto è incapace di riferire le parole che gli sono state pre-sentate. Non è neppure in grado di stabilre in che lingua il messag-gio era pronunciato. È, però, in grado di differenziare un rumore da una voce umana e una voce maschile da una voce femminile.

Broadbent [1958] sostenne che soltanto alcune caratteristiche fi-siche del messaggio potevano essere processate in assenza di atten-zione (in modo inconscio), mentre il processamento di grado più elevato poteva avvenire soltanto con la mediazione dell'attenzione (in modo conscio). Questa affermazione fu presto messa in dubbio da Moray [1959], il quale dimostrò che il soggetto poteva prontamente riferire di avere udito il proprio nome, incluso nel messaggio presen-tato all'orecchio al quale non stava prestando attenzione. Dunque, il processamento inconscio sembrava potere procedere fino al livello di estrazione del significato delle parole.

Lewis [1970] confermò in modo particolarmente convincente che il processamento inconscio raggiunge il livello del significato delle pa-role presentate all'orecchio al quale non si presta attenzione. Anche nel suo esperimento, i soggetti dovevano ripetere le parole presentate ad un orecchio mentre all'altro orecchio venivano presentate simulta-neamente delle parole diverse. Lewis trovò che la rapidità di ripeti-zione era influenzata dal fatto che le parole presentate all'orecchio opposto (parole che i soggetti non dovevano ripetere e delle quali apparentemente nulla sapevano) fossero o no relate semanticamente alle parole che dovevano essere ripetute. Dunque, la prestazione re-lativa all'informazione processata attentivamente (e consciamente) di-pendeva dal significato dell'informazione processata non attentiva-mente (e non consciamente).

Corteen e Wood [1972] produssero preliminarmente nei loro soggetti una risposta psicogalvanica condizionata a certe parole, asso-

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dandole sistematicamente ad una lieve scarica elettrica. Quando la risposta condizionata si era stabilita, l'ascolto della parola condiziona-ta provocava la risposta psicogalvanica anche in assenza della scarica elettrica.

Successivamente, presentarono all'orecchio al quale il soggetto non prestava attenzione le parole condizionate, mescolate casualmente ad altre parole «neutre». Il compito era quello tipico di questo paradigma sperimentale e consisteva nel ripetere a voce alta le parole presentate all'orecchio sul quale era diretta l'attenzione. I soggetti non erano coscienti delle parole presentate all'orecchio opposto, tut-tavia le parole condizionate producevano la risposta psicogalvanica. Anche parole diverse da quelle condizionate, ma ad esse semantica-mente relate, producevano la risposta psicogalvanica.

Dunque, i risultati di questo esperimento confermarono che pa-role non percepite coscientemente sono processate fino all'estrazione del significato.

Con l'impiego del paradigma della stimolazione dicotica si sfrutta la possibilità di presentare informazione diversa contemporaneamente a due «canali» sensoriali indipendenti (i due orecchi) e la capacità del soggetto di orientare l'attenzione spaziale su di uno solo di essi (informazione rilevante) a scapito dell'altro (informazione non rile-vante). Nel caso degli effetti Stroop, Simon e Navon, tutta l'informa-zione viene presentata allo stesso «canale» sensoriale (il «canale» visi-vo) e si sfrutta la capacità del soggetto di impiegare l'attenzione se-lettiva per selezionare un certo tipo di informazione (rilevante) a sca-pito di altra informazione (non rilevante).

La differenza fondamentale fra le due procedure consiste nel fat -to che nel paradigma dicotico si può accertare che l'informazione non rilevante non è percepita consciamente (il soggetto non è in grado di riferire le parole presentate all'orecchio al quale non presta attenzione), mentre nel caso degli effetti Stroop, Simon e Navon questa prova manca. Si è, perciò, cercato di ottenerla «mascheran -do» l'informazione non rilevante in modo da non renderla percepibi le consciamente [per una rassegna, rimandiamo a Holender 1986]. Si noti che, così facendo, si creano condizioni sperimentali assai simili a quelle impiegate per studiare il fenomeno che un tempo andava sotto il termine, ormai in disuso, di «percezione subliminare» [Dixon 1981].

Gli studi più interessanti condotti con il paradigma sperimentale del mascheramento [Holender 1986], hanno indagato gli effetti di priming semantico (cfr. infra, cap. VI, p. 354) prodotti da una parola mascherata in un compito di decisione lessicale. Nel compito di de-cisione lessicale (cfr. infra, cap. VI, p. 354) si chiede al soggetto di decidere il più rapidamente possibile, premendo uno dei due pulsanti a sua disposizione, se una stringa di lettere presentata, per esempio, sullo schermo di un calcolatore, è una parola oppure no. Se è una parola, deve premere un pulsante, se non è una parola, deve premere l'altro pulsante. La variabile dipendente è il TR.

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Per dimostrare l'effetto di priming semantico, la procedura viene leggermente modificata. Sullo schermo viene per prima presentata una parola che il soggetto deve semplicemente leggere. Successiva-mente viene presentata la stringa di lettere che richiede la decisione lessicale parola-nonparola. Se accade che vengano presentate due pa-role in successione (quella che deve essere semplicemente letta e poi quella che richiede la decisione lessicale) il TR per la decisione lessi-cale è più rapido se esse sono relate semanticamente rispetto a quan-do non lo sono. Per esempio, il TR per la decisione lessicale sulla parola BURRO è più rapido se prima il soggetto ha letto PANE piutto-sto che VELA.

Nel paradigma sperimentale che dimostra il fenomeno del prim-ing semantico con parole mascherate, la procedura sperimentale classica è quella introdotta da Marcel [Marcel e Patterson 1978; Marcel 1980; cfr. anche Cheesman e Merikle 1984; 1986; Dagen-bach, Carr e Wilhelmsen 1989].

Sullo schermo si presenta per 500 ms uno stimolo di maschera-mento, poi una parola per un tempo di circa 100 ms (ma il tempo esatto di esposizione della parola è stabilito individualmente per cia-scun soggetto), poi ancora uno stimolo di mascheramento per 500 ms e, infine, per 50 ms, la stringa di lettere che richiede la decisione lessicale. Nella metà delle prove, al posto della parola inserita fra i due stimoli di mascheramento, viene invece presentata una forma senza senso (dei segmenti disposti in modo casuale).

Il tempo di esposizione della parola o della forma senza senso viene determinato per ciascun soggetto in modo tale che non gli ri-sulti possibile stabilire quale delle due sia stata effettivamente presen-tata. Questo tempo di esposizione viene diminuito con il succedersi delle prove, per evitare che un eventuale abbassamento della soglia, causato dall'esercizio, renda percepibile consciamente lo stimolo che si vuole mascherare.

In queste condizioni sperimentali si può ragionevolmente soste-nere che la parola mascherata non è stata percepita consciamente dal soggetto. Tuttavia, l'effetto di priming semantico si ottiene ugualmen-te: il TR per la decisione lessicale è più rapido se la parola è stata preceduta da un'altra parola (non percepita consciamente) che ap-partiene alla stessa area semantica. L'ovvia conclusione è che la pa-rola mascherata è stata processata a livello inconscio fino ad estrarne il significato.

7.2. Caratteristiche del processamento inconscio

II secondo problema riguarda le possibili caratteristiche differen-ziali del processamento inconscio rispetto al processamento conscio. Una volta stabilito che il processamento inconscio esiste e che è completo, nel senso di svolgersi fino al livello semantico (estrazione

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del significato), diventa interessante chiedersi se esso è simile al pro-cessamento conscio.

Marcel [1980] ha affrontato questo problema con l'impiego di un'altra versione del compito di decisione lessicale con priming se-mantico. Al soggetto vengono presentate due parole, in successione, prima della stringa di lettere che richiede la decisione lessicale: per esempio, prima PANE, poi VELA e infine GATTO (oppure una nonpa-rola). L'aspetto cruciale della ricerca di Marcel era che la seconda parola era ambigua (poteva, cioè, avere più significati) e veniva di-sambiguata (uno solo dei possibili significati era selezionato) per mezzo della prima parola. Per esempio, in inglese la parola BANK è ambigua perché può indicare sia la riva di un corso d'acqua che un luogo nel quale si deposita denaro. Le sequenze SAVE-BANK e WA-TER-BANK sono disambiguanti, perché la prima seleziona il significato di BANCA e la seconda il significato di RIVA.

Nella condizione di controllo, Marcel {ibidem] presentò le due parole in modo che risultassero perfettamente visibili al soggetto (il tempo di esposizione era per entrambe di 500 ms e non vi era ma-scheramento) e osservò che la seconda parola produceva l'effetto di priming semantico soltanto per il significato che risultava essere sele-zionato dalla prima parola. Per esempio, il priming semantico (dimo-strato dal TR per la decisione lessicale relativa alla terza parola) si otteneva per la sequenza SAVE-BANK-MONEY ma non si otteneva per la sequenza SAVE-BANK-RIVER.

Nella condizione sperimentale, la seconda parola fu presentata in modo tale da non essere percepita consciamente dal soggetto. Il tem-po di esposizione era di soli 10 ms e la parola era seguita da uno stimolo di mascheramento. Il soggetto non era così in grado di stabi-lire se nella seconda posizione della sequenza fosse stata o no pre-sentata una parola. In questo caso l'effetto di priming semantico non era più selettivo: il priming semantico si otteneva sia per la sequenza SAVE-BANK-MONEY che per la sequenza SAVE-BANK-RIVER.

Sembra, perciò, che esista una differenza interessante fra il pro-cessamento conscio e inconscio della parola BANK. Quando il proces-samento è conscio, uno solo dei suoi significati è attivato (dalla paro-la disambiguante presentata per prima) e produce l'effetto di priming semantico. Quando il processamento è inconscio, entrambi i signifi-cati sono attivati (indipendentemente dalla parola disambiguante presentata per prima) e producono l'effetto di priming semantico. Come si vedrà qui di seguito, trattando degli esperimenti di Neely [1977], è possibile che una parola ambigua percepita consciamente produca una processo di ricerca nel lessico, guidato da un solo signi-ficato per volta. Invece, una parola ambigua percepita inconsciamente attiverebbe in modo automatico tutte le parole vicine, nel lessico, ai suoi diversi significati.

Posner [Posner 1978; Posner e Snyder 1975] ha proposto che, indipendentemente dalle condizioni di stimolazione (tempo di espo-sizione breve o lungo, mascheramento presente o assente), il proces-

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samento cosciente richiede un certo tempo (almeno 250 ms) per ini-ziare. Perciò, nei primi 250 ms successivi alla presentazione di uno stimolo (una parola, negli esempi presi in considerazione sopra), il processamento è inconscio anche se le condizioni di stimolazione so-no tali da produrre una percezione conscia.

Successivamente, intervengono i processi di selezione attentiva e il processamento diventa conscio. In altre parole, il processamento con-scio richiede l'intervento dell'attenzione selettiva e l'attenzione selettiva richiede tempo per esplicare i suoi effetti. Di conseguenza, il processa-mento conscio inizia con una latenza stimabile in circa 250 ms.

Neely [1977] sottopose a verifica empirica questa ipotesi per mezzo di una procedura sperimentale piuttosto ingegnosa, ancora una volta basata su una versione del compito di decisione lessicale. Prima della stringa di lettere sulla quale doveva essere presa la deci-sione lessicale, al soggetto veniva fornito un indizio molto attendibile sulla classe di appartenenza di una eventuale successiva parola. Per esempio, l'indicazione «veicoli» segnalava che successivamente la pa-rola sarebbe molto probabilmente appartenuta a questa classe (AE-REO, AUTOMOBILE, TRENO, eCC.).

Ovviamente, poteva anche accadere che la successiva stringa di lettere costituisse una nonparola, oppure, ma molto più raramente, una parola appartenente ad una classe diversa (MERLO, PIEDE, CASA, ecc). Altre classi segnalate potevano essere «uccelli», «parti del cor-po» o «edifici».

Quando l'intervallo fra l'indizio e la parola che richiedeva la de-cisione lessicale era breve (250 ms), si verificava un effetto di priming se l'indizio era valido. Nei termini impiegati discutendo degli esperi-menti di orientamento dell'attenzione, si aveva un beneficio. Per esempio, dopo l'indizio «uccelli», il TR per la decisione lessicale era più breve per la parola MERLO che per una parola di controllo, non appartenente a nessuna delle classi che potevano essere segnalate da un indizio. Tuttavia, quando l'indizio non era valido, non si avevano costi. Per esempio, dopo l'indizio «uccelli», il TR per la decisione lessicale era altrettanto rapido per la parola PIEDE che per una paro-la di controllo.

Quando l'intervallo fra l'indizio e la parola che richiedeva la de-cisione lessicale era più lungo (750 ms), i benefici prodotti da un indizio valido aumentavano rispetto a quelli osservati con l'intervallo più breve, ma comparivano anche costi, prodotti da un indizio inva-lido. Per esempio, dopo l'indizio «uccelli», il TR per la decisione les-sicale era più lungo per la parola PIEDE che per una parola di con-trollo.

Secondo Neely [1977], con l'intervallo breve si osservano solo gli effetti del processamento inconscio. L'indizio provoca attivazione au-tomatica delle rappresentazioni lessicali di tutte le parole appartenenti alla classe corrispondente, ma non provoca inibizione delle parole appartenenti alle altre classi. L'intervallo lungo permette l'intervento dell'attenzione selettiva, guidata dalle aspettative che il soggetto si

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forma sulla base del processamento conscio dell'indizio. L'attenzione selettiva ha un duplice effetto: attiva le rappresentazioni lessicali del-le parole segnalate dall'indizio e inibisce le rappresentazioni delle pa-role appartenenti a classi diverse.

Si potrebbe pensare che il soggetto, in base al significato dell'in -dizio, orienti l'attenzione su una classe di parole. Ciò produce bene -fìci se la parola appartiene veramente alla classe attesa e costi se la parola appartiene ad una classe diversa. In breve, secondo Neely, il processamento inconscio dell'indizio produce soltanto benefici, men-tre il suo processamento conscio produce sia costi che benefici.

A conferma dei diversi effetti prodotti dal processamento conscio o inconscio dell'indizio, in un altro esperimento Neely [1977] fece sì che l'indizio segnalasse una parola non relata semanticamente all'in-dizio stesso. Per esempio, l'indizio «parti del corpo» segnalava un'alta probabilità che l'eventuale parola successiva appartenesse alla classe «edifici». Neely trovò che, con un intervallo breve (250 ms), l'indizio «parti del corpo» produceva benefici per le parole appartenenti a quella classe (per esempio, PIEDE), anche se erano improbabili, mentre non aveva alcun effetto sulle parole appartenenti alla classe segnalata (per esempio, CASA), che erano molto più probabili.

Questo sarebbe il risultato dell'attivazione automatica delle rap-presentazioni lessicali delle parole, causata dal processamento incon-scio dell'indizio. Poiché l'attenzione selettiva non ha tempo sufficien-te per intervenire, gli effetti del processamento conscio dell'indizio, e delle aspettative del soggetto, non si manifestano.

Con un intervallo lungo (750 ms), l'indizio «parti del corpo» produceva benefici per le parole appartenenti alla classe segnalata (per esempio, CASA) e costi per le parole appartenenti alla classe non segnalata, ma che erano semanticamente relate all'indizio (per esem-pio, PIEDE). Quando l'intervallo è lungo, interviene l'attenzione selet-tiva. Ciò fa sì che si manifestino gli effetti del processamento conscio dell'indizio e delle aspettative così create nel soggetto.

7.3. Il ruolo della coscienza

Se si accetta che il processamento dell'informazione possa svolgersi in modo sia conscio che inconscio, e che esistano delle differenze quantitative e/o qualitative fra il processamento conscio e il processa-mento inconscio, appare legittimo chiedersi se la coscienza ha un ruolo causale nei processi cognitivi [per una più estesa discussione di questo problema, rimando ai vari contributi del volume curato da Marcel e Bisiach 1988; in particolare, per una risposta affermativa, cfr. Umiltà 1988b; e, per una risposta negativa, cfr. Velmans 1991].

Per prima cosa, è importante sottolineare che il sistema della co -scienza è spesso identificato con i contenuti e le operazioni di un sistema a capacità limitata. I processi cognitivi sarebbero normalmen-

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te inconsci e si svolgerebbero in parallelo, al di fuori del sistema a capacità limitata. Soltanto le operazioni di controllo e i prodotti di alcuni processi cognitivi avrebbero accesso al sistema a capacità limi-tata e diverrebbero consci.

Al sistema a capacità limitata sono stati dati nomi diversi. Abbia-mo già visto che Baddeley [1992a; 1992b] parla di Esecutivo centrale (anche Logan e Cowan [1984] usano questo termine), mentre Shallice [1988] parla di Sistema attentivo supervisore. Johnson-Laird [1983] parla di Sistema operativo. Qui userò il termine, più generi -co, di Processore centrale (Pc) [Umiltà 1988b].

Un qualche cosa di simile al Pc è stato proposto esplicitamente anche da Klatzky [1984]; Mandler [1984]; Posner [1978]; Under-wood [1982]; Weiskrantz [1988].

La grande maggioranza delle operazioni mentali non ha accesso al Pc (e, perciò, resta inconscia) essenzialmente per due ragioni. La prima è che le operazioni mentali sono semplicemente troppo nume-rose per essere controllate da un Pc che opera in serie, per mezzo di meccanismi attentivi a capacità limitata [Johnson-Laird 1983; Pos-ner 1978]. La seconda ragione è che il Pc richiede un certo tempo per operare, dal momento che i meccanismi attentivi possono essere attivati solo con una certa latenza, mentre le operazioni mentali sono molto rapide [Neely 1977; Posner 1980b; Underwood 1982]. A que-sto proposito, è interessante notare che una serie di ricerche di Libet [1985; 1989] hanno dimostrato come un periodo piuttosto prolungato di attività della corteccia cerebrale (circa 500 ms, per uno stimolo a livello di soglia) sia necessario perché si produca una esperienza conscia di un evento sensoriale.

Come si è già detto, si ritiene che i processi cognitivi si svolgano in modo automatico o in modo controllato. Il modo controllato sa-rebbe conscio e si svolgerebbe sotto l'influenza diretta del Pc, che determina gli scopi consci dei processi cognitivi. Il ruolo del Pc sa-rebbe anche quello di imporre, per mezzo di una serie di operazioni di controllo coscienti, una organizzazione ai processi cognitivi tale da permettere la realizzazione di questi scopi [Carr 1979; Ceci e Howe 1982; Logan e Cowan 1984; Umiltà 1988b].

Ovviamente, non si sostiene che, nel caso dei processi controllati, il Pc eserciti un controllo cosciente sulle singole operazioni mentali che costituiscono un processo cognitivo complesso. Il Pc esercita un controllo cosciente di tipo strategico, nel senso che interviene per fare iniziare delle sequenze di operazioni. Ancora più importante è il controllo cosciente che si manifesta nella possibilità di interrompere delle sequenze di operazioni in atto. È probabile che la capacità di interrompere volontariamente un processo in atto sia proprio la fun-zione principale del Pc [Logan e Cowan 1984; Umiltà 1988b],

II ruolo di controllo cosciente esercitato dal Pc è più indiretto, ma non assente, nel caso di processi automatici. In primo luogo, va tenuto presente che nei processi automatici si può distinguere una prima fase nella quale essi sono soggetti ad essere interrotti ed una

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seconda fase, raggiunta la quale non possono più essere interrotti [Logan 1985; Osman, Kornblurn e Meyer 1986; Zbrodoff e Logan 1986]. Il Pc può intervenire durante la prima fase e così esercitare un controllo anche sui processi automatici.

In secondo luogo, come è stato suggerito da Allport [1980] e da Keele e Ntill [1978], il Pc può esercitare un controllo sui processi automatici determinando uno scopo cosciente che deve essere rag-giunto. Quando uno scopo diventa attivo nel Pc (cioè, quando uno scopo emerge a livello di coscienza), i processi automatici che porta -no alla realizzazione di questo scopo iniziano non appena si presen-tano le opportune condizioni ambientali.

Dunque, i contenuti consci del Pc possono influenzare sia i pro-cessi controllati che i processi automatici. Nel caso dei processi con-trollati e delle fasi iniziali dei processi automatici, l'influenza è diret -ta, nel senso che il Pc organizza la sequenza di esecuzione delle ope-razioni mentali componenti. Nel caso dei processi automatici, l'in-fluenza è indiretta, nel senso che essa dipende dagli scopi che diven -tano coscienti all'interno del Pc.

A questo punto è importante chiedersi se sia proprio necessario postulare l'esistenza di un Pc indipendente dai meccanismi di con-trollo attentivo, che, anzi, usa i meccanismi attentivi per svolgere le funzioni di controllo. In effetti, alcuni autori usano come sinonimi i termini «attenzione» e «coscienza» [cfr., per esempio, Klatzky 1984; Logan e Cowan 1984; Schneider, Dumais e Shiffrin 1984].

Da questo punto di vista, risulta particolarmente interessante la posizione di Shallice [1988], per il quale il SAS svolge le funzioni di solito attribuite ad un Pc, senza, però, assumere che le operazioni che in esso si svolgono siano consce, e neppure siano consci i suoi contenuti. Secondo Shallice, lo schema che prevale nella «selezione competitiva» raggiunge il livello di coscienza. Il SAS è un meccani-smo puramente attentivo che contribuisce a determinare quale sche-ma prevale nella «selezione competitiva», senza per questo avere un ruolo privilegiato nel fenomeno della coscienza.

Qui di seguito illustrerò le principali argomentazioni che rendono sostenibile che il Pc e i meccanismi attentivi devono essere tenuti separati. Per prima cosa, va notato che, anche se l'attenzione è nor -malmente necessaria perché uno stimolo esterno raggiunga il livello di coscienza, può anche accadere che uno stimolo raggiunga il livello di coscienza senza la mediazione dell'attenzione [Ceci e Howe 1982; Posner 1980b; Underwood 1982]. Ciò tipicamente si verifica negli esperimenti di stimolazione dicotica, quando una parola particolar-mente rilevante (per esempio, il nome del soggetto) viene presentata al canale al quale non viene prestata attenzione. La parola è imme-diatamente percepita a livello conscio.

Si noti che la situazione è ben diversa rispetto a quando una parola, alla quale non si sta prestando attenzione, dimostra, in modo indiretto, di essere stata processata perché ha degli effetti sul proces-samento dell'informazione alla quale si presta attenzione. In questo

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caso, in assenza di attenzione, la parola viene processata ma non di-venta conscia. Al contrario, il nome del soggetto raggiunge il livello di coscienza. È, perciò, possibile sostenere che uno stimolo può avere accesso al Pc in assenza di attenzione. L'attenzione è la porta di ingresso privilegiata al Pc, ma non l'unica disponibile.

Vi sono anche altre prove dell'indipendenza dell'attenzione dalla coscienza. Secondo Norman e Shallice [1986], è possibile essere con-sci di svolgere un'azione senza per questo dirigervi l'attenzione. La «dissociazione contraria» è stata sostenuta da Nissen e Bullemer [1987; cfr. anche Curran e Keele 1993; Willingham, Nissen e Bulle-mer 1989], i quali hanno dimostrato che un'azione alla quale si sta prestando attenzione non raggiunge necessariamente il livello di co-scienza.

In precedenza, si è osservato come l'attenzione può essere orien-tata nello spazio in modo volontario, dirigendola su certe posizioni a spese di altre. Gli stimoli presentati nelle posizioni sulle quali è stata diretta l'attenzione raggiungono immediatamente il livello di coscien-za, mentre gli stimoli presentati nelle posizioni non interessate dal-l'attenzione rimangono inconsci (anche se sono processati). Lo stesso fenomeno si verifica nello «spazio» dei contenuti della MLT. È possi-bile dirigere volontariamente l'attenzione su certi contenuti della MLT, i quali raggiungono immediatamente il livello di coscienza, per poi ritornare inconsci quando l'attenzione è diretta su contenuti di-versi [Ceci e Howe 1982; Underwood 1982].

La differenza fra coscienza e attenzione è ben sottolineata da Ceci e Howe [1982; cfr. anche Umiltà 1988b], i quali distinguono fra attenzione e intenzione di prestare attenzione. Quando l'attenzione è attratta automaticamente (senza intenzione da parte dell'osservatore) da un evento, soltanto il prodotto dell'atto di prestare attenzione di-venta conscio, ha, cioè, accesso al Pc. E questo il caso del nome del soggetto in un esperimento di stimolazione dicotica. Quando, invece, l'attenzione è intenzionalmente diretta su un evento, è il Pc stesso che controlla l'atto di prestare attenzione e determina quali contenuti devono raggiungere il livello di coscienza e quali devono rimanere inconsci.

Una posizione piuttosto diversa è stata sostenuta recentemente da Velmans [1991], secondo il quale funzioni apparentemente tipi-che del Pc, come la pianificazione e l'esecuzione di risposte volonta-rie (non automatiche) ad una stimolazione ambientale, possono svol-gersi in modo inconscio. Infatti, come ho accennato in precedenza, Libet [1985; 1989] ha dimostrato che uno stimolo, la cui intensità sia a livello di soglia, diventa conscio dopo un tempo di esposizione (e un periodo di attività delle aree corticali corrispondenti) di circa 500 ms. Il soggetto è, tuttavia, in grado di fornire una risposta ap -propriata a quello stesso stimolo con una latenza di circa 100 ms. Ciò sembrerebbe indicare che il soggetto può segnalare la comparsa dello stimolo (per esempio, premendo un pulsante) circa 400 ms pri -ma di averlo percepito in modo conscio.

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Libet [1985] ha anche dimostrato che le aree corticali motorie si attivano circa 350 ms prima che il soggetto abbia esperienza della decisione di compiere un movimento. Se si chiede al soggetto di sol-levare una mano di tanto in tanto, volontariamente, senza che il mo-mento di esecuzione del movimento sia segnalato da alcuno stimolo (dunque, il movimento avviene esclusivamente per una decisione conscia), l'area corticale motoria corrispondente alla mano si attiva circa 350 ms prima che il soggetto abbia esperienza di avere deciso di sollevare la mano. Sembrerebbe, perciò, che il Pc eserciti le sue funzioni di controllo in modo inconscio.

Libet [ibidem] stesso, tuttavia, distingue fra la decisione di iniziare il movimento e l'esecuzione del movimento stesso. L'esperienza conscia di avere deciso di eseguire il movimento segue di circa 350 ms l'attività delle aree motorie corticali, ma precede di circa 150 ms l'esecuzione del movimento che è stato deciso. Nei 150 ms successivi all'accesso della decisione alla coscienza, il soggetto può bloccare l'e-secuzione del movimento. Secondo l'autore, perciò, la coscienza ha un ruolo causale; non, però, nel senso di decidere o meno il movi-mento, ma, piuttosto, nel permettere o meno l'esecuzione di un mo-vimento già deciso a livello inconscio.

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

L'unico libro che tratti approfonditamente quasi tutti gli aspetti dell'attenzione, è quello a cura di Parasuraman e Davies [1984]. Purtroppo non è più molto aggiornato. Può, però, essere di grande aiuto perché fornisce un inquadramento teorico, ancora molto vali-do, a chi voglia iniziare lo studio approfondito di un aspetto partico-lare dell'attenzione. Le stesse considerazioni valgono per il libro di Bagnara [1984], almeno riguardo all'aspetto intensivo dell'attenzione (le risorse attentive).

Per ciascuno dei paragrafi del capitolo, sono state indicate rasse-gne, dalle quali si possono facilmente ricavare indicazioni per ulteriori approfondimenti. Qui di seguito, elencherò le più importanti. L'attenzione spaziale non è trattata né da Parasuraman e Davies [1984] né da Bagnara [1984]. Rassegne si possono trovare in Allport [1989]; Rizzolatti, Riggio e Sheliga [1994]; Umiltà [1988a]. I disturbi dell'attenzione spaziale sono trattati in alcuni capitoli di Shallice [1988]. Per quanto riguarda l'attenzione selettiva, si consiglia di leg-gere Treisman [1988], per la distinzione fra processamento preatten-tivo e attentivo; Umiltà e Nicoletti [1992], per l'effetto Simon; Mac-Leod [1991], per l'effetto Stroop; Kimchi [1992], per l'effetto Na-von; Stablum e Pavese [1992], per il priming negativo. Un'approfon-dita esposizione di alcuni modelli connessionisti di attenzione seletti-va e spaziale si trova in Murre [1992]. La distinzione fra processa -mento automatico e controllato, fino a pochi anni fa ancora al centro delle ricerche sull'attenzione, ha attualmente perso di interesse. Forse

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perché si è capito che non esistono processi esclusivamente automa-tici: quella che sembrava un'interessantissima dicotomia, si è rivelata essere una, meno interessante, gradazione. Perciò, per approfondire il problema, è preferibile rivolgersi a lavori non recentissimi: Kahne-mane Treisman [1984] e Schneider et al. [1984].

E stato Baddeley a individuare la struttura chiamata memoria di lavoro e a chiarirne le modalità operative. Un suo libro [Baddeley 1986] è anche disponibile in traduzione italiana. Lo stesso discorso vale per Shallice e il Sistema attentivo supervisore. Il SAS è descritto nel libro di Shallice [1988].

Per un approfondimento del problema della coscienza, si riman-da alla rassegna di Velmans [1991] e ai volumi a cura di Marcel e Bisiach [1988] e di Umiltà e Moscovitch [1994].

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emoria, apprendimento m?. e immaginazione

Capitolo 5

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La memoria riguarda il mantenimento dell'informazione nel tem-po: è la capacità di elaborare, conservare e recuperare l'informazio-ne. Ed è tanto centrale nei nostri processi cognitivi che senza di essa saremmo privi di ogni vita intellettuale, vegetali incapaci di vedere e udire, dato che la continuità della nostra percezione, così come quel-la del nostro pensiero, del nostro linguaggio e della nostra compren-sione dipende dalla memoria. Saremmo senza identità personale per-ché anche quella dipende dalla continuità dei nostri ricordi.

Con il termine memoria si fa riferimento ad abilità molto diffe -renti: dal mantenimento dell'informazione sensoriale, al ricordo del significato delle parole, al nostro patrimonio di conoscenze e ai no-stri ricordi personali nonché alla programmazione di azioni future. La memoria è composta da molti differenti sistemi interconnessi con funzionamenti alquanto diversificati che hanno in comune la caratte-ristica di mantenere le informazioni nel tempo. Questo tempo può variare dalla frazione di secondo, al minuto, alla vita, così come la quantità di informazione conservata può variare da capienze così esi-gue da non essere in grado di conservare numeri telefonici troppo lunghi fino a dimensioni analoghe a quella di qualsiasi computer.

1. Tecniche di misurazione e di ricerca della memoria umana

1.1. Approccio ecologico e ricerche di laboratorio

L'approccio scientifico

La riflessione filosofica sulla memoria umana è vecchia come la nostra cultura, ma il suo studio scientifico ha solo cent'anni, la mag-gior parte dei quali trascorsi in laboratorio, da quando nel 1885 lo

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252 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

studioso tedesco Hermann Ebbinghaus propose un metodo di studio della memoria che si poneva come scientifico, obiettivo e sperimenta-le. Evitando volutamente la ricchezza e complessità della memoria in situazioni naturali, Ebbinghaus scelse di studiare come si apprende e si dimentica materiale artificiale, in un unico soggetto, se stesso, sotto rigidi controlli di laboratorio. In questo modo scoprì alcune leggi del la memoria, valide ancor oggi, ma cosa ancor più importante dimostrò che anche una funzione così complessa come la memoria umana poteva essere studiata con metodo rigorosamente sperimentale.

Come rileva Gillian Cohen [1989] l'esperimento tipico di memo-ria si caratterizza per controllare la prestazione mnestica in una situa-zione in cui vengono selezionate, rigorosamente controllate e mani-polate poche variabili, mentre tutta la miriade di altri fattori, che normalmente influenzano la memoria nella vita di tutti i giorni, viene deliberatamente esclusa. Lo sperimentatore controlla numero, ritmo di presentazione, intervallo di ritenzione degli stimoli, fornisce istru-zioni precise e vincolanti e cerca di guidare, per quanto possibile, gli eventi mentali dei soggetti sia durante la presentazione che nell'inter-vallo di ritenzione del materiale. Infine viene proposto un ben pre-ciso test di recupero ed è così possibile rilevare il numero e il tipo di item ricordati, l'ordine delle risposte e in molti casi anche i loro tempi.

La memoria in ambito naturale

Circa nello stesso periodo in cui Ebbinghaus incominciava a stu-diare sperimentalmente la memoria, Sir Francis Galton [1883] indi-rizzava le sue osservazioni alla memoria in situazioni naturali e alcuni decenni più tardi, nel 1932, Frederic Bartlett pubblicava il suo libro sul complesso funzionamento della memoria nel mondo reale. Le loro idee però non trovarono accoglienza all'interno della scuola psicologica comportamentista che si stava affermando negli Stati Uniti. Questa trovò più consona la posizione rigorosa e riduttiva di Ebbinghaus così che le tecniche sperimentali di laboratorio divennero dominanti nello studio della memoria fino all'avvento del cognitivismo (per un approfondimento critico dell'apprendimento verbale in ambito associazionista, cfr. Roncato e Zucco [1993]).

Non vi è dubbio che l'influenza del cognitivismo abbia sostan-zialmente arricchito l'ambito di ricerca della memoria anche se la tra-dizione iniziata con Ebbinghaus ha continuato a governare la psico-logia nordamericana con una costante preoccupazione per il rigoroso controllo sperimentale [Baddeley 1990].

Un punto importante dell'approccio cognitivista, più tollerante e più speculativo, riguarda ad esempio l'apertura delle tematiche classi-che di ricerca della memoria agli aspetti strategici. Si è così comin-ciato a studiare molti fenomeni che caratterizzano il funzionamento della memoria nella vita quotidiana, come l'uso dell'immaginazione e

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 253

delle mnemotecniche, il fenomeno «sulla punta della lingua» e il van-taggio dell'organizzazione categoriale.

Il «giro di boa» alle ricerche sulla memoria viene individuato nel la provocatoria conferenza che Ulric Neisser tenne nel 1976 al convegno su «Practical Aspects of Memory». In quella occasione Neisser sostenne la necessità di studiare la memoria in contesti naturali di vita quotidiana: a scuola, sul lavoro, in casa [Neisser 1978]. Era necessario che una teoria della memoria rispondesse a quesiti come: perché alcune persone hanno una memoria migliore di altre, perché ricordiamo alcune cose e non altre, come ricordiamo cose differenti come le poesie imparate a memoria, piante delle città frequentate, nomi di persona, ed episodi della nostra infanzia. Gli esperimenti di laboratorio avevano trascurato di studiare tutti i problemi di memo-ria più interessanti e significativi, almeno a detta di Neisser che in quella occasione formulò la legge secondo la quale: «se X è una im-portante e interessante caratteristica del comportamento umano, allora di rado è stata studiata dalla psicologia». Egli sosteneva la necessi tà di un nuovo approccio che prestasse attenzione ai reali fenomeni di memoria e tenesse in considerazione le differenze individuali, un approccio ecologico che studiasse la memoria umana allo stesso mo-do in cui gli etologi studiano il comportamento animale. La ricerca sulla memoria aveva bisogno, secondo le precise parole di Neisser di validità ecologica.

L'appello di Neisser cadeva in un momento opportuno. Molti psicologi avvertivano le limitazioni del lavoro esclusivo di laboratorio, l'eccesso delle costrizioni e dei controlli, l'irrilevanza di una ricerca che rischia di costruirsi su se stessa, quando troppi esperimenti ven-gono condotti per validare altri esperimenti che a loro volta si basa-no su altri esperimenti ancora [Baddeley 1990]. La proposta di Neisser venne accolta con un certo entusiasmo e indirizzò verso te -matiche di maggior rilievo pratico non solo la ricerca sulla memoria, ma più in generale gli studi dei processi cognitivi.

Nove anni più tardi, al secondo convegno su «Practical Aspects of Memory» le comunicazioni presentate si estendevano ad una vasta gamma di fenomeni di memoria in situazioni reali che andavano dal -la testimonianza oculare al ricordo delle trasmissioni radiofoniche. Neisser nella conferenza di chiusura del congresso affermò: «II pre-sente è veramente diverso dal passato. Allora eravamo a malapena ai margini della decenza; ora siamo tra un male necessario e l'onda del futuro».

Se è vero che lo studio della memoria umana sta attraversando una fase di trasformazione e che è importante studiare aspetti pratici in ambito naturale, non è detto che la validità di un tipo di approc-cio escluda la legittimità dell'altro. Non c'è motivo di ritenere che uno solo sia il metodo di studio corretto della memoria. Anzi le riflessioni nate dal recente dibattito sxAYeveryday tnemory mostrano come, se pure con fatica e con qualche punta di contrasto, vi sia il

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254 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

tentativo di conciliare l'approccio tradizionale di laboratorio con quello ecologico-naturalistico.

Se la psicologia di laboratorio ha i suoi limiti, i problemi non sono certo assenti nell'approccio ecologico, primo tra tutti quello re-lativo al ridotto controllo delle variabili in ambito naturalistico. La situazione ottimale sarebbe quella che unisce alla validità ecologica la possibilità di controllo delle variabili e dunque la generalizzabilità dei risultati, ma non è certo una situazione facile a trovarsi.

Nell'ambito del tentativo di conciliare validità ecologica e ricerca sperimentale si colloca, ad esempio, il recente tentativo, condotto in Italia da un gruppo interdisciplinare di ricercatori, di studiare cosa si ricorda di un film cercando di rispettare le due diverse esigenze di mantenere le condizioni in cui il fenomeno si manifesta nella realtà quotidiana e contemporaneamente di controllare il maggior numero di variabili al fine di isolare quelle cruciali [Baroni et al. 1989]. Il compromesso a cui si è giunti ha comportato la necessità di avere numerosi gruppi di soggetti - alcuni dei quali vedevano il film in una sala cinematografica con diverso grado di affollamento e illumi-nazione, altri alla televisione a casa loro ed altri ancora in laboratorio - e differenti versioni del film - da quella originale senza alcuna ma-nipolazione a quelle in cui le scene critiche erano precedute da im-magini neutre, che permettessero una serie di misurazioni di base, ad una versione costituita dalle sole scene critiche. In questo modo è stato possibile rispondere a molti quesiti, ma molti altri sono rimasti aperti a causa delle difficoltà metodologiche che questo tipo di ricer -ca comporta. Per quanto si sia cercato di rendere le scene compara-bili tra loro non si poteva essere certi che questo obiettivo fosse rag-giunto. Ad esempio, non si è potuto sapere con certezza e generaliz-zabilità se le scene di paura siano più facilmente ricordate delle sce-ne connotate da altre emozioni, come, ad esempio, la tristezza. Que-sto perché all'interno di un vero film, trovando che un certo tipo di scena, ad esempio quella di paura, determina un maggiore ricordo, non è dato sapere se questo risultato sia da attribuire al ruolo gioca-to dal tipo di scena o più semplicemente al fatto che questa godeva di caratteristiche più salienti, si integrava meglio nella trama del film o addirittura le domande a riguardo erano più facili. Questo proble-ma è in pratica insolubile se lo si vuole affrontare in una situazione naturalistica. Potrebbe essere superato costruendo un film con diffe -renti versioni parallele, tali da suscitare emozioni differenti; questo è possibile con filmati molto semplici che mostrano una sola situazio -ne, in una versione più neutra e in una più violenta [cfr., ad esem-pio, Clifford e Scott 1978].

Metodi di ricerca

Un modo apparentemente molto semplice per sapere come fun-ziona in realtà la memoria sembra essere quello di chiederlo alle per-

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1

MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 255

sone. Si possono così raccogliere informazioni su che cosa la gente dimentica, su cosa ricorda e sul come procede per assicurarsi il ricordo di differente materiale in differenti circostanze. I self-reports o resoconti personali possono consistere di registrazioni di quanto si è pensato ad alta voce mentre si cercava di risolvere un problema di memoria, in diari in cui si è annotato il verificarsi di fenomeni di memoria, e in risposte fornite a questionari di memoria. Tutte queste tecniche si basano sull'introspezione e devono confrontarsi con i problemi in cui incorre tale metodologia.

Il ritorno dei dati introspettivi è parallelo e conseguente all'interesse, promosso dal cognitivismo a partire dagli anni sessanta, per i processi mentali inerenti all'immaginazione, al pensiero, alla decisione, ecc. Infatti, sebbene sia possibile, attraverso ingegnose procedure, inferire la natura dei fenomeni mentali sottostanti le prestazioni manifeste dei soggetti, le evidenze introspettive da questi fornite completano e arricchiscono i dati sperimentali e ne permettono una migliore interpretazione come pure forniscono spesso ipotesi di base da cui partire nella ricerca. Nello studio dei fenomeni mentali, si procede infatti spesso valutando prima, dal punto di vista introspettivo, il funzionamento del processo che si intende studiare e in seguito cercando un disegno e una situazione sperimentalmente corretti che possano fornire dati che permettano di decidere della bontà dell'ipotesi formulata. Come pure è frequente la procedura inversa in cui a completamento dei dati raccolti sperimentalmente, ci si serve anche delle osservazioni introspettive dei soggetti.

Spesso però succede che i problemi nell'utilizzo dei dati intro-spettivi non vengono da esigenze epistemologiche, ma da limiti in-trinseci al metodo stesso. Innanzitutto molti dei processi cognitivi sono talmente rapidi da essere difficilmente colti dalla coscienza; in questi casi l'introspezione può cogliere solo il risultato dell'operazione mentale, ma non il processo. Inoltre risulta spesso difficile se non impossibile descrivere a parole quanto sta avvenendo nella nostra mente, non solo, ma ciò può anche interferire con il compito che stiamo svolgendo. Nonostante ciò, ci sono alcuni processi sufficientemente lenti da poter, con un po' di pratica e spesso con un certo sforzo, essere descritti.

Per quanto riguarda i questionari di memoria, si è di recente assistito ad una proliferazione di questo strumento, soprattutto nello studio della memoria degli anziani. È stato a questo proposito sottolineato come tali questionari anche quando chiedono di indicare la frequenza o l'estensione di deficit di memoria siano più indici dell'immagine che una persona ha di sé e della propria memoria, che non delle sue reali prestazioni mnestiche. Per questo motivo i questionari di memoria possono tutti essere definiti come metamnestici, nel senso di riferire quello che una persona pensa della propria memoria, più che quello che una persona realmente ricorda [Cornoldi e

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De Beni 1989; Cavallarin et al. 1990]. Pregi e limiti di validità nell'u-so dei questionari di memoria sono stati evidenziati da Hermann [1982; 1984]. La metodologia che si basa sull'uso di questionari verrà ripresa nel paragrafo 3.1, mentre quella delle registrazioni diaristi-che troverà ulteriore spazio nel paragrafo 2.3.

1.2. Misure della memoria

Gran parte della psicologia sperimentale considera la memoria come una variabile il cui funzionamento e le cui caratteristiche ven-gono inferite da un certo gruppo di comportamenti osservati. Tali comportamenti vengono misurati attraverso una serie di tecniche d'indagine della memoria, elaborate a questo proposito, che appaiono di estrema importanza nel rendere conto delle differenze che talo-ra si incontrano nei risultati della ricerca in questo campo. Basta infatti cambiare le caratteristiche dei soggetti, o del materiale che deve essere memorizzato, o della procedura del compito, per ottenere risultati non solo differenti, ma a volte contrastanti.

Le tecniche di misurazione della memoria si raccolgono in tre tipi fondamentali: riapprendimento, rievocazione e riconoscimento. Queste tecniche sono di tipo quantitativo in quanto utilizzano il numero di risposte esatte e di errori come indici della misura del ricordo.

Riapprendimento

Quando si misura il ricordo con la tecnica del riapprendimento il materiale appreso in precedenza dal soggetto, dopo un certo inter-vallo di tempo, viene fatto riapprendere. Se il secondo apprendimen-to raggiunge il medesimo criterio del primo in un tempo minore o con un numero di prove minori, allora si può concludere che vi era un ricordo del primo apprendimento. La misura di tale ricordo è data dalla percentuale di tempo (o di prove) «risparmiato» secondo la formula:

„. . Apprendimento originario — Riapprendimento , „„Risparmio = —------------------------------------------.--------------- x 100

Apprendimento originano

Poniamo, ad esempio, di chiedere ad un soggetto di imparare a memoria una poesia, ponendo come criterio un'unica ripetizione sen-za errori, e che il soggetto, per raggiungere il criterio, abbia bisogno di ripetere la poesia 12 volte. Qualche mese più tardi possiamo chie-dere al soggetto se ricorda quella poesia e ricevere una risposta nega-tiva. Lo si può allora invitare a ristudiarla e misurare le ripetizioni

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 257

necessarie per poterla ripetere senza errori, ad esempio, 9. In questo caso il risparmio sarebbe:

„. . 12 ripetizioni — 9 ripetizioniRisparmio =---------------------------------------- = 25%

12 ripetizioni x 100

In questa formula tanto più il valore del riapprendimento è pic -colo, cioè tanto più rapido è stato o tante meno prove sono state necessarie, tanto più elevata sarà la differenza e, di conseguenza, la formula darà come risultato un maggior ricordo-risparmio.

A prima vista, la tecnica del riapprendimento può sembrare mac-chinosa, ma si rivela indispensabile nei casi in cui i soggetti sembra-no non ricordare nulla. Questo metodo infatti risulta essere il più sensibile alla rilevazione di ciò che c'è in memoria, anche quando in apparenza sembra non esserci ricordo.

Il riapprendimento è una tecnica «storica» in quanto fu utilizzata da Ebbinghaus [1885] nelle prime ricerche sperimentali sulla memo-ria. La difficoltà del compito (lunghe liste di sillabe senza senso che dovevano essere ricordate dopo parecchio tempo nello stesso ordine in cui erano state lette) imponeva ad Ebbinghaus una tecnica di mi-surazione sensibile come il riapprendimento. Una volta fissato il cri -terio di apprendimento di una lista - la ripetizione corretta della se -rie completa di sillabe nell'ordine proposto - Ebbinghaus, dato che cercava di anticipare qual era la sillaba che correttamente appariva nella sequenza, poteva misurare il numero di anticipazioni necessarie per il conseguimento iniziale del criterio. In seguito, dopo intervalli di tempo variabili, cercava di riapprendere le stesse sillabe, nella stessa o in differenti sequenze. Se il secondo apprendimento necessi -tava di un numero inferiore di ripetizioni, Ebbinghaus poteva verifi-care la presenza di un ricordo la cui entità era pari alla differenza tra le ripetizioni originarie e quelle del riapprendimento.

Rievocazione

Lo studente che ad un esame cerca di ricordare quanto sa sul-l'argomento richiestogli dall'esaminatore, il soggetto che risponde al-l'invito dello sperimentatore: «Ora dimmi tutto quello che ricordi del materiale che ti ho presentato prima», sono tipicamente impegnati in una situazione di rievocazione libera.

Il termine rievocazione, che traduce l'inglese recali e il francese rappel, indica tutte quelle situazioni in cui il soggetto ricorda verbal-mente. Quando invece il materiale è visivo e si chiede al soggetto di riprodurlo graficamente, si parla di riproduzione; la situazione è in tutto simile a quella della rievocazione solo che la prestazione, in questo caso, non è di tipo verbale. La riproduzione è ampiamente usata nell'analisi della memoria visiva e consiste, in genere, di prove in cui la riproduzione degli stimoli è molto facile e non richiede par-

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ticolari abilità grafiche (per una presentazione delle varie prove di riproduzione e di altre prove di memoria, cfr. Cornoldi e Soresi [1980]).

Per quanto riguarda la rievocazione verbale questa si può distin-guere in: 1) rievocazione libera, 2) rievocazione seriale, 3) rievoca-zione guidata.

Nella rievocazione libera, quella degli esempi iniziali, il soggetto può ricordare come gli viene spontaneo fare, senza dover rispettare l'ordine di presentazione. Quando la rievocazione è limitata ad una sola prova si parla di rievocazione libera a prova unica isingle (rial /ree recali), nel caso invece siano richieste più prove di rievocazione, la procedura viene definita rievocazione libera a più prove (multitrial free recali).

In una prova di rievocazione libera la misura della prestazione di memoria può essere data dal numero di item correttamente rie-vocati e/o dal numero di errori. Sono considerati item correttamen-te rievocati quelli che erano precedentemente stati presentati e che compaiono nel protocollo di rievocazione, cioè il foglio su cui il soggetto ha scritto ciò che ricorda o la registrazione delle sue paro le nel caso in cui gli sia stato chiesto di dire ciò che ricorda. Vengono accettati come corretti item che sono ricordati al plurale mentre erano stati presentati al singolare (ad esempio, matite per mati ta) e viceversa. Lo stesso vale per il maschile e il femminile (tavolo/tavola, A\olAt&, ecc). In genere si misura il ricordo verbatim, si richiede cioè di ricordare parola per parola e non a senso, per cui si scartano dal computo degli item corretti i sinonimi (macchina per auto, ecc). Il tipo di errore più diffuso è costituito dalle omis sioni, item che erano stati presentati e che non compaiono nel protocollo di rievocazione. Vi sono poi le intrusioni, item che compaiono nel protocollo del soggetto e che non facevano parte di quelli presentati.

Nella rievocazione seriale viene chiesto al soggetto di rispettare l'ordine di presentazione: il materiale deve perciò essere ricordato nella stessa sequenza in cui è stato presentato. In questo caso il nu -mero di item correttamente rievocati è dato da quelli rievocati nella stessa relazione d'ordine presentata. Agli errori della rievocazione li-bera si aggiungono in questo caso anche gli item giusti ma rievocati in posizione sbagliata.

Nella rievocazione guidata (cued in inglese, cioè con suggerimenti),10 sperimentatore fornisce degli indizi utili al soggetto per recuperare11materiale da ricordare. Tali suggerimenti possono essere i più svariati. Ad esempio, poniamo che l'item da ricordare sia GATTO: i suggerimenti saranno il nome della categoria a cui l'item appartiene (unanimale), un termine strettamente associato semanticamente (topo),ecc. Di solito la rievocazione guidata è la più facile e produce leprestazioni mnestiche più elevate, mentre la rievocazione seriale è lapiù difficile.

Con la tecnica della rievocazione libera è tipico osservare degli

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 259

effetti di posizione seriale per cui gli item, indipendentemente dalle loro caratteristiche intrinseche, che li possono rendere più o meno facili da ricordare, traggono vantaggio dalla posizione occupata nella lista. I primi item sono ricordati più di quelli centrali (effetto priori -tà) e se il test di memoria è immediato, anche gli ultimi godono di questo vantaggio (effetto recenza). Tali fenomeni hanno diverse spie-gazioni che verranno menzionate nel paragrafo sugli effetti di posi-zione seriale.

Riconoscimento

Nel riconoscimento il soggetto deve identificare gli item da ricor-dare che gli vengono presentati assieme ad altri, detti distrattori. Se, ad esempio, vi viene chiesto quali tra i seguenti colori appartengono alla bandiera francese: blu - verde - rosso - bianco - giallo - nero, vi trovate impegnati in un compito di riconoscimento. Esso differisce radicalmente dalla rievocazione in quanto richiede al soggetto non tanto di ricercare, all'interno della propria memoria, l'informazione richiesta - perché questa viene già fornita - quanto piuttosto di de-cidere qual è, tra quelle proposte, l'informazione richiesta e di scar-tare le altre.

In genere la prova di riconoscimento può essere proposta in una delle seguenti modalità:

1. Riconoscimento a scelta binaria: al soggetto viene presentatoun item alla volta e il suo compito consiste nel rispondere «sì» seritiene che l'item appartenga alla lista di presentazione, «no» in casocontrario.

2. Riconoscimento a scelta multipla: a) ogni item della lista originaria viene presentato assieme ad un numero limitato di item nuovi (di solito 3 o 4) e il soggetto è invitato a riconoscere qual è l'itemvecchio e a scartare i nuovi; b) tutti gli item originari vengono presentati mescolati con altri item nuovi. Compito del soggetto è sempre di individuare gli item vecchi distinguendoli dai nuovi.

3. Riconoscimento continuo: viene presentata in modo sequenziale (un item alla volta) un'unica lista che prevede di tanto in tantola ricomparsa di un item già presentato. Il soggetto deve riconosceregli item vecchi dai nuovi.

Per una corretta valutazione della prova di riconoscimento è ne-cessario tener presente che il soggetto potrebbe fornire la risposta giusta anche tirando ad indovinare. La probabilità di azzeccare la risposta corretta per effetto del caso è tanto maggiore quanto minore è il numero dei distrattori. Nel riconoscimento a scelta binaria e in quello continuo in cui è richiesto di rispondere «sì» aH'item vecchio e «no» aH'item nuovo il soggetto ha il 50% di probabilità di indovi-nare per effetto del caso. Tale probabilità scende al 33% con 3 alter-native e al 25% con 4.

Bisogna inoltre considerare che ogni risposta «sì» e ogni risposta

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«no» può dare origine a due esiti diversi: risposta esatta, risposta sbagliata. Quindi in un test di riconoscimento le risposte possono essere raggruppate in 4 tipi:

1) risposta «sì» all'item vecchio «sì» vero (successo)2) risposta «sì» all'item nuovo «sì» falso (falso allarme)3) risposta «no» all'item vecchio «no» falso (omissione)4) risposta «no» all'item nuovo «no» vero (corretto rifiuto)

come schematizzato nella tabella 5.1.

TAB. 5.1. Tipi di risposte che si possono avere in un test di riconoscimento

Tipo di risposta Tipo di item

Vecchio Nuovo

«sì»

«no»

«sì» vero (successo) «no» falso (omissione)

«sì» falso (falso allarme) «no» vero (corretto rifiuto)

Non è sufficiente prendere in considerazione il numero di risposte corrette (nella classificazione precedente le risposte di tipo 1 e 4), ma si devono considerare anche gli errori. I falsi allarmi sono dovuti a rispo-ste affrettate in cui il soggetto ha sbagliato per troppa disinvoltura. Al limite un soggetto che rispondesse sempre «sì» individuerebbe tutti gli item corretti, ma incapperebbe in un altissimo numero di falsi allarmi. Il soggetto invece che risponde «no» ad item vecchi li «omette» e sbaglia per troppa precauzione. Un soggetto che ha la tendenza a riconoscere (con un «sì») solo quando ha piena certezza che l'item è già stato visto in precedenza farà di conseguenza pochi falsi positivi, ma realizzerà anche pochi successi (cfr. supra, cap. I, pp. 25-26).

Confronto tra rievocazione e riconoscimento

È intuitivo che riconoscere è più facile che rievocare. Spesso in-fatti ci si trova nella comune situazione di essere consapevoli di co-noscere la risposta ad un quesito che ci è stato posto, ma di non essere in grado in quel momento di recuperarla - si tratta del cosid-detto fenomeno «sulla punta della lingua». Sappiamo infatti che se la risposta ci venisse fornita, anche tra un numero elevato di alternati -ve, saremmo in grado di identificarla correttamente.

La ricerca sperimentale ha confermato in generale l'idea che il riconoscimento è più facile della rievocazione anche se esiste la clas-sica «eccezione alla regola». Questa è costituita da una particolare situazione in cui il contesto determina la modalità di codifica dell'i-tem. Prendiamo, ad esempio, in considerazione una situazione in cui viene chiesto di ricordare la parola «campo» che viene presentata

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 261

assieme ad un'altra non strettamente associata, come «stemma». In questo caso la codifica di «campo» viene specificata dalla presenza contestuale del termine debolmente associato e realizzata attraverso un'associazione che attiva uno dei possibili significati della parola. Ad esempio: «stemma bianco in campo blu»; qui la parola campo viene codificata, dato il contesto, in una sua particolare accezione di uso non comune. Il recupero di questa parola sarà più difficile se essa verrà in seguito ripresentata in un altro contesto che ne attivi un differente significato. Se, ad esempio, sarà fornita la parola «gra-no», la parola «campo», che assume in tale contesto tutto un altro significato, sarà difficile da riconoscere, mentre potrebbe essere rie-vocata. È questa la situazione classica usata da Tulving [Tulving e Thomson 1973] in cui appare paradossalmente più facile rievocare un item che non riconoscerlo.

Il fenomeno è noto e viene ricondotto alla teoria della specificità di codifica secondo la quale un item viene codificato a seconda del contesto in cui è inserito. Al momento del recupero questo è tanto più facilitato quanto più contesto di recupero e contesto di codifica sono simili. Se invece il contesto di recupero è molto diverso, come nella situazione proposta da Tulving in cui il cue in codifica era di-verso da quello in recupero, allora questo fatto può addirittura impe-dire il riconoscimento dell'item.

Riconoscimento e rievocazione non sono solo tecniche diverse di analisi di memoria, ma sembrano anche riferirsi a processi almeno in parte differenti, tanto che a volte si parla di memoria di riconosci-mento e di memoria di rievocazione come di tipi distinti di memo-ria. Soggetti che sanno che tipo di test di memoria - per riconosci -mento o per rievocazione - verrà loro posto mettono in atto processi differenti tanto che se in seguito vengono invece testati con una tec-nica differente da quella prevista hanno prestazioni più basse di quelle consuete [Craik e Lockhart 1972].

Vi è stato un ampio dibattito teorico sulla somiglianzà e diversità dei processi implicati nelle due tecniche. Secondo la teoria a due stadi [ad esempio, Kintsch 1970] che ha avuto molto seguito, il pro -cesso di recupero dell'informazione può essere distinto in due fasi successive:

1) ricerca dell'informazione;2) decisione di idoneità dell'informazione trovata.In questo modo rievocazione e riconoscimento sarebbero riuniti

in un unico processo di recupero e il riconoscimento altro non sa-rebbe che la seconda fase, cioè quella decisionale, della rievocazione.

Allo stato attuale della ricerca tale ipotesi risulta difficilmente so-stenibile in quanto anche il riconoscimento sembra impegnare veri e propri processi di recupero [Cornoldi 1986]. Se nella rievocazione viene presentato il contesto («dimmi tutto quello che ricordi di...») e va recuperato l'argomento, nel riconoscimento l'elemento è dato ed è il contesto che deve essere recuperato. Ciò spiega quei casi parti -colari in cui è più facile rievocare che riconoscere.

4

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262 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

1.3. La qualità del ricordo

Le tecniche fin qui presentate misurano il numero di risposte corrette o di errori; dunque l'analisi riguarda la variazione quantitati-va del ricordo. È interessante anche osservare la variazione qualitati-va che il nostro ricordo assume nel tempo. L'esperienza quotidiana ci insegna infatti che spesso i nostri ricordi sono imprecisi e non sempre corrispondono alle esperienze che li hanno originati. Dunque la nostra memoria non è un fedele registratore della realtà, ma tra-sforma, elabora, seleziona le informazioni.

Pioniere in questo ambito di ricerca è stato lo psicologo inglese Frederic Bartlett [1932]. Una situazione tipica, da lui usata, consiste-va nel presentare ad un gruppo di soggetti una storia (una leggenda tramandata da una tribù indiana, ricca di particolari strani e difficil -mente comprensibili) e nel chiederne in seguito il ricordo. In un'al-tra versione dello stesso esperimento il primo soggetto raccontava la storia ad un secondo, questi la raccontava ad un terzo e così via. Bartlett ha così potuto osservare che i soggetti operavano nel ricordo una ricostruzione della leggenda originaria in cui i particolari para-dossali venivano eliminati e altri elementi venivano aggiunti, tanto che alla fine la storia, così modificata, possedeva una sua propria coerenza.

Ma a che livello hanno avuto luogo tali modificazioni? Nella fase di immagazzinamento, durante la ritenzione o nella fase di recupero delle informazioni? Si può innanzitutto osservare che sin da quando i soggetti leggono la storia cercano di interpretarla secondo i loro schemi conoscitivi, ragion per cui essa entra in memoria già modifi -cata. Secondo un'ipotesi costruttivista i ricordi, oltre ad essere codifi -cati alla luce delle conoscenze possedute dal soggetto, e dunque già con un'interpretazione personale, subirebbero delle ulteriori trasfor-mazioni con il passar del tempo. Queste andrebbero nella direzione sia di una selezione delle informazioni principali con conseguente perdita di quelle di dettaglio, sia di una vera e propria trasformazio -ne per la quale il ricordo può addirittura risultare più arricchito, co-me hanno potuto verificare Bransford e Franks [1971]: i loro sogget-ti riconoscevano come già visti periodi nuovi che erano composti di frasi che singolarmente erano state presentate loro. I loro risultati mostrano la produttività della funzione mnestica che tende a trasfor-mare e a produrre nuove unità semantiche più complete così da in-tegrare meglio i singoli elementi presentati.

È esperienza comune che i ricordi più lontani nel tempo, a volte, ma non sempre, perdono ricchezza di dettagli, ma è ben difficile so-stenere che questi possano essere stati fedelmente registrati in me-moria, in una versione simile ad una fotocopia, poi danneggiata dal tempo. Anche il fatto che si operi un processo di selezione durante la fase di ritenzione è tutto da dimostrare. A volte di un racconto o di un film possiamo ricordare molti dettagli ma accade più spesso di quanto si pensi di dimenticare la conclusione. Johnson [1970] ha

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mostrato che il ricordo di un brano dopo 21 giorni era sì inferiore a quello immediato, ma la perdita di informazioni riguardava in ugual misura quelle più importanti come quelle marginali.

I processi di elaborazione dell'informazione operano sempre sulla base delle conoscenze generali possedute da chi assimila tale infor-mazione. A maggior ragione i processi di comprensione, che costitui-scono un caso particolare di integrazione delle informazioni nuove portate dal testo all'interno di quanto già conosciuto dal soggetto, daranno origine ad una rappresentazione che è la sintesi di quanto detto nel brano e di quello che vi ha apportato il lettore (per i pro -cessi messi in atto durante la comprensione di un testo scritto, cfr. De Beni e Pazzaglia [1995a]).

Tornando al brano di Bartlett è ben diffìcile quindi sostenere, come lui pensava, che dapprima la memoria registri una fedele ripro-duzione di quanto scritto nel testo e che, in seguito, questa venga modificata. È invece più plausibile che il brano, già codificato in me-moria in una versione più congeniale al lettore, subisca delle ulteriori trasformazioni in fase di recupero. Può risultare inoltre difficile di-scriminare tra quello che in effetti la memoria ha conservato e quello che il soggetto modifica e aggiunge in codifica e in recupero, anche perché, il più delle volte, egli stesso non è in grado di distinguere tra quelli che sono gli elementi originali e quelli costruiti per coerenza logica, o dettati dal desiderio che i fatti si svolgessero in quel dato modo, ecc. Si può dunque concludere che la ricostruzione è tipica del ricordo ed è il risultato dell'interazione tra interpretazione, data dal soggetto nella fase di codifica, recupero di indizi alla luce delle conoscenze generali possedute dal soggetto e contesto in cui esso si trova quando deve ricordare.

2. Tipi di memoria

2.1. Memoria a breve termine e memoria a lungo termine

Una distinzione ormai classica tra i diversi tipi di memoria e alla quale si fa comunemente riferimento è quella riguardante il ricordo di informazioni appena recepite e il ricordo di informazioni cono-sciute da molto tempo, cioè tra Memoria a breve termine (MBT) e Memoria a lungo termine (MLT) O memoria permanente. Tra questi due tipi di memoria vi è la stessa differenza che passa tra il ricorda -re un numero di telefono subito dopo averlo letto sull'elenco telefo-nico e il ricordare il proprio numero di telefono che ci è estrema-mente familiare. Il proprio numero di telefono è immagazzinato nella MLT, come il proprio nome, il lessico e tutte le nostre conoscenze e gli avvenimenti centrali della nostra vita. Questi ricordi, salvo ecce -zionali blocchi mentali, sono relativamente stabili. Invece il numero di telefono che si è avuto sotto gli occhi solo pochi istanti prima, l'ultima frase pronunciata da un presunto interlocutore, il nome di

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264 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

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una persona sconosciuta che ci viene presentata, sono esempi di in-formazioni che vengono ritenute dalla MBT solo momentaneamente. A meno che non si faccia uno sforzo cosciente per concentrare su di esse la nostra attenzione e mettere in atto una strategia di manteni-mento (la reiterazione), questo tipo di informazioni andrà rapida-mente perduto.

Un primo modello, formulato da Atkinson e Shiffrin [1968], ipo-tizzava una sequenzialità tra i due processi per cui un'informazione non poteva essere in MLT se prima non era stata in MBT, inoltre la quantità di tempo di permanenza in MBT era funzione della proba-bilità di entrata in MLT e in questo senso veniva interpretata la reite-razione. In seguito studi su pazienti con MBT danneggiata, i quali non presentavano problemi di MLT, hanno indicato che la sequen-zialità nell'elaborazione dell'informazione non è una condizione ne-cessaria. Anche l'altra assunzione del modello che legava la quantità di ripetizioni in MBT con la probabilità di ricordo in MLT non è mai stata del tutto provata: anzi vi sono molte evidenze empiriche a so-stegno del fatto che non sia la ripetizione, ma l'elaborazione del me-morandum a produrre il miglior ricordo (par. 3) .

Una delle prove citate a sostegno della differenziazione tra MBT e MLT consiste negli effetti di posizione seriale. I soggetti, in questo caso, sono invitati a fare attenzione ad una serie di parole, non colle-gate tra loro, che vengono proiettate una alla volta su di uno scher-mo o pronunciate chiaramente dallo sperimentatore. Subito dopo la presentazione dell'intera lista viene chiesto loro di ripetere quante più parole sono in grado di ricordare. Si tratta di una tipica prova di rievocazione libera.

In questa situazione molte persone trovano vantaggioso ricordare per prima cosa le ultime parole presentate. Queste risultano infatti ancora «nell'orecchio» e la loro rievocazione è facile e quasi automa-tica. Le altre parole necessitano invece di uno sforzo, anche se mo-desto, per essere rievocate.

Per esaminare i risultati dell'esperimento si possono numerare le parole a seconda della posizione in cui compaiono nella lista di pre-sentazione e calcolare poi la probabilità che una parola ha di essere rievocata in funzione della sua posizione nella lista. Quest'analisi pro-duce la curva della posizione seriale, come mostra la figura 5.1 in cui in ascissa viene presentata con il numero 1 la prima parola della lista e in ordinata la probabilità che tale parola ha di essere rievocata. Dalla figura emerge chiaramente che la probabilità di rievocare una parola è strettamente dipendente dalla posizione che questa occupava nella lista. Le parole presentate per prime sono ricordate meglio (questo fenomeno viene detto «effetto di priorità»), così come le ul-time («effetto di recenza»). Le parole centrali della lista sono ricor -date relativamente meno.

L'effetto di recenza, cioè il fatto che le ultime parole siano ricor-date con maggiore facilità, sembra provare l'esistenza della MBT co-me sistema separato dalla MLT. La cassa di risonanza in cui le ulti-

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 265

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Posizione delle parole nella lista

FIG. 5.1. Curva di posizione seriale ottenuta rappresentando i risultati in una prova immedia-ta di rievocazione libera [da Bourne, Dominowsky e Loftus 1979].

Priorità

Recenza

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Gruppo

con compito aritmetico

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1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

Posizione delle parole nella lista

FIG 5 2 I risultati del gruppo di controllo danno origine alla classica curva di posizione se -riale, quelli del gruppo sperimentale, che tra la presentazione del materiale e il test di rievocazione, era impegnato in un compito aritmetico, mostrano come in questo caso l'effetto recenza non si sia verifica» [da Bourne, Dominowsky e Loftus 1979J.

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266 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

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me parole vengono facilmente recuperate altro non sarebbe infatti che la MBT. L'ultima parte della curva inerente all'effetto di recenza riguarderebbe parole rievocate dalla MBT, mentre la parte rimanente sarebbe inerente al recupero dalla MLT.

Per verifìcare ulteriormente questa spiegazione è sufficiente intro-durre nella procedura tipica una piccola variazione che consiste nel non richiedere subito il ricordo delle parole, ma nel far seguire alla presentazione della lista un altro compito (ad esempio, far contare i soggetti all'indietro per poco più di 30 s) e nel richiedere solo in seguito la rievocazione della lista. In effetti introducendo un compito interpolato, come si può vedere in figura 5.2, l'effetto di recenza scompare.

Sono sempre le caratteristiche della MBT unite alla reiterazione, a spiegare poi l'effetto della priorità. La limitata capacità della MBT permette di tener presente solo un numero limitato di informazioni. Quando queste superano i limiti della MBT ogni nuova informazione in entrata fa perdere un'informazione già presente. La reiterazione reinserisce in MBT informazioni che vengono scacciate, ma sempre entro i limiti della capienza della MBT. ECCO perché le prime parole della lista possono essere reiterate più volte, mentre via via che la lista viene presentata non c'è più posto in quello che da Baddeley [1984] viene definito «anello (loop) articolatorio» (vedi infra).

La validità della distinzione tra MBT e MLT trova sostegno e al contempo applicazione nella classificazione di alcuni disturbi neuro-psicologici. Come si è detto persone con disturbi di memoria posso-no presentare solo alcune funzioni gravemente compromesse, mentre altre appaiono integre. La maniera più economica per classificare i due tipi di funzioni è quella di distinguere una MBT da una MLT. Ad esempio, pazienti affetti dalla sindrome di Korsakov (che si pre-senta in pazienti alcolisti che per un lungo periodo hanno bevuto troppo e mangiato troppo poco), mostrano un buon ricordo imme-diato e una totale incapacità di conservare le informazioni nella MLT. Sembra dunque che gravi disturbi della MLT non coinvolgano la MBT [Baddeley e Warrington 1970]. Ci sono poi casi, anche se più rari, in cui i pazienti hanno una MLT intatta e una MBT carente. Il fenomeno per cui si possono riscontrare deficit solo di un tipo di memoria in concomitanza di prestazioni pressoché intatte nell'altro viene chiamato doppia dissociazione e offre una delle prove più evi-denti a sostegno dell'esistenza di due sistemi mnestici separati [Shal-lice 1988a].

Un'altra prova è fornita da pazienti con lesione cerebrale in una specifica area dei lobi temporali detta ippocampo. Questi pazienti non mostrano alcuna difficoltà nel ricordare abilità e informazioni apprese prima del verificarsi della lesione, ma sono gravemente im-pediti nel ricordo di nuovi dati. In questi casi le informazioni già possedute nella MLT non risultano danneggiate; né sembra essere compromessa la MBT. I pazienti sono infatti in grado di ricordare brevi serie di cifre, sono in grado di compiere con rapidità e preci-

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_ MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 267

1sione calcoli complessi e inoltre mantengono un buon ricordo di eventi passati. Non riescono però a rendere stabile l'apprendimento. Sembra quindi che il disturbo riguardi l'incapacità di trasmettere le nuove informazioni dalla MBT alla MLT. Questo tipo di disturbo appare legato al consolidamento della traccia mnestica. Ogni nuova in- i formazione sembra richiedere un certo tempo per fissarsi nella me-* moria. Un evento traumatico, come un forte colpo alla testa o una corrente elettrica fatta passare attraverso il cervello, impedisce proba-bilmente il percorso fisiologico di consolidamento della traccia con la conseguente perdita completa dell'informazione. Chi subisce un elet-troshock è incapace di ricordare gli eventi immediatamente precedenti, esattamente come chi è stato colpito al capo non è in grado di ricordare cosa è avvenuto prima dell'incidente, anche se il suo ricordo di fatti più lontani nel tempo può essere intatto.

Memoria di lavoro

Si deve a Baddeley [1986] la distinzione di una serie di compo-nenti all'interno della MBT, da lui chiamata Memoria di lavoro (ML). Al posto di un modello di memoria unitario, Baddeley ne propone uno a due dimensioni, controllato da un sistema dalle capacità atten-tive limitate denominato Esecutivo centrale {centrai executive). Que-sto sistema di controllo opera sui dati provenienti da due servo-siste -mi, uno adibito alla elaborazione e al mantenimento dell'informazione linguistica, indicato con il nome di loop articolatorio (phonological loop), l'altro implicato nella elaborazione e nel mantenimento dell'in-formazione visuo-spaziale, denominato taccuino visuo-spaziale {visuo-spatial scratchpad).

Esecutivo centrale

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Blocco per appunti visuo-spaziale

Ciclofonologico

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Fu;. 5.3. Versione semplificata del modello della memoria di lavoro secondo Baddeley [1990].

Il sistema del loop articolatorio si avvale di un magazzino di me-moria che mantiene le tracce di materiale acustico e verbale per tem-pi brevissimi (magazzino fonologico), e di un processo di articolazio-

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268 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

ne sub vocale, che consente il consolidamento della traccia (attraverso la reiterazione), e la conversione di stimoli visivi nei loro corrispon-denti verbali. Questa componente del modello della memoria di la -voro specializzata nell'elaborazione dell'informazione linguistica è in grado di rendere conto dei seguenti fenomeni:

a) l'effetto di somiglianzà fonologica, per il quale lettere o parolefonologicamente simili sono più difficili da rievocare correttamente edanno luogo a confusioni (la lettera «d» viene più probabilmente ricordata come «b» che non come «r»). Questo effetto viene spiegatodal funzionamento del loop articolatorio, che trattiene e reitera le caratteristiche fonologiche dell'informazione, con la conseguenza cheitem uditivamente simili diventano anche maggiormente confondibili.

b) L'effetto di interferenza operato da materiale verbale. Si è trovato che la ripetizione immediata di una serie di item è danneggiata senella fase di presentazione il soggetto sente contemporaneamente sillabe senza senso, o parole in una lingua a lui sconosciuta, mentretale effetto di interferenza non si verifica con un rumore bianco.Questo fenomeno può essere spiegato nei termini di un accesso diretto e obbligatorio al magazzino fonologico del materiale verbale, aprescindere dal suo significato.

e) L'effetto di lunghezza delle parole. La rievocazione immediata di una lista di parole è inversamente relata alla loro lunghezza. Ciò significa che, ad esempio, sette parole composte di poche sillabe ven-gono solitamente ricordate meglio di un'analoga lista di parole com-poste da un numero maggiore di sillabe. L'effetto può essere ricon-dotto alle caratteristiche del loop articolatorio, ed in particolare ai li-miti temporali del processo di articolazione subvocale, limiti inevita-bilmente superati dai tempi maggiori richiesti dalle parole più lun-ghe.

d) L'effetto di soppressione articolatoria. Nel caso in cui si richiede sperimentalmente la soppressione della reiterazione (chiedendo aisoggetti di pronunciare ritmicamente alcune sillabe, come ad esempio, «la-la-la», durante la fase di presentazione visiva di item verbali), la capienza della memoria immediata risulta notevolmente ridotta. In riferimento al modello considerato è possibile ipotizzare chel'introduzione del nuovo compito ostacoli la conversione degli itemnei loro corrispondenti uditivi e che di conseguenza l'inserimento nelmagazzino fonologico ne risulti impedito.

e) Deficit selettivi in compiti particolari di MBT. È interessante notare che alcuni pazienti non presentano i classici effetti di similaritàdegli item (per cui è più facile in MBT confondere item simili persuono) e di lunghezza delle parole (per cui è più difficile mantenereil ricordo immediato di parole lunghe rispetto allo stesso numero diparole più corte). Da questo dato si può inferire che il loro deficitrisieda nel funzionamento del magazzino fonologico, motivo per cuinon traggono alcun vantaggio dalla ricodifica di materiale visivo informa verbale, e siano costretti a fare invece ricorso ad altre formedi codifica.

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 269

Un'altra componente della memoria di lavoro è costituita dal taccuino visuo-spaziale che permette sia la ritenzione temporanea delle caratteristiche visivo-spaziali delle informazioni in entrata, ad esempio come è scritta una parola e dove è collocata, sia la visualiz-zazione e la manipolazione delle immagini mentali. Le prime ricer-che compiute in questo campo hanno utilizzato il paradigma dell'in-terferenza selettiva codice-specifica, evidenziando che un compito mnestico di tipo spaziale (ad esempio, ricordare un particolare per-corso all'interno di una matrice) viene danneggiato se svolto con-temporaneamente ad altri compiti di tipo spaziale. Poiché con com-piti concomitanti di tipo visivo (come valutare l'intensità di un fa -scio luminoso) non si ottenne lo stesso effetto di interferenza, si ipo -tizzò inizialmente che il taccuino visuo-spaziale mantenesse ed elabo-rasse solo le caratteristiche spaziali degli stimoli. Ricerche successive che hanno utilizzato una maggiore varietà nel tipo di compiti di me-moria proposti, hanno potuto verifìcare un decremento della presta-zione mnestica anche con compiti concomitanti di tipo visivo, por-tando quindi ad una revisione e ad un successivo ampliamento del -l'ipotesi iniziale.

Infine l'Esecutivo centrale ha essenzialmente a che fare con il controllo attentivo delle azioni, e in questo senso può essere in parte spiegato da modelli di controllo come quello di Norman e Shallice (per una discussione approfondita di questi modelli, cfr. supra, cap. IV, parr. 6.2, 6.3 e 7.3).

Diverso funzionamento dei due tipi di memoria

Le prove più spesso invocate per sostenere la differenziazione tra MBT e MLT si basano sul loro differente funzionamento. Innanzitut-to la MBT ha una capacità limitata. Provate a leggere le seguenti se-rie di cifre staccando dopo ogni serie gli occhi dal foglio e ripetendo-la senza più guardare:

3-6-4/

2-9-0-3/

4-7-8-2-5/

4-8-9-6-3-8/

6-1-5-4-3-8-7/

3-7-2-4-8-6-5-1/

4-2-5-1-7-4-3-9-2/

5-8-3-7-4-5-7-3-1-9/

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270 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

Si tratta di una prova di span di cifre, cioè di una prova con cui si misura la capienza {span) della MBT. Quando la serie è di poche cifre la nostra MBT mantiene le cifre perfettamente e in ordine, mo-strando un'altra sua caratteristica: la sequenzialità. Per serie più nu-merose mostra dei limiti: non è possibile mantenere troppe informa-zioni nella MBT.

La MLT, invece, è in grado di contenere moltissime informazioni e per periodi di tempo considerevoli, anzi, come vedremo in seguito, alcuni studiosi sostengono che le informazioni una volta entrate nella MLT non scompaiono mai, ma semplicemente divengono meno ac-cessibili.

Molti compiti richiedono una ritenzione accurata di alcune infor-mazioni per un tempo breve, ad esempio se dobbiamo moltiplicare mentalmente 35 per 6 dobbiamo tener presenti, oltre ai due numeri iniziali, la regola di moltiplicazione, i prodotti parziali, il riporto fino al totale. Per capire una frase occorre tenere presente il suo inizio fino a quando non si è arrivati alla fine. Senza il ricordo esatto delle parole e dell'ordine in cui compaiono nella frase, il linguaggio sarebbe incomprensibile. Sia nella comunicazione linguistica che nell'arit-metica, come in moltissimi altri compiti quotidiani, occorre una me-morizzazione temporanea dell'informazione sulla quale vengono mes-si in atto processi di comprensione, di calcolo, ecc. È la MBT, e in particolare quella componente che è stata definita come memoria di lavoro, che mantiene presenti le informazioni per breve tempo la-sciandole perdere una volta terminato il compito.

Potete verificare voi stessi quanto rapido è l'oblio della MBT leg-gendo un numero di telefono del tutto nuovo su di un elenco telefo-nico disposto a pochi metri dall'apparecchio telefonico. Basterà che siano trascorsi i pochi secondi necessari a compiere il breve tragitto perché una volta arrivati all'apparecchio non ricordiate più il numero da comporre, a meno che non abbiate messo in atto la reiterazione, una strategia che consente di reinserire continuamente l'informazione nella MBT e che consiste nel ripetere tra sé e sé il numero di telefo-no. In questo caso entra in funzione una delle componenti della MBT: quella uditivo-articolatoria (chiamata anche loop articolatorio) che permette di reinserire l'informazione all'interno del magazzino fonologico. Il loop articolatorio è così chiamato perché ha la caratte-ristica di conservare le proprietà fonetiche dell'informazione, cioè quelle legate al suono, indipendentemente dalla forma in cui l'infor-mazione è stata recepita, sia essa acustica (parole sentite) o visiva (parole lette).

Il fatto che nella MBT il materiale venga elaborato a livello fono-logico è provato dal tipo di errori che è più facile compiere nel ri -cordo immediato e che riguarda la confusione di suoni simili [Con-rad 1964]. Ciò ha costituito un'ulteriore prova della distinzione tra MBT e MLT. Mentre infatti la MBT appare essere responsabile del mantenimento delle caratteristiche fonetiche e sequenziali del mate-

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 271

riale, la MLT lascia cadere queste caratteristiche più superficiali per conservare quelle semantiche, relative cioè al significato.

La MLT corrisponde invece più fedelmente all'idea che il senso comune attribuisce alla memoria. Si presume che il ricordo del pro -prio nome, di come si fa a parlare, delle conoscenze acquisite nel corso della propria vita, di dove eravamo l'anno scorso, ieri o solo 5 minuti fa, dipenda dalla MLT. I tipi di informazioni contenute nella memoria a lungo termine sono vari, e differenti sono i processi che ne producono l'acquisizione e che ne permettono il recupero. Alcune informazioni vengono recepite senza alcuno sforzo, ad esempio ricor-diamo facilmente dove e con chi abbiamo trascorso le vacanze que-st'anno o cosa abbiamo mangiato ieri sera anche se non avevamo nessuna intenzione di ricordare queste informazioni: si parla in que-sto caso di memoria incidentale. Altri ricordi richiedono invece uno sforzo volontario di memorizzazione come nel caso della preparazio-ne ad un esame o dell'apprendimento di una seconda lingua. Chi è impegnato in compiti di questo tipo mette in atto processi di memo-ria intenzionale che molto spesso implicano l'attivazione di strategie.

Le informazioni possono essere rappresentate nella MLT in forme differenti. Lo psicologo canadese Tulving [1972] ha suggerito di di-stinguere tra memoria semantica, che riguarda le conoscenze che si possiedono sul mondo, e memoria episodica, che implica il ricordo di fatti particolari, come l'incontro che abbiamo fatto stamane. Più di recente si è incominciato a studiare in modo sistematico la memo-ria autobiografica, che riguarda più nello specifico i propri ricordi personali. Un altro psicologo canadese, Paivio [1971; 1974] ha mo-strato come accanto ad informazioni verbali la memoria possieda an-che informazioni non verbali, ma analogiche, immagini mentali.

Memoria intenzionale e memoria incidentale, esplicita e implicita

La distinzione tra memoria intenzionale e memoria incidentale porta a domandarsi in che modo la volontà di ricordare qualcosa può incidere ai fini del ricordo. Vi sono situazioni in cui intenzional-mente ci proponiamo di trattenere nella nostra memoria qualcosa e altre, che per lo più caratterizzano le comuni esperienze di ogni gior -no, in cui, pur non proponendoci affatto di memorizzare qualcosa, ci troviamo a ricordarlo incidentalmente.

Nello studio sperimentale della memoria si sono utilizzate per lo più situazioni di memoria intenzionale: i soggetti sono informati che devono fare attenzione al materiale che viene loro presentato perché in seguito ne verrà chiesto il ricordo. Lo studio delle situazioni di memoria incidentale sono state sollecitate dall'articolo di Craik e Lo-chart [1972] e si basano su una metodologia che utilizza i cosiddetti compiti di copertura - in quanto coprono al soggetto il compito rea -le che è la memorizzazione - o compiti di orientamento, perché orientano il livello di codifica. In questi compiti il soggetto può, ad

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272 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

esempio, essere invitato ad indicare se il materiale proposto contiene una determinata lettera dell'alfabeto, se fa rima con una determinata parola, se è sensato e corretto, ecc. In seguito, in modo del tutto inaspettato viene richiesto il ricordo del materiale presentato. Queste situazioni hanno rivelato un aspetto importante della memoria inci-dentale: non sempre essa è inferiore a quella intenzionale.

Mandler [1967] ha confrontato quattro gruppi di soggetti (cfr. tab. 5.2): a due gruppi veniva detto di memorizzare una lista di pa -role, agli altri due non veniva detto nulla in proposito. I gruppi veni-vano poi ulteriormente suddivisi: per ogni coppia di gruppi (in si-tuazione di memoria intenzionale e di memoria incidentale) a un gruppo veniva detto di ripetere le parole della lista e all'altro di rag-gnippare le parole che potevano appartenere ad una stessa categoria. Quando fu chiesto il ricordo, solo il gruppo che non sapeva di dover ricordare e che aveva ripetuto le parole mostrò una prestazione più bassa, mentre i due gruppi che dovevano formare delle categorie avevano sia nella situazione intenzionale che in quella incidentale la stessa prestazione. Inoltre tale prestazione era simile a quella del gruppo che sapeva di dover ricordare e aveva ripetuto le parole. Il sapere di dover ricordare aveva dato gli stessi risultati della catego-rizzazione. In conclusione, l'intenzionalità, la volontà e il desiderio di ricordare qualcosa da soli non producono un miglior ricordo; sono utili solo nella misura in cui inducono a mettere in atto processi volti ad integrare le informazioni in arrivo all'interno delle strutture della memoria permanente del soggetto.

TAB. 5.2. Disegno sperimentale e risultati ottenuti da Mandler [1967]

Tipo di Istruzioni Tipo di memoria

Incidentale Intenzionale

Ripeti Raggnippa in

categorie

Prestazione più bassa

Prestazione buona

Prestazione buona

Prestazione buona

Nota: Solo il gruppo che non sapeva di dover ricordare (memoria incidentale) e che ripe-teva le parole della lista aveva una prestazione inferiore a quella degli altri gruppi.

Quando il materiale da memorizzare è significativamente connes-so (come una storia) e presenta un certo interesse, sarà codificato in modo profondo (cioè in relazioni di significato) e quindi più facil -mente ricordato anche in situazioni incidentali. Se esso è invece scar-samente connesso al suo interno (come liste di sillabe o di parole), poco familiare e arido, è difficile che senza un'intenzione esplicita e uno sforzo attivo si mettano in atto quei processi sufficienti a garan-tirne il ricordo. Di questi processi si parlerà nel paragrafo 3.

Si è detto più volte che la differenza nella possibilità di recupero del materiale appare correlata con il livello di elaborazione che que-sto ha ricevuto. Un modo per studiare gli effetti dei livelli di elabo-

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 273

razione sul ricordo consiste nel proporre compiti differenti per ela-borare lo stesso tipo di materiale. In un esperimento di Craik e Tul-ving [1975] i soggetti erano invitati ad analizzare serie di parole e a rispondere sì-no a domande del tipo: la parola è scritta in lettere maiuscole, fa rima con un'altra parola, potrebbe completare la se-guente frase, e così via.

Le analisi richieste sono disposte in ordine di elaborazione cre-scente. Controllare le maiuscole implica un'analisi degli aspetti visivi della parola; cercare una rima comporta attenzione al suono della pa-rola, mentre il completamento di frase richiede di elaborare il signifi-cato della parola. Alla fine dello svolgimento dei diversi compiti ina-spettatamente i soggetti erano invitati a ricordare le parole. Era que-sto infatti un compito di memoria incidentale in cui le differenti ri-chieste costituivano contemporaneamente compiti di copertura, in quanto coprivano il compito reale che consisteva nel ricordo, e com-piti di orientamento, in quanto, come abbiamo visto, orientavano il livello di elaborazione. Questo in realtà era la variabile critica dell'e-sperimento: infatti livelli di elaborazione più superficiali producevano ricordi inferiori, mentre il compito semantico portava al miglior ri -cordo.

La regola sembrerebbe essere che quanto più profondamente il materiale è stato elaborato, cioè quanto maggiore è lo sforzo per as-sociare le informazioni nuove alle conoscenze già possedute, tanto migliore sarà il successivo ricordo.

La memoria implicita si trova in una situazione speculare rispetto alla memoria incidentale: in questa l'apprendimento è involontario e il recupero volontario, non vi è intenzione di apprendere ma vi è intenzione di ricordare. Nella memoria implicita la fase di apprendi-mento può essere conscia, ma è il recupero che non implica volontà. Con il termine «memoria implicita» si fa riferimento ad una forma di ritenzione non intenzionale e non conscia che viene testata con compiti che non richiedono il recupero della situazione specifica di apprendimento [Schacter 1992]. Si tratta di un concetto descrittivo che sintetizza situazioni, anche molto differenti tra loro, che hanno in comune la caratteristica che i soggetti mostrano di ricordare del materiale pur non essendone consci. Questo implica che si possa ap-prendere senza che sia necessario essere consapevoli delle circostanze che hanno prodotto quel ricordo.

La distinzione fra memoria implicita ed esplicita è nata negli anni ottanta. Schacter [1992] rileva che essa era però già stata considerata negli anni d'oro degli studi sulla memoria (Ebbinghaus, Ribot, Korsakoff, James). L'ipotesi di due distinti sistemi di memoria sem-bra essere avvalorata dagli studi compiuti sui pazienti amnesici che dimostrano di avere intatta o poco deteriorata la memoria implicita [Cohen 1984].

La memoria implicita è stata inizialmente studiata dalla neuropsi-cologia su pazienti amnesici. Warrington e Weiskrantz [1970], ad esempio, hanno presentato a quattro pazienti amnesici, tre korsako-

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274 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

viani e uno con lobotomia temporale, delle parole da ricordare e ne hanno testato il ricordo con prove che attualmente vengono definite di memoria esplicita, come la rievocazione libera e il riconoscimento, e altre che implicano un ricordo implicito come il completamento di parole di cui vengono presentate solo le prime lettere e il riconosci -mento di parole presentate scritte in modo alquanto sfuocato. I loro risultati indicano che mentre il ricordo dei pazienti amnesia è infe -riore a quello dei soggetti di controllo nelle prove di memoria espli -cita, non lo è invece in quelle di memoria implicita. Sembra dunque che queste prove misurino differenti forme di ricordo che non pos-sono essere evidenziate dalle normali prove come rievocazione e ri-conoscimento.

Larry Jacoby ha fornito molte prove, spesso assai ingegnose, del-l'esistenza di forme implicite di memoria in soggetti con normali pre-stazioni mnestiche [Jacoby 1988]. Una situazione classica prevede la presentazione a studenti universitari di una lista di parole. In segui -to, ai soggetti nella situazione di memoria esplicita viene richiesto un normale riconoscimento delle parole vecchie all'interno di una lista che ne contiene di nuove, mentre nella situazione di memoria impli-cita le stesse parole della prova di riconoscimento vengono proposte ad un ritmo assai veloce, e ai soggetti viene chiesto solo di leggerle (se ne sono capaci) così che la misura del ricordo è data dalla facilità con cui le parole vecchie vengono lette rispetto alle nuove.

Le ricerche sulla memoria implicita sono interessanti dal punto di vista teorico perché mostrano dissociazioni tra prestazioni consce e non, richiamando direttamente la distinzione tra processi automati -ci e processi controllati (cfr. supra, cap. IV, parr. 7.2 e 7.3).

2.2. Memoria semantica e memoria episodica

Provate ad immaginare di essere il soggetto di un esperimento sulla memoria. Lo sperimentatore vi presenta una lista di parole e in seguito ve ne chiede il ricordo che risulta positivo solo per alcune parole. Ad esempio, avete «dimenticato» la parola penna che pure era nella lista. A questo punto ci si potrebbe chiedere: la parola pen -na fino a che punto è stata dimenticata? Per rispondere a tale quesi-to è utile introdurre la distinzione tra memoria semantica e memoria episodica che ci chiarisce che:

- una cosa è possedere, e dunque ricordare la parola «penna»come concetto: che cos'è, a cosa serve, come può essere;

- un'altra cosa è ricordare che in quel determinato tempo eluogo (ad esempio, 10 min fa in un laboratorio del Dipartimento diPsicologia, all'interno di una lista di 20 parole) ci è stata detta laparola «penna».

Nel primo caso si fa riferimento al patrimonio di conoscenze possedute: il significato è l'aspetto centrale di tali conoscenze e per-ciò Tulving [1972] definisce questo tipo di memoria «semantica».

\

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 275

Nell'altro caso invece ci si riferisce alla capacità di ricordare eventi « singoli e specifici che sono avvenuti in un tempo e in un luogo pre- i cisi e che sono conservati nella memoria «episodica».

La distinzione tra memoria semantica e memoria episodica è cer-tamente utile per chiarire due importanti funzioni della memoria: a) la registrazione accurata delle esperienze; b) la disponibilità delle conoscenze generali basilari allo svolgimento di tutte le funzioni co-gnitive. È chiaro però che tale distinzione non si spinge fino a con-trapporre i due tipi di memoria che invece hanno molti elementi in comune.

La memoria episodica si caratterizza per il riferimento autobio-grafico. Ricordo quell'informazione nel senso che ricordo dove e quando l'ho appresa. La memoria semantica invece non mantiene le coordinate spazio-temporali, ma le informazioni in essa contenute devono ugualmente aver avuto un fondamento episodico. Se oggi il concetto «lumaca» fa parte del patrimonio delle mie conoscenze e non ricordo più quante volte ho incontrato questa parola nei più svariati contesti, pure c'è stata una prima volta in cui questa parola non designava l'universo delle possibili lumache esistenti in giardini o in testi di scienze naturali, ma solo quell'animaletto strano e visci -do che lasciava una scia lucente su un vecchio muro. La memoria semantica ha quindi avuto, e può anche conservare, dei riferimenti episodici - così come d'altra parte ogni elaborazione di informazioni episodiche è guidata dalle conoscenze possedute - così che l'uso del la memoria semantica si sovrappone al ricordo episodico.

Fino agli anni settanta la ricerca sulla memoria umana era preva-lentemente indirizzata sul versante episodico. Con la pubblicazione dell'articolo di Tulving [1972] si è avuto un enorme interesse per la memoria semantica e le riviste scientifiche hanno visto aumentare in modo vertiginoso le ricerche su questo tipo di memoria. Queste ri -cerche si sono rivolte in particolare allo studio di come le informa-zioni siano rappresentate nella memoria a lungo termine proponendo vari modelli della struttura della memoria semantica. Essi cercano di rendere conto di come vengono rappresentati i concetti, le relazioni tra concetti, raggruppamenti di concetti o schemi e di come si può accedere a questo tipo di informazioni.

2.3. Memoria autobiografica

Anche il tema della memoria autobiografica è stato relativamente dimenticato dalle ricerche sulla memoria dell'ultimo secolo, nono-stante fosse stato uno dei primi temi ad essere studiato. Si deve in -fatti a Galton [1883] la metodologia di ricerca che più si è prestata ad indagare quest'area della memoria. La tecnica prevede la presen-tazione di parole, ad esempio «lampada», accompagnate dalla richie-sta di recuperare eventi personali ad esse associati, «quella volta che mia madre mi ha regalato la lampada che ho sul tavolo». In questo

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276 MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE

caso la codifica della parola «lampada» avviene entro coordinate spa-zio-temporali ben definite e con un esplicito riferimento al sé. Que -sto sembra produrre prestazioni mnestiche superiori rispetto ad altri tipi di codifica.

Il vantaggio mnestico di materiale codificato in relazione al sé è stato studiato da numerose ricerche [Hull e Levy 1979; Rogers 1980; Kendzierski 1980; Keenan e Baillet 1980] che hanno preso lo spunto da un primo studio di Rogers, Kuiper e Kirker [1977] in cui i sog-getti valutavano una serie di aggettivi in base a quattro compiti di -versi: analisi strutturale visiva (maiuscolo o minuscolo?), fonemica (fa rima con...?), semantica (ha lo stesso significato di...?) e con ri-ferimento al self (ti descrive?). Quest'ultimo compito di orientamen-to produceva prestazioni di gran lunga superiori a tutti gli altri, il che indusse a ritenere che il concetto di sé funzioni come schema altamente organizzato e di estrema efficacia nell'integrare le informa-zioni in arrivo con quelle già possedute.

Altri studi hanno ampliato il campo di indagine analizzando gli effetti mnestici del riferimento autobiografico, in cui oltre al sé entra in gioco anche un episodio della propria vita e mostrando come tale tipo di elaborazione favorisca il ricordo. Warren et al. [1983], se-guendo la tecnica di Galton, hanno chiesto ai soggetti di pensare ad una esperienza personale suggerita loro dalle parole proposte, otte-nendo in questo caso un ricordo maggiore rispetto a quello prodotto da valutazioni di piacevolezza e più che doppio rispetto a valutazio-ni di lunghezza della parola. Secondo tali autori l'elaborazione auto-biografica è un processo tanto potente che «più il compito elicita memorie autobiografiche, migliore sarà il ricordo».

La spiegazione della forza mnestica del riferimento al sé e ad eventi della propria vita viene ricondotta al fatto che il sé appare essere uno schema superordinato di memoria dell'esperienza perso-nale, anzi, lo schema più importante e ricco della memoria [Keenan e Baillet 1980]. Secondo Rogers [1980; Rogers, Kuiper e Kirker 1977] il vantaggio mnestico del coinvolgimento del sé è dovuto alla ricchezza e pienezza di codifica data dall'immensa quantità di infor-mazione contenuta in questo speciale schema di memoria. Quando si riesce ad accedere ad un ricordo autobiografico e lo stesso ricordo è disponibile in fase di recupero, la prestazione mnestica ne risulta po-sitivamente influenzata.

Un modo classico per indagare la memoria autobiografica consi-ste semplicemente nel chiedere ai soggetti cosa ricordano delle loro esperienze personali. In questo caso è importante distinguere tra vi-videzza del ricordo e veridicità: non sempre il fatto che ricordiamo qualcosa in modo estremamente chiaro è garanzia che il ricordo sia anche veridico. Lo psicologo ed epistemologo svizzero, Jean Piaget, ad esempio, pensava di ricordare con precisione e vivacità di parti-colari un fatto della sua prima infanzia. Un uomo aveva tentato di rapirlo dalla carrozzina, ed egli era stato strenuamente difeso dalla bambinaia, che lo aveva salvato. Si sarebbe potuto pensare ad uno

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splendido ricordo infantile, se non fosse accaduto, molti anni dopo, che la bambinaia scrivesse ai genitori di Piaget confessando di essersi inventata l'episodio e restituendo l'orologio che le era stato donato in quella occasione. Quello che a Piaget era sembrato il ricordo di un evento reale altro non era che il ricordo di quanto gli era stato raccontato.

Per quanto riguarda la quantità dei ricordi autobiografici si sa che questa varia a seconda dei periodi della vita. Omelia Andreani Dentici e il gruppo di ricerca dell'Università di Pavia [Andreani et al. 1988] hanno chiesto a soggetti anziani di rievocare ricordi della loro vita passata trovando, in accordo con i risultati di Rubin e Friendly [1986], che la massima produzione di ricordi riguarda, oltre ovviamente agli anni più recenti, gli anni della giovinezza. Sono invece scarsissimi i ricordi della prima infanzia e stranamente si registra uno scarso ricordo degli anni tra i 40 e i 50, che probabilmente cor-rispondono ad un periodo in cui non accadono grandi avvenimenti nella vita di una persona e che nel contempo non sono neppure anni recenti per l'ottuagenario che li ricorda.

Un altro modo per esaminare la memoria autobiografica consiste nella registrazione su diari degli avvenimenti della propria vita. Szewczuk dell'Università di Cracovia aveva, ad esempio, annotato tutti i viaggi compiuti nell'arco di più di trentacinque anni tramite diario e diapositive, verificando l'esistenza di fenomeni molto marcati di amnesia retrograda dovuti a shock emotivi. Ad esempio, riferiva di aver completamente dimenticato gli eventi che avevano preceduto un incidente aereo in volo in cui uno scontro era stato evitato in extremis (comunicazione personale).

I due casi più noti di ricerca basata su diario, certo a causa della sistematicità delle annotazioni, riguardano la Linton e Wagenaar. La prima ogni giorno per ben sei anni ha annotato in poche righe due episodi che non fossero ripetibili. Ad intervalli prestabiliti ha cercato di ricostruire l'evento sulla base del titolo. Se non aveva avuto occa-sione di ripensare all'episodio il ricordo era estremamente debole; ad esempio, dopo appena quattro anni il 60% degli episodi era stato perso. Se invece ci aveva ripensato il ricordo si manteneva. Questo spiega perché alcuni eventi non subiscano oblio, ma si possano man-tenere per tutta la vita. Il metodo usato dalla Linton [1975] si scon-tra con la difficoltà di accedere al ricordo attraverso un titolo chiave. Potrebbe essere che il ricordo non è andato perso, ma solo che la chiave non funzioni e che in altre situazioni, con altre chiavi possa riemergere (vedi riflessione proposta per il ricordo sul lettino dell'a -nalista, meglio ancora tornando nello stesso posto).

Willem Wagenaar ha annotato per sei anni quotidianamente dei fatti che gli erano successi, specificando chi era coinvolto nell'episo-dio, cosa era successo, dove e quando. In seguito ha utilizzato tali indizi per indagare sistematicamente il ricordo degli eventi verifican-do come l'utilizzarne più di uno aumentasse significativamente il ri -cordo. Particolarmente utili risultavano il chi, il cosa e il dove, mentre

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l'informazione temporale, di per sé era quella che meno permetteva di accedere al ricordo. Gli indizi usati da Wagenaar [1986] si mo-strarono molto utili per il recupero dei ricordi personali, tanto che dalla sua ricerca risulta un oblio molto minore che non da quella della Linton. Anche per Wagenaar alcuni ricordi sembravano essere completamente perduti ed erano anche quelli che riguardavano altre persone invece che se stesso. Sembra dunque che quando si ha a disposizione tutta una serie di suggerimenti, come spesso capita nella vita di tutti i giorni in cui siamo portati a ricordare episodi in riferi -mento a persone, luoghi e tempi ben precisi («ti ricordi quando do -po gli esami di maturità sei andata in montagna con Anna e avete piantato la tenda, senza accorgervene, sul letto di un torrentello asciutto?») il ricordo di quanto ci è successo può essere molto buo-no, meno invece quello di eventi successi ad altri. Le ricerche della Linton e di Wagenaar appaiono molto interessanti, ma presentano pur sempre il limite degli studi su casi singoli: potrebbero infatti mo-strare risultati dovuti alle loro caratteristiche individuali e non essere rappresentativi di altre persone.

2.4. Memoria prospettica

La classificazione finora esposta riguarda distinzioni all'interno della memoria per antonomasia: la memoria di eventi passati, di in-formazioni apprese. Esiste, per quanto possa sembrare a prima vista paradossale, anche una memoria di eventi futuri: la memoria pro-spettica, che riguarda il ricordo di azioni che abbiamo programmato di compiere nel futuro. Devo telefonare all'amministratore dopo le 16 ma entro le 18; devo togliere per tempo la carne dal freezer; en-tro questa settimana scade la possibilità di consegna di un importan te documento. Ricorderò di fare queste cose? Queste sono le tematiche di cui si occupa la memoria prospettica, che riguarda più il ricordo di intenzioni che di eventi [Kvavilashvili 1987]. La fondamentale distinzione rispetto alla memoria retrospettiva sembra riguardare il fatto che nella memoria prospettica è cruciale ricordare quando qualcosa deve essere ricordato, mentre in quella retrospettiva è più importante il cosa [Baddeley 1990]. La memoria prospettica ha uno scarso contenuto di informazioni: se devo ricordare di incontrare qualcuno, o di pagare una bolletta, non occorre che ricordi nei det -tagli cosa devo dire o le caratteristiche dell'importo e dei consumi. Al contrario la memoria retrospettiva è più densa di informazioni e riguarda una quantità di dettagli su cosa si è detto e fatto. Inoltre la memoria prospettica ha una connotazione emotiva legata al senso di dovere, per cui le dimenticanze in questo settore producono imba-razzo e disapprovazione, mentre il ricordo o l'oblio della memoria retrospettiva sono più neutri e meno soggetti a disapprovazione.

Il ricordarsi di compiere un'azione nel futuro comporta un piano complesso che riguarda il pensiero, l'attenzione, la memoria e la de-

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cisione. L'intero processo può essere distinto in sei stadi [Brandi-monte 1991]:

1) formazione delle intenzioni;2) ricordare cosa fare;3) ricordare quando farlo;4) ricordarsi di compiere l'azione;5) compiere l'azione nel modo stabilito;6) ricordarsi di aver compiuto l'azione per non ripeterla.L'aspetto prospettico per eccellenza è costituito dal quarto stadio

in cui si ricorda il futuro, cioè si rammenta un'azione futura da svol-gere, mentre gli altri stadi riguardano processi di decisione, di atten-zione e ricordo vero e proprio e di controllo sul ricordo (metame-moria).

Gillian Cohen [1989] propone un'ulteriore classificazione all'in-terno della memoria prospettica distinguendo tra il ricordo di pianifi -cazioni di sequenze di azioni decise da noi stessi o che ci sono state imposte da altri, e inoltre tra sequenze di routine, che sono familiari e superapprese e azioni nuove che possono essere o completamente inusuali o familiari, ma da svolgere in nuovi contesti o in nuovi ora-ri. I piani di azioni possono essere più o meno semplici, più o meno importanti, alcuni necessariamente precedono altri, e sequenze di piani semplici possono essere implementate per costituire piani arti -colati e complessi. Un ruolo importante è svolto dal tempo, sia per-ché piani diversi possono competere e interferire dal punto di vista temporale, sia perché alcuni richiedono di essere svolti in un tempo ben preciso (il film inizia alle 8) altri in tempi più dilatati (prima che la libreria chiuda). Lo studio sistematico della memoria prospettica è assai recente e per ora sono più i quesiti posti che le risposte date. Sembra però che nel dimenticare le cose da fare giochino un ruolo fondamentale da un lato il modo in cui l'azione da svolgere è inter -connessa con le altre abituali e dall'altro i fattori motivazionali.

3. La metacognizione e le strategie di memoria

Forse è azzardato affermare che la nostra memoria conserva tutti i ricordi, certo è che l'informazione in essa contenuta è sicuramente maggiore di quella cui possiamo accedere in un dato momento, co-me pure maggiore potrebbe essere la sua potenzialità rispetto all'uso che noi ne facciamo. Cosa potremmo allora fare per utilizzare in mo-do migliore la nostra memoria e per rendere più accessibili i ricordi in essa contenuti?

Per tentare di chiarire questo problema possiamo paragonare la nostra memoria ad una immane biblioteca. Una biblioteca fantastica simile a quella descritta da Borges nel racconto La biblioteca di Babe-le, in cui non esistono né vincoli di spazio, né problemi economici: possono essere acquistati tutti i libri esistenti. Come la biblioteca rappresenta la memoria, così i libri rappresentano le informazioni da

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ricordare. Il vero problema di una siffatta biblioteca sta nell'organiz-zazione. Un volume, per quanto posseduto dalla biblioteca, ma posato lì, in uno scaffale qualsiasi, sarebbe inutilizzabile perché difficilmente reperibile. D'altra parte tutti gli sforzi fatti per disporre ordinatamente i volumi, catalogarli per autore, argomento, titoli e altri tipi di classificazione incrociata, contribuirebbero a rendere rapida ed efficiente la ricerca dei libri. Lo stesso si può dire della nostra memoria: non possiamo pensare di inserirvi informazioni a casaccio con la pretesa poi di ritrovarle, mentre tutti gli sforzi fatti per codifi -carle in maniera ordinata e organica si tradurranno poi in un ricordo più efficiente.

Noi tutti tendiamo a lamentarci della nostra memoria. Più la vita che conduciamo è attiva e stressante, maggiori sono le richieste avan-zate alla propria memoria e maggiori le frustrazioni. Abbiamo di -menticato quell'appuntamento, il nome di un conoscente, dove ab-biamo riposto quell'oggetto che ora ci serve. Tutto ciò, oltre che im-barazzarci, ci complica la vita. Chi si prepara ad un esame o concor-so deve tener presente una grande quantità di informazioni e chi lavora a contatto con il pubblico ha bisogno di ricordare facce e no -mi. Per quanto la memoria possa essere un sistema assai efficiente di immagazzinamento, conservazione e recupero delle informazioni, spesso ci lascia in «panne» e noi dobbiamo imparare a convivere con la sua fallibilità. Chi crede che il ricordo si fissi automaticamen-te, non farà alcuno sforzo attivo per ricordare. Di conseguenza, per quanto buone possano essere le sue potenzialità, alla prova dei fatti la sua prestazione di memoria risulterà scarsa.

3.1. Metamemoria

Avere consapevolezza delle caratteristiche della propria memoria, dei suoi punti di forza e di debolezza, ricordare dove essa fallisce, è già una buona base. Baddeley [1984] riferisce lo strano comporta -mento tenuto da una delle pazienti più amnestiche incontrate nella sua lunga pratica. Dopo che le erano stati presentati dei test di me-moria, questa signora commentava le sue pessime prestazioni, la sua quasi totale incapacità di ricordare dicendo: «Io sono orgogliosa del -la mia memoria». Sembrava che non fosse neppure in grado di ri-cordare quanto scadente si fosse dimostrato il suo ricordo.

È questo uno dei paradossi più inquietanti della memoria: chi davvero ne ha poca, non ricorda neppure i propri fallimenti mnestici e dunque a lato delle carenze nella prestazione mostra anche scarsa consapevolezza, scarsa metamemoria. Chi invece si lamenta delle proprie prestazioni è capace di ricordare «di non aver ricordato». L'esistenza di questo paradosso mnestico invita ad una estrema pru-denza nell'interpretazione delle risposte fornite ai questionari di me-moria che, in una prospettiva ecologica, vengono ampiamente usati per misurare quest'abilità sia in soggetti normali, come nei casi più

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problematici degli anziani o di persone che, per traumi o malattie, lamentino deficit mnestici.

Come già osservato all'inizio di questo capitolo i questionari di memoria [per una rassegna, si rimanda a Hermann 1982] debbono più opportunamente essere considerati questionari di metamemoria, cioè indici di ciò che i soggetti credono della propria abilità di ricor-dare [Cavanaugh e Morton 1988], Quando infatti abbiamo analizzato con prove oggettive le prestazioni di soggetti anziani nelle diverse aree della memoria (ricordo di nomi, facce, luoghi, azioni, nuove cose imparate, ecc.) indagate dal questionario di Sunderland, Harris e Baddeley [1983], abbiamo potuto constatare che non vi era rapporto tra carenze effettivamente riscontrate e carenze lamentate nelle rispo-ste [Cavallarin et al. 1990]. Per quanto riguarda gli anziani vi è dun-que scarsa relazione tra autovalutazione e funzionamento reale della memoria [cfr. anche Cipolli et al. 1990], mentre per gli adulti la cor-relazione tra misure soggettive e obiettive appare sufficientemente elevata, anche se non uniforme nell'arco di vita [Cavanagh, Grady e Perlmutter 1983].

Metacognizione: conoscenze metacognitive e controllo metacognitivo

II concetto di metamemoria è stato oggetto di interesse crescente all'interno della psicologia cognitiva negli ultimi anni, da quando Fla-vell e Wellman [1977] ne hanno fornito una presentazione sistemati-ca. Attualmente, per quanto non vi sia una definizione ben precisa ma si preferisca una definizione «aperta» [Yussen 1985] per questo concetto sfuocato, si parla di metacognizione in riferimento a quel-l'insieme di attività psichiche che presiedono al funzionamento co-gnitivo [Cornoldi e Caponi 1991]. Se i processi cognitivi riguardano operazioni mentali inerenti al pensare, leggere, ricordare, immaginare, risolvere problemi e prendere decisioni, allora la dimensione me-tacognitiva di tali processi è rappresentata dalle conoscenze, valuta-zioni, decisioni che fanno sì che il processo venga attivato, condotto in un modo invece che in un altro, corretto, portato a termine o interrotto. Già in questo tentativo di definizione si fa strada una di -stinzione divenuta ormai classica all'interno della teoria metacogniti-va: quella tra conoscenza metacognitiva, che riguarda tutto quanto un soggetto sa e crede del funzionamento del processo, e controllo metacognitivo, costituito dalla continua valutazione del processo stes-so che permette di individuare la difficoltà del compito, la scelta e il cambiamento delle strategie con cui svolgerlo, gli inceppi nel suo funzionamento. Tale distinzione può meglio essere chiarita in riferi -mento all'esempio dello studente che si accinge a studiare questo ca-pitolo del manuale. Nel fare questo il nostro studente può mettere in atto diversi processi metacognitivi di controllo, come il rendersi conto che il testo non presenta grossi problemi di comprensione, ma che richiede uno sforzo per memorizzare le varie nozioni, scegliere il modo di studiarlo che preferisce e che gli sembra più adatto, verifi-

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care se ha capito e se ricorda. Il suo controllo metacognitivo si base -rà, in ogni momento, sulle conoscenze metacognitive da lui possedute, nel senso che sarà influenzato dalle sue idee su cosa significhi e quale sia il modo di studiare, capire, ricordare e potrà scegliere la strategia più idonea, solo a patto di conoscerla. Questi due tipi di operazioni sono metacognitivi in quanto si situano ad un livello su -periore rispetto a quello dei processi cognitivi che consistono nel leg-gere, capire, memorizzare e a quello del comportamento vero e pro-prio di prendere appunti, sottolineare, ripetere ad alta voce, ecc.

La definizione di metamemoria

La metamemoria, in particolare, è quel settore della più vasta teoria metacognitiva che riguarda specificatamente la conoscenza e il controllo dei processi di memoria. Come tale comprende tutte quelle conoscenze e abilità che riguardano ciò che il soggetto sa e crede, le strategie che usa, le motivazioni che lo spingono riguardo la memo-ria; insomma quanto potrebbe influenzare il controllo sul complesso dei processi innestici. A tale proposito la teoria metacognitiva sostiene che se la metamemoria di un soggetto è buona egli sarà maggiormente in grado di &nìXYa,2iXe la natura del compito, scegliere le strategie più adatte in modo flessibile, spendere la necessaria quantità di risorse cognitive, disporle in modo produttivo e di conseguenza mostrare una buona prestazione mnestica. Si assume quindi, quasi per definizione, che il livello metacognitivo, e in particolare la conoscenza, abbia un ruolo causale sulla prestazione, che nel caso specifico è il ricordare.

La metamemoria costituisce anche dal punto di vista storico, il punto di partenza della teoria metacognitiva, perché questa nasce dallo studio delle strategie di memoria e solo in seguito si è estesa agli altri processi cognitivi.

La metamemoria inizialmente rappresentava per Flavell [1971] una delle quattro vaste categorie di memoria talvolta sovrapponente-si: la capienza strutturalmente determinata, le conoscenze di base, le strategie e la metamemoria. La metatemoria include le conoscenze riguardo: le funzioni, i limiti, le difficoltà e le strategie di memoria.

Qualche anno dopo, nella tassonomia di Flavell e Wellman [1977] all'interno della metamemoria vengono distinte due categorie principali: quella della sensibilità e quella delle variabili. La sensibili-tà riguarda il riconoscere le situazioni in cui è necessaria un'attività di memorizzazione. La categoria «variabili» viene ulteriormente di-stinta in:

- caratteristiche personali rilevanti in compiti di memoria;- caratteristiche del compito;- potenziale applicabilità delle strategie di memoria.Nella tassonomia del 1977 le varie categorie e sottocategorie di

metamemoria non sono indipendenti, ma piuttosto sovrapposte e in-

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teragenti. Chi possiede un sofisticato e ben sviluppato sistema me-tamnestico sa che non tutte le persone risolvono ugualmente bene tutti i compiti di memoria (interazione persona x compito) e che la strategia più adatta dipende sia dalla persona che dalla circostanza (interazione persona x compito x strategia).

In seguito Flavell [1979; 1981] ha sostenuto che la metamemoria non può essere isolata dalle conoscenze sugli altri aspetti del funzio-namento mentale e ha generalizzato la tassonomia alla metacognizio-ne in generale. Inoltre ha introdotto il concetto di esperienze meta-cognitive in riferimento alle situazioni in cui, durante alcuni processi cognitivi, si verificano nuovi insight riguardo alla cognizione stessa. Nella teoria di Flavell le conoscenze metacognitive, le esperienze me-tacognitive e il comportamento cognitivo interagiscono in continua-zione e ogni modificazione in un aspetto comporta di conseguenza modificazioni negli altri.

Deficit di mediazione, deficit di produzione

Quando più di vent'anni fa si incominciò a studiare la memoria in una prospettiva cognitivista, le differenze individuali (per le quali ci sono persone che ricordano di più e altre che ricordano meno) come pure quelle evolutive (per cui i bambini più piccoli ricordano meno di quelli più grandi) vennero imputate a differenze nei processi utilizzati più che a differenze nelle strutture della memoria. Si pensò infatti che non esistessero persone con una memoria più o meno «espansa», quanto piuttosto persone che utilizzavano in misura maggiore o minore strategie più o meno efficaci.

Il 1970 è stato un anno cardine per il riconoscimento dell'impor-tanza delle strategie di memoria. Viene pubblicata una rassegna di ricerche sui deficit di memoria nel ritardo mentale la cui causa è ravvisata da EUis nella carenza di strategie e in particolare nel mancato uso della reiterazione. Sempre nello stesso anno Flavell avanza l'ipotesi che le scarse prestazioni di memoria siano imputabili ad una carente produzione strategica, cioè all'incapacità di utilizzare spontaneamente le strategie di memoria, e che tale carenza sia rimediabile con l'addestramento. Sviluppando una distinzione formulata in pre-cedenza da Maccoby [1964], Flavell [1971] sostiene che due sareb-bero le potenziali difficoltà sottostanti il mancato uso delle strategie:

1) i deficit di mediazione;2) i deficit di produzione.La prima difficoltà nasce dalla mancanza delle abilità di base su

cui la strategia si fonda, per cui anche se la strategia viene insegnata, non produce effetti. La seconda si riferisce invece ad una situazione più matura in cui non vi è ancora un uso spontaneo della strategia, ma se questa viene insegnata può essere proficuamente utilizzata e incrementare la prestazione. La distinzione ben rende conto dei ri-sultati di ricerche in cui si era osservato che vi erano bambini di 7

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anni che utilizzavano la reiterazione per imparare una lista di parole, mentre altri, della stessa età non lo facevano; i primi avevano poi una prestazione migliore dei secondi. Ma se a questi ultimi veniva suggerito di usare la strategia della reiterazione, la loro prestazione migliorava significativamente [Keeney, Cannizzo e Flavell 1967].

I risultati di queste prime ricerche portarono a considerare la prestazione di memoria come il risultato di un passaggio da uno sta-dio non strategico ad uno strategico [Schneider e Pressley 1989]. L'età in cui l'uso maturo e dunque spontaneo della strategia viene acquisito varia da strategia a strategia (ad esempio, la strategia della reiterazione appare più precocemente di quella della categorizzazio-ne) e ciò può essere considerato un indice della difficoltà della stra-tegia stessa, per cui le strategie possono essere classificate in base al loro livello di difficoltà e di comparsa. Inoltre i bambini che non fanno un uso spontaneo della strategia possono essere istruiti ad usarla e a trame vantaggio. Quest'ultimo aspetto venne interpretato come segnale estremamente positivo e alimentò la speranza di poter risolvere molti dei problemi di memoria di bambini ritardati o con difficoltà di apprendimento, come pure di quelli degli anziani o di pazienti con varie patologie, attraverso i programmi di insegnamento delle strategie. Fu però chiaro fin dalle prime ricerche che l'uso ma-turo, e dunque spontaneo e flessibile delle strategie più adatte alle differenti situazioni, non poteva essere il prodotto automatico del training di addestramento. Infatti, sebbene tali tipi di training abbia-no mostrato la loro efficacia migliorando le prestazioni immediate, sono sorti numerosi problemi quando si è considerato il manteni-mento nel tempo delle strategie apprese e il loro utilizzo in nuove situazioni.

In parole povere accade che anche soggetti che hanno un buon patrimonio di metamemoria (ad esempio, sono in grado di utilizzare una strategia di organizzazione in categorie, ne conoscono l'efficacia e sanno che nel caso di liste di item oggettivamente raggruppabili in categorie quella è la strategia più opportuna) non si avvalgano di tali conoscenze (non usino la categorizzazione per imparare la lista). Co-me mai a parità di conoscenze metacognitive vi sono persone più strategiche e più efficienti di altre?

Vi è una quantità di altri potenziali motivi, oltre alle conoscenze metacognitive e all'ipotesi di capienza della memoria, che entrano in gioco quando una persona, di fronte ad un problema di memoria, sceglie una strada che pur sa non essere la più produttiva o quando semplicemente non applica le strategie adeguate. Motivazione, rap-porto costi-benefici, familiarità con il compito, risorse cognitive gene-rali fanno sentire il loro peso sulla scelta strategica e sui risultati otte-nuti. Un aspetto saliente del recente approccio alla metamemoria ri-guarda l'espansione del concetto ad ambiti non più strettamente co-gnitivi, ma che in senso lato definirei emotivo-motivazionali, impe-gnandosi a indagare la relazione tra conoscenza metacognitiva ed ele-menti di attribuzione causale e di personalità [De Beni 1991] e ten-

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tando in tal modo di superare un'antica frattura tra sfera cognitiva e sfera affettiva.

3.2. Le strategie di memoria

Ripetere tra sé e sé, in maniera subvocalica, il numero di telefo-no o la targa d'auto che si vogliono ricordare (reiterazione); trovare una parola, un concetto, un'immagine che metta in relazione una in-formazione nuova da apprendere con quanto già sappiamo o che colleghi tra loro nozioni da imparare (mediazione); individuare e uti-lizzare categorie sovraordinate o strutture e tassonomie che ordinino le informazioni (organizzazione); far uso di immagini mentali per rendere le conoscenze più vivide, stabili, integrate tra loro (immagi-nazione), ecco alcuni esempi di strategie di memoria.

Dato che la memoria riguarda la codifica e il recupero delle in-formazioni, le strategie di memoria possono opportunamente essere distinte in:

a) strategie di codifica che vengono messe in atto in fase di elaborazione del materiale (ad esempio, la reiterazione è una tipica strategia di codifica);

b) strategie di recupero, che vengono attivate nel momento incui serve un'informazione che si sa di possedere in memoria, e checonsistono nell'utilizzo di «chiavi» di accesso al ricordo come il suono, l'iniziale o la categoria di appartenenza della parola bersaglio chesi vuole recuperare.

Il vantaggio maggiore si ottiene quando in fase di codifica come in quella di recupero ci si avvale della stessa «chiave» strategica, ad esempio quando si individuano delle categorie di appartenenza (pen-sando: «alcune delle parole da ricordare riguardano il cibo, altre de -gli indumenti...») del materiale che ci viene presentato e si utilizzano le stesse categorie («c'erano dei cibi, vediamo quali? e degli indu-menti, quali potrebbero essere?») per recuperare il ricordo. Tale vantaggio può essere spiegato all'interno della teoria della specificità di codifica o meglio di quel caso particolare della teoria che riguarda la compatibilita di codifica.

Secondo Tulving [Tulving e Thomson 1973] il contesto entro cui un'informazione viene presentata ne determina la codifica. Il seguente recupero dell'informazione viene reso più difficoltoso se questa viene ripresentata in un differente contesto. Al contrario tanto più contesto di codifica e contesto di recupero sono simili tanto più il ricordo sarà facilitato. Il concetto di specificità richiama l'attenzione sul fatto che un'informazione non viene memorizzata in maniera uni-voca, ma che la sua codifica è «specifica» rispetto al contesto in cui è collocata. Quello di compatibilita mette in luce come il recupero sia facilitato se viene effettuato in un contesto simile a quello in cui si è svolta la codifica. Lo stesso vale quando si applicano delle strate -gie mnestiche: se nella fase di immagazzinamento viene utilizzata una

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ben determinata chiave strategica, questa si caratterizzerà come con-testo, e sarà l'uso di quella stessa chiave a permettere un più facile ritrovamento del ricordo cercato.

Per verificare gli effetti in codifica e in recupero delle strategie mnestiche, Emmerich e Ackerman [1978] hanno condotto un esperi-mento in cui a studenti di differenti età venivano presentati degli item da memorizzare secondo tre differenti modalità: 1) mescolati casualmente; 2) già raggnippati in categorie; 3) da raggnippare da parte del soggetto. Al momento del recupero il ricordo veniva testa to con prove di rievocazione: a) libera; b) guidata dal nome della categoria; e) guidata e obbligata dalla categoria (tutti gli item di una categoria dovevano essere rievocati prima che il soggetto potesse passare alla categoria seguente). Le differenti strategie di codifica e di recupero influenzarono la prestazione sia indipendentemente che in interazione, ma l'effetto della sola strategia in codifica fu assai mi -nore di quello della strategia in recupero e indusse a ritenere che i processi di codifica siano efficaci solo nella misura in cui promuovo-no e sono accompagnati da analoghi processi in recupero.

Reiterazione meccanica e ripetizione integrativa

La strategia di memoria più semplice, anche se non proprio la più efficace, consiste nel ripetersi più volte quanto si vuole memoriz-zare. La forma più tipica di tale strategia consiste nella ripetizione meccanica e subvocalica dell'informazione da tenere a mente e viene chiamata reiterazione, termine che traduce l'inglese rehearsal. Questo tipo di reiterazione viene anche chiamato di mantenimento e si rife-risce a situazioni in cui serve mantenere l'informazione a disposizione nel loop articolatorio della memoria di lavoro, come quando dobbiamo fare un numero al telefono e lo teniamo presente con questo sistema. Bijork [1975] distingue questa reiterazione non-semantica, che chiama di primo tipo, da quella più profonda in cui ci si ripete la nuova informazione al fine di meglio integrarla con le conoscenze già possedute, che definisce di secondo tipo, e che qui viene chiamata reiterazione integrativa. Dunque anche in questa semplice strategia si possono avere gradi differenti di complessità, sforzo, automaticità, corrispondenti a una differente efficacia mnestica. Anche Na-veh-Benjamin e Jonides [1984] distinguono tra una reiterazione più meccanica e automatica, che ha minori effetti sul ricordo, e una che richiede più impegno e produce una migliore prestazione, ipotizzan-do che più la durata delle ripetizioni è simile, maggiore sia il grado di automaticità del processo.

La durata e la modalità delle ripetizioni sono state studiate attra-verso l'osservazione dei movimenti labiali o facendo verbalizzare esplicitamente i soggetti durante la memorizzazione, ma possono es-sere inferite dagli effetti di posizione seriale. Dai movimenti labiali si può osservare se il soggetto mette in atto la strategia, cioè se si ripe-

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te il materiale, man mano che questo gli viene presentato. Questo metodo, oltre ad essere soggettivo e a richiedere una certa abilità di osservazione, presenta il limite di non individuare la strategia quan-do questa, soprattutto in soggetti adulti, è presente a livello mentale senza che vi siano movimenti labiali. Inoltre poco ci dice di come la strategia viene messa in atto. Quando invece si chiede ai soggetti di dire a voce alta quello che stanno facendo mentre, ad esempio, me-morizzano una lista di parole e devono subito dopo ricordarla, si nota in generale che i soggetti adulti trovano conveniente reiterare le parole raggruppandole e al momento del recupero dire subito per prime quelle presentate per ultime (strategia dell'ultimo detto, primo ripetuto), in modo da poter usufruire del fatto che queste sono an-cora presenti nella memoria di lavoro.

In compiti di memoria simili a quello che è stato appena citato, uno dei modi di studiare il modo in cui la reiterazione viene messa in atto, consiste nell'analisi delle pause in una situazione di auto-somministrazione iself-paced). Ad esempio, Belmont [1989] utilizza una tecnica che prevede che il soggetto - nel caso specifico si tratta di bambini - controlli la presentazione delle parole premendo un pulsante ogni volta che desidera sentire la parola seguente; ha così tutto il tempo che vuole per reiterarle, mentre lo sperimentatore ha a disposizione un indice obiettivo che gli permette di inferire la mo-dalità in cui la lista viene memorizzata. In questo modo si è potuto vedere che la strategia migliore per ricordare liste di sette item, im-mediatamente dopo che erano stati presentati, consiste nella reitera-zione cumulativa - rapido finale e cioè nel ripetersi in modo cumula -tivo le prime quattro parole della lista (testimoniato dall'aumentare del tempo di pausa dalla prima parola alla quarta) per poi passare rapidamente alle ultime tre, con tempi molto rapidi.

Un modo classico per studiare la reiterazione consiste nell'inferir-la dagli effetti di posizione seriale, cioè dal vantaggio mnestico che le parole presentano per il posto che occupano nella lista. In particola-re l'effetto di priorità viene strettamente connesso all'utilizzo della strategia della reiterazione, per cui parole maggiormente reiterate, co-me le prime che compaiono nella lista, sono anche maggiormente ricordate. Questo dato ha trovato conferma nel fatto che chiedendo ai soggetti di reiterare la sola parola presentata, fino alla comparsa della seguente, invece che più parole raggruppate spontaneamente, l'effetto di priorità non si verifica [Atkinson e Shiffrin 1971].

Associazione e mediazione

Tra le forme più semplici di strategie compaiono sia l'associazio-ne che la mediazione. La prima riguarda il mettere in relazione qual -cosa di nuovo che si vuole ricordare con qualcosa di vecchio che già si conosce. La seconda riguarda la trasformazione di qualcosa di dif-

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fàcile da ricordare in qualcosa di più facile attraverso la formazione di un legame tra ciò che è difficile e ciò che è facile.

L'associazione può, ad esempio, collegare un numero di telefono nuovo con date significative, o numeri familiari come i miei anni, il mio numero civico, e così via. Higbee [1988] - secondo il quale l'espressione che meglio caratterizza l'associazione è rappresentata dalla frase: «questo mi fa venire in mente» - riferisce come per far ricordare al proprio bambino di tre anni la differenza tra un hotel e un motel gli avesse suggerito che «hotel ha la hall». Questo tipo di associazione sembra un po' spuria nel senso che potrebbe essere un caso di mediazione operato dalla lettera «h».

Caso sicuramente tipico di mediazione è dato dalla strategia della parola chiave, così chiamata da Atkinson [1975] nella sua descrizio-ne dell'applicazione di questa tecnica all'apprendimento del vocabo-lario di una lingua straniera. Se si vuole imparare che in inglese pavi-mento si dice floor (parola difficile da ricordare perché inusuale e inizialmente priva di significato), basta trasformarlo in fiore (parola certamente più facile perché familiare e significativa) e quindi creare una connessione tra questi due termini. Più propriamente la media-zione consiste in un processo in cui si utilizza un concetto che fa da tramite fra altri due. Questo può avvenire:

- generando un comune associato, ad esempio, «terra», e pensando che sia i fiori che il pavimento stanno per terra;

- costruendo delle frasi, come ad esempio: a) sono caduti deifiori sul pavimento, b) dal pavimento nascono dei fiori;

- attivando immagini mentali che possono rappresentare entrambi i termini dell'associazione (le immagini possono, ad esempio, visualizzare i contenuti delle frasi a o b).

Per quanto riguarda nello specifico la tecnica della parola chiave il mediatore consigliato è di tipo immaginativo, ma può essere effica-ce anche un mediatore verbale. La scelta del tipo di mediatore, in funzione della sua efficacia, è da porre in relazione al tipo di mate-riale, e in questo caso non sempre è valida la regola per cui a mag-gior elaborazione corrisponde maggior ricordo. Secondo alcuni stu-diosi i mediatori più immediati, anche se più banali, sono quelli che assicurano un maggior ricordo [Prytulak 1971] soprattutto quando richiedono una sola trasformazione, e non più passaggi, per condurre alla parola bersaglio [Underwood e Schulz I960]. Questa concezione si ricollega alla più generale idea che i mediatori semplici siano an-che i più efficaci [Cornoldi 1986].

Organizzazione

Ritornando alla rappresentazione della memoria a lungo termine come una immensa biblioteca, appare chiaro che se le informazioni in essa conservate non sono organizzate in modo sistematico, è im-probabile che si possa recuperarle quando servono. La nostra me-

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moria è sicuramente una biblioteca molto ben organizzata, prova ne è il fatto che recuperiamo le informazioni con rapidità e facilità. Se, quando cerchiamo un'informazione del tipo «qual è la capitale della Francia», dovessimo percorrere tutta l'informazione contenuta nella mente alla ricerca della risposta «Parigi», ci vorrebbe un tempo spa-ventosamente lungo per recuperare un'informazione che nella realtà richiede solo qualche centesimo di secondo. Dunque la memoria in-tesa come insieme di conoscenze, deve essere organizzata e tale orga-nizzazione deve essere molto buona.

Quando mette in atto processi di organizzazione, l'individuo cer-ca di mettere in relazione consapevolmente le varie parti che deve ricordare. Chi si proponesse di apprendere quanto scritto in questo lavoro potrebbe, ad esempio, ragionare in questo modo:

Qui si parla di come sia possibile incrementare le prestazioni di memo-ria. Si individuano i principi base della memoria e si applicano poi ai vari materiali allo scopo di apprenderli meglio. Si è parlato dello scarso ruolo giocato dalla ripetizione meccanica. Si sono individuati i principi per miglio-rare la propria memoria: attenzione, interesse, organizzazione. Bene, ora co-mincio ad individuare la struttura sottostante a quello che ho letto. Dunque vediamo ora si sta parlando di...

Quando lavoriamo in questo modo su quanto stiamo studiando utilizziamo le conoscenze già possedute per sviluppare una struttura che leghi insieme le informazioni in arrivo in modo coerente. Questa struttura fornirà in seguito un aiuto efficace per recuperare le infor -mazioni. Tale processo organizzativo è indispensabile ad una buona memoria cioè ad una memoria efficiente. L'attenzione e l'interesse sono necessari ai fini del ricordo, ma da soli non sono comunque sufficienti a garantirci un buon ricordo in tutte le situazioni. Il met -tere in relazione gli elementi da ricordare costituisce un aspetto cru-ciale della memoria. La cosa può avvenire in vari modi come avremo modo di vedere nei prossimi paragrafi.

'organizzazione indotta dal materiale e/o imposta dal soggetto

Non è insolito che qualche maestro di scacchi si esibisca in pre-stazioni, come giocare contemporaneamente più partite, che possono far presupporre straordinarie abilità di memoria. Il giocatore deve infatti tener presente simultaneamente varie disposizioni di pezzi as-sai complesse e sempre mutevoli. Ciò gli è reso possibile dal fatto di percepire la scacchiera come un tutto organizzato, piuttosto che la somma di tanti singoli pezzi. L'esperto giocatore di scacchi, come d'altra parte quello di bridge, è in grado di organizzare il materiale in strutture significative e soggette a leggi che lui ben conosce, sulla base di una ricca esperienza del gioco. Abbiamo ancora una prova del ruolo giocato dall'organizzazione.

Quando il materiale di per sé possiede una sua struttura organiz-zata, il soggetto sarà facilitato e il suo compito consisterà nell'indivi-L

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duare questa organizzazione e nell'utilizzarla. La maggior parte delle persone trova che parole organizzate in categorie e gerarchie sono più facili da ricordare che non parole presentate a caso.

D'altra parte anche le parole non organizzate possono essere più facili da ricordare se appartengono oggettivamente a categorie, come nel caso della seguente lista, in cui parole appartenenti a distinte ca -tegorie vengono presentate mescolate casualmente: GONNA, CANE,PERA, CAMICIA, UVA, TOPO, PULLOVER, GATTO, MELA. Qui l'ordinecon cui la lista verrebbe rievocata sarebbe probabilmente diverso dall'ordine di presentazione e il ricordo potrebbe procedere per gruppi di categorie, ad esempio: la frutta: MELA, PERA, UVA; gli indumenti: GONNA, CAMICIA, PULLOVER; gli animali: CANE, GATTO, TOPO.

In questo caso il fatto che il soggetto abbia usato la strategia del-l'organizzazione viene inferito dal numero di adiacenze che compaio-no nel protocollo di rievocazione. Si contano le volte in cui item ap-partenenti alla stessa categoria compaiono vicini e sulla base del nu-mero di categorie presenti nella lista e della loro ampiezza si può calcolare quanto un soggetto si è avvalso dell'organizzazione al mo-mento del recupero. Si sottintende che quella stessa organizzazione fosse stata individuata al momento della presentazione del materiale e il soggetto avesse riconosciuto la presenza di nomi di frutta, di indumenti, ecc. Oltre al numero di item ricordati è interessante, nel caso di materiale organizzabile oggettivamente, osservare le omissio-ni, che a volte interessano un'intera categoria di item, e le intrusioni, spesso rappresentate da item che non c'erano nella lista e che pure appartengono ad una delle categorie presentate.

Quando invece il materiale che si deve apprendere non ha una sua organizzazione, ricordarlo presenta maggiori difficoltà. Sarà in questo caso compito del soggetto attribuirgli una organizzazione sog-gettiva. I processi guidati dai concetti, già posseduti nella memoria a lungo termine, dovranno avere la prevalenza una volta che i processi di analisi del materiale non vi avranno ravveduto alcuna forma di organizzazione. In questo modo il soggetto impone all'oggetto di stu -dio una organizzazione che è sua personale. Può fare ciò in maniera più o meno controllata.

A volte il ricordo può fluire liberamente procedendo per associa-zioni molto personali dovute all'esperienza propria del soggetto. Se, ad esempio, la lista che sto imparando contenesse le seguenti parole: PIOGGIA, SACCO, PRATO, MOGLIE, TESTA, nella mia rievocazione tali parole potrebbero comparire vicine, non perché appartenenti ad una stessa categoria, ma perché legate a quella mia particolare esperienza in cui «durante una gita con amici fui colta da un acquazzone e nel-l'attraversare un prato la moglie di un mio amico si difese dalla piog-gia mettendosi in testa un sacco di nailon».

A volte invece vi può essere uno sforzo deliberato di organizzare le parole da apprendere in una struttura, ad esempio una gerarchla o una storia con significato. In quest'ultimo caso, sempre facendo

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riferimento alla lista precedente di parole, si potrebbe costruire una storia come la seguente: «cadeva la pioggia, il mio sacco da monta-gna era così fradicio che lo posai sul prato mentre mia moglie cerca -va di asciugarsi la testa». In entrambi questi casi il ricordo sarà in funzione dell'entità dell'organizzazione che si è stati in grado di for-nire al materiale.

Ma come fare per individuare questo tipo del tutto personale di organizzazione, come fare per uscire dal circolo vizioso che vuole che la prestazione di memoria aumenti grazie alla maggiore organizzazio-ne e inferisce quest'ultima solo sulla base della prestazione [Crowder 1976]. Tulving [1962] ha proposto una metodologia per l'analisi del-l'organizzazione soggettiva che è stata ampiamente usata e se pur con una serie di limiti, mostra in realtà come la quantità di ricordo sia in chiara relazione col grado in cui il materiale è organizzato [Cornoldi 1986]. Tale procedura prevede una serie ripetuta di prove di rievocazione libera in cui vengono presentate le stesse parole, ma sempre con un ordine differente. Se due o più parole, che pur sono state presentate in ordini diversi, compaiono costantemente adiacenti nel protocollo di rievocazione ciò significa che il soggetto le ha in qualche modo connesse. Ora, dato che tale modalità di associazione non è prevedibile, né vale per tutti i soggetti, possiamo definirla sog-gettiva. I risultati ottenuti da Tulving mostravano che con il procedere delle prove aumentava sia la quantità di parole ricordate, sia la quantità di adiacenze costanti e dunque l'organizzazione soggettiva che da queste si poteva evidenziare, tanto che alla sedicesima pre-sentazione di una lista di sedici parole la correlazione tra questi due indici raggiungeva un valore di 0,96.

3.3. Il funzionamento ottimale della memoria

Da un certo punto di vista noi non possiamo modificare la no -stra memoria. Non si conoscono modi per modificare i sistemi neu-rali che sono alla base di essa. Riprendendo la metafora della biblio-teca, non ci sono mezzi per ampliarne le dimensioni. Ma è questo che ci serve? La capienza che abbiamo a disposizione è più che suf -ficiente, tutto quello che dobbiamo fare è usare il sistema di cui di-sponiamo con maggiore efficienza.

Innanzitutto bisogna sfatare antichi miti. «Memoria minuitur nisi exerceas» dicevano gli antichi. Vediamo quanto di vero e di errato c'è in questa antica massima. Anche se è opportuno tenere attiva la propria mente ponendole richieste di memoria ed escogitando sem-pre nuovi modi per garantirsi il ricordo, non è vero che la memoria sia come un muscolo che il mero esercizio può potenziare. L'imparare a memoria un cumulo di nozioni non migliora il nostro modo di ricordare. È stato questo un errore comune tra gli educatori dell'ot -tocento e anche oggi la scuola non ne è del tutto immune.

Sin dagli inizi del nostro secolo era stato invece dimostrato speri-

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I mentalmente che gruppi di soggetti sottoposti rispettivamente a com-piti di memorizzazione di versi, di formule scientifiche, di distanze geografiche e di brani di argomento geografico, storico e scientifico, dopo un addestramento durato sei settimane non mostravano presta-zioni di memoria superiori ad un gruppo di controllo che non aveva fatto alcun esercizio. Di contro, in un altro esperimento vennero di-stinti tre gruppi di soggetti: il primo impegnato a memorizzare poe-sie e sillabe senza senso, il secondo addestrato ad usare strategie con cui memorizzare poesie e sillabe senza senso, il terzo usato come controllo e senza alcun addestramento. Al termine delle quattro setti -mane di addestramento tutti e tre i gruppi furono sottoposti a test di memoria. Il primo gruppo fornì risultati uguali a quelli del grup-po di controllo. Il secondo gruppo, che aveva ricevuto l'addestra-mento su come memorizzare, diede risultati migliori degli altri grup-pi in tutti i test, anche in quelli molto diversi da quelli usati nel periodo di addestramento. I risultati di questo esperimento sono ine-quivocabili: non è l'esercizio di per sé, ma l'uso di appropriate stra-tegie a favorire il ricordo [Hunter 1957b].

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Attenzione e interesse

Bisogna aver colto le cose prima di poter dire di averle dimenti-cate. Spesso diciamo di aver dimenticato qualcosa quando in realtà sarebbe più corretto affermare che non l'abbiamo mai recepito, non vi abbiamo mai prestato attenzione in modo cosciente. Le informa-zioni che ci interessano richiamano la nostra attenzione e si fissano nella nostra memoria perché in essa esistono già delle strutture, sche-mi di memoria, paragonabili agli scaffali della metaforica biblioteca, pronti a riceverle. Non per nulla siamo più interessati a ciò che ci è più familiare e più siamo esperti in un argomento più siamo attenti alle informazioni ad esso inerenti. Queste informazioni poi non in-contrano nessuna difficoltà ad imprimersi nella nostra mente.

D'altra parte, se qualcosa non ci interessa risulta anche molto difficile da ricordare. La ripetizione meccanica in questo caso è spes-so inutile come è stato dimostrato da uno studio su una campagna pubblicitaria per saturazione condotta dalla BBC. La rete radiofonica inglese voleva informare il proprio pubblico delle nuove lunghezze d'onda su cui in seguito avrebbe dovuto sintonizzarsi per seguire i programmi. Per un periodo di due mesi i programmi radiofonici vennero interrotti regolarmente da informazioni dettagliate su queste nuove lunghezze d'onda. Ma ad una verifica condotta presso l'Unità di Psicologia applicata di Cambridge, la maggior parte delle persone intervistate, che aveva peraltro ascoltato gli annunci più di un mi -gliaio di volte, non fu in grado di fornire indicazioni in questo senso [Bekerian e Baddeley 1980].

Come si può spiegare il fatto che un migliaio di ripetizioni non siano state sufficienti ad insegnare un'informazione numerica? Innanzi-

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tutto la semplice ripetizione non assicura l'apprendimento. È invece determinante il modo in cui l'informazione viene elaborata da chi l'apprende. È poi abbastanza fondato il sospetto che la gente sempli-cemente non prestasse attenzione al messaggio. Quando fu presentato per la prima volta il messaggio riguardava un evento che si sarebbe verificato dopo parecchie settimane, e quindi poteva essere ignorato, almeno momentaneamente. Dopo due mesi il messaggio era diventato così ripetitivo e noioso da essere ignorato automaticamente. Questo ci insegna che persino la presentazione delle stesse informazioni per un migliaio di volte cadrà nel vuoto se queste non verranno elaborate in modo completo e integrate nelle strutture di memoria.

Tutto ciò può sembrare un circolo vizioso: codifichiamo in modo organico e ricordiamo ciò che ci interessa, ignoriamo ciò che non ci interessa. Come è possibile allora apprendere materiali che potrebbero essere, sotto ogni punto di vista, noiosi e monotoni? È proprio questo il caso in cui è più necessario uno sforzo deliberato, tanto più efficace quanto più si basa sull'uso di strategie e piani che mettano in funzione efficaci processi di memoria.

Significato e ricordo

Tanto meno il materiale è significativo, tanto più è difficile man-tenere viva l'attenzione e costante l'interesse. Per contro più il mate-riale è significativo e più facile è apprenderlo. Le parole sono più facili da ricordare che le sillabe senza senso. Le frasi sono più facili da ricordare che non serie casuali di parole. A tutti i livelli la pre-gnanza di significato influisce sul ricordo.

Le serie di cifre costituiscono uno dei materiali più difficili da ricordare. I numeri infatti hanno poco significato ed è facile confon-derli. Prendiamo, ad esempio, in considerazione la serie:

5 8 1 2 1 5 1 9 2 2 2 6e alcune possibili strategie, più o meno efficaci, per apprenderla.

Una prima strategia potrebbe consistere nel raggruppare le cifre (581-215-192-226). Tale strategia detta «raggruppamento percettivo», per indicare che il tipo di organizzazione del materiale è precedente a quella semantica e si basa su elementi uditivi o visivi, permette di formare quei chunks o unità di informazioni che consentono di conser-vare un maggior numero di informazioni nella MBT. Già Miller nel 1956 aveva individuato nel «magico numero sette» ( + o — due) la quantità di informazione che poteva essere tenuta presente in MBT, ma aveva anche osservato come tale quantità non fosse assoluta e oggettiva e si riferisse piuttosto al numero di unità di informazioni raggruppate, i chunks per l'appunto. Con il raggruppamento percettivo sarebbe più facile conservare la serie di cifre nella MBT, ma certo il suo recupero sarebbe arduo dopo solo pochi minuti. Si potrebbe cercare di appren-

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dere la serie ripetendo le cifre meccanicamente più volte ma i risultati non sarebbero sicuri.

Un altro sistema consiste nel cercare una regola sottostante. Os-servate bene la serie, è possibile fare ciò? La prima cifra è 5 e la seconda 8 (5 + 3), la terza è 12 (8 + 4) e la quarta 15 (12 + 3). Ecco la regola: parti dal 5 e aggiungi alternativamente 3 e 4. A que -sto punto la sequenza può essere ricordata anche dopo tre settimane come ha dimostrato un classico esperimento di Katona [1940] in cui si confrontava il ricordo di chi si era sforzato di individuare una qualche regola all'interno di una sequenza di cifre con quello, prati -camente nullo, di chi aveva cercato di impararla meccanicamente.

I due gruppi di soggetti dell'esperimento di Katona si erano tro-vati di fronte ad un carico di memoria molto diverso: i soggetti che avevano imparato meccanicamente avevano caricato la loro memoria di molte informazioni scarsamente significative, per quelli invece che avevano utilizzato la regola era stato sufficiente ricordare una cifra da cui partire e una semplice regola per generare la sequenza.

Comprensione e ricordo

Ciò che è difficile da capire è anche difficile da ricordare. Com-prensione e memoria sono abilità distinte e da non confondersi, ma strettamente collegate, come testimoniano ricerche che hanno trovato molte analogie tra quanto i soggetti riferivano essere il contenuto di un brano che avevano sotto gli occhi e il ricordo che dello stesso brano avevano dopo un certo tempo.

Più che di comprensione tout court sarebbe corretto parlare di processi implicati nell'attività di comprensione. Questi sono molteplici e vanno dall'attribuzione di un significato alle parole, all'assegnazione di un ruolo sintattico, ai processi inferenziali, all'individuazione delle idee centrali e della struttura del brano [sui processi sottostanti la comprensione di brani, cfr. in italiano De Beni e Pazzaglia 1995a]. In generale, però, parlando di comprensione si intende l'attività di inte-grare le nuove informazioni in arrivo con quelle già possedute. Tale attività può avvenire a diversi livelli ed è direttamente proporzionale al grado di elaborazione a cui è sottoposta l'informazione in entrata. Dato che più il materiale viene elaborato tanto più profondamente è compreso, ma anche più viene elaborato tanto più è facile da ricor-dare, è difficile che ci sia ricordo se non c'è stato un qualche livello di comprensione. Ad esempio, le inferenze effettuate nel comprende-re un testo sono poi ricordate come parti del testo stesso. Soggetti che sentono il seguente brano: «Era notte fonda quando il telefono squillò e una voce esplose in un grido furioso. La spia gettò il docu-mento segreto nel caminetto appena in tempo perché 30 secondi do -po sarebbe stato troppo tardi» [Johson, Bransford e Salomon 1973], compiono l'inferenza che la spia abbia gettato il documento nel ca-

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minetto per distruggerlo. Dunque il caminetto doveva essere acceso e il documento bruciato. Essi perciò riconoscono come nota la frase: «La spia bruciò il documento segreto appena in tempo perché 30 secondi dopo sarebbe stato troppo tardi». Tale frase non viene invece riconosciuta da quei soggetti che avevano sentito il brano nella seguente forma: «...La spia tolse i documenti segreti appena in tem-po perché 30 secondi dopo sarebbe stato troppo tardi», perché tale versione produce differenti inferenze.

3.4. Definizione dì strategia, problemi e metodi nello studio e nell'in-segnamento delle strategie

Volutamente ho fatto precedere la presentazione di diverse stra-tegie di memoria alla definizione di cosa sia una strategia. Questo termine appare infatti tanto spesso nella psicologia cognitiva contem-poranea e con una tale varietà di sfumature di significato, che è più semplice proporre esempi di strategie e inferire da questi cosa la strategia sia, piuttosto che non dedurre gli esempi dalla sua defini -zione. Questa definizione pone infatti numerosi problemi relativi a: 1) le caratteristiche che distinguono una strategia, da un lato, dai processi cognitivi e, dall'altro, dalle abilità cognitive; 2) il livello di complessità; 3) il suo carattere di consapevolezza esplicita.

I primi due punti sono in relazione tra loro e riguardano alcunecaratteristiche definienti la strategia, per cui questa è qualcosa di piùe al di sopra dei processi cognitivi, pur avendo un grado di complessità variabile. La caratteristica inerente alla consapevolezza esplicitaviene ritenuta essenziale da parte di alcuni ricercatori, ad esempioquelli che fanno parte del gruppo di ricerca di Paris [Paris, Newmane Jacobs 1985], mentre secondo altri [Campione e Armbruster 1985;Flavell 1992] deve essere interpretata in maniera meno restrittiva eriguardare un possibile criterio di intenzionalità. Ancor oggi e anchealla luce dell'odierno dibattito su cosa debba intendersi con il termine strategia, la definizione proposta da Pressley et al. [1985] sembraessere la più dettagliata e comprensiva. Secondo tale definizione«una strategia è composta di un insieme di operazioni cognitive su eal di sopra di quei processi che sono naturale conseguenza dello svolgere un compito e che vanno da una di queste operazioni ad una sequenza di operazioni interdipendenti. Le strategie si propongonoscopi cognitivi (come comprendere e ricordare) e sono potenzialmente attività consce e controllabili».

II nodo riguardante la consapevolezza della strategia viene inquesta definizione risolto con l'introduzione della potenzialità di taleaspetto, per cui la strategia può anche essere utilizzata in modo automatico, ma su di essa deve essere possibile riflettere per portarla alivello di consapevolezza (cfr. supra, cap. IV, par. 7.3).

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4. Il dimenticare

Chi non si è trovato nell'imbarazzante situazione di essere inca-pace di ricordare il nome di un conoscente magari proprio nel mo-mento in cui lo stava presentando a un altro? E chi non è mai entra-to in una stanza con un ben preciso intento per poi scoprire di aver dimenticato cosa era entrato a fare? Per non parlare delle situazioni avvilenti in cui si dovrebbero esibire conoscenze il cui studio ci è costato ore e ore di fatica e che non siamo in grado di ricordare nel momento cruciale.

L'oblio costituisce uno degli aspetti più frustranti della nostra vi-ta: capirne i fattori che lo governano significa non solo comprendere i processi su cui la nostra memoria si basa, ma anche come sia possi-bile evitare di incappare nei suoi punti deboli. In altre parole la comprensione delle cause dell'oblio è il primo passo per cercare di comprendere e migliorare la propria memoria.

Anche se di primo acchito appaiono solo i danni derivanti dall'o -blio, ad una riflessione più attenta esso presenta accanto agli svan -taggi anche dei vantaggi. Una delle più importanti caratteristiche del Registro sensoriale e della MBT è la rapidità di perdita dell'informa-zione contenuta in essi, che consente l'inserimento sostitutivo di nuo-va informazione. Se l'oblio non funzionasse in maniera tanto rapida ed efficace ci si verrebbe a trovare nella medesima drammatica situa-zione di Funes, uno dei personaggi dei racconti di Borges: incapace di pensare dato che la sua mente era sovraccarica di tutti i dettagli di ogni cosa percepita, per sempre indelebilmente impressa nella sua memoria.

Anche la MLT implica la necessità di dimenticare informazioni diventate obsolete, per sostituirle con nuove più appropriate. È inu-tile infatti continuare a ricordare il vecchio numero telefonico del no-stro medico di famiglia una volta che questo è stato sostituito, me-glio dimenticarlo per poter ricordare quello attuale. D'altra parte se spesso ci si lamenta della nostra scarsa memoria, talvolta si è arden-temente desiderato di poter dimenticare.

L'oblio riguarda la perdita o l'impossibilità di recuperare infor-mazioni che prima si possedevano. Quindi, prima di analizzare le possibili cause dell'oblio e prima di imputare all'oblio il fatto che non riusciamo a ricordare qualcosa, è necessario escludere innanzi-tutto la possibilità che il materiale in questione in realtà non sia mai stato appreso. Chi si lamenta di aver dimenticato dove ha posato le chiavi di casa, il nome del conoscente che gli è stato appena presen-tato, o nel momento dell'esame quell'argomento che aveva studiato, dovrebbe sinceramente porsi le seguenti questioni:

- ho riflettuto su dove ho posato le chiavi? O non le ho messemeccanicamente in un posto qualunque mentre i miei pensieri eranoconcentrati altrove?

- quando mi è stato presentato questo signore che non ricordocome si chiama, ho prestato attenzione al suo nome, l'ho registrato

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nella mia memoria? O non stavo forse pensando a cosa avrei dovuto dirgli e a come io mi sarei presentato a lui?

- quell'argomento l'ho realmente studiato? O non ho passato piuttosto un certo numero di ore seduto ad un tavolo con il libro aperto davanti, facendo scorrere lo sguardo sulle pagine e lasciando in realtà fluttuare il pensiero su mille altri argomenti?

È chiaro che tutto ciò che non è in realtà mai stato appreso non può essere ricordato.

4.1. La rapidità dell'oblio

Si deve a Ebbinghaus, lo psicologo tedesco che già nel 1885 for -mulò l'idea rivoluzionaria che la memoria potesse essere studiata sperimentalmente, lo studio classico sulla rapidità dell'oblio. Egli aveva imparato una gran quantità di elenchi formati da sillabe prive di significato, come ZIC, BUR, RAL, ecc, e li aveva reimparati dopo un intervallo variabile tra i pochi minuti e il mese. Aveva così potuto constatare che in ogni caso era intervenuto un certo oblio. La quan -tità di tempo richiesta per imparare di nuovo l'elenco costituiva una misura di quanto aveva dimenticato (tecnica del riapprendimento, cfr. par. 2.1).

I suoi risultati mostravano che l'oblio dapprima è rapido, ma va rallentando gradualmente e i ricordi assumono un assetto stabile col passare dei giorni. La scoperta di Ebbinghaus conserva la sua validi -tà anche oggi e per molti tipi di materiale appreso.

Certo è che il materiale usato da Ebbinghaus era di tipo partico-lare e artificioso. È lecito chiedersi che cosa accade con materiale più realistico e con intervalli di tempo ben più lunghi. Questo tipo di studi presenta però particolari problemi dovuti soprattutto alla diffi-coltà di accertare se ricordi, inerenti a fatti accaduti decine di anni prima, corrispondano a realtà. Una soluzione consiste nel porre ai soggetti domande su eventi famosi, magari riportati dai quotidiani. È stata questa la via seguita da due psicologi inglesi Warrington e San-ders [1971], i quali scelsero argomenti pubblicati a grandi titoli sui giornali vecchi da un anno a più di trent'anni. Essi furono così in grado di accertare la correttezza del ricordo di questi fatti. I risultati ottenuti dimostrano che il ricordo di eventi quali: - Che cosa accad-de alla Pietà di Michelangelo? Quale evento rivoluzionario accadde in Cile? Chi vinse il premio Nobel per la pace? - sono soggetti ad un oblio considerevole.

Questi dati riguardano il ricordo di informazioni apprese in mo-do relativamente casuale, ma che cosa può dire la ricerca sperimen-tale sull'oblio di informazioni apprese in modo più approfondito? Per rispondere a questa domanda uno studio condotto da Bahrich et al. [1975] ha rintracciato quasi 400 diplomati e confrontato i loro ricordi dei nomi e delle fisionomie dei compagni di scuola con regi-stri scolastici e foto. Questo studio ha potuto verificare che la capaci-

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100-

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8 ore 24 ore

Intervallo di ritenzione

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FIG. 5.4. Curva dell'oblio: l'oblio è molto rapido nella prima ora seguente l'apprendimento e continua nelle 8 ore seguenti; poi i ricordi si stabilizzano e vi è relativamente poca perdita di informazione con il passare del tempo.

tà di riconoscere la faccia o il nome di un compagno, inseriti tra foto e nomi sconosciuti, rimane buona per più di trent'anni. In contrasto con questo livello soddisfacente del ricordo per riconoscimento, la capacità di rievocare un nome sia spontaneamente sia in seguito alla presentazione di un ritratto scendeva a livelli decisamente più bassi mostrando un oblio molto più vasto.

Anche se la rievocazione di informazioni vecchie di molti anni appare in generale alquanto scarsa, tutti noi conosciamo persone in grado di richiamare alla mente con particolare vividezza fatti accaduti decine di anni fa, specie se insoliti. In questo caso si sarebbe tentati di supporre che quando si rievoca un fatto accaduto venti-trenta anni prima si abbia accesso ad un ricordo vecchio di venti o trenta anni. Ciò sarebbe però legittimo solo nel caso in cui il soggetto non lo avesse mai richiamato alla mente nel frattempo. Se invece, come è più probabile, questo è avvenuto, il ricordo riguarda più che l'evento in sé, la ricostruzione che ne è stata fatta in seguito.

4.2. Le cause dell'oblio

I vari tentativi volti a spiegare le cause dell'oblio sono sfociati in tre teorie principali: 1) decadimento della traccia di memoria; 2) in-terferenza; 3) impossibilità del recupero.

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Le ultime due sono più simili tra loro e si discostano dalla pri -ma in quanto permettono di ritenere che i ricordi permangono ma risultano o danneggiati dal sovrapporsi dell'apprendimento successi-vo (teoria dell'interferenza), o difficili da richiamare alla mente ma in essa pur sempre presenti, tanto che con un più opportuno piano di recupero, ad esempio mediante un compito di riconoscimento o in una rievocazione con suggerimento (magari ritornando nel luogo in cui il fatto si è svolto), il ricordo che sembrava perso può torna -re alla mente. Allo stato attuale della ricerca sulla memoria umana si sanno certamente molte cose, ma non tante da poter decidere chia-ramente a favore di una delle teorie sopra elencate, escludendo le altre. Questo è il motivo per cui tutte e tre vengono qui presentate.

Decadimento della traccia mnestica

Secondo la teoria del decadimento col passare del tempo i nor-mali processi metabolici del cervello provocano un decadimento della memoria, così che le tracce di quanto si è appreso si disintegrano gradualmente fino a scomparire del tutto. La traccia mnestica va semplicemente cancellandosi, come una scritta esposta al sole e alla pioggia che gradualmente si stinge fino a diventare del tutto illeggibi-le. L'esperienza comune della rapidità con cui viene dimenticato ma-teriale appreso potrebbe dar credito a questa teoria.

Se invece diamo credito alla teoria dell'interferenza, cruciali do-vrebbero essere gli eventi che si sono verificati nell'intervallo di tem-po, e un numero maggiore di eventi sovrappostosi dovrebbe avere come conseguenza un oblio maggiore.

Per poter decidere se l'oblio è causato da decadimento o da inter-ferenza dovremmo tener scissi tempo ed eventi, in altre parole do-vremmo poter trovare una situazione in cui lo scorrere del tempo non corrisponda ad un succedersi di eventi. Cosa alquanto diffìcile dato che per la nostra mente non esiste un tempo senza eventi, così come è impossibile che degli eventi si verifichino al di fuori del tempo.

Più facile è invece trovare una situazione in cui, in una unità di tempo (ad esempio, un mese), un evento (ad esempio, una partita di rugby) si sia verificato un numero diverso di volte e al contrario un numero fisso di eventi, ad esempio cinque partite di rugby, si siano verificate in periodi di diversa durata. In questo caso doman-dando ai giocatori di rugby di ricordare i nomi delle squadre con cui avevano giocato durante la stagione, si può cercare di rispondere alla domanda se l'oblio dipende dal tempo passato o dal numero di par-tite intercorse. I risultati ottenuti in questo studio da Baddeley e Hitch [1977] mostrano che i giocatori ricordano bene con chi aveva -no giocato l'ultima volta, anche se ciò si era verificato un mese pri -ma, mentre hanno maggiori difficoltà se devono ricordare partite, magari più vicine nel tempo ma seguite da altri incontri di rugby.

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Almeno in questa situazione l'oblio è quindi dovuto a interferenza più che a decadimento spontaneo della traccia.

Interferenza

Un approccio più fecondo allo studio dell'oblio consiste nell'ab-bandonare l'idea di produrre un intervallo di tempo completamente privo di ogni attività interferente e nello studiare invece l'effetto che vari tipi di materiale interferente hanno sul ricordo.

In una ricerca del 1931, McGeorg e McDonald studiarono il di-verso grado di interferenza variando l'attività compiuta dai loro sog-getti fra l'apprendimento originario di una serie di aggettivi e la suc-cessiva rievocazione. Furono così in grado di provare che l'oblio era minore quando durante l'intervallo i soggetti non erano occupati in alcun tipo di apprendimento e riposavano ed era un po' maggiore se erano impegnati nell'apprendere materiali molto differenti da quelli originari, come cifre o sillabe senza senso. L'oblio aumentava invece quando dovevano imparare altri aggettivi e diveniva massimo se que-sti erano simili per significato a quelli appresi in origine. Questi ri -sultati hanno evidenziato una caratteristica fondamentale dell'interfe-renza: più il materiale da ricordare è simile, maggiore sarà l'interfe -renza e di conseguenza maggiore l'oblio. Al di fuori dalle situazioni di laboratorio non sono poi molte le situazioni in cui possa capitare di dover apprendere materiale distinto e allo stesso tempo così simile da generare una tale confusione tra apprendimenti precedenti e suc-cessivi.

Gli effetti dell'interferenza sul ricordo sono stati studiati in modo approfondito dagli psicologi nordamericani e inglesi tra il 1940 e il 1960. Molto studiata è stata l'interferenza retroattiva, quella in cui è il materiale nuovo a danneggiare quello appreso in precedenza, come è illustrato dalla ricerca sopra descritta sullo studio di aggettivi. Su questo tipo di interferenza circola un aneddoto, per altro privo di fondamento, ma che esemplifica come un nuovo apprendimento pos-sa danneggiare il ricordo di nozioni apprese in precedenza. Il primo presidente di una prestigiosa università americana, la Stanford Uni-versity, David Starr Jordan, era un esperto in fatto di pesci. Come presidente di una nuova università volle, con vezzo del tutto ameri-cano, chiamare i suoi studenti per nome. Ma ogni nome di studente imparato cancellava il ricordo di un nome di pesce. Fu così che ri -nunciò alla sua impresa.

L'aneddoto descrive un caso in cui un apprendimento successivo danneggia uno precedente. Esistono casi invece in cui è il vecchio apprendimento ad emergere affermandosi nei confronti del nuovo. Questo fenomeno è noto come interferenza proattiva. Io stessa ne sono stata vittima di recente. La mia nuova casa sorge in un altro quartiere; ora entrando in città devo imboccare la circonvallazione di sinistra, mentre per anni ho imboccato quella di destra. Durante

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quest'anno mi sono recata varie volte fuori città e al mio ritorno non ho mai sbagliato strada. Ma rientrando dalle vacanze estive, dopo un viaggio particolarmente faticoso, giunta in città ho imboccato senza esitazione la circonvallazione di destra dirigendomi verso la casa abi-tata in precedenza. Solo dopo essermi inoltrata nel dedalo dei sensi unici di Padova, mi sono resa conto del mio errore. È stato come se il vecchio ricordo di quale strada conducesse a casa mia, dopo essere stato soppresso e sostituito da uno nuovo, fosse improvvisamente ri-comparso, complice la mia stanchezza.

Nelle tabelle seguenti sono schematizzati i disegni sperimentali delle ricerche che hanno studiato i due tipi di interferenza.

TAB. 5.3. Schema per lo studio dell'interferenza retroattiva. In questa situazione sperimentale quan-do il test di memoria del materiale A mostra che il gruppo sperimentale ha una prestazio-ne inferiore al gruppo di controllo si parla dì interferenza retroattiva dovuta all'appren-dimento del materiale B

Fase di apprendimento Fase di ritenzione Test di memoria

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Gruppo di controllo

Gruppo sperimentale

materiale A riposo materiale A

materiale A apprendimento materiale B materiale A

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TAB. 5.4. Schema per lo studio dell'interferenza proattiva. Quando il test dì memoria del materiale B mostra che la prestazione del gruppo sperimentale è inferiore a quella del gruppo di controllo si parla di interferenza proattiva dovuta al precedente apprendimento del ma-teriale A

Fase di apprendimento Test di memoria

Gruppo di controllo riposo materiale B materiale B

Gruppo sperimentale apprendimento materiale A materiale B materiale B

Dal punto di vista sperimentale si deve allo psicologo americano Underwood lo studio sistematico del ruolo giocato dall'inibizione proattiva sull'oblio. Egli era stato incuriosito dallo scarso ricordo mo-strato dagli studenti universitari che si prestavano quali soggetti nelle situazioni sperimentali che si svolgevano nel suo laboratorio. A quei tempi - si parla di una trentina d'anni fa, ma la cosa si ripete anche al giorno d'oggi - le ricerche sull'apprendimento umano utilizzavano quali soggetti gli studenti e quelli dei dipartimenti psicologici erano chiamati molto spesso a prestare la loro collaborazione in tal senso. Inoltre allora, con una frequenza superiore a quella di oggi, venivano usate liste di parole e Underwood pensò quindi che la causa della scarsa prestazione mnestica potesse consistere nei numerosi elenchi di vocaboli che i suoi soggetti, in questo caso si può a ragione dire «pazienti», avevano dovuto apprendere. Partendo da questa intuizio-ne, Underwood creò delle situazioni sperimentali i cui risultati gli

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permisero di concludere che quanto maggiore era il numero di liste di parole apprese in precedenza, tanto più facile era dimenticare la lista più recente [1957].

A volte interferenza retroattiva e proattiva agiscono in concomitan-za sul ricordo di un elenco di parole, di una poesia, di un brano: le parti iniziali e finali vengono ricordate un po' meglio mentre quella centrale su cui pesa sia l'interferenza causata dalla prima parte (interfe-renza proattiva) che quella dell'ultima (interferenza retroattiva) sono in genere più difficili da ricordare. L'interferenza potrebbe dunque spiegare gli effetti di posizione seriale a cui è stata fornita un'altra possibile spiegazione all'inizio del capitolo (cfr. supra, pp. 264-266).

In realtà interferenza retroattiva e proattiva riflettono il fatto che quanto apprendiamo entra ad interagire con quanto già appreso. Nella maggior parte dei casi questa interazione è positiva in quanto il nostro nuovo apprendere è facilitato se si costituisce sul vecchio. Solo nel caso in cui è necessario distinguere i due ricordi, può nasce-re quella confusione che fa aumentare a dismisura l'oblio che si sa-rebbe verificato in condizioni normali.

Bisogna poi osservare che nelle situazioni studiate trenta e più anni fa, e che mostrano l'importanza dell'interferenza, venivano usati materiali verbali con scarso significato, come le sillabe senza senso, o scarsamente interconnessi, come le liste di parole. Quando il mate-riale è significativo e/o relato, gli effetti dell'interferenza sono molto minori. Inoltre quanto più l'apprendimento è approfondito e ben in-tegrato nel sistema di conoscenze del soggetto tanto meno è sensibile ad entrambi i tipi di interferenza.

Sonno e oblio .

Una delle procedure utilizzate per dirimere la questione se l'oblio sia causato maggiormente dal decadimento della traccia mnestica o dall'interferenza sembrerebbe quella di misurare il ricordo in situa-zioni in cui nell'intervallo di ritenzione i soggetti dormono e di con-frontarlo con quello seguente a periodi di veglia. Sebbene sia chiaro che il sonno non implica una cessata attività mentale, si può ragione-volmente ritenere che mentre si dorme si sia meno soggetti alle sti -molazioni ambientali e che per questo motivo si abbia un carico mi-nore di interferenza. Utilizzando la metodologia che confronta sog-getti che hanno dormito con soggetti che sono stati svegli nel perio -do di ritenzione del materiale da ricordare, una gran mole di ricer -che ha trovato che il ricordo dopo un periodo di sonno è migliore di quello che si verifica dopo un periodo di veglia e che ciò è partico-larmente vero quando il ricordo è differito di lunghi intervalli tem-porali. Si è potuto verificare la solidità di tale fenomeno con diffe-renti tipi di materiali mnestici come: sillabe senza senso [Jenkins e Dallenbach 1924], liste di aggettivi [Lovatt e Warr 1968] o brani,

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ma, in quest'ultimo caso, solo per quanto riguarda il ricordo dei det-tagli [Newman 1939].

Questi risultati sono stati interpretati a favore della teoria dell'in-terferenza nel senso che l'assenza di stimolazioni ambientali, durante il sonno, spiegherebbe il miglior ricordo. Ulteriori ricerche hanno inve-ce mostrato come anche in questo caso il quesito non sia risolto e hanno fatto riferimento alla possibilità di spiegazioni alternative, dovute ai differenti ritmi fisiologici e ad attività neurochimiche che si verificano di notte piuttosto che al sonno di per sé. Gli effetti sembrano imputabili non al sonno e alla associata minor interferenza, quanto piuttosto all'ora del giorno. È la notte e il ritmo biologico di per sé, non il sonno, che favorisce il ricordo differito [Hockey, Davies e Gray 1972].

D'altra parte, come risaputo dal senso comune, la carenza di sonno influisce negativamente sulla prestazione mnestica e in partico-lare sul ricordo differito. Non è del tutto chiaro però se la mancanza di sonno danneggi la percezione del memorandum o la sua fase di codifica. Williams, Lubin e Goodnow [1959] e Polzella [1975] hanno ritenuto che la prestazione mnestica fosse danneggiata dalla carenza di sonno per effetto di brevi e involontari periodi di mancamento, che abbassano i tempi di reazione e l'accuratezza della codifica e che crescono in frequenza e durata quanto più dura la veglia, sostenendo quindi che il danno si verifichi a livello di registrazione sensoriale. Williams, Gieseking e Lubin [1966] scoprirono che la memoria era danneggiata anche quando veniva assicurata la corretta registrazione sensoriale e conclusero che il danno doveva manifestarsi a livello di codifica o nel passaggio da MBT a MLT. Elkin e Murray [1974] confermarono entrambe le teorie provando che, nel caso di una mancanza di sonno superiore a 35 ore si manifestavano sia una cattiva percezione dello stimolo che una riduzione nel rehearsal.

Se il danno si verifica a livello di codifica, la prestazione di me-moria non dovrebbe essere danneggiata dalla mancanza di sonno se questa ha luogo quando il consolidamento è già avvenuto. Ciò è sta-to dimostrato presentando delle figure in condizioni normali e som-ministrando la prova di memoria dopo 24 ore di carenza di sonno [Williams, Gieseking e Lubin 1966] oppure facendo dormire tutti i soggetti subito dopo l'apprendimento e deprivando di sonno la notte successiva solo il gruppo sperimentale. In entrambi i casi i risultati sono stati concordi nell'indicare che la privazione di sonno non ha effetti sulla MLT se si verifica dopo che il consolidamento del ricordo ha avuto luogo [Idzikowski 1978].

Accesso al ricordo

La terza teoria invocata per spiegare l'oblio parte dall'assunzione che il ricordo non sia affatto perduto, ma che la difficoltà consista nell'impossibilità di accedervi. D'altronde il fatto stesso che si possa-

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no veriflcare fenomeni di interferenza proattiva, in cui il ricordo vec-chio, che sembrava dimenticato, riemerge danneggiando ricordi più recenti, implica che se anche le tracce mnestiche anteriori possono essere meno accessibili e più resistenti al recupero, ciò non significa che siano andate perdute.

Vi sono molte prove del fatto che i ricordi permangono nella nostra mente e che l'oblio dipende dalla difficoltà di recuperarli, mentre in circostanze favorevoli e/o con opportuni suggerimenti quanto sembrava ormai definitivamente dimenticato può tornare alla mente.

Dal punto di vista introspettivo una delle prove più convincenti del fatto che possediamo informazioni cui non riusciamo, almeno momentaneamente, ad accedere, ci viene dall'esperienza abbastanza comune in cui pur essendo sicuri di conoscere un determinato nome o vocabolo, non riusciamo tuttavia a ricordarlo. Ci sembra di avere la parola sulla punta della lingua [per l'approfondimento di questo fenomeno, cfr. il classico studio di Brown e McNeill 1966] e ci sen-tiamo inquieti fino a che inaspettatamente o in seguito ad una ricer-ca attiva, non ritroviamo il termine corretto. Dal punto di vista me-todologico sappiamo che vi sono tecniche più sensibili al ricordo di altre. Informazioni che non vengono ricordate in una prova di rievo-cazione libera, possono essere recuperate con opportuni suggerimenti (cue) nella tecnica della rievocazione guidata o riconosciute se pre-sentate insieme a dei distrattori. Anche quando non si ha nessuna consapevolezza di possedere alcun ricordo, questo può essere eviden-ziato dal risparmio nel riapprendimento o dalle tecniche del priming e del completamento di parole spesso usate nello studio della memo-ria implicita.

Rimozione

Anche se non è plausibile affermare che tutto il nostro vissuto venga riposto e conservato nella memoria, non di meno questa con-tiene molta più informazione di quella che riusciamo a ricordare in un dato momento e che ci sembra esaurire tutto il nostro ricordo.

Un'altra interpretazione avanzata per spiegare l'oblio e che si si -tua nell'ottica di ritenere i ricordi non perduti, ma difficili da recu-perare è quella proposta da Freud. Egli suggerì che gran parte delle dimenticanze di cui siamo vittime quotidianamente potrebbe avere la sua origine nella rimozione di fatti associati a problemi emotivi per-sonali. Secondo la teoria della rimozione, alcuni ricordi sono inacces-sibili, non perché la traccia mnestica si sarebbe disgregata (infatti i ricordi sussistono ancora e in condizioni opportune e magari nel cor-so di un trattamento psicoterapico possono riemergere), ma perché la loro presenza a livello conscio sarebbe inaccettabile a causa del -l'angoscia ad essi associata.

La natura di quella perdita di ricordi che avviene drammatica-

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mente nell'amnesia ci aiuta a comprendere la rimozione. Chi è vitti -ma dell'amnesia non dimentica tutto. Sa ancora parlare, ricorda i no-mi delle cose e continua a conservare un patrimonio di informazioni che gli permette di condurre le normali attività. Ciò che ha dimenti-cato è il suo nome, la sua casa, la storia della sua vita. Molto spesso causa di questa amnesia è un grave trauma emotivo, a cui la perdita di memoria permette di fuggire.

Talvolta casi di trattamento psicoanalitico possono offrire delle prove dell'esistenza di ricordi rimossi e della possibilità di riportarli alla coscienza. Non è lecito però generalizzare queste prove e inter -pretarle come testimonianza del fatto che tutti i nostri ricordi vengono conservati in memoria. Quanto infatti un paziente dice nel corso del trattamento va interpretato alla luce del transfert, quel particolare rapporto che egli ha instaurato col proprio analista, e trova la sua verità e significato in questo rapporto. Anche in questo caso, come nel ricordo infantile di Piaget, non esistono prove che quello che il paziente riferisce siano ricordi di fatti realmente accaduti.

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4.3. Altri fenomeni di memoria

Testimonianza

Una situazione in cui l'oblio assume importanza oserei dire «vita -le», per gli accusati s'intende, è quella della testimonianza oculare. Quanto si può aver dimenticato di fatti drammatici a cui si è assisti-to o di cui, addirittura, si è stati vittime? Anche questo è un caso in cui quanto generalmente si crede non si mostra alla prova dei fatti del tutto valido. Sembrerebbe infatti impossibile dimenticare gravi fatti che ci sono capitati. Anzi l'impressione soggettiva è che più gra-ve è l'evento minore sia l'oblio a cui è soggetto. Ricerche condotte con soggetti americani [Loftus 1979] e con soggetti italiani sia giovani che anziani [Cornoldi e De Beni 1989] indicano che la gente pensa di ricordare di più quando le scene a cui assiste sono violente e si svolgono in situazioni maggiormente ansiogene. Pare logico alla vitti-ma avere impresso il volto del criminale che l'ha minacciata a mano armata, mentre in realtà questo e altri particolari salienti dell'aggres-sione sono tra quelli più facilmente dimenticati; anche perché l'atten-zione della vittima può essere stata attirata da particolari distraenti, specie dall'arma con cui era minacciata e questo è tanto più vero quanto più l'arma è pericolosa.

Già nella narrazione spontanea dei fatti il testimone, anche quan-do si dichiara sicuro della sua deposizione, incorre in un elevato tas -so di errori, circa del 15% secondo Weld [1954]. Quando poi il te-stimone viene interrogato aumenta la probabilità che possa incorrere in inesattezze e in errori. Molti sono stati i ricercatori che hanno studiato questo problema e hanno denunciato l'uso di domande sug-

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gestive o l'uso di procedure d'indagine non corrette che possono au-mentare, con esiti a volte drammatici, la possibilità di inesattezze ed errori. Oltre agli studi ormai classici di Hunter [1957b] e della Lof-tus [1979] può essere ricordato, ad esempio, uno studio di Wage-naar [1988] in cui sono stati evidenziati principi e regole pratiche cui dovrebbe attenersi chi cerca di identificare i colpevoli di azioni delittuose per mezzo di testimoni oculari. Il rischio in cui si può incorrere è quello di fraintendere l'attendibilità dei testimoni e di ri-conoscere colpevoli degli innocenti.

Certo non si può restare che molto impressionati di fronte ad una vittima che in preda ad una forte emozione, riconosce, me-scolato tra altre persone in un confronto all'americana, il proprio assalitore. Ciò nonostante bisogna sempre tener presente che la te-stimonianza oculare, per quanto in perfetta buona fede, può esse re del tutto inattendibile. Lo psicologo australiano Donald Thomson ha sostenuto sulla base di dati empirici [Thomson, Robertson e Vogt 1982] la difficoltà del riconoscimento da parte di testimoni oculari, che sarebbero facilmente influenzati da particolari conte-stuali. Ad esempio, un innocente può essere riconosciuto come colpevole per indossare abiti simili a quelli indossati dall'autore di un'azione delittuosa o per essere stato associato in altro modo al delitto. Thomson riferisce un aneddoto che se non è vero è certa-mente ben trovato. Mentre era impegnato in questo tipo di ricer -che partecipò ad una tavola rotonda sull'argomento, ospite assieme al sindaco e al capo della polizia della televisione locale. Pochi giorni dopo, inaspettatamente venne arrestato, condotto in un con-fronto all'americana e lì riconosciuto dalla vittima come autore di uno stupro. Venne in seguito a sapere che il momento della vio -lenza era coinciso con la sua comparsa in televisione e potè servir si di questo alibi di ferro per dimostrare la propria innocenza. Era accaduto che la donna stava proprio seguendo quella trasmissione appena prima di essere violentata ed aveva dunque riconosciuto il volto di Thomson, ma l'aveva erroneamente trasposto sull'aggressore.

Un errato riconoscimento, come nel caso sopra citato, può aver luogo perché la vittima ha da un lato la certezza di non poter di-menticare quel volto, mentre dall'altro l'ha già dimenticato. Questa discrepanza tra credenza metacognitiva e prestazione cognitiva può indurre a riconoscere una persona già vista in altri contesti associati nel tempo, come nel caso di Thomson, o nello spazio, come può avvenire quando nello stesso ambiente, ad esempio la questura, ven-gono mostrate delle persone sospettate; quando queste vengono pre-sentate più volte il testimone tende a riconoscerle, sulla base del fat-to che le ha già viste e purtroppo tende anche a riconoscerle come colpevoli [Wagenaar 1988].

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II ricordo e l'oblio di fatti emotivamente significativi

II ritenere che quanto più un fatto è carico emotivamente tanto più sarà ricordato ed esente da oblio è opinione alquanto diffusa e radicata nelle persone. Elisabeth Loftus [1979] ha chiesto a 500 gio-vani americani di rispondere a domande riguardanti il peso di alcune variabili, come lo stress, la violenza, la presenza di armi da fuoco, ecc. nel ricordo di eventi, trovando che le opinioni andavano nella direzione di una relazione diretta che legava maggior emozione a maggior ricordo. L'82% degli intervistati riteneva di essere maggior-mente in grado di ricordare i dettagli di un crimine violento rispetto ad uno non violento. Non diversamente hanno risposto i soggetti italiani, giovani e anziani, al questionario QM [Cornoldi e De Beni 1989] riguardante venti differenti situazioni di memoria. Anzi il con-fronto tra due gruppi di soggetti di diversa età permette di constatare che le opinioni relative all'incidenza dei fattori emotivi sul ricordo, nonché di un certo pregiudizio razziale, sono stabilmente radicate nei soggetti, che non si differenziano in queste domande, mentre avevano mostrato nelle altre una serie di differenze che avevano in-dotto a ritenere gli anziani meno metacognitivi dei giovani. Di diffe-rente opinione paiono invece essere degli «esperti del settore»: 253 avvocati interrogati sul rapporto tra emozione intensa e riconosci -mento di facce mostrarono un'interessante presa di posizione a se-conda del ruolo svolto nel processo: ben l'82% dei difensori riteneva che una maggior emozione peggiorasse il riconoscimento, mentre so-lo il 32% degli accusatori era della stessa opinione [Baddeley 1990].

La verifica empirica del legame tra emozioni e ricordo non è certo semplice, sia per fattori etici che impediscono di indurre, in situazioni sperimentali, forti emozioni, sia perché è difficile indurre artifi-ciosamente situazioni di autentica emozione. Ciò nonostante il tema è di tale interesse che parecchi studiosi si sono cimentati con l'argo -mento [in italiano cfr. le rassegne di Meazzini e Corao 1978; Cornoldi 1986; D'Urso 1990] senza peraltro pervenire a risultati definitivi.

Per ovviare agli inconvenienti sopra esposti si sono spesso studiate versioni differenti di filmati, più o meno emozionanti. Ad esempio, Loftus e Burns [1982] hanno mostrato il film di una rapina a mano armata, in un caso presentando la scena di un omicidio efferato, nell'altro omettendola. Il ricordo seguente dei particolari del film era molto minore per quei soggetti che ne avevano visto la versione violenta. Uguali risultati erano stati ottenuti da Clifford e Scott [1978] i quali avevano presentato due versioni, una violenta e l'altra no, di uno stesso filmato riguardante l'arresto di un criminale. Anche in questo caso vi era un ricordo più accurato per la versione non violenta e questo era particolarmente accentuato per le donne che non per gli uomini.

Nella ricerca interdisciplinare svolta presso il Dipartimento di Psicologia di Padova, di cui si è fatto cenno all'inizio del capitolo, si è invece trovato che quando si presenta un vero film, emotivamente

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coinvolgente nel suo complesso, le scene violente di paura sono ri -cordate anche nei dettagli meglio di altre scene meno e diversamente emotigene [Baroni et al. 1989]. Nei due filmati sulla rapina e l'arre-sto la maggior emozione induce un minor ricordo, risultato questo concordante con le ricerche sulla testimonianza oculare [Loftus 1979], mentre in un vero film assistiamo all'effetto opposto.

In realtà la questione è assai complessa, ma anche nei casi citati sembra valere la legge di Yerkes e Dodson [1908] secondo la quale al crescere del livello di attivazione (arousal) diminuisce la prestazione ottimale. Questi ricercatori avevano trovato che in generale, con l'unica eccezione costituita da compiti estremamente semplici, la rela-zione tra apprendimento e attivazione assume l'andamento di una U rovesciata: si impara cioè di più man mano che si è più attivati, ma ciò è vero solo fino a valori medi di attivazione, quando questa co-mincia a diventare troppo alta la prestazione diminuisce. La legge di Yerkes e Dodson è facilmente intuibile se facciamo riferimento a si-tuazioni d'esame in cui un buon livello di attivazione, il sentirsi in forma, fa sì che siamo in grado di rispondere velocemente e in ma-niera appropriata rendendo al massimo, mentre un'eccessiva attiva-zione, l'essere troppo «su di giri», può portare ad una paralisi del pensiero e ad una «scena muta».

In letteratura ci sono molte indicazioni di come la legge di Yer-kes e Dodson valga in una varietà di situazioni molto più generali di quella in cui è stata rilevata. Nel caso specifico del ricordo di scene violente si potrebbe pensare che un'eccessiva attivazione - e si può assumere che emozioni molto forti producano alti livelli di attivazio-ne - sia anche in questo caso associata ad un minor ricordo. Il diffe -rente livello di attivazione prodotto dal fatto di assistere, sia di per-sona che tramite filmato, ad azioni violente o di vederle all'interno della finzione filmica potrebbe spiegare perché nel primo caso si ve-rifichi un peggioramento nella prestazione che invece non si riscontra quando l'azione violenta è inserita nella trama di un film.

5. Immaginazione

5.1. Immagini mentali

Rispondete alla seguente domanda: quante finestre ha la vostra ca-sa? È probabile che per rispondere vi raffigurate la vostra casa e con «l'occhio della mente» la passiate in rassegna stanza per stanza contando le finestre. Se siete stati in grado di procedere in questo modo avete la prova che la vostra memoria contiene oltre alle infor-mazioni verbali anche informazioni visivo-immaginative.

«Le immagini sono il proprio rappresentamento di quelle cose che noi vogliamo tenere a mente». L'anonimo autore trecentesco di un tratterello in volgare sull'arte della memoria ribadisce la stretta relazione tra memoria e immagini mentali riprendendo un tema caro

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alla nostra cultura fin dalle sue origini. Già Aristotele affermava che «sono oggetti di memoria per sé quelli che cadono sotto l'immagina-zione; per accidente, poi, quelli che non sono separati dall'immagina-zione» e Hobbes andava oltre affermando che «memoria e immagi-nazione sono la stessa cosa indicata con nomi differenti per il diverso modo di considerarla». Fin dall'antichità era chiaro il legame tra me-moria e immaginazione, ma la verifica sperimentale dell'efficacia delle immagini mentali ai fini del ricordo dovette attendere la nascita della psicologia sperimentale. Nel 1894 Kirkpatrick aveva notato che invi-tando i soggetti a formare delle rappresentazioni mentali di parole, otteneva un incremento nel ricordo e che tale vantaggio era maggio re per le parole concrete che non per le parole astratte. In seguito queste ricerche furono abbandonate. Per tutta la prima metà del no-vecento l'immaginazione fu ritenuta un campo di studio inappropriato, in quanto troppo personale e introspettivo per essere studiato obiettivamente e perciò tralasciato. Negli anni cinquanta manuali e rassegne di ricerche sull'apprendimento umano non portano cenni della voce «immaginazione». Solo a partire dagli anni sessanta, in concomitanza con il rinnovato interesse e la legittimazione dello stu-dio dei processi non direttamente osservabili, l'immaginazione ha po-tuto essere considerata valido oggetto di indagine della psicologia e il numero di ricerche in tale settore è andato aumentando in progres-sione geometrica. Negli ultimi due decenni si è assistito ad un grande sforzo nella direzione di comprendere la natura e l'organizzazione dei processi immaginativi: gli anni settanta hanno visto la vivace disputa tra «immaginisti», sostenitori della autonomia della funzione immaginativa e della sua analogia con quella percettiva [Cooper e Shepard 1975; Paivio 1974], e «proposizionalisti» che negavano tut to ciò e sostenevano che anche le rappresentazioni mentali erano unicamente di tipo proposizionale [Pylyshin 1973; 1981; Anderson 1978]. Gli anni ottanta, lasciando ai margini tale controversia, si so-no caratterizzati per la proposta di modelli sintetici [Kosslyn 1987b]. In una prospettiva cognitivista l'immaginazione è stata studiata nella sua specificità funzionale, che la caratterizza rispetto ad altri processi cognitivi, e per il rapporto in cui sta con la percezione visiva. Ci si è chiesti infatti se l'immaginazione fosse un reale processo cognitivo a fianco di altri processi o altro non fosse che il risultato di questi, un epifenomeno la cui utilità non è superiore a quella del rumore associato al funzionamento di una macchina. Questi aspetti sono stati fondamentalmente affrontati da studiosi come Shepard e Kosslin che, attraverso l'analisi dei tempi di risposta in compiti di rotazione mentale, il primo, e di ispezione, il secondo, hanno mostrato come in diverse situazioni sperimentali l'immaginazione funzioni in modo analogo-percettivo, per cui ruotare un'immagine mentale richiede tanto più tempo quanto più è ampio l'angolo di rotazione e ispezionare {scanning) un'immagine richiede tempi maggiori all'aumentare della distanza tra gli estremi presi in considerazione. Non si deve però credere che le immagini mentali soggiacciano agli stessi

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vincoli del mondo fisico al pari degli altri oggetti fisici. In molte si -tuazioni le immagini mentali risultano svincolate da restrizioni fisiche e nell'indurre un tipo di processo analogo-percettivo o, al contrario, completamente autonomo, molto giocano le istruzioni [De Beni e Giusberti 1990] o le caratteristiche del compito [Giusberti et al. 1992], o ancora le credenze dei soggetti stessi [Cornoldi, De Beni e Giusberti 1993] tanto che l'immaginazione appare essere una funzio-ne autonoma che si situa in una posizione intermedia tra i processi percettivi e quelli immaginativi.

5.2. Memoria e immaginazione

È stato soprattutto ad opera di uno studioso canadese, Allan Pai-vio, che gli studi sul rapporto tra memoria e immaginazione, hanno avuto un enorme sviluppo tanto che al giorno d'oggi non vi è libro sull'apprendimento e sulla memoria che non tratti questo argomento. Il suo approccio, detto neomentalismo, suggerisce di utilizzare gli indici mnestici per studiare le immagini mentali prendendo in considerazione tre tipi di variabili riguardanti:

a) le caratteristiche del materiale da ricordare;b) gli effetti delle istruzioni ad immaginare in compiti di memoria;e) le differenze individuali inerenti l'abilità immaginativa.Queste tre direttive hanno promosso una gran mole di ricerche

sperimentali i cui risultati hanno messo in luce gli effetti positivi del-l'immaginazione sul ricordo. Infatti il materiale verbale (parole, frasi, brani) facilmente immaginabile ha una probabilità maggiore di essere ricordato, così come l'uso di immagini mentali, sia spontaneo che in seguito a precise istruzioni, incrementa la prestazione mnestica e i «buoni immaginatori» possono avere un ricordo superiore ai «cattivi immaginatori». Ma come spiegare questi fenomeni? Quali sono le ca-ratteristiche dei processi immaginativi che influiscono in quelli di memoria? E in che modo un tipo di processo favorisce l'altro?

Dire come le informazioni sono rappresentate nella nostra me-moria permanente costituisce un punto cruciale del dibattito teorico non solo sulla memoria ma sulla concezione della mente umana. Dei molti quesiti fondamentali sull'argomento e dei tentativi di risposta ci limiteremo qui ad accennare a quello che risponde alle domande se informazioni diverse vengono tutte codificate in memoria in un uni -co modo o se invece non esistono forme diverse di codifica.

Le ricerche sull'esistenza di un doppio sistema di codifica, verba-le e immaginativo, sono legate al nome di Paivio [1971] che, basan-dosi su un'ampia sperimentazione, ha affermato l'esistenza di rappre-sentazioni di entrambi i tipi. Partendo dall'osservazione che stimoli verbali apparentemente simili, come parole della stessa lunghezza che compaiono con ugual frequenza nella lingua del soggetto, sono ricor-dati in modo differente e che gli stimoli figurali, oggetti oppure dise -gni di oggetti familiari, sono ricordati più degli stimoli verbali, Paivio

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afferma che responsabile del diverso ricordo è il modo diverso in cui sistema verbale e sistema immaginativo sono impegnati nella codifica degli stimoli (si veda la tab. 5.5).

TAB. 5.5. Lo «schema dei più»

Stimoli Codifica

immaginativa verbale

Figure Parole AI Parole BI

+ : + + + +

Gli stimoli figurali sono più facili da ricordare perché attivano immediatamente una codifica per immagini (analogica) e, se l'oggetto è familiare, anche la codifica verbale, che attribuisce allo stimolo l'e-tichetta verbale, cioè il nome. In questo modo l'item viene codificato due volte: una dal sistema immaginativo, e una dal sistema verbale. Qualcosa di analogo avviene per alcuni stimoli verbali, quelli che de-scrivono oggetti o situazioni in grado di suscitare con facilità e vivi-dezza delle immagini, come, ad esempio, vacanza. Tali stimoli, ad alto valore di immagine (AI), vengono immediatamente codificati dal sistema verbale, ma possono anche godere della codifica supplemen-tare del sistema immaginativo. Gli stimoli verbali a basso valore d'immagine (BI) - parole a cui è difficile associare una immagine mentale, come, ad esempio, scopo — possono con maggior difficoltà avvantaggiarsi di una codifica immaginativa e si avvalgono prevalen-temente di quella verbale. Sono pertanto più difficili da ricordare perché codificati attraverso un unico sistema.

Il vantaggio mnestico del valore d'immagine non viene imputato ad una maggior potenza della codifica immaginativa, quanto piutto-sto alla probabilità di attivazione contemporanea di entrambi i tipi di codifica. Questa teoria detta della doppia codifica, spiega dunque perché le figure siano più facili da ricordare degli stimoli verbali e come questi si differenzino nel ricordo a seconda del loro valore d'immagine. Paivio evidenzia che è proprio la doppia codifica ad es-sere responsabile del maggior ricordo tanto che se una figura non è facilmente denominabile non ottiene vantaggio mnestico.

Fin qui si è parlato di processi di codifica in memoria, ma Paivio si è spinto oltre, affermando che le immagini mentali non sono solo dei processi, ma anche delle rappresentazioni permanenti della no-stra mente. La sua posizione si contrappone così a quella «verbali -sta» prevalente nella psicologia nordamericana e che trova il suo pre-cursore nel comportamentista Watson che riduceva il pensiero ad una forma di linguaggio interiorizzato e negava l'esistenza delle im-magini mentali. Molti psicologi europei come Bartlett, Piaget, Luria, hanno tranquillamente ammesso l'esistenza di immagini mentali. Al

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contrario gli psicologi nordamericani [cfr., ad esempio, le posizioni di Pylyshyn 1973; Clark e Chase 1972] hanno mantenuto un atteg-giamento critico e sostengono che la memoria conserva informazioni sia verbali che visive in un unico «formato», cioè in una forma rap-presentativa dello stesso tipo, il quale, pur non essendo in senso stretto né verbale né visivo, ha proprietà e caratteristiche che si avvi-cinano al linguaggio verbale [ad esempio, le «proposizioni» proposte da Anderson e Bower 1973].

Ma una cosa è affermare che l'immagine mentale mantiene alcune caratteristiche dell'immagine percettiva, un'altra è sostenere che le immagini mentali ne conservano tutte le caratteristiche, come se l'og-getto fosse proprio sotto gli occhi. Il concetto di «memoria fotografi-ca» secondo Neisser [1967] si basa sulla falsa supposizione che ci sia una «percezione fotografica». La nostra percezione è, al contrario, altamente selettiva per cui di fatto fissiamo e registriamo solo alcuni aspetti degli oggetti complessi. L'immagine mnestica, che ne deriva e che viene immagazzinata nella MLT, sarà di conseguenza ancora più povera. Nella fase di recupero dell'informazione il soggetto si potrà poi awalere di poche tracce sensoriali che verranno arricchite, al momento dell'attivazione dell'immagine, da altri tipi di tracce anche proposizionali e da inferenze ricavate dal sistema generale di cono-scenze [Cornoldi 1986].

Tipi di immagine

Le immagini che si possono evocare, partendo dal medesimo materiale verbale, possono essere di vario tipo. Possono essere imma-gini singole in cui ogni parola viene immaginata singolarmente, o inte-rattive, in questo caso un'unica immagine rappresenta più elementi interagenti tra loro. Poniamo vi troviate di fronte al compito di do-ver ricordare coppie di parole (apprendimento di coppie associate, ACA). Si tratta di una situazione di laboratorio simile ad altre situa-zioni di vita reale, prima tra tutte l'apprendimento dei vocaboli di una seconda lingua. Una coppia potrebbe essere: ruota-fiasco. Si po-trebbe allora cercare di formare un'immagine per ogni parola, in questo caso il ricordo sarà maggiore che non in seguito alla semplice reiterazione. Un miglior ricordo sarebbe assicurato dalla formazione di un'immagine interattiva comune in cui i due elementi della coppia vengano rappresentati assieme. Provate ad immaginare una gigante-sca ruota, che muovendosi schiaccia un vecchio fiasco, mandandolo in frantumi. Questa immagine favorirà il vostro ricordo perché non potrete pensare alla ruota senza vederla schiacciare il fiasco. Una pa-rola vi rimanderà automaticamente all'altra.

Le immagini bizzarre sono invece quelle che si possono solo im-maginare, ma che mai capiterà di vedere nella realtà e si differenziano dalle immagini comuni che si riferiscono a cose che abbiamo visto o potremmo aver visto. L'immagine di un ricercatore che accudisce

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le cavie di laboratorio, può costituire un esempio di immagine comu -ne; mentre quella di una grossa cavia che accudisce una batteria di ricercatori, chiusi ognuno nella propria gabbietta, può essere un esempio di immagine bizzarra.

Le immagini mentali dunque possono riferirsi a rappresentazioni di oggetti che abbiamo realmente visto, si parla allora di immagini di memoria, e a rappresentazioni costruite con elementi forniti sì dal ri-cordo ma che nel loro insieme non abbiamo mai visto realmente ma solo immaginato: immagini di immaginazione.

Per la parola tavolo possiamo infatti evocare un'immagine di me-moria; un tavolo di legno bianco rettangolare, magari quello nostro di cucina; e un'immagine di immaginazione: un tavolo le cui quattro gambe siano formate da lattine di birra sovrapposte e il cui pianò sia costituito da una decina di grossi volumi incollati tra loro. La prima immagine corrisponde a un oggetto tante volte visto, la seconda ad uno che non abbiamo visto mai, ma che la nostra mente può co-struire.

Si possono evocare immagini generali: per la parola tavolo possia-mo pensare ad un tavolo qualsiasi e formare l'immagine corrispon-dente al concetto più generale di tavolo; immagini specifiche: quella di un ben preciso tavolo, ad esempio quello di cucina con le sue parti-colarità; e immagini episodiche-autobiograficbe che vedono l'oggetto in questione inserito in un ben determinato spazio e tempo, ad esem-pio si può immaginare quel particolare tavolo come appariva in quella vetrina quando se ne decise l'acquisto.

Diverse ricerche hanno potuto verificare che i soggetti sono in grado sia di evocare spontaneamente questi diversi tipi di immagini, sia di evocare su richiesta immagini di un tipo anziché di un altro [Cornoldi, De Beni e Pra Baldi 1989; De Beni e Pazzaglia 1995W. Più complessa è apparsa invece l'influenza che diversi tipi di imma-gini hanno sulla prestazione mnestica. Se è certo e ampiamente di-mostrato in letteratura [per una rassegna, cfr. Richardson 1980] che le immagini interattive favoriscono il ricordo più delle immagini sin-gole, non è altrettanto chiaro quale altro tipo di immagine sia prefe-ribile evocare.

Anche nel campo delle immagini mentali si è voluto verificare l'efficacia mnestica di eventi tratti dalla memoria autobiografica, o in qualche modo contenenti riferimenti al sé. In una di queste ricerche Rogers [1980] ha chiesto ai soggetti di formare immagini mentali di se stessi mentre interagivano con gli item da ricordare. I risultati mo-strarono, in maniera abbastanza sorprendente che ciò non produceva alcun vantaggio mnestico. Né l'uso di immagini mentali, né il riferi -mento al sé, usati interattivamente hanno mostrato i loro effetti nella prova di riconoscimento proposta da Rogers, come pure in un com-pito di memoria incidentale proposto da Lord [1980].

Un quadro di risultati completamente differente emerge invece dalle ricerche di Helstrup in cui l'interazione tra immaginazione e coinvolgimento del sé influenza positivamente il ricordo. Le immagi-

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ni studiate in questo caso variavano lungo la dimensione persona-le/impersonale; i soggetti dovevano infatti immaginare i referenti delle parole loro presentate come se fossero impersonali immagini pub-blicitarie o come se fossero oggetti di loro proprietà. Anche in altri esperimenti Helstrup [1991] ha mostrato come le immagini persona-li, quelle che contengono elementi di esperienza personale, o qualco-sa che ha valore e importanza personale, siano meglio ricordate ri-spetto alle immagini impersonali. Vere e proprie caratteristiche di autobiograficità hanno invece le immagini studiate da Cornoldi, De Beni e Pra Baldi [1989], in cui viene usata la tecnica di Galton, e che sono state confrontate con immagini a diverso grado di generalità-specificità. Le immagini autobiografiche si sono caratterizzate per una maggior vividezza e tempi di formazione e riattivazione più lunghi; i loro effetti sulla memoria sono stati evidenti solo con tempi di presentazione delle parole sufficientemente lunghi e in situazioni con istruzioni omogenee. Sembra dunque che quando un'immagine auto-biografica viene evocata questo costituisca un efficace tipo di codifi -ca, ma non si tratta di una codifica comune e di facile accesso come mostra il fatto che sia una codifica che si verifica di rado spontanea-mente e che risente del paradigma sperimentale usato [De Beni e Pazzaglia 1995b]. Inoltre l'immagine autobiografica è sensibile al punto di vista utilizzato dal soggetto che immagina [Nigro e Neisser 1983] e la richiesta a «vedersi» nell'immagine danneggia la prestazione mnestica che al contrario è favorita dalla situazione in cui ci si immagina presenti nella scena e appunto per questo non ci si visua -lizza [De Beni, Pazzaglia e Vaccari 1992].

Celebri mnemonisti, che fanno dell'arte della memoria la loro professione, riprendendo una delle antiche regole dell'arte classica della memoria, sostengono che è preferibile costruirsi delle immagini bizzarre, il cui vantaggio sarebbe dato dal fatto di colpire e attrarre l'attenzione e di distinguersi dalle altre immagini comuni. La ricerca sperimentale ha confermato solo in parte questa opinione, che trova le sue origini nella retorica greca e romana, e che è così diffusa e generalmente accettata da essere condivisa dai soggetti anche quando la loro prestazione di memoria dimostra il contrario. È capitato in-fatti che alla fine di un esperimento in cui si usano immagini comuni e bizzarre, dopo la fase di rievocazione i soggetti ritengono che le immagini bizzarre siano più facili da ricordare delle comuni anche quando i loro protocolli di rievocazione dimostrano il contrario [De Beni et al. 1986]. È questo un caso in cui la metamemoria, cioè la conoscenza più o meno esplicita che un soggetto possiede della pro-pria memoria, trae in inganno probabilmente perché influenzata dal principio generale «ciò che è strano si ricorda meglio», principio che non sempre è valido.

Un punto fondamentale emerso dalla sperimentazione sull'effetto di bizzarria è che il vantaggio mnestico offerto dalle immagini bizzar -re è legato alla libertà che il soggetto ha di selezionare e crearsi im-magini a lui più congeniali [Cornoldi et al. 1988]. Infatti si può pen-

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sare che mentre le immagini comuni fanno riferimento ad esperienze condivise da molte persone, le immagini bizzarre possono essere strane e al tempo stesso significative solo per chi se le è create.

5.3. Capacità di immaginare

Le persone possono avere differenti abilità nel generare immagini mentali: c'è chi riesce a formare immagini particolarmente chiare e vivide e chi possiede solo vaghe immagini annebbiate, chi in bianco e nero, chi a colori, chi più statiche chi più dinamiche [De Beni e Giusberti 1990]; tutti però siamo in grado di immaginare e di trarre vantaggio da ciò. Anzi, soggetti che ad un test di abilità immaginati-va possono apparire poveri immaginatori sono poi ugualmente in grado di seguire istruzioni ad immaginare e incrementare così la loro prestazione di memoria [Marks 1972]. L'abilità di generare immagini mentali può variare da individuo a individuo, la potenzialità di fare ciò è universale. Dato un approfondito training è provato che tutti possono utilizzare le immagini mentali [Richardson 1980], non solo ma le istruzioni all'uso delle immagini mentali tendono a livellare le differenze individuali [Bellezza 1983], insegnando ad immaginare anche a chi spontaneamente non saprebbe produrre buone immagini mentali.

Anche persone cieche totali dalla nascita possono usare immagini mentali e aumentare le loro prestazioni di memoria, per quanto que-sto possa sembrare di primo acchito incredibile [De Beni e Cornoldi 1985a]. Chi vede ha la possibilità di associare alla parola GATTO l'e-sperienza visiva che ha di un gatto, animale che ha visto in prece-denza e che ha sentito chiamare in questo modo. Ciò non è possibi le al non-vedente, in particolare a chi è cieco dalla nascita e non ha mai avuto esperienze percettive di tipo visivo. I risultati sperimentali ottenuti mostrano però che anche il cieco totale congenito può avere immagini mentali e trame profitto. L'apparente paradosso per cui il cieco non è privo d'immaginazione visiva potrebbe essere sciolto ri-nunciando a considerare l'immaginazione visiva come una diretta conseguenza della percezione visiva. L'immagine mentale non è tout court l'immagine visiva in assenza dell'oggetto, non è «come quando avevo veramente visto la cosa»; le immagini mentali non sono esclu-sivamente visive, come emblematicamente si chiede il titolo di uno dei lavori che sono entrati nel merito del dibattito sulle immagini mentali: How visual are visual images («Quanto sono visive le immagi-ni mentali visive» [Zimler e Keenan 1983]), ma sono il frutto dell'in-tegrazione mentale di informazioni provenienti da più canali senso-riali come il tatto, l'odorato, l'udito, oltre che la vista naturalmente. Questo può spiegare perché anche i ciechi congeniti possono avere immagini mentali, ottime quelle spaziali che li guidano lungo i per -corsi familiari, e possano sognare con immagini.

Ci sono poi persone che hanno straordinarie abilità nell'immagi-

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nare. Un giornalista russo di nome Seresevskij aveva una memoria prodigiosa fondata in gran parte sull'immaginazione. Lo psicologo russo Luria [1972] lo studiò per parecchi anni, sottoponendolo ai più diversi test di memoria in cui Seresevskij otteneva risultati strepi -tosi. Non solo egli era in grado di ripetere perfettamente ogni tipo di materiale, ma riusciva a recitarlo anche in ordine inverso e a man-tenerne il ricordo per anni.

Qual era il segreto di questa memoria prodigiosa? Egli aveva la capacità di evocare con estrema facilità una grande ricchezza di im-magini mentali, non solo, ma era dotato di una sorprendente capacità sinestetica. La sinestesia è la capacità che uno stimolo, in una modalità sensoriale, ha di evocare una immagine in un'altra modalità. Un piccolo grado di sinestesia è abbastanza comune: la maggior parte delle persone tende ad associare suoni alti a colori e tonalità chia re e suoni bassi a colori scuri. C'è chi associa i numeri o i giorni della settimana a differenti colori. Queste capacità erano però in Seresevskij sicuramente eccezionali. Per lui i numeri tendevano ad avere forme e colori: «L'uno è un numero appuntito. Il due è più piat to, rettangolare, di colore biancastro, a volte quasi grigio». Qualsiasi cosa gli venisse presentata veniva codificata in questo modo ricco ed elaborato. Anche il materiale più arido e banale creava in lui un'im-magine vivida, non solo visiva, ma anche uditiva, tattile e olfattiva. Era questa straordinaria capacità di far uso delle immagini mentali che rendeva così strabiliante la sua memoria.

5.4. Mediatori immaginativi: il metodo della parola chiave

Si è già visto, sia parlando della mediazione che dell'apprendi-mento di coppie associate, che l'immagine può costruire un ottimo legame tra due termini che si vogliono apprendere insieme. L'utilità dell'immagine può quindi facilmente essere estesa all'apprendimento dei vocaboli di una seconda lingua, compito in cui è richiesto di im-parare il corrispondente di una parola italiana nella lingua straniera scelta e che costituisce un esempio di un tipico compito di apprendi-mento di coppie associate.

Il metodo della parola chiave si avvale del vantaggio mnestico of-ferto dalle immagini interattive per facilitare l'apprendimento delle lingue straniere. Esso implica l'individuazione nella propria lingua di parole che abbiano un suono simile a quello di vocabili della lingua straniera. Ad esempio, la parola inglese borse che significa «cavallo» ha un suono simile alla parola italiana «orso». Per ricordare che «ca-vallo» in inglese si dice borse, basterà formare un'immagine, meglio se interattiva, che metta in relazione il significato della parola inglese con il significato della parola italiana foneticamente simile. Ad esem-pio, l'immagine di un orso che cavalca un cavallo. Questa immagine interattiva aiuterà a ricordare che cavallo in inglese si dice borse.

L'efficacia di questo metodo è stata controllata mettendolo a

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confronto con un procedimento standard di apprendimento di voca-boli. I soggetti che usavano la parola chiave traducevano corretta-mente il 72% dei vocaboli a loro proposti, mentre il gruppo che usa -va metodi standard ne traduceva solo il 46%. Il tempo poi metteva in risalto un divario ancora maggiore a favore del metodo della parola chiave. Dopo sei settimane, infatti, chi aveva usato questo metodo dava ancora il 43% di risposte corrette mentre gli altri ricordavano appena il 28% [Atkinson 1975]. Si è così dimostrato che il metodo della parola chiave può aiutare efficacemente l'apprendimento della traduzione inglese di vocaboli stranieri.

5.5. Mnemotecniche a carattere immaginativo

II rapporto tra memoria e immaginazione trova un campo di studio privilegiato nelle mnemotecniche a carattere immaginativo. Queste forniscono prove molto convincenti degli effetti mnestici delle immagini mentali. I 2000 anni di storia del rapporto tra me-moria e immaginazione si sono basati in larga parte sulle «scoper-te» dei modi per rendere più facile la memorizzazione di materia le difficile. È stato solo negli ultimi trent'anni che si è cercato di valutare sperimentalmente la reale efficacia e l'estendibilità, a diffe-renti tipi di materiali e a differenti categorie di soggetti, di mne-motecniche vecchie di secoli.

Di fronte a del materiale da ricordare ci si comporta come in presenza di un problema da risolvere: si analizzano accuratamente i dati e si sceglie una strategia per risolvere il problema, in questo caso come assicurarsi un buon ricordo. Chi si trova di fronte ad un compito di memoria cerca infatti di generare un piano sistematico, che di solito implica la scoperta di una struttura sottostante al mate-riale stesso. Ad esempio: se nella lista sono presenti parole apparte-nenti a categorie diverse, allora è opportuno utilizzare l'organizzazio-ne categoriale per facilitare il ricordo; se il brano ha una struttura ben organizzata e conseguente, allora evidenziarla permetterà una migliore memorizzazione, ecc. In altre parole individuiamo o impo-niamo al materiale da ricordare una struttura e la mettiamo in rela -zione con le nostre conoscenze già acquisite.

Una mnemotecnica è invece un piano prefissato, scelto una volta per tutte e poi seguito in modo sistematico. La sua grande utilità consiste nel fornire uno schema per organizzare informazioni che non abbiano una struttura propria, mettendo così in rapporto rapi-damente ed efficacemente le nuove informazioni con quanto già im-magazzinato, in modo da ridurre il carico di quanto deve essere ri-cordato [per una rassegna, in italiano, sulle mnemotecniche cfr. De Beni 1984]. Le mnemotecniche sono quindi delle procedure artificiali, in contrapposizione a quelle naturali che sono indotte dal materia le e dalla situazione, che applicando sistematicamente i principi base della memoria naturale consentono una miglior prestazione mnestica

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[Higbee 1979; 1988; Buzan 1986]. Note fin dall'antichità devono il loro nome a Mnemosine, dea greca generatrice di creatività e cono-scenza e madre delle Muse. La tradizione fa risalire sempre ad un greco, Simonide di Ceo, la loro invenzione, ma sembra che, prima ancora dei greci, molti popoli antichi usassero tecniche mnemoniche com'è dimostrato dall'uso del ritmo nella tradizione orale, di termini concreti facilmente immaginabili e dalla collocazione, nella poesia epica, di azioni ed eventi in luoghi diversi [Rubin 1991]. I greci usa-rono in maniera sistematica e trasmisero ai romani le tecniche mne-moniche che vennero a costituire la quarta parte della Retorica, ma-teria di studio da esercitare con costanza e mezzo per ritenere lunghi discorsi come le orazioni. L'arte della memoria fu coltivata, in segui-to, sia nel medioevo che nel rinascimento come scienza a sé stante, sinonimo di cultura e conoscenza [Yates 1966; Rossi 1983; 1991].

Negli ultimi venti anni si è assistito ad un rinnovato interesse per le mnemotecniche. L'interesse teorico è offerto dalle particolari pre-stazioni che facilmente, senza aver bisogno di eccezionali capacità mnestiche, chiunque può esibire. Si tratta dunque di studiare una funzione, quella mnestica, al suo massimo, cioè quando mostra di funzionare al meglio. Questo tipo di riflessione sul potere della men-te, e in particolare della memoria, da un lato è tipico della nostra cultura occidentale e dall'altro evidenzia alcuni principi base della memoria come il funzionamento delle immagini mentali, la profondità di codifica e l'organizzazione delle informazioni da ricordare. L'al tro aspetto, quello applicativo, è svolto soprattutto dai programmi di insegnamento delle mnemotecniche a particolari categorie di soggetti, primi fra tutti gli anziani. L'interesse riguarda, non tanto la migliorata prestazione, quanto il senso di fiducia e un più corretto sistema di attribuzione delle cause dei propri insuccessi in compiti cognitivi, che fanno sì che l'anziano riconosca un maggior peso ai processi controllati e strategici.

Un sistema immaginativo di memoria: il «metodo dei loti»

Si è detto che le mnemotecniche hanno un'origine molto antica. È questo il caso del «metodo dei loci», una delle più antiche mne-motecniche, comunemente usata sin dai tempi dell'antichità classica. Essa prevede innanzitutto l'individuazione di un numero di luoghi lungo un percorso noto in quanto abituale. Per gruppi di studenti del corso di laurea in Psicologia è stato scelto, ad esempio, un per-corso circolare che partendo in prossimità del Dipartimento di Psico-logia attraversava la zona del centro di Padova e più precisamente delle «piazze». Ogni 60 passi circa è stato individuato un luogo ben preciso: l'arco dell'orologio, la banca, l'edicola, la chiesa, ecc. Una volta che gli studenti avevano ben chiaro il percorso e i luoghi scelti, venivano invitati ad usarli come schedario in cui riporre, tramite un'immagine interattiva, il materiale da ricordare. Se le parole da ri-

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cordare erano, ad esempio, camicia, aquila, fazzoletto, pane, ecc, i nostri studenti non dovevano far altro che prendere la prima parola (camicia) e formare un'immagine interattiva di questa con il primo luogo (arco), ad esempio: sotto l'arco dell'orologio è stesa un'enorme camicia bianca, la gente deve scostarne le maniche per poter passare lì sotto. Passare poi al secondo luogo (banca) e al secondo item (aquila), ad esempio: sul portone della banca è raffigurata un'aquila con le ali aperte.

Provate anche voi a memorizzare una serie di informazioni, ad esempio la lista della spesa, basandovi su un percorso a voi noto o addirittura su casa vostra. Il pane potrete metterlo sulla porta d'in-gresso: è un'enorme pagnotta che blocca l'uscita. Poi passate alla cu-cina: sul fornello sono spiaccicate una decina di uova, mentre il lavello è ingombro di pomodorì e dal frigo trabocca un enorme cespo di lattuga, e così via. Quando dovrete ricordare queste informazioni vi basterà passare in rassegna con l'occhio della mente i vari locali della vostra casa e ritrovare lì le immagini delle varie cose che dovete ri-cordare di comprare.

Questo metodo è stato applicato con successo da persone anche molto differenti tra loro, come anziani istituzionalizzati e non, ciechi congeniti totali nonché, naturalmente, studenti universitari. Tutti i 200 studenti della ricerca sopra accennata hanno tratto vantaggio da questo metodo e molti sono riusciti a ricordare 60 parole nell'ordine presentato senza compiere alcun errore [De Beni e Cornoldi 1985a].

6. Apprendimento

Che cos'è l'apprendimento? In che rapporto sta con la memoria? Tradizionalmente si era pensato alla memoria come fase successiva a quella di apprendimento. Questo aveva luogo per primo ed era ca-ratterizzato dall'acquisizione delle conoscenze, solo in seguito entrava in gioco la memoria come capacità di conservare l'informazione fino al momento in cui questa doveva essere esibita, come comportamento appreso. Oggi, invece, si preferisce analizzare gli apprendimenti in base alla successione e/o all'organizzazione delle fasi di elaborazione e delle rappresentazioni in memoria. L'importanza dei processi che portano ad acquisire un determinato comportamento ha indotto a sottolineare, specie per gli apprendimenti di una certa complessità, il ruolo e le caratteristiche della memoria anche al momento dell'acqui-sizione. Un esempio molto semplice può illustrare questo punto: uno studente che sta studiando questo capitolo impegna il suo sistema cognitivo a differenti livelli, tanto nella recezione, elaborazione e con-servazione momentanea delle informazioni che sta leggendo, quanto nell'uso delle nozioni (il linguaggio, la conoscenza della terminologia, gli elementi già noti, ecc.) che utilizza durante l'apprendimento, quanto, infine, in riferimento a quanto ha appena letto e imparato. La memoria, dunque, è anche quell'insieme di capacità e processi

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che consentono l'apprendimento, oltre che la conservazione e il recu-pero, di nuove informazioni.

Negli anni quaranta e cinquanta la psicologia sperimentale si identificava quasi completamente con lo studio dell'apprendimento, o meglio con le teorie dell'apprendimento, per il tentativo, che vede come protagonista principale Clark Hull, di compendiare entro leggi simili a quelle delle scienze naturali l'apprendimento umano in modo tale da poterlo predire con certezza.

L'apprendimento, che nella sua accezione più ampia può essere definito come ogni «modificazione relativamente permanente del com-portamento che ha luogo per effetto dell'esperienza» [Hilgard, Atkinson e Atkinson 1953], veniva considerato in prevalenza come formazione di abitudini, facendo riferimento ad apprendimenti elementari in cui si impara una nuova associazione tra uno stimolo proveniente dal mondo fisico e una risposta costituita da un comportamento. Entro quest'ottica, chiamata anche stimolo-risposta, tutto l'apprendimento è un processo associativo in cui si acquisiscono nuove abitudini o se ne modificano vecchie. Non tutto l'apprendimento è però di questo tipo e non tutti gli psicologi, anche in quegli anni, erano d'accordo nel considerarlo come formazione di associazioni. Vi sono molti altri tipi di apprendimenti più complessi che meglio possono essere spie-gati in relazione ad altri processi cognitivi come la percezione, l'at -tenzione, la comprensione e naturalmente la memoria. Una delle possibili classificazioni dei vari tipi di apprendimenti è, ad esempio, quella proposta da Gagné nel suo modello gerarchico del 1965 [1965J. Gli apprendimenti sono ordinati in successione dai più sem-plici ai più complessi e riguardano:

1) il condizionamento classico o pavloviano;2) l'apprendimento stimolo-risposta, rappresentato dal condizio

namento operante;3) l'apprendimento motorio o concatenazione motoria, caratte

rizzato da sequenze di associazioni tra stimoli e risposte di movimenti semplici e complessi;

4) l'apprendimento di associazioni verbali, attraverso le quali siacquisiscono, ad esempio, i nomi degli oggetti;

5) l'apprendimento di discriminazioni, cioè la capacità di fornirerisposte diversificate a seconda dei tratti distintivi di oggetti appartenenti ad una stessa categoria, ad esempio imparare a leggere e a distinguere le varie lettere dell'alfabeto;

6) l'apprendimento di concetti, che permette di raggruppare oggetti diversi ma appartenenti alla stessa categoria, ad esempio identificare come rettangolo uno stimolo nuovo;

7) l'apprendimento di regole, cioè di combinazioni di concetti inprincipi più generali che permettono risposte ad un'intera classe disituazioni;

8) soluzione di problemi consistente nell'individuare, tramitel'applicazione di regole note, una regola nuova d'ordine superioreche in seguito entrerà a far parte del repertorio individuale.

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Cercheremo ora, anche se in modo molto sintetico, di rendere conto di tipi diversi di apprendimento che sono stati studiati da ap-procci psicologici differenti.

6.1. Apprendimento associativo

Condizionamento classico

Una delle forme più semplici di apprendimento, ma in un certo senso anche una delle più «strabilianti», è costituita dalla cosiddetta risposta condizionata. Si tratta di un apprendimento associativo sco-perto quasi incidentalmente dal fisiologo russo, nonché premio No-bel, Ivan Pavlov durante i suoi studi sulle funzioni digestive (cfr. supra, cap. I, pp. 46-47).

Nella situazione classica studiata da Pavlov, un cane viene tenuto fermo in un ambiente che conosce e nel quale sta tranquillo. La quantità di saliva viene misurata automaticamente e lo sperimentato -re può osservare, non visto, l'animale. Se viene accesa una luce il cane non presenta risposta di salivazione, mentre questa è presente non appena riceve il cibo. La luce dunque prima del condizionamen-to costituisce uno stimolo neutro; ma se viene accesa sempre prima della comparsa del cibo e della conseguente salivazione del cane, ba-stano poche ripetizioni della sequenza perché il cane salivi alla sola accensione della luce anche se non riceve cibo. La luce a questo punto è diventata uno stimolo condizionato. Si è stabilita infatti un'as-sociazione tra luce e cibo tale per cui la luce costituisce un segnale per la comparsa dello stimolo incondizionato (cibo) e produce una risposta in tutto e per tutto simile a questo tranne per il fatto di non essere una risposta innata, bensì appresa, cioè di essere una risposta condizionata.

La risposta condizionata mostra che si è verificato un apprendi-mento associativo, si è creata una nuova abitudine semplice per il fatto che: 1) si è determinata un'associazione tra uno stimolo e una risposta; 2) tale associazione è di natura acquisita. Il condizionamento classico può dunque essere definito come «la formazione di un'as-sociazione tra uno stimolo condizionato e una risposta condizionata mediante la presentazione ripetuta dello stimolo condizionato in rap-porto controllato con lo stimolo incondizionato che originariamente suscita quella risposta» [Hilgard, Atkinson e Atkinson 1953; trad. it. 1978, 216]. In questo tipo di apprendimento in cui viene presentato lo stimolo condizionato (ad esempio, la luce) seguito dallo stimolo incondizionato (cibo) quest'ultimo funge da rinforzo, cioè aumenta la probabilità di comparsa della risposta allo stimolo condizionato.

In genere bastano poche prove in cui venga presentata la coppia stimolo condizionato/stimolo incondizionato perché si determini l'ap-prendimento. Ad esempio, in una delle situazioni studiate dallo stes-so Pavlov [1927], nelle prime tre prove la quantità di saliva secreta

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Stimolo condizionato (prima del condizionamento) SC

Nessuna risposta o risposte irrilevanti

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Stimolo condizionato (dopo il condizionamento)

Stimolo incondizionato

SC

InnataSI-------

Risposta condizionata

m Risposta incondizionata

RC simili a

RI(entrambe risposte

salivari)

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FIG. 5.5. Lo schema del condizionamento classico. L'associazione tra lo stimolo incondiziona -to e la risposta incondizionata esiste già all'inizio dell'esperimento e non ha bisogno di essere appresa. L'associazione tra lo stimolo condizionato e la risposta condizio-nata è invece acquisita. Essa s'instaura mediante l'accoppiamento dello stimolo con-dizionato e di quello incondizionato seguiti dalla risposta incondizionata (rinforzo). La risposta condizionata è simile a quella incondizionata (sebbene non sempre iden -tica) [da Hilgard, Atkinson e Atkinson 1953].

alla comparsa dello stimolo condizionato, e prima della comparsa di quello incondizionato, aumenta e già dalla quarta raggiunge un livello che si mantiene costante nelle prove seguenti a dimostrazione di un raggiunto apprendimento.

Se lo stimolo incondizionato non viene presentato in associazione con lo stimolo condizionato, viene a mancare il rinforzo e la risposta condizionata viene gradualmente estinta, cioè diminuisce fino a scom-parire. La ripetuta presentazione della luce, non seguita dal cibo, fa diminuire la risposta di salivazione fino al livello precedente il condi -zionamento. Anche in questo caso nelle prime prove si ha una rapi -da diminuzione della risposta e dalla nona prova in poi una sua scomparsa [Pavlov 1927]. Anche se in questa fase la risposta condi-zionata non si presenta più, ciò non significa che sia stata completa-mente eliminata. Dopo un certo periodo di riposo se l'animale viene rimesso nella situazione, ripresenta una risposta condizionata anche senza la presenza del rinforzo. Questo fenomeno viene detto recupero spontaneo e testimonia del fatto che le risposte apprese, anche se non più rinforzate, non vengono distrutte, dimenticate, ma solo inibite e si possono ripresentare a distanza di tempo, anche se con intensità minore [Hilgard, Atkinson e Atkinson 1953].

Due importanti leggi dell'apprendimento associativo riguardano la generalizzazione e la discriminazione. La prima sta alla base della capacità di comportarsi in situazioni nuove mutuando risposte a si tuazioni familiari nella misura in cui il nuovo presenta analogie con il già noto. Il cane che impara a salivare all'accensione di una luce gialla, saliverà anche se la luce è bianca. Tuttavia la risposta presenterà variazioni relative alla differenza tra gli stimoli (più questi sono simili

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FIG. 5.6. Acquisizione, estinzione e recupero spontaneo. Un diagramma schematico dell'anda-mento dei processi di acquisizione, estinzione e recupero. Entro certi limiti, quanto più lungo è il periodo di riposo, tanto maggiore è il grado di recupero spontaneo [da Hilgard, Atkinson e Atkinson 1953].

tra loro, più le risposte si assomiglieranno), e all'aumentare della dif-ferenza tra stimoli diminuirà l'entità della generalizzazione e dunque della risposta.

La vita sarebbe alquanto complicata se non possedessimo la ca-pacità di generalizzare gli apprendimenti, ma sarebbe del tutto caotica se non vi fosse la capacità di discriminare. Se la generalizzazione è la risposta alle analogie, la discriminazione è il processo comple-mentare di risposta alle differenze. Per effetto della discriminazione il cane può, ad esempio, apprendere a salivare all'accensione di una luce rossa ma non a quella di una luce blu. La discriminazione, in questo come in altri casi, può essere appresa {discriminazione condi-zionata) mediante rinforzo della risposta allo stimolo rosso ed estin-zione della risposta allo stimolo blu. Vedremo ulteriori esempi di ge-neralizzazione e discriminazione all'interno del condizionamento ope-rante.

Condizionamento operante

II condizionamento operante è legato al nome di Burrhus Fred-erick Skinner, lo psicologo americano che più d'ogni altro ne ha stu -diate le leggi [per una presentazione più ampia in italiano, cfr. Pe-ron 1984]. Skinner ha proposto di distinguere il condizionamento ope-rante, in cui il soggetto agisce, opera, nell'ambiente e lo modifica emettendo dei comportamenti in risposta a stimoli, da quello classico, da lui chiamato rispondente, in cui il soggetto non controlla la rispo-sta che viene elicitata, cioè inevitabilmente provocata, dallo stimolo.

Ulteriori prove di estinzione

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-3

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FIG. 5.7. Gradiente di generalizzazione. Lo stimolo 0 indica il tono al quale il riflesso psico -galvanico era originariamente condizionato. Gli stimoli + 1, + 2 e + 3 rappresen-tano toni di intensità crescente. Gli stimoli — 1, — 2 e — 3 rappresentano toni più bassi. Si osservi che il grado di generalizzazione diminuisce con il crescere della differenza tra il nuovo tono e quello usato nell'addestramento [da Hovland 1937, in Hilgard, Atkinson e Atldnson 1953].

Le risposte di salivazione, di costrizione della pupilla, di estensione della gamba, possono essere prodotte da stimoli condizionati diffe-renti dagli stimoli incondizionati quali cibo in bocca, lampo di luce e colpo sul tendine rutuleo, ma non differiscono da questi riflessi per automaticità della risposta che è direttamente controllata dallo stimo-lo. Nel condizionamento operante invece la relazione tra stimolo e risposta è di natura differente: lo squillo del telefono costituisce uno stimolo, un segnale per la risposta di sollevare il ricevitore, ma que -sta deve essere emessa, in maniera controllata dal soggetto, e anche se può sembrare quasi automatica la sua emissione è ben differente dall'elicitazione di un riflesso.

Nello studio in laboratorio del condizionamento operante l'ani -male (ratto, scimmia, piccione, ecc.) privato di cibo fino a che il suo peso sia ridotto dell'80%, viene posto in un piccolo ambiente, detto scatola di Skinner, in cui vi è solo una leva (o un pulsante che possa essere beccato) e il distributore di cibo. L'animale, che è affamato, si muove all'interno della scatola con il tipico comportamento di ricerca del cibo e casualmente, di tanto in tanto, preme la leva. La frequen -za di tale comportamento fornisce la misura del livello operante dell'a-nimale prima del condizionamento. A questo punto può iniziare il condizionamento che consiste nel rinforzare, attraverso la sommini-strazione di bocconcini di cibo, il comportamento di pressione della leva. Quando la cavia abbassa la leva, il cibo cade nel distributore e l'animale se ne ciba. Ben presto la cavia impara ad abbassare la leva

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o u (A

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40

30

20

10

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1-2 3-4 5-6

Coppie di prove

7-8 9-10

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FIG. 5.8. La discriminazione condizionata nell'uomo. Gli stimoli discriminativi erano due toni di altezza diversa (SC, = 700 c/s e SC 2 = 3500 c/s). Lo stimolo incondizionato, una scossa elettrica applicata all'indice della mano sinistra, si verificava solo nelle prove in cui veniva presentato il tono SCi. La forza della risposta condizionata, che in questo caso era costituita dal riflesso psicogalvanico (Reo), aumentava gradata-mente con SCi e diminuiva con SC2 [da Bauer e Fuhrer 1968, in Hilgard, Atkinson e Atkinson 1953].

e a cibarsi fino a sazietà. Dato che la frequenza con cui il comporta -mento di pressione della leva viene emesso è ben superiore a quella precedente il condizionamento possiamo affermare che si è instaura -to un apprendimento e che questo è stato determinato dal rinforzo. Se infatti la pressione della leva non viene seguita dalla comparsa del cibo, la frequenza del comportamento diminuisce, cioè la risposta operante viene estinta in modo analogo a quanto avviene nel condi-zionamento classico.

Caratteristiche del rinforzo

Anche nel caso del condizionamento operante, al pari di quanto avveniva in quello rispondente, il rinforzo è definito come qualsiasi evento che aumenti la probabilità di comparsa della risposta. I rin-forzatori possono essere positivi o negativi. Per chiarire la distinzione tra rinforzo positivo e negativo consideriamo, ad esempio, la seguen-

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te situazione. Un neonato piange perché ha fame, la mamma accorre e gli da da mangiare. Il bambino ha ricevuto un rinforzo positivo: il cibo; la mamma uno negativo: il pianto del bimbo è cessato.

Vi sono eventi che hanno la proprietà di rinforzatori in modo innato. Il cibo per la persona affamata, l'acqua per la persona asseta-ta sono rinforzatori primari. Il loro potere rinforzante è strettamente legato alle caratteristiche biologiche dell'organismo e non necessitano di apprendimento. Gli altri rinforzatori sono invece secondari perché basano la loro forza su un'associazione appresa con i rinforzatori pri-mari. Se pensiamo alla situazione sopra presentata del bimbo che piange per la fame, possiamo facilmente capire come al rinforzo pri-mario cibo venga continuamente associata tutta una serie di altri comportamenti da parte di chi accudisce quel neonato, come il pren-derlo in braccio, il cullarlo, il parlargli dolcemente, il cambiarlo. La semplice presenza dell'adulto diverrà gradualmente un rinforzo in quanto associata di continuo alla soddisfazione del bisogno di cibo e all'eliminazione di situazioni di disagio. L'affetto, l'approvazione, la stima che gli altri ci dimostrano sono tutti esempi di rinforzatori se-condari, che sono stati a loro volta appresi per associazione con i rinforzatori primari [Meazzini 1978].

Inizialmente per instaurare una risposta condizionata lo speri-mentatore ne rinforza ogni comparsa. Ciò significa che ogni emissio-ne della risposta viene seguita da rinforzo che viene perciò chiamato continuo. Nell'esperimento tipico un ratto impara a premere una leva e riceve un pezzetto di cibo ad ogni pressione. Quando si è stabilita una risposta condizionata stabile basterà presentare il rinforzo solo di tanto in tanto per mantenere l'apprendimento. Si parla in questo caso di rinforzo parziale. L'importanza di tale tipo di rinforzo è evi-dente in molte situazioni di vita comune: basta una vincita di tanto in tanto a tenere incollato il giocatore accanito al tavolo da gioco. Inoltre il rinforzo parziale riduce il fenomeno di sazietà che si instaura ben presto in seguito al rinforzo continuo.

Modellaggio

L'apprendimento associativo controllato dal rinforzo è possibile solo a condizione che chi apprende possieda nel suo repertorio il comportamento di cui si vuole incrementare la frequenza di comparsa. È relativamente facile indurre un ratto a premere una leva in deter-minate situazioni o un piccione a beccare. Meno facile insegnare comportamenti inizialmente non presenti, anche se possibili. Questa è la situazione più comune negli apprendimenti scolastici in cui l'a-lunno deve acquisire risposte che inizialmente non fanno parte del suo repertorio. In questi casi si procede nel condizionamento secon-do un programma progressivo che rinforza via via comportamenti che sono sempre più simili a quello meta. Tale procedura prende il nome di modellaggio che traduce l'inglese shaping. Per insegnare ad

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un piccione a girare su se stesso si può, seguendo il modellaggio, rinforzare dapprima il semplice girare del capo, poi quello della zam-pa e infine solo quando vi sia un movimento di tutto il corpo.

Usando il modellaggio un insegnante di scuola materna è, ad esempio, riuscito ad ottenere, senza alcuna coercizione, che i bambi-ni del suo gruppo disegnassero sui fogli disposti su un tavolo apposi -to. Inizialmente l'insegnante aveva rinforzato con segni di approva-zione e con rinforzi tangibili l'interesse mostrato dai bambini per il tavolo in questione, poi l'avvicinarsi al tavolo e in seguito il solo ac-costarsi a questo. Quando questo tipo di comportamento si mostrava consolidato l'insegnante rinforzava il sedersi al tavolo e in seguito il prendere il pennarello e l'iniziare a scarabocchiare. Alla fine del mo-dellaggio veniva rinforzato solo l'uso corretto dei pennarelli sui fogli [Meazzini 1978].

La tecnica del modellaggio consente di addestrare gli animali ad esibire tutta una serie di comportamenti apparentemente strabilianti come quelli che si possono vedere al circo e che dipendono sempli-cemente dal progressivo rinforzo delle risposte che soddisfano i re-quisiti posti dall'addestratore e dall'estinguere gli altri. In questi casi dunque più che di eccezionale bravura degli animali si dovrebbe parlare di quella degli addestratori.

6.2. Apprendimento latente

Le ricerche sull'apprendimento svolte in ambito comportamenti-sta da Watson, Hull e Skinner consideravano l'apprendimento in funzione delle risposte emesse. La prova che l'apprendimento si era instaurato era data dal fatto che l'animale forniva la risposta adegua ta per ottenere il rinforzo. Considerando la risposta come prestazione di chi apprende, si poteva, di conseguenza, identificare questa con il livello di condizionamento ottenendo l'uguaglianza tra prestazione e apprendimento [Mecacci 1992]. Tale assunzione fu messa in crisi da Edward Tolman che mostrò come possa esserci apprendimento anche in assenza di rinforzo e come vi sia differenza tra ap-prendimento e prestazione.

In uno storico articolo del 1930 Tolman e Honzik presentarono un esperimento in cui tre gruppi di topi venivano posti per diversi giorni in uno stesso labirinto. I topi del primo gruppo ricevevano del cibo quando raggiungevano una scatola collocata all'estremità oppo-sta a quella di entrata del labirinto. Quelli del secondo gruppo esplo-ravano liberamente il labirinto senza ottenere alcun rinforzo. Il terzo gruppo era trattato come il secondo per i primi dieci giorni, cioè non riceveva rinforzo, e in seguito, per i restanti sette giorni riceveva il cibo come il primo gruppo. Fino all'undicesimo giorno tutti i topi avevano mostrato un certo apprendimento, commettendo sempre meno errori, anche se naturalmente quelli del primo gruppo appren-

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devano con velocità superiore a quelli senza rinforzo. Dal momento in cui però il terzo gruppo ricevette il rinforzo, la sua prestazione aumentò in modo tale da eguagliare e addirittura superare quella del primo gruppo. Tale risultato mostrava come i topi avessero incomin-ciato ad apprendere il percorso nel labirinto sin dall'inizio anche se non venivano rinforzati. In questo caso si mostrava come l'apprendi-mento non fosse dipendente dal rinforzo, l'animale anche in assenza di incentivo imparava e tale apprendimento si configurava come l'or-ganizzazione di una serie di informazioni spaziali all'interno di una mappa cognitiva, come una rappresentazione mentale di un percorso piuttosto che una serie di risposte concatenate. Inoltre Tolman evi-denziava come apprendimento e prestazione fossero due concetti ben distinti e non identificabili. L'apprendimento iniziava fin dai pri-mi giorni in cui l'animale era posto nel labirinto, ma nella pratica si manifestava solo in seguito al rinforzo. Vi era dunque un apprendi -mento anche se non si esibiva nessuna prestazione, un apprendimento latente, come fu chiamato.

6.3. Apprendimento per «insight»

Già la posizione di Tolman mostra come l'orizzonte degli studi sull'apprendimento si fosse aperto a situazioni che andavano al di là del semplice apprendimento associativo di sequenze di stimoli e di risposte approdando nel vasto campo dei processi cognitivi. Un im-portante contributo in tal senso era stato fornito dagli studi sull'ap-prendimento per insight, così chiamato perché caratterizzato da una soluzione che sembra prospettarsi di colpo.

Era proprio una situazione di difficoltà quella in cui veniva messo Sultano, uno degli scimpanzè studiati da Wolfgang Kòhler [1921]: posto in una gabbia al di fuori della quale, a distanza non diretta-mente raggiungibile, vi era della frutta di cui andava ghiotto. Poteva invece arrivare col braccio fino ad un bastoncino che era però trop-po corto per permettergli di recuperare il cibo. Di fianco e sempre esternamente alla gabbia veniva posto un bastone più lungo a distan-za tale da non poter essere recuperato direttamente, ma solo facendo uso del bastone più corto. Dopo un certo periodo di irrequietezza, in cui l'animale cerca invano di sporgersi per arrivare al cibo, Kòhler riferisce il verificarsi di lunghe pause in cui l'animale scruta tutt'in-torno perlustrando l'area visibile. Improvvisamente recupera il basto-ne corto, si avvia con quello in mano dalla parte della gabbia in cui è collocato il bastone lungo, lo avvicina per mezzo di questo. Una volta procuratosi il bastone adatto si rivolge verso il frutto e riesce a portarlo a sé. Kòhler riferisce che, dal momento in cui ha fissato il bastone lungo, le azioni dello scimpanzè sono state consecutivamente collegate fino al raggiungimento della meta.

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6.4. Capire e imparare: l'apprendimento come integrazione delle co-noscenze

L'idea, proposta in ambito associazionista, di un apprendimento fondamentalmente passivo, che viene misurato secondo i parametri della quantità e dell'accuratezza, fu la prima ad essere messa in crisi dal nascente cognitivismo che la sostituì con un'immagine attiva dell'apprendimento nel corso del quale il soggetto conoscente opera un'elaborazione dei dati provenienti dalla realtà. Questo pri -mo cambiamento fu seguito da molti altri che continuavano nella direzione di rivalutare il ruolo attivo del soggetto che impara. Questi, secondo la nuova concezione cognitivista, non si limita solo a discriminare e a scegliere tra diversi stimoli ambientali, ma svol -ge un'opera di elaborazione e quindi trasformazione dello stimolo stesso, al punto che uno stesso stimolo può essere sottoposto ad una molteplicità di elaborazioni diverse. L'acquisizione di alcune nozioni teoriche e di nuovi strumenti operativi costituirono una spinta notevole in questo senso.

Tralasciando le diverse tappe che hanno portato alla elaborazione teorica di questo nuovo modello di apprendimento (cfr. supra, cap. I), ci basti qui ricordare alcune caratteristiche peculiari dell'approc-cio considerato:

- adozione di un nuovo tipo di linguaggio mutuato dall'informatica (termini come immagazzinamento, elaborazione, input, diagramma di flusso, divengono familiari anche in ambito psicologico);

- forte spinta all'interdisciplinarietà, con l'utilizzo di nozioni ricavate dalla linguistica, dalla psicolinguistica e dall'informatica;

- spiccato interesse circa le strutture e le funzioni della mente dacui deriva uno studio approfondito su funzioni quali la memoria;

- riconoscimento del ruolo del soggetto conoscente, consideratonon più alla stregua di un registratore passivo degli stimoli offertidall'ambiente, ma come un elaboratore attivo di questi sulla basedella capacità e dei limiti del suo sistema di elaborazione e dell'utilizzo di conoscenze precedenti.

L'approccio costruttivista ha sottolineato sia il ruolo dei processi di integrazione delle informazioni in unità significative, in modo da dimi-nuire il carico in memoria, sia la capacità di compiere spontaneamente alcune inferenze sul testo, traendo da questo delle informazioni non direttamente esplicitate. Importante a questo proposito l'introduzione della teoria degli schemi [cfr., ad esempio, Rumelhart 1980] secondo la quale questi possono essere definiti come «strutture astratte di cono-scenze» [Wilson e Anderson 1986], in cui il termine struttura indica che queste conoscenze sono organizzate con un certo ordine e che tra loro esistono delle relazioni. La formazione di uno schema avviene attraverso la presentazione ripetuta di alcune esperienze, dalle quali è possibile astrarre caratteristiche comuni, e la sua attivazione o utilizza-zione resta per la maggior parte inconsapevole.

Gli schemi rivestono un ruolo fondamentale sia nella compren-

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sione che nell'apprendimento, al punto che potremmo dire che com-prendere significa essenzialmente attivare o costruire degli schemi adeguati e apprendere significa integrare le nuove informazioni negli schemi appropriati. Di conseguenza una mancata comprensione può essere imputabile ai seguenti motivi: 1) la mancanza di uno schema appropriato nel quale inserire la nuova informazione; 2) l'ambiguità o la genericità dell'informazione data che rende impossibile l'attiva-zione di qualsiasi schema; 3) l'attivazione di uno schema errato che conduce ad una interpretazione plausibile, ma discordante rispetto a quella proposta dal testo. Mentre il mancato apprendimento può ri-guardare il fatto di non aver operato le opportune integrazioni all'in-terno degli schemi adeguati.

Dopo queste prime informazioni di carattere più generale, analiz-zeremo in specifico quali funzioni vengono svolte dagli schemi nel-l'attività di comprensione e di apprendimento [Anderson 1983]. Una prima funzione consiste nel fornire una struttura ideale, una specie di biblioteca in cui inserire in appositi slots le nuove informazioni in ingresso, ordinandole quindi in un sistema coerente. Questa proce-dura permetterà di collegare informazioni diverse, grazie all'utilizzo delle relazioni esistenti tra gli slots disponibili in uno schema, e facili-terà inoltre il reperimento dell'informazione. Una seconda importante funzione degli schemi è quella di permettere la focalizzazione del-l'attenzione sulle parti principali del testo, distinguendo tra informa-zioni marginali e informazioni fondamentali. Lo schema, infatti, for-nisce il riferimento di base per operare giudizi di importanza, cioè per riconoscere quali sono le parti più importanti — che si riferiscono a concetti che risultano avere una posizione centrale all'interno dello schema - e quelle che invece lo sono meno e che dunque occupano una collocazione più periferica. Strettamente associata alla funzione appena delineata è quella di facilitare il riassunto del brano. Anche l'abilità inferenziale, che ci permette di cogliere anche quanto non è esplicitamente detto, è in qualche modo connessa con la funzione di schema. Infatti quando il testo lascia informazioni sottintese, cosa che accade con una certa frequenza, il soggetto può far riferimento alle conoscenze contenute nello schema da lui attivato per integrare le informazioni implicite.

Un ulteriore contributo fornito dagli schemi consiste nel facilitare il recupero delle informazioni immagazzinate in memoria, permetten-done una ricerca ordinata; infatti informazioni isolate sono difficil-mente recuperabili, mentre quelle inserite in uno schema entrano a far parte di questa struttura ampia e organizzata che offre al soggetto una specie di mappa mentale attraverso la quale poter risalire all'in-formazione desiderata. La nozione di schema può, secondo Rumel-hart e Norman [1981] rendere conto di tre fondamentali forme di apprendimento:

- accrescimento;- ristrutturazione;- sintonizzazione.

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L'accrescimento riguarda l'acquisizione di informazioni completa-mente nuove che fanno aumentare il patrimonio conoscitivo indivi-duale. Queste nuove conoscenze o vengono integrate in schemi pre-cedenti arricchendoli o vanno a costituire schemi nuovi. La ristruttu-razione si verifica quando su di un concetto vengono apprese tante informazioni nuove da modificare le relazioni esistenti tra nozioni al-l'interno di uno schema conoscitivo. Di conseguenza questo viene modificato per permettere la coesistenza di informazioni vecchie e nuove. Spesso però si verifica che soprattutto per gli schemi più re -centi non sia necessaria una vera e propria ristrutturazione, ma che le nuove conoscenze possano essere integrate con una semplice sinto-nizzazione degli schemi che vengono solo parzialmente modificati in modo da meglio adattarsi alle nuove situazioni apprese. Per molti apprendimenti complessi queste tre forme di apprendimento non so-no alternative, ma intervengono in tempi e modi differenti ad au-mentare e modificare il patrimonio di conoscenze: l'accrescimento è la forma più frequente, la ristrutturazione la più creativa, la sintoniz-zazione la più continua.

6.5. L'insegnamento delle strategie per apprendere e ricordare

Lo specifico interesse teorico che consiste nell'aver individuato nelle strategie cognitive uno, se non il fondamentale, dei fattori cau -sali nello sviluppo della memoria come delle differenze individuali, trova un collegamento pratico ed una diretta applicazione nei pro-grammi di insegnamento strategico. Anche prescindendo dai casi di soggetti con difficoltà di apprendimento, per i quali i programmi di insegnamento delle strategie trovano l'applicazione ottimale, l'impor-tanza riconosciuta alle strategie di apprendimento e l'enfasi sul loro insegnamento costituisce uno degli aspetti fondamentali della visione cognitivista dell'apprendimento.

Il concetto secondo il quale si può imparare ad apprendere, e cioè a capire e a ricordare, ha prodotto approcci diversi che possono opportunamente essere raggnippati in tre grandi filoni; a seconda delle caratteristiche principali che il programma di insegnamento strategico assume questi sono rappresentati dall'approccio mnemoni-co, da quello strategico e da quello metacognitivo [Cornoldi 1995; Moè e De Beni 1995].

L'insegnamento mnemonico è il più antico: si propone di inse-gnare non solo le tecniche di memoria, ma di fornire anche i singoli mediatori specifici, nell'idea che debba essere evitata ai soggetti, sia-no essi normodotati o soggetti che presentano difficoltà di apprendi-mento, la fatica e la possibile demotivazione conseguente alla ricerca del mediatore, che quando è individuato da un soggetto non esperto potrebbe essere anche non particolarmente centrato ed efficace. Per questo motivo nell'insegnamento mnemonico vengono forniti diretta-mente dal docente quelli che sono ritenuti i migliori mediatori, che

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nella stragrande maggioranza dei casi sono costituiti da immagini mentali contenenti in un'unica rappresentazione sia l'informazione da ricordare sia il mediatore concreto che la collega al sistema di cono-scenze proprio dello studente. Per far apprendere che in inglese min significa «pioggia», Mastropieri e Scruggs [1991] propongono, ad esempio, l'immagine di una rana sotto la pioggia.

Nonostante una certa prevenzione nei confronti di tali sussidi che appaiono artificiosi, una gran mole di ricerche condotte negli ul -timi dieci anni ha verificato l'efficacia dell'istruzione mnemonica [per una rassegna, cfr. Mastropieri e Scruggs 1989] in una grande varietà di apprendimenti che vanno dal vocabolario di una lingua straniera, alle scienze, storia, geografia, nonché alla matematica. Secondo questi ricercatori, tale tipo di istruzione è utile ogniqualvolta ci sia una nuo-va informazione importante da apprendere e sulla quale si basino in seguito tutta una serie di altre conoscenze.

Un diverso tipo di approccio è rappresentato dai programmi di insegnamento delle strategie che si propongono di insegnare ad usare in modo appropriato e flessibile una grande quantità di strategie adatte ai più differenti tipi di apprendimenti. (La rassegna più com-pleta di strategie e di come insegnarle compare in Devine [1987], mentre il volume di Higbee [1988] è un vero e proprio manuale di insegnamento strategico per studenti e docenti, che spazia dai principi della memoria ad una rassegna delle differenti strategie e mnemo-tecniche corredata dai risultati delle ricerche sulla loro efficacia ed estendibilità.) In questo caso l'attenzione è centrata sul fornire agli studenti la conoscenza sulle strategie e nel metterli in grado di appli-carle spontaneamente e di saperle generalizzare. A questo scopo ven-gono proposti programmi di insegnamento arricchito come quello di Garner [1987] articolato in sei punti che suggeriscono di porre par -ticolare attenzione a:

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Processo di istruzione

Analisi del compito

Generalizzazione dell'appli-cazione delle strategie

Estensione e durata del training strategico

Pratica guidata

Insegnamento reciproco tra alunni

Porre attenzione, durante l'insegnamento, ai processi implicati nel leggere e nello studiare e dedicare del tempo per fornire delucidazioni al riguardo

È essenziale fare un'analisi dettagliata delle strategie che si intendono insegnare

Le strategie vanno insegnate in modo da essere utiliz-zabili anche in contesti e compiti diversi

È necessario dedicare all'insegnamento delle strategie l'intero anno scolastico e non solo dei momenti spora-dici

È importante raggiungere un buon livello di automa-tismo anche nell'apprendimento delle strategie

Bisogna creare le situazioni per cui gli alunni abbiano l'opportunità di apprendere le strategie gli uni dagli altri

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-Ì II terzo tipo di insegnamento riguarda i programmi metacognitivi (come in italiano quello di metamemoria proposto da Cornoldi e Ca-

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poni [1991]), si propone di promuovere da un lato un atteggiamen to metacognitivo, caratterizzato da obiettivi come «riconoscere e dif-ferenziare i casi in cui è presente una specifica esigenza di ricordare» e «essere consapevoli del fatto che si può dimenticare e che si può fare qualcosa di utile per ricordare» e dall'altro conoscenze specifiche di metamemoria come «comprendere la modalità di organizzazione semantica» e «comprendere le implicazioni dei diversi compiti di memoria». Sempre in italiano è anche il programma centrato sulla comprensione della lettura di De Beni e Pazzaglia [1991] strutturato in tre parti in cui: 1) si esplicitano gli scopi per cui si può leggere e si promuovono gli aspetti di motivazione; 2) vengono insegnate dif -ferenti strategie di lettura con una procedura che gradualmente porti lo studente ad un uso flessibile e maturo; 3) si promuove la sensibi-lità al testo, cioè la capacità di cogliere errori e incongruenze, e l'at-tenzione al genere e agli indizi presenti nel testo.

I programmi metacognitivi nascono dalle difficoltà di manteni-mento e generalizzazione che l'insegnamento delle strategie può com-portare e cercano di superare tale difficoltà attraverso l'insegnamento di tutti quegli aspetti metacognitivi che sono stati elencati nel para -grafo 3, con la finalità di fornire a monte quelle conoscenze, quel controllo e quell'atteggiamento strategico che permettano un uso fles -sibile, continuo e maturo delle strategie. Di recente l'approccio meta-cognitivo all'apprendimento ha avuto un grande sviluppo anche in Italia, testimoniato sia dalla pubblicazione di volumi di ricerca e di riflessione teorica [cfr., ad esempio, Doudin e Martin 1995; Cornoldi 1995], sia di veri e propri programmi come quelli proposti da Cor-noldi, De Beni e Gruppo MT [1993] per imparare a studiare, da De Beni e Zamperlin [1993] per imparare a studiare la storia e da De Beni et al. [1995] per imparare a studiare la geografia.

6.6. Applicazioni per un apprendimento più efficace

La situazione in cui uno studente viene a trovarsi quando ha di fronte a sé un testo che deve essere appreso si caratterizza per com-plessità e varietà di compiti. In questo caso non si tratta infatti di memorizzare verbatim il testo completo, ma eventualmente solo alcuni nomi, non è richiesto un ricordo sequenziale, anche se bisogna individuare e molto spesso mantenere l'ordine in cui i concetti sono esposti, e soprattutto non basta mantenere le informazioni per pochi secondi, il ricordo deve avere una buona stabilità, possibilmente do-vrebbe essere permanente.

Abbiamo visto come nello studio di un testo entrino in gioco processi complessi di comprensione e di memoria che guidano ad enucleare le idee principali, a memorizzarle e ad utilizzarle per com-prendere e imparare le parti seguenti del testo. Nel fare ciò possono essere messe in atto molte strategie diverse che fanno parte del pia-no di studio personale dello studente, legato alle sue scelte e alle sue

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abitudini di studio. Quando inizia a leggere il testo che deve appren-dere lo studente applica innanzitutto alcune strategie che gli permet-tono un rapido riconoscimento delle parole. Queste strategie di de-codifica sono relativamente numerose e vanno dal riconoscere la pa-rola dalle sue caratteristiche globali, o dal suono, o indovinarla dal contesto o ancora da una singola caratteristica, come ad esempio la lettera iniziale.

Accanto a queste strategie di decodifica il lettore più maturo ne possiede altre che gli permettono di leggere e capire nelle varie situa-zioni e di far fronte a testi diversi e a differenti richieste. Queste strategie possono essere:

- scorrere velocemente il testo;- rileggere;- tornare a passi precedenti;- saltare a passi seguenti;- individuare particolari importanti;- leggere analiticamente;- parafrasare.Se poi, come nel nostro caso, lo studente legge per studiare ha a

sua disposizione, oltre alle strategie appena menzionate e che servono fondamentalmente per capire, anche tutta la serie delle strategie per ricordare come:

- la ripetizione meccanica;- la ripetizione integrativa;- l'uso di immagini mentali;- l'associazione;- l'organizzazione;- il sottolineare;- il prendere note;- il fare riassunti, schemi, ecc.Il piano strategico personale potrà essere più o meno organizzato

ed efficace e potrà essere seguito con maggior o minor costanza. Ad esempio, ci sono studenti che sottolineano quanto stanno leggendo e poi rileggono solo le sottolineature, altri leggono più volte senza sot-tolineare, altri ancora prendono appunti e/o ripetono quanto hanno letto.

Ma qual è il modo migliore di memorizzare un testo, qual è il piano di studio che si è dimostrato più efficace? Molti dipartimenti universitari negli Stati Uniti offrono ai loro studenti corsi per miglio-rare i loro metodi di studio. Tali corsi insegnano delle tecniche per affrontare proficuamente la memorizzazione di vari tipi di testi che presentano densità di informazioni e variazioni nella struttura e si possono distinguere in tre fondamentali categorie: testi narrativi, testi espositivi, e testi argomentativi.

Uno dei più popolari piani di studio proposti per testi di media densità e i cui risultati sono stati, anche se parzialmente, verificati è chiamato metodo PQ4R [Thomas e Robinson 1972] ed è una versio-ne aggiornata del precedente SQ3R [Robinson 1961]. La sigla PQ4R

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MEMORIA, APPRENDIMENTO E IMMAGINAZIONE 335

è un acronimo, cioè un nome costituito dalle iniziali della sequenza di operazioni, sequenza che lo studente deve applicare nella memo-rizzazione di un testo. Il nome del metodo PQ4R ricorda così che nell'applicare questo piano di studio bisogna:

1) Preview: cioè scorrere in modo preliminare il capitolo per determinare i principali argomenti trattati, individuare le sezioni di cuiè composto ed esaminare le figure e i grafici. Le quattro fasi seguenti andranno applicate ad ogni sezione individuata in questa fase dilettura preliminare.

2) Questions: porsi delle domande inerenti ad ogni sezione. Spesso è possibile fare ciò trasformando il titolo del paragrafo in altrettante domande. Per esempio il paragrafo Effetti di posizione serialepotrebbe dare origine a: «quali sono gli effetti di posizione seriale?Come si spiegano tali effetti, ecc.?».

3) Read: leggere la sezione attentamente cercando di risponderealle domande precedentemente formulate.

4) Reflect: riflettere su quanto si sta leggendo, capirne il significato, cercare degli esempi, mettere in relazione quanto di nuovo ècontenuto nel testo con le conoscenze possedute in precedenza.

5) Recite: alla fine di una sezione cercare di ricordare le informazioni in essa contenute e rispondere alle domande formulate, ripetendo quanto si è letto senza guardare il testo. Se non si ricorda asufficienza rileggere le parti in cui si sono incontrate difficoltà di rievocazione.

6) Review: alla fine dell'intero capitolo ripensarlo nel suo insieme, ricordarne i principali concetti espressi e ripassarli.

L'efficacia del metodo PQ4R si basa sulla applicazione ordinata e metodica di una serie di principi che favoriscono la memorizzazione. Primo fra tutti l'organizzazione. La scorsa preliminare, prima fase del metodo, ha infatti la funzione sia di rendere cosciente lo studen te dell'organizzazione effettiva del testo (la sua struttura, l'ordine in cui sono esposti i concetti, ecc), sia di permettergli di attivare le conoscenze già possedute che costituiscono la struttura entro cui in-serire il contenuto del testo.

Le domande — il formularle e il tentare di rispondervi - costitui-scono però il piano del metodo. Vi sono molte ricerche sugli effetti delle domande nella memorizzazione; in tali studi si sono calcolate le prestazioni di memoria in seguito a domande poste all'inizio, durante o alla fine del testo e si sono analizzate le differenze tra domande che si pone il lettore, quelle che gli pongono gli altri e quelle che trova nel testo [per una rassegna, cfr. Boscolo 1979]. Particolarmente efficaci si sono rivelate le domande inerenti ai concetti fondamentali, poste all'inizio del testo. Queste guidano l'attenzione e costringono ad una elaborazione più profonda del materiale. Quando vengono proposte all'inizio del testo funzionano in modo simile agli or-ganizzatori anticipati, cui faremo cenno nel paragrafo seguente. An-che se poste alla fine del testo le domande rivelano una loro efficacia ai fini del ricordo, soprattutto quando riguardano elementi di carat-

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tere generale, piuttosto che dettagli, e permettono di ripassare il con-tenuto del testo.

È importante notare che il metodo suggerisce poi di leggere, ri-flettere e ripetere e non parla di sottolineare, abitudine alquanto dif-fusa tra chi studia. Molti studenti infatti non si accingono neppure ad aprire il libro se non sono armati di matite o evidenziatori. Il loro metodo di studio consiste nel leggere e sottolineare ciò che sembra di primo acchito importante. In seguito possono seguire due tecni-che: rileggere e studiare solo quanto sottolineato o rileggere e risot-tolineare nuovi concetti. In entrambi i casi si tratta di piani di studio non adeguati. Il sottolineare alla prima lettura, come è stato osserva-to sperimentalmente può interferire anziché facilitare la memorizza-zione di un testo [Rickards e August 1975]. La sottolineatura imme-diata e frettolosa rischia di mettere in evidenza informazioni irrile -vanti e di omettere quelle rilevanti. Il lettore infatti all'inizio, prima di conoscere il contenuto del testo, non possiede criteri per discrimi-nare ciò che è importante da ciò che non lo è. Probabilmente il motivo per cui la sottolineatura è tanto diffusa sta nel fatto che aiuta a mantenere l'attenzione su quanto si sta leggendo. Molto meglio, ai fini del ricordo, seguire le indicazioni del metodo PQ4R e non omet-tere l'ultima fase: il ripasso finale. Il ripensare a quanto si è studiato si rivela particolarmente utile quando viene effettuato sia immediata-mente, alla fine di ogni singolo capitolo, sia qualche tempo più tardi, ad esempio qualche giorno dopo.

Come facilitare l'apprendimento: caratteristiche del materiale

In generale, e al di là del genere e degli scopi perseguiti, un testo potrà essere più o meno facile da comprendere a seconda di una serie di difficoltà a differenti livelli [cfr., a questo proposito De Beni e Pazzaglia 1995a]. Un testo da leggere può presentare infatti una maggiore o minore difficoltà di comprensione: dal punto di vista les-sicale (livello: parola) a seconda delle caratteristiche e della maggiore o minore frequenza delle parole usate; della complessità sintattica (li-vello: frase); dell'esplicitazione dei legami logici tra le frasi (livello: brano); della presenza o meno di una struttura facilmente identifica-bile e della coerenza interna.

Ulteriori indicazioni sulle caratteristiche che rendono un testo più o meno facile ci vengono suggerite dagli studi di Just e Carpent-er [1987], i quali individuano una serie di caratteristiche formali tali da facilitare sia la comprensione che il ricordo di un testo. All'inter -no di un testo elementi importanti ai fini di una facile comprensione e soprattutto di un buon ricordo sono costituiti a loro avviso da:

1) esempi esplicativi;2) figure e illustrazioni;3) domande aggiunte.Gli esempi esplicativi hanno la funzione di puntualizzare le parti

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contenutisticamente importanti e di porle in evidenza rispetto a quelle non rilevanti. Le figure illustrano i concetti chiave espressi nel testo. In testi di tipo narrativo queste dovrebbero avere la caratteristi ca di esprimere i contenuti in modo essenziale e non ridondante, in testi scientifici potrebbero essere costituite da grafici o diagrammi in grado di esprimere informazioni di tipo spaziale, o da rapporti funzionali tra strutture (ad esempio, diagrammi di circuiti), oppure da dati quantitativi riassumibili attraverso grafici. Le domande aggiunte si rivelano particolarmente utili nel caso di testi di studio. Possono essere situate immediatamente prima, o immediatamente dopo una informazione importante, oppure essere raccolte tutte all'inizio o alla fine del brano. Esse svolgono, a seconda della posizione, una funzio-ne ausiliaria aiutando la selezione delle informazioni rilevanti e facili-tando il controllo del lettore sulla propria comprensione.

Altri elementi che possono essere aggiunti al testo al fine di mi-gliorare la comprensione e lo studio sono gli organizzatori anticipati (advance organizers). Questi sono stati studiati agli inizi degli anni sessanta da Ausubel [1960; 1963] e consistono in brevi sommari col-locati prima del brano ed espressi sia in forma verbale che visiva. Il loro scopo consiste nell'anticipare al lettore le informazioni maggior-mente significative, e sono utili nella misura in cui rispettano alcuni requisiti: vanno presentati prima dell'apprendimento di materiale più ampio, non devono contenere riferimenti specifici a tale materiale e devono essere tali da favorire processi di codifica dell'informazione da parte del lettore e da facilitare le relazioni logiche tra le diverse unità del materiale [Boscolo 1986].

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

È stato di recente tradotto in italiano il libro di Baddeley [1990; trad. it. 1995] che costituisce una trattazione molto ampia dei temi classici: tipi di memoria, organizzazione delle informazioni, oblio, re-cupero dell'informazione, amnesia; come pure di aspetti particolari della memoria in rapporto alla percezione, all'attenzione, al riferi-mento autobiografico e alle emozioni.

Altri testi di approfondimento in italiano sono rappresentati da un volume di Cornoldi [1986], in cui sono trattati a fondo, oltre agli argomenti classici, le strategie di memoria, e dal recente lavoro di Roncato e Zucco [1993].

Il testo più completo per le prove a favore dell'esistenza di una MBT è ovviamente quello di Baddeley [1986].

Numerose rassegne in italiano affrontano il rapporto tra memoria semantica e memoria episodica, e il problema della rappresentazione delle conoscenze analizzando le molte teorie proposte: rimandiamo in particolare a quelle di Cornoldi [1978]; Job [1978]; Roncato [1982]; Job e Rumiati [1984]; Roncato e Zucco [1993].

Per quanto riguarda la funzione immaginativa la letteratura è

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prevalentemente in inglese e il libro più significativo del rapporto tra memoria e immaginazione è costituito dal volume a cura di McDa-niel e Pressley [1987]. In italiano è stato tradotto il libro di Kosslyn [1987b] ed è stato pubblicato un volume a cura di Marucci [1995].

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Linguaggio Capitolo 6

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Questo capitolo presenta nelle sue linee essenziali i più importanti contributi della psicologia del linguaggio. La disciplina è spesso chiamata con il termine di psicolinguistica, che intende sottolineare il carattere di interdisciplinarietà della materia. Questo settore di studi ha ricevuto l'investitura del termine psicolinguistica - già presente in qualche lavoro nella letteratura psicologica negli anni venti - proprio a partire da un convegno interdisciplinare sul linguaggio caratterizza-to dalla partecipazione di psicologi, linguisti, antropologi culturali e informatici, tenuto all'Università dell'Indiana nell'estate del 1951 [Osgood e Saporta 1953]. Da questo incontro interdisciplinare, cui sono seguiti numerosi altri, da un rinnovato interesse della psicologia per gli studi del linguaggio e dalla rivoluzione portata nell'ambito della linguistica dalla teoria di Chomsky a partire dal 1957, si assiste negli ultimi trent'anni ad una grande fioritura di studi di psicologia del linguaggio, ormai classificati come studi di psicolinguistica.

1. La psicolinguistica

1.1. Gli inizi della psicolinguistica

L'interesse degli psicologi per lo studio del linguaggio risale pro-prio agli inizi della psicologia scientifica, oltre un secolo fa. Wundt, il fondatore del primo laboratorio di Psicologia sperimentale a Lipsia nel 1879, si occupò ampiamente del linguaggio, cui dedicò molti dei suoi numerosissimi scritti, come due volumi Die Sprache nell'opera monumentale Vólkerpsychologie [1900-09]. In questo lavoro Wundt distingue da una parte i fatti «esterni», legati alla produzione e per -cezione di suoni linguistici, dall'altro i fenomeni interni del pensiero: per studiare il linguaggio occorre comprendere i processi che prece-

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dono, accompagnano e seguono la produzione di frasi. La produzio-ne di una frase comincia, per Wundt, con un atto di appercezione di un'impressione generale (appercezione, nella psicologia di Wundt, si-gnifica selezione e strutturazione attentiva di un'esperienza interna: cfr. supra, cap. I, pp. 30-33). L'attenzione isola alcuni aspetti di tale impressione, organizzando il contenuto mentale in elementi o costi-tuenti che mantengono una relazione strutturale reciproca: da questi elementi viene derivata la base per le relazioni strutturali delle frasi. La frase, che è l'elemento fondamentale del linguaggio, deve essere studiata come un processo cognitivo, non interamente analizzarle al livello dell'evento acustico.

Un altro contributo classico alla psicologia del linguaggio si deve a Biihler [1934], con un interessante modello delle «funzioni» del linguaggio. Secondo questo autore il linguaggio risponde a tre fun-zioni, cioè espressione, evocazione e rappresentazione. Il linguaggio serve cioè ad esprimere i pensieri e i sentimenti di chi parla, e ad evocare nell'ascoltatore gli stessi pensieri o idee delle cose che simbo-lizza. La più importante è la funzione rappresentativa, cioè la rela-zione tra i simboli convenzionali e le cose significate, che viene di-scussa a fondo da Biihler [ibidem] nella sua classica opera.

Come si vede, le posizioni di Wundt e di Biihler sono ancora caratterizzate in senso mentalistico, mantenendo cioè una distinzione fra due corrispondenti livelli distinti, da una parte il «pensiero» e l'«idea», e dall'altra il correlato materiale esterno, la «parola» o il «simbolo». A partire dal 1912, questa posizione viene radicalmente rifiutata dal comportamentismo, che anche nello studio del linguag-gio cerca di eliminare ogni elemento mentalistico e non «obiettivo». Per Watson [1913], il linguaggio si riduce a una serie meccanica di risposte condizionate; le parole sono sostituti per gli oggetti che si organizzano in una serie di risposte condizionate. La nozione del lin-guaggio come insieme di risposte condizionate sposta l'attenzione de-gli studiosi sulla natura dei processi nell'apprendimento in generale. Di qui il conseguente disinteresse per lo studio dei processi linguisti-ci, che caratterizza l'intero mezzo secolo di predominanza culturale del comportamentismo. Ci sono solo pochissime eccezioni a questo, cioè due teorie sull'acquisizione del significato delle parole e sull'ap-prendimento delle parole, dovute rispettivamente a Osgood [1963] e a Skinner [1957], e un interessante ma isolato tentativo di proporre una teoria sulla frase in termini di condizionamento classico, propo-sta da Mowrer [1954]. In questo periodo, d'altra parte, lo studio scientifico del linguaggio viene portato avanti soprattutto dall'antro-pologia culturale e dalla linguistica dello strutturalismo, nell'ambito della quale l'influenza del comportamentismo si fece direttamente sentire, come si può chiaramente vedere nell'opera di Bloomfield [1933], forse il più importante rappresentante della linguistica strut -turale negli Stati Uniti.

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1.2. La psicolinguistica contemporanea

Negli indirizzi di ricerca di psicolinguistica degli ultimi trentacin-que anni, operando una grande semplificazione, è possibile distin-guere tre periodi successivi. Il primo, precognitivo, sviluppatosi negli anni cinquanta, è caratterizzato dalla fiducia negli apparati concettuali e metodologici messi a disposizione dalla linguistica dello struttura-lismo, dalla teoria dell'informazione e dalle teorie dell'apprendimen-to: il comportamentismo americano, nella sua forma più sofisticata, cerca in questo periodo di incorporare i contributi delle scienze della comunicazione e di fornire dei modelli capaci di spiegare i processi di acquisizione del linguaggio, di formazione e comprensione delle frasi. Il secondo periodo è caratterizzato dai tentativi di costruire dei modelli psicolinguistici direttamente basati sulle nozioni linguistiche elaborate dalla grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky [1957; 1965]. Particolare interesse rivestono in questo periodo i pro-blemi sintattici. Il terzo periodo, nel quale si muove oggi gran parte della ricerca, ha cercato di rispondere anche a questioni riguardanti gli aspetti semantici e pragmatici del linguaggio, che viene maggior-mente ancorato ad un più ampio contesto cognitivo, ed è caratteriz-zato da modelli psicolinguistici più autonomi dalla linguistica, con la quale il rapporto è divenuto di interazione e di dialogo, e non di dipendenza, come nel periodo precedente.

1.3. I campi d'indagine della psicolinguistica contemporanea

I settori di indagine della psicolinguistica contemporanea sono ri-conducibili alle seguenti quattro distinte aree: comprensione, produ-zione, sviluppo e patologia del linguaggio. In ciascuna di queste aree esiste una notevole tradizione di ricerca, e un'ampia serie di modelli e teorie, come pure una ricchissima varietà di contributi sperimenta -li, di studi di casi individuali, di osservazioni raccolte in condizioni naturali.

I processi di comprensione del linguaggio sono stati studiati e approfonditi fin dalla nascita della psicolinguistica contemporanea. Le ricerche in questo campo riguardano tre aree distinte, cioè il rico-noscimento di parole, la comprensione di frasi e infine la compren -sione del testo o del discorso. Per molto tempo, fino a pochi anni fa, i tre settori hanno conosciuto percorsi diversi e relativamente poca interazione. I processi di riconoscimento delle parole sono stati ini-zialmente studiati nell'ambito della psicologia sperimentale in genera-le, e solamente negli ultimi decenni sono stati integrati nelle linee principali della ricerca in psicolinguistica. Lo studio dei processi di comprensione e di memoria di frasi ha costituito il filone centrale della ricerca in psicologia del linguaggio fin dalla nascita della psico-linguistica del cognitivismo, e costituisce ancora un settore privilegia -to della ricerca. Lo studio della comprensione di un discorso o del

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testo è infine un capitolo relativamente giovane, anche se oggi ric -chissimo di sviluppi, della psicologia del linguaggio.

Mentre lo studio della comprensione del linguaggio ha goduto di un'attenzione enorme nell'ambito della psicolinguistica contempora-nea, la produzione del linguaggio è stata relativamente poco studiata. Solo negli ultimi vent'anni c'è stato uno sviluppo molto vivace e rapi -do della ricerca in quest'area. Le ragioni sono da ritrovare nella diffi-coltà a condurre ricerche sperimentali relative alla produzione del lin-guaggio: mentre è abbastanza agevole presentare delle frasi e richiede-re a un soggetto di eseguire un compito legato all'ascolto o alla lettura di una frase (ad esempio, premere un pulsante quando viene sentito un breve rumore sovraimposto a una frase), è molto più difficile con-trollare le variabili che possono essere legate alla produzione di una frase, ed è pressoché impossibile prevedere quando un certo tipo di enunciati potrà essere prodotto da un parlante. La ricerca è quindi in gran parte basata su pazienti osservazioni di comportamenti sponta-nei, talvolta in condizioni controllate, più spesso in condizioni naturali, come ad esempio gli errori prodotti spontaneamente da parlanti, op-pure le pause e le esitazioni nella conversazione.

L'acquisizione del linguaggio è stato un tema che ha sempre affa-scinato e tenuto occupati psicologi, linguisti e studiosi di discipline contigue, e sul quale la ricerca è sempre stata viva. Anche oggi lo sviluppo del linguaggio costituisce un campo di studi estremamente vasto e ricco di produzione.

Le ricerche sulla patologia del linguaggio rivestono una doppia funzione. Da una parte esse sono servite a studiare i processi legati all'insorgere di vari tipi di afasie o dislessie, e a fornire in qualche caso indicazioni utili al trattamento e alla rieducazione. D'altra parte questo tipo di studi fornisce la possibilità di mettere alla prova mo-delli e teorie psicolinguistiche. La disponibilità di nuove tecnologie estremamente sofisticate per l'analisi di vari fenomeni cerebrali asso-ciati al comportamento linguistico, e un rapido e vivacissimo svilup-po delle neuroscienze, hanno, soprattutto negli ultimissimi anni, por-tato a un rapidissimo progresso negli studi sulle patologie linguisti -che e in generale anche sui fondamenti biologici e neurologici del linguaggio. La neurolinguistica è oggi uno dei settori più affascinanti e vivi di tutte le scienze cognitive.

1.4. Lo studio del linguaggio e la linguistica

Una comprensione adeguata dei modelli e delle teorie della psicolinguistica richiede un minimo di conoscenze della terminolo-gia e dei concetti fondamentali della linguistica. In questo paragra-fo vengono brevemente introdotti alcuni termini della linguistica tradizionale, cioè essenzialmente i concetti fondamentali della lin-guistica descrittiva dello strutturalismo; successivamente si presente-rà nelle sue linee essenziali il modello linguistico che ha maggior-

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mente influenzato la ricerca psicolinguistica e l'intera psicologia co-gnitivista, cioè la grammatica generativo-trasformazionale proposta dal linguista Chomsky [1957; 1965].

1.5. La lingjistica descrittiva

La linguistica descrittiva tende a dare una descrizione accurata e sintetica degli elementi di un linguaggio naturale. Il linguista parte di solito dall'insieme continuo di suoni così come è prodotto dai par -lanti di una determinata comunità linguistica, e cerca di analizzarlo e di suddividerlo in una serie di unità discrete, di scoprire le particolari combinazioni di questi elementi in unità a livello più elevato, e di elencare le regole con cui queste ulteriori unità si combinano le une con le altre! Il metodo usato per questa analisi consiste per lo più nella raccolta di una serie di campioni di comportamento verbale emesso da parlanti il linguaggio che si vuole studiare; da questo «corpus» linguistico - spesso trascrizione di registrazioni - il lingui -sta cerca di «indurre» per successivi tentativi la grammatica del lin-guaggio in questione.

La classificazione del linguaggio comincia a livello fonetico. Si in-dividuano diversi tipi di suoni o foni, distinguendo le varie conso-nanti e vocali, basandosi sull'analisi delle proprietà acustiche dei suoni e su osservazioni degli organi vocali e delle loro articolazioni, e tenendo conto di caratteristiche come la lunghezza, l'intensità dei suoni, ecc. A questo livello si può arrivare a una trascrizione dei di -versi foni usando particolari alfabeti di simboli fonetici, come l'Alfa -beto Fonetico Internazionale, che costituisce di solito il primo lavoro del linguista nell'analisi di una lingua sconosciuta.

La prima unità linguistica fondamentale proposta dal linguista è il fonema. Esso può essere definito come l'elemento linguistico mini -mo del sistema di espressione di un linguaggio parlato, cioè il mini -mo elemento distinguibile dagli altri all'interno di una sequenza foni-ca. Un fonema viene talvolta definito anche come la minima unità di espressione verbale che «fa differenza» per chi ascolta o chi parla. Partendo dai foni, in precedenza isolati e trascritti, il linguista cerca di vedere quali delle distinzioni effettuate sono rilevanti dal punto di vista linguistico, arrivando così a una classificazione dei suoni di lin-guaggio in un numero minimo di unità, cioè i fonemi. Così, ad esempio, in italiano il suono n in «vendo» è foneticamente diverso dal suono n in «vengo» (il primo è dentale, il secondo velare), come è facile notare pronunciando ad alta voce le due parole. Dal punto di vista fonematico, d'altra parte, i due suoni vengono classificati co-me istanze dello stesso fonema /n/. Si noti come i fonemi rappresen-tano unità che caratterizzano un determinato linguaggio: gli stessi suoni possono avere differenti classificazioni fonematiche in diversi linguaggi. Ad esempio, in giapponese i suoni corrispondenti pressa-

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poco alle nostre consonanti r e i , che in italiano rappresentano due fonemi distinti, vengono classificati come un unico fonema.

La seconda unità usata nella descrizione di un linguaggio è il morfema. Esso è un'unità composta di fonemi e può essere definita come la minima unità lessicale, cioè come la minima sequenza di fo-nemi che ha un significato. Esso può coincidere con la «parola», ma in molti linguaggi esso rappresenta un'unità minore della parola. Così, ad esempio, in inglese la parola dog è un morfema, mentre in italiano la parola «cane» è composta dal fonema /can/ (la radice del la parola) e dal morfema -e (che in italiano è un suffisso inflessiona-le). L'analisi dei morfemi di un linguaggio costituisce la base per la costruzione del lessico del linguaggio stesso.

Il livello successivo consiste nell'analisi delle regole di combina-zione dei morfemi in parole, frasi e periodi. La morfologia studia il modo in cui le parole sono costruite, cioè la struttura interna delle parole, mentre la sintassi studia la combinazione delle parole in frasi e periodi.

1.6. La grammatica generativo-trasformazionale

II modello linguistico - cui molti degli studi di psicolinguistica fanno oggi riferimento, e la cui terminologia e le cui nozioni sono direttamente o indirettamente parte della maggioranza dei modelli linguistici contemporanei — è quello della grammatica generativo-tra-sformazionale, proposto nel 1957 dal linguista Chomsky, e poi suc-cessivamente modificato nel 1965 e di nuovo in successivi lavori. In questo capitolo ci si limita a una brevissima introduzione degli ele-menti più importanti di questo modello, che costituiscono nozioni comunque presenti nei modelli più recenti della grammatica chom-skiana stessa e di teorie alternative proposte negli ultimi trent'anni.

Lo scopo fondamentale dell'analisi linguistica di un linguaggio L è di distinguere le sequenze grammaticali, che sono le frasi di L, dalle sequenze non grammaticali che non sono frasi di L, e di studiare la struttura delle sequenze grammaticali. La grammatica di una lingua è una teoria della struttura della lingua stessa. Una grammati -ca G può essere considerata come un meccanismo che genera tutte le sequenze grammaticali della lingua e nessuna sequenza non gram-maticale; essa può generare un numero infinito di frasi nuove, par -tendo da un vocabolario finito e da un insieme finito di regole, che il parlante possiede e adopera. Generare una frase significa assegnare alla frase una precisa descrizione strutturale, cioè specificare l'insieme di regole attraverso cui si è ottenuta la struttura della frase stessa, e indicare la struttura della frase nei termini delle relazioni specificate dalla grammatica.

Quale tipo di grammatica corrisponde a questi criteri? Nel lavo-ro del 1957, Chomsky esamina prima di tutto un modello di tipo markoviano, o probabilistico. Secondo questo modello, le frasi di un

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linguaggio sarebbero il prodotto di un processo markoviano a stati finiti. Supponiamo di avere una macchina — qualsiasi sia la sua strut-tura - che si trova in uno qualsiasi di diversi stati interni, e suppo-niamo che la macchina possa passare da uno stato ad un altro pro-ducendo ogni volta un certo simbolo (per esempio, una parola). La macchina parte quindi da uno stadio iniziale, procede attraverso una sequenza di stadi producendo ogni volta una parola, e finisce nello stato finale. La sequenza di parole così ottenuta è una «frase». Ogni linguaggio che può essere prodotto da una macchina del genere è un linguaggio a stati finiti, e la macchina è una grammatica a stati finiti. Si può considerare il parlante alla stregua di una macchina di questo tipo? Ogni stato attraverso cui egli passa comprende delle restrizioni grammaticali che limitano la scelta della parola successiva ad ogni momento della frase. Il modello deve infatti ovviamente incorporare una serie di informazioni sulla struttura probabilistica della lingua, per poter passare da un simbolo all'altro seguendo le connessioni probabilistiche della lingua (ad esempio, deve incorporare l'informa-zione che dopo l'articolo può venire un nome o un aggettivo, le rela-tive probabilità condizionali, ecc). Attraverso l'uso di queste infor-mazioni, una macchina a stati finiti come il modello markoviano qui schizzato è effettivamente in grado di produrre sequenze che posso-no corrispondere a frasi grammaticali del linguaggio.

Nella sua astrattezza, il modello può sembrare del tutto lontano da un adeguato modello linguistico. Dal punto di vista di una teoria psicolinguistica esso descrive piuttosto bene, anche se in maniera astratta, tutti i tentativi di spiegare i processi di emissione e di com-prensione delle frasi di una lingua in termini di semplici associazioni, per cui ogni elemento di una frase sarebbe legato al precedente da connessioni apprese durante l'acquisizione del linguaggio, che riflet -tono la struttura probabilistica della lingua cui siamo stati esposti. I pochissimi tentativi di spiegare la produzione e la comprensione del -la frase nati nell'ambito del comportamentismo, come quello di Mowrer [1956], sono riducibili concettualmente a un modello di tipo probabilistico come quello markoviano. Non pochi recenti modelli di analisi sintattica del linguaggio in Intelligenza Artificiale sono del re-sto di nuovo molto vicini alla nozione di elaborazione «da sinistra a destra», non lontana da quella del modello markoviano. Tuttavia un modello markoviano non è adeguato a spiegare la complessa struttura gerarchica del linguaggio, ed è incapace ad esempio di tener conto di quella che è una proprietà essenziale di una lingua come l'inglese o l'italiano, cioè la possibilità di inserire un numero infinito di frasi «autoincluse» entro una frase. Infatti, includendo, ad esempio, una frase relativa all'interno di una frase, l'ultima parola della frase inclusa può avere una probabilità zero di essere connessa con la parola successiva della frase principale (partendo, ad esempio, da una frase come «II gatto mangia il topo», se inseriamo dopo «gatto» la relativa «che il bambino ha carezzato», la probabilità di legare «carezzato» a «mangia» può risultare bassissima o nulla). Frasi di que-

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sto genere non possono venire prodotte da un processo markoviano che agisca solo sequenzialmente, «da sinistra a destra».

Un secondo modello di grammatica è la grammatica a struttura sintagmatica. La grammatica viene definita attraverso: a) un vocabo-lario finito; b) un insieme finito di simboli iniziali F; e) un insieme finito di regole. Queste regole hanno la forma generale

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[1] Y

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che si deve intendere come un'istruzione a sostituire ad X quanto viene indicato in Y, e si definisce nel modo sequente: «si riscriva X come Y». Regole di questo tipo si chiamano «regole di riiscrizione».

Una frase viene ottenuta partendo da un simbolo iniziale F e applicando successivamente diverse regole, finché si ha una sequenza o stringa di simboli detti formativi, e non è più applicabile alcuna regola di riiscrizione. Questo processo è chiamato «derivazione della frase».

Consideriamo, per esempio, una piccolissima grammatica indi-cando alcune regole di riiscrizione e alcune regole di vocabolario, an-ch'esse nella forma di regole di riiscrizione.

[2] a) F -> SN + SV (cioè frase è uguale a sintagma nominale più sin-tagma verbale)

b) SN -> Art + N (cioè sintagma nominale va riiscritto come articolo più nome)

e) SV -> V + SN (cioè sintagma verbale si riiscrive come verbo più sintagma nominale)

d) Art -> ile) N —> bambino, cane, maestro, ecc.fi V -> carezza, morde, spinge, colpisce, ecc.

Una importante proprietà delle regole di riiscrizione è la loro re-cursività, cioè il fatto che possono venire impiegate più volte in suc-cessione.

Proviamo ora a derivare una frase qualsiasi, partendo dal simbo lo F (frase) e applicando le regole della nostra grammatica.

[3]

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Derivazione Regola

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F -> SN + SV SN + SV -> Art + N + SV A r t + N + S V - > A r t + N A r t + N + V + S N — A r t A r t + N + V + A r t + N - i l + N + V + A r t + N - >il bambino + V + Art + N -> il bambino carezza + Art + N il bambino carezza + Art + N —> il bambino carezza il + N il bambino carezza il + N —> il bambino carezza il cane

{a) (b) (e) (b) (d) (e)(/) (d) (e)

+ V + S N+ N + V + A r t + N > i l + N + V + A r t + N il bambino + V + Art + N

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Come si vede, la derivazione va fatta applicando una regola alla volta e sostituendo un simbolo alla volta. Si noti come utilizzando le regole della nostra grammatica si ottengono solo frasi sintatticamente corrette (anche se in qualche caso semanticamente o pragmaticamen-te un po' anomale): il maestro spinge il bambino, il bambino morde il cane, il cane carezza il maestro, ecc.

Questo tipo di analisi consente, tra l'altro, di eliminare l'ambigui-tà di alcune frasi a livello della struttura sintagmatica che chiamere-mo superficiale, come ad esempio, la frase ambigua «Una vecchia porta la sbarra» che ha due letture diverse, a seconda che «porta» è sostantivo oppure verbo, «la» funziona da articolo o da pronome, ecc. Alle due interpretazioni corrispondono due diverse strutture sin-tagmatiche.

Per produrre le diverse frasi di una lingua come l'italiano, le re -gole della grammatica dovranno essere indubbiamente molto più nu-merose e più complesse, tuttavia il modello di grammatica qui esem-plificato è estremamente efficace e risponde in gran parte ai criteri richiesti da una grammatica di una lingua.

L'analisi proposta è limitata al livello sintattico. Occorrono poi delle regole morfologiche per la scelta della precisa struttura da attri -buire alle «parole» che vanno a occupare i posti, nella stringa finale, dei diversi formativi, che qui per semplicità sono stati già rappresen-tati come parole vere e proprie, e inoltre regole fonologiche per la rappresentazione della frase in forma fonologica e fonetica. Questo modello d'altra parte non si occupa neanche della semantica, che è soltanto interpretativa, non generativa.

Una grammatica a struttura sintagmatica presenta dei limiti. Non appena si ha a che fare con frasi un po' complesse, ci si accorge che per derivare solo frasi grammaticali e nessuna frase non grammatica-le, essa dovrebbe divenire enormemente complessa. Chomsky [1957] ha dimostrato, attraverso una serie di esempi convincenti, che è pos-sibile una notevole semplificazione della teoria della grammatica, se si introducono nella grammatica delle nuove regole, cioè delle regole di trasformazione.

Una trasformazione grammaticale T opera su una certa stringa con una determinata struttura costitutiva e la converte in una nuova stringa con una nuova struttura costitutiva derivata. Consideriamo, ad esem-pio, quale forma potrebbe assumere una regola di trasformazione per ottenere in italiano una frase passiva. Si prenda la frase «II bambino mangia la mela». La stringa di simboli sottostante la frase può essere rappresentata in maniera semplificata nella seguente analisi strutturale:

I

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[4] SN1 - Mod + V - SN2

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abbiamo cioè un sintagma nominale che funziona da soggetto (il bambino) un verbo V con un simbolo che ne indica gli elementi formativi (modo, tempo, eventuale presenza dell'ausiliario, ecc.) e un secondo sintagma nominale che funziona da oggetto della frase. La

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trasformazione passiva va applicata alla stringa per ottenere una se-conda stringa derivata. La regola della trasformazione è la seguente (in cui XI, X2, ecc, rappresentano i quattro elementi della stringa): Trasformazione passiva

[5] XI - X2 - X3 -> X3 + Aus + Participio Pass. + X2 - da + XI

(Part. Pass. + X2 assumerà la rappresentazione morfologica mangia-to; da il diventerà, per una comune regola morfofonematica, dal).

Dalla stringa derivata si ricava la frase «La mela è mangiata dal bambino».

Una grammatica deve quindi comprendere anche una serie di re-gole di trasformazione, come le seguenti: trasformazione passiva, ne-gativa, interrogativa, enfatica, relativa, ecc.

Si noti come la grammatica non produce direttamente le stringhe definitive, ma sequenze di simboli su cui poi intervengono le regole di trasformazione, che nel caso più semplice non richiedono alcun mutamento nell'ordine dei formativi.

In breve, partendo da un simbolo iniziale F, attraverso l'uso del-le regole a struttura sintagmatica, si deriva una stringa terminale, cui vanno poi applicate le trasformazioni necessarie a ottenere la stringa che sta sotto le frasi del linguaggio.

Nel modello trasformazionale della grammatica si hanno, in bre-ve, due sottocomponenti:

a) uno a struttura generativa, che genera le stringhe terminalicostitutive;

b) l'altro trasformazionale, che consiste in regole di trasformazione le quali, applicate in un certo ordine, proiettano un indicatore difrase di una o più stringhe terminali su un nuovo indicatore di frasederivato di una stringa terminale trasformativa.

Un'altra importante distinzione della grammatica che stiamo con-siderando è quella, molto rilevante anche dal punto di vista psicolin-guistico, tra struttura profonda e struttura superficiale della lingua. Os-serviamo la frase «La scelta del comitato è stata difficile». Questa frase è ambigua: alla frase corrispondono cioè due diverse interpreta-zioni. Secondo la prima, la frase significa che il comitato ha scelto qualcuno, superando delle difficoltà; per la seconda interpretazione, è il comitato che è stato scelto, e questa scelta è stata contrastata. Si noti che alle due interpretazioni corrisponde la stessa struttura sin-tagmatica, rappresentabile con la stessa struttura di frase: al livello della sequenza finale di simboli, pertanto, non c'è modo di distinguere quale delle due interpretazioni sia quella prescelta dal parlante. Abbiamo cioè una stessa struttura superficiale, derivata attraverso di-verse regole di trasformazione, da due diverse strutture profonde. Regole di trasformazione diverse hanno fatto ottenere strutture su-perficiali identiche a partire da due strutture profonde diverse.

Le regole di generazione e le regole di trasformazione (e quindi la descrizione delle relazioni tra strutture superficiali e strutture prò-

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fonde) costituiscono la componente sintattica della grammatica. Le altre due componenti sono quella semantica e quella fonologica. La componente semantica determina l'interpretazione semantica di una frase, e opera interamente al livello della struttura profonda: ogni trasformazione cioè lascia intatto il significato della frase, che è com-pletamente specificato al livello della struttura profonda. La compo-nente fonologica della grammatica determina invece la rappresenta-zione fonologica della frase generata dalla componente sintattica.

Un'importante distinzione della grammatica chomskiana è quella tra competenza linguistica ed esecuzione. La distinzione corrisponde a quella di de Saussure [1879] tra langue e parole. La langue è il sistema, grammaticale e semantico, che rende possibile la produzione del linguaggio; la parole sono gli atti particolari del linguaggio, pro-dotti da un parlante. Il linguaggio come langue è una norma sociale, parte della cultura, mentre il linguaggio come parole è il comporta-mento verbale realizzato da un individuo. Competenza è dunque per Chomsky l'insieme di «regole» sintattiche, semantiche e fonologiche, che un parlante deve implicitamente possedere per essere in grado di parlare e comprendere; esecuzione è la produzione o comprensio-ne attuale di frasi, che è ovviamente soggetta a una quantità di fatto ri di tipo psicologico, come limitazioni della memoria immediata, condizioni di stanchezza, ecc, che rendono spesso l'esecuzione non perfettamente conforme alle «regole» del linguaggio.

La teoria della grammatica è una teoria della competenza lingui-stica: essa cioè deve specificare le condizioni capaci di produrre frasi grammaticali, cioè descrivere un sistema astratto di regole sintattiche, di vocabolario, ecc. Una teoria linguistica come quella di Chomsky non è pertanto un modello del parlante o di chi ascolta, in quanto non intende specificare i processi neurofisiologici e psicologici attra-verso i quali una persona arriva a produrre una frase. Tuttavia, in quanto essa specifica la natura del sistema di regole che sono neces-sarie per produrre le frasi, essa ci dice anche quali sono le condizio -ni che deve soddisfare la conoscenza che una persona ha del linguag-gio. In questo senso una teoria grammaticale può diventare un pun-to di partenza per la costruzione di un modello psicologico del par -lante. Pertanto, una grammatica dalle caratteristiche di quella di Chomsky ha un significato anche per un modello psicologico, anche se non è detto affatto che le regole specificate dalla grammatica deb-bano corrispondere a processi psicologici: determinare questo, sem-mai, è compito della ricerca psicolinguistica, e in tale direzione si è mossa una serie di interessanti ricerche.

La grammatica «standard» di Chomsky, che è essenzialmente quella schematicamente qui introdotta, subisce negli anni successivi al 1965 una serie di modifiche molto importanti, capaci per esempio di spiegare relazioni tra elementi della frase molto distanti tra di loro sulla superficie, e di rendere conto di una serie di fenomeni legati alla struttura profonda della frase. Inoltre negli anni successivi al 1965 è stata data maggior attenzione alla componente semantica.

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Una presentazione anche molto sommaria di queste modificazioni porterebbe oltre gli scopi di questo paragrafo del capitolo, che mira soltanto a introdurre concetti di base, come quello delle regole di generazione, di costituente o di trasformazione, che la psicolinguisti-ca usa ormai correntemente nel descrivere la struttura di una frase. Va anche ricordato come negli ultimi vent'anni sono nate altre gram-matiche alternative, alcune delle quali sviluppate nell'ambito dei pro-cedimenti di analisi automatica del linguaggio naturale nel settore dell'intelligenza artificiale o specificamente della linguistica computa-zionale.

La ricerca psicolinguistica è stata influenzata anche da altri mo-delli. Per esempio, una notevole influenza ha avuto la grammatica dei casi proposta da Fillmore [1968], in cui i casi, cioè semplici rela-zioni fondamentali come agente, locativo, ecc, sembrano avere natu-rali analogie con processi cognitivi elementari. In particolare al livello della psicolinguistica evolutiva, questo modello ha fornito indicazioni interessanti per un'analisi del linguaggio del bambino.

2. La comprensione del linguaggio

Questo paragrafo affronta il settore più importante e ampio della psicolinguistica, cioè quello della comprensione del linguaggio. Le questioni studiate riguardano essenzialmente i processi che intercor-rono tra il momento in cui una sequenza di energia acustica, prodotta dall'apparato articolatorio di un parlante, arriva al nostro orecchio, oppure una serie di segni grafici rappresentanti una sequenza lingui-stica giunge a stimolare il nostro sistema visivo, e il momento in cui una parola, una frase o un testo vengono opportunamente interpre-tati.

Il risultato finale del processo di comprensione di una frase, di un discorso parlato o di un testo scritto consiste in una rappresenta-zione mentale del contenuto del testo o del messaggio. Questo pro-cesso richiede una serie di operazioni mentali, la cui precisa natura non ci è nota, ma intorno alle quali esistono, nei diversi modelli pro -posti dalla psicolinguistica contemporanea, alcune ipotesi abbastanza interessanti.

Un primo, importante processo che il sistema di riconoscimento del linguaggio deve effettuare riguarda in ogni caso l'isolamento e il riconoscimento di parole. Una delle operazioni più importanti nel comprendere un messaggio parlato o un testo consiste poi nel trovare le relazioni strutturali tra le parole identificate nel testo o nel mes-saggio, cioè attribuire una struttura sintattica agli elementi del testo stesso. Molta della ricerca sperimentale e del lavoro teoretico in psi-colinguistica ha cercato di mettere in luce in che modo viene effet -tuata l'analisi sintattica di una frase o di un testo, e quale ruolo essa riveste nel processo di comprensione del linguaggio. Comprendere un testo scritto o un discorso significa poi molto più che «sommare»

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tra di loro una sequenza di frasi, ciascuna delle quali viene interpre-tata singolarmente, ma significa integrare e adattare l'informazione fornita dalle singole frasi, e metterle in relazione reciproca, e non di rado integrare l'informazione fornita dal testo sulla base della nostra conoscenza della realtà o del contesto. I paragrafi seguenti sono de-dicati ad una presentazione di queste componenti della comprensio-ne linguistica.

2.1. La produzione e il riconoscimento dei suoni del linguaggio

I suoni del linguaggio

Ogni suono è caratterizzato da frequenza, intensità e durata. I suoni del linguaggio umano sono formati da «mescolanze» di diverse frequenze. L'intensità varia continuamente durante la produzione della voce. I suoni del linguaggio parlato possono essere descritti sul-la base dei movimenti del sistema articolatorio: essi vengono prodotti attraverso emissione d'aria dai polmoni; questa passa nella trachea e nella faringe e viene fatta vibrare in un determinato modo dai movi-menti delle corde vocali, e poi modulata e controllata dalla posizione del tratto vocale e delle cavità orale e nasale.

In base alla posizione e ai movimenti di questi organi si ottengo-no i vari suoni del linguaggio. Se l'aria esce liberamente dalla cavità della bocca o da quella boccale e nasale, si ottiene una vocale, se invece l'aria viene in qualche modo bloccata o modulata si ottengono le consonanti. Se l'aria passa tra le corde vocali in posizione neutrale si produce una consonante sorda, se invece la corda vocale viene fatta vibrare la consonante è sonora. Le consonanti vengono distinte sulla base di tre principali caratteristiche, cioè il modo di articolazione, il luogo di articolazione e i cosiddetti tratti accessori. Abbiamo così consonanti occlusive, costrittive e affricative; labiali, dentali e velari; consonanti orali e nasali, e così via.

Tutte queste distinzioni consentono di identificare in modo unico i suoni di un determinato linguaggio. Ogni fonema può essere così rappresentato come risultante da una serie di distinzioni: la consonante /b/ è una labiale occlusiva orale; la /m/ è una labiale occlusiva nasale, ecc.

Queste distinzioni tra suoni si riferiscono a caratteristiche di tipo articolatorio. Distinzioni di questo tipo, unitamente ad altre suddivi-sioni basate su proprietà di tipo acustico e percettivo, sono usate come elementi nella teoria dei tratti distintivi in fonologia. Secondo questa teoria, nella formulazione di Jakobson e Halle [1956], è pos-sibile descrivere i fonemi di un linguaggio servendosi di una serie di tratti distintivi binari. Ogni fonema è caratterizzato da un + o un — in ciascuno dei tratti distintivi. Così, ad esempio, il fonema /a/ è + vocalico, il fonema /b/ è + consonantico e + grave, ecc. La teoria ha avuto un'enorme influenza su una serie di settori della ricerca. In

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fpsicologia essa sta anche alla base di una serie di modelli riguardanti il riconoscimento di parole scritte o di lettere, come, ad esempio, il classico modello del «Pandemonio» di Selfridge [1959]. Esiste un'in-teressante serie di dati sperimentali che consente di sostenere come la teoria dei tratti distintivi ha una validità psicologica, nel senso che le distinzioni tra fonemi ottenute dall'analisi dei tratti distintivi sem-brano riflettere le somiglianze e le differenze dei fonemi del linguag-gio nel sistema di conoscenze linguistiche e nella percezione dei fo -nemi.

2.2. La percezione dei suoni de! linguaggio

La percezione dei suoni del linguaggio umano sembra essere ca-ratterizzata in modo diverso dalla percezione di altri eventi acustici. Una delle caratteristiche più importanti è la cosiddetta percezione ca-tegorica dei suoni del linguaggio. Il fenomeno, più volte messo in di-scussione soprattutto negli ultimi anni, può essere chiarito riferendosi ai risultati essenziali di una serie di fondamentali studi condotti ai Laboratori Haskins a New Haven [ad esempio, Liberman et al. 1957]. Immaginiamo di disporre di due segmenti acustici, il primo avente una configurazione tale da essere sempre percepito come /ba/, e un secondo caratterizzato da una struttura che lo fa percepire come /da/. Attraverso opportune modificazioni dello spettro del seg-mento acustico, si può gradualmente trasformare il primo nel secon-do. Se effettuiamo queste modificazioni progressivamente, possiamo ottenere una serie di segmenti acustici «intermedi» tra /ba/ e /da/. Se presentiamo questi segmenti in successione a un ascoltatore, questi non percepisce delle sillabe «intermedie» tra ./ba/ e /da/, ma continua a sentire /ba/, e poi, a un certo punto, improvvisamente, il segnale successivo diviene percettivamente un chiaro /da/. I diversi segmenti, acusticamente diversi, vengono percettivamente collocati in una di due categorie percettive, quella dei /ba/ oppure quella dei /da/, e dal punto di vista percettivo non esistono fatti acustici intermedi. A differenza di altri eventi acustici, per i quali il sistema percettivo è in grado di produrre una quantità praticamente infinita di risposte percettive caratterizzate da differenze minime (si pensi, ad esempio, alla percezione di intensità di suoni), nel caso di suoni del linguaggio, le consonanti rappresentano un repertorio finito e limitato di categorie percettive, alle quali le diverse istanze di suoni vengono percettivamente ricondotte.

Un'importante proprietà dei suoni del linguaggio è costituita dal-l'assenza di una relazione biunivoca tra le unità percettive e la strut-tura dei suoni dal punto di vista spettrale. Immaginiamo di prendere una porzione di suoni del linguaggio parlato corrispondente a una sillaba, così com'è ad esempio presente in un pezzo di registrazione. Supponiamo che la sillaba sia /ka/ e abbia la durata di 300 ms. Im-maginiamo ora di «tagliare» una porzione della parte finale del seg-

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mento corrispondente alla sillaba, e ridurre così la lunghezza della sillaba. Tagliando porzioni sempre maggiori della parte finale della sillaba potremmo pensare di riuscire a ottenere alla fine il suono del -la sola consonante /k/ senza alcuna vocale. Invece questo risultato non si verifica. Tagliando dalla «coda» della sillaba una porzione di pochi millisecondi o un millisecondo alla volta, la sillaba /ka/ diviene sempre più breve. A un certo momento, togliendo solo un altro mil-lisecondo di «vocale» non si sente più la consonante, ma un suono metallico, senza le caratteristiche della voce umana. La /k/ da sola non si può ritrovare percettivamente nel segnale acustico [Liberman et al. 1967]. Se da una parte dunque è possibile distinguere nello spettro acustico la parte «responsabile» della consonante e quella della vocale, non è possibile isolare un pezzo di segmento che sia corrispondente alla sola consonante. Consonante e vocale sono «por-tate» in parallelo dal segnale acustico.

2.3. Il riconoscimento di parole

Una fase importante e centrale della comprensione del linguaggio parlato e scritto consiste nel riconoscere le parole. Anche se definire cos'è una parola è estremamente difficile, e i linguisti hanno a lungo discusso la questione se un'unità come la parola ha uno status all'in-terno del sistema linguistico, la maggior parte della ricerca psicolin-guistica ignora questo problema: la parola viene considerata un'unità fondamentale del sistema linguistico, e una serie di studi ha cercato di mettere in rilievo i processi che portano al riconoscimento e alla produzione delle parole. Le questioni studiate riguardano da una parte la struttura e l'organizzazione delle parole nella nostra mente, dall'altra i processi attraverso i quali si arriva a identificare una paro-la, e si ricercano nella memoria tutte le informazioni relative alla pa-rola stessa. Il primo tipo di problemi riguarda quindi essenzialmente l'organizzazione e la struttura del cosiddetto «lessico mentale», consi-derato con una semplice metafora come un magazzino contenente delle rappresentazioni mentali corrispondenti alle parole di un lin-guaggio, mentre il secondo tipo di problemi riguarda i processi attra-verso i quali il sistema di riconoscimento arriva a mettere in collega-mento il materiale stimolo in entrata, ad esempio l'insieme di segni grafici che formano una parola scritta, o la sequenza di suoni che costituiscono una parola parlata, con le appropriate unità nel lessico mentale.

Se da una parte riconoscere una parola parlata o una parola scritta richiede l'attivazione di differenti meccanismi e processi psico-logici, molti dei fenomeni che caratterizzano i processi di riconosci -mento delle parole nelle due modalità, visiva o acustica, sono gli stessi o sono molto simili. Ci sono alcune proprietà del riconosci -mento di parole scritte che sono particolarmente evidenti. Ad esem-pio, ci sono poche capacità nelle quali il sistema percettivo dell'uomo

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funziona in modo così rapido, accurato e automatico come quella che sta alla base del riconoscimento di parole scritte nell'adulto alfa-betizzato. Una volta che l'occhio ha incontrato un segno grafico rap-presentante la parola, immediatamente e senza fatica la parola è rico-nosciuta: sappiamo come si pronuncia la parola, qual è il suo signifi -cato, a quale categoria grammaticale essa appartiene, e così via.

E opportuno accennare brevemente ad alcuni dei procedimenti usati più frequentemente nella ricerca psicolinguistica in questo settore. Uno dei metodi «classici» consiste nella determinazione della soglia di riconoscimento delle parole. Questa è data dalla durata minima della presentazione necessaria per l'identificazione corretta della parola. Questa varia da parola a parola e, come vedremo, è più bassa per parole più frequenti rispetto a parole meno frequenti. Un secondo metodo consiste nella denominazione: si presenta una parola su uno schermo, chiedendo al soggetto della prova semplicemente di leggere ad alta voce la parola il più presto possibile a partire dal momento della presentazione. Di solito si misura il tempo che inter-corre tra l'apparizione della parola sullo schermo e il momento in cui il soggetto inizia a pronunciare la parola. Un terzo compito è la co-siddetta decisione lessicale, in cui il soggetto deve decidere, di solito il più rapidamente possibile, se una stringa di lettere (in alcuni esperi -menti con parole presentate uditivamente, una sequenza di suoni lin -guistici) è una parola del linguaggio oppure no. Il materiale in una prova di decisione lessicale consiste quindi in parole del lessico, co-me SEDIA, oppure stringhe di lettere che non sono parole del lessico, come BEDIA o BSDIA, cioè una stringa che potrebbe essere una paro-la, e che viene talvolta chiamata nonparola legale, e una stringa che non segue le regole ortografiche e fonologiche dell'italiano, e che vie-ne talora chiamata nonparola non legale. Nel caso di SEDIA, il sog-getto dovrebbe rispondere «sì», decidendo che si tratta di una parola del lessico, oppure «no», come negli altri due casi esemplificati. Altre tecniche di ricerca nel riconoscimento di parole consistono nel richiedere la detezione o monitoraggio di una lettera o di un fonema all'interno di una parola o di una stringa di lettere, o di scoprire se la parola o stringa di lettere fa rima con una determinata parola (ad esempio, fa PANE rima con CANE?), oppure se la parola appartiene a una certa categoria lessicale-semantica (ad esempio, SEDIA fa parte della categoria di «oggetti di arredamento»?), e così via.

Un paradigma usato frequentemente nella ricerca sul riconosci-mento di parole, e che coinvolge lo studio dell'influenza del contesto nel riconoscimento stesso, di cui parleremo più avanti, consiste nel presentare una parola o una stringa di lettere «bersaglio» per un compito di denominazione, oppure di decisione lessicale o di moni-toraggio, facendola accompagnare o, più spesso, precedere, da un'al-tra parola, che viene chiamata parola prime. Il paradigma viene tal-volta chiamato di priming, e di solito viene usato per vedere l'influen-za che la parola prime ha sulla parola bersaglio.

Diverse ricerche hanno messo in rilievo una serie di interessanti

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fenomeni, che caratterizzano il riconoscimento di parole in isolamento o inserite in un contesto.

a) Effetto frequenza. Uno degli effetti più stabili che si conoscanonel riconoscimento di parole è legato alla frequenza della parola nellalingua. Parole più frequenti sono riconosciute più rapidamente e piùaccuratamente di parole meno frequenti.

b) Effetto del contesto. Una parola inserita in un appropriato contesto è più facilmente riconoscibile di una parola presentata in isolamento. In molti esperimenti di psicolinguistica il contesto è ridotto alminimo, e consiste in una sola parola prime che può precedere oaccompagnare la presentazione della parola bersaglio che il soggettodell'esperimento è chiamato a riconoscere. Una parola bersaglio accompagnata da un'altra parola prime «simile» in significato, oppurenella forma o nell'ortografia, oppure inserita in un contesto frasaleappropriato, viene riconosciuta più rapidamente e più accuratamenteche una parola isolata o inserita in una serie di parole prive di legami tra loro.

e) Superiorità della parola. Le parole sembrano avere delle carat-teristiche del tutto privilegiate nel riconoscimento, rispetto ad altro materiale stimolo. Ad esempio, identificare una lettera dell'alfabeto in una stringa di lettere che costituisce una parola richiede meno tempo che effettuare la stessa operazione con una stringa di lettere priva di senso, che non costituisce una parola del lessico mentale. Riconoscere una P in TALPA è più rapido che riconoscere la stessa lettera in AATPL. Questo fenomeno è stato chiamato effetto di supe-riorità della parola [Wheeler 1970; Reicher 1969] e la spiegazione ad esso data è semplice: una stringa di lettere che è una parola del lin-guaggio viene elaborata più rapidamente di una semplice serie di let -tere in ordine casuale: una volta che la parola è stata riconosciuta, anche la lettera bersaglio è a disposizione del sistema di riconosci-mento.

Un'importante nozione, che costituisce la base di una serie di importanti teorie sul riconoscimento di parole, e permette di spiegare alcuni dei fenomeni in precedenza illustrati, è quella di attivazione. Attivazione, in un'accezione chiaramente metaforica, sta a significare che una certa quantità di energia viene messa in azione e resa dispo-nibile. Quando una parola viene presentata, in presenza di sufficien-te informazione sensoriale (ad esempio, con una sufficiente durata della presentazione, o in buone condizioni acustiche) una parte del sistema di conoscenze che costituisce il lessico mentale viene «attiva-to», e quindi la parola può essere letta o sentita e compresa. Se con-sideriamo il lessico mentale come costituito da una serie di unità, ad esempio parole, il riconoscimento di una parola avviene pertanto quando l'unità nel lessico mentale è sufficientemente attivata. Legato alla nozione di attivazione, e molto importante per una adeguata spiegazione di una serie di fenomeni, è il concetto di diffusione di attivazione, proposto da Collins e Loftus [1975] nell'ambito di una teoria sulla cosiddetta memoria semantica. Questa teoria descrive la

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memoria semantica come costituita da un insieme di unità, a due livelli, cioè unità lessicali, e corrispondenti unità semantiche o con-cettuali. Ciascuna di queste unità costituisce un nodo, e i diversi nodi sono collegati tra di loro in una rete. La memoria comprende così una rete di nodi concettuali connessi tra di loro, e una rete di unita lessicali, strettamente interfacciata alla prima e costituita da nodi les-sicali, anch'essi legati tra loro. Così, ad esempio, il nodo concettuale «cane» è connesso ai nodi concettuali «gatto», «lupo», «animale», «leone», a quello di «casa», e così via, e ciascuno di questi nodi è connesso a sua volta ad altri nodi, a formare una rete concettuale. Corrispondentemente, il modello comprende una rete di unità lessi-cali che sono i lemmi del lessico: un lemma comprende la parola e l'informazione relativa alla sua forma fonologica e ortografica, la clas-se grammaticale e informazioni relative al genere e al numero. Quan-do uno di questi nodi, ad esempio un nodo concettuale, viene attivato, una certa quantità di attivazione viene «passata» ai nodi ad esso collegati, attraverso le connessioni della rete.

2.4. Modelli del riconoscimento di parole

A spiegare i processi del riconoscimento di parole sono stati pro-posti diversi modelli. Una distinzione fondamentale tra i diversi tipi di modelli riguarda il modo in cui avviene la ricerca della parola nel lessico mentale. Possiamo così distinguere modelli ad attivazione e mo-delli a ricerca. I primi sono caratterizzati dalla nozione di attivazione sopra illustrata: quando sufficiente informazione sensoriale è presen-te, una particolare unità viene attivata nel lessico mentale. I secondi modelli invece sono caratterizzati dalla nozione di un processo di ri -cerca in un insieme di dati, in modo simile a quello che avviene quando si cerca una parola in un dizionario.

// modello del logogeno di Morton

II prototipo dei modelli ad attivazione è il modello del logogeno di Morton [1969], che ha influenzato più di ogni altro il modo di studiare il problema del riconoscimento di parole. Si introduce qui brevemente il modello nella sua prima forma: esso è stato infatti suc-cessivamente più volte modificato in molti aspetti.

Un logogeno è un'unità nel lessico mentale, che corrisponde a una parola. Esso risponde a informazione visiva, uditiva e semantica, ed è caratterizzato da una soglia di riconoscimento, cioè da un livello al di sotto del quale il logogeno non risponde, e al di sopra del quale esso risponde. Ogni logogeno «raccoglie» informazione, e quando l'informazione raccolta è sufficiente a raggiungere la soglia, esso ri-sponde automaticamente. Il principio che regola l'operazione del lo -gogeno è quindi l'attivazione. Nello schema della figura 6.1 si distin-guono le unità di ingresso e un'unità di uscita. Il logogeno è collega-

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Input uditivo Input visivo

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Risposta FIG. 6.1. Uno

schema del modello del logogeno [Morton 1969; 1970].

to con il sistema semantico o cognitivo e da esso può venire attivato. Ogni logogeno può quindi venire attivato sia da informazione stimo-lo (per esempio, una parola su un foglio di carta) oppure da infor -mazione concettuale, o da tutte due.

In che modo riesce il modello del logogeno a rendere conto dei più importanti fenomeni messi in evidenza in precedenza? Soglie di parole più frequenti sono più basse, e quindi basta meno informa-zione sensoriale per rispondere. Una parola più frequente viene rico-nosciuta più rapidamente, perché basta «meno» informazione per raggiungere la soglia del logogeno corrispondente. Quanto agli effetti del contesto, l'informazione contestuale «preattiverebbe» il logogeno della parola bersaglio, attraverso il meccanismo della diffusione di at-tivazione. Così, presentando la parola CANE viene attivato il logoge-no corrispondente, ma nel tempo stesso un po' di attivazione viene trasmessa lungo le connessioni della rete ad altri logogeni «contigui», come ad esempio quello di gatto, o di animale, che in tal modo ri-chiedono meno informazione per rispondere.

Il modello a ricerca attiva di Forster

II modello di Forster [1976] costituisce il prototipo dei modelli a ricerca. Nel modello le diverse parole con la relativa informazione sono immagazzinate in un immenso archivio. Il problema da risolve-re è come ritrovare una determinata parola in questo grande archi-vio. Ogni parola ha un suo «indirizzo», ma la ricerca attraverso que-

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Ortografico I onolo^u Sintattico/Semantico

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Archivi periferici

FIG. 6.2. Il modello del riconoscimento di parole di Forster.

sti diversi indirizzi risulterebbe molto laboriosa e lunga. Questo com-pito risulta semplificato se il sistema di riconoscimento può disporre di una serie di archivi minori di piccole dimensioni e di facile acces-so, in cui le diverse unità sono caratterizzate da un indirizzo che corrisponde a quello con cui le stesse unità sono identificate nell'ar -chivio centrale. Il lessico mentale è costituito quindi da un archivio generale, o master file. L'accesso a questo archivio generale viene at-tuato attraverso una serie di archivi di accesso. In questi archivi perife-rici le parole singole sono immagazzinate come coppie di codici di accesso e di «indicatori» verso l'indirizzo dell'unità lessicale nel lessico mentale. Gli archivi periferici sono costituiti da un certo numero di bins, che raggruppano parole di una certa somiglianzà (ad esempio, le parole che iniziano con una certa lettera o un certo suono, oppure parole corrispondenti a un certo dominio semantico, come ad esempio tutte le parole che si riferiscono a vegetali). All'interno dei singoli bins le parole sono ordinate in base alla frequenza.

Il modello di Forster spiega l'effetto frequenza nel modo seguen-te. Le unità sono organizzate dentro i bins in ordine di frequenza, quindi il processo di ricerca di una parola inizia sempre a partire da quella che in un certo ambito è la più frequente, e di conseguenza il tempo di accesso risulta minore. Per quanto riguarda gli effetti del contesto, nel master file esistono connessioni tra parole fortemente as-sociate. Quando una parola viene presentata, le parole collegate sono «preattivate» e quindi possono combinarsi a formare un altro bin in

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uno dei file di accesso. Questo bìn è di dimensioni ridotte e viene quindi esplorato più rapidamente.

Il riconoscimento di parole nel linguaggio parlato

I due modelli presentati in precedenza sono stati sviluppati con particolare riferimento alle parole scritte, ma riguardano sia le parole scritte che quelle presentate acusticamente. Nel logogeno, due diversi tipi di unità di ingresso si occupano rispettivamente delle parole scritte0 di quelle parlate. Alcuni modelli riguardano invece specificamente ilriconoscimento delle parole presentate acusticamente. Uno dei modellipiù interessanti in proposito è quello della coorte di Marslen-Wilson[Marslen-Wilson e Tyler 1980; Marslen-Wilson e Welsh 1978]. Secondo il modello, quando una parola viene presentata, si attivano immediatamente tutte le parole che iniziano con lo stesso segmento acustico.1 primi 2 o 300 ms di segnale sono già sufficienti ad attivare tutte leparole che sono coerenti con il segnale acustico in entrata. Immaginiamo che la parola presentata sia, ad esempio, CAPITANO. Inizialmente,non appena la prima sillaba CA è stata presentata, si attivano tutte leparole che cominciano per CA, quindi, ad esempio, «capitolo», «cappello», «castoro», «cane», ecc. Queste parole costituiscono una coortedi candidati al riconoscimento. Man mano che una nuova informazione acustica viene presentata, vengono lasciati cadere fuori dalla coorte icandidati che non corrispondono più all'informazione stimolo, quindial momento in cui il segnale stimolo è arrivato a /cap/, candidati come«cane» e «castoro» non sono più attivati, mentre continuano ad essereattivate parole come «capitano», «capitale», «cappello», ecc. Ad uncerto punto solo un unico candidato resta valido, e a questo punto laparola viene riconosciuta. Il modello postula quindi un processo diriconoscimento continuo, millisecondo dopo millisecondo, con un'attivazione iniziale di molti candidati che progressivamente, alla luce dellanuova informazione acustica, vengono «selezionati» fino a lasciare ununico candidato al riconoscimento. Il modello è stato successivamentemodificato, con una diminuzione dell'importanza del contesto semantico nel processo di riconoscimento, e dando possibilità alla frequenzadelle parole di influenzare il riconoscimento.

2.5. Accesso di parole lessicalmente ambigue

Molte parole del nostro lessico hanno diversi sensi o più significati. In alcuni casi si tratta di variazioni di senso dello stesso significato «centrale», in altri casi si tratta di significati completamente diversi, come, ad esempio, per il lemma VITE, che può indicare una pianta oppure un pezzo di metallo usato in carpenteria. I lessicografi oppor-tunamente distinguono casi di polisemia da casi di omografia o omoni-mia. Gli psicologi parlano quasi sempre solo di ambiguità lessicale. Dal

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punto di vista psicolinguistico si pone un interessante problema, e cioè se durante il riconoscimento di una parola ambigua vengono attivati tutti i due (o più) significati, o soltanto quello che viene indicato dal contesto. Se, per esempio, si legge la frase «II contadino pota la vite», ci si può chiedere se nel momento in cui viene riconosciuta la parola VITE vengono «in mente» tutti due i significati della parola o solo quello di «pianta che produce l'uva». Le posizioni sulla questione sono fondamentalmente solo due, e cioè se a) sono tutti due i significati a venire attivati, oppure b) solo quello favorito dal contesto. E poiché questo certamente in qualche momento agisce, perché la comprensione di frasi come «II contadino pota la vite» di solito non presenta alcuna difficoltà, e la frase stessa viene compresa correttamente, una seconda questione riguarda il momento e il modo dell'effetto del contesto. Nel primo caso si ha accesso multiplo, nel secondo accesso selettivo. Secondo la prima alternativa il contesto agisce dopo il riconoscimento della parola, mentre secondo l'altra alternativa esso agirebbe prima.

Per quanto riguarda il riconoscimento di una parola ambigua presentata in isolamento, anche se si tratta di un evento ecologica -mente poco frequente, la letteratura offre dati a favore di tutte due le ipotesi. Dati a favore dell'ipotesi dell'accesso singolo sono stati ot-tenuti da Schwaneveldt, Meyer e Becker [1976], mentre i risultati di Warren et al. [1978] consentono di sostenere l'ipotesi di accesso multiplo. Dati recenti, in ogni caso, sembrano indicare che, in assen-za di contesto, o con contesto del tutto neutro, prevarrebbe il signifi-cato dominante, cioè il più frequente.

Cosa succede invece quando la parola lessicalmente ambigua vie-ne presentata in un contesto frasale? Se il contesto agisce prima del riconoscimento (effetto prelessicale) si ha un accesso selettivo, cioè solo il significato contestualmente favorito viene attivato. Se invece il contesto agisce dopo (effetto postlessicale), si ha accesso esaustivo, e tutti i significati della parola ambigua vengono inizialmente attivati, e il contesto consente di selezionare quello appropriato. Diversi studi hanno cercato di fornire dati a favore dell'una o dell'altra ipotesi. Inizialmente alcuni dati sembravano favorire l'ipotesi di un effetto prelessicale del contesto, secondo la quale verrebbe attivato soltanto il significato contestualmente favorito. Successivamente alcuni esperi-menti particolarmente eleganti hanno portato dati a sostegno dell'ipo-tesi di un accesso esaustivo del significato della parola ambigua, con un'attivazione iniziale di tutti due i significati della parola, e successi-vamente la selezione del significato contestualmente appropriato. La conclusione è quindi che nel momento in cui una parola ambigua viene presentata si attivano tutti due i significati, e il contesto consen te poi la selezione di uno dei due significati, quello contestualmente appropriato. Tuttavia già solo pochi istanti dopo rispetto al momento della presentazione della parola ambigua risulterebbe attivo solo uno dei due significati, e cioè quello contestualmente favorito.

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LINGUAGGIO 361

2.6. La comprensione di frasi

La comprensione di una frase della lingua rappresenta uno dei momenti particolarmente importanti nella comprensione del linguag-gio, ed è quindi naturale che essa sia stata studiata con particolare interesse e che abbia attirato l'attenzione di un gran numero di lavo-ri. Gli studi sulla comprensione di frasi caratterizzano la nascita della psicolinguistica del cognitivismo, legata ad un interesse centrale per la sintassi. La domanda che si pongono i primi psicolinguisti post-behavioristi, George Miller e i suoi collaboratori, all'inizio degli anni sessanta [ad esempio, Mehler 1963; Miller 1962] riguarda infatti il modo in cui vengono comprese le frasi di una lingua. La ricerca psi-colinguistica di questo periodo cerca di verificare la «realtà psicologi-ca» di costrutti linguistici, siano questi i costituenti di frase prodotti dalla componente generativa della grammatica, o le regole di trasfor-mazione linguistica. Se queste regole fanno parte della competenza linguistica di un parlante, esse dovrebbero avere qualche correlato comportamentale in un compito adeguato.

Gli esperimenti più importanti di questo periodo sono ormai «classici». I dati più interessanti a favore dell'ipotesi della realtà psi-cologica dei costituenti provengono da esperimenti sulla memoria di frasi di Johnson [1965] e dagli ancora più noti esperimenti con i «clic» di Fodor, Bever e Garrett [1974]. Questi consistevano nel presentare delle frasi attraverso una cuffia, sovrapponendo a un certo punto della frase un «clic», cioè un brevissimo segnale acustico, che gli ascoltatori dovevano localizzare nelle frasi che ascoltavano. I clic erano obiettivamente situati poco prima, in corrispondenza di, o su-bito dopo gli intervalli tra due importanti costituenti immediati delle frasi. Consideriamo, ad esempio, la frase «Che egli fosse contento era evidente dal modo in cui sorrideva». In corrispondenza dell'in-tervallo tra «contento» e «era evidente», oppure un poco prima (ad esempio, alla fine della parola «fosse», oppure in corrispondenza della prima sillaba di «contento») o poco dopo (ad esempio, dopo «era»), veniva sovraimposto alla frase il clic. I risultati hanno mostrato che, indipendentemente dalla posizione obiettiva, i soggetti tendevano a localizzare soggettivamente i clic nell'intervallo tra i due maggiori costituenti della frase, che sono a) «che egli fosse contento» e b) «era evidente ...». Si è molto discusso se l'effetto era percettivo o dovuto ad aspettative o suggestione (nei primi esperimenti i soggetti dovevano scrivere le frasi dopo averle sentite, e indicare poi sulle frasi stesse il luogo dove avevano sentito i clic), e sono stati condotti iversi controlli sugli esperimenti. In uno di questi esperimenti di controllo [Holmes e Forster 1970], i soggetti dovevano localizzare i clic rispondendo nel modo più rapido possibile premendo un botto -ne non appena avevano sentito il rumore sovrapposto alla frase. Sembra che la localizzazione percettiva del clic non sia soltanto un effetto di aspettativa, ma sia un fatto percettivo genuino. Nonostante alcune differenze tra i risultati, si può quindi dire che l'effetto di

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362 LINGUAGGIO

I trasposizione percettiva del clic esiste, ed esso viene interpretato co-me capace di sostenere l'ipotesi di una realtà psicologica dei costi-tuenti: quando una persona sente una frase, tenderebbe a organiz -zarla percettivamente in unità che corrispondono a dei costituenti così come vengono descritti dalla grammatica generativa.

Ancora più noti sono gli esperimenti sulla realtà psicologica delle trasformazioni linguistiche. Si tratta di lavori volti a verificare quella che è stata poi chiamata la teoria della complessità derivazionale, se-condo la quale quanto maggiore è la complessità linguistica di una frase, espressa attraverso il numero di trasformazioni linguistiche che sono state necessarie per ottenere la struttura superficiale definitiva della frase stessa - ad esempio, la frase nella forma passiva, o nella forma interrogativa negativa - tanto più complessa sarà la frase stes-sa anche dal punto di vista psicologico. A maggior numero di tra-sformazioni corrisponderebbe quindi un maggior numero di opera-zioni mentali necessarie per arrivare alla comprensione della frase. Più specificamente, l'ipotesi prevede, durante la comprensione, una «decomposizione» della frase nelle trasformazioni eseguite per otte-nerla, fino a ricavare la struttura profonda della frase stessa. Alcuni esperimenti [ad esempio, Mehler 1963] hanno cercato di mettere in relazione il numero delle trasformazioni linguistiche con altrettante unità della memoria necessaria per immagazzinare la frase stessa.

L'ipotesi è stata sottoposta a verifica, tra gli altri studi, in un elegante e ormai classico esperimento di Savin e Perchonock [1965]. L'idea che sta alla base di questo esperimento è che le frasi, per essere comprese e memorizzate, debbono venire scomposte nelle tra-sformazioni linguistiche che sono necessarie per produrle. Quando, ad esempio, una persona sente una frase negativa, questa verrà ana-lizzata ottenendo la struttura profonda della frase, più un'indicazione che la frase era negativa - cioè che era stata applicata la trasforma -zione negativa -, più un'indicazione relativa alla trasformazione ne-cessaria per ottenere la struttura superficiale della frase. Ognuna di queste singole unità di informazione occupa memoria, quindi una frase negativa richiederà più capacità nella memoria rispetto ad una frase affermativa, e a sua volta una frase interrogativa negativa richie-derà più capacità di una frase negativa, e così via. Savin e Percho-nock presentarono a dei soggetti una serie di frasi di diversi tipi sin -tattici (affermative, negative, passive, interrogative, passive negative, e così via). Dopo ogni frase veniva presentata una serie di parole, che il soggetto doveva tentare di memorizzare. La previsione era che il numero di parole che il soggetto avrebbe dovuto ricordare dopo la frase era legato alla complessità trasformazionale della frase stessa; quanto più complessa era la frase dal punto di vista trasformaziona-le, cioè tante più unità di memoria venivano richieste per immagazzi-

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nare la frase stessa, tanto meno «spazio» sarebbe rimasto disponibile nella memoria stessa per immagazzinare le parole che seguivano la frase. Il numero di parole ricordate dai soggetti, una volta che una frase veniva ricordata correttamente, poteva quindi servire da indica-

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tore della quantità di spazio utilizzato dalla frase nella memoria: quante meno parole venivano ricordate dopo la frase, tanto più spa -zio si poteva assumere come occupato dalla frase stessa. Al termine di una serie di queste presentazioni - ciascun item era dato da una frase seguita da una serie di singole parole - si chiedeva al soggetto di ricordare la frase, e si contava il numero di parole che venivano ricordate, una volta che il soggetto aveva riportato esattamente la frase. I risultati furono conformi alle previsioni: quanto più complesse erano le frasi dal punto di vista trasformazionale, tanto meno parole singole venivano ricordate dai soggetti.

Questi risultati, come quelli di tanti altri esperimenti condotti con lo stesso tipo di logica, furono immediatamente interpretati co-me capaci di sostenere l'ipotesi della decomposizione trasformaziona-le: quanto più complessa è una frase dal punto di vista trasformazio-nale, tanto più difficile essa è anche da capire e da memorizzare. Un esame più accurato del materiale usato ha messo successivamente in rilievo che importanti variabili, come la lunghezza della frase, cova-riavano con la complessità trasformazionale; una frase negativa non è soltanto trasformazionalmente più complessa della corrispondente frase dichiarativa attiva, ma è anche più lunga della stessa, e la quan -tità di materiale in più nella memoria dovrebbe influenzare la capacità residua per le singole parole. Alcuni esperimenti [ad esempio, Fo-dor, Bever e Garrett 1974] hanno in seguito fornito dati che erano esattamente il contrario di quanto previsto sulla base dell'ipotesi della complessità derivazionale: frasi più semplici dal punto di vista della grammatica risultavano più complesse dal punto di vista psicologico, e viceversa, frasi più complesse dal punto di vista trasformazionale risultavano più semplici psicologicamente. Questi risultati hanno posto definitivamente in crisi l'ipotesi, che è stata così abbandonata. Tuttavia i risultati sperimentali sono stati molto importanti, nel senso che hanno messo in evidenza la centralità dell'elaborazione sintattica durante la comprensione linguistica.

Il modello implicito nella maggior parte dei lavori di questo pe-riodo è tipicamente seriale, con l'analisi sintattica costituente il mo-mento essenziale della comprensione di una frase. In alternativa ai modelli stessi (e per tenere conto dei problemi emersi da molti espe-rimenti) nascono, a partire dagli anni settanta, modelli caratterizzati dall'elaborazione in parallelo a diversi livelli, e dall'interazione tra i livelli stessi. Si tratta di una tendenza in tutti i settori della psicologia cognitivista degli anni settanta, stimolata in parte dall'idea dei livelli di elaborazione proposta da Craik e Lockhart [1972], secondo la quale l'informazione stimolo in entrata viene elaborata simultanea-mente in vari modi e a diverse profondità, cioè a diversi livelli di elaborazione, che possono corrispondere a diverse componenti del sistema di comprensione. In questo periodo si cominciano ad esami-nare gli effetti dell'interazione della componente sintattica con le al -tre componenti del sistema di comprensione linguistico, in particola -re quello semantico, e anche quello pragmatico.

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364 LINGUAGGIO III concetto di interazione va inteso in due modi, del resto perfet-

tamente compatibili e complementari l'uno con l'altro. Il primo si riferisce all'interazione tra informazione sensoriale e informazione concettuale. Il riconoscimento di un oggetto, di una parola, la com-prensione di una frase, richiedono il «contatto» tra l'informazione sensoriale e quella concettuale. Il punto in cui i diversi modelli psi -cologici, nel nostro caso i modelli psicolinguistici, differiscono, riguar-da la misura e il punto in cui queste due sorgenti di informazione interagiscono: in un modello che privilegia l'influenza dell'informa-zione concettuale nel riconoscimento di una lettera, per esempio, ba-sterà un minimo di informazione sensoriale per arrivare al riconosci-mento della lettera stessa, mentre, viceversa, in un modello bottoni up, sarà l'informazione sensoriale, da sola o con pochissimo contribu-to «dall'alto», a seguire i processi che portano al contatto dell'infor -mazione stessa con quella immagazzinata in memoria, necessaria per ottenere il «riconoscimento». La seconda nozione di interazione si riferisce all'azione reciproca di diversi livelli o componenti il processo di comprensione, ad esempio tra il livello di elaborazione sintattica e quello della comprensione semantica.

Uno dei modelli interattivi più espliciti è quello di Marslen-Wil-son [1973; 1975] e Marslen-Wilson e Tyler [1980]. Secondo questo modello l'ascoltatore cerca di costruire un'interpretazione della frase che sta ascoltando nel modo più rapido possibile, usando ogni sor-gente di informazione, fonologica, sintattica e semantica, sia essa in-formazione sensoriale o concettuale. L'informazione ad ogni livello guida e influisce sull'uso dei dati ad altri livelli di elaborazione. In uno degli esperimenti di Marslen-Wilson [1973] i soggetti dovevano «inseguire» delle frasi presentate in cuffia, ripetendo quanto sentiva-no con il minor ritardo e la maggior precisione possibile. Si tratta del compito di shadowing, che consiste appunto nel ripetere le frasi man mano che esse vengono presentate. Dopo un po' di esercizio i soggetti di un esperimento di questo tipo sono in grado di eseguire il compito piuttosto bene, e la pronuncia delle parole della frase da «seguire» viene ad assumere ritardi molto brevi. Alcuni soggetti par-ticolarmente capaci riescono a seguire la frase con un ritardo di solo 300 o 250 ms, cioè un ritardo corrispondente all'incirca alla durata del tempo necessario per pronunciare una sillaba. Questo significa che in molti casi, almeno per quasi tutte le parole polisillabiche, que-sti soggetti sono in grado di cominciare a emettere una determinata parola ancora prima di averla finita di sentire! In uno degli esperi -menti, i soggetti dovevano «inseguire» frasi che contenevano una pa-rola critica ai fini dell'esperimento. Le parole critiche potevano essere appropriate al contesto, o semanticamente anomale, o sintàtticamente e semanticamente appropriate. In ciascuno di questi tre contesti, la parola critica, che era sempre una parola trisillabica, poteva essere presentata normalmente o contenere una violazione che consisteva nel cambiare la prima, la seconda o la terza sillaba, ottenendo così una «non-parola». Per esempio, la parola «company» era cam-

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LINGUAGGIO 365

biata in «comsiny». I soggetti che ripètevano le frasi molto spesso producevano degli errori, «restaurando» la parola sbagliata (e quindi al posto di «comsiny» i soggetti ripetevano «company»). Questi er-rori di restauro venivano tuttavia commessi solo quando la prima sil -laba della parola era rimasta intatta, e quando il contesto era con-gruente con la parola restaurata. In generale, i soggetti tendevano a sostituire nella ripetizione della frase la parola priva di senso o la parola contestualmente non adatta con una parola adatta, e in secon-do luogo si servivano della prima sillaba della non-parola o della pa-rola non adatta per fabbricare una parola contestualmente adeguata (ad esempio, come abbiamo visto, «comsiny» veniva ripetuta come «company»), che rappresentava una parola appropriata al contesto della frase. Le conclusioni sono chiare. In primo luogo i soggetti usa-vano l'informazione semantica e sintattica data dal contesto per «re-staurare» il segnale nel punto in cui veniva presentato materiale non adatto. In secondo luogo l'informazione stimolo in entrata non veniva ignorata in questo lavoro di restauro, ma veniva usata, in interazione con l'informazione contestuale, per produrre una frase sintatticamente e semanticamente corretta e coerente. Dati di questo tipo possono venire interpretati a sostegno di una posizione interattiva del processo di comprensione di una frase. L'ascoltatore costruirebbe fin dall'inizio della presentazione di una frase, servendosi del materiale in entrata, una struttura con una interpretazione sintattica e semantica. Tale struttura viene continuamente adattata ed eventualmente modificata sulla base di un'interazione tra il materiale sensoriale in entrata e i diversi livelli di conoscenza sintattica e semantica che l'ascoltatore usa continuamente durante il processo di comprensione.

Che il contesto e la conoscenza della realtà influenzino la perce -zione e la comprensione di frasi è un fatto ripetutamente provato. Quello che rimane da mettere in luce è il momento in cui il contesto o l'informazione top down agisce. Se esso agisce nel momento stesso in cui la frase viene interpretata, si deve accettare una posizione strettamente interazionistica. Se invece si può dimostrare che il con-testo agisce «dopo» che il sistema di riconoscimento ha già effettuato un'analisi della struttura della frase, allora si può sostenere che cia -scuna componente agisce in maniera autonoma, e che i risultati di una componente vengono «passati» all'altra, una posizione che è es-senzialmente quella della «modularità» dell'elaborazione linguistica.

2.7. Principi di analisi della frase

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto due approcci alla com-prensione delle frasi. Il primo, che ha caratterizzato la prima psico-linguistica del cognitivismo, strettamente influenzato dalla linguistica generativo-trasformazionale, vede il processo di comprensione e di memorizzazione di frasi come il prodotto dell'uso di regole gramma-

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366 LINGUAGGIO

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ticali così come esse sono descritte nella grammatica stessa. Abbiamo messo in evidenza come questo interessante punto di vista non è stato più sostenibile alla luce di una serie di dati empirici.

Abbiamo brevemente discusso un punto di vista che ha goduto molta popolarità negli anni settanta, e che ancora pervade il recen te approccio del connessionismo, cioè il punto di vista interattivo, che ha avuto in ogni caso il merito di mettere in luce come la comprensione di una frase è, alla fine, il prodotto di una serie di contributi da parte di diverse sorgenti di conoscenza, che agiscono sul materiale in entrata influenzandosi l'una con l'altra. In questo paragrafo cercheremo di chiarire, alla luce di una serie di recenti dati della ricerca psicolinguistica, in che modo il sistema di comprensione del linguaggio arriva alla comprensione di una frase. Comprendere una frase significa effettuare un'analisi sintattica della frase stessa. Prima di esaminare la questione, è opportuno chiedersi se il sistema di comprensione del linguaggio ha bisogno di analizzare il materiale in entrata dal punto di vista sintattico. Se il sistema di produzione del linguaggio deve probabilmente possedere in qualche forma una serie di conoscenze relative alla sintassi del linguaggio, è necessario anche per il sistema di comprensione possedere e applicare lo stesso tipo di conoscenze? Quanta elaborazione sintattica è necessaria per comprendere un testo o un pezzo di discorso? In fondo, tutto quello che ci importa è di comprendere che cosa c'è nel discorso, e quasi sempre la forma del discorso e del testo stesso è abbastanza irrile -vante. È quindi necessario effettuare un'esplicita elaborazione sintat -tica del messaggio o del testo in entrata? Questa domanda è molto importante per decidere sulla validità di una teoria della comprensio-ne linguistica. Ci sono vari modelli interessanti di comprensione di testi e del discorso, ed efficienti programmi di comprensione, che operano con pochissima sintassi, o che addirittura sostengono di ar -rivare alla comprensione del testo senza alcuna sintassi. Un esempio tipico di questo punto di vista è dato dal modello di Wilks [1978], che procede trasformando direttamente il materiale in entrata in strutture semantiche, senza bisogno di un componente sintattico se-parato. Si noti come Wilks non sostiene che l'informazione sintattica non viene usata nell'analisi, quanto invece che questa informazione può essere espressa in termini semantici, e che non è necessario po-stulare l'esistenza di moduli sintattici separati. Nella forma più radi-cale di questo punto di vista gli elementi in entrata vengono proiet-tati direttamente in rappresentazioni di unità mentali e in una serie di ruoli tematici. Questi modelli fanno uso di alcune parole chiave, e di solito sono caratterizzati da una notevole conoscenza enciclopedi-ca, ma non richiedono alcun uso esplicito dell'informazione sintatti-ca. Un esempio tipico è il modello FRUMP di De Jong [1979; 1982] che funziona estraendo alcune unità lessicali (nomi e verbi) che ven-gono collegate tra loro facendo un uso molto esteso di conoscenze enciclopediche. Il sistema ha una conoscenza precisa di un certo do-minio della realtà, come ad esempio i terremoti, le loro conseguenze

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e le loro proprietà. Estraendo, per esempio, da un articolo di giorna-le che descrive gli effetti di un terremoto in California, poche parole chiave come «scossa», «vittime», «distruggere», ecc, il sistema è ca-pace di dare un'interpretazione del testo stesso. FRUMP è in grado di fornire parafrasi abbastanza precise e adeguate di testi in domini di cui il sistema possiede sufficienti conoscenze. Effettuare una buona parafrasi di un testo può essere preso ragionevolmente come un'indi-cazione che il sistema è riuscito a «capire» il significato del testo stesso. E che si possa raggiungere una discreta comprensione di un testo o di un libro senza analizzare tutto il materiale, è del resto facile da constatare dall'esame superficiale del comportamento del ti -pico lettore di un giornale durante la prima colazione. Anche se è possibile comprendere un testo facendo uso della conoscenza della realtà ed estraendo poche unità lessicali dal testo stesso, postulando poi alcune relazioni capaci di rappresentare il significato del testo, esistono nella ricerca psicolinguistica molti dati che ci consentono di concludere che il materiale linguistico in entrata, sia esso presentato uditivamente, che nella forma di un testo scritto, viene in ogni caso sottoposto ad analisi sintattica. 1 risultati di alcuni esperimenti [ad esempio, Flores d'Arcais 1982] ci consentono di concludere che l'in-formazione sintattica è sempre elaborata, anche quando il lettore non ne fa un uso esplicito ai fini della comprensione, cioè il materiale linguistico viene comunque sottoposto ad analisi sintattica, anche se il sistema di riconoscimento è in grado di comprendere la frase attra -verso procedure di tipo non sintattico, come quelle che caratterizza -no i modelli di comprensione cui si è accennato poco sopra.

Quale meccanismo, quindi, elabora l'aspetto sintattico di una fra-se? Il meccanismo responsabile di questa analisi è Xanalizzatore sintat-tico o parser. La forma e il modo di funzionare del meccanismo di analisi sintattica sono legati ai principi che l'analizzatore usa, e al ri -sultato del prodotto dell'analisi. Questo può consistere in una esplicita struttura sintattica, o in una rappresentazione astratta della propo-sizione, oppure in una rappresentazione della struttura della frase con i relativi ruoli tematici. Anche i mezzi per ottenere questo scopo variano. Un parser può funzionare in modo algoritmico, usando in modo sistematico ed esplicito il sistema di regole di una certa lingua, oppure può lavorare sulla base di euristiche. Molti degli analizzatori sintattici di maggior interesse dal punto di vista psicolinguistico fun-zionano sulla base di strategie o euristiche che guidano l'analisi nelle scelte e nella decisione sul tipo di struttura da attribuire agli elementi in entrata.

Nell'ambito della psicolinguistica, della linguistica e dell'intelli-genza artificiale, sono stati proposti diversi tipi di strategie, alcune molto specifiche, altre molto generali. In psicolinguistica il primo a proporre l'idea che la comprensione di frasi è ottenuta attraverso l'u -so di strategie è stato Bever [1970], Un esempio di cosa si intende per strategie può essere dato da un esempio relativo al modo in cui bambini di 4 anni interpretano frasi attive e frasi passive. Se si pre-

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senta a un bambino di 4 anni una serie di frasi e si chiede al bambi-no di «eseguire» la frase usando degli animali giocattolo posti davan-ti al bambino stesso, il bambino eseguirà la stessa azione per rappre-sentare la frase «La mucca carezza il cavallo» e «La mucca è accarez-zata dal cavallo»: in tutti due i casi il bambino prende in mano la mucca e fa eseguire al giocattolo l'azione di accarezzare il cavallino posto sul tavolo o tenuto fermo nell'altra mano [Morrisset, in Bever 1970], Che cosa ha fatto in questi casi il bambino? Non ha utilizzato l'informazione sintattica presente nelle frasi, ma si è basato su una semplice strategia che consiste nell'attribuire al primo nome il ruolo di agente, e al secondo nome il ruolo del ricevente l'azione specifica-ta dal verbo. In tutti due i casi, quindi, l'ordine delle parole è stato il solo determinante della rappresentazione di significato prodotta dal bambino, che sta alla base dell'azione eseguita. Servendosi di questo tipo di strategie, l'ascoltatore o il lettore possono segmentare e orga-nizzare il materiale in entrata a diversi livelli. Un esempio delle stra-tegie proposte nella letteratura psicolinguistica è il seguente:

L6] Quando incontri un articolo, comincia a costruire un nuovo sintagma [Clark e Clark 19771.

L'applicazione di una siffatta strategia è caratterizzata dall'uso di parole funzione, preposizioni e connettivi, capaci di marcare elementi importanti in una frase, e di isolare dei sintagmi. Altre strategie sono di tipo più semantico. Sulla base di queste strategie l'analizzatore di frase estrae alcune unità lessicali che poi servono per costruire prov-visorie proposizioni costituite da relazioni semanticamente e pragma-ticamente plausibili. Le strategie usate dall'analizzatore possono finire col produrre strutture grammaticali precise, oppure rappresentazioni in cui sono messe in evidenza le diverse relazioni tra gli elementi e i diversi ruoli tematici, ma che non riportano esplicitamente i ruoli sintattici dei diversi elementi. Di particolare interesse per la psicolin-guistica sono i tentativi di produrre analizzatori sintattici il cui fun-zionamento dovrebbe avvicinarsi a quello del sistema di comprensio-ne umano, con molte delle caratteristiche del sistema stesso, ad esempio la capacità limitata della memoria di lavoro, la facilità di essere «ingannato» da una frase ambigua con la relativa necessità di ritornare sui passi già fatti, e così via. Di questi analizzatori sintattici i più interessanti dal punto di vista psicolinguistico sono forse quelli di Kimball [19731, o la «Sausage Machine» di Frazier e Fodor [1978], da cui è nato poi il modello «garden path» della Frazier stessa [1987; ctr. anche sui modelli più recenti, Ferreira e Clifton 1986; Crain e Stedmann 1985; Altmann e Stedmann 1988],

Consideriamo il modello di analisi di Kimball [1973], che com-prende sette strategie percettive. Il modello è caratterizzato da un primo stadio di analisi, in cui l'analizzatore opera da sinistra a destra assegnando ogni unità lessicale a un costituente sulla base di queste sette strategie. Quando un costituente è stato analizzato, esso viene

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mandato a un secondo livello di analisi che mette insieme i diversi elementi e produce un'ulteriore analisi sintattica. Questo avviene at-traverso l'attribuzione di categorie sintattiche ai diversi costituenti. I sette principi di Kimball guidano il primo livello di analisi nella scel-ta delle attribuzioni sintattiche. Consideriamo, per esempio, il princi -pio di «Associazione a destra»:

[7] Quando è possibile, le unità lessicali in entrata debbono essere attac-cate al livello più basso, ancora aperto, dell'indicatore sintagmatico a disposizione.

Un esempio di attribuzione grammaticale di un elemento alla struttura in costruzione sulla base del principio di associazione a de-stra è dato dalla seguente frase inglese: «John said that he phoned your mother yesterday» (John ha detto di aver telefonato a tua ma-dre ier i ) . Questa frase ha due possibili interpretazioni alternative, che corrispondono all'attribuzione dell'avverbio «yesterday» al sintag-ma «said» oppure al sintagma «your mother», con relative interpre-tazioni «phoned yesterday» oppure «said yesterday». (Nel primo ca-so linterpretazione è che «John ha telefonato ieri», nel secondo caso è che «John ha detto ieri che...».) Secondo il principio dell'associa-zione a destra linterpretazione preferita dovrebbe essere l'attribuzione di «yesterday» a «phoned your mother», ed è questa anche l'in-terpretazione preferita normalmente dai parlanti l'inglese ( normal-mente, cioè, si analizza la frase nel senso «John ha telefonato ieri»). Analogamente, si considerino le due alternative interpretazioni della frase italiana «Paolo cercava le chiavi perse da Maria»: la frase può significare che Paolo cercava le chiavi che Maria aveva perst), oppure che Paolo aveva perso le chiavi e le cercava in casa di Maria. Il principio di associazione a destra favorisce la prima interpretazione, ed è quella che la maggior parte dei parlanti l'italiano tende a sce -gliere.

Un altro principio importante per Kimball è il principio di «chiusura», secondo il quale ogni sintagma «viene chiuso al più pre-sto, compatibilmente con la grammaticalità del risultato». Principi dello stesso tipo costituiscono la base delle unità funzionali del parser di Frazier e Fodor [1978], elaborato poi ulteriormente da Frazier [1979; 1987]. Questo sistema, chiamato la «Sausage Machine», rap-presenta un altro tentativo interessante di costruire un sistema di analisi psicologicamente plausibile. Il modello funziona in due stadi. Il primo stadio è quello del Prelinnnary Phrase Package (PPP), che mette insieme unità lessicali in strutture che consistono in alcune pa -role. Queste vengono «assemblate» in una specie di «finestra» di una mezza dozzina di parole. In questa fase il PPP prende in consi-derazione i vari indicatori di una possibile struttura sintattica, come articoli, preposizioni, ecc, e funziona sulla base di principi che ven-gono più avanti descritti, come il minimeli attachment. Le unità pro-dotte a questo livello sono parti di proposizioni, sintagmi o intere

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proposizioni abbastanza brevi, ma queste unità non debbono neces-sariamente consistere in unità strutturali complete. L'integrazione di queste unità a un livello più elevato, e il controllo del risultato rag-giunto, è opera poi del Sentence Structurc Supervisor. In questo modo la comprensione di frasi avviene essenzialmente attraverso un mecca-nismo a due livelli, il primo dei quali opera sulla base di principi locali e della considerazione di relazioni sintattiche locali, mentre il secondo mette insieme queste unità e controlla la coerenza dell'insie-me. Si noti come anche da questo punto di vista l'analizzatore sintat-tico di Kimball e quello di Frazier e Fodor operano essenzialmente in modo molto simile.

1 principi londamentali di analisi sintattica della «Sausage Ma-chine», così come sono stati ulteriormente elaborati da Frazier [1987], sono due, minimeli attachment (MA) e late dosare (Le;). Consideria-mone brevemente le caratteristiche. Prendiamo le due frasi inglesi:

[81 The girl knew thè ansvver by heart.(La ragazza sapeva la risposta a memoria). 9]

The girl knew thè answer was wrong.(La ragazza sapeva che la risposta era sbagliata).

Nella prima frase il sintagma «thè answer» viene attribuito al sin-tagma nominale che domina anche il verbo «knew», mentre nella se-conda frase lo stesso sintagma viene dominato da un altro nodo. Se-condo il principio di minima! attachment il materiale in entrata viene attribuito al nodo «più basso» che è in costruzione in quel momen-to, naturalmente con la restrizione che il risultato deve consistere in una frase grammaticale del linguaggio. Secondo questo principio il sintagma «thè answer» viene attribuito al nodo che domina «knew» in tutti due i casi, cioè sia per la frase [8] che per la frase [9], come oggetto del verbo «knew». Nel primo caso l'analisi è corretta, men-tre nel secondo caso l'informazione fornita dal segmento successivo («was wrong») dimostra l'erroneità dell'analisi e richiede che l'analiz-zatore ritorni sui suoi passi e proceda a una nuova analisi.

Secondo il principio di late closure, invece, il sistema di analisi attribuisce ogni nuovo elemento lessicale in entrata al sintagma che è in elaborazione in quel momento, preferendo in tutti i casi un'asse-gnazione all'ultimo elemento precedente rispetto a quello seguente. Per esempio, consideriamo le due frasi:

[10] Since John always jogs a mile this seems like a short distance to him. (Siccome [ohn corre sempre per un miglio, questo gli sembra una distanza breve).

[11] Since John always jogs a mile seems like a short distance to him.(Siccome )ohn corre sempre, un miglio gli sembra una distanza bre-ve).

Secondo il principio di late closure il sintagma «a mile» viene at-tribuiti) a «jogs» come oggetto del verbo, e questo risulta corretto

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per la frase [10] ma non per la frase [11], che deve quindi essere rianalizzata.

I due principi MA e Le sono in effetti forme specifiche di un principio generale di analisi sintattica, secondo il quale l'analizzatore tenderebbe a operare da sinistra a destra, attribuendo ad ogni ele -mento in entrata la prima soluzione possibile. I vantaggi di questo modo di agire sono risparmio di capacità di memoria e velocità di elaborazione. Attaccare il materiale in entrata «a sinistra», secondo Le, e sul nodo più basso, sulla base di MA, non richiede molto cari-co di memoria e consente un'elaborazione efficiente.

La maggior parte delle strategie proposte in altri analizzatori sin-tattici da altri autori si può sostanzialmente ricondurre a casi specifici di mimmal attachment o di late closure. Anche di recente, e per lingue diverse dall'inglese, sono state proposte altre strategie del tut to conformi ai principi generali appena messi in evidenza. Per esempio, per la lingua italiana, De Vincenzi [1989] ha proposto una strategia, mimmal chain, che è del tutto coerente con mimmal attachment. Utilizzando queste strategie viene creata al più presto, «da sinistra a destra» una struttura sintattica, minimizzando così il carico della me-moria di lavoro e riducendo il tempo di elaborazione. In alcuni casi il sistema di comprensione linguistica si troverà ad aver effettuato un'analisi errata e dovrà quindi ricominciare l'analisi, ma questo vie -ne compensato dall'efficienza del sistema di analisi.

Una serie di studi sperimentali ha consentito di raccogliere dati a sostegno dell'ipotesi che MA e Le; rappresentano due strategie di analisi sintattica capace di spiegare il comportamento di analisi sin -tattica di parlanti l'inglese. In alcuni di questi esperimenti si è fatto uso di registrazioni dei movimenti e delle fissazioni oculari durante la lettura di frasi. In questo tipo di esperimenti, una maggior durata delle fissazioni oculari in corrispondenza di parole che costituiscono un punto di ambiguità di una frase, o delle parole immediatamente successive, oppure una regressione dell'occhio dal punto di ambigui-tà a un punto precedente della frase, vengono presi come indicazione di una maggior difficoltà di elaborazione nel punto stesso.

2.8. Processi inferenziali nella comprensione di frasi

La comprensione di una frase richiede non soltanto l'elaborazio-ne del materiale fornito dal segmento linguistico o dal testo scritto, e non è basata soltanto su una informazione contestuale, ma richiede spesso l'uso del nostro insieme di conoscenze del mondo, di infor -mazioni ricavate dal contesto, e molto spesso l'attivazione di processi inferenziali in grado di «integrare» l'informazione che non è presente nel materiale dato con la nostra conoscenza della realtà.

Interessanti contributi allo studio dei processi di inferenza nella comprensione e memoria di frasi sono stati forniti da Bransford e Franks [ad esempio, 1971] in una serie di studi.

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In uno di questi [Bransford, Barclay e Francks 1972], si presenta -va ai soggetti una lista di frasi. Una di queste frasi era, ad esempio, la seguente: «Tre tartarughe si riposavano su un pezzo di legno gal-leggiante e un pesce nuotò sotto di esso».

Successivamente veniva presentata ai soggetti una lista di frasi con la richiesta di identificare in essa le frasi che erano state presen-tate nella lista precedente. Una delle frasi nella nuova lista era la seguente: «Tre tartarughe si riposavano su un pezzo di legno galleg-giante e il pesce nuotò sotto di esse». I soggetti dell'esperimento in molti casi erano sicuri di aver sentito la frase in precedenza. Si noti che nella frase realmente presentata il pronome esso sta per pezzo di legno, mentre nella seconda esse sta per le tartarughe. Il significato della seconda frase è inferito dal significato della prima sulla base del sistema di conoscenze della realtà che include alcune semplici pro-prietà dei rapporti spaziali (se le tartarughe stanno sul pezzo di le -gno e il pesce nuota sotto di esso, passerà per forza sotto le tartaru-ghe). Numerosi esperimenti di questo tipo hanno messo in luce co-me la comprensione e la memorizzazione di frasi o di testi sia conti-nuamente caratterizzata dall'interazione di informazione estratta dal materiale linguistico fornito dal testo, discorso o frase, da una parte, e conoscenze della realtà dall'altra, e come spesso il parlante non si renda conto della misura in cui la comprensione e la memoria utiliz-zino eli più l u n a o l'altra sorgente di informazione.

Uno dei processi di integrazione di informazione durante la com-prensione linguistica che sono stati studiati riguarda l'uso di nuova informazione rispetto a quella «data». Si tratta di un processo che è stato chiamato «dato-nuovo» (given-new contraci). Secondo questa idea, tra ascoltatore e parlante esiste una specie di contratto di tipo pragmatico in base al quale ogni frase o unità di conversazione forni -sce della nuova informazione che deve venire messa in collegamento con quella già esistente. Per poter consentire questa integrazione, molto spesso le frasi contengono elementi che consentono all'ascolta-tore o al lettore di distinguere l'informazione nuova da quella già esistente, e di collegare i due tipi di informazione. Nella comprensione di una frase l'ascoltatore/lettore deve quindi in primo luogo identificare quali elementi della frase portano informazione data e quali portano informazione nuova, e collegare l'informazione nuova a quella data. Il linguaggio usa una serie di convenzioni per distinguere l'informazione data da quella nuova. Per esempio, l'articolo indeterminativo di solito indica che il sostantivo che segue porta informazione nuova, mentre spesso l'articolo determinativo indica informazione data. Il seguente esempio chiarisce questa distinzione: «Paolo prese un libro dallo scaffale. Da molte macchie sulla copertina, Paolo si accorse che il libro era molto usato». Consideriamo ora la frase «È stato Van Basten a segnare il gol decisivo della partita per il Milan»: in questo secondi) caso la struttura della frase è tale che presuppone che il lettore sappia già che il Milan ha vinto la partita. L'informa-

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zione nuova della frase è che c'è stato un gol decisivo, e che l'autore del gol è Van Basten.

Durante la lettura o l'ascolto di frasi il parlante esegue quindi una serie di operazioni di inferenza che sono del tutto immediate, ma che tuttavia richiedono una certa elaborazione e quindi anche tempo di esecuzione. In una ricerca, Haviland e Clark chiesero a dei soggetti di leggere una frase presentata in due contesti diversi. La frase era «La birra era calda», i contesti erano rispettivamente: a) «Tirammo fuori della birra dal baule dell'automobile» e b) «Demmo un'occhiata alle provviste per il picnic». Nel primo caso la birra è menzionata nella frase contesto, nel secondo caso occorre tare un'in-ferenza per decidere che la frase è una continuazione adeguata al contesto b. Questa inferenza è plausibile ed è fatta senza sforzo, dal momento che tutti sanno che le provviste per il picnic possono com-prendere della birra. Tuttavia il tempo di lettura della frase critica risulta più elevato con il contesto b che con il contesto a, e questo viene spiegato come dovuto al tempo necessario per effettuare l'infe-renza che la birra era parte delle provviste del picnic.

2.9. La comprensione del discorso e del testo

Negli ultimi vent'anni la comprensione dei testi o del discorso è divenuto uno degli argomenti centrali della psicolinguistica, con uno sviluppo straordinario che ha prodotto moltissimi risultati e interes-santi modelli. Questo campo di indagini basa le proprie nozioni sui contributi, accanto alla psicologia, di discipline come la linguistica te-stuale, e di campi di indagine come l'analisi dei testi letterari e la grammatica delle storie.

In psicologia, contributi importanti alla psicolinguistica del testo e del discorso provengono da lavori sulla memoria e da nozioni co-me quelle di schema e di script. La nozione di schema nasce dai lavori classici di Bartlett [1932] sulla memoria, intesa come «schema più ricostruzione». Le ricerche di Bartlett hanno messo in evidenza in particolare due cose: da una parte i soggetti tendevano a mettere in memoria il materiale verbale in forma schematica, e nella rievocazio-ne tendevano a ricostruire il materiale stesso (cfr. supra, cap. V, pp. 262-263).

Un'altra nozione importante per la comprensione dei testi, diret-tamente legata all'idea di schema, è quella dello script, proposta da Schank [1976] per spiegare i processi di inferenza e di integrazione del materiale che si legge o di un evento che viene percepito, sulla base di conoscenze di una situazione o di un evento tipico. Per chia -rire la nozione di script possiamo ricorrere a uno degli esempi classici proposti da Schank, cioè quello del ristorante. Ognuno di noi, nella nostra cultura, ha in mente un preciso schema delle caratteristiche e degli eventi legati alla situazione di una cena o di un pranzo in un ristorante. Si chiede un tavolo, si consulta il menu, si fa 1 ordinazione

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al cameriere, si mangia, si chiede il conto, si paga e si va via. Queste conoscenze consentono di integrare informazioni non presenti in un testo o in una situazione vissuta, generano aspettative, ecc. Se noi presentiamo a una persona un testo in cui si racconta di una cena al ristorante, e una frase del testo suona pressappoco così «...Paolo e Maria finirono il dolce e bevvero il caffè. Al momento di pagare, Paolo si accorse che aveva lasciato a casa il portafoglio ...»; se si chiede ai lettori se il testo aveva esplicitamente menzionato che Paolo aveva chiesto il conto, molti dei lettori sostengono di sì: la conoscenza della situazione, cioè lo script, consente ai lettori di integrare l'informazione e li porta a credere di aver letto un enunciato che invece non era presente.

La comprensione da testi: il modello di Thorndyke

Uno dei modelli più semplici per la comprensione dei testi è quello di Thorndyke [1977], che può essere considerato un prototi-po cui molti altri modelli si possono assimilare. Così come la gram-matica generativo-trasformazionale consiste in un insieme di regole per la produzione di una frase, e assegna ad ogni stringa ben forma -ta una descrizione strutturale adeguata, così la grammatica di un te -sto consiste in un insieme di regole per la descrizione strutturale di un testo.

Le regole della grammatica delle storie hanno la forma generale

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[12] A v B (cioè: riscrivi A come B)

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La tabella 6.1 riassume una serie di regole di questo tipo, capaci di dare un'adeguata descrizione strutturale di semplici storie come quella che viene in seguito esemplificata.

Secondo la prima regola una storia consiste di uno scenario, di un tema, di un piano o vicenda e di una soluzione. A sua volta uno scenario (regola 2) è costituito dai personaggi della storia, dal luogo e dal tempo della vicenda. Il tema della storia è costituito da un evento e da un line o scopo. Il piano o vicenda della storia è costi-tuito da uno o più episodi. A sua volta, ogni episodio è costituito da uno scopo parziale, da un tentativo e da un risultato, ecc. Le regole comprendono elementi opzionali, in parentesi nella tabella 6.1.

Le regole qui schematizzate rappresentano un insieme di cono-scenze generali, che vengono poi organizzate in modo diverso e pro-duttivo nella struttura delle diverse storie. Il sistema di regole propo-sto ha due aspetti. Da una parte costituisce una grammatica, che consente di «costruire» una storia così come le regole sintagmatiche consentono di costruire una frase e di fornirne la descrizione struttu -rale. Dall'altra l'insieme di regole rappresenta un sistema di cono-scenze in grado di aiutare e guidare la nostra comprensione delle storie, di generare delle aspettative sui diversi elementi della storia,

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TAH. 6 .1 . Regole ili limi per le storie IThomdxke l')77l

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( 1 ) Storni (2) Sceiii'i } ) 'IVlllL.

( 4 ) Vicei Kpis-

(6) Tentativi

(7) Inietto

(K) Soluzione

(c)) Scopo interni,

i 10 J Personaggi

Scenario -\ 1 orna + Vicenda 1" SoluzionePersonaggio 4- Luogo "+■ I enipoI Iwcnto) + Seopol'.pisotiioScopo i inerme JHÌ 4- l'entativo 4- Li l e t t oKventoKpisotlioLvenioSituazioneLventoSituazioneSituazione tlesitlcrataScopoSituazione1 empoLuogo

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QI'AORO 6.1. La storia del vecchio contadino e del suo asino testardo

( 1 ) C'era una volta un vecchio contadino ( 2 ) che possedeva un asino molto testardo. ( 3 ) Una sera il contadino cercava di spingere l'asi no nella sua stalla. (4) II contadino cominciò a tirare l'asino, ( 5 ) ma questo non si muoveva. (6) Allora il contadino si mise a spingerlo, (7) ma l 'animale non si muoveva. (8) Infine i l contadino chiese al suo cane ( 9 ) di abbaiare forte ( 1 0 ) in modo da impaurire l'asino e costr ingerlo a r i fugiars i nel la s ta l la . ( 1 1 ) Ma i l cane s ì r i t into. (12) Al lora i l contad ino pregò i l ga t to (13) d i g ra f f ia re i l cane (14 ) in modo da farlo abbaiare forte e (15) fargli spaventare l'asino costringendolo nella stalla. ( 1 6 ) Non appena il gatto graifio il cane, ( 1 7 ) questo cominciò ad abbaiare torte. (18) Questo impauri l'asino (19) in modo tale che questo entrò immediatamente nella stalla.

Nota: I numeri delle frasi si riferiscono alle regole nel modo schematiz-zato nella figura 6.3.

alla stregua di uno script, e di guidare la comprensione nei punti in cui il testo presenta una maggior complessità.

Consideriamo in che modo le regole della tabella caratterizzano le diverse parti e la struttura di una breve storia, riportata nel qua -dro 6.1.

La storia è ben costruita, secondo l'insieme di regole della tabella 6.1. Essa comprende uno scenario (proposizioni 1 e 2), un tema (3), una vicenda organizzata in diversi episodi e una soluzione (19) . Il grafico della figura 6.3 rappresenta la struttura di storie come quella illustrata nel quadro 6.1, in modo simile alla rappresentazione della struttura di una frase attraverso un indicatore di frase. Questa strut-

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enda soluzione

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personaggi scopo episodio episodio episodio 19

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1.2 5 scopo tentativo elfettointermedio

scopo tentativo efletto scopo tentativo effettointermedio intermedio

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muovere 4 5 muovere 6l'asino l'asino

10, 15 episodio 18

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scopo tentativo tentativo ettettointermedio

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Fu;. 6.3. Struttura diagrammatica della posi/ioni o parti della storia.

14 8,9, 11 12, 13, 16 17

del quadro 6.1. I numeri indicano le varie pro-

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tura dovrebbe anche, secondo Thorndyke [1977], rappresentare in qualche modo come la storia, una volta compresa, viene organizzata nella nostra memoria.

La comprensione del testo: il modello di Kintsch e van Di/'k

Tra i molti modelli volti a spiegare i processi di comprensione dei testi e del discorso, sia nell'ambito della linguistica che della psi-colinguistica, uno dei più interessanti e completi è quello di Kintsch e van Dijk [1983], di cui presentiamo in breve le caratteristiche es-senziali.

Il modello distingue in un testo la microstruttura dalla macrostrut-tura. La microstruttura di un testo è data dall'insieme di singole uni tà chiamate proposizioni, poste insieme in una struttura integrata. Invece la macrostruttura di un testo è data dall'insieme del significato del testo. Le unità di analisi da cui parte il modello sono Xargomento e la proposizione. L'argomento non è altro che il significato di una singola unità o di una parola. Una proposizione è un'unità che si può far corrispondere ad una frase o a un sintagma, ed è costituita da un predicato e da una serie di argomenti ad esso connessi. Nella

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proposizione l'argomento è spesso dato dal verbo della frase corri -spondente alla proposizione. Ad esempio, si consideri la frase «Paolo offre una mela a Maria». Qualsiasi sia la notazione che si decide di adottare, la rappresentazione proposizionale della frase viene espressa come una funzione con un predicato (OFFRIRK) e tre argomenti (PAOLO, MARIA, MELA). Anche nel modello che stiamo considerando la struttura della proposizione corrispondente alla frase è di questa forma. Ogni frase di un testo viene decomposta dal modello in una o più proposizioni di questo tipo. L'insieme di tutte le proposizioni su cui un testo è basato costituisce la microstruttura del testo. Questa tuttavia non è soltanto una lista di proposizioni, ma contiene anche informazione sulla coerenza del testo stesso. Mantenere la coerenza del testo, anzi, è una delle caratteristiche principali della comprensione del testo di cui il modello cerca di rendere conto. Man mano che l'analisi del testo procede e le varie proposizioni vengono costruite, il lettore cerca di mantenere la necessaria coerenza tra le proposizioni stesse, effettuando, al caso, delle inferenze, e collegando le diverse proposizioni tra loro in modo coerente, per esempio mettendo in collegamento le proposizioni che condividono un certo argomento. Al termine della scomposizione del testo in proposizioni si ottiene un grafo di coerenza che è la rappresentazione della microstruttura del testo stesso. Si noti come le proposizioni possono essere collegate tra di loro solo se sono presenti nella memoria a breve termine. La ca -pacità e la risoluzione temporale della memoria a breve termine pon-gono quindi notevoli limitazioni alla elaborazione del test a livello della microstruttura.

Man mano che la microstruttura del testo viene costruita, si or-ganizza anche la macrostruttura, che rappresenta il significato gene-rale del testo, durante la costruzione della quale il significato del te-sto può venire collegato ad altre informazioni presenti nella memoria a lungo termine. La microstruttura viene immagazzinata nella memoria a breve termine, e man mano che essa viene costruita, il materiale analizzato viene trasferito a livello della macrostruttura nella memoria a lungo termine. Nel modello, quindi, la microstruttura riguarda la memoria a breve termine, e la macrostruttura la memoria a lungo termine. Mantenere la continuità a livello della microstruttura è quindi una condizione necessaria per l'elaborazione del materiale, e questa è la funzione della coerenza della microstruttura.

In breve, quindi, il modello spiega la comprensione di un testo nel modo seguente: a) il lettore suddivide e analizza il testo in una serie di proposizioni; b) queste vengono collegate tra di loro in un grafo di coerenza, e in questo processo il lettore esegue una serie di operazioni di inferenza, di controllo della coerenza tra i diversi ele-menti della microstruttura che è basata sull'insieme delle singole pro-posizioni; e) a un livello più elevato, viene formata una seconda struttura o macrostruttura che integra il materiale della microstruttura con le conoscenze esistenti, ad esempio con vari schemi presenti nella memoria a lungo termine.

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C'ome molti altri modelli sulla comprensione dei testi, anche quello di Kintsch e van Dijk è caratterizzato da due proprietà. Da una parte esso e un modello della struttura del testo, cioè descrive il modo in cui un testo è organizzato. Dall'altro esso si propone di indicare le procedure che il lettore usa per comprendere il testo stes-so. Questo aspetto psicolinguistico viene verihcato in esperimenti, di solito esperimenti sulla memoria di testi. Uno dei risultati più comu-ni in questo tipo di esperimenti è che gli elementi o le proposizioni più importanti nella struttura dell'organizzazione gerarchica delle proposizioni vengono poi ricordati meglio.

3. La produzione del linguaggio

Come si è detto in precedenza, gli studi sulla produzione del linguaggio costituiscono l'ambito meno sviluppato della psicolingui-stica. Abbiamo anche accennato ai motivi di questo ritardo della ri-cerca, che consistono soprattutto nelle difficoltà metodologiche che si incontrano quando si vuole studiare sperimentalmente la produ-zione del linguaggio. A causa della difficoltà nel controllare le condi-zioni in relazione alle quali un parlante emette una (rase, o nel pre-cisare quale forma e quale tipo di comportamento verbale può esse-re rilevante per la domanda che lo studioso si pone, i dati forse più interessanti e rilevanti sono raccolti in condizioni «naturali» e consi-stono nell'analisi del linguaggio spontaneo prodotto dalle persone e in varie caratteristiche dello stesso, come ad esempio le pause, op-pure dei diversi tipi di errori o lapsus prodotti spontaneamente da parlanti.

3.1. I lapsus linguistici

Nel discutere la natura degli errori o lapsus spontaneamente commessi dai parlanti si usa distinguere il bersaglio, cioè la parola o l'espressione che il parlante desiderava emettere, e Xintruso, cioè la parola o sintagma o frase che viene effettivamente prodotta.

I diversi lapsus sono stati classificati in vari modi. Una classifica-zione abbastanza tradizionale distingue in primo luogo lapsus di tipo contestuale, caratterizzati dal fatto che l'intruso proviene dallo stesso ambiente linguistico (ad esempio, si anticipa un fonema o una parola che doveva essere pronunciata successivamente nella stessa frase in fase di esecuzione), ed errori non contestuali, in cui, ad esempio, un'unità lessicale non pianificata nella frase viene sostituita all'ele-mento che il parlante voleva pronunciare. Il parlante può produrre errori di tipo fonologico, morfologico, sintattico o semantico, a se-conda dell'elemento che interessa la relazione bersaglio-intruso.

La tassonomia degli errori comprende i seguenti tipi: anticipazioni (un'unità del testo viene anticipata dal parlante e prende il posto di

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un elemento che precede); perscverazioni (un elemento prende il po-sto di un elemento che segue); metatesi (due unità lessicali si scam-biano tra di loro il posto nella frase); lapsus di trasposizione (in cui un'unità viene pronunciata in una posizione diversa da quella richie-sta). Per diverse classificazioni degli errori, si possono vedere i lavori di Garrett [1975]; per l'italiano, Magno Caldognetto e Tonelli [1991; 1993].

Esistono dei «corpus» molto ampi di errori raccolti pazientemente nel corso degli anni da alcuni studiosi, che, opportunamente ana-lizzati, consentono di raggiungere delle importanti conclusioni sui processi e sulle fasi della produzione linguistica.

Vediamo alcuni esempi di errori commessi da parlanti in italiano (tratti in gran parte dal corpus raccolto da Magno Caldognetto e To-nelli [1991; 1993]) e cerchiamo per alcuni di questi di mettere in luce alcune caratteristiche.

Alcuni errori implicano sostituzioni o scambi di singoli fonemi:

[13] Vedi quella sena rossa (sedia rossa): anticipazione della consonante. Sono rezzi e meschini (sono rozzi e meschini): metatesi di vocale.

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le: Gli elementi scambiati possono essere le intere radici delle paro-

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[14] II cedro gallone (gallo cedrone): metatesi di radice.

Talvolta due possibili parole bersaglio possono venire fuse:

[15] Mangiare i tortioli (tortellini/ravioli).

Gli errori di tipo lessicale possono implicare lo scambio di parole su base semantica:

[16] Saranno passati due giorni (due anni): la parola intrusa appartiene allo stesso dominio semantico.

Un lapsus frequente è costituito dai cosiddetti malapropìsmi, in cui una parola viene sostituita da un intruso che è fonologicamente simile alla parola bersaglio (e in questo senso un malapropismo non è sempre distinguibile da un errore «soltanto» di tipo fonologico), e che con essa divide il numero di sillabe, l'accento, e una parte delle sillabe:

[17] Un concerto facilitante (concerto per contesto). [18] Anna balla la tintarella (tintarella per tarantella).

Gli errori sopra esemplificati sono il prodotto di diverse fasi o componenti del processo di produzione del linguaggio. Così, ad esempio, l'errore in [16] è il risultato di un malfunzionamento al li -vello semantico; l'intruso è una voce del lessico che appartiene allo stesso dominio semantico.

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Alcune proprietà dei lapsus sono le seguenti. In primo luogo non si verificano quasi mai insieme due diversi tipi di errori. Quando un parlante fa un errore fonologico, di solito non commette un errore di programmazione di tipo sintattico. Un errore di sostituzione di parola di solito non si accompagna alla sostituzione di un suono all'interno della singola parola. Le diverse unità di programmazione sembrano essere indipendenti luna dall'altra.

Dall'analisi dei lapsus è possibile cercare di fare delle precise ipotesi sul modo in cui funziona il sistema di produzione linguistica. Alcuni errori ci consentono infatti di raggiungere delle conclusioni relativamente ad alcune fasi della programmazione della frase. Consideriamo, ad esempio, la frase [19]:

[19] Un tempo di settimana (una settimana di tempo).

Sia la struttura sintattica che il contorno intonatorio dell'intera frase (come è possibile rilevare nella registrazione), sono rimasti in -tatti. Notiamo ancora come il parlante non ha detto «Una tempo di settimana», ma ha opportunamente adeguato la terminazione dell'ar-ticolo all'unità lessicale prescelta. Il tipo di errori esemplificato con [19] ci consente di trarre le seguenti conclusioni: a) la struttura sintattica è pianificata prima della scelta dei definitivi item lessicali; b) l'intonazione è programmata allo stesso momento della pianificazione della struttura frasale, o comunque in una fase molto vicina; e) la scelta definitiva dei formativi grammaticali viene eseguita dopo la scelta degli item lessicali (l'articolo concorda con il genere della parola prescelta ).

L'analisi di questo tipo di errori, e di ogni altro tipo di lapsus, ci può quindi consentire di fare delle ipotesi specifiche relative all'ordine con cui vengono attivati alcuni dei sottoprocessi nella pianificazione della frase. Naturalmente l'analisi di un solo tipo di errori non ci consentirà una conclusione relativa a tutti i livelli di organizzazione e pianificazione della frase, ma mettendo insieme diversi componenti relativi alla programmazione di una frase, che possiamo basare sull'analisi dei diversi errori, possiamo costruire un modello più completo e arrivare a una progressiva chiarificazione dei vari processi che hanno luogo durante la preparazione e l'esecuzione di una frase.

Gli errori ci possono quindi consentire una serie di conclusioni relativamente all'ordine e alla sequenza delle unità di pianificazione della frase. Per esempio, in particolare: a) gli elementi che interagiscono provengono da ambienti linguistici simili; b) gli elementi che interagiscono tendono ad essere simili gli uni agli altri; e) quando gli errori producono dei nuovi item linguistici, essi sono consistenti con le regole fonologiche del linguaggio («cedro gallone» invece di gallo cedrone); ci) gli accenti della frase e tutta la struttura prosodica tendono a rimanere intatti.

Le pause e le esitazioni sono influenzate dalla struttura sintattica della (rase, e quindi l'analisi delle pause e delle esitazioni consente di

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I.INC.UAC;C;IO 381

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precisare molti aspetti del processo di formazione delle frasi. Pause ed esitazioni tendono a cadere in determinate posizioni di una frase, cioè, per esempio, dopo un sintagma e prima del verbo, o dopo il verbo e prima di un nuovo sintagma nominale, cioè per lo più tra i maggiori costituenti, mentre difficilmente vengono a cadere all'inter-no di un singolo costituente. Una pausa può cadere più di frequente dopo l'articolo di un sintagma, prima del nome o dell'aggettivo. Ciò consente di concludere, ad esempio, che nella programmazione di una frase il sintagma è un'unità che viene programmata e poi esegui-ta in modo unitario.

L'analisi delle pause e degli errori ci consente di tentare di forni-re una risposta anche ad una domanda molto importante. In che momento viene programmata una frase? Viene «preparata» prima nella sua completezza e poi eseguita tutta d'un pezzo, oppure viene programmata parola per parola, un istante prima della sua articola-zione? Anche se è evidentemente molto difficile dare una risposta a questa domanda, disponiamo di alcuni dati, provenienti sia dall'ana-lisi degli errori (gli errori sembrano in ogni caso veriiicarsi all'interno di una determinata «unità» di pianificazione linguistica), delle pause e delle esitazioni, sia anche da lavori sperimentali, come quelli di Lindsley [1975], che presentava a dei soggetti delle figure, chieden-do loro di descriverle usando delle strutture linguistiche prestabilite, e, attraverso opportune variazioni nel tipo di figure, «costringeva» di volta in volta i soggetti a variare il sintagma nominale oppure il ver -bo della frase descrittiva delle figure. Linsdley ottenne interessanti dati che consentono di dire come il parlante pianifica una parte della frase, ad esempio un sintagma nominale, e procede allesecuzione della stessa, mentre il sistema di produzione procede alla pianifica-zione del segmento successivo. La conclusione sarebbe quindi che una parte della frase viene pianificata prima della sua esecuzione, ma che di solito l'esecuzione comincia prima che tutta la frase sia stata pianificata. Mentre il sistema articolatone) esegue la prima parte della frase, a livello «superiore» il sistema di produzione si occupa di pia-nificare la parte successiva, e così via.

3.2. I modelli sulla produzione del linguaggio

Nel corso degli ultimi ventanni sono stati proposti diversi mo-delli (ad esempio, Kempen, Schlesinger, Danks, Garrett, Fromkin; cfr. anche Levelt [1989]), due dei quali verranno descritti più avanti. Con nomi e forme diverse, tutti i modelli comprendono le se guenti fasi di produzione linguistica:

1 ) la fase o stadio della concettualizzazìone, in cui il parlante sce-glie un contenuto mentale da esprimere linguisticamente.

2) La fase successiva è quella della formulazione, in cui il mate-riale scelto per essere espresso viene organizzato in una struttura adatta alle caratteristiche sequenziali del linguaggio, cioè viene «linea-

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382 UNGUACGK)

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rizzato». A questo stadio ha luogo anche la «pianificazione sintatti -ca» della frase.

3) II terzo stadio principale proposto dai vari modelli consisteinfine nell'ari'[colazione, in cui un programma articolatorio viene attivato a creare una struttura pronta ad essere eseguita dall'apparatoarticolatorio.

Ciascun modello sviluppa poi in dettaglio in misura e forma di-versa queste fasi o stadi generali. Uno dei modelli più articolati e completi tra quelli volti a spiegare i processi della produzione lingui -stica è quello di Garrett [1975], che comprende i seguenti stadi.

1 ) La prima fase della produzione di una frase del linguaggio viene chiamata rappresentazione del messaggio. Si tratta del processo che abbiamo sopra chiamato con il termine generale di «concettua-lizzazione», cioè della scelta di un contenuto concettuale da esprime-re linguisticamente. In questo stadio vengono costruite delle strutture concettuali che vengono poi utilizzate nelle fasi successive.

2) II secondo stadio principale è chiamato da Garrett Io stadio della rappresentazione funzionale, e consiste in un livello di pianifica-zione delle strutture logiche. Le operazioni eseguite in questo stadio sono essenzialmente le seguenti: a) selezione di voci lessicali; b) spe-cificazione di strutture funzionali; e) assegnazione di elementi lessica-li al loro posto nella struttura frasale.

3 ) La fase successiva riguarda la rappresentazione posizionale, e in questa fase ha luogo la specificazione delle posizioni delle diverse unità all'interno della frase. Le operazioni eseguite a questo livello consistono: a) nel recupero della struttura delle voci del lessico; b) nella preparazione della superficie della frase; quindi e) nell'asse-gnazione del lessico; e infine d) nell'interpretazione dei formativi grammaticali.

4) La fase successiva è quella della creazione di una rappresentazione fonetica, in cui la frase viene programmata a livello fonologico-fonetico.

5) Infine segue la fase in cui viene preparata una rappresentazione articolatona che può venire eseguita dall'apparato articolatorio.

4. Lo sviluppo e i fondamenti biologici del linguaggio

II bambino comincia a pronunciare le sue prime parole intorno al primo anno di età, le prime frasi di due parole intorno a un anno e mezzo, e nel breve spazio di due anni arriva alla conoscenza di un ricchissimo vocabolario e alla capacità di emettere frasi anche molto complesse. Questa rapida evoluzione non richiede particolari doti di intelligenza: anche bambini con quozienti intellettuali notevolmente inferiori al normale sono in grado di acquistare una buona padro -nanza della lingua nello stesso periodo di tempo [Lenneberg 1967]. È naturale che questo straordinario sviluppo abbia attirato tanta at -tenzione da parte degli studiosi del comportamento umano.

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1 INCil'ACdK) 383

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(ìli studi «tradizionali» sul linguaggio infantile, hno alla nascita della psicologia del cognitivismo, erano sostanzialmente fondati su tre assunzioni, anche se raramente rese esplicite. La prima è che il fan-ciullo apprende il linguaggio, la seconda è che lo apprende per imita-zione, o per generalizzazione di frasi da lui sentite, e attraverso le modalità descritte dai vari teorici dell'apprendimento. La terza è che il linguaggio del fanciullo non è altro che il linguaggio dell'adulto in forma più semplijicata, e che esso si avvicina sempre più al linguaggio dell'adulto. Queste assunzioni sono state poste decisamente in di-scussione in molti studi a partire dagli anni sessanta. Un'ampia serie di osservazioni [Ervin 1964; Brown e Fraser 1964; Menyuk 1963] ha permesso di ridurre considerevolmente l'importanza attribuita all'imi-tazione nello sviluppo linguistico. Anche la nozione di «apprendi-mento» del linguaggio non fu più facilmente sostenibile alla luce di precise critiche alle teorie dell'apprendimento, come insudicienti e inadeguate a spiegare i processi di acquisizione del linguaggio [Chomsky 1959; 1965; McNeill 1966],

A partire dal periodo della rivoluzione ehomskiana in linguistica, alcuni studiosi americani hanno portato un orientamento nuovo nello studio dell'acquisizione del linguaggio da parte del bambino. Il lin-guaggio infantile viene affrontato alla stregua di quello di una popo-lazione «esotica». Come l'antropologo o il linguista, armati di regi -stratore, raccolgono dei campioni del linguaggio parlato in una co-munità «primitiva», cercando poi, sulla base del «corpus» linguistico raccolto, di intessere pazientemente delle ipotesi sulla struttura del linguaggio stesso, per indurre la «grammatica», così lo psicolinguista raccoglie un campione il più ampio e vasto possibile del comporta-mento verbale emesso spontaneamente dal fanciullo nell'interazione con i familiari o anche con lo psicologo stesso, e scompone poi il materiale così raccolto nelle diverse unità possibili, analizzandole in termini delle loro caratteristiche e delle diverse combinazioni riscon-trate.

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4.1. L'acquisizione di regole linguistiche

Alla base di questo orientamento metodologico sta la nozione che il bambino possieda un insieme di regole, cioè una «grammati-ca», ad ogni livello del suo sviluppo linguistico. Questa nozione è piuttosto agevole da sostenere alla luce di una quantità di osservazio-ni. Una delle migliori prove di tale asserto è il verificarsi, nel lin -guaggio del bambino, di «errori» sistematici, ad esempio di «errori» di iperregolarizzazione e l'uso di espressioni anomale costantemente ricorrenti. In tutte le lingue per le quali si hanno osservazioni relati -ve al linguaggio infantile si è notato come in molti casi i bambini tendono a iperregolarizzare alcune forme, per esempio il plurale o le forme dei verbi. Il bambino italiano dice, ad esempio, «anelano», «diciato», «aprito», e così via; il francese dirà «il a pleuvv», e simili.

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384 LINGUAGGIO

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La Ervin [1964] ha raccolto sistematicamente una quantità di tali errori in bambini di lingua inglese, notando espressioni come «foots», «buyed», «comed», «runned», ecc. Ella notò, tra l'altro, che in molti casi il Fanciullo in una prima fase produce correttamente il passato «did», «went», ecc, mentre in una seconda fase comincia ad usare le forme «camed», «doed», «runned», apparentemente dimen-ticando la forma corretta, alla quale ritorna solo in una terza fase. L'apparente paradosso viene spiegato ricorrendo al fatto che il fan-ciullo, che in una prima fase ha appreso ad usare le forme corrette dei verbi «irregolari», di uso più frequente, avrebbe derivato poi la regola per la formazione del passato, e l'applicherebbe a tutti i verbi. Il fanciullo cioè avrebbe astratto una proprietà formale dal corpus linguistico cui è stato esposto - dal linguaggio parlato intorno a lui -e cioè la «regola» per la formazione del passato.

Il verifìcarsi sistematico di espressioni anomale, e la generalizza-zione di determinate forme linguistiche a situazioni nelle quali il bambino non ha certamente mai sentito le espressioni da lui usate, fornisce un'ulteriore evidenza a favore dell'assunto qui sostenuto. Il repertorio fornito da Braine [1963], da Brown e Bellugi [1964] e da altri ancora, è ricchissimo di esempi del genere.

Tutte queste osservazioni permettono di affermare che il bambi-no «scopre» delle regole nel corpus linguistico cui è esposto, e im-mediatamente tende ad «applicarle» al suo linguaggio salvo poi cam-biarle ulteriormente.

È pertanto ragionevole affermare che il bambino possiede un vo-cabolario e delle regole grammaticali che gli permettono di usare gli elementi del suo vocabolario per produrre frasi nuove. Si tratta di regole diverse da quelle del linguaggio dell'adulto o della stessa rego la in forma semplificata? Se è valido l'assunto che il linguaggio infantile è linguaggio prodotto attraverso una serie di regole, deve essere possibile elencarle, formulando cioè una «grammatica» del linguaggio infantile per ogni livello di età.

Le prime «frasi» del bambino sono, come è ben noto, nella forma di una sola parola (olofrasi). Se da un punto di vista gram-maticale tali oloirasi non costituiscono ancora un'unità superiore al -la parola, da un punto di vista psicologico esse si riferiscono a una quantità di diverse situazioni. La parola «mamma» può infatti indi -care per il bambino i diversi significati: «ecco la mamma», «voglio la mamma», «la mamma non c'è», «dov'è la mamma», «appartiene alla mamma», ecc.

Intorno all'età di un anno e mezzo, in generale, la maggior parte dei bambini comincia ad emettere le prime «frasi» di due parole. Non si tratta di accostamento di due olofrasi: ciò è abbastanza chia-ro dalla diversa intonazione delle due parole; di solito la prima ascendente e la seconda discendente, a indicare il punto terminale della frase: l'accentuazione è di solito sulla seconda parola. Queste

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«frasi» sono formate dall'accostamento di due nomi, o di un verbo o un nome, o di un aggettivo e un nome, ecc, per usare le categorie grammaticali dell'adulto. Anche quando la lunghezza delle frasi cre-sce, le parole sono in prevalenza «nomi», poi «verbi» e «aggettivi», mentre inizialmente mancano pressoché totalmente articoli, proposi -zioni, verbi ausiliari.

È questo il linguaggio che è stato felicemente definito da Brown [1964] «linguaggio telegrafico», dal momento che conserva le parole di contenuto e non le parole aventi una funzione sintattica ausiliaria. Il linguaggio telegrafico è il prodotto di un insieme di regole atte a produrre quel tipo di linguaggio. Il problema è ora di trovare quali sono le caratteristiche di questa grammatica, cioè, quali sono le rego-le che il bambino usa e che costituiscono la sua grammatica.

Il metodo usato da Brown e dai suoi collaboratori, e da molti altri, consisteva essenzialmente nella raccolta di campioni di compor-tamento verbale, emesso spontaneamente dal fanciullo nell'interazio-ne sociale con i familiari e anche con lo sperimentatore, e nel cercare di indurre la grammatica in base ad un'analisi linguistica del corpus stesso. Consideriamo ora le prime «frasi» di due parole del bambi-no. In italiano possiamo sentire frasi come «teta palla» (questa pal-la); «ia mamma» (via la mamma); «teto papa» (questo papa, cioè questo è del papa), e così via. In inglese, noi sentiamo frasi come le seguenti: «read book» (leggi libro); «more milk» (più latte, ancora latte); «see truck» (vedo/vedi un camion) ecc. [Braine 1963; Brown e Bellugi 1964]. Se esaminiamo un corpus piuttosto ampio di frasi prodotte da bambini di poco più di un anno e mezzo, fino a due, di età (anche se le differenze di alcuni mesi in più o in meno rispetto a questi valori «medi» sono estremamente comuni) notiamo, assieme a molte frasi di una parola, molte frasi come quelle sopra esemplifica-te. A questo punto possiamo cercare di descrivere qual è la gramma-tica che ha prodotto tali frasi.

Potremmo cercare di avanzare le seguenti ipotesi:a) le frasi di due parole sono date dall'accostamento di due olo-

frasi;b) le due parole di ogni frase sono scelte a caso dal vocabolario

del bambino;e) le due parole che compongono le frasi hanno caratteristiche e

funzioni diverse, che consentono di affermare che il bambino produ-ce le frasi di due parole usando una o più regole di formazione che egli applica in modo consistente per produrre frasi nuove.

In base ad un'analisi del corpus linguistico, e prendendo in con-siderazione sia le caratteristiche distributive delle parole, sia le carat-teristiche intonatorie, sia infine il contesto linguistico ed extralingui -stico in cui le frasi sono inserite, è possibile chiaramente escludere le prime due ipotesi. Le combinazioni di due parole che costituiscono le prime frasi non sono il prodotto dell'accostamento di due olofrasi

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386 I,INC,TACCIO

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o di una scelta casuale, ma sembrano chiaramente formate usando una regola e scegliendo le due parole da due classi diverse.

Queste due classi sono state chiamate con nomi diversi: classe perno («operatore» o «modifìcatore», o «pivot» rispettivamente per la Ervin e per Brown) e classe aperta o residua. La prima comprende pochi elementi, usati di frequente, che assolvono per lo più il ruolo riservato nel linguaggio adulto alle parole di funzione, cioè ai «funto-ri». La seconda comprende invece parole di «contenuto», cioè nomi che si riferiscono per lo più a oggetti concreti o a persone. L'eviden-za per classificare le parole in queste due classi è distributiva. Ad esempio this e that appaiono insieme perché ambedue si verificano prima di ariti, baby, doli, ecc.

La regola sottostante le frasi, che il linguista cerca di derivare in base alla distribuzione delle parole, può essere pertanto espressa nel modo seguente:

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[201 F - (P) + A

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Cioè la prima frase del bambino viene formata in base alla rego-la: a) prendi una parola dalla classe perno e b) aggiungi una parola della classe aperta; a può venire saltata. Tale regola consente di otte-nere frasi di due o di una parola (olofrasi).

L'assunzione che a questo primo stadio dello sviluppo linguistico il fanciullo possieda la regola (P) + A, è giustificata anche dal fatto che le frasi prodotte in base a questa regola possono ben difficilmente essere costituite da riduzione e imitazione del linguaggio adulto. Allgone lattuce, ad esempio, non può essere imitazione della frase: «thè lattuce is ali gone». Una seconda regola presente a questo pri-mo stadio, anche se appare con minor frequenza, è la seguente:

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[21] F (A) + A

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mentre non si trova mai l'accostamento di due parole della classe perno. Quest'ultima poi si amplia progressivamente in una serie di classi che corrispondono a nuove regole: in un tempo successivo alla acquisizione delle regole [20] e [21], appaiono articoli e pronomi dimostrativi come un'unica classe, mentre possessivi o alcuni avverbi sembrano, in base alle caratteristiche distributive, appartenere a un'altra classe. La classe perno si è differenziata quindi in una classe comprendente dimostrativi e articoli, e in un'altra classe che poi si differenzierà in aggettivi, possessivi e altre parole. Una regola per de-scrivere la competenza linguistica del bambino in questo periodo può quindi essere espressa nel modo seguente:

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[22J (Dim) (Art) + (PJ N

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in cui N è il nome, cioè una parola della classe aperta, e P 2 è una classe perno residua, comprendente, ad esempio, il possessivo my,

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LINGUAGGIO 387

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two, more e gli aggettivi. P7 si differenzia poi ulteriormente in agget-tivo, possessivo e una ulteriore classe residua, contenente parole co-me other, more, one, ecc. Nel giro di pochi mesi, dalla classe perno si differenziano cinque classi grammaticali: articoli, aggettivi, pronomi di-mostrativi, pronomi possessivi e una ulteriore classe perno che contiene parole di classi grammaticali diverse.

Finora ci si è limitati a brevissimi accenni allo studio dello svi-luppo sintattico, senza toccare in alcun modo il problema dello svi-luppo morfologico, della competenza semantica, e dello sviluppo fo-nologico.

Uno dei limiti dell'approccio allo studio della sintassi, di cui ab -biamo cercato di dare una brevissima inquadratura, consiste nella sua incapacità di rendere conto della «struttura profonda» del lin-guaggio del bambino: i dati per determinare l'appartenenza di una parola all'una o all'altra classe grammaticale sono puramente distri-butivi, e le regole così ottenute sono capaci di spiegare soltanto la struttura superficiale, senza riuscire a mettere in luce i diversi signifi -cati che possono accompagnare una stessa struttura linguistica. Se il bambino dice, ad esempio «pepe mamma» (le scarpe della mamma) un'analisi del tipo in precedenza accennato ci direbbe che la frase è il prodotto di una regola del tipo F -- (A) + A, cioè il bambino ha messo insieme secondo questa regola due parole appartenenti ambe-due alla classe aperta. In realtà, la frase può avere per il bambino diversi significati. Se il bambino indica le scarpe della mamma, la frase indicherà probabilmente una relazione possessiva (cioè noi di-remmo «sono le scarpe della mamma»). Se il bambino osserva la mamma che prima era scalza, dice la frase «La mamma ha le scar-pe», oppure «Si è messa le scarpe». Se il bambino desidera le scar -pe, la frase può essere una richiesta, ecc. L'informazione sul signifi -cato della frase viene di solito dal contesto linguistico in cui la frase è inserita, da fatti di tipo intonatorio, e soprattutto dal contesto per-cettivo o cognitivo extralinguistico in cui agiscono il bambino e il suo interlocutore.

Successivi tentativi [ad esempio, Bloom 1970] di analisi del lin-guaggio infantile hanno cercato di superare questi limiti adottando diversi approcci di tipo più semanticistico, cercando cioè di costruire la grammatica del linguaggio infantile tenendo conto del significato delle frasi come lo si può determinare sulla base del contesto lingui-stico ed extralinguistico. Da questi indirizzi di ricerca sembrano emergere risultati di grande interesse, capaci di chiarire ulteriormente e forse in maniera più sottile i complessi processi attraverso cui si verifica un fatto così straordinario, anche se così abituale che non presenta quasi alcun problema per chi non si metta a riflettere sullo stesso, e cioè la capacità del bambino di acquisire perfettamente nel giro di un paio di anni un sistema così complesso come la grammati -ca di una lingua.

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4.2. I fondamenti biologici del linguaggio

Delle diverse discipline che si occupano del linguaggio, le neu-roscienze, cioè in particolare la neuropsicologia e la neurolinguistica, forniscono oggi lorse i risultati più clamorosi e il progresso più rapido. Questi) progresso è dovuto in gran parte a recenti sviluppi tecnologici, che consentono di esaminare nei dettagli e in tempo reale i diversi processi cerebrali, a livello dell'attività elettrica della corteccia, del metabolismo cellulare e dei vari processi biochimici che interessane) le varie zone del cervello durante l'esecuzione di vari compiti linguistici. La nostra conoscenza sull'architettura cerebrale e sulle diverse funzioni del cervello connesse alla comprensione e produzione del linguaggio si è accresciuta negli ultimissimi anni come mai in passato.

I tentativi di mettere in relazione i fatti linguistici e i processi psicologici ai meccanismi cerebrali risalgono a più di due millenni or sono. Nei testi antichi, come nel trattato di Ippocrate, si guarda al cervello come all'organo attraverso il quale si acquisisce la conoscenza. Lo studio scientifico della relazione tra linguaggio e cervello ha la sua moderna origine soprattutto negli studi sull'afasia del secolo scorso, con i nomi di studiosi come Broca e Vernicke.

Delle diverse specie, l'homo sapiens è l'unico ad aver sviluppato un sistema linguistico. I vari sistemi di comunicazione esistenti nelle varie specie di animali, anche complessi e ricchi di caratteristiche come il cosiddetti) linguaggio delle api, o vari sistemi di segnali come il canto di alcune specie di uccelli, tutti questi sistemi non rispondono ad alcuni criteri essenziali che invece caratterizzano il linguaggio umano, primo di tutti quello dell'arbitrarietà, legato all'indipendenza del linguaggio da specifiche situazioni, e in secondo luogo quello della produttività, cioè la capacità di produrre espressioni nuove e mai sentite o prodotte prima. Recenti tentativi di far apprendere il linguaggio dei segni a primati, come scimpanzè [Gardner e Gardner 1969; 19751, o un complesso sistema di regole sintattiche al delfino [Herman, Richards e Wolz 19841 rappresentano importantissimi e interessanti contributi allo studio delle capacità necessarie per l'ac-quisizione di un linguaggio simbolico, e forse ci possono consentire già fin d'ora di limitare la portata di affermazioni come quella della prima frase di questo capoverso. In ogni caso si può sostenere che l'acquisizione e lo sviluppo del linguaggio parlato come quelli usati dall'uomo sono legati al possesso di una determinata struttura cerebrale con una precisa articolazione e differenziazione neuronaie.

Nell'ambito delle neuroscienze, studi sulle relazioni tra struttura e funzioni cerebrali e processi linguistici, analisi e osservazioni su pazienti con lesioni cerebrali, ricerche sullo sviluppo del linguaggio in relazione allo sviluppo cerebrale, e tante altre ricerche, hanno accresciuto enormemente la nostra conoscenza delle relazioni tra linguaggio e maturazione e sviluppo cerebrale, e quella dei vari fenomeni legati alla patologia del linguaggio.

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I.INC;UAC;C;IO 389

4.3. L'età critica per l'acquisizione del linguaggio

Una questione neurolinguistica di enorme importanza riguarda il periodo di acquisizione del linguaggio. Se a seguito di un fatto trau-matico, ad esempio una lesione all'emisfero sinistro, un bambino di pochi anni, che ha già appreso a parlare, perde la parola, nel giro di poche settimane o pochi mesi il bambino nella maggior parte dei casi riesce a ricuperare pienamente o abbastanza bene le funzioni linguistiche: queste vengono facilmente ricuperate dall'emislero cere-brale rimasto illeso. Questa plasticità dell'organizzazione cerebrale viene man mano scomparendo dall'infanzia all'adolescenza.

dome abbiamo visto nella parte precedente del capitolo, nel giro di pochissimi anni il bambino passa da uno stadio della lallazione a una capacità linguistica vicina o uguale a quella dell'adulto. AH'incir-ca a un anno e mezzo il bambino comincia a produrre le prime frasi di due parole, e all'età di tre anni esso è già in grado di usare frasi ed espressioni piuttosto complesse e articolate. Un bambini) di quat-tro o cinque anni esposto da un giorno all'altro, con continuità, a un linguaggio sconosciuto in una nuova comunità di parlanti ( s i pensi ai casi di emigrazione della famiglia in un paese di lingua diversa da quella acquisita inizialmente) riesce in pochissimi mesi, in condizioni ottimali, ad acquisire e a padroneggiare benissimo il nuovo linguag-gio, soprattutto a livello della sintassi e della fonologia. Con il cresce -re dell'età, questa straordinaria facilità e plasticità diminuisce. Acqui -sire una seconda lingua in età adulta è un processo lungo e diffìcile, che non porta quasi mai a una padronanza perfetta della seconda lingua e che, soprattutto a livello fonologico e articolatorio, sembra non consentire quasi mai di raggiungere la perfezione del parlante nativo.

Sulla base di questo tipo di osservazioni è stata avanzata (parti-colarmente da Lenneberg [1967]) l'ipotesi che vi sia un'età critica per l'acquisizione del linguaggio. Questo periodo corrisponde alla fase entro la quale il sistema nervoso centrale matura e assume una struttura definitiva, e durante il quale le dendriti e le sinapsi si molti-plicano e le varie connessioni fra i neuroni si perfezionano e raggiun-gono la struttura definitiva. Questo periodo si concluderebbe all'in-circa con l'inizio dell'adolescenza. Secondo Lenneberg sarebbe entro questo periodo, in cui il sistema cerebrale è ancora in fase di svilup-po ed è dotato di elevata plasticità, che esso sarebbe in grado di consentire l'acquisizione del linguaggio. Soltanto entro questo periodo l'organismo sarebbe cioè in grado di sviluppare la capacità linguistica con un minimo di stimolazione, come abbiamo già visto. Al di là di questo periodo l'acquisizione avverrebbe solo con estrema fatica e mai in modo ottimale e naturale. Questa ipotesi è stata chiamata l'ipotesi dell'età critica per l'acquisizione linguistica.

Che fosse difficile o impossibile acquisire il linguaggio oltre l'età critica sembrava evidente anche sulla base di osservazioni sullo svi-

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luppo cognitivo e linguistico di casi di «bambini lupo» riportati in lavori «classici» come il libro sul «bambino selvaggio di Aveyron», un bambino trovato nei boschi dei Pirenei sulla fine del XVIII secolo e cresciuto senza alcun contatto con la società umana. Il caso, riportato da Itard, un medico con idee ispirate dal pedagogista Rous-seau, non consente conclusioni molto precise, ma la documentazione portata testimonia l'irreversibilità dei danni cognitivi e l'assenza di ogni sviluppo linguistico nel bambino, anche dopo lunghi tentativi di rieducazione.

Un caso interessante e drammatico di bambino lupo dei giorni nostri è stato studiato e documentato con grande precisione dalla lin-guista Curtiss I 1977]. E il caso di Genie, una bambina trovata alcuni anni fa, all'età di 13 anni e mezzo, nei sobborghi di Los Angeles in California, conlmata in una specie di magazzino nel retro di una casa, dove era stata tenuta dal padre prigioniera e isolata, (in dalla prima infanzia, da ogni contatto sociale. Il caso di Genie (Io pseudonimo usato per proteggere l'identità della ragazza, ormai cresciuta) è riportato in un libro che rappresenta, oltre che un drammatico documento umano, una precisa documentazione della situazione psicologica e linguistica della bambina al momento del ritrovamento e una descrizione del progresso della terapia cui la bambina è stata sottoposta per anni a partire dal momento del suo ritrovamento. Il lavoro comprende un accurata descrizione delle varie misurazioni della prestazione linguistica della ragazza nelle più diverse prove, dalla conoscenza di parole, alla comprensione e produzione di frasi, a varie prove capaci di fornire indicazioni sulle sue capacità cognitive. Un intenso trattamento di rieducazione è riuscito nel giro di tre anni a portare Genie a un discreto livello di prestazione linguistica. Al termine del trattamento, il suo linguaggio sembrava governato da regole, e la ragazza era in grado di produrre frasi nuove e comprendere anche strutture linguistiche non del tutto semplici. Tuttavia, se a livello cognitivo Genie sembrava possedere una discreta abilità nel rappresentare relazioni temporali e spaziali e strutture concettuali anche abbastanza complesse, il livello di capacità linguistica raggiunto continuò a rimanere piuttosto semplice, e la giovane non è stata in grado di raggiungere un livello di capacità linguistica corrispondente a quello di una persona perfettamente normale. La sua prestazione è quella di una persona con Iateralizzazione emisferica destra e con un certo numero di problemi linguistici.

Il caso di Genie è particolarmente rilevante per l'ipotesi dell'età critica dell'acquisizione linguistica. Esso mostra infatti che un recupero e un'acquisizione delle capacità linguistiche è possibile anche dopo «l'età critica» almeno come proposto da Lenneberg originariamente. D'altra parte, il caso stesso mostra come il deficit linguistico legato a un lungo periodo di deprivazione da ogni input linguistico e da ogni stimolazione differenziata, se non è irreversibile come la teoria dovrebbe prevedere, non è neanche totalmente reversibile anche attraverso un lungo, intenso e ben articolato programma di rieduca-

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zione come quello cui è stata sottoposta Genie per un numero di anni successivamente al suo «ritrovamento».

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

Tra i lavori disponibili in italiano si veda Flores d'Arcais [19861 o, in alternativa, un volumetto introduttivo, molto recente, di Harris e Coltheart [1991]. Tre capitoli introducivi sul linguaggio, aggiornati e molto accessibili, fanno parte del libro di job e Rumiati [19841. Una traduzione non molto recente è Kess [1979],

Per la neuropsicologia e la patologia del linguaggio un buon vo-lume, non molto recente e quindi non aggiornato agli enormi svilup pi della neurolinguistica e neuropsicologia, è ancora il volume curato da Pizzamiglio [1974]; in particolare si veda il capitolo dello stesso Pizzamiglio sulle alasie. Sul riconoscimento di parole e sui processi di lettura si possono vedere: Crowder [1976]; Sartori [19841; in lin-gua inglese, tra i numerosi testi disponibili, segnaliamo qui i più re-centi e completi: Garman [1990]; Carroll [1986]. Sul riconoscimento di parole, una buona e aggiornata sintesi è il libro di Taft [1991].

Sulla produzione del linguaggio il testo più completo è quello di Levelt [1989]. Il miglior testo introduttivo sulla psicologia della lettu-ra oggi esistente, quello di Rayner e Pollatsek [1989], contiene ottimi e aggiornati capitoli sul riconoscimento di parole e la comprensione di frasi e testi.

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Nell'introduzione al capitolo «Problem solving e ragionamento» dello Steven's Handbook, Greeno e Simon [1988] annunciano che al-cune delle sezioni in cui è suddiviso il capitolo tratteranno di «com-piti che sono spesso chiamati ragionamento, piuttosto che problem solving» [ibidem, 5921. Cinquant'anni prima, Woodworth [19381 ini-zia il capitolo del suo trattato dedicato al pensiero dicendo che esso «tratta della soluzione di problemi proprio come il precedente capi-tolo», dedicato appunto al problem solving. Come si vede, vi è una tradizione ormai antica e perdurante secondo la quale problem solv -ing e ragionamento vengono distinti nell'esposizione e, d'altra parte, alla distinzione non viene attribuita rilevanza teorica. A questa tradi-zione ci atterremo anche noi.

1. Problem solving

L'esame di due tipici problemi, ben noti e studiati in letteratura, ci servirà da introduzione. Nell'ormai famoso problema di criptoarit-metica [Bartlett 1958; Simon e Newell 1971; Mosconi e D'Urso 1974al si tratta di scoprire quali numeri vadano sostituiti a ciascuna lettera in:

DONALO + GERALD =

ROBERT

in modo tale che, una volta avvenuta la sostituzione, il risultato arit-metico sia corretto. Tutto ciò che è noto è: a) D = 5; b) ciascun

Capitolo 7

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numero da 1 a 10 ha la sua lettera corrispondente; e) ciascuna lettera deve essere sostituita da un numero differente da quello usato per qualsiasi altra lettera [Bartlctt 1958, 511.

La difficoltà del problema, non grandissima anche se qualche soggetto non riesce a risolverlo, sta t u t t a nel calcolo da effettuare: determinare le sostituzioni, farlo nell'ordine più sicuro od opportuno, controllare che le scelte effettuate non siano incompatibili o non producano risultati inaccettabili, e così via. Pur tenendo conto che nelle mosse centrali si registrano alcune variazioni nell'ordine in cui i solutori effettuano le sostituzioni, secondo quanto riportato in letteratura [ad esempio, Simon e Newell 19711, possiamo considerare come tipico il procedimento di soluzione registrato nel seguente protocollo, depurato da ripetizioni e commenti [Mosconi e D'Urso 1974a, 134]:

1) Poiché 5 + 5 = 10, T = 0.2) Poiché due addendi uguali danno un numero pari come

risultato e dalla prima alla seconda colonna da destra c'è riporto di 1, R= numero dispari.

3) Poiché nell'ultima colonna a sinistra R = D ( 5 ) + G, R èun numero dispari superiore a 5, cioè R = 7 oppure 9.

4) Poiché quando la cifra che esprime la somma e la cifra cheesprime un addendo sono uguali, l'altro addendo deve essere ugualea 0; poiché nella quinta colonna, E non può essere uguale a 0(T = 0); per avere 0, bisogna che E sia uguale a 9 e che ci sia riporto di 1 dalla colonna precedente.

5) Poiché E è uguale a 9, R deve essere uguale a 7.6) Poiché nella terza colonna E (9) = A + A, poiché due

numeri pari non danno mai 9, ci deve essere riporto dalla colonna precedente; poiché con due addendi il riporto è sempre uguale a 1, Adeve essere uguale a 4.

7) Poiché K = 7 e poiché dalla prima alla seconda colonna c'èriporto 1 e dalla seconda alla terza colonna c'è riporto 1, allora lasomma della seconda colonna è 17 e E deve essere uguale a 8.

8) Nell'ultima colonna, poiché R = 7, poiché D = 5, poichéc'è riporto dalla colonna precedente, G deve essere uguale a 1.

9) Resta da stabilire la corrispondenza fra le lettere N, O, B e inumeri 2, 3, 6. Procediamo per tentativi. Nella quarta colonna unaddendo è 7 ( K ) ; poiché B non può essere né 9 (E) né 0 (T), ilprimo addendo non può essere né 2 né 3, allora N deve essereuguale a 6 e quindi B uguale a 3 (7 + 6 = 13).

10) Poiché tra le lettere resta solo O e tra i numeri solo 2, 0deve essere uguale a 2.

Come ci si può rendere facilmente conto, «tutti i processi che

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devono essere eseguiti sono familiari e non diffìcili per qualsiasi per-sona moderatamente istruita» [Bartlett 1958, 51]. Per risolvere que-sto problema di criptoaritmetica occorre semplicemente accuratezza nel calcolo. (ìli errori o gli insuccessi dipendono fondamentalmente da un difetto di attenzione o di accuratezza nell'esecuzione.

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Consideriamo ora quest'altro noto problema: coprire questi nove punti con quattro segmenti di retta senza staccare la penna dal foglio.

È un problema che risulta molto difficile: la gran maggioranza dei soggetti non riesce a risolverlo. Di solito si cerca di risolvere il problema restando dentro il quadrato virtuale, ciò che rende il pro -blema non risolvibile. Per risolverlo è necessario uscire dal quadrato, tracciando una sequenza di linee come questa:

La gran parte di coloro che affrontano il problema procede come se avesse a che fare con un problema così formulato: senza uscire dai confini del quadrato, coprire questi nove punti ecc. Per la nostra presente discussione basta constatare che, in prima istanza, il problema è reso difficile dalla costrizione a lavorare entro i margini del quadrato virtuale, comunque tale costrizione venga introdotta e quale ne sia l'origine. Questo è il nodo senza il cui scioglimento il problema non può essere risolto.

Basta questa costatazione per vedere l'essenziale differenza tra questo e il precedente problema. Nel problema di criptoaritmetica il solutore, partendo da un dato certo, ricava una conclusione o un altro dato sicuro; poi, rispettando e utilizzando le costrizioni impo-ste, via via procede a successive determinazioni sulla base di ciò che ha già stabilito, fino a completare il quadro delle sostituzioni. Alle volte il procedimento potrà risultare meno lineare di quello che ab-biamo riferito, ma questo è il modo di procedere generalmente se-guito e l'unico praticabile in quella situazione problemica. Con il problema dei nove punti le cose vanno in maniera tutt'affatto diver-sa. Se non è rimossa la costrizione a lavorare entro i limiti del qua -drato virtuale (e per lo più non è superata spontaneamente o senza aiuto), i successivi tentativi del soggetto non lo fanno progredire ver-so la soluzione, ma restano una sequela di tentativi, ciascuno sbaglia-to per suo conto, che non si connettono in una progressione verso la soluzione. Il passaggio da questa serie di tentativi destinati all'insuc-cesso ad un procedimento potenzialmente profìcuo avviene soltanto, ed è un salto qualitativo o una novità rispetto all'attività che lo pre-cede, grazie all'eliminazione della costrizione a lavorare entro il qua-drato. In un caso abbiamo un progredire passo dopo passo, in ma-niera più o meno lineare, verso la soluzione, in cui ciò che viene prima sostiene ciò che segue e ciò che viene dopo con-segue a ciò

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che è stato fatto e scoperto prima. Nell'altro caso c'è soprattutto un punto critico da superare e ad un certo momento avviene (quando avviene) una specie di voltar pagina, un ricominciare, l'effettivo inizio di un nuovo o diverso procedimento di soluzione.

Il breve esame e il confronto tra il problema dei nove punti e il problema di criptoaritmetica è servito per segnalare e stabilire preli-minarmente una distinzione che non si può ignorare trattando dello studio psicologico dei problemi. Da qui in avanti chiameremo problemi in senso proprio o problemi di tipo A la classe di situazioni qui esemplificate con il problema dei nove punti e compiti o problemi di tipo B la classe di situazioni qui esemplificate con il cosiddetto problema di criptoaritmetica GHRALD + DONALI) = ROBI.RT.

Se ci si riferisce ai compiti, può essere ragionevolmente assunto come modello generale il labirinto fSimon et al. 1962, in Simon 1979a, 148] e il metodo di soluzione può essere in generale identifi -cato nella ricerca (search). Questo modello invece non può andar bene per i problemi propriamente detti, con i quali deve intervenire non una ricerca progressiva che fa avanzare verso la soluzione passo dopi) passo, ma un cambiamento di rotta o una rettifica del messaggio così come è stato ricevuto o capito. Per quest'altra categoria di situazioni il modello non può essere il labirinto, ma semmai il qui prò quo o, se si vuole, il trabocchetto, da evitare o da cui uscire. Con i compiti si ha continuità o progresso, mentre nel caso dei problemi c'è un salto, una novità, un cambiamento. Con i compiti si risolve lo stesso compito dall'inizio alla fine; con i problemi, quando si entra nella fase solutoria vera e propria, in un certo senso si risolve un nuovo e diverso problema e il momento più importante del processo di soluzione è precisamente quello del cambiamento del problema. L'omissione della distinzione tra le due categorie ha comportato che siano state fatte delle generalizzazioni indebite, trasferendo al tutto — ai problemi in generale — ciò che è pertinente ai soli compiti.

Il successivo paragrafo sarà dedicato ad un orientamento teorico che ha studiato soprattutto problemi di tipo B, quello che lo seguirà sarà dedicato a teorie relative ai problemi propriamente detti o problemi di tipo A.

1.1. Problem solving come ricerca («search»)

II modo con il quale abbiamo caratterizzato i compiti, riferendoci al criptogramma DONALO + C;KRALD = ROBKRT, corrisponde al modo in cui viene concepito un problema tout court secondo la Hu-man Information Processing Theory. Questo orientamento ha avuto negli ultimi decenni, e continua ad avere, una influenza grandissima nel campo della ricerca sul problem solving. Il giudizio che «il vero punto di partenza della storia della ricerca sul problem solving è la pubblicazione, nel 1972, del libro di Newell e Simon Human Problem

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ISolving» [Richard 1985, 425] probabilmente è in sostanza condiviso a tutt'oggi (secondo me, a torto) dalla maggior parte dei ricercatori. Secondo Simon e i suoi collaboratori, appunto il labirinto «fornisce un appropriato modello astratto per quasi tutti i tipi di attività di problem solving»: risolvere il problema del labirinto consiste nello scoprire uno dei percorsi corretti di uscita [Simon et al. 1962, in Simon 1979a, 148], Conseguentemente, secondo questi autori «il compito della ricerca sul problem solving è identificare l'organizza-zione dei processi che rende un soggetto capace di risolvere un pro-blema, che determina quanto a lungo vi sarà impegnato e la proba -bilità che commetta uno o più errori lungo la via» [Simon 1978, 288]. Per questi ricercatori oggetto d'indagine è il processo di solu -

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zione e l'obiettivo della ricerca è la sua ricostruzione e comprensione (che, come si vedrà, vengono a coincidere), ossia la determinazione del seguito di mosse che porta alla soluzione e, per ciascuna mossa, delle alternative tra le quali il soggetto ha effettuato la sua scelta.

«La teoria descrive il comportamento come una interazione tra un sistema che elabora informa

zioni (information processing system), il solutore del problema, e le condizioni del compito (task environ-ment), queste ultime rappresentanti il compito come descritto dallo sperimentatore. Nell'affrontare il compito, il solutore del problema rappresenta la situazione in termini di uno spazio del problema (problem space), che è la sua maniera di vedere il task environment» {ibidem, 272]. Il metodo utilizzato per la ricerca è la simulazione. Secondo questi autori, infatti, «le formulazioni in linguaggio naturale dei fenomeni di pensiero non hanno fornito spiegazioni di quello che accade» [Simon e Newell 1971, 147], mentre «la spiegazione di un comportamento osservato dell'organismo è fornita da un programma di elaborazioni dell'informazione che genera quel comportamento». Naturalmente siffatti programmi «sono spiegazioni del comportamento umano di problem solving soltanto nella misura in cui i processi che essi usano per scoprire soluzioni sono gli stessi che usano gli esseri umani» [ibidem, 147]. Allo scopo di arrivare a formulare programmi che abbiano questa caratteristica o che simulino il più fedelmente possibile i processi di soluzione degli esseri umani, si ricorre all'analisi di protocolli ottenuti con soggetti invitati a pensare ad alta voce mentre affrontano il problema e queste analisi vengono poi utilizzate per la formulazione dei programmi.

Sistema di elaborazione dell 'informazione, task environment, spazio del problema

«La teoria afferma che l'uomo è un sistema di elaborazione del-l'informazione, almeno quando risolve problemi» [Newell e Simon 1972, 9]. «Il solutore del problema non esibisce alcun comportamen-to che richieda una ricerca simultanea e rapida di distinte parti dello spazio del problema. Invece il comportamento prende la forma di

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una ricerca sequenziale, con piccoli aumenti successivi nell'immagaz-zinamento di informazione sul problema» [Simon 1978, 2731. Il si-stema è dotato di una memoria a breve termine e di una memoria a lungo termine, e proprio dalle loro caratteristiche dipende in gran parte il suo comportamento o il suo modo di procedere. «Queste proprietà - processo seriale, piccola memoria a breve termine, infinita memoria a lungo termine con rapida rievocazione ma lenta immissione — impongono forti costrizioni sul modo in cui il sistema può cercare una soluzione in spazi più ampi del problema stesso» [Simon e Newell 1971; trad. it. in Mosconi e D'Urso 1973, 113], Un sistema come quello delineato avrà scarse probabilità di affrontare con successo ricerche esaustive o per tentativi ed errori, dovrà seguire procedimenti più economici e utilizzare strategie più consone alle sue caratteristiche o ai mezzi di cui dispone. Proprio in quanto utilizza strategie di questo tipo, chiamate in generale euristiche, il sistema è considerato adattivo [ibidem, 114].

Il task envinmment impone vincoli al comportamento del solutore del problema che devono essere soddisfatti in ordine al raggiungi-mento dello scopo [Newell e Simon 1972, 79]. Se mettiamo alcuni esseri umani nella medesima situazione problemica, se essi hanno sufficienti abilita per risolvere il problema, allora il task environment darà la medesima forma a molte caratteristiche del loro comporta -mento [ibidem, 865]. Abbiamo già parlato del problema di criptoa-ritmetica DONALI) + (M-RALi) = ROBI;KT e abbiamo già detto che generalmente i soggetti procedono nella sostituzione delle lettere con numeri nello stesso ordine. «Per spiegare questa regolarità nella se-quenza delle sostituzioni, dobbiamo guardare prima di tutto alla struttura del compito stesso. Un problema di criptoaritmetica può essere affrontato tentando varie sostituzioni di numeri e lettere per tentativi, rigettandole e tentandone altre se portano a contraddizioni. Nel problema DONALO + C;I;RALD, centinaia di migliaia di combina-zioni potrebbero essere tentate per trovare una soluzione con questa via. (Ci sono 362.880 vie di assegnare 9 cifre a 9 lettere.) Un analiz-zatore seriale capace di fare e controllare cinque sostituzioni al minuto potrebbe impiegare un mese a risolvere il problema. Molti esseri umani lo fanno in dieci minuti o meno. Infatti, la struttura del com-pito ammette un'euristica che implica di trattare per prime quelle colonne che presentano maggiori costrizioni. Se due cifre in una sin-gola colonna sono già note, la terza può essere trovata applicando le ordinarie regole dell'aritmetica. Per il problema DONALO + C;I;RALD, risulta che ìe corrette sostituzioni per T, E, R, A, L e G possono tutte essere trovate in questo modo assolutamente senza alcuna ricer-ca per tentativi ed errori, lasciando soltanto N, B e O per le possibili sostituzioni con 6, 3 e 2» [Simon e Newel 1971; trad. it. 1973, 115].

«Lo spazio del problema è il modo in cui un particolare soggetto rappresenta un compito per lavorarci su. Deve essere distinto dal task environment, che corrisponde alla descrizione del problema da parte dell'onniscente,osservatore». Ciascuno stato di conoscenza del

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solutore è un nodo nello spazio del problema. «Uno stato di cono-scenza è semplicemente quello che il solutore del problema conosce circa il problema in un particolare momento, conosce nel senso che l'informazione gli è disponibile e può essere recuperata in una trazio-ne di secondo». «Avendo raggiunto un nodo particolare, il solutore del problema può scegliere un operatore da un set di operatori di -sponibili e può applicarlo per raggiungere un nuovo nodo. Alternati-vamente, il solutore può abbandonare il nodo che ha appena rag -giunto, scegliere un altro nodo tra quelli precedentemente visitati e procedere da quel nodo. Quindi egli deve tare due tipi di scelte: la scelta di un nodo dal quale procedere e la scelta di un operatore da applicare a quel nodo». «La ricerca della soluzione è un'odissea at -traverso lo spazio del problema, da uno stato di conoscenza all'altro, finché lo stato di conoscenza corrente include la soluzione del pro-blema» [Simon e Newell 1971; trad. it . in Mosconi e D'Urso 1973, 117J.

Le euristiche

«Non dobbiamo preoccuparci della grandezza del pagliaio se possiamo individuarne una piccola parte nella quale siamo abbastan-za sicuri di trovare l'ago. Così, per comprendere il comportamento di un solutore seriale (come la teoria assume che sia un soggetto umano), dobbiamo guardare alla struttura degli spazi problemici e vedere solo come l'informazione inclusa in tali spazi può essere estratta per mezzo di processi euristici e usata per guidare la ricerca verso la soluzione del problema» [ibidem, 118]. Il termine «euristica» «denota qualsiasi principio o espediente che contribuisce alla ridu-zione della normale ricerca della soluzione» [Simon 1979a, 152].

«Il più semplice esempio di informazione che si può usare per risolvere problemi senza una ricerca esaustiva è la verifica dei pro-gressi fatti - la prova che mostra che ci si sta avvicinando alla meta. Per salire una montagna una buona regola euristica consiste nell'an-dare sempre verso l'alto. Se un particolare punto è più in alto, rag -giungerlo rappresenta probabilmente un progresso verso la cima. Il tempo richiesto per raggiungere la sommità dipenderà dall'altezza della montagna e dal suo pendìo, ma non dalla sua circonferenza né dalla sua area - non dall'ampiezza dello spazio totale del problema» [Simon e Newell 1971; trad. it. in Mosconi e D'Urso 1973, 118-119], «La maggior parte delle euristiche fa assegnamento su una strategia che modifica la ricerca successiva in funzione dell'informa-zione ottenuta nella ricerca precedente» [Simon et al. 1962, in Simon 1979a, 162].

Quando il compito appartiene ad un campo o dominio altamente strutturato, come può essere il caso in cui si debba risolvere una equazione lineare in algebra, generalmente si applicherà un «algorit-mo sistematico». Risolvere un'equazione lineare algebrica non consi-

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ste nel tentare diverse soluzioni possibili, ma nell'impiegare e seguire passaggi sistematici che portano direttamente a stabilire il corretto valore dell'incognita. Se invece il campo o dominio in cui si colloca il compito è debolmente strutturato, o non se ne conosce la struttura, si ricorre alle euristiche, considerate «metodi deboli» in quanto non ga-rantiscono il raggiungimento della soluzione. «Un metodo debole è l'accontentamento (satisfwing): usare l'esperienza per determinare la migliore soluzione che noi possiamo ragionevolmente aspettarci di raggiungere e fermare la ricerca appena si raggiunge una soluzione che corrisponde all'attesa» [Simon 1990, 9]. «Un altro metodo debo-le (o euristica) è l'analisi mezzi-fini (means-ends analysis): notare le differenze tra la situazione attuale e la situazione finale desiderata e recuperare dalla memoria operatori che, secondo quanto l'esperienza ci ha insegnato, possono rimuovere differenze di questo tipo» [ibi-dem, 10]. «L'analisi mezzi-fini è forse la strategia particolare più im-portante che la gente usa per ricercare selettivamente attraverso larghi spazi problemici» [Greeno e Simon 1988, 603]. «Un'altra classe di euristiche di grande generalità sono quelle che vanno sotto la rubrica di "pianificazione"» [Simon et al. 1962, in Simon 1979a, 159]. Ci si può fare un'idea in generale delle euristiche così etichettate pensando che usiamo una simile tecnica di pianificazione ogni volta che faccia-mo una gita in Lina data regione: «per prima cosa noi schizziamo un itinerario generale da città maggiore a città maggiore; quindi, pren-dendo queste città come subgoals, risolviamo il subproblema di rag-giungere ciascuna di esse da quella che la precede» [ibidem, 160].

Per concludere, «un piccolo gruppo di euristiche, delle quali sat-isficing e analisi mezzi-fini sono importanti esempi, sono state rilevate come caratteristiche centrali del comportamento in un'ampia gamma di comportamenti di problem solving, quando capacità di riconosci -mento o algoritmi sistematici non sono disponibili per raggiungere le soluzioni senza ricerca. La prevalenza della ricerca euristica è una legge fondamentale della struttura qualitativa del problem solving umano» [Simon 1990, 10].

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L ,a simulazione

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L'apparire del computer alla fine della seconda guerra mondiale e la sua ampia utilizzazione successiva ha suggerito nuove metafore applicabili ai processi cognitivi umani e nuove ipotesi sull'organizza-zione della mente e del cervello. Per gli autori dei quali ci stiamo occupando «il computer è stato più che una metafora. È stato un importante strumento che ha permesso di effettuare, attraverso la si-mulazione, particolareggiate comparazioni tra teoria e dati e di deri-vare numerose previsioni empiriche dalla teoria» [Newell e Simon 1972, 870]. Essi assumono che l'adeguatezza di un'ipotesi può essere controllata mediante la sua espressione in un programma per com-puter che simuli l'effettiva soluzione di un problema - cioè, «una

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descrizione del problema può essere data come input per il pro-gramma e il programma effettua i passaggi che portano alla soluzione del problema» [Greeno e Simon 1988, 592], Tali programmi sono considerati simulazioni del problem solving umano non semplice-mente nel senso che essi risolvono problemi che sono stati preceden-temente risolti soltanto dagli esseri umani, ma nel senso che risolvo -no questi problemi usando tecniche e procedimenti che assomigliano più o meno strettamente alle tecniche e ai procedimenti usati dagli esseri umani [Simon 1979a]. Tali programmi vengono identificati con la teoria dei fenomeni cognitivi considerati. Programma e teoria coincidono [ad esempio, Simon 1978, 289-290],

Per avvicinarsi alla desiderata corrispondenza tra programma e effettivo procedimento seguito dal soggetto sono stati utilizzati proto-colli ottenuti con la tecnica del pensiero ad alta voce (thinking aloud) [Ericson e Simon 1980], già utilizzata da Claparède [1933], da Duncker [1935] e da altri. Il soggetto viene invitato a pensare ad alta voce mentre risolve il problema che gli è stato sottoposto. I pro-tocolli ottenuti con la tecnica del pensiero ad alta voce (dai quali si può ricavare ['ideogramma del comportamento problemico, una rappre-sentazione delle fasi della soluzione) vengono utilizzati per scrivere il programma e poi per controllare che esso sia conforme all'effettivo procedimento seguito dal soggetto. Sono detti programmi rappresenta-tivi quei programmi «che registrano i meccanismi generali che sono stati trovati, senza simulare ogni particolare singola persona» [Simon 1978, 290].

Sono stati studiati diversi problemi (la dimostrazione di teoremi matematici, il gioco degli scacchi e alcuni altri giochi, alcuni proble-mi cosiddetti puzzle-like, come il problema dei missionari e dei can-nibali o quello della torre di Hanoi o quello dei travasi dei liquidi, problemi di criptoaritmetica, ecc.) e sono stati scritti parecchi pro-grammi, secondo i criteri e con gli obiettivi sopra indicati.

1.2. Problem solving come scoperta

II confronto tra il problema dei nove punti e il criptogramma DONALI) + ( Ì K R A I . I ) = ROBKRT ci è servito per stabilire la differenza tra problemi di tipo A o problemi in senso proprio e problemi di tipo B o compiti. Si è visto che con questi ultimi il passaggio dalla situazione iniziale alla soluzione è graduale (step by step) e il processo solutorio è fondamentalmente unitario, dipendendo i passi successivi da quelli precedenti. Con i problemi propriamente detti invece non si registra questa continuità funzionale e il processo solutorio è carat-terizzato da una svolta o da un cambiamento netto che interviene in concomitanza con la trasformazione del problema o con il cambia-mento nella comprensione di qualche elemento decisivo. In altre pa-role, nello studio ilei problemi e per la comprensione di ciò che av-viene nella niente ilei solulore, più della continuila del pi < vesso e del

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suo articolarsi è rilevante la considerazione dei punti critici (faci pro-bleima) nei quali avviene la svolta nel processo solutorio. Comprensi-bilmente, quindi, i ricercatori che hanno privilegiato lo studio dei problemi in senso proprio hanno centrato la loro attenzione su ciò che avviene «quando si vede dentro» o si svela il qui prò qua, sulle caratteristiche di questo atto di comprensione e sulle sue componen-t i , sulle condizioni che concorrono a determinare il primitivo modo di vedere incompatibile con la soluzione e sulla diversa lettura del problema successiva e quindi sulla spiegazione dei due diversi com-portamenti o delle due diverse maniere di rappresentarsi il proble -ma. Nel seguito ili questo paragrafo illustreremo brevemente alcune delle posizioni o teorie relative a questo complesso di questioni. Qui vorrei soltanto segnalare che la differenza tra compiti e problemi è rilevabile anche a livello del vissuto dei salutari. Con i problemi, quando il soggetto scopre quello che continueremo provvisoriamente a chiamare il qui prò qua e sente di avere finalmente imboccato la via che porta alla soluzione (qualche volta la soluzione corrisponde effettivamente allo svelamento del qui prò qua), si registra una carat-teristica manifestazione di soddisfazione per l'avvenuta scoperta, da tempo rilevata dagli psicologi (e chiamata Aha Erlebnis, cioè «espe-rienza dell'alia», espressione di soddisfatta sorpresa di chi compie Lina scoperta o vede improvvisamente la soluzione di un problema). Corrispondentemente, in caso di fallimento, quando al soggetto si ri -vela la soluzione, si registra una altrettanto vivace Aha Erlebnis in negativo, caratterizzata eia una autodenuncia di «stupidità» per essere caduto nell'inganno e non aver visto ciò che pure poteva essere visto. Invece niente di tutto questo avviene con i compiti. In caso di successo «il sentimento che si prova è solo di essere giunti al punto cercato dopo una fatica più o meno grande; le fasi precedenti la so -luzione sono viste come tentativi "in direzione" della soluzione piut-tosto che come errori. In caso di insuccesso si ha semplicemente l'impressione di una difficoltà non superata, piuttosto che di un errore nel senso di non aver capito il vero problema», insomma di una sproporzione tra le richieste del compito e le effettive capacità del soggetto, spiegata alle volte con riferimento alle caratteristiche perso-nali del soggetto stesso, altre volte più in generale alle capacità uma-ne [Mosconi e D'Urso 1973, 195],

/M ristrutturazioni •

Ad introdurre il concetto di ristrutturazione furono i gestaltisti, i quali lo utilizzarono anche nello studio del problem solving. In veri -tà, «il termine problem solving si incontra raramente negli scritti de-gli psicologi gestaltisti che preferiscono parlare di pensiero produtti-vo. Questa preferenza ha le sue ragioni: sta ad indicare la convinzio-ne che l'attività di pensiero non si riduce tutta ad una mera riprodu-zione del passato, al riemergere di idee, di immagini, di comporta-

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7.1.

menti che sono già esistiti, ma che, accanto a quella attività riprodut -tiva, ci sono anche processi che producono veramente il nuovo, che creano ciò che non è ancora stato, che fanno scaturire l'idea mai sorta prima, almeno nella mente di quel determinato organismo pen-sante. Le ricerche degli psicologi della Gestalt sono rivolte a stabilire la fenomenologia di questi processi produttivi e le caratteristiche che li distinguono da quelli meramente riproduttivi, a individuare le con-dizioni che li favoriscono e quelle che li ostacolano, a localizzare i momenti decisivi del processo, quando si sprigiona il lampo della comprensione» [Kanizsa 1973, 35].

Per chiarire che cosa intendano i gestaltisti per ristrutturazione o riorganizzazione possiamo ricorrere ad un esempio utilizzato dallo stesso Wertheimer [1925b], uno dei fondatori della psicologia della Gestalt: sia dato il quadrato e il parallelogrammo ad esso sovrapposto di figura 7.1. Sono noti A e B. Trovare la somma delle due aree.

Il problema può essere risolto in un modo elegante e in un modo meno elegante. La soluzione elegante comporta che si veda la corrispondenza tra le aree delle due ligure dalle quali si è partiti (quadrato e parallelogrammo) e le aree di due triangoli parzialmente sovrapposti. «La soluzione così è stata raggiunta, per così dire, in un sol colpo»: la somma delle aree del quadrato e del parallelogrammo è uguale ad A x B. In questo caso per colui che tende alla soluzione del problema cambia interamente il modo di vedere la figura: vedeva un quadrato con un parallelogrammo sovrapposto e ora vede due triangoli anch'essi parzialmente sovrapposti. In altre parole, è avve-nuta una ristrutturazione della figura. Nella nuova organizzazione non solo acquistano consistenza fenomenica i due triangoli, che pri-ma non l'avevano, ma soprattutto, perché ciò possa avvenire, devono dissolversi il quadrato e il parallelogrammo, ed è proprio questo che ostacola la riorganizzazione. La soluzione meno elegante consiste nel trovare e poi sommare le aree del quadrato e del parallelogrammo, in stretta aderenza alla formulazione della richiesta. Non c'è alcuna difficoltà a trovare l'area del quadrato. Per trovare l'area del paralle-logrammo si deve moltiplicare la base (B meno A) per l'altezza (A) . Questa operazione può avvenire soltanto se quello che era visto co-me lato del quadrato viene successivamente visto come altezza del parallelogrammo. Deve cioè avvenire una riorganizzazione nella quale

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un elemento dato o vissuto con una certa funzione (lato) assume una nuova funzione (altezza) [Kanizsa 1973].

«La famosa storia del piccolo Gauss» alle prese con il problema della somma di una serie numerica [Wertheimer 1920; 1945-1959] può fornirci un altro esempio di riorganizzazione. Ancora bambino, quello che sarebbe diventato un famoso matematico stupì il suo maestro trovando con straordinaria rapidità il risultato della somma dei numeri da I a 10. Invece di eseguire l'operazione nel modo abituale, sommando i primi due numeri ed aggiungendo al risultato il terzo numero e proseguendo poi così lino alla fine, aveva potuto dare il risultato molto più rapidamente essendosi accorto che la somma del primo numero e dell'ultimo, del secondo e del penultimo, e così via, dava sempre lo stesso risultato: 11. Il piccolo Gauss non vede soltanto la crescita ordinata della serie, come accade ai più. La serie cresce in una direzione e diminuisce corrispondentemente nella direzione opposta, incremento e decremento si compensano a vicenda. La situazione è ristrutturata o riorganizzata: la serie non presenta più unicamente un andamento crescente unidirezionale ma se ne vedono i due andamenti opposti, simmetrici e complementari. Sicché si può risolvere il problema con la formula (Sn = ( n + 1 ) n/2).

Per introdurre il concetto di riorganizzazione mi sono servito di esempi anche per aderire il più possibile al modo di procedere di Wertheimer e degli altri autori gestaltisti i quali sono poco inclini alle definizioni, preterendo spiegare, discutere ed esemplificare i concetti di cui si servono. Comunque, possiamo dire che secondo i gestaltisti quando si attua una ristrutturazione avviene qualcosa di veramente nuovo, qualcosa si capovolge, si produce un cambiamento qualitativo e non soltanto un cambiamento quantitativamente più o meno rilevante. Questo avviene sia quando la situazione cambia radicalmente (come nel nostro primo esempio, quando invece delle due figure che si vedono in un primo tempo se ne vedono due altre tut-t'affatto diverse), sia quando si verifica il cambiamento di funzione di un elemento (come nella seconda soluzione ancora del nostro primo esempio, quando il lato del quadrato diventa altezza del parallelogrammo), sia nel caso di una ricentrazione (come nell'esempio del piccolo Gauss). Tali ristrutturazioni, secondo Wertheimer, non avvengono a caso, né per tentativi ciechi, né semplicemente grazie ad associazioni; «i processi di pensiero mostrano una coerenza di sviluppo» [Wertheimer 1945-1959, 252]. «Quando qualcuno affronta un problema, le caratteristiche di struttura e le necessità interne del problema determinano nel pensatore particolari squilibri, tensioni, attri ti. Nel pensare vero e produttivo queste tensioni vengono portate a fondo, danno luogo a vettori nella direzione di un miglioramento della situazione, e la cambiano in conformità» [ibidem, 256]. Sareb-bero insomma lo squilibrio e la conseguente tensione prodotti dalla proposizione del problema, o comunque dall'avvertimento di trovarsi in una situazione problemica, a determinare — per così dire — la tendenza verso la soluzione e verso il raggiungimento di una situazione

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che, eliminato lo squilibrio, risulti equilibrata, intellettualmente sod-disfacente e, in una parola, ben strutturata. La tesi di Wertheimer è che «proprio le caratteristiche di struttura in Si, la situazione in cui il processo di pensiero effettivo ha inizio, con la loro natura partico-lare, concreta, creano i vettori con la loro direzione, qualità, intensi -tà; vettori che a loro volta portano ai passaggi e alle operazioni dina-micamente corrispondenti alle esigenze. Questo sviluppo è determi-nato dal cosiddetto principio della pregnanza [secondo il quale l'or-ganizzazione del campo tende ad essere il più possibile semplice e chiaral, dalle tendenze alla buona forma e dalle varie leggi della for-ma [Gestaltì» [ibidem, 255-256]. Questi processi, avviati e sostenuti dalla tendenza ad eliminare lo squilibrio e a raggiungere una situa -zione ben strutturata, alle volte potrebbero aver luogo anche senza la proposizione di una domanda o di un compito, originandosi in que -sti casi il problema stesso dalla struttura del materiale dato.

I gestaltisti hanno insistito sulla funzione svolta dallo squilibrio della situazione iniziale nell'avviare e sostenere il processo solutorio. Dalle tensioni e dal conflitto prodotto dalla proposizione del proble-ma, e nei casi più semplici dallo stesso materiale dato anche in as -senza di esplicite richieste, si originerebbero le «esigenze» e i vettori diretti verso il superamento dello squilibrio e il raggiungimento di una situazione ben strutturata. Ma non sempre le cose vanno così: i fattori di organizzazione possono sia spingere verso la soluzione sia ostacolare la trasformazione della situazione iniziale, rendendo così difficile la soluzione. Si potrebbe averne un esempio nel problema dei nove punti con la costituzione del quadrato virtuale e la conse -guente sfavorevole delimitazione dello spazio in cui normalmente il solutore lavora. In un esperimento di Kanizsa (hg. 7.2) si chiedeva ai soggetti di costruire un quadrato mediante la giustapposizione dei sei pezzi riprodotti in Bl. Il problema è risultato notevolmente diffi -cile. La causa della difficoltà sembra risiedere proprio nell'azione di un fattore strutturale che si è rivelato estremamente torte e si con-creta nella tendenza dei soggetti a combinare i due trapezi che fanno parte dei sei pezzi da utilizzare, come in B2a e non come in B2b, ciò che invece si deve fare per risolvere (B3). Secondo l'autore, «non si può dunque dire che in queste configurazioni siano insiti vettori che tendono alla soluzione, al contrario tali vettori, rappresen -tati da precise tendenze autoctone di organizzazione, tendono ad ostacolare la soluzione. Infatti se si modifica la situazione di parten -za, eliminando la necessità dell'accostamento b, il problema diventa di una facilità irrisoria (B4)» [Kanizsa 1973, 80-82; 1980, 327-329].

Se per Wertheimer la questione fondamentale è «che cosa accade quando un problema viene risolto, quando uno improvvisamente "vede il punto"», e quindi «quali sono le condizioni, le attitudini, favorevoli o sfavorevoli a tali rimarchevoli eventi» [Wertheimer 1925b, 1; 1945-1959, 2], con il suo allievo Duncker si introduce nel-la ricerca gestaltista una considerevole novità. L'interesse si sposta

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l'ic. 7.2.

dal momento in cui avviene la ristrutturazione e «si vede il punto» al processo attraverso il quale vi si giunge.

L'insieme delle vie per raggiungere la soluzione a partire dalla situazione problemica costituisce l'albero genealogico della soluzione. Consideriamo, ad esempio, il problema della irradiazione, relativa-mente al quale Duncker ha studiato particolarmente a fondo il processo di scoperta della soluzione: cercare un procedimento per liberare un uomo da un tumore inoperabile allo stomaco, con l'aiuto di raggi di intensità sufficiente a distruggere tessuti organici, evitando però nello stesso tempo di danneggiare il tessuto sano che circonda il tumore. I diversi tentativi di soluzione vengono raggnippati da Duncker in base alla loro affinità con riguardo al modo immaginato per risolvere il pro-blema, ossia in base al loro «mediante che cosa» o al loro valore funzionale. Nel caso del problema dell'irradiazione vengono identifi -cati tre tipi di tentativi di soluzione, caratterizzati ciascuno da un distinto valore funzionale, e precisamente: 1) evitare il contatto tra raggi e tessuti sani; 2) immunizzare i tessuti sani; 3) ridurre l'inten-sità dei raggi prima e dopo il tumore. La forma finale della soluzione si svilupperà attraverso la successiva concretizzazione di Lino o più di questi principi, corrispondenti ciascuno ad un diverso valore fun-zionale. Ad esempio, il principio della minore intensità dei raggi pri-ma e dopo il tumore potrà assumere la concretizzazione (inadegua-ta) di ritardare l'applicazione dei raggi a intensità piena oppure la più adeguala concretizzazione di una irradiazione diffusa con concen-trazione dei raggi nel tumore, ulteriormente determinata con l'in-

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dicazione dello strumento (una lente) oppure nella concretizzazio-ne ottimale della concentra/ione, sul tumore di fasci di radiazioni de-boli, in modi) ila produrre la distruzione di tessuti organici soltanto nel punto di convergenza.

La torma Imale di una soluzione è raggiunta in genere attraverso fasi interini die, ciascuna delle quali possiede retrospettivamente il ca-rattere di una soluzione e, in prospettiva, il carattere ili un proble -ma. I.a genesi delle successive fasi di soluzione è favorita dai «meto-di euristici», che soni) delle vie per raggiungere la soluzione (per una discussione sull'uso diverso di tale termine, cfr. infra, pp. 443-445). 1 metodi euristici possono assumere la forma di analisi della situazio-ne, sia in quanto analisi di un conflitto (perché non va bene così? o qual è la causa dell'incongnienza?) sia in quanto analisi del materiale (di che cosa posso servirmi?), oppure la forma di analisi dell'obietti -vo (che cosa voglio realmente raggiungere? e, talvolta, che cosa pos-so tralasciare?).

Ventativi di revisione della ristrutturazione

Negli anni recenti sono stati effettuati diversi tentativi ili revisio-nare la ristrutturazione così come era stata deiinita dagli psicologi della Gestalt, particolarmente nel senso di incorporarla a costrutti teorici contemporanei o, per così dire, ili traclurla nel loro linguag-gio. Il tentativo di Ohlsson di formulare Lina teoria della ristruttura -zione e cXòXmsighl basata sulla elaborazione dell'inlormazione [Ohls-son 1984a; 1984b] prende le mosse da un doppio riconoscimento. Da un lato egli constata che «a prima vista le teorie sul problem solving della Gestalt e della Information Processing sono incompati-bili». I gestaltisti infatti ritenevano che «la base del problem solving è la ristrutturazione, un tipo di processo nel quale il solutore arriva a veliere tutte le esigenze della situazione problemica in un modo nuo-vo». Mentre «l'approccio dell'Information Processing al problem solv-ing è basato sull'idea di ricerca»: risolvere un problema e procedere gradualmente (step-wise) attraverso uno spazio di alternative, finché viene trovata una sequenza di azioni che guida dal problema alla sua soluzione. D'altro lato, a suo giudizio, «entrambe le teorie catturano un aspetto essenziale del pensiero umano e una teoria integrata deve essere capace di maneggiare sia la ristrutturazione sia la ricerca e de-ve spiegarne le relazioni» [Ohlsson 1984a, 651. Dopo ciò, un po' sorprendentemente e in modo non del tutto coerente, Ohlsson si pro-pone di «interpretare la ristrutturazione nel quadro della Informa-tion Processing» libido?/}, senza neppure qualche revisione dell'i-dea di ricerca iseareh) e della identificazione del processo con la pro-gressione graduale. Così, anche un lavoro notevole come quello di Ohlsson si risolve effettivamente in un tentativo di incorporazione e di ridurre la novità o il salto della ristrutturazione ad una progressio-

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ne di piccoli passi, senza darci la teoria integrata promessa [Mosconi 1988, 176 ss.].

Si consideri l'applicazione, fatta dallo stesso autore, della nuova «teoria integrata» della ristrutturazione ad un problema tratto da Wertheimer, il già ricordato problema della somma delle aree del quadrato e del parallelogrammo sovrapposto. Per brevità ci dobbia -mo limitare alla citazione del brano, la cui lettura basterà probabil-mente a far apparire la banalità dell'esplicazione del processo di so-luzione, basato sul generico ricorso al principio della ricerca (que-st'ultima innescata da difficoltà non proprio attendibili, come la non conoscenza del teorema dell'area del parallelogrammo o del triango-lo) e sull'introduzione di scoperte che restano misteriose («può sco-prire che...»).

Poiché la formulazione del compito menziona un quadrato e un paralle-logrammo, è naturale codificare la figura come consistente di due differenti oggetti, come mostrato nella figura 7.3. In quella rappresentazione due ope-ratori divengono applicabili, cioè i teoremi delle aree del quadrato e del parallelogrammo rispettivamente. Un tipico percorso di soluzione è mostra-to sotto la rappresentazione in verticale. Supponi che il solutore non cono -sca il teorema dell'area di un parallelogrammo (e che non se la senta di affrontare un tale subgoal). Secondo la presente teoria allora entrerà in una ricerca attraverso le possibili descrizioni della figura data. Questo processo è indicato in figura 7.3 orizzontalmente. Durante questa ricerca, egli può sco-prire che la figura può essere vista come due triangoli parzialmente sovrap-ponentesi. La rappresentazione rende i teoremi sui quadrati e sui parallelo-grammi inapplicabili ma permette al solutore di applicare il teorema dell'a -rea di un triangolo. Il percorso di soluzione è mostrato sotto la rappresenta-zione. Supponi poi che il solutore non conosca il teorema dell'area del triangolo. Può continuare a cercare lo spazio di descrizione, finché trova la rappresentazione alla destra. Ora vede che i due triangoli insieme compon-gono LUI rettangolo. Ciò rende applicabile il teorema dell'area di un rettan-golo. Da questa rappresentazione c'è soltanto un passo alla soluzione. Così il solutore ora conosce in un colpo qual è la risposta. In questo caso abbia -mo ristrutturazione seguita da insight [Ohlsson 1984b, 125-126J.

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Nell'intento di «catturare l'approccio gestaltista alla ristrutturazione e all'insight con concetti della psicologia cognitiva contemporanea»

Montgomery '

I modelli mentali sono modelli di qualche cosa. Fissi rappresentano più o meno accuratamente stati di cose nel mondo [ . . . I . Essi possono essere ispezionati e caratteristiche specifiche del modello possono essere registrate. I . . . 1 . Possono essere manipolati in modi che corrispondono a operazioni che possono essere l a t t e con oggetti f i s i c i . [ . . . 1 . La struttura analogica dei modelli mentali implica che i problemi possono essere risolti leggendo un modello mentali'.

[19881, in contrasto con la teoria basata sullo schema dell'Infonnation Processing proposta da Ohlsson, punta sul ruolo dei modelli mentali.

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n : l ! : ! i trazione ■ 1.1 (I l i c o l i i i c r i i c i a l r M . i n i re mani-

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Trovare la sommadelle aree del quadrato

ABCD e del parallelogrammo I-BCDDati:

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Fu,. 73. Da Olilsson I 1984bl.

polazioni appropriate del modello», manipolazioni che non conse-guono automaticamente dagli esiti della ricerca e dai processi di pro-pagazione nella memoria semantica [ibidem, 89]. Per quante) riguarda «il vedere che è associato con l'insight, potrebbe essere preso in un senso puramente letterale, se si assume che l'insight accade quando l'individuo "vede" qualcosa in un modello mentale» [ibidem, 91]. In-dipendentemente dal latto che si possa o no ottenere m futuro le necessarie coni erme, la proposta di Montgomery può essere conside-ra la i per così dire) biologicamente corretta, nel senso chi M t r a t t a di

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un tentativo di traduzione fedele del concetto di ristrutturazione in termini di psicologia cognitiva contemporanea.

La questione del rapporto tra Human Information Processing Theory e teoria gestaltista del pensiero produttivo, con particolare riguardo alla capacità della prima di dar conto e spiegare fenomeni messi in rilievo dai gestaltisti, come l'insight e la Aha-Erlebniss (e implicitamente la ristrutturazione, della quale tuttavia Simon non parla mai), è tratiata specificamente da Simon in un articolo di replica a Michael Wertheimer, figlio del famoso psicologo gestaltista. Dopo aver premesso che le spiegazioni dei processi cognitivi hanno fre-quentemente preso la forma di programmi per computer che simula-no l'effettivo processo di pensiero, Simon afferma che «esistono or-mai parecchi programmi di simulazione che torniscono veridiche spiegazioni di ta l i fenomeni come l'insight, la repentina Aha-Erleb-niss, l'apprendimento intelligente e degli altri fenomeni cognitivi messi in rilievo dagli psicologi gestaltisti» [Simon 1986, 241]. Una rilevante novità sull'argomento si registra però in un articolo di qual -che anno dopo I Kaplan e Simon 1990], Constatato che «l'Informa-tion Processing Theory ha avuto poco da dire sul lenomeno della Aha-Erlebniss o dell'insight in generale» L1990, 376], per la prima volta Simon riconosce che gli insight problema, che richiedono un cambio nella rappresentazione per la loro soluzione [ibidem, 376], «cadono fuori dai limiti della standard Inlormation Processing Theory del problem solving e darne conto richiede un'essenziale estensione di quella teoria» [ibidem, 378]. L'adeguamento o estensione della teoria viene ottenuto introducendo la distinzione tra la già nota ricerca nello spazio del problema e una ricerca per lo spazio del problema o della sua rappresentazione. La continuità con la teoria standard è però ottenuta, in modo poco plausibile, con la tesi che «i medesimi processi che sono ordinariamente usati per la ricerca nello spazio del problema possono essere usati nella ricerca per uno spazio del problema (rappresentazione del problema)» [ibidem, 376],

II principio di ristrutturazione, così come inteso dai gestaltisti, ha forti e varie implicazioni teoriche. Nella letteratura psicologica sul problem solving fgestaltisti a parte) tuttavia la ristrutturazione è stata per lo più studiala e discussa, accettata o riluttata, nella sua generali-tà, come un costrutto teorico autonomo, piuttosto che con i vincoli che gli appartengono nella teoria gestaltista. Ciò che ha diviso gli psicologi che hanno studiato il problem solving è innanzitutto l'idea che nel corso del processo di soluzione vi siano dei ptinti critici che si differenziano profondamente dagli altri momenti della ricerca e dagli altri tentativi; in secondo luogo, l'idea che ciò che avviene in tali momenti è «improvviso» e rappresenta una svolta imprevedibile in relazione ai tentativi e alla direzione del processo che li precede o, in altre parole, che in questi punti critici avviene qualcosa di nuovo, non riducibile all'assommarsi dei tentativi precedenti o delle cono-scenze già disponibili.

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Bisogna prendere atto di questa fortunata chiarificazione, avvenuta in certo senso di tatto, e distinguere l'idea nucleare di ristrutturazione, per continuare a chiamarla così, dalla ristrutturazione vincolata ai principi della psicologia della Gestalt, che ne rappresenta soltanto una particolare varian te, anche se la più nota e storicamente importante [Mosconi 1986, 477].

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// doppio codice

Non esiste alcuna situazione che in sé e per sé, od «oggettiva-mente», sia un problema. I problemi sono prodotti dalla nostra mente. La ricerca psicologica invece da sempre ha oggettivato il pro-blema, assumendolo come un dato che sta all'inizio di una vicenda che si chiama soluzione o processo di soluzione del problema. Per evitare una sequela di citazioni o un laborioso esame critico di testi, si può semplicemente rilevare che la corrente denominazione dell'in-tero campo di ricerca sui problemi — problem solving — non acciden-talmente si riferisce esclusivamente alla soluzione o al processo solu-torio, ossia a qualcosa che viene dopo la costituzione o il formarsi del problema [Mosconi 1981], Ma la soluzione del problema è con-nessa e dipende dalla formazione del problema; ciò che avviene quando il problema viene risolto è connesso e dipende da ciò che è avvenuto quando il problema si è formato, quando è stato accettato da altri o è stato autonomamente pensato. Risolvere un problema corrisponde a disfare ciò che è stato fatto producendolo [Mosconi e D'Urso 1974a; Mosconi 1981; Mosconi 1990a, cap. XV]. Il proble-ma dei nove punti, ad esempio, si costituisce precisamente per l'in-troduzione del riferimento al quadrato virtuale («questi nove punti» viene decodificato come «i punti di questo quadrato») e Tatto solu-torio essenziale consiste precisamente nell'annullamento del riferi -mento al quadrato virtuale e nella neutralizzazione delle sue implica-zioni. Il cambiamento nella comprensione dei termini del problema dipende dal cambiamento del codice secondo il quale viene letto il messaggio dato (enunciato più figura, nel caso del problema dei nove punti). La comprensione iniziale (o decodificazione primaria) viene prodotta dalla applicazione del codice naturale (per brevità, quello che seguiamo normalmente nella comune conversazione). La com-prensione successiva, o decodificazione seconda, avviene grazie all'ap-plicazione di un diverso codice, sofisticato o formale, che abbiamo chiamato codice legale (che nel problema dei nove punti, ad esempio, permette una lettura prettamente letterale della espressione conside-rata) [Mosconi e D'Urso 1974a].

Possiamo vedere in atto gli effetti della decodificazione primaria nella formazione del problema e del passaggio alla decodificazione seconda nella soluzione, prendendo in esame il seguente problema, che può essere considerato un caso esemplare di doppia codificazio-ne per la puntualità dei luoghi critici interessati al fenomeno:

Tre amici vanno al ristorante. Viene loro presentato un conto di 60.000

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lire. Ciascuno di loro da 20.000 lire, ma protestano chiedendo una riduzio-ne. Il padrone allora restituisce 10.000 lire ai tre, i quali lasciano 4.000 lire al cameriere e prendono 6.000 lire. In conclusione, ciascuno di loro ha pa-gato 18.000 lire, che moltiplicato per tre fa 54.000 lire. 4.000 lire le ha prese il cameriere. E fa 58.000 lire. Dove sono andate a finire le 2.000 lire che mancano?

Molti soggetti restano intrigati e impiegano parecchio tempo ad uscirne. In questa versione viene suggerito di sommare indebitamente le 4.000 lire lasciate al cameriere alle 54.000 lire pagate dagli av-ventori. Ma non è qtiesto il punto. Infatti i soggetti sbagliano nella stessa misura e allo stesso modo (alcuni producendo spontaneamen-te, nel ripetersi il problema, la versione precedente) con una versione «onesta» nella quale il suggerimento e la domanda tendenziosa vengono soppressi e sostituiti dalla irreprensibile domanda «come si sono distribuite le 60.000 lire iniziali?». Il punto critico è la decodifica-zione delle espressioni «pagare tot lire» e «lasciare tot lire al came-riere». Il contesto e i correnti usi linguistici favoriscono una decodifi-cazione primaria corrispondente a «pagare un conto di tot lire» e «lasciare una mancia di tot lire al cameriere». Fatto questo, il resto viene da sé: al conto si somma la mancia e ci si trova con lo sbalor-ditivo risultato della mancanza delle famose duemila lire. Che il pun to critico sia la decodificazione di «pagare» e di «lasciare al cameriere», responsabile della difficoltà e del costituirsi del problema, e che la soluzione consegua al passaggio alla decodificazione seconda, che annulla la precedente, lo dimostra il fatto che, se nella versione onesta si sostituisce pagare con sborsare e lasciare al cameriere con dover dare per il servizio, il problema diventa un facile esercizio scolastico che i soggetti risolvono agevolmente.

Se nella sua generalità il meccanismo della doppia codificazione è presente ogni volta che c'è un problema, la sua realizzazione o attua-zione può presentare variabilità da problema a problema. Per esem-pio, varia - per così dire - il punto di applicazione o la zona del messaggio effettivo interessata al fenomeno. (Il messaggio effettivo può essere definito come il correlato psicologico nel ricevente del messag-gio dato, in quanto ottenuto mediante l'applicazione del codice natu-rale al messaggio dato.) Nel problema del conto al ristorante la dop-pia codificazione riguarda due singole espressioni che appaiono nel messaggio verbale. Nel problema dei nove punti, come si è visto, è alla percezione della figura che tocca il ruolo decisivo. Analogamente, dislocazioni diverse si registrano in altri problemi.

La presenza del meccanismo della doppia codificazione discrimi-na i problemi dai compiti: decisivo per la formazione e la soluzione dei problemi, e assente nei compiti. Della distinzione tra compiti e problemi, della sua importanza e dei riflessi negativi che ha sulla ri-cerca psicologica trascurare tale distinzione abbiamo già trattato. Re-sta da precisare che ci sono problemi i quali, oltre alla costitutiva difficoltà di cui abbiamo parlato, comportano anche difficoltà di ese-

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cuzione o di calcolo. Li chiamo problemi composti. Quello dei nove punti ne è un esempio. Una volta che sia stato superato il blocco della limitazione entro i margini della figura, restano delle difficoltà. Resta il compito di determinare la giusta successione dei segmenti adatti a coprire i nove punti, e non tutti i soggetti riescono a farlo. Chiamo residuo del problema questo compito che, assieme all'elemen-to propriamente problemico, concorre a costituire il problema nella sua composita concretezza.

Si è detto che il problema non è un dato ma è prodotto dal soggetto. Ne consegue che ogni situazione può essere l'occasione di una problematizzazione. Non possiamo mai sapere con certezza che i nostri modi di procedere, anche quelli più sperimentati, siano i mi-gliori e non esista invece un'altra soluzione più intelligente. In parti-colare, occorre sottolineare che anche i compiti, che sono stati distinti tanto recisamente dai problemi, possono essere problematizzati. Ne è un esempio il caso famoso del piccolo Gauss già ricordato. Addizionare i numeri da 1 a IO è precisamente quello che noi consi-deriamo un compito. Il piccolo Gauss tuttavia, a differenza dei suoi condiscepoli, problematizza la situazione. Sommare i numeri da 1 a 10 nelle parole dell'insegnante vuoi dire, né più né meno, addizionare i numeri da 1 a 10. Ma il piccolo Gauss introduce una seconda pos-sibile lettura o una decodificazione seconda: sommare diventa calcolare mediante una formula il valore corrispondente alla somma dei numeri da 1 a 10 (e risolve brillantemente il problema). Ovviamente si da il caso anche di problematizzazioni in negativo: compiti di per sé banali, affrontabili con sicuro successo da un pedissequo esecutore, possono trasformarsi in una diffìcile impresa proprio perché la gente cerca di risolverli «in modo intelligente», cercando di scoprire regole o ricorrendo a stratagemmi e strategie. (Ne è un esempio, noto e studiatissimo, il problema dei missionari e dei cannibali.) L'aneddoto di Gauss che da bambino, già ingegnoso e forse pigro, inventa un problema, ossia se lo propone da sé senza alcun intervento esterno, ci fornisce anche un esempio di problema autoposto. Poco studiati in letteratura, i problemi autoposti sono degni di interesse non solo in vista dello studio psicologico della scoperta scientifica ma anche per la loro non eccezionaiità nella vita quotidiana. Nonostante per alcuni aspetti faccia sicuramente una certa differenza che siano altri o siamo noi stessi a porci in situazione problemica, per quanto riguarda la presenza e il funzionamento del meccanismo del doppio codice le due situazioni non presentano sostanziali differenze, come forse ap-pare anche da quel poco che si è detto sul caso del piccolo Gauss.

Inhne, per quanto riguarda la funzione e il ruolo attribuibili alla ricerca {scardo) in una teoria che concepisce il problem solving come scoperta, è ovvio che, da un tale punto di vista, non è accettabile la concezione della ricerca come il metodo principe, ed anzi unico, per la soluzione dei problemi. Tuttavia, negare alla ricerca il ruolo privi -legiato indebitamente attribuitole non impedisce di riconoscerle il ruolo che effettivamente ha nella soluzione del problema. Anzitutto

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la ricerca è il primo procedimento messo in atto da colui che affron-ta il problema, in quanto preliminare attività di indagine dell'enun-ciato, di esame dell'eventuale materiale disponibile, di considerazione delle limitazioni imposte e, oltre ad altre possibilità, ovviamente in quanto diretti tentativi di soluzione che possono protrarsi nel tempo. In secondo luogo, nel caso dei problemi composti la ricerca è il pro-cedimento che, una volta avvenuto lo scioglimento del nodo proble-mico (o «capito il problema»), serve a portare a termine il compito, sistemando il residuo del problema. Insomma, la funzione della ri-cerca non muta nell'ambito dei problemi rispetto ai compiti, diverso è invece il rutilo, che nella soluzione dei problemi è soltanto subal-terno.

2. Ragionamento

In questa parte del capitolo tratteremo le operazioni di tirare una conclusione, controllare un'ipotesi e valutare la probabilità di un evento. Sono operazioni o atti di pensiero di una certa complessità, che si compongono di più operazioni minori connesse e coordinate. Generalmente nella ricerca psicologica sul ragionamento esse sono trattate in isolamento, ossia prese in sé e considerate come autono-me, all'infuori della loro possibile collocazione in operazioni o discor-si più ampi e ancora più complessi, come produrre una dimostrazio -ne, una spiegazione, un discorso persuasivo, una decisione, ecc. Nella vita cosiddetta «reale», ossia nelle comuni situazioni non determinate dallo sperimentatore in sede sperimentale, un tale isolamento o una tale autonomia comunemente non si da e quello che per lo più la gente fa è proprio spiegare, persuadere, dimostrare, scegliere tra più possibilità, e così via. È bene tenerlo presente, ed è bene tenere presente anche che ciò non costituisce in sé un capo di imputazione per la ricerca scientifica.

2.1. Tirare una conclusione

Quando si asserisce o si accetta come vera una proposizione, ci si espone a doverne rigettare altre che si rivelino incompatibili con quella accettata e anche a doverne accogliere altre che siano ad essa connesse o che ne discendano. Questo può avvenire per riflessione propria o più Irequentemente per azione altrui, per le contestazioni o le argomentazioni dell'interlocutore in una discussione. Proprio pensando alle «regole di una sana discussione» Aristotele avrebbe cominciato a meditare sulle «regole del ragionamento» e sarebbe poi arrivato a elaborare la sua teoria del sillogismo [Bréhier 1989, cap. IVI. Per secoli il sillogismo ha goduto di un indiscusso prestigio co-me forma canonica eli ragionamento. Gli psicologi vi ricorsero fin dall'inizio per studiare il pensiero, probabilmente indottivi dalla con-

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vinzione che tosse necessario disporre di una norma sicura alla quale fare riferimento e in base alla quale poter valutare il comportamento dei soggetti. Purtroppo rimase in ombra il profondo e complesso rapporto tra sillogismo — o logica in generale — e senso comune, già riconosciuto da Aristotele, e non ci si avvide delle sue rilevanti impli-cazioni, l'ale scelta ha avuto una notevole e sfavorevole influenza, non solo sulla tecnica sperimentale, ma anche sulla problematica af-frontata e sugli obiettivi della ricerca.

Tratteremo, qui di seguito, prima della ricerca sui sillogismi clas-sici (sillogismi categorici), poi di una «variante» di sillogismo (sillogi-smi lineari).

Sillogismi categorici

II sillogismo è un concatenamento di proposizioni (due premesse e una conclusione) atto a stabilire con certezza che la conclusione deriva necessariamente dalle premesse. «Si dicono sillogismi (più precisamente, sillogismi categorici) dei ragionamenti in cui una pro-posizione categorica è derivata come conclusione da due proposizio-ni categoriche quali premesse, e le tre proposizioni stanno in tale relazione che vi sono in tutto soltanto tre termini, ciascuno dei quali compare in due delle tre proposizioni» [Quine 1959; traci, it. 1964, 1001. Le proposizioni di un sillogismo possono essere universali affer-mative (tutti gli X sono Y), universali negative (nessun X è Y), parti-colari affermative (qualche X è Y), particolari negative (qualche X non è Y). Esse sono simbolizzate con le lettere A, E, 1, O (dalle vocali dei verbi latini Afflrmo e nEgO). Le possibili combinazioni delle quattro proposizioni categoriche nella premessa e nella conclusione determinano i modi del sillogismo. Oltre che dei modi, bisogna tener conto anche delle figure, che sono quattro. Le figure sono distinte in base alla posizione che occupa in ciascuna delle due premesse il ter-mine medio (il termine che compare in entrambe le premesse, con-nettendole, e che non compare nella conclusione). Nella prima hgura il termine medio funge da soggetto nella prima premessa e da predi-cato nella seconda (Tutti gli esseri umani sono mortali. Tutti i greci sono esseri umani. Tutti i greci sono mortali). Nella seconda tigura il termine medio funge da predicato in entrambe le premesse; nella terza figura da soggetto in entrambe le premesse; nella quarta hgura il termine medio funge da predicato nella prima premessa e da sog-getto nella seconda. Non da tutte le combinazioni di premesse deri-vano conclusioni necessarie o valide. La teoria del sillogismo permette di distinguere le conclusioni valide dalle conclusioni invalide.

Il sillogismo, e in generale la logica formale, stabilisce regole di ragionamento «formali», indipendenti dal contenuto sul quale si ra-giona. Una volta che date premesse siano assunte come vere, la con-clusione che ne discende necessariamente è senz'altro «vera», non può non essere accettata finché si accettino quelle premesse, essendo fuori gioco o inlnfluenti le conoscenze relative al contenuto del siilo-

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gismo, comprese quelle sulla verità fattuale della conclusione. Invece in un comune ragionamento, pur essendo praticabile la distinzione tra i due aspetti, l'assunzione di un punto di vista assimilabile a quello proprio della logica formale può avvenire solo «con segnala-zione» (situazionale o dichiarata), vale a dire che non è la condizio -ne normale o presupposta.

L'influenza del contenuto sulla valutazione della conclusione (in debito, dal punto di vista logico) fu tra i primi temi affrontati dalla ricerca psicologica. Wilkins [1928] utilizzò quattro gruppi di sillogi -smi strutturalmente identici ma con materiale diverso: a) materiale concreto e familiare (con proposizioni come: «tutti gli studenti di letteratura frequentano le biblioteche»); b) materiale simbolico («tutti gli A sono B»); e) materiale non familiare, rappresentato da termini scientifici e pseudoscientihei («tutti i loraminiferi sono rizopodi»); ci) materiale suggestivo (nel senso che inferenze valide portano ad asserzioni fattualmente false e inferenze invalide portano ad asserzio-ni fattualmente vere). Wilkins trovò notevoli differenze nella corret-tezza «logica» della valutazione delle conclusioni a seconda del mate-riale, dai sillogismi con materiale concreto e familiare (i più facili) a quelli con materiale simbolico (i più diffìcili). L'influenza dell'«atteg-giamento verso la conclusione» sulla valutazione della validità del sil-logismo venne studiata da Janis e Frick [1943], i quali trovarono che quando i soggetti sono d'accordo sulle conclusioni vi è un numero significativamente maggiore di acccttazioni di sillogismi non validi ri-spetto ai rifiuti di sillogismi validi, mentre quando i soggetti non so-no d'accordo sulla conclusione vi è un numero significativamente maggiore di rifiuti di sillogismi validi rispetto all'accettazione di sillo-gismi non validi.

Qui ci limitiamo a segnalare la presenza e la precoce apparizione nella ricerca psicologica di questa problematica [in particolare, sul conflitto tra logica e credenze nel ragionamento sillogistico, cfr. Evans, Barston e Pollard 1983; McGuire I960]. Vorremmo segnalare che, poiché nei ragionamenti comuni l'aspetto «formale» e l'aspetto «contenutistico» non vengono trattati disgiuntamente, questo tipo di ricerche in realtà fornisce informazioni su questo modo di lavorare della nostra mente (sostanzialmente confermandolo) e sulla relativa difficoltà di separare i due elementi, piuttosto che direttamente sulle nostre capacità di ragionare «correttamente». Infatti è piuttosto im-probabile che un tale che non sa neppure cosa sono i foraminiferi si impegni in un ragionamento sui foraminiferi e, d'altra parte, un «buon ragionatore» potrebbe trovarsi in difficoltà a trattare il solo aspetto formale ( per esempio, se si trova alle prese con sillogismi simbolici ).

Basandosi anche sull'analisi dei dati della Wilkins, Woodworth e Sells 119351 tentarono di spiegare gli errori nel ragionamento sillogi-stico ipotizzando un c/jetto atwosjcrd, secondo il quale se le due pre-messe sono dell» stesso t ipo (AA, hb, I I , ( ) ( ) ) la conclusione sarà di quelle slesso t i p ■, mentre, se le premesse sono di t ipo diverso (uni -

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versale e particolare; affermativa e negativa): a) la presenza di una proposizione negativa nelle premesse crea un effetto atmosfera nega-tivo, e la conclusione sarà negativa (E oppure O); b) la presenza di una proposizione particolare nelle premesse crea un effetto atmosfera particolare, e la conclusione sarà particolare (I oppure O). Inoltre, gli autori postularono due addizionali fattori che favoriscono l'accet-tazione di conclusioni invalide. Questi sono: a) il fattore di «caute-la» o «prudenza», che favorisce l'accettazione di conclusioni deboli e caute piuttosto che di conclusioni forti: I piuttosto che A, O piutto-sto che E; b) l'ambiguità della parola qualche, usata in senso distri-butivo in logica (almeno qualcuno) e molto spesso in senso partitivo nel linguaggio ordinario (soltanto qualcuno) [Sells 1936, 1-17]. Se-condo gli autori, che presero in considerazione soltanto sillogismi con contenuto simbolico, quasi tutte le accettazioni di conclusioni in-valide possono essere spiegate così.

Un riesame dell'effetto atmosfera venne effettuato da Chapman e Chapman [1959]. Per ogni sillogismo, alle due premesse essi fecero seguire cinque conclusioni alternative (presentate in ordine casuale): 1) tutti gli Z sono X, 2) nessun Z è X, 3) alcuni Z sono X, 4) al-cuni Z non sono X, 5) nessuna di queste. I soggetti dovevano indi-care quale di queste conclusioni era valida. Per tutti i 42 sillogismi sperimentali (tutti invalidi) la risposta corretta era «nessuna di que-ste». La media delle risposte corrette fu solo del 20%. «Ci fu una notevole concentrazione di scelte su una delle quattro conclusioni er-ronee in tutti i tipi di premesse eccetto con le premesse EO e OE dove le preferenze si dividono tra una conclusione O e una conclu-sione E» [ibidem, 223-224]. Quest'ultima scelta (conclusione E) non è conforme all'ipotesi effetto atmosfera, così come non lo sono i ri-sultati ottenuti con le premesse IE, per le quali l'errore preferito è E (mentre l'errore predetto dalla ipotesi dell'effetto atmosfera è O). Secondo Chapman e Chapman, dunque, l'effetto atmosfera non rie-sce a dar conto di tutti i risultati ottenuti. Per interpretare i dati sperimentali gli autori propongono due nuove ipotesi. 1) 1 «profani» tendono a considerare valida la conversione semplice delle proposi-zioni di tipo A (cioè da «Tutti gli A sono B» a «Tutti i B sono A»), delle quali invece è valida solo la conversione per accidens (cioè da «Tutti gli A sono B» a «Qualche B è A»), e la conversione delle proposizioni di tipo O (non convertibili). 2) Dato che gran parte delle inferenze della vita quotidiana ha solo carattere probabilistico, questa abitudine influenza il comportamento dei soggetti, secondo il criterio: «cose che hanno qualità ed effetti comuni sono verosimil -mente lo stesso tipo di cose, mentre cose che mancano di qualità e di effetti comuni verosimilmente non sono le stesse cose» (e «nel sillogismo è il termine medio che fa da caratteristica comune»). Se-condo Chapman e Chapman gli errori che non sono spiegati dal solo principio dell'accettazione della conversa delle proposizioni A e O, sono spiegati dalla sua combinazione con l'inferenza probabilistica [ibidem, 224-225]. Ne conseguirebbe che «i soggetti si sono compor-

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tati come persone pienamente ragionevoli ma imprudenti: giudicano provato quello che è soltanto probabile» [ibidem, 225].

A questo punto ci sono due teorie che pretendono di dar conto degli errori nel ragionamento sillogistico formale (più precisamente, degli errori prodotti nelle situazioni sperimentali). Una mette in campo hit tori alogici (effetto atmosfera e prudenza), anche se Sells segnala le corrispondenze tra le regole dell'effetto atmosfera e quelle della logica classica. L'altra teoria ipotizza l'azione di tendenze razio-nali o fondamentalmente razionali (principio della conversione delle proposizioni di tipo A e di tipo O e principio delle inferenze proba-bilistiche). Entrambe sono teorie composite, che fanno intervenire principi eterogenei (effetto atmosfera più prudenza; principio della conversione più inferenze probabilistiche). Nella gran maggioranza dei casi le loro previsioni coincidono, situazione quest'ultima che rende piuttosto difficile il loro controllo, che ha impegnato gran parte delle ricerche successive.

La riformulazione delle due ipotesi dell'atmosfera e della conver-sione nella forma di modelli del processo di ragionamento sillogistico e il loro controllo mediante il confronto tra i due corrispondenti mo-delli, con riguardo alla loro capacità di predire le scelte dei soggetti, venne tentata da Revlis [1975; cfr. anche Revlin e Leirer 1978; Rev-lin et al. 19781. Le previsioni basate su ciascun modello vengono confrontate con le scelte effettuate dai soggetti sperimentali (com-plessivamente 50), in riferimento ad un set di nove problemi critici. Per i problemi unitari (quelli in cui ciascun modello fa una sola pre-dizione che si differenzia dalla predizione del modello alternativo) il modello basato sull'ipotesi atmosfera «è in modo schiacciante il mi-glior predittore delle decisioni dei soggetti. Per i sillogismi validi questo modello da conto dell'88,9% di tutte le decisioni, mentre il modello conversione predice accuratamente soltanto il 6,8% delle de-cisioni. [...] Per il solo sillogismo invalido che fa parte del set critico il primo modelli) è corretto per l'85,2% di tutte le decisioni, mentre il modello conversione è corretto per l'8,4% delle decisioni. Invece, c'è poca differenza tra i modelli nei problemi duali, quelli nei quali il modello basato sull'ipotesi atmosfera fa un'unica previsione mentre il modello conversione prevede due possibili decisioni: 79,4% contro 85,7%» [Revlis 1975, 191], Tuttavia, il modello basato sull'ipotesi at-mosfera, se «è più accurato nelle sue predizioni», non sa prevedere le risposte corrette «nessuna di queste» e non presenta quella accu-ratezza uniforme per le diverse situazioni che dovrebbe invece dimo-strare, dato il suo principio ispiratore che i soggetti non effettuano inferenze logiche ma procedono secondo un criterio alogico [ibidem, 192].

Gli effetti di addestramenti differenziali, l'uno destinato a ridurre gli errori attribuibili all'effetto atmosfera e l'altro a ridurre gli errori attribuibili alla conversione invalida, sono studiati nell'esperimento di Simpson e Johnson [1966], È un modo di controllare la validità del-le due teorie a confronto: diversi effetti di terapie basate su diverse

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diagnosi permettono di giudicare della bontà di queste ultime. «In generale l'addestramento differenziale diede risultati differenziati» [ibidem, 200]. Gli effetti dell'addestramento antiatmosfera erano ab-bastanza evidenti: il gruppo antiatmosfera commise un numero signi-ficativamente basso di errori atmosfera ma non di errori conversione. Gli effetti dell'addestramento anticonversione non risultano altrettan-to evidenti. «Per quanto sia possibile che l'addestramento anticon-versione non fosse così ben organizzato ed eseguito come 1 addestra-mento antiatmosfera», resta tuttavia un'indicazione a favore dell'ipo-tesi atmosfera [ibidem].

Istruzioni differenziali venivano utilizzate anche da Dickstein [1975], questa volta con risultati a favore delle ipotesi dei Chapman. Oltre alle istruzioni standard, date anche al gruppo di controllo, ad un terzo dei soggetti (che complessivamente erano 66) vennero date anche istruzioni supplementari antiatmosfera e all'altro terzo dei sog-getti istruzioni supplementari anticonversione e inferenza probabili-stica. I soggetti dovevano scegliere tra la solite cinque risposte alter-native. Mentre con i sillogismi validi non vennero riscontrate diffe-renze significative, con i sillogismi invalidi «il gruppo anticonversione e antiinferenza probabilistica diede una prestazione significativamen-te migliore sia del gruppo antiatmosfera sia del gruppo standard, che tra di loro non differirono significativamente». (Va segnalato che Dickstein, avendo dato a metà dei soggetti le premesse in un ordine e all'altra metà nell'ordine inverso, non trovò alcun importante effet -to sequenza.)

Controllare le due ipotesi dell'atmosfera e della conversione è un obiettivo dichiarato anche dell'esperimento di Mazzocco, Legrenzi e Roncato [1974]. Viene chiesto ai soggetti di completare dei sillogi-smi mancanti della seconda premessa, scegliendola tra una lista di nove possibilità: le quattro proposizioni categoriali (come «Tutti gli A sono B»), le loro converse (come «Tutti i B sono A») e «nessuna di queste». Confrontando le risposte dei soggetti con le previsioni basate sull'ipotesi atmosfera da un lato e sull'ipotesi conversione e inferenza probabilistica dall'altro, gli autori conclusero che «è eviden-te che né l'ima né l'altra ipotesi rende conto della prestazione dei soggetti in questo esperimento» [ibidem]. Grazie alla tecnica adotta-ta, è stato possibile evidenziare l'influenza dell'ordinamento dei ter-mini nella prima premessa sulla scelta della seconda premessa da in-serire. «Quando la premessa data, come seconda, ha il termine me-dio come predicato, il 73% dei soggetti sceglie una premessa nella quale il termine medio agisce come soggetto. Se invece la premessa data ha il termine medio come soggetto, allora c'è più equilibrio nelle scelte, rispettivamente 54% e 46%. Così, sembra ragionevole affermare l'esistenza nel ragionamento sillogistico di un "ordine naturale" definito dal fatto che il termine medio agisce come predicato nella prima premessa e come soggetto nella seconda» [ibidem, 1701. Questo interessante rilievo rende plausibile ritenere che l'ordine dei termini in un sillogismo può influire sulla difficoltà di capire e mettere

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in relazione le premesse e può influire sulla difficoltà di raggiungere una conclusione.

Una critica metodologica alle ricerche di Woodworth e Sells e a quella dei Chapman viene sviluppata in un lavoro di Mosconi [1970] con riferimento a tre punti principali: la mancata segnalazione della «necessità» di una conclusione logica, l'insufficiente neutralizzazione del diverso significato di «qualche» in logica e nel discorso comune, l'impiego prevalente di sillogismi invalidi. Secondo Mosconi, bisogna inoltre considerare che, se dal punto di vista della logica accertare che dalle premesse non discende alcuna conclusione necessaria è una conclusione che vale qualsiasi altra, nel modo di pensare comune una siffatta soluzione del problema dato può facilmente apparire co-me una soluzione mancata, mentre conclusioni «positive» ritenute anche solo probabili o possibili sono già vissute come soluzioni, ma-gari solo parzialmente soddisfacenti. Questo rende plausibile ipotiz-zare che «a) quando esigenze "logiche" (conclusione necessaria) ed esigenze "psicologiche" (arrivare ad una conclusione) coincidono, pensiero comune e logica tendono alla concordanza; b) quando esi-genze "logiche" ed esigenze "psicologiche" non coincidono, il pensie-ro comune tende a ricorrere ad una logica più ampia e permissiva della teoria del sillogismo, più adatta all'appagamento delle esigenze psicologiche» [ibidem, 147]. In particolare, con sillogismi validi (caso di concordanza delle esigenze logiche e psicologiche) si prevede una netta prevalenza di conclusioni corrette anche secondo la teoria del sillogismo; con sillogismi non validi (caso di discordanza delle esigen-ze logiche e psicologiche) si prevede un basso numero di conclusioni logicamente corrette, che devono essere «negative», e un numero no-tevole di conclusioni corrette soltanto secondo la logica del pensiero comune (conclusioni «positive» compatibili con le premesse, anche se non «necessarie»).

Nell'esperimento esplorativo, destinato ad un primo controllo di quest'ipotesi, vennero introdotte alcune innovazioni. Innanzitutto, in-vece di un sillogismo completo o di una coppia di premesse e più conclusioni, ai soggetti venivano fornite solo le premesse e il loro compito consisteva nel trame la conclusione, con la precisazione che le eventuali conclusioni potevano essere certe oppure soltanto possi-bili. «Questa soluzione, evitando sicuramente di limitare o incanalare le risposte del soggetto, consente il più sicuro e ampio rilievo degli autentici risultali del processo deduttivo» Vibidem, 1501. In secondo luogo le premesse venivano formulate come nell'esempio seguente: «Tutti t membri del gruppo B fanno parte del gruppo C. Almeno un membro del gruppo A fa parte del gruppo B». Per eliminare o ridurre i noti inconvenienti connessi all'uso di «qualche» è stata usata l'espressione «almeno un membro di». Per eliminare l'ambiguità di «sono», segnalata dai Chapman, è stata usata l'espressione «fanno parte di» che esplicita il rapporto di inclusione tra i termini dell'enunciato. In -fine, anziché con lettere, i termini sono stati individuati con l'espres-sione «membro/i del gruppo A/B/C». Complessivamente sono state

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A e B coincidono A è incluso in B A include B A interseca B A e B si escludono

DISTRIBUTIVA PARTITIVA ■' INCLUSIVA

I : u , . 7.4. Tipi tli relazioni tra insiemi I da Be^ e I larris 1^821.

utilizzate sedici coppie di premesse (otto ricavate da sillogismi validi e otto da sillogismi non validi). Conformemente alle ipotesi: a) con le coppie di premesse derivate da sillogismi validi le risposte logica-mente corrette e date per certe dai soggetti corrispondono al 77"/», mentre le risposte accettabili solo secondo la logica del pensiero co-mune (compatibili con le premesse e date soltanto per possibili) cor-rispondono al 10%; b) con le coppie di premesse derivate da sillogi-smi non validi le risposte logicamente corrette corrispondono solo al 10,50%, mentre le risposte accettabili soltanto dal pensiero comune (compatibili con le premesse e date soltanto come possibili) corri-spondono al 52%; e) la differenza tra le risposte accettabili secondo il pensiero comune con sillogismi validi e sillogismi invalidi (rispettiva-mente 87% e 62%) è considerevolmente inferiore a quella tra rispo-ste corrette secondo la teoria del sillogismo (77% e 10,50%). L'auto-re propone di «considerare il piano logico semplicemente come una delle impostazioni possibili del pensiero», rigettando sia l'assunzione della logica come modello del pensiero, sia la contrapposizione tra logica e pensiero o discorso comune, di cui la logica costituirebbe un subsistema «specialistico» {ibidem, 154].

Formulazioni modificate delle premesse, nel senso di renderle «interamente esplicite» (ma anche complesse e macchinose), vennero utilizzate successivamente da Ceraso e Provitera [1971]. Ad esempio, invece della formulazione classica «Alcuni A sono B», che potrebbe adattarsi a tutte le relazioni da 1 a 4 nella figura 7.4, essi usarono una formulazione del tipo «Alcuni A sono B, alcuni A non sono B e alcuni B non sono A», che può riferirsi solo alla situazione 4 della figura 7.4.

Quelle che Mosconi chiamava esigenze psicologiche, e più parti-colarmente le regole o condizioni della produzione e accettazione del discorso (cioè quelle regole alle quali normalmente si attiene colui che produce il discorso e che normalmente l'interlocutore si aspetta siano rispettate e secondo le quali in prima istanza interpreta o capi -sce ciò che viene detto), in seguito hanno sempre più attirato l'atten-zione dei ricercatori. Woodworth e Sells [1935] avevano trovato che l'ordine in cui sono disposte le premesse non ha influenza sulla ac-cettazione della conclusione e questo risultato venne in seguite) fre-quentemente presupposto o confermato [Sells 1936; Chapman e

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Chapman 1959; Dickstein 1975]. Questi risultati sono piuttosto sor-prendenti. La sorpresa o i dubbi non appaiono ingiustificati se si pensa alla grande influenza che ha l'organizzazione del discorso nel-l'orientare l'ascoltatore e nel favorirne o ostacolarne la comprensione. Già Mazzocco, Legrenzi e Roncato [1974] avevano rilevato una pre-ferenza nei loro soggetti che mal si accorda con l'asserita non in-fluenza dell'ordine delle premesse (cfr. supra, p. 419). Johnson-Laird e collaboratori [Johnson-Laird e Steedman 1978; Johnson-Laird e Bara 1984] hanno trovato una forte influenza della figura del sillogi-smo (ossia della disposizione dei termini in ciascuna premessa e del-l'ordine o successione tra le premesse) sulla conclusione (che i sog-getti dovevano produrre). Sia quando era possibile tirare una o più conclusioni valide sia quando nessuna conclusione valida poteva esse-re dedotta, si registrò: a) una forte preferenza dei soggetti per con-clusioni di forma AC, quando le premesse avevano la forma AB BC. Vale a dire, per esempio, premesse come «Alcuni genitori [A] sono scienziati [B]. Tutti gli scienziati [B] sono automobilisti [CI» tendo-no a far apparire la conclusione «Alcuni genitori [A] sono automobi-listi [C]», piuttosto che l'altrettanto valida conclusione «Alcuni auto-mobilisti [C] sono genitori [A]» [Johnson-Laird e Steedman 1978]; b) una forte preferenza per conclusioni della forma CA, quando le premesse erano del tipo BA CB, ossia quando il termine medio fun-geva da soggetto nella prima premessa e da predicato nella seconda. I dati ottenuti in questi esperimenti vennero utilizzati per la formula-zione di una teoria basata sull'ipotesi che il ragionatore costruisce modelli mentali delle premesse (la teoria prevede un processo in tre stadi, e questo è precisamente il primo: l'interpretazione delle pre-messe); formula conclusioni «informative» sulle relazioni nel modello (è il secondo stadio); infine cerca modelli alternativi delle premesse che costituiscano dei controesempi e possano falsificare le conclusioni raggiunte (terzo stadio). «Due fattori principali potrebbero influire sulla difficoltà di un sillogismo: la figura delle premesse, la quale può rendere difficile costruire un modello iniziale (nello stadio uno) e può influenzare l'ordine nel quale una conclusione è formulata (nello stadio due), e il numero di modelli mentali che devono essere co-struiti, il quale può produrre un peso addizionale per la memoria di lavoro (nello stadio tre)» []ohnson-Laird e Bara 1984, 41].

Una spiegazione «comunicazionale» della interpretazione da par-te dei soggetti di proposizioni categoriali come quelle usate nei sillo-gismi è quella proposta da Begg e Ilarris [1982]. Dato che le con-venzioni che regolano il discorso comune sono diverse da quelle del-la logica, le interpretazioni da parte dei soggetti delle proposizioni categoriali non saranno conformi alla lettura restrittiva voluta dalla interpretazione secondo i canoni della logica, e quindi alle convenzio-ni della logica. Jn particolare, vengono considerati due principi e gli effetti della loro applicazione: a) il principio di completezza e b) il principio di asimmetria.

a) II principio di completezza può essere grosso modo espresso

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così: «nel discorso normale l'ascoltatore può ragionevolmente aspet-tarsi che colui che parla tornisca un'informazione il più completa possibile» [.ibidem, 5%]. Se ci si attiene al principio della completez-za, il campo di interpretaziune delle proposizioni categoriali subisce delle determinazioni e viene ristretto. Così, «una proposizione del tipo "alcuni" (particolare affermativa) verrebbe interpretata soltanto partitivamente (situazioni 4 e 3 della lig. 7.4), eliminando le inter-pretaziuni distributive logicamente corrette (situazioni f e 2 della stessa figura), che nel discorso normale sarebbero meglio espresse da tutti. Allo stesso modo alcum-non sarebbe interpretato partitivamente (situazioni 4 e 3 della hg. 7.4), eliminando la relazione esclusiva (si-tuazione 5), per la quale nessuno sarebbe una espressione più norma-le». Ne deriverebbe che le quattro proposizioni categoriali darebbero luogo a tre sole interpretazioni: «una interpretazione è quella negati -va che include nessuno e la relazione esclusiva. Un'altra è l'interpreta-ziune affermativa che include tutti e le relazioni distributive. La terza interpretazione è quella partitiva che include alcuni e alcum-non e le due relazioni partitive» [ibidem, 598].

b) II principio di asimmetria riguarda un'altra differenza tra logica e discorso comune: nel discorso comune l'ordine dei termini produce informazione. Per esempio, «alcuni canadesi sono francotoni» invita l'ascoltatore a considerare l'insieme di tutti i canadesi e a isolare per una successiva considerazione quei canadesi che parlano trance-se. Invece, «alcuni francofoni sono canadesi» induce la considerazione di tutti i trancofoni, particolarmente quelli che vivono in Canada. L'insieme fecalizzato è il medesimo in entrambi i casi, ma la sua importanza differisce poiché nei due casi è contrastato con un insie -me generale differente. La questione è che, per l'ascoltatore, l'intro-duzione di un termine come soggetto o come predicato trasmette informazione al di là delle funzioni sintattiche dei termini. Invece, nella logica formale, se un termine è introdotto come soggetto o co-me predicato non ha nessuna implicazione per quel che riguarda la sua importanza o generalità [ibidem].

Nel primo dei tre esperimenti attuati da Begg e Harris, veniva chiesto ai soggetti di interpretare le proposizioni categoriche scegliendo le appropriate relazioni espresse graficamente nella forma di diagrammi di Eulero (vedi fìg. 7.4). Per ciascuna premessa {tutti gli A sono B, nessun A è B, alcuni A sono B, alcuni A non sono B) essi dovevano distribuire cento punti tra le cinque relazioni dando più punti alle relazioni che consideravano interpretazioni più soddisfacenti. Con la proposizione universale negativa (nessun A è B) venne scelta soltanto la situazione 5 (relazione esclusiva); con la proposizione universale aifermativa (tutti gli A sono B) le preferenze si divisero all'interno della relazione di distribuzione: 57% alla situazione I e 43% alla situazione 2; con la proposizione particolare affermativa (alcuni A sono B) e con la pi ...posizione particolare negativa (qualche A non è B) le preferenze si concentrarono sulla relazione partitiva (63% e 36% alla situazione 4, 21% e 44% alla situazione 3), trascurando la

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relazione esclusiva (situazione 5). Anche gli altri due esperimenti so-stanzialmente confermarono l'analisi e le previsioni degli autori.

La comprensione delle proposizioni categoriali è stata studiata anche da Newstead [1989]. In uno degli esperimenti l'autore utilizzò un compito di inferenza immediata. Le quattro tradizionali proposi -zioni categoriali (tutti gli A sono B, nessun A è B, alcuni A sono B, alcuni A non sono B) vennero proposte una alla volta. Ogni volta sotto la proposizione c'erano otto proposizioni test: le quattro pro-posizioni categoriali e le loro converse. Stabilito che la proposizione sovrastante era vera, al soggetto veniva chiesto di indicare se le pro-posizioni sottostanti erano vere o false, data appunto la verità della prima. I soggetti potevano rispondere solo «vero», se la proposizione era necessariamente vera, o «falso», quando non fosse così. Le istru-zioni indicavano anche che alcuni doveva essere interpretato nel suo significato logico. I soggetti mostrarono di credere che tutti implicas-se la sua conversa: 57% delle risposte. Ancora più frequenti (90%) le conversioni illecite di alcuni-non. Assai comuni gli errori, prevedibili secondo la teoria di Grice delle implkature conversazionali, che alcuni implica alcuni-non e viceversa (93% e 83%, rispettivamente). Secondo l'autore, «l'afìermazione che nel ragionamento sillogistico gli errori sono causati da erronea interpretazione delle premesse è fortemente confortata dalla presente ricerca. La teoria della conversione in parti-colare sembra giocare una parte importante. Si è visto che gli errori di tipo griceano esistono e spiegano certi errori nel ragionamento sil-logistico» [ibidem, 91].

Una teoria del conflitto tra logica e sistema del linguaggio comune è stata proposta da Politzer [1986]. Secondo questo autore «lo svi -luppo logico precoce è contemporaneo allo sviluppo della componente pragmatica del linguaggio; lo sviluppo logico posteriore (durante l'adolescenza o anche nell'età adulta) avviene in contrasto con uno sfondo di principi già acquisiti dell'uso del linguaggio e della comu-nicazione che sono incompatibili con molte regole della logica forma-le. In altre parole, lo sviluppo del pensiero logico tende verso un sistema duale e internamente contraddittorio. Perciò, condizione ne-cessaria per un effettivo uso della logica è che la situazione di con-flitto sia risolta mediante la differenziazione e coordinazione dei due subsistemi. In generale, una tale coordinazione non verrà completa-mente raggiunta. I due sistemi entreranno in conflitto nel controllo del processo di ragionamento e il grado di coordinazione realizzato determinerà le differenze individuali nella prestazione in compiti lo-gici. I numerosi adulti che danno basse prestazioni in compiti logici possiedono potenziali abilità logiche; cioè, le loro strutture logiche sono costituite ma non ben coordinate con le leggi dell'uso del lin -guaggio. Essi hanno due subsistemi contraddittori a loro disposizione e i loro errori sono causati dall'uso del sistema del linguaggio» [ibi-dem, 65]. Sulla base di questa teoria Politzer ha studiato la compren-sione di semplici proposizioni categoriche (deduzione immediata) e ha proposto un modello per prevedere e dar conto delle risposte

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registrabili con sillogismi categorici, che tra l'altro fornisce una spie-gazione dell'effetto atmosfera e dell'effetto figurale [Politzer 1990b]. Fin dall'inizio, o ben presto, ci si avvide almeno di alcune vistose «interferenze» delle regole secondo le quali viene prodotto e com-preso il discorso comune sulla comprensione dei compiti sperimentali e la loro soluzione da parte dei soggetti. È il caso, per esempio, della comprensione o del significato attribuito al termine qualche o della necessità richiesta per la conclusione di un sillogismo o dell'im-piego di sillogismi per l'enorme maggioranza dei quali non vi era alcuna conclusione valida. I rimedi escogitati furono in generale sem-plicistici e inadeguati, consistendo per lo più nel semplice inserimento di avvertenze o spiegazioni nelle istruzioni preliminari (piuttosto che in modificazioni delle formulazioni utilizzate), segno anche questo della sostanziale sottovalutazione o della disattenzione per questo aspetto della ricerca. In seguito, anche per effetto dello sviluppo del -le indagini filosofìche linguistiche e psicologiche sul discorso (per lo più si parla di conversazione, con riguardo alla sola comunicazione), nelle ricerche sul ragionamento sillogistico l'attenzione verso gli aspetti linguistico-conversazionali o pragmatici è venuta continua-mente crescendo. Un ulteriore sviluppo richiede — a mio parere — l'accoglimento di una concezione del rapporto tra discorso comune e discorso logico secondo la quale la logica, né norma per il pensiero né subsistema in conflitto con il subsistema del discorso comune, sia considerata come un discorso speciale (in questo caso, specialistico) derivato (e non in conflitto, ma distinto) dal discorso comune.

Sillogismi lineari o problemi seriali a tre termini

«Tom corre più veloce di Jim, Jack corre più lento di Jim. Chi è il più lento?» oppure «Edith è più bionda di Susanna, Edith è più bruna di Lilli. Chi è la più scura?» sono esempi di sillogismi lineari [Burt 1919; Piaget 1921]. Come si vede, essi si compongono di due premesse, che indicano la posizione dei termini in una serie o su una linea, e di una conclusione, che è precisamente la soluzione richiesta. Di qui viene la denominazione di sillogismi lineari. Si usa anche l'e-spressione problemi seriali a tre termini perché nell'enunciato figurano appunto tre termini in serie (Tom, Jim e Jack oppure Edith, Susanna e Lilli), dei quali è determinata la posizione relativa, mentre la domanda precisa il compito posto al solutore.

Il punto di partenza tradizionale per le ricerche sui sillogismi li-neari è la constatazione che la relazione esistente tra i tre termini, che è stata simbolizzata con A > B > C e C < B < A (dove al posto dei segni > e < si possono mettere i comparativi di aggettivi come veloce-lento, biondo-bruno, grande-piccolo, alto-basso, buono-cattivo, e via dicendo), può essere espressa in più modi. Hunter [1957a], per esempio, ha distinto quattro tipi di formulazioni e al-l'interno di ciascun tipo due forme parallele, considerate psicologica-

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- chi e il più alto? - chi e il più basso?

mente corrispondenti (per esempio, A > B : B > C e C < B: B < A) per un totale di otto formulazioni. La domanda che segue questi enunciati, e che precisa il compito per il soggetto, viene espressa ora nella forma «Chi è il > ?» ( i l maggiore, il più alto, il migliore, il più veloce, il più biondo, e così via) ora nella forma «Chi è il <?» (i l minore, il più basso, il peggiore, il più lento, il più bruno, ecc). Cosicché complessivamente si hanno quattro tipi; otto diverse forme di premesse (corrispondenti ad altrettante descrizioni della relazione o enunciati); sedici diverse forme di sillogismi o pro-blemi (si veda la tab. 7.1).

La congiunzione dell'invariabilità della relazione e della variabilità delle formulazioni con le quali può venire espressa è probabilmente la ragione prolonda dell'interesse dedicato dagli psicologi ai sillogismi lineari. Non si può, tuttavia, non tener conto che i diversi enunciati hanno una diversa struttura discorsiva e possono corrispondere -per così dire — a diverse intenzionalità espressive. Gli enunciati «de-rivati» — quelli di tipo 2, 3 e 4 — non sono semplicemente delle va-riazioni della formula originaria (l'ordinamento isotropo del tipo 1 o il semplice ordinamento seriale), ma sono modi di dire cose diverse, piuttosto che modi diversi di dire la stessa cosa. Consideriamo, ad esempio, l'enunciato del tipo 4 (B < A : B > C) che in letteratura, dove comunemente si chiede «Chi è il > ?» o «Chi è il < ?», è risultato sempre il tipo di enunciato più difficile. Se qualcuno vuoi dire che A è più alto di B che è più alto di C, ben diffìcilmente dirà che B è più basso di A e più alto di C. Altrettanto difficilmente l'ascoltatore lo potrebbe capire e penserebbe in prima istanza a quel-l'ordinamento, ossia alla serie intera. Sembra ragionevole invece che questa struttura discorsiva sia utilizzata da chi non della serie voglia parlare ma della posizione di B nella serie, della sua collocazione e precisamente del suo stare in mezzo o della sua medianità. Ed è questo che verosimilmente capirà anche l'ascoltatore.

E certamente vero che da un enunciato del tipo 4 si possono ricavare le informazioni relative al completo ordinamento seriale dei tre termini, e che in questo senso questo tipo di enunciato corri -sponde ad un enunciato del tipo 1 o alla serie A > B > C, nonché

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agli enunciati degli altri tipi. Ma è altrettanto vero che un enunciato del tipo 4 non è portatore soltanto di quell'informazione e, più pre-cisamente, che in prima istanza non è quella l'informazione che tra-smette. In un enunciato del tipo 4 la serie resta sul fondo, mentre il referente effettivo è B. Ciò di cui si parla in questo enunciato è la medianità di B. Derivando un enunciato del tipo 4 dalla formula originaria, non si è prodotta soltanto una variazione della formula iniziale, ma una nuova organizzazione discorsiva, non adatta a predi-care il contenuto di quell'altra formulazione e adatta invece a predi -care un diverso contenuto o a fornire una diversa informazione. Cia-scun enunciato dice qualcosa di diverso. Dall'uno all'altro tipo di enunciato cambia la conclusione naturale, ciò che è trasmesso e che si capisce in prima istanza. Il tal enunciato parla della centralità di B, il tal altro della preminente grandezza di A, un altro ci dice che A è il maggiore e C il minore, un altro ancora sembra mettere in fila i tre termini. Questi messaggi non corrispondono semplicemente all'e-lenco delle singole informazioni isolate o isolabili. La struttura di-scorsiva, nella quale le singole informazioni sono organizzate, ha un ruolo decisivo e costituisce essa stessa una parte preponderante del-l'informazione trasmessa. Non si riceve un elenco di dati o informa-zioni, ma un discorso [Mosconi 1973; 1990b].

Nella ricerca psicologica questo aspetto è stato ignorato. I sillogi-smi lineari sono stati considerati e utilizzati come formule, variamen-te espresse ma corrispondenti per il contenuto o l'informazione tra-smessa. Inoltre, in quasi tutti i casi, sono stati proposti in forma di problemi (Chi è il > ? Chi è il <?) piuttosto che come enunciati da cui trarre una conclusione (o come discorsi-premesse con conclusio-ne da valutare). Tuttavia, secondo le considerazioni che precedono, tenendo conto della loro struttura discorsiva e della lori) naturale funzione, mi sembra appropriato trattarne qui, assieme ai sillogismi categorici, considerandoli, non diversamente dai sillogismi categorici, come discorsi organizzati in vista della conclusione.

Tra i primi autori che hanno studiato i sillogismi lineari, Stòr -ring, anticipando teorie successive, aveva identificato, basandosi sui rapporti introspettivi dei soggetti, i principali tipi di procedimenti ai quali essi ricorrevano per tirare la conclusione dalle due premesse date. Talora i soggetti costruivano degli schemi spaziali o delle se-quenze temporali nelle quali i tre termini del sillogismo venivano col-locati. Talora trattavano le premesse congiuntamente, considerandole come una affermazione unitaria (con la possibilità quindi di un'in -fluenza della seconda premessa nella comprensione o modificazione della prima). Talora infine i soggetti operavano un calcolo delle rela-zioni, badando particolarmente alla corrispondenza od opposizione dei rapporti espressi nelle due premesse [Stòrring 1908; Woodworth 1938, 810 ss.].

Hunter ritiene condizione necessaria per la soluzione che le pre-messe siano isotrope, ossia ordinate come nel tipo 1 della tabella 7.1 (A > B : B > C oppure C < B : B < A). Gli enunciati degli

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altri tipi devono quindi subire una riorganizzazione e la loro difficoltà dipende dal numero di operazioni necessarie. La teoria di Hunter non è stata confortata dai risultati ottenuti in seguito. È il confronto tra approccio di tipo spaziale e approccio di tipo linguistico che successivamente ha impegnato gran parte dei ricercatori.

«La gente ha effettivamente una ineliminabile predilezione per gli ordinamenti lineari» e per capirla, secondo De Soto, «la psicologia deve studiare la paralogica, non la logica» di tali ordinamenti. Nell affrontare un sillogismo lineare si produrrebbe una disposizione spaziale dei tre termini. Due principi paralogici presiedono a tali disposizioni spaziali. Secondo il primo principio (direction of working) si ordina meglio in una direzione che nell'altra: «La gente impara un ordinamento valutativo più facilmente dal migliore al peggiore che dal peggiore al migliore». Si tende ad ordinare dal termine «superiore» al termine «inferiore», dall'alto al basso (e, orizzontalmente, da sinistra a destra). Il secondo principio (end-anchor ordermg) afferma che si ha facilitazione se «il primo elemento dato nella premessa è un elemento estremo nell'ordinamento, il migliore o il peggiore», e non il termine medio [De Soto, London e Handel 1965].

Le indicazioni di De Soto sono state riprese e sviluppate da Huttenlocher, secondo la quale con i sillogismi lineari si procede co-me se si trattasse di ordinare spazialmente oggetti reali. Si determi-nerebbe dapprima l'ordine dei due termini della prima premessa e si passerebbe poi a considerare la seconda premessa per identificare il terzo termine e determinarne la posizione rispetto agli altri due. Huttenlocher ritiene che «la difficoltà della seconda premessa do-vrebbe dipendere dallo stato grammaticale del terzo termine» e con-scguentemente propone una riformulazione del principio end-anchor-ing di De Soto: «è più facile capire una premessa che descrive un termine estremo come soggetto grammaticale piuttosto che come oggetto grammaticale» [Huttenlocber 1968, 555].

La teoria linguistica di Clark si basa su tre principi. Il principio della prevalenza delle relazioni funzionali (primacy offunctional rela-lions) «asserisce che, a comprensione avvenuta, le relazioni funzionali soggiacenti ad una frase sono più accessibili di altri tipi meno fonda-mentali di informazione» [Clark I969a, 2051. Così in John e peggiore di Pete l'ascoltatore riconosce che John e Pete sono cattivi più rapidamente che John è più estremo di Pete in cattiveria. «Secondo il principio della marcatura lessicale (lexical marking) i significati di certi aggettivi "positivi", come buono e lungo, sono collocati in memoria in una forma meno complessa dei significati dei loro opposti» [Clark 1969b, 289], e quindi comparativi di aggettivi non marcati (come buono e lungo) potrebbero essere immagazzinati e ritrovati più rapidamente di comparativi di aggettivi marcati (come cattivo e corto). Il principio della congruenza (congruenceì, infine, specifica come avviene la ricerca in memoria. «L'informazione può essere recuperata soltanto quando è congruente con l'informazione che viene richiesta. Inoltre questa ricerca non richiede la congruenza dell'informazione

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superficiale, come parole o frasi, ma delle sottostanti relazioni funzio-nali» [Clark 1969a, 2061. «L'ascoltatore non può rispondere alla do-manda finché non trovi un'informazione congruente o finché rifor-muli la domanda in modo da poterlo fare» [Clark 196%, 390]. Questi principi influenzano il processo di soluzione intervenendo — l'uno o l'altro, singolarmente o congiuntamente — in ciascuno dei quattro momenti ipotizzati: 1) comprensione delle proposizioni; 2) comprensione della domanda; 3) ricerca dell'informazione richie-sta dalla domanda; 4) costruzione di una risposta [ibidem, 392; cfr. anche Clark 1969a, 206], «La più importante conseguenza della stra-tegia proposta è che nei problemi seriali a tre termini la struttura profonda prevale sull'ordine della struttura superficiale» LClark 1969a, 2071.

Un tentativo di dare ragione dei diversi risultati ottenuti dagli autori precedenti e, se non di conciliare, di comporre il contrasto tra il «modello immagine», proposto inizialmente da De Soto, e il «mo-dello linguistico» di Clark è stato fatto da Johnson-Laird. Egli sugge-risce che nel corso di una sessione sperimentale potrebbe mutare l'approccio o il modo di procedere dei soggetti. All'inizio potrebbe prevalere «un approccio analogo alla teoria dell'immagine», mentre successivamente, divenuti più esperti, i soggetti potrebbero sviluppa-re «un approccio analogo alla teoria linguistica» [johnson-Laird 1972].

Un modello misto, linguistico-spaziale, è stato proposto da Stern-berg [1980]. Un'idea base del modello misto è che «nel risolvere problemi di inferenza transitiva, sembra probabile che i soggetti usi -no operazioni sia linguistiche sia spaziali: dapprima decodificano lin-guisticamente l'informazione verbale presentata nelle premesse; quindi ricodihcano spazialmente l'informazione in una forma che permette di fare l'inferenza transitiva» [Sternberg 1980, 126]. Il modello misto viene confrontato con un modello spaziale, basato sui modelli di De Soto e Iluttenlocher, e un modello linguistico, basalo sul modello di Clark. I risultati sperimentali da lui ottenuti (quattro esperimenti) e i dati della letteratura, riesaminati, vengono interpretati da Sternberg come sostanzialmente probanti il suo modello misto.

Una posizione simile, per quanto riguarda l'ipotesi di fondo, era stata assunta anche da Williams [1979], il quale aveva ottenuto dati sperimentali (tempi di latenza) corrispondenti alle previsioni che Clark aveva derivato dai suoi tre principi e dati sperimentali (aliquo-ta di errori) confortanti il principio di end-anchoring di De Soto. Ne deriverebbe che «le due teorie non sono veramente in opposizione e che, se le si contrappone, i risultati possono essere ingannevoli. Biso-gnerebbe considerare la soluzione di sillogismi lineari come un insie-me di operazioni eseguite su un insieme di frasi processate. La teoria di Clark dovrebbe essere considerata soprattutto come un modello di trattamento di frasi, mentre quella di De Soto e colleghi dovrebbe essere vista come più accordata all'aspetto problem solving dei sillo-gismi lineari» [Williams 1979, 139],

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Due diverse tipiche strategie, usate da soggetti che risolvevano una lunga serie di problemi a tre termini (centododici), sono state individuate da Quinton e Fellows [1975].

In primo luogo, c'erano strategie di pensiero («thinking» strategies) nelle quali il solutore legge e pensa sul significato delle premesse prima di rispon-dere alla domanda (male. In secondo luogo, c'erano strategie «percettive» («perceptual» stnitcgics) nelle quali il solutore rispondeva a certe caratteristi-che manifeste e invarianti dei problemi, più o meno ignorando il loro signi -ficato. Queste strategie percettive, che vennero scoperte e usate nel corso dell'esperimento da 17 dei 26 soggetti, tendevano a ridurre il problem solv-ing ad una attività* relativamente meccanica di tipo percettivo-motorio. L. . . ] «Tutti i 26 soggetti dell'esperimento cominciarono usando strategie di pensiero, inclusa la costruzione della serie. Ma via via che l'esperimento proseguiva, più e più soggetti abbandonarono queste strategie iniziali a fa -vore delle più agevoli e rapide strategie percettive». I soggetti che usavano strategie «percettive» risolvevano i problemi loro sottoposti più rapidamente dei soggetti che ricorrevano a strategie di pensiero [Quinton e Fellows 1975, 75].

Anche Shaver, Pierson e Lang [1974] avevano trovato la stessa sequenza temporale nell'apparizione dei due tipi di strategie (prima strategia linguistica, poi imagery) e la maggiore economicità e specia-lizzazione della strategia basata sxAYimagery, in contrasto con quanto ipotizzato da Johnson-Laird [1972].

Mentre «nessun supporto per Ximagery nel ragionamento sillogi-stico o lineare può essere trovato» nei risultati ottenuti da Fuchs, Goschke e Gude [1988], altri ricercatori hanno evidenziato elementi a favore dell'intervento di rappresentazioni «spaziali» nella soluzione di problemi lineari. Caramazza et al. [1976] hanno sottoposto a sette pazienti con danni all'emisfero destro problemi seriali a due termini. In alcuni problemi i comparativi nella premessa e nella domanda erano congruenti (per esempio, «John è più alto di Bill, chi è il più alto?»), mentre in altri i comparativi erano incongruenti (per esem -pio, «John è più'alto di Bill, chi è il più basso?»).

Pazienti con danni all'emisfero destro erano relativamente incapaci di risolvere problemi seriali a due termini nei quali la premessa e la domanda avevano aggettivi antonimi, un risultato reso più notevole dal fatto che, quando i comparativi nella premessa e nella domanda sono congruenti, i pazienti con danni all'emisfero destro forniscono prestazioni altrettanto buo-ne di quelle del gruppo di controllo [ibidem, 6].

Poiché

l'emisfero destro I non dominante) ha poche funzioni linguistiche, se pure ne ha, [...] e numerosi studi non hanno trovato alcun deterioramento nel QI verbale e nell'elaborazione del linguaggio conseguente a danni dell'emi-sfero destro, [...] mentre ci sono state ripetute dimostrazioni dell'importanza di un emisfero destro intatto per l'elaborazione di operazioni spaziali e imagery visiva [ibidem, 4].

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dai risultati ottenuti appare che la soluzione di sillogismi lineari ri-chiede l'uso di spalmi imagery.

Ai soggetti di Potts e Scholz [1975] vennero sottoposte dappri-ma le sole premesse, con a disposizione tutto il tempo necessario per studiarle, e successivamente proposta la domanda. In generale, Potts e Scholz giungono alla conclusione che, quando ai soggetti è dato un tempo sufficiente per studiare le premesse prima di porre loro la domanda, gli aggettivi marcati e non marcati sono immagazzinati nel la medesima Forma fondamentale e che le due premesse di un problema seriale a tre termini sono integrate in una singola rappresentazione unificata, non venendo semplicemente o distintamente immagazzinate le relazioni funzionali soggiacenti a ciascuna delle due premesse {ibidem, 1451, e ciò è in contrasto con la teoria linguistica di Clark.

Per controllare Xipotesi psicoretorica (secondo la quale i diversi tipi di enunciati, corrispondenti a diverse strutture discorsive, trasmettono messaggi effettivi diversi, cfr. supra, pp. 426-427), ai soggetti Mosconi [1990b] chiedeva semplicemente di dire quello che sembrava loro di «aver capito» di una o anche di più di una delle persone di cui si parla nelle frasi proposte (gli enunciati di tabella 7.1, con i termini corrispondenti a comuni nomi propri femminili ). In tale modo viene evitata la possibilità di incongruenze tra compito e struttura discorsiva dell'enunciato (ciò che ovviamente non si ottiene con le domande «Chi è il >?» o «Chi è il <?»). Le risposte dei soggetti sono riducibili a quattro categorie: 1) indicazione dell'intera serie e della sua direzione (per esempio, «A è il più alto, poi viene B, poi C»); 2) indicazione dei due estremi e della loro posizione relativa (per esempio, «A è il più alto e C è il più basso»); 3) indicazione di un solo estremo, il maggiore («A è il più alto») o il' minore («C è il più basso»); 4) indicazione del termine medio (per esempio, «B sta in mezzo»). Tutte queste risposte appaiono con tutti gli enunciati, ma per ciascuna di esse si registra una concentrazione in corrispondenza di un certo enunciato, in armonia con l'analisi psicoretorica. Così, il 37% delle risposte del tipo serie intera è dato con gli enunciati del tipo 1; il 41% delle risposte del tipo i due estremi è dato con gli enunciati del tipo 2; il 38% delle risposte del tipo estremo maggiore e il 37% delle risposte estremo minore con gli enunciati del tipo 3; e il 50% delle risposte del tipo termine medio con quelli del tipo 4. Inoltre, fermo restando che «l'ipotesi psicoretorica in quanto tale non costituisce una teoria completa sulla comprensione e soluzione dei sillogismi lineari, secondo l'autore il confronto con la teoria linguisti ca di Clark e quella spaziale di De Soto (e Huttenlocher) ha permesso di rilevare la maggiore capacità predittiva dell'ipotesi psicoretorica e la generale conformità con le sue previsioni dei risultati riportati in letteratura utilizzabili per questo controllo» [Mosconi 1990a, 180].

All'elezione dei sillogismi lineari come oggetto di studio per la comprensione del funzionamento del pensiero si accompagna, come per i sillogismi categorici, un peccato di origine. La considerazione

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ristretta delle loro proprietà formali (l'esprimibilità di una relazione invariante tra i termini — A > B > C — in forme «superficialmen-te» diverse) ha pesato sugli sviluppi della ricerca, delimitandone l'ambito e riducendo la rilevanza dello studio psicologico di queste forme «logiche» non prive di corrispondenze in quelle dell'uso quoti-diano.

2.2. Controllare un'ipotesi

«Gli uomini sono particolarmente inclini a fare delle assunzioni generali. [ . . . J II pregiudizio non è forse niente di più che l'aspetto patologico di questa tendenza: l'incapacità di sottoporre ad un con-trollo appropriato certe generalizzazioni». Per controllare una gene-ralizzazione, una regola o un'ipotesi «bisogna determinare quali par-ticolari osservazioni, tra un gran numero di possibilità, costituiscano una prova cruciale per l'ipotesi in questione». Nella vita di ogni gior -no è forse più comune che si cerchi «di vedere se certi soggetti o eventi si conformano o meno ad una data regola» (come avviene con le norme legislative oppure con le procedure di controllo nell'indu-stria), piuttosto che sottoporre a controllo una regola. In ogni caso «il tutto mostra una forte analogia con il problema che si presenta allo scienziato quando deve scegliere delle osservazioni da utilizzare come prova cruciale per la sua ipotesi. Sul piano psicologico il pro-blema più importante è quello di scoprire quale sia il modo in cui l'uomo della strada afìronta compiti di questo tipo» [Wason e John-son-Laird 1972; trad. it. 1977, 207-209].

Per affrontare la questione così delineata Wason ha ideato il compito di selezione (selection task). Al soggetto venivano presentate quattro carte e si diceva che ciascuna carta aveva un numero da una parte e una lettera dall'altra parte. Le carte presentate avevano sul lato visibile rispettivamente E, K, 4, 7. Quindi veniva comunicato al soggetto una regola relativa alle carte, che era la seguente: Se una carta ha una vocale da una parte, allora ha un numero pari dall'altra parte. A questo punto si chiedeva al soggetto di scegliere quelle carte, e solo quelle carte, che dovevano essere voltate per decidere se la regola fosse vera o falsa. Controllare una regola o un'ipotesi comporta cercare i casi critici in cui essa possa rivelarsi falsa. La regola presentata è una formulazione corrispondente alla relazione logica di implicazione materiale P n> Q: «Se p allora q». Le quattro carte sono esempi che rappresentano p, non-p, q e non-q. Precisamente, p è rappresentato dalla vocale E, non-p dalla non vocale K, q dal numero pari 4, non-q dal numero non pari 7. La regola è falsa nel caso in cui p sia vero e q falso, cioè se si da p e non si da q. Nel caso concreto, presentato ai soggetti, la regola è falsa solo se c'è una voca le da una parte della carta e non c'è un numero pari dall'altra parte. La soluzione corretta del problema posto è dunque controllare il re tro delle carte li { p i e 7 (non-q), in quanto in entrambi i casi se una

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vocale (p) si accompagnasse a un numero dispari (non-q) la regola risulterebbe falsa. Non servirebbe controllare K (non-p) né 4 (q), dal momento che nessun loro accoppiamento con i possibili valori sul retro può costituire un caso critico o di falsificazione della regola in esame. I 128 soggetti di quattro esperimenti hanno scelto per il 46% p e q (vocale e numero pari); per il 33% p (vocale); per il 7% p, q e non-q (vocale, numero pari e numero dispari); inhne, per il 4% hanno effettuato le scelte considerate corrette p e non-q. Due i principali errori: uno di commissione, la scelta di q (53%), e uno di omissione, la mancata scelta di non-q (79%). Wason parla di «una palese predi-sposizione alla verifica» o di «tendenza a confermare piuttosto che a eliminare le ipotesi» [Wason 1966; trad. it. 1968, 145].

Vennero tentate numerose variazioni nelle consegne e nelle con-dizioni del compito.

La maggior parte di queste modifiche sperimentali potrebbe \enire con-siderata come un «fallimento», dato che non contribuì a migliorare le pre-stazioni dei soggetti. [_...]. Eliminando variabili che in via suppositiva sem-bravano condurre a degli artefatti sperimentali, il persistere degli errori chiariva la natura incoercibile del compito di selezione L..1: la causa dell'er-rore non consisteva in un cedimento momentaneo dell'attenzione, ma piut-tosto in una qualche fissazione che aveva radici protonde IWason e |ohn-son-Laird 1972; trad. it. 1977, 2161.

I risultati ottenuti da Wason e da altri ricercatori contrastano con la teoria piagetiana dello sviluppo intellettuale e dei suoi esiti: «la descrizione di quello che dovrebbe fare l'adolescente di Piaget sem-bra un resoconto di ciò che i nostri soggetti non fanno» [ibidem, 227]. Ciò potrebbe suggerire che «le operazioni formali possono, in effetti, essere innescate unicamente dai compiti familiari, non sono cioè abilità cognitive la cui applicazione può venir generalizzata ad un qualsìasi problema. Esse sono in realtà, per usare una terminolo-gia diversa, delle regole pratiche e non delle operazioni formali» [ibi-dem, 228]. Indicazioni a sostegno di questa ipotesi vengono da vm esperimento di Wason e Shapiro [1971]. La regola condizionale era: «Ogni volta che vado a Manchester, viaggio in treno» e le quattro carte portavano scritto sul lato visibile «Manchester» (p), «Leeds» (non-p), «Treno» (q) e «Automobile» (non-q). Dieci soggetti su sedici scelsero correttamente le carte utili per determinare se la regola (la dichia-razione dello sperimentatore) fosse vera oppure falsa (Manchester e Automobile), contro due su sedici del gruppo di controllo in cui ve-niva impiegato il solito materiale astratto. Pur ritenendo che «non sono chiare le cause precise del fatto che il compito in questa situa-zione risulta più facile», Wason e Johnson-Laird propendono per l'i -potesi che «la "storia" fornisce una cornice in cui i soggetti possono proiettarsi con un atto di immaginazione. E la cornice, i quattro viaggi, consente di capire la natura condizionale della regola molto più facilmente rispetto a quando i termini e le connessioni tra di essi sono arbitrari» {ibidem, 2291. Spiegazione che troverebbe «una note-

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vole conferma» nell'esperimento di Johnson-Laird, Legrenzi e Sonino [1972], nel quale si chiedeva ai soggetti di immaginare di essere degli impiegati delle poste, il cui compito era quello di smistare le lettere. Essi dovevano scoprire eventuali violazioni della regola: «Se una lettera è chiusa, allora ha un francobollo da >() lire». 11 materiale impiegato consisteva in quattro buste: il retro di una busta chiusa (/>); il retro di una busta aperta (non-p); il verso di una busta con un francobollo da 50 l i re ( c j ) \ il verso di una busta con un francobollo da 40 lire (non-q). Le istruzioni erano di indicare quelle lettere, ma solo quelle, che bisogna senz'altro girare per scoprire se violano o meno la regola. Dei 24 soggetti, 21 scelsero correttamente/? (busta chiusa) e non-cj (busta affrancata con 40 lire). Invece, soltanto 2 di questi stessi 24 soggetti diedero la soluzione corretta nella situazione astrat ta di controllo, nella quale venivano utilizzate quattro buste, ma con le solite lettere dell'alfabeto e i stiliti numeri.

Questo risultato veramente sorprendente è ancora più notevole se ci si ricorda del gran numero di modifiche sperimentali progettate in precedenza per innalzare il livello di esecuzione del compito di selezione nei soggetti. Altrettanto notevole è, naturalmente, il fatto che non si ebbe alcun transfer tra condizione concreta e astratta: l'aver dato la soluzione corretta con il materiale concreto non portava ad alcun miglioramento quando il compito veniva successivamente presentato in forma astratta [Wason e Johnson-Laird 1972; trad. i t . 1977, 23OJ.

Invece non ci si dovrebbe sorprendere tanto, né dei risultati po-sitivi ottenuti con la brillante variazione di Johnson-Laird, Legrenzi e Sonino né del mancato «transfer tra condizione concreta e astratta», dal momento che quello dell'impiegato postale e il tradizionale com-pito di selezione di Wason Sarebbero semplicemente problemi diver-si, almeno stando alla tesi e ai risultati degli esperimenti di Mosconi e D'Urso [1974b; Mosconi 1990a I. Secondo questi autori, con il problema dell'impiegato postale il messaggio effettivo sul quale il sog-getto lavora è sostanzialmente diverso da quello che si produce nel tradizionale compito di selezione e comprende «nuove» informazioni decisive per la soluzione del problema, in particolare: a) le lettere con un francobollo inferiore al dovuto devono essere tassate; h) le lettere con il francobollo richieste) o con uno di valore superiore so -no accettabili; e) lettere chiuse e lettere aperte richiedono una diver-sa affrancatura ( a l tempo dell'esperimento: 50 lire per le lettere chiu-se e 40 lire per ciucile aperte). In uno degli esperimenti di Mosconi e D'Urso [ 19741"» I, ai soggetti furono date le stesse istrttzioni e la stessa regola dell esperimento di Johnson-Laird, Legrenzi e Sonino e furono loro presentati: il retro di tina busta chiusa ( /?) ; il retro di una busta aperta (non-p ì\ il verso di una btista con un francobollo da 50 lire ( q ) \ il verso di una busta con un francobollo da 100 lire (non-q). Si noti che il valore del francobollo di non-q è superiore a quello richiesto, mentre in Johnson-Laird e colleghi è inferiore. Que-sta è l'unica differenza tra i due esperimenti. Su 12 soggetti, 8 scelse-

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ro solo la busta chiusa (p) e spiegarono chiaramente la loro scelta dicendo che, nella situazione data, per le Poste conta solo che una busta chiusa non abbia un francobollo di valore inferiore a 50 lire. Nessuno ha scelto non-q, rappresentato da una busta con un franco-bollo da 100 lire, di valore superiore a quello richiesto e quindi ac-cettabile. Allorché si chiese loro se non era il caso di controllare que-sta busta, tutti affermarono che non sarebbe stato di alcuna utilità. Effettivamente, come segnalano Mosconi e D'Urso, quello che «logi-camente» è un non-q, qui in realtà è un «super-q», più che accettabi le e che non può costituire un caso critico di violazione della regola (per l'impiegato postale). In un altro esperimento sono state usate le istruzioni e le buste dell'esperimento di Johnson-Laird, Legrenzi e Sonino, ma con la regola cambiata così: Se una lettera è aperta, allora ha un francobollo da 40 lire. In questa situazione, una lettera aperta rappresenta p, una lettera chiusa rappresenta non-p, una lettera con un francobollo da 40 lire rappresenta q, e una lettera con un franco-bollo da 50 lire rappresenta non-q. Su 12 soggetti, 2 scelgono non-p (busta chiusa) e 7 scelgono non-p e q (busta chiusa e busta con il francobollo da 40 lire).

Queste scelte costituiscono una «aberrazione» da un punto di vista logi-co, ma sono ragionevoli e comprensibili dal punto di vista del pensiero co-mune, e la seconda è la corretta (completa) soluzione del problema dell'im-piegato postale. Le buste scelte infatti sono proprio quelle che avrebbero potuto costituire un'infrazione al regolamento postale: la busta chiusa avrebbe potuto avere un francobollo inferiore a 50 lire e la busta con il francobollo da 40 lire avrebbe potuto essere chiusa. Negli altri due casi, come facevano notare i soggetti, non era il caso di preoccuparsi, poiché le buste non potevano che essere in regola [Mosconi e D'Urso 1974b; Mosco-ni f990a, 196J.

Secondo gli autori, tutto questo, chiarendo anche le ragioni delle scelte corrette nell'esperimento di Johnson-Laird, Legrenzi e Sonino, dimostra che il tradizionale compito di selezione e il problema del-l'ufficiale postale sono effettivamente due problemi diversi, e non lo stesso compito ora «presentato in forma astratta» e ora in forma concreta, contrariamente a quanto si è ritenuto considerando solo la comune traducibilità delle loro regole in «se p allora q» e delle carte o buste impiegate in p, non-p, q e non-q.

La «ricostruzione» del messaggio effettivo spiega le risposte dei soggetti in Johnson-Laird e colleghi e nella versione di Mosconi e D'Urso, ma come si spiegano le risposte con il compite» originario utilizzato da Wason? Mosconi e D'Urso [1974a] hanno cercato di farlo proponendo l'ipotesi che l'operazione di falsificazione sia — per così dire - un'operazione di secondo grado, che si effettua su una ipotesi o regola plausibile, in qualche modo già «verifteata» (per esperienza diretta, per testimonianza altrui, per opinione comune o altro). La «palese predisposizione alla verifica» registrata da Wason potrebbe derivare appunto dalla «primaria esigenza psicologica di

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appurare l'esistenza di esempi positivi della regola, condizione questa perché comunemente una regola o ipotesi venga considerata plausi-bile, ossia ne appaiano giustificati e la formulazione e il controllo». Negli esperimenti di Wason, e in quelli di simile impianto, probabil-mente «questa fase di "verifica della regola" a volte blocca il successi -vo compito di falsificazione (mancata scelta di non-q), a volte vi si aggiunge (scelta di /;, q, non-q, nonché di p e qì» [Mosconi e D'LJrso 1974a; Mosconi 1990a, 188 e 193]. Insomma, non ci troveremmo di fronte ad una tendenza alla verifica incompatibile con la falsificazione (vcn/ication bias), ma soltanto ad una articolazione psicologica di ve-rificazione e falsificazione. Per controllare questa ipotesi ai soggetti venne proposto il tradizionale compito di selezione, ma con la dupli-ce richiesta di verificare e di falsificare la regola. In un esperimento le due richieste vennero proposte congiuntamente («mi indichi quale carta vorrebbe girare per trovare tin caso che segtia l'ipotesi e quale carta vorrebbe girare per trovare un caso che invece non segua l'ipo-tesi»), in un secondo esperimento le due richieste vennero proposte in successione. Nel primo esperimento 23 soggetti su 24 scelsero la carta non-q per la falsificazione. Nel secondo esperimento, in cui vennero impiegati 12 soggetti, per la falsificazione vennero scelte le carte p e non-q da 8 soggetti, la carta non-q da uno, la carta /; da due. Tutte qtieste carte sono atte a falsificare la regola (anche se la selezione corretta richiede la scelta «completa» di p e non-q). La comprensione — e l'esecuzione sostanzialmente appropriata — del compito di falsificazione da parte elei soggetti in queste situazioni sperimentali conforterebbero l'ipotesi degli autori e contraddirebbero la spiegazione che fa intervenire una naturale tendenza alla verifica o a rifuggire dalla falsificazione. Da questi esperimenti sembra derivare la necessità sia ili una riconsiderazione del compito di selezione nella originaria versione astratta, il cui studio andrebbe condotto in una prospettiva diflerente, sia di una nuova impostazione della questione relativa alla formulazione astratta o realistica del problema, che nei termini in cui è stata posta risulta vanificata. Le successive ricerche rimasero tuttavia legate fondamentalmente all'impostazione data da Wason (indipendentemente dal consenso stilla spiegazione) e alla tra-dizionale problematica astratto-concreto, secondo il prototipo intro-dotto da (ohnson-Laird, Legrenzi e Sonino.

Un'altra predisposizione che è stata ipotizzata per dar conto del-le scelte dei soggetti nel compito di selezione è «una tendenza a fo-calizzare indebitamente i valori nominati nella regola» [Kvans 1982, 1631. Data una regola del tipo «se /; allora q» (come «se c'è una vocale da una parte, c'è un numero pari dall'altra») e il compito di controllare se la regola è vera o falsa, i soggetti tenderebbero a sce-gliere in primo luogo p ( l a vocale) e q ( i l numero pari) non per effetto della tendenza a verificare la regola, come pensa Wason, ma semplicemente perché quelli sono i valori nominati nella regola, che in quanto tali si tenderebbe a riscontrare (matching bias). Le previ-sioni basate sull'ipotesi matching bias (bias dell'accoppiamento) e sul-

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l'ipotesi venfication bias coincidono se si usano condizionali affermati-vi (se p allora q), ma la coincidenza viene meno, secondi) Evans, se «si introducono componenti negativi nelle regole». Ad esempio, con regole del tipo «se p allora q» e «se p allora non-q» la tendenza alla verifica dovrebbe portare alla scelta di p e q nel primo caso e di p e non-q nel secondo caso, ossia sempre del vero antecedente e del vero conseguente, mentre la tendenza all'accoppiamento dovrebbe portare in entrambi i casi alla scelta delle carte nominate nella regola, ossia p e q, dal momento che «in un senso linguistico un periodo della for-ma "se (non) /; allora (non) q" è sempre relativo a p e q senza ri-guardo per la presenza delle negative» [Evans 1989, 32J. Evans e Lynch [1973], in un esperimento ripreso da Manktelow e Evans [19791 con materiale tematico, trovarono che al cambiamento delle regole non corrisponde un cambiamento nelle scelte dei soggetti: con «se p allora q» e con «se p allora non-q» si ottennero rispettivamente 88% e 92% di scelte della carta p e 50% e 58% di scelte della carta q. (Vennero usate anche le regole «se non-p allora q» e «.ve non-p allora non-q».) Secondo Evans [1983, 164] i risultati di questi esperimenti refutano la teoria della verificazione di Wason e suggeriscono che «la tendenza al riscontro {matching bias) influenza significativamente la selezione delle carte, indipendentemente dal loro status logico». Si deve tuttavia notare che, in generale, non sono conformi alla teoria la scelta di non-q, non nominato (per gli esperimenti illustrati: alme-no l ' l l % nei dati riportati da Wason e |ohnson-Laird [19721; dall'8% al 42% nell'esperimento di Evans e Lynch; tutti i soggetti nell'esperimento 1 e 9 soggetti su 12 nell'esperimento 2 di Mosconi e d'Urso [1974a] con il compito di falsificazione) e la non scelta di q, nominato (almeno il 47% nei dati riportati da Wason e |ohnson-Laird [19721; dal 25% al 50% nell'esperimento di Evans e Lynch; per la falsificazione, tutti i soggetti - uno eccettuato - negli esperi-menti 1 e 2 di Mosconi e d'Urso [1974aD.

Con contenuto astratto Griggs e Cox trovarono che «nella mi-gliore delle ipotesi, il riscontro potrebbe dar conto solo di poco più di un terzo delle risposte, pressapoco come la tendenza alla verifica-zione» [1983, 5311. Del tutto incompatibile con la tendenza al ri-scontro, secondo Van Duyne [19731, è il risultato da lui ottenuto con la regola (già usata da Evans e Lynch [19731) «se non-p allora q»: le carte p e q (con proposizione astratta) vennero scelte da uno solo dei 18 soggetti. (Ai soggetti vennero proposte quattro proposi -zioni astratte nella forma: «quando p allora q»; «se non-p allora q»; «p o q»\ «non-p e non-q». Soltanto con la prima di queste proposi-zioni si ottennero numerose risposte di riscontro: 10 risposte p e q su 18.) La tendenza al riscontro risultò «molto infrequente» anche in un successivo lavoro dello stesso autore [Van Duyne 19741.

Il controllo - e il confronto - della teoria della verificazione e della teoria del riscontro venne effettuato anche impiegando materiale tematico, come nei due esperimenti di Reich e Ruth [1982]. Nel primo esperimento le regole riguardavano l'accoppiamento di cibi e

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bevande, ad esempio «se mangio maccheroni, allora bevo champa-gne», come in Manktelow e Evans [1979]. Nel secondo esperimento veniva utilizzato materiale tematico «più coerente e realistico», come in Wason e Shapiro [1971], ad esempio «quando vado al lavoro ho fretta». In questo caso vi era anche un breve scenario introduttivo. In entrambi gli esperimenti vennero utilizzate regole della forma: «se p allora q», «se p allora non-cj», «se mm-p allora q», «se non-p allora mm-(j». Con materiale tematico «coerente» (esp. 2) «la verificazione appare il tipo di risposta più popolare, seguita dalla falsificazione, con il riscontrci come risposta meno popolare. [...] Quando il valore tematico del materiale è basso (esp. 1), il riscontro è la strategia più popolare, seguito da verificazione e falsificazione» [Reich e Ruth 1982, 401].

Intensamente studiato è stato l'effetto di facilitazione del materia le tematico. Se si pensa, come comunemente si è fatto e in sostanza si continua a fare, che nelle diverse formulazioni il problema «mantiene la sua forma essenziale» [Lunzer, Harrison e Davey 1972, 326], nella scia della tradizionale problematica su forma e contenuto, l'effetto di facilitazione del materiale tematico (o la sua assenza) può diventare cruciale in relazione a questioni teoriche sul funzionamento della nostra mente: è fondamentalmente di tipo logico? segue biases o inclinazioni alogiche e tendenzialmente irrazionali? si basa esclusi-vamente sull'esperienza o sul ricordo di situazioni già note e sull'atti-vazione di regole empiriche derivatene? e così via, fino alla generalis-sima questione della razionalità o irrazionalità del nostro pensiero. L'effetto facilitante del materiale tematico potrebbe dipendere dal contesto, dalla cornice suggerita dalla «storia» [Wason e johnson-Laird 1972]; o dalla concretezza dei termini, piuttosto che dal loro stare in relazione [Gilhooly e Falconer 1974]; o, oltre ovviamente che dal tipo di materiale, dal modo abbreviato di presentazione [Lunzer, Harrison e Davey 1972]; o dalla «familiarità del contenuto definita in termini della rilevanza della relazione tra antecedente e conseguente» [Ward e Overton 1990, 492].

Altre ricerche, però, non confermarono l'efìetto facilitante del materiale tematico, a cominciare dai cinque esperimenti di Mankte-low e Evans [1979], tra i quali vi era anche la ripetizione dell'esperi-mento di Wason e Shapiro [1971], Yachanin e Tweney [1982] tro-varono che non c'erano differenze significative tra i contenuti (l 'a-stratti) e tre tematici). Così pure Reich e Ruth [1982] trovarono che, se la diversa «coerenza» del contenuto tematico influiva sulla scelta della strategia (riscontro o verificazione), non vi era «effetto facilitan-te del materiale tematico sulla tendenza a ragionare logicamente». La replica degli esperimenti di Wason e Shapiro (problema delle città e dei mezzi di trasporto) e di Johnson-Laird e colleghi (problema po-stale) da parte di Griggs e Cox [1982] non confermò l'effetto facili-tante del materiale tematico, trovato invece con un problema in cui la regola era «se una persona beve birra, allora la persona deve avere più di 19 anni» (carte: bere birra; bere Coca; 16 anni; 22 anni). La

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diversità di risultati sarebbe connessa da un lato alla familiarità dei soggetti con le norme postali degli Stati Uniti che non prevedono una affrancatura differenziata per le lettere chiuse e per le lettere aperte (condizione diversa da quella dei soggetti di Johnson-Laird e colleghi), dall'altro alla loro familiarità con una legge dello stato della Florida ( d i v e è avvenuto l'esperimento) che impone un età legale per bere akoolici (appunto 19 anni). I risultati sarebbero « in accor-do con un'ipotesi di "imbeccata mnemonica" (memory-cueing hypo-thcsis Ic l r . Manktelow e Evans 1979] secondo la quale la prestazione nel compito di selezione è significativamente facilitata quando la pre-sentazione del compito permette al soggetti) di ricordare esperienze precedenti con il contenuto del problema, la relazione espressa e un eontroesempio alla regola che governa la relazione» [Griggs e Cox 1982, 417; cfr. anche Griggs 1984; Chrostowski e Griggs 1985]. 11 materiale tematico non produrrebbe effetto facilitante quando non rimanda a controesempi presenti nell'esperienza del soggetto. In as-senza di tali rimandi si risponde al compito come se il contenuto tosse astratto. Così potrebbe essere accaduto negli esperimenti di Manktelow e Evans [1979] che non hanno trovato differenze usando materiale tematico e astratto. È infatti piuttosto probabile che i loro soggetti non avessero esperienze di bere champagne mangiando mer-luzzo («se mangio merluzzo, allora bevo champagne» era una delle regole da controllare) [Pollarci 1981; 1982, 78],

Sia le concezioni secondo le quali la gente ragiona tipicamente in accorcio con la logica (formale o «naturale»), sia le concezioni secon-do le quali la gente ragiona basandosi su esperienze specifiche sono criticate da Cheng e Holyoak [1985] e giudicate incapaci di rendere conto dei comportamenti rilevati negli esperimenti sul compito di se-lezione (oltre che sul ragionamento condizionale). Essi, quindi, pro-pongono che

la ^ente spesso ragiona non usando né regole sintattiche d'interenza indi-pendenti dal contesto, né il ricordo di esperienze specifiche. Piuttosto la gente ragiona usando strutture di conoscenza astratte indotte dalle ordinarie esperienze della vita, come «permesso», «obbligo» e «causalità». Tali strut-ture di conoscenze1 sono denominate schemi pragmatici di ragionamento. Uno schema pragmatico di ragionamento consiste eli un set di regole generalizza-te sensibili al contesto (context-sensitive) le quali, a differenza delle regole puramente sintattiche, sono definite in termini di classi di scopi (quali, compiere azioni desiderabili o fare predizioni su possibili eventi futuri) e relazioni a questi scopi (quali, causa ed effetto o precondizione ed azione permessa) [ibidem, 3951.

Essi assumono che «il ruolo facilitante dell'esperienza precedente consiste nell'induzione ed evocazione di certi tipi di schemi» [ibidem, 396].

Nella loro ricerca si occupano particolarmente dello schema di permesso, dal momento che la maggior parte dei problemi tematici che hanno prodotto facilitazione interessa questo schema.

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II nucleo dello schema di permesso può essere succintamente sintetizzalo in quattro regole di produzione (production rules), ciascuna delle quali specifica una delle quattro possibili situazioni antecedenti, supponendo l'attuazione o la non attuazione dell'azione e della precondizione:

Regola 1 : se si compie l'azione, allora la precondizione deve essere sod-distatta.

Regola 2: se non si compie l'azione, allora non è necessario soddisfare la precondizione.

Regola 3: se la precondizione è soddisfatta, allora l'azione può essere compiuta.

Regola 4: se la precondizione non è soddisfatta, allora l'azione deve non essere compiuta.

[ . . . ] Quando una asserzione condizionale nella forma della Regola 1 evoca Lino schema di permesso, la soluzione derivabile dallo schema di per-messo corrisponde a quella logicamente corretta. Quindi, lo schema di per -messo dovrebbe essere facilitante [ibidem, 396-3971.

A sostegno della teoria vennero effettuati alcuni esperimenti. Al primo parteciparono studenti degli Stati Uniti, familiari a un sistema con tariffe postali non differenziate per corrispondenza aperta o chiusa, e studenti di Hong Kong, familiari a tariffe postali differen -ziate. L'ipotesi era che «se la gente ragiona di fatto usando schemi di ragionamento pragmatici, allora dovrebbe essere possibile migliorare la prestazione evocando uno schema facilitante, come lo schema di permesso, senza fornire ai soggetti una esperienza riguardante le regole specifiche» \ihidcm, 3991. Secondo le previsioni, con il problema postale nella versione tradizionale gli studenti di Hong Kong fecero assai meglio eli quelli statunitensi (quasi il 90% contro circa il 55% di risposte corrette); ma tali differenze sparirono con una versione nella quale si spiegava che la corrispondenza privata (normalmente chiusa) veniva tassata eli più per incrementare le entrate del servizio postale. Il secondo esperimento aveva l'obiettivo di dimostrare che una regola di permesso pur totalmente priva di contenuto concreto («se uno vuole fare A, allora deve prima soddisfare la pre condizione B») produce in un compito di selezione una prestazione sostanzialmente più accurata di una regola arbitraria («se una carta ha A su un lato, allora deve avere 4 sull'altro lato»). Il problema di permesso venne risolto correttamente dal 61% dei soggetti e quello delle carte soltanto dal 19% dei soggetti. Altri autori ottennero anche con soggetti molto giovani miglioramenti nella soluzione di un compito di selezione lormulato come problema di permesso: Girotte et al. 119891 con soggetti di 9-10 e di 14-15 anni; usando una versione ridotta dal compilo ili selezione Light I 19891 perfino con soggetti di 6-8 anni.

La facilitazione ottenuta con compiti di selezione implicanti schemi pragmatici asti a l t i , vale a dire con regole generali, secondo |ack-son e Cìriggs 1 1 9 9 0 ] non dipenderebbe dalla evocazione di schemi pragmatici di ragionamento. Dipenderebbe invece da modalità di presentazione, e precisamente dall uso di negazioni esplicite nelle

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carte non-p e non-q ( i n Cheng e Holyoak [1985]: Non ha compiuto l'azione A e Non ha soddisfatto la precondizione 13) nonché dall'impiego di un contesto di controllo (checking context), ottenuto facendo immaginare ai soggetti di essere un'autorità che deve controllare se la gente ha obbedito a certe regole. Secondo Jackson e Griggs, che si basano su Evans [1982] e Evans [1983], «l'uso di negative esplici te nelle carte non-p e non-q nei problemi interessanti schemi astratti può aver ridotto la tendenza al riscontro (scelta dei valori p e q menzionati nelle regole) e aver favorito la tendenza a rispondere in accordo con la logica» [1990, 362], Per controllare l'ipotesi, nei loro esperimenti usarono carte non-p e non-q ora (esp. 1) con negative esplicite (Non ha compiuto l'azione A e Non ha soddisjatto la precondizione 13), ora (esp. 2) con negative implicite (Ha compiuto l'azione C e Ha soddisfatto la precondizione D), ottenendo un notevole peggioramento nel secondo caso: dal 53"/» al 3"/» di risposte corrette con un problema di permesso astratto. In un altro esperimento (esp. 4) eliminarono il contesto di controllo (indicando come obiettivo «scoprire se una certa regola era stata osservata o no»), in una condizione usando carte non-p e non-q con negative esplicite e nell'altro con negative implicite. In entrambi i casi ottennero percentuali di soluzioni corrette molto basse. Sicché «la facilitazione osservata nei problemi implicanti uno schema astratto sembra dipendere da entrambi questi (attori di presentazione»: il contesto di controllo e l'uso di negative esplicite. Ma Girotto, Mazzocco e Cherubini [1992] mostrarono che si può ottenere facilitazione anche senza l'uso di negazioni esplicite nelle carte, purché risulti chiaro che «compiere l'azione C» e «soddisfare la precondizione D» implicano «non aver compiuto l'azione A» e «non aver soddisfatto la precondizione B». Sulle carte, invece di una sola azione o precondizione, venivano riportate più azioni o precondizioni. Una crocetta (o la sua assenza) segnalava che l'azione o precondizione era stata compiuta oppure no. Così la carta non-p (corrispondente a quella di Jackson e Griggs con negativa implicita: Ha compiuto l'azione C) recava: «Azioni compiute da questa persona: A ( ), B (X), C (X) . . . N (X)». In questo modo, in assenza di negazioni esplicite, la carta indicava senza ambiguità che la persona in questione non aveva compiuto l'azione A indicata nella regola. Con questo materiale Girotto 11991] ottenne in un compito di permesso il 71% di risposte corrette (scelta delle carte /; e non-q). Inoltre Kroger, Cheng e Holyoak [19931 non trovarono nessuna facilitazione con una regola arbitraria anche usando negative esplicite e contesto di controllo (regola: Se una carta ha A su un lato, allora deve avere X sull'altro: carte: A, non A, X, non X); mentre ottennero, con le slesse condizioni, una torte facilitazione con una regola astratta di permesso (regola: Se uno vuole intraprendere l'attività A, allora deve avere il requisito X; carte: «impegnato nell'attività A», «non impegnato nell'attività A», «soddisfatto il requisito X», «non soddisfatto il requisito X»).

Una teoria che ha punti in comune con quella degli schemi prag-

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marici, ma se ne differenzia per il fondamento evoluzionista e per la struttura degli algoritmi proposti, è quella del contratto sociale di Cos-mides [19891. Secondo Cosmides i meccanismi innati di elaborazione dell'informazione della mente umana sono meccanismi destinati a risolvere gli specifici problemi biologici posti dagli ambienti fisico, ecologico e sociale incontrati nel corso dell'evoluzione umana. Lo scambio sociale, cooperazione adattiva tra due o più individui per mutuo vantaggiti, è un problema cruciale per l'adattamento umano. La mente umana deve contenere algoritmi che operano su rappre-sentazioni in termini di costi e benefici delle interazioni di scambio e deve includere procedure inferenziali che rendono l'individuo capace di scoprire l'imbroglio nei contratti sociali. Così, in un compito di selezione, le carte da scegliere sono sempre «costo non pagato» e «beneficio accettato», che per un contratto sociale standard (se prendi il beneficio, allora paghi il costo) corrispondono alle carte non-q e p, in accordo con le prescrizioni della logica, mentre per un contratto girato (se paghi il costo, allora prendi il beneficio) corrispondono alle carte non-p e q. Cosmides ha effettuato una serie di esperimenti ottenendo risultati conformi alle ipotesi. I soggetti,

quandi) ragionavano su regole condizionali con la struttura costi-benefici di un contratto sociale, coerentemente «cercavano gli imbroglioni». Le carte che rappresentano potenziali imbroglioni (le carte «beneficio accettato» e «costo non pagato») venivano scelte indipendentemente dalla categoria logi -ca alla quale corrispondevano e indipendentemente da quanto sconosciuta fosse la regola di contratto sociale [ibidem, 261J.

Il lavoro della Cosmides è stato criticato eia Cheng e Holyoak [1989], Pollarci [1990], Girotte) [1991J, Politzer e Nguyen-Xuan I 1992]. Pur ritenuto «non sufficientemente generale», è stato invece apprezzato da Manktelow e Over [19911 perché «Cosmides vede l'importanza delle utilità soggettive (i suoi benefici e costi) nel ragio-namento cleoniico» {ibidem, 90]; ed è stato assunto come base per una revisione da Gigerenzer e Hug ( 1992], i quali «districano» dal concetto teoretico di contratto sociale l'algoritmo di individuazione dell'imbroglione, la cui attivazione soltanto è condizione sufficiente a favorire un'alta percentuale di scelte p e non-q (quando corrispondo-no a bendici presi e costi non pagati dall'altro contraente).

Un apporto notevole di alcune ricerche [Politzer e Nguyen-Xuan 1992; Manktelow e Over 1991; Gigerenzer e Ilug 1992] è consistito nella esplicitazione della possibile diversità dei punti di vista delle persone interessate al controllo di una regola e della conseguente di-versità nel criterio di valutazione. «Alcune situazioni di scambio so-ciale sono suscettibili di due differenti interpretazioni quando sono coinvolti due interlocutori con interessi diversi. L'interpretazione dif-ferisce a seconda che si assuma l'uno o l'altro punto di vista» [Pol -itzer e Nguyen-Xuan 1992, 4021. In tiri compito di permesso o di obbligo, a seconda del punto di vista assunto saranno favorite le scelte p e non-q (costo pagato e beneficio non ricevuto) oppure non-

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p e q (costo non pagato e benefìcio ricevuto). Politzer sottolinea la possibilità che si assuma un terzo punto di vista neutro o sitperpartes: verifìcare che entrambe le parti si attengano correttamente alla rego-la. In questo caso si tenderà a controllare tutte le situazioni corri-spondenti alle quattro carte: p, non-p, q, non-q.

Attraverso un complicato e tortuoso percorso la ricerca sul com-pito di selezione approda alla semplice e soda «banalità» che per tentare di capire cosa fanno e come procedono i soggetti bisogna innanzitutto cercare di determinare «cosa hanno in testa» in relazione al problema proposto ossia il messaggio effettivo sul quale lavorano (che nelle situazioni sperimentali è un messaggio ricevuto e fuori dalle situazioni sperimentali può essere anche autoprodotto). L'osservanza di questo principio non si identifica con la soluzione delle questioni psicologiche, ma impedisce o riduce il rischio di affrontare questioni mal poste. La questione centrale degli effetti del materiale astratto e del materiale tematico, così come in generale è stata studiata ed è evoluta, è per l'appunto un esempio cii questione mal posta. Una adeguata analisi psicologica (che per me vuoi dire psicoretorica) dei problemi «astratti» e «tematici» o «concreti» poteva rivelare (come è stato fatto) la sostanziale erroneità o improprietà psicologica della presunzione di fondamentale identità tra problemi ricon-ducibili ad una medesima descrizione logica. Questo presupposto ha invece avuto un ruolo essenziale ed ha influito (non utilmente) su gran parte della ricerca, e mediatamente anche sulle «idee nuove». Convenire che non solo p e non-q, ma anche non-p e q o />, non-p, q e non-q (ed eventualmente altre) possono essere scelte «corrette» comporta la conclusione di un ciclo della ricerca (quello del percorso complesso e tortuoso) e suggerisce un'impostazione basata sul riferimento «diretto» non alla norma «logica» ma alla norma discorsiva (con la possibilità, secondo me, di una utilizzazione «strumentale» della norma logica).

2.3. Valutare la probabilità di un evento

Forse «la gente ha effettivamente una ineliminabile predilezione per gli ordinamenti lineari» [De Soto, London e Handel 1965], forse «gli uomini sono particolarmente inclini a fare delle assunzioni gene-rali» [Wason e Johnson-Laird 1972]; certamente fanno - e non pos -sono fare a meno di fare — delle previsioni e valutano la probabilità di eventi incerti. Ma l'uomo comune, non esperto nel calcolo delle probabilità, produce delle buone valutazioni? È come ci arriva? Opi-nione dominante fra i ricercatori è che l'uomo comune è incline a formulare valutazioni che spesso risultano sbagliate. Gli errori dipen-derebbero dal fatto che «la gente fa assegnamento su un numero limitato di principi euristici, i quali riducono i compiti complessi di valutare probabilità e di predire valori a operazioni di giudizio più semplici» [Tversky e Kahneman 1982, 3].

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In un nolo esperimento [Kahneman e Tversky 1973] ai soggetti venivano presentate delle brevi descrizioni di personalità che — si di-ceva - erano state tratte a caso da 100 descrizioni relative ad altret-tanti professionisti, dei quali 30 erano ingegneri e 70 avvocati (che diventavano 70 ingegneri e 30 avvocati in un'altra condizione). Una delle descrizioni eliceva: «Jack ha 45 anni. E sposato ed ha 4 tìgli. È piuttosto tradizionalista, accurato e ambizioso. Non ha alcun interesse per la politica e le questioni sociali. Impiega la maggior parte del suo tempo libero coltivando i suoi numerosi hobby, come il bricolage, la vela e i puzzle matematici. La probabilità che Jack sia uno dei 30 ingegneri nel campione di 100 è ...%». In entrambe le condizioni, fossero gli ingegneri 30 o 70 su 100, i soggetti diedero sostanzial -mente le stesse valutazioni di probabilità. «Manifestamente, essi valu-tarono la probabilità che una particolare descrizione fosse di un in-gegnere, piuttosto che di un avvocato, in base al grado di rappresen-tatività dei due stereotipi propri di queste descrizioni, con poca o nessuna considerazione per le probabilità primarie delle categorie» [Tversky e Kahneman 1982, 5], Infatti, quando non venne fornita alcuna descrizione di personalità, i soggetti tennero conto delle pro-babilità primarie e, nelle due diverse condizioni, valutarono le proba-bilità che un non caratterizzato signor X fosse un ingegnere rispetti-vamente al 30"() e al 70%. Tversky e Kahneman trovarono che anche la sola introduzione di una descrizione, benché del tutto irrilevante (ossia, nel nostro caso, non informativa in relazione alla professione), fa sì che le probabilità primarie vengano effettivamente ignorate. Con la descrizione «Dick ha 30 anni. E sposato e non ha bambini. Uomo di grande abilità e con alta motivazione, promette di avere successo nel suo campo. E ben voluto dai suoi colleghi», la probabi-lità che Dick fosse un ingegnere venne valutata al 50% senza riguar-do al numero di ingegneri nel gruppo: 30 o 70 su 100. Secondo Kahneman e Tversky

l'incapacità eli valutare la rilevanza della probabilità primaria in presenza di dati specifici è lorse una delle deviazioni più significative dell'intuizione dal-la teoria normativa della predizione. ["...] Infatti uno dei principi fondamen-tali della previsione statistica è che la probabilità primaria, la quale compen-dia ciò che conosciamo sul problema L30 ingegneri e 70 avvocati in una condizione, 70 ingegneri e 30 avvocati nell'altra condizione] prima di rice-vere dati specifici indipendenti [la descrizione di personalità 1, rimane rile-vante anche dopo l'acquisizione di tali dati L1973, 243].

Responsabile di tale deviazione, nel problema degli ingegneri e avvocati, è l'euristica stilla quale i soggetti «fanno assegnamento»: Xeuristica della rappresentatività, «nella quale le probabilità sono valu-tate in base al grado in cui l'evento A (per esempio, la descrizione di Jack) è rappresentativo della classe B (per esempio, gli ingegneri), cioè in base al grado in cui A assomiglia a B» {ibidem, 4].

È almeno la terza volta che ci imbattiamo nel termine euristiche usato da autori diversi (Duncker, Simon e ora Kahneman e Tversky)

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con significati piuttosto diversi. -Per Duncker i metodi euristici del pensiero sono procedimenti di carattere relativamente generale, ca-ratterizzati dal «tentativo di variare intelligentemente, in vista dell'o-biettivo che si vuoi raggiungere, elementi appropriati della situazio-ne»; tentativo che «appartiene alla essenza vera e propria della gene -si della soluzione attraverso il pensiero» [Duncker 1963; traci, it. 1969, 42]. I metodi euristici sono vie per raggiungere le soluzioni cercate: «la natura di una soluzione è quella di essere una via per raggiungere l'obiettivo del problema; la natura di un metodo euristi -co, invece, è quello di essere una via per raggiungere la soluzione» [ibidem, 47]. Per Simon, come si è visto [1979a, 395], «qualsiasi principio o espediente che contribuisce alla riduzione della normale ricerca della soluzione» è un'euristica. Questi espedienti, che non ga-rantiscono il raggiungimento della soluzione, sono in compenso eco-nomici, e ciò è essenziale per un solutore seriale, come sarebbe -secondo Simon — un soggetto umano. Sia per Duncker sia per Simon le euristiche sono vie per raggiungere la soluzione, vie adeguate o per la loro economicità (Simon) o per la loro inerenza alla «essenza» della soluzione intelligente e della sua genesi (Duncker). Tutt'altra co-sa sono le euristiche come concepite da Kahneman e Tversky; «que-sto approccio al giudizio di probabilità guida a seri errori, poiché la rappresentatività non è influenzata da fattori che dovrebbero interes-sare i giudizi di probabilità» [Tversky e Kahneman 1982, 4], e que-sto vale non solo per la rappresentatività ma per le euristiche in ge -nere. In altre parole, le euristiche non sono soltanto dei procedimenti semplificati e abbrevianti, ma procedimenti che obbediscono a cri- teri o meccanismi loro propri, di per sé estranei — per così dire — alla logica del problema affrontato o del giudizio da emettere. Non si tratta di procedimenti che «non garantiscono il raggiungimento della soluzione» in dipendenza della loro economicità (Simon), ma di procedimenti che soltanto per coincidenza possono portare alla risposta corretta (che deve essere a sua volta distinta dalla «soluzio -ne» [Mosconi, Bagassi, e Serafini 1988]).

Tra le principali euristiche identificate da Kahneman e Tversky vi è anche quella della disponibilità (availability). «Giudicando la pro-babilità di un evento in base alla rappresentatività, si confrontano le caratteristiche essenziali dell'evento con quelle della struttura dalla quale proviene. In questo modo uno stima la probabilità in base ad una valutazione di somiglianzà o distanza connotativa. Alternativa-mente, uno può stimare la probabilità valutando in base alla disponi-bilità (availability) o distanza associati va» [Tversky e Kahneman 1974, in Kahneman, Slovich e Tversky 1982, 163]. Ciò avviene quando si valuta la probabilità di un evento o la frequenza di una classe secondo la facilità con la quale casi o esempi possono essere richiamati alla mente. È così che si spiegherebbero i risultati del se-guente esperimento. Ai soggetti, ascoltata una lista di note personalità di entrambi i sessi, veniva chiesto di giudicare se la lista contenesse più nomi di uomini o nomi di donne. Le liste sottoposte ai sog-

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getti erano diverse: in alcune gli uomini erano relativamente più fa-mosi delle donne, in altre avveniva il contrario. I soggetti giudicaro-no erroneamente che, nelle diverse liste, erano più numerosi gli uo-mini o le donne, a seconda che fossero più famosi gli uomini o le donne che ne facevano parte. «La disponibilità è un'utile indicazione per valutare frequenze o probabilità, dal momento che esempi di grandi classi usualmente sono ricordati meglio e più rapidamente di esempi di classi meno frequenti. Comunque, fattori diversi dalla fre-quenza e dalla probabilità concernono la disponibilità. Conseguente-mente, affidarsi alla disponibilità guida a prevedibili biases» [Tversky e Kahneman 1974, in Kahneman, Slovich e Tversky 1982, 111.

«11 netto contrasto tra giudizio intuitivo e teoria normativa» può rivelarsi anche quando nei giudizi in stato di incertezza interviene il ragionamento causale e si usano schemi causali: «i giudizi della pro-babilità di un evento sono spesso insensibili alla conoscenza della fre-quenza della base-rate di quell'evento, anche quando questa informa-zione è fornita esplicitamente. [...1 Che si usi o si trascuri l'informa-zione relativa alla base-rate o probabilità primaria è in gran misura determinato dal fatto che questa informazione si presti ad una inter-pretazione causale» [Tversky e Kahneman 1977, 61].

Si considerino i due problemi seguenti:

Problema 1. Un taxi è stato coinvolto in un incidente con omissione di soccorso durante la notte. In città operano 2 compagnie di taxi, la verde e la blu. Ti vengono forniti i seguenti dati:

/) 85% dei taxi in città sono verdi e 15% sono blu.//) Un testimone ha identificato il taxi come blu. Il tribunale ha esami-

nato la sua abilità nell'identificazione dei taxi in appropriate condizioni di visibilità. Quando gli è stato presentato un campione di taxi (metà dei quali erano blu e metà erano verdi) il testimone ha fatto identificazioni corrette nell'80% dei casi e identificazioni errate nel 20% dei casi.

Qual è la probabilità che il taxi implicato nell'incidente fosse blu piutto-sto che verde?

Problema 2. Un taxi è stato coinvolto in un incidente con omissione di soccorso durante la notte. 2 compagnie di taxi, la verde e la blu, operano in città. Ti vengono forniti i seguenti dati:

/) Benché le due compagnie siano pressappoco uguali in grandezza, l'85% degli incidenti con taxi in città coinvolge taxi verdi e il 15% coinvolge taxi blu.

li) Come nel problema 1.Qual è la probabilità che il taxi implicato nell'incidente fosse blu piutto-

sto che verde?

Applicando la teoria della probabilità e cioè il teorema di Bayes (cfr. glossario) la soluzione risulta la stessa per entrambi i problemi.

Nonostante il resoconto del testimone, è meno probabile (likely) che il taxi dell'incidente sia blu che verde, poiché la probabilità prima-ria è più elevata della credibilità del testimone. Le risposte ai due problemi, invece, furono molto diverse. La risposta «80%», coinciden-te con il rapporto di credibilità del testimone, fu data dal 45% dei

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soggetti nel problema 1 e dal 18% nel problema 2. Risposte intermedie tra il valore corrispondente alla percentuale di credibilità del testimone (80%) e il valore corrispondente alla probabilità primaria (15%), ossia risposte che indicano l'utilizzazione di entrambi i dati, furono date dal 35% dei soggetti nel problema 1 e dal 60% nel problema 2. La spiega-zione di questi diversi risultati starebbe nel fatto che nel problema 2 coinvolgimento in incidenti e colore del taxi sono correlati, mentre nel problema 1 «la differenza tra la proporzione di taxi blu e verdi in città non attiva una spiegazione causale che rende più probabile Uikcly) che qualche particolare taxi verde sia implicato in un incidente rispetto a qualche particolare taxi blu. Così, un dato specifico che si adatta ad uno schema causale è utilizzato, mentre è trascurato un dato specifico ugualmente informativo senza una interpretazione causale» ITversky e Kahneman 1980, 651.

In modo non diverso vanno le cose con la seguente coppia di problemi, che di nuovo vogliono la medesima soluzione ma ottengo-no risposte diverse.

Problema ì. Considera le seguenti supposizioni sul suicidio. In una po-polazione di giovani adulti, l'80% degli individui sono sposati e il 20% sono single. La percentuale di morti per suicidio è 3 volte maggiore tra i single che tra gli sposati.

Qual è la probabilità che un individuo, scelto a caso tra coloro che han-no commesso un suicidio, sia un single?

Problema 4. Considera le seguenti supposizioni sul suicidio. In una po-polazione di adolescenti, l'80% dei tentativi di suicidio sono fatti da ragazze e il 20% da ragazzi. La percentuale di tentativi di suicidio con esito letale è 3 volte più alta tra i ragazzi che tra le ragazze.

Qual è la probabilità che un adolescente, scelto a caso tra coloro che sono morti per suicidio, sia un ragazzo?

La proporzione di sposati e single non riguarda la propensione di qualche particolare individuo al suicidio, ossia non ha carattere causale, e perciò questo dato {base-rate) nel problema 3 verrebbe trascurato. Nel problema 4 invece entrambe le informazioni (sia la proporzione di tentati suicidi tra ragazzi e ragazze (base-rate), sia la proporzione di tentati suicidi con esito letale tra ragazzi e ragazze) hanno a che fare con la morte per suicidio, ossia hanno carattere causale, e perciò vengono entrambe tenute in conto.

Anche quando i dati specifici che sono aggiunti alla probabilità primaria non sono più «pertinenti o causali» della probabilità prima-ria, scomparendo l'interferenza del ragionamento causale o degli schemi causali, entrambe le informazioni vengono considerate, come avviene con il seguente problema:

Problema 5. Una libreria fornisce il proprio magazzino di libri sia in lingua tedesca che francese: 80% dei libri in magazzino sono in tedesco e il restante 20% sono in francese. La proporzione di tascabili è 3 volte più alta tra i libri in lrancese che tra quelli in tedesco.

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Qual è la probabilità che un tascabile, scelti) a caso dal magazzino, sia in francese?

In conclusione, «l'informazione relativa alla probabilità primaria viene usata o quando è data una interpretazione causale, come nel problema 4 [e nel problema 2 ] , o quando l'informazione aggiunta manca di rilevanza causale, come nel problema 5. L'informazione re -lativa alla probabilità primaria della quale non è data un'interpreta-zione causale è trascurata in presenza di dati specifici causalmente rilevanti, come nel problema 3 [e nel problema 11» [ibidem, 67].

Le teorie e i paradigmi sperimentali di Kahneman e Tversky hanno avuto Lina grande influenza negli ultimi due decenni sulla ri -cerca psicologica riguardante il ragionamento probabilistico e la deci -sione. Tuttavia, particolarmente negli ultimi anni, non sono mancate riserve e critiche, mosse da diversi punti di vista. Una prima direttri -ce critica consiste nella contestazione della scelta del riferimento nor -mativo e dell'uso che ne è stato fatto.

Nel programma «euristiche e b/asrs» Idi Kahneman e Tverskyl, un bias o errore nel ragionamento probabilistici) è definito come una discrepanza tra il giudizio di una persona e una norma. Che cosa è questa norma? [...] Ciò che nella letteratura ispirata alle euristiche e biascs è delta la «teoria normativa della probabilità», sia questa l'espressione usata o una simile, è di l a t to un t ipo molto ristretto il i concezione neobayesiana che è condivisa da alcuni economisti teorici e psicologi cognitivisti, e in minor grado da esperti di alhin, leggi e intelligenza artidciale. Non è invece condivisa dai sostenitori della concezione Irequentista della probabilità decisamente preva-lente tra gli studiosi di statistica, né dai sostenitori di molte altre concezioni; e non è neppure condivisa da tutti i bayesiani. Secondo questo ristretto standard di ragionamento probabilistico «corretto», i più insigni probabilisti e statistici del nostro secolo - figure della statura di Richard voti Mises e |erry Ncymann - potrebbero essere colpevoli ili «biases» nel ragionamento probabilistico [( ìigerenzer 1991, 86-87 .

Gigerenzcr, riproponendo problemi mutuati da Kahneman e Tversky ma nlormulati con un impianto Irequentista, ha ottenuto una riduzione ilei tipici errori riscontrati da Kahneman e Tversky, nonché ila a l t r i : basc-ralc /allacy, amjunction fa/lacy, ecc.

1 paradigmi sperimentali introdotti da Kahneman e Tversky sono stati sottoposti a controlli, messe a punto e critiche anche con riferi -mento a l l a possibile o ipotizzata discrepanza tra ciò che gli sperimen -tatori assumono di aver trasmesso ai soggetti con la loro formulazio -ne del problema e ciò che ai soggetti è stato effettivamente trasmes -so. Dicendo così, indico una direttrice fondamentale, senza voler suggerire che proprio questa, e in modo così netto, sia l'impostazio ne di t u t t e le i icerche i cui risultati sono leggibili in questo senso.

A proposilo degli cileni di una descrizione non diagnostica (co -me quella di l ) i c k > , la cui introduzione secondo Kahneman e I'vers-ky basterebbe a l a i " trascurare ai soggetti la probabilità primaria, Gi-nossar e I rop< i I l )cS() | , proponendo a ciascun soggetto una sola delle

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descrizioni di personalità, trovarono che con descrizioni non diagno-stiche - come quella di Dick - le valutazioni dei soggetti erano basa te sulla probabilità primaria o base-rate. Nello stesso senso vanno i risultati di Fischhoif, Slovic e Lichtenstein [1979] i quali mantengono hssa la descrizione di personalità proponendo invece allo stesso soggetto diverse composizioni del gruppo (70, 50 o 30 ingegneri). Nella loro ricerca Kahneman e Tversky [1973] propongono ai soggetti le descrizioni di 5 diverse persone, tratte dallo stesso campione. Varia l'informazione specifica (descrizione), mentre è tenuta costante la base-rate (composizione del campione). E la procedura stessa, quindi, che suggerisce di utilizzare quelle informazioni che vengono variate (oltretutto, la soluzione sarebbe altrimenti sempre la stessa), come è provato mutatis mutandis dai risultati di Fischhoif, Slovic e Lichtenstein [1979].

Consideriamo ora i problemi 1-5 (cfr. supra, pp. 446-448), di-scussi congiuntamente da Tversky e Kahneman per mostrare l'in-fluenza sulla utilizzazione della informazione relativa alla probabilità primaria {base-rate) della causalità attribuibile a questa informazione. È stato dimostrato [Macchi 1992] che non dal fatto che questa in -formazione si presti ad una interpretazione causale dipende la diver-sità dei risultati ottenuti con i diversi problemi, ma da fattori relativi alla struttura discorsiva, e precisamente da «asimmetrie nella formu-lazione» riguardanti le informazioni fornite (problema dei taxi) o la domanda (problemi dei suicidi e dei l ibri). Limitiamoci a questi ulti-mi. Lasciando invariati gli enunciati, Macchi ha modificato la do-manda del problema dei suicidi (cfr. supra, problema 3, p. 447) in una forma corrispondente a quella del problema dei libri (cfr. supra, proble-ma 5, pp. 447-448) e viceversa, in modo da renderle effettivamente «identiche». Secondo Macchi, quando una domanda riguarda solo la classe più piccola e non si riferisce alla popolazione generale, i sog-getti tendono a considerare questa classe più piccola come se fosse già il risultato della considerazione della probabilità primaria (è que-sto il caso della prima versione del problema dei suicidi). Riferendosi solo alla categoria dei suicidi, la domanda spinge i soggetti ad in-terpretare questa informazione specifica come se fosse relativa ad un sottoinsieme composto da coloro che hanno commesso il suicidio, 75% dei quali sono single e 25% sposati (la probabilità a posteriori). Se, al contrario, la domanda fa riferimento esplicito all'intera popola-zione (come nel problema dei libri), risulta chiaro che la probabilità relativa all'informazione specifica non include la probabilità primaria, che dovrebbe quindi essere considerata per la soluzione del proble-ma. La domanda del problema 3 (Tversky e Kahneman) «Qual è la probabilità che un individuo scelto a caso fra coloro che hanno com-messo suicidio, sia un single?» viene uniformata a quella del proble-ma 5 di Tversky e Kahneman e diventa «Qual è la probabilità che un suicida, scelto a caso dalla popolazione di giovani adulti, sia un single?» (problema 3a, Macchi). Corrispondentemente la domanda del problema 5 (Tversky e Kahneman) «Qual è la probabilità che un

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tascabile, scelti) a caso dal magazzino, sia in francese?» viene unifor-mata a quella del problema 3 (Kahneman e Tversky) e diventa «Qual è la probabilità che un libro, scelto a caso fra i tascabili, sia in francese?» (problema 5a, Macchi). Le domande del problema 3 (sui-cidi, versione Tversky e Kahneman), e del problema 5a (libri, versio-ne Macchi) hanno una struttura discorsiva analoga e, in corrispon-denza a ciò, i risultati ottenuti con questi due problemi sono quasi sovrapponibili. Le risposte basate sull'informazione specifica corri-spondono al 62% con il problema 3 e al 66% con il problema 5a. Le risposte «intermedie», che tengono conto sia della probabilità prima-ria sia dell'informazione specifica, corrispondono al 38% con il pro-blema 3 e al 34% con il problema 5a. Lo stesso vale per il problema 5 (libri, versione Tversky e Kahneman) e il problema 3a (suicidi, versione Macchi): le risposte basate sull'informazione specifica corri-spondono rispettivamente al 33% e al 30%; le risposte «intermedie» rispettivamente al 70% e al 67%. E tutto questo indipendentemente dalla rilevanza causale attribuibile ai dati (il fattore esplicativo di Tversky e Kahneman), che comporta una contrapposizione tra i pro-blemi 3 e 3a da un lato e i problemi 5 e 5a dall'altro. I risultati sperimentali, il tipo di soluzione e la comprensione o decodificazione del problema, appaiono manifestamente dipendenti dalla struttura discorsiva e dalle proprietà psicoretoriche del testo (in questo caso, della domanda).

Infine ricorderemo che assai nota, e oggetto di parecchi studi an -che da parte dei «revisori» delle ricerche di Kahneman e Tversky, è la cosiddetta fallacia della congiunzione [conjunction fallacy).

Cade in tale fallacia chi giudica più probabile il verificarsi della congiunzione di due eventi (A e B) rispetto al verificarsi di uno solo degli eventi componenti la congiunzione (per esempio, A), dal mo-mento che la probabilità di A non può essere minore della probabili tà di una sua particolare evenienza, ossia la sua congiunzione con B: p(A e B) < p ( A ) . In un problema, divenuto un paradigma sperimentale, Tversky e Kahneman [1983] proponevano dapprima una breve descrizione di una donna di 30 anni (Linda), single, laureata in filosofia, aperta e intelligente, molto impegnata da studentessa nelle questioni di giustizia sociale e di discriminazione, antinuclearista. Successivamente ai soggetti veniva chiesto di valutare la probabilità che, tra altre possibilità, essa fosse diventata: A) commessa; B) com-messa e femminista. Gran parte dei soggetti valutarono questa se-conda eventualità più probabile della prima. Responsabile della «pa-radossale» risposta sarebbe, una volta ancora, l'euristica della rappre-sentatività: commessa e femminista, rispetto a commessa, sarebbe più rappresentativo del personaggio descritto (Linda). Nonostante la notorietà di questo paradigma sperimentale e il numero piuttosto elevato di ricerche dedicato alla sua revisione, mi limito a questo ne-cessario cenno, per due ordini di considerazioni. Innanzitutto, a mio parere, la questione del rapporto tra classe includente e classe inclu -sa, sia la richiesta di giudizio formulata in termini di probabilità del

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I NSIKRO 451

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verificarsi di un evento (A) o del verificarsi dello stesso evento in congiunzione con un altro (A e B) oppure in altro modo, non attie-ne propriamente al campo delle valutazioni in stato di incertezza. In secondo luogo, nonostante l'interesse particolare di alcune ricer -che, la critica del paradigma sperimentale proposto da Kahneman e Tversky resta, in generale, circoscritta e inconcludente, principalmente per debolezza teorica. Intatti, per un riesame adeguato della questione è fondamentale e necessario partire dal riconoscimento del-l'improponibilità o «indicibilità» nel discorso comune (quando si at -tivi il codice primario o naturale) di domande del tipo di quelle usa-te da Kahneman e Tversky, concernenti assiomi o conoscenze fonda-mentali universalmente non solo accettate ma presupposte.

Per quanto riguarda complessivamente le ricerche sui giudizi in condizione di incertezza, la loro storia e lo stato attuale, grosso mo-do si può ancora dire che

il lavoro originale che ha evidenziato le euristiche è stato estremamente im-portante nel cambiare la fecalizzazione della ricerca, distogliendola dal solo riscontro dei modelli normativi. Comunque, ora siamo al punto in cui è necessario sviluppare teorie sia della rappresentazione del problema sia del giudizio che tengano conto della pragmatica degli aspetti statistici «.Iella si-tuazione e della semantica. Queste teorie devono indicare come la struttura del problema determina a) quali dimensioni dell'informazione sono codifi-cate e b) come questi aspetti evidenziati saranno usati LWallsten 1983, 34].

3. Conclusioni

Questo paragrafo è dedicato, piuttosto che a concludere, a inte-grare l'esposizione precedente, nel senso che cercherò brevemente di dar conto della impostazione e delle caratteristiche del capitolo, di segnalare (e giustificare) qualche omissione, nonché di chiarire che qualche altra è solo apparente.

Innanzitutto nell'organizzare la materia dell'esposizione non ci siamo riferiti ad una tassonomia o ad un sistema ideale, ma a ciò che gli psicologi hanno effettivamente studiato. In secondo luogo, abbia-mo deliberatamente evitato in ogni caso di fornire un quadro della successione e dello stato attuale della ricerca razionalizzato o artefat-tamente ordinato. Linearità di sviluppo e immancabile progresso so-no più frequenti nei trattati che nella realtà della quale essi trattano.

Per opportunità suggerita dallo stato delle cose, in qualche caso l'esposizione segue lo sviluppo storico (come a proposito dei sillogi-smi categorici), in altri l'esposizione risulta centrata sugli autori e gli orientamenti nei quali per lungo periodo e fino a oggi è stata comu-nemente identificata la ricerca psicologica contemporanea in quel da-to campo (come per Kahneman e Tversky, nel par. 2.3) , altra volta sono prevalse distinzioni teoriche essenziali (come per il problem sol-ving).

Infine, anziché seguire categorizzazioni o distinzioni tradizionali,

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come quella tra deduzione e induzione, ho scelto come temi o arti -colazioni del capitolo delle operazioni, intese in senso lato, come: ri-solvere un problema, tirare una conclusione, controllare un'ipotesi, valutare la probabilità di un evento. Ne è derivata qualche innova-zione. Per esempio, sono stati congiunti, come entrambi attinenti al tirare una conclusione, i sillogismi categorici e i sillogismi lineari, normalmente assegnati gli uni alla deduzione e gli altri all'induzione. Ne è venuta anche (non potendo essere trascurata l'esigenza di eco-nomia dello spazio) l'omissione dei sillogismi proposizionali (come «se p allora <•/; </; allora...»), attinenti al tirare una conclusione ma connessi anche con il compito di selezione. Ho poco più che accennato alla fallacia della congiunzione (cotyunction fallacy), sulla quale pure esiste una letteratura piuttosto ampia, perché (almeno secondo me) ha poco a che fare con l'operazione di valutare in situazione di incertezza la probabilità di un evento. Data questa impostazione (scelta di «operazioni» come articolazione dell'esposizione), si sarebbe dovuto trattare anche di quelle operazioni complesse come dimostrare, spiegare, persuadere, ecc, considerate nella loro complessità ( in corrispondenza a come appaiono nella vita «reale»), È una lacuna che non posso giustihcare, ma soltanto spiegare con l'impossibilità di dedicare a questo tema uno spazio suihciente.

Non ho parlato della creatività né della scoperta scientifica. L'ho fatto considerando lo stato della letteratura e inclinando a cre -dere che I essenziale di ciò che si sa su questi argomenti stia nella letteratura sul problem solving e, anche, sul ragionamento. Nella prefazione del loro libro sulla scoperta scientifica, Langley, Simon e colleghi [1987] allermano che «i processi della scoperta scientifica possono essere descritti e spiegati semplicemente come classi spe-ciali dei processi di problem solving, strettamente simili ai processi che sono stati identificati in altri domini del problem solving». Si può anche ricordare che d'altra parte Hayes, concludendo il capitolo sui processi cognitivi nella creatività [Glover 1989], evidenzia l'importanza dei fattori motivazionali a scapito dei fattori cognitivi («tutte le variabili che discriminano tra creativi e non creativi sono motivazionali, non è stata scoperta nessuna abilità cognitiva che discrimini tra questi due gruppi» [ibidem, 143]).

Indicazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti

Una presentazione di taglio storico relativa alla sezione sul ragio-namento (trarre una conclusione, controllare un'ipotesi) è in Legren-zi e Mazzocco [1973]. Le posizioni teoriche classiche sul problem solving e importanti ricerche sperimentali sono contenute in Mosconi e D'Urso [1973]. La posizione teorica di Mosconi è sviluppata in Mosconi [ 199t)a I. Una rassegna aggiornata delle ricerche sul ragionamento probabilistico è contenuta in Rumiati [1990]. Un ampio quadro delle ricerche è fornito dall'utilissima monografia sul ragiona-

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I-NS11-KO 453

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mento di Girono [1994]. Un'esposizione secondo la prospettiva della scienza cognitiva di alcuni dei temi trattati in questo e nei capitoli precedenti è in Johnson-Laird [1988W. Un'introduzione molto agile agli stessi temi è in Sanford [19871.

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Glossario

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Adattamento selettivo: paradigma spe-rimentale consistente nell'affati-camento di una parte del siste-ma sensoriale mediante esposi-zione prolungata ad uno stimolo sbilanciato a favore di un solo valore di un particolare attributo (ad esempio, linee di un solo orientamento).

Affiliazione {bisogno di, motivazione alla): corrisponde alla spinta a sentirsi approvati e accettati da-gli altri.

Aha Erlebnis: esperienza immediata (Erlebnis) di soddisfatta sorpresa (aha) di chi giunge improvvisa-mente a scoprire qualcosa o vede di colpo la soluzione di un problema, quando si ha cioè un insight (vedi).

Alternativa stroboscopica: pattern plu-rivoco in cui il movimento strobo-scopico (vedi) può verificarsi in più direzioni.

Annullamento: tecnica di misura del-le illusioni sensoriali consistente nella cancellazione di una diffe-renza soggettiva mediante modi-ficazione del valore fisico dello stimolo di confronto.

Area di Panutn: zona in CLU le dispa-rità sono risolvibili mediante di-slocazione in profondità.

Arousal: nozione controversa con cui ancora si suole riferirsi a vari stati e processi di attivazione, ec-citazione, energetizza/.ione. Poi-ché diversi sistemi risultano inte-ressati a vari fenomeni che tradi-zionalmente sono riportati sotto la nozione di arousal, è opportu-no distinguere diversi tipi di «at-tivazione».

Asimmetria nella ricerca visiva: un target anomalo tra distrattori normali è più facilmente rileva-bile di un target normale tra di-strattori anomali (vedi anche ri-cerca visiva).

Assetto ottico (optic array): il pattern di radiazioni ottiche che arriva a un punto di vista. Lo stimolo prossimale (vedi) per la visione.

Autoefficacia percepita (percewed sei/ ejficacy): la percezione che l'indi-viduo ha di poter dominare spe-cifici ambiti di competenza, e della propria efficacia nel fronteg-giare particolari circostanze.

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458 CI OSSARII >

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Bayes (teorema di): principio (dal nome del suo scopritore) che permette di rivedere una srima probabilistici alla luce di nuove informazioni. Esso si basa sulle probabilità antecedenti, basate sulle vecchie informazioni, e sui nuovi elementi di prova ottenuti successivamente, permettendo così di quantilicare la stima pro-babilistica riveduta. Poniamo che sia stato ucciso Alcide: possi-bili colpevoli Pietro e Palmiro. Ci sono due probabilità contro una (2/1 ) a slavore del pregiudi-cato Palmiro (2/1 = probabilità primaria). Poi però scoprite che Pietro odiava Alcide (questo nuovo dato comporta una pro-babilità contro cinque che il col-pevole sia il bonario Palmiro) e giungete così a l la stima finale che ci sono solo due probabilità su cinque che l'omicida sia effet-tivamente Palmiro e non Pietro (2/1 x 1/5 = 2/5).

Bianchezza, lightness: il colore croma-tico di una superficie, sul conti-nuum dal nero al bianco. È la variabile percettiva che nelle normali condizioni di illumina-zione tende a corrispondere alla njlettanza (vedi).

Bias: tendenza erronea. Per quanto riguarda il ragionamento secon-do alcuni amori tali tendenze, ad esempio venfication hias (Wa-son) e matching bias (Evans), so-no esse stesse- responsabili del-l'errore, seconde) altri autori (Kahneman e Tvcrsky) esse de-rivano da particolari procedi-menti euristici (vedi euristiche).

Caso limite di Panimi: coppia di ste-reogrammi (vedi) contenente ri-spettivamente uno e due ele-menti.

Chiarezza, brtghtness: proprietà delle superfici percepite come più o

meno illuminate. Tende a corri-spondere alla luminanza (vedi).

Ciclo percezione-azione: unità di ana-lisi del rapporto tra LUI osserva-tore attivo e il suo ambiente.

Cu-:, Commission Internationale de l'Eclairage: definisce gli standard rilevanti per la psicofisica del co-lore (vedi anche colorimetria, lu-minanza ).

Codice legale: applicato al messaggio dato (vedi messaggio dato), per lo più in seguito alle difficoltà de-rivanti dalla comprensione del messaggio dato secondo il codice naturale (vedi codice naturale), ren-de possibile la soluzione del pro-blema.

Codice naturale: con questa espres-sione ci si riferisce all'applicazio-ne delle normali regole di com-prensione del discorso. Nel caso di problemi di tipo A, o insight-problems, la lettura del messaggio dato (vedi) secondo il codice na-turale, la più probabile, è incom-patibile con la soluzione del pro-blema, per la quale è necessario il passaggio ad una lettura del messaggio dato secondo il codice legale (con il passaggio da una decodificazione naturale ad una decodificazione seconda ).

Colorimetria: disciplina avente per oggetto le specifiche del colore percepito da un osservatore idea-le, con un sistema tricromatico standard (vedi anche Cn<).

Comprensione: consiste nell'attività di integrare le nuove informazioni in arrivo con quelle già possedu-te, ed è direttamente proporzio-nale al grado di elaborazione a cui sono sottoposte tali informa-zioni.

Condizionamento classico: riguarda la

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(.1 OSSARIO 459

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formazione di un'associazione tra uno stimolo condizionato e una risposta condizionata mediante l'accoppiamento ripetuto dello stimolo condizionato con lo sti-molo incondizionato che origina-riamente suscita quella risposta. Lo stimolo incondizionato funge da rinforzo in quanto aumenta la probabilità di comparsa della ri-sposta.

Contomi anomali: contorni illusori solo in parte definiti nel dominio della luminanza (vedi).

Correlogrammi casuali: matrici di ele-menti distribuiti a caso all'inter-no di ciascuna matrice, ma in modo tale che le distribuzioni siano tra loro correlate.

Costanze percettive: fenomeni in cui una proprietà percettiva (ad esempio, il colore o la forma dell'oggetto) rimane costante al variare del corrispondente stimo-lo prossimale (vedi).

Covanazione percetto-percetto: cam-biamento coordinato di due pro-prietà percettive, come quello previsto dall'invarianza bianchez-za x chiarezza (vedi), dall'inva-rianza grandezza/distanza (vedi) o dall'invarianza forma/inclinazione (vedi).

Criticai flicker frequency: frequenza critica di sfarfallamento di uno stimolo che varia di luminanza nel tempo. Al di sotto di tale frequenza lo stimolo appare sta-bile.

Disco di Maxwell: fatto ruotare a ve-locità di fusione (vedi anche crit-icai flicker frequency) un disco a settori di colore diverso appare omogeneo. La riflettanza (vedi) virtuale così ottenuta è una par-ticolare miscela delle riflettanze dei settori.

Disparità binoculari: differenze tra i due input monoculari utilizzabili come informazione sulla disloca-zione in profondità.

Doppia dissociazione: fenomeno per cui si possono riscontrare defi-cit solo di un tipo di memoria (MI.T o Mivr) in concomitanza di prestazioni pressoché intatte nell'altro.

Dualismo metodologico: contrapposi-zione tra due modi in cui un os-servatore può conoscere l'oggetto: mediante esperienza diretta (percettiva) (vedi) o mediante esperienza indiretta (concettuale) (vedi).

hffetti di posizione seriale: effetti ri-scontrabili nel ricordo dovuti al-l'ordine in cui il materiale com-pare. \J effetto di priorità si riferi-sce al fatto che il materiale pre-sentato per primo ha una mag-giore probabilità di essere ricor-dato. \! effetto di recenza si riferi-sce al fatto che, quando la pre-stazione mnestica segue imme-diatamente la presentazione del materiale, si ha un maggior ri-cordo della parte tinaie dello stesso.

Effetto cinetico di profondità (KDE, kinetic depth effect): movimento fenomenico nella terza dimensio-ne, sorretto da uno stimolo im-poverito ma proiettivamente va-lido.

Effetto consecutivo contingente {contin-gent after-effect): conseguenza del-Xadattamento selettivo (vedi) ad uno stimolo contenente la con-giunzione di due attributi con valori ben definiti (ad esempio, un reticolo verticale rosso-nero).

Effetto consecutivo di orientamento (tilt after-effect): conseguenza del-Xadattamento selettivo (vedi) ad uno stimolo orientato.

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460 CLOSSAKK)

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Effetto Gelb: cambiamento di bian-chezza (vedi) in funzione dell'il-luminazione percepita.

ìiffetto Petter: ruX organizzazione duale (vedi), indica la preferenza per la segmentazione che minimizza il tratto di contorno anomalo.

liffetto s/ereocinetieo (SKI., stereo-kin-etic effecl): movimento fenomeni-co nella terza dimensione, sorret-lo da uno stimolo impoverito e proiettivamente non valido.

Effetto l'ernus: taso speciale di al-ternativa stroboscopica (vedi) in cui Lina delle soluzioni prevede l'unificazione di un elemento con un elemento che, nell'istante successivo, ha la stessa posizione spaziale.

Emozione: un sistema di reazione coordinato e complesso che com-prende una «eccitazione fisiolo-gica» dei sentimenti, dei processi cognitivi e delle reazioni com-portamentali (espressive e stru-mentali).

Emozioni fondamentali: emozioni di base e universali la cui denomi-nazione e il CLIÌ numero varia per i diversi autori, generalmen-te tra 5 (felicità-gioia, tristezza, collera, interesse, sorpresa) e 9 (le precedenti più sconforto, di-sgListo, disprezzo, vergogna-timi-dezza).

Errore dell'esperienza: lo commette chi attribuisce allo stimolo distale (vedi) caratteristiche che sono proprie dc\Y esperienza diretta (ve-di) (ma incompatibili con una descrizione fisica).

Errore dello stimolo: lo commette chi attribuisce all'< sperienza diretta (vedi) caratteristiche che sono pro-

prie dello stimolo distale (vedi) o dello stimolo prossimale (vedi). Consiste cioè nel descrivere l'og-getto in base a ciò che si sa e non a ciò che si vede.

Esperienza diretta/indiretta: modi di conoscenza dell'oggetto, che nel dualismo metodologico vengono contrapposti. Nelle illusioni sen-soriali, esperienza diretta ed espe-rienza indiretta sono in conflit-to.

Euristiche: 1. Metodi che favoriscono la genesi delle successive fasi di soluzione di un problema. Essi sono caratterizzati dal «tentativo di variare intelligentemente, in vista dell'obicttivo che si vuole ragghingere, elementi appropriati della situazione» (Duncker). 2. Principi o espedienti che con-tribuiscono alla riduzione della ri-cerca della soluzione, adottati in alternativa a strategie ottimali (al-goritmi), più complesse e non sempre praticabili dal soggetto (Human Information Processing Theory). 3. Approcci al giudizio di probabilità che guidano a seri errori, perché trascurano fattori che dovrebbero interessare i giu-dizi di probabilità (Kahneman e Tversky).

Eattori di unificazione: fattori o leggi (prossimità, somiglianzà, buona continuazione) che regolano il rapporto tutto-parti.

Eotopica, visione: modalità caratteri-stica dell'occhio adattato alla lu-ce diurna. La sensibilità fotopica dell'osservatore CIF. è utilizzata per definire la luminanza (vedi).

Erequenza dì base (base-rate o proba-bilità primaria): poniamo che un test abbia la probabilità del 95% di individuare il cancro (se c'è) e del 5% di sbagliarsi (Io indivi-dua anche se non c'è: questo è il

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GLOSSARIO 461

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rapporto di credibilità). Ponia-mo che la probabilità che una persona qualunque abbia in Ita-lia quel tipo di cancro sia di 1 su 10.000 (probabilità primaria). Un tale fa l'esame: risulta positi-vo. Qual è la probabilità che ab-bia il cancro? Non lo 0,95 (rap-porto di credibilità: 95 contro 5) ma lo 0,0019 (rapporto di credi-bilità ponderato con la frequen-za di base).

Gradienti prospettici: variazioni rego-lari di elementi dell'immagine, as-sociate alla protondità nel mon-do distale.

Immaginazione: si (a riferimento alla funzione immaginativa attraverso la quale si costituiscono in mo-do consapevole immagini mentali nel taccuino visuo-spaziale con elementi provenienti dalla Mi . i . Tale significato traduce il termine inglese imagery, da non con-fondere con la traduzione del termine fantasy che si riferisce a ciò che concerne la fantasia.

immagini consecutive: effetti postumi di una forte stimolazione della medesima zona retinica.

Implicatila' conversazionali: termine tecnico della pragmatica, intro-dotto da Grice per designare in-formazioni che sono ricavate dal contesto del discorso o dalla si-tuazione in cui avviene una con-versazione, anche se tali infor-mazioni non sono inferibili a stretto rigore (o «logicamente»). Classico l'esempio di Jerome: se uno mi domanda «Sai che ora è?», non devo soltanto dirgli di sì o di no, ma anche dirgli l'ora.

Inferenza inconscia: meccanismo me-diante il quale, secondo I lelm-holtz, le conoscenze derivate dal-l'esperienza passata vengono in-tegrate con i dati sensoriali in modo da determinare i percetti.

Informazione: il contenuto dello sti-molo presùmale (vedi) che, es-sendo specifico allo stimolo dista-le (vedi), da forma al percetto.

insight (tedesco: VJnsicht): concetto descrittivo introdotto da Kòhler. Indica letteralmente il «vedere dentro» un problema cogliendo-ne la struttura e le relazioni de-cisive ai fini della soluzione {in-sight parziali corrispondono al su-peramento di varie tasi proble-miche di una situazione). Quan-do avviene \insight si prova la aha ììrlehnis (vedi).

invarianti di ordine superiore: regola-rità dell'input ottico che secondo Gibson sono sufficienti a specifi-care le proprietà distali.

invarianza bianchezza x chiarezza: l'or-ganizzazione visiva incorpora un vincolo naturale (vedi) di tipo fo-tometrico, per cui il prodotto di queste due proprietà tende ad essere invariante.

invarianza forma/inclinazione: l'orga-nizzazione visiva incorpora un vincolo naturale (vedi) di tipo proiettivo, per cui il rapporto tra queste due proprietà tende ad essere invariante.

invarianza grandezza/distanza: l'orga-nizzazione visiva incorpora un vincolo naturale (vedi) di tipo proiettivo, per cui il rapporto tra queste due proprietà tende ad essere invariante.

ipotesi della costanza: presuppone che ogni percetto sia in corri-spondenza biunivoca con il cor-rispondente stimolo prossimale (ad esempio, la forma percepita con una data forma nell'input ottico).

ixgge di limmert: dipendenza della grandezza fenomenica dell'imma-

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462 GLOSSARIO

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gine consecutiva dalla distanza della superficie su cui viene pro-iettata (vedi invarianza grandez-za/distanza).

Luminanza: misura dell'intensità lu-minosa di una regione dell'im-magine.

Macula cacca: zona della retina priva di recettori cui corrisponde una zona del campo visivo in cui si verihcano dei completamenti.

Memoria autobiografica: riguarda i propri ricordi personali. Il mate-riale ricordato, oltre a mantenere le coordinate spazio-temporali, fa esplicito riferimento al sé, carat-teristica alla quale consegue un marcato vantaggio mnestico.

Memoria di lavoro: termine con il quale Baddeley ha definito la Min-, all'interno della quale ha distinto una serie di componenti: l'Esecutivo centrale che rappre-senta un sistema di controllo dalle capacità attentive limitate, il quale opera sull'informazione linguistica proveniente dal Loop articolatimi) e su quella spaziale proveniente dal Taccuino visuo-spaztale.

Memoria episodica: riguarda il ricordo di fatti particolari caratterizzati dal riferimento autobiograh-

Memoria implicita: forma di ritenzione nella quale la fase di appren-dimento può essere conscia o meno, ma la fase di recupero non implica volontà.

Memoria incidentale vs. Memoria in-tenzionale: forma di ritenzione nella quale non vi è intenzione di ricordare. Per il stio studio sono utilizzati compiti di coper-tura o di orientamento.

Memoria prospettica: riguarda il

cordo di azioni che abbiamo pro-grammato di compiere nel futuro, per cui è cruciale ricordare quan-do qualcosa deve essere ricordato. Si riferisce più al ricordo di inten-zioni che di eventi, perciò possie-de anche una connotazione emo-tiva legata al senso di dovere.

Memoria semantica: riguarda il patri-monio di conoscenze possedute, il cui aspetto centrale è il loro si-gnificato.

Messalo dato: il complesso di in-formazioni (parole pronunciate, figure, materiale, ecc. ) indirizza-te o messe a disposizione del soggetto in una situazione di problem solving, considerato in sé, oggettivamente, precedente-mente e indipendentemente dal fatto che sia ricevuto ed elaborato dal soggetto.

Messaggio effettivo: il correlato psico-logico del messaggio dato nel ri-cevente, quando - come normal-mente avviene — questi utilizzi in prima istanza il codice naturale (vedi). In altre parole, il messag-gio effettivo corrisponde a ciò che normalmente il soggetto ca-pisce ossia al messaggio risultante dalla lettura del messaggio dato (vedi) secondo il codice naturale (vedi). Con i problemi di tipo A il messaggio effettivo è incompa-tibile con la soluzione del pro-blema.

Metacognizione: conoscenza e con-trollo dei processi cognitivi.

Metamemoria: conoscenza e controllo dei processi di memoria.

Metamerismo: equivalenza percettiva tra due miscele fìsicamente diffe-renti (metameri), che tuttavia producono la medesima attiva-zione relativa delle varie classi di recettori.ri-

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Cl.ONSAKlO 463

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Metodo dei loti: mnemotecnica usata sin dai tempi dell'antichità classi-ca. Prevede l'individuazione di un numero di luoghi lungo un percorso noto, in quanto abitua-le, da utilizzare come schedario in cui riporre il materiale da ri-cordare tramite un'immagine in-terattiva.

Mnemotecniche: tecniche di potenzia-mento del ricordo generalmente basate sul!'utilizzo di immagini mentali. Gran parte dello svilup-po ottenuto nell'arte della me-moria risale al mondo greco e al mondo romano classico nei quali si taceva largo uso di tali tecni-che ai fini del ricordo.

Modellaggio: traduce il termine ingle-se shaping che si riferisce alla procedura attraverso la quale si prosegue nel condizionamento secondo un programma progres-sivo che rinforza via via compor-tamenti che sono sempre più si-mili a quello meta.

Modello gerarchico-evolutivo dell'emo-zione: l'emozione è una costru-zione alla quale concorrono di-verse componenti, percettivo-motorie e valutative, ordinate gerarchicamente e secondo livelli di articolazione e complessità crescente col progredire dello sviluppo.

Modo della costanza: atteggiamento osservativo caratteristico della vi-sione ordinaria, che si basa sul-l'esplorazione attiva e sull'infor-mazione binoculare.

Modo prossimale: atteggiamento os-servativo critico-pittorico, facili-tato in visione monoculare stati-ca.

Motivazione: ciò che innesca, guida e sostiene la condotta in vista del raggiungimento di fini e soddi-sfazione di bisogni.

Movimento indotto: movimento illu-sorio di un oggetto tisicamente immobile, incluso in una cornice in movimento.

Movimento stroboscopico: movimento fenomenico indotto da una se-quenza di stimoli statici.

Oblio: riguarda la perdita o l'impos-sibilità di recuperare informazio-ni che prima si possedevano.

Ombre colorate: quando l'ambiente contiene due sorgenti di illumi-nazione con diversa composizio-ne spettrale, le ombre hanno una tonalità cromatica.

Organizzazione duale: segmentazione di una regione omogenea in due superfìci. Tipicamente una delle superfìci risultanti avrà un tratto di contorno anomalo e l'altra un tratto di contorno amodale.

Pattern: termine utilizzato in vari ambiti e traducibile con «confi-gurazione», «modello», «sche-ma». Ad esempio, trattando le emozioni: «l'emozione è un pat-tern complesso di modificazio-ni...», o in percezione: «pattern di attivazione dei recettori retini-ci», «pattern di intensità del-l'output ottico», «pattern pluri-voco» (e cioè percettivamente instabile), e così via.

Pendolo di Vulfrich: illusione di rota-zione in profondità che si pro-duce osservando un pendolo oscillante sul piano frontoparalle-lo, se davanti a un occhio si po-ne un filtro scuro.

Pop-out: effetto ottenibile nel para-digma della ricerca visiva (vedi): il tempo necessario a identificare il target è costante all'aumentare del numero di distrattori.

Potere (bisogno di, motivazione al):

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464 GLOSSARIO

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corrisponde alla spinta ad eserci-tare il proprio controllo sulle al-tre persone.

Principio del rapporto tra luminanze adiacenti: ipotesi di Wallach in base alla quale la bianchezza (ve-di) dipende dal rapporto tra lu-minanza della regione target e lu-minanza della regione includente.

Principio del rapporto tra luminanze complanari: ipotesi di Gilchrist e Rock in base alla quale la bian-chezza (vedi) dipende dal rap-porto tra luminanza della regio-ne target e luminanza della re-gione complanare, percepita sotto una medesima illutninazione.

Principio dell'univananza: mentre le radiazioni possono variare per intensità e lunghezza d'onda, l'attivazione ili ciascuna classe di recettori è unidimensionale (cioè varia soltanto per intensità).

Principio di inhiimo: per la teoria della Gestalt, è la tendenza del-l'organizzazione percettiva a mi-nimizzare la complessità dell'out-put.

Problema dell'apertura: la traslazione di un tratto di contorno dell'im-magine è compatibile con un nu-mero infinito di traslazioni distali (indeterminazione cinematica).

Propagazione dei l'incoii: superamento dell'indeterminazione locale mediante generalizzazione di vin-coli validi in altre zone dell'im-magine.

Prospettiva di movimento: l'insieme delle trasformazioni ottiche con-seguenti allo spostamento del punto di vista rispetto ad un mondo rigido

Psicofisica: disciplina avente per og-getto la misurazione soggettiva di grandezze lisiche.

Realismo ingenuo: teoria acritica della percezione, che presuppone una piena aderenza dei percetti agli stimoli.

Riapprendimento: tecnica di misura-zione della memoria di tipo quantitativo nella quale il mate-riale appreso in precedenza, do-po un certo intervallo di tempo, viene fatto riapprendere, in mo-do da poter confrontare la diffe-renza di tempo impiegato nelle due prove per raggiungere il me-desimo risultato. La differenza di tempo tra la prima e la secon-da prova è un indice del ricordo indipendente dalla consapevolez-za del ricordo stesso.

Ricerca visiva, visual search: paradig-ma sperimentale in cui il soggetto deve individuare la presenza di uno stimolo target inserito in un insieme di stimoli distrattori.

Riconoscimento: tecnica di misurazio-ne della memoria di tipo quanti-tativo nella quale il soggetto de-ve identificare gli item da ricor-dare che gli vengono presentati assieme ad altri detti distruttori. Le possibili risposte possono es-sere raggnippate in 4 tipi: suc-cesso, falso allarme, omissione e corretto rifiuto.

Rievocazione: tecnica di misurazione della memoria di tipo quantitati-vo in cui è richiesto di ricordare verbalmente tutte le informazio-ni memorizzate in precedenza. Si distingue dalla riproduzione nella quale è richiesta la riprodu-zione grafica di materiale visivo.

Riflettanza: proporzione della luce incidente riflessa da una superfi-cie.

Rivalità binoculare: antagonismo tra i due input monoculari che porta alla soppressione di uno dei due.

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GLOSSARIO 465

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Schermo di riduzione: un grande car-tone con una piccola apertura centrale: strumento per ridurre l'osservazione a una zona ristretta del campo visivo e isolare l'in-formazione ottica localmente di-sponibile.

Scotopica, visione: modalità caratteri-stica dell'occhio adattato al buio.

Segregazione di tessiture: segmentazio-ne preattentiva di un pattern composto da elementi identici.

Self-reports: resoconti personali ri-guardanti che cosa il soggetto di-mentica, cosa ricorda e come procede per assicurarsi il ricordo di differente materiale in diverse circostanze (esempi: registrazioni di quanto si è pensato ad alta voce mentre si risolveva un pro-blema di memoria, diari e que-stionari). Si basano sull'introspe-zione.

Sensibilità spettrale: capacità di rispo-sta di ciascuna classe di recettori in funzione della lunghezza d'on-da, entro lo spettro delle radia-zioni visibili.

Separazione dei sistemi: secondo l'i-potesi di Duncker, il movimento percepito dipende unicamente dallo schema di riferimento pros-simo, e non da quello sovraordi-nato.

Simulazione: riproduzione su un programma per computer delle strategie di ragionamento di un essere umano.

Sinestesia: è la capacità che uno sti-molo, in una modalità sensoriale, ha di evocare una immagine in altre modalità (ad esempio asso-ciare suoni alti a colori e tonalità chiare, e suoni bassi a colori scuri).

Stereogrammi: immagini

contenenti informa/ione sulla pro-fondità.

Stereoscopio: strumento che consente la fusione di due immagini pre-sentate separatamente ai due oc-chi.

Stimolazione prossimale: il pattern di attivazione dei recettori determi-nato dallo stimolo prossimale (vedi ).

Stimolo ciclopico: nella terminologia di julesz, lo stimolo per un mec-canismo situato dopo l'integra-zione degli input monoculari.

Stimolo distale: l'oggetto o evento fi-sico, lontano dall'osservatore, che da luogo allo stimolo prossi-male (vedi). Le proprietà dello stimolo distale vanno descritte unicamente nel linguaggio della fisica e della geometria, onde evitare Xerrore dell'esperienza (ve-di).

Stimolo prossimale: il pattern di ra-diazioni ottiche che arriva a un punto di vista.

Strategia mnestka: tentativo, poten-zialmente consapevole, di sce-gliere i processi ottimali in fun-zione dello scopo di ricordare (esempi: reiterazione, elaborazio-ne, organizzazione, uso di imma-gini mentali, ecc. ).

Successo (bisogno di, motivazione al): corrisponde alla spinta a fare le cose al meglio per un intrinseco bisogno di perfezione di eccel-lenza.

Taking into account: meccanismo ra-ziomorfo che spiega le costanze percettive (vedi) in base alla compensazione delle variazioni prossimali indotte dalle condizio-ni in cui si osserva lo stimolo di-stale (vedi) (ad esempio, la gran-dezza percepita viene determina-ta tenendo conto della distanza).arate,

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466 (il.OSSAKK)

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'Icona b/fattoriale dell'emozione: l'e-sperienza emozionale risulta dal combinarsi di un alto stato di «eccitazione» coll'attribuzione di particolari significati positivi o negativi alle si inazioni in cui ci si trova.

Teoria centrale delle emozioni: modifi-cazioni viscerali non sono rile-vanti ai fini dell'esperienza emo-tiva, che è fondamentalmente re-golata a livello centrale.

Teoria della doppia codifica: formulata da Paivio nel 1971. Dimostra che il materiale presentato visi-vamente e le parole ad alto valore di immagine hanno maggiore-probabilità di essere ricordate di più perché l'utilizzo di entrambi i coelici visivo e verbale è garan-zia di un miglior ricordo.

Teoria della specificità di codifica: so-stenuta ad esempio da Tulving e Thomson [1975J, prevede che un item venga codificato a se-conda del contesto in cui è inse-rito; conscguentemente il ricono-scimento dello stesso risulta faci-litato da un contesto di recupero simile a quello di codifica, ma può essere addirittura impedito da un contesto molto diverso.

leoria dell'informazione strutturale (SII; strueturai injormation thè-ory): proposta da Leeuwenberg, è un'esplichazione del principio di minimo (vedi).

Teoria periferica delle emozioni: l'atti-vazione vegetativa provocata dal-la percezione dello stimolo emo-tigeno sta alla base dell'esperien-za emotiva per un meccanismo retroattivo dalla periferia viscera-le al sistema nervoso centrale.

Triangolo di Maxiveli, spazio dei co-lori coerente con la teoria tricro-matica. Ciascun colore viene rappresentato da un punto all'in-terno di un triangolo equilatero. Ogni vertice corrisponde all'atti-vazione di una sola delle tre classi di recettori.

Valore: nel sistema Munsell e il ter-mine tecnico per la bianchezza (vedi).

Vincoli naturali, naturai constramts: per l'approccio computazionale, sono le regolarità dell'ambiente geografico, incorporate nei pro-cessi di elaborazione dell'infor-mazione ottica sotto forma di as-sunzioni.

Visione attiva: la modalità visiva ca-ratteristica degli organismi che percepiscono l'ambiente nel cor-so dell'esplorazione (che com-prende spostamenti dell'attenzio-ne, dello sguardo, del punto di vista).

Visione dicottica: integrazione di due input monoculari ciascuno con-tenente una diversa porzione del-lo stimolo.

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Indice analitico

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Abitudine, forza della, 49 Adattamento, 36

selettivo, 120, 121, 125, 126, 457, 459teoria del livello di, 25

Affetto/i, 79, 80negativo, 83, 84positivo, 83, 84 Affiliazione, 457

Aggiramento, 43 Agnosia, 20 Aha Erlebms, 402, 457 Alternativa stroboscopica, 148, 150, 457,

460 Analisi

linguistica, 384-385sintattica, 345, 350, 363, 366-368,

370, 371Anello (loop) articolarono, 266-270, 286 Annullamento, 112, 457 Appercezione, 32, 340 Appratiti!, 90 Apprendimento, 46, 62, 319-337, 383,

410come integrazione delle conoscenze,

329-331di associazioni verbali, 320di concetti, 320di discriminazioni,320di regole, 320latente, 327,328motorio, 320per insight, 328teorie dell', vedi Teoria dell'apprendi-

mentoAprassia, 20 Archivi di accesso, 358

Area di Panum, 179, 182, 457Amimi (attivazione), 84, 85, 88, 100,

214, 215, 308, 457 Artefatti, 71-74

del compito, 72-74del soggetto, 72

dello sperimentatore, 71 Asimmetria nella ricerca visiva, 128, 457 Aspettativa x valore, vedi Teoria del-l'apprendimentoAssetto ottico (optic array), 113, 457 Associazione, 287, 288 Attenzione, 22, 292

fuoco della, 191-195selettiva, 197-213spaziale, 185-197 Autoefficacia

percepita, 107, 457

Rack-propagatimi, 57, 58, 214-217 Baldwin, effetto, 36 Bayes, teorema di, 458 Bell-Magendie, legge di, 18 Benefici e costi attentivi, 187-188 Bianchezza (lightncss), 155-143, 163,

458, 464, 466Bms (tendenza erronea), vedi [Euristiche Bisezione, 136 Bisogno/i

di affiliazione, 100, 101di carenza, 98di crescita, 98di successo, 101, 465gerarchia di, 98liste di, 96-99primari o viscerogeni, 97secondari o psicogeni, 97

Page 924: Manual Ed i Psicologia Generale

512 INDICI' ANALITICO

Page 925: Manual Ed i Psicologia Generale

Bozze di Gali, 19

Campo, 41-45, 57Caso limite di Panimi, 180, 458Chiarezza (brie,htnt'i\), 121, 130, 140,

141, 458Chunk (unità di informazione), 293 Ciclo percezione-azione, 112-114, 458 C1E, 123, 458, 460 Codifica, 285

immaginativa, 310. 311verbale, 310, 311 Cognitivismo,

23, 46. 50-58 Cognizione, 179 Colorimetria, 123, 458 Competenza linguistica, 361, 386 Compito

doppio, 221-227primario, 221-227secondario, 221-227

Comprensione, 294, 366, 458del linguaggio, 341 342, 350-378

Condizionamentoclassico, 46, 47, 32 1, 459operante, 49, 52 3, 324rispondente, 321 Condotta,

prospettiva temporale della,104

Connessionismo, 46, 56-58, 213-221 Contorni anomali, 156, 459 Contrasto simultaneo di bianchezza,

142, 163Controllo, 62, 63

valutativo, 90,91 Corpus, 343, 379, 383-385 Correlogrammi casuali, 179, 459 Coscienza, 35, 45. 239 249

stream of consciousness, 35 Costanze percettive, 1 3 5 , 1 3 8 - 1 4 3 , 168,

459, 465Covariazione percetto-percetto, 140, 459 Criterio, 26Criticai flicker frequency, 136, 459 Cronometria mentale, 2 1

Decadimento della traccia mnestica,298, 299

Decisione lessicale, 242, 354 Deficit

di mediazione, 283, 284di produzione, 283, 284selettivi, 268 Denominazione, 354

Descrizione strutturale, 344, 374, 375 Detezione del segnale

azzardo, 26prudenza, 26

teoria della, 25-26 Diagrammi di flusso, 51 Diedro di Mach, 138 Disco di Maxwell,136, 137, 459 Discorso, 341, 350, 366, 372, 374, 376 Discriminazione, 317, 318, 322, 323,

325Discromatopsie, 28 Disparità binoculari, 175-177, 459 Disposizionali, termini, 60 Distrattori, 259 Doppio codice, 411-414

e ipotesi psicoretorica, 431e messaggio effettivo, 412, 431, 434,

435, 443, 462Dualismo metodologico, 112, 459

Ecologicapsicologia, 30, 54, 55 validità, 253, 254 Effetto

atmosfera, 416-419cinetico di profondità (KDK, kinetic

depth effecl), 173, 459 consecutivo

contingente (contingent after-effect), 126, 459

di orientamento (tilt after-effect),125, 459

di posizione seriale, 264, 459 di priorità, 264-266, 459 di recenza, 264-266, 459 di soppressione articolatoria, 268 Gelb, 139-142, 460 legge dell', 46 Navon, 205, 206 Petter, 155, 460 Simon, 202, 203 stereocinetico (SKIÌ, stereokinetic ef-fect), 174, 177, 460

Stroop, 203-205, 213-221 Ternus, 150, 460 Elementismo, 35, 39e antielementismo, 37, 44 Eminegligenza spaziale, 211-213 Emozione/i, 460 complesse, 82 componenti delle, 83-89 determinanti somatiche delle, 89 dimensioni di base, 83

asse piacere/dispiacere, 84positive/negative, 84, 86 distinzione

fra motivazione ed, 108 elenchi di, 75, 82, espressioni facciali delle, 93 fondamentali, 460 funzione sociali svolte dalle, 94 genesi delle, 89-95

Page 926: Manual Ed i Psicologia Generale

INDICE ANALITICO 513

Page 927: Manual Ed i Psicologia Generale

modello gerarchico-evolutivo delle,89, 463

neurobiologia delle, 85primarie o semplici, 82ruolo

dell'ipotalamo, 84-87 del tempo, 90 Empirismo, 16, 17, 29, 42 Energia nervosa specifica, 18, 27-30 Equazione personale, 21 Errore

del campione, 70dell'esperienza, 114-116, 460, 465della posizione, 70dello stimolo, 33, 114, 115, 460statistico, 61

Esecutivo centrale, 233-239, 267 Esercizio, legge dell', 46 Esperienza

diretta, 31, 112, 460immediata, 3 1indiretta, 112, 460mediata, 3 1passata, 16, 41-43 Età

critica, vedi Linguaggio Euristiche, 398, 460

bias, 422, 448, 449, 458dell'accoppiamento (matching hias),

436, 437della disponibilità, 445, 446della rappresentatività, 444, 445e frequenza di base, 446, 447fallacia della congiunzione, 448, 450-

452in Duncker, 405, 406, 444, 445in Kahneman e Tversky, 444-451in Simon, 399-401, 452

Everyday memory, 253, 254 Evoluzionismo, 33-35

Facoltà, 17, 19orizzontali, 19verticali, 19

Fattori di unificazione, 143-151, 460 Fechner, legge di, 23-25 Fenomeno di doppia dissociazione, 459 Filtro, teoria del, 51 Fobia, 47Fonemi, 351, 354, 378 Foni, 343Formativi, 346-348, 380, 382 Fotopica, vedi Visione fotopica Frenologia, 19 Frequenza di base, 460 Funzionalismo, 33-37

Gestalt, 37-45psicologia della, 29, 37-45qualità gestaltiche, 39

Gradienteattentivo, 195-197prospettico, 171-173, 461

Grammaticaa struttura sintagmatica, 346-350generativo-trasformazionale, 341, 343,

344-350 Graz, scuola di, 37

/ luman Information Processing, 53, 410

Immaginazione e ricordo, 308-309, 461 Immagine

mentale, 308-310consecutive, 120, 167-169,462retinica, persistenza della, 40tipi di, 312-315

Implicature conversazionali, 46/ Incentivo

naturale, 100rappresentato dal fallimento, 103rappresentato dal successo, 102

Indicatore di frase, 348, 375, 376 Inferenza inconscia, 29-30, 134, 148, 461 Informazione, 116, 46/ Insight, 43, 328, 404, 406, 407, 461 Intelligenza artificiale, 55, 56, 345, 350,

367 Interferenza, 219-223, 300-302

da risorse, 222-223proattiva, 300-302retroattiva, 300-302strutturale, 222

Interosservazione, 67 Introspezione, 31, 53 Intrusioni, 258Invarianti di ordine superiore, 134, 46/ Invarianza

bianchezza x chiarezza, 140, 461forma/inclinazione, 170, 461grandezza/distanza, 168-170, 461, 462

Ipotalamo, vedi Emozioni Ipotesidella conversione, 417-419, 424della costanza, 135-138, 151, 167, 461

Isomortismo, 44 Istinto/i, 97liste di, 97-98

)ust noticeable difference, 69

Page 928: Manual Ed i Psicologia Generale

Generalizzazione, 322, 323 Late closure, 370, 371

Page 929: Manual Ed i Psicologia Generale

514 INDICI: ANALITICO

Page 930: Manual Ed i Psicologia Generale

Legge di Hmmert, 168, 46 i Lessico mentale, 353, 355-358 Linguaggio

a stati Imiti, 345centri cerebrali del, 19ipotesi dell'età critica nell'acquisizione

del, 389-391 Linguistica

descrittiva, 342-344generativa, 52strutturale, 340testuale, 373

Lipsialaboratorio di, 22, 21, 31-3 3scuola di, 37

Lloyd Morgan, canone di, 35 Localizzazioni cerebrali, 19 Logica formale, 411, 412. 416-418, 423 Loop articolatone), vedi Anello (loop) ar-ticolatone) Luminanza, 130, 133, 135-143,460,462

Macula cacca, 118-119, 462Magazzino fonologico, 267, 268Mediatore, 288Mediazione, 283-285, 287, 288Memoria

a breve termine ( M I I I ), 51, 232, 263, 266-271, 293, 398

a lungo termine ( M I . I ), 263, 266-271, 398

autobiografica, 255, 270, 271, 275-278, 313, 462

di lavoro ( M I . ) , 233, 234, 267-269, 462

episodica, 274, 275, 462esplicita, 271-274iconica, 51implicita, 271-274, 462incidentale, 271-274, 462intenzionale, 271-274, 462nella vita ejueitidiana, 252prospettica, 278-279, 462semantica, 274, 275, 356, 462 Mente-

corpo, problema, 17, 18 Metacognizione, 279-282, 462 Metamemoria, 280-284, 3 14, 332, 333,

462Metamerismo, 123, 462 Metodo

clinico, 68, 69ceimportamentale, 65, 66elei loci, 318, 319, 463fenomenologico, 66-68PO4K, 334-336scientifico, 58-65sottrattivo, 22, 23, 32

Mimmal attacbmciit (principio di mini-mo), 57, 369-371 Misurazione, 17, 20-23, 63-65

livelli di, 63-65 Mnemotecniche, 253, 317, 318, 331,

332, 463Modellaggio (shd/nng), 326, 327, 46i Modello/i

a ricerca, 356-359ael attivazione, 356-359connessionista, 213-221del logogeno di Mortoti, 356, 357gerarchico-evolutivo dell'emozione,

vedi Emozionementali, 405, 408, 419

vs. regole, 422 Modo

della costanza, 138, 143, 463prossimale, 138, 143, 46Ì

Modularismo, 55, 56 Modularità dell'elaborazione linguistica,

365Morfema, 342, 344 Morfok)gia, 344 Motivazione/i, 75-110, 463

a evitare il fallimento, 103al successo, 102biologiche, 96determinanti della, 99-107

Movimentoindotto, 159-160, 463stroboscopico, 39-40, 148, 463

Neocomportamentismo, 48-49 Neohelmholtzianesimo, 29 Neopositivismo logico, 59 Nervi

motori, 15sensoriali, 15

Oblio, 295-298, 302, 303, 306-308, 46} Ombre colorate, 143, 463 Omissioni, 258 Organizzatori anticipati, 337 Organizzazione, 285, 288-291

categoriale, 252, 284duale, 155-156, 463imposta dal soggetto, 289-291indotta dal materiale, 289-291

Orientamentoautomatico, 188-190esplicito dell'attenzione, 186-187volontario, 188-190

Page 931: Manual Ed i Psicologia Generale

INDICI". ANALITICO 515

Page 932: Manual Ed i Psicologia Generale

Osservazione naturalistica, 52

Passioni, 77Pendolo di Pulfrich, 177-179, 463Pensiero, 43,393-458

produttivo, 44senza immagini, 38

Percezione, 32, 42categorica, 352costanze nella, 30del colore, 28delle altezze, 28diretta, 55interna, 37

Phi, fenomeno, 40, 45, 148 Pop-out, 129, 46 i Potere

bisogno di/motivazione al, 463 Pregnanza, 41, 42 Priming, 244, 304, 354, 355

negativo, 206-209semantico, 241-243

Principiodel rapporto tra luminanze

adiacenti, 140, 464 complanari, 143, 464

dell'univarianza, 121, 464di minimo, 134, 172, 464

Probabilitàdi fallimento, 103di successo, 102primaria (base-rate), 446-449

Problem solving, 46, 393-414, 447come ricerca, 390, 396-401, 413come scoperta, 401-414e pensiero ad alta voce, 401,e problemi autoposti,

413 composti, 412,413 vs. compiti, 412

e simulazione, 400, 401e spazio del problema, 397-399e teoria dell'elaborazione dell'informa-

zione, 397-399e teoria gestaltista, 403

Problemadell'apertura, 132, 133, 464mal posto, 129

Processamentoautomatico, 227-232controllato, 227-232cosciente, 239-249inconscio, 239-245preattentivo, 198-202

Processiinferenziali, 371-373volizionali, 104 Processore

centrale (Pc), 245-249

Programmi metacognitivi, 332, 333 Propagazione dei vincoli, 167, 464 Prospettiva di movimento, 146, 172, 464 Psicofisica, 23-27, 464 catena, 113,114 metodi della, 69-71 diretti, 26, 70 errore medio nei, 70 limiti dei, 69 stimoli costanti, 70 nuova, 25 Pulsione, 49

x abitudine, vedi Teoria dell'appren-dimento

QI, 60, 61Questionari metamnestici, 255

Raggruppamento, 401percettivo, 293, 294

Rappresentazione, 55, 382 Realismo ingenuo, 114, 464 Reazioni circolari, 36 Reflessologia, 18 Regola/e

di trasformazione, 347-350fonologiche, 347, 380morfofonematica, 348

Reiterazione, 263, 286, 287 Res cogitans, 16 Res extensa, 16 Rete

feed-fonvard, 57, 213 -215 , 217neurale, 57, 58, 2 1 3 - 2 1 5

Riapprendimento, 256, 257, 464 Ricentramento, 401 Ricerca visiva (visual scarch), 129, 199-

202, 463, 464Riconoscimento, 259-261, 334, 464 Ricostruzione, 263, 435 Rievocazione, 251, 257-259, 260, 261,

265, 274, 286, 290, 298, 299, 314,464

Riflessi, 16, 18, 36, 47, 52 Riflettanza, 133, 135-137, 464 Rimozione, 304, 305 Rinforzatori, 324-326 Rinforzo, 325-326

continuo, 326parziale, 326 Riproduzione, 257

Risorse attentive, 221-227, 230-232 Risposte

condizionate, 340fisiologiche, 83motorie

espressive, 83

Page 933: Manual Ed i Psicologia Generale

516 INDICI: ANALITICO

Page 934: Manual Ed i Psicologia Generale

strumentali, 83 primarie, 93

Ristrutturazione, 402-4 11 Rivalità binoculare, 175, 464 Rosenthal, elleno, 71

SAS, vedi Sistema attentivi) supervisore Scatola nera, 48 Schema/i, 55, 235, 37 5

pragmatici di ragionamento, 439, 440, 449

di memoria, 275, 2 ih Schermo di riduzione, 130, 465 Scopi, 106

gerarchia di, 106 Scotopica, vedi Visione scotopica Secondo sistema di segnalazione, 47 Secrezione psichica, 46 Segnale, 25Segregazione di tessiture, 127, 465 Selezione

competitiva, 2 35-2 37precoce. 209-2 I 3tardiva, 209-213, 23')-242

Selj-rcports, 255, 465 Sensibilità, 26

spettrale, 122, 465 Separazione dei sistemi. 159, 465 Shadowuig, 364 Sillogismi

categoriali, 415-425lineari (problemi seriali a tre termini),

425-432Simulazione, 465 Sinestesia, 316, 465 Sintassi, 344, 361, 366, 386, 389 Sintesi creatrice, 32 Sistema

attentivi) supervisore 'SA S ) , 233-239semantico, 357

Sogliaassoluta, 25, 69di riconoscimento, 354, 356differenziale, 25, 69 Somiglianzà

fonologica, 268 Sottrattivi), metodo, 22-2 3, 32 Soppressione articolatona, vedi Effetto

diSputi, 269, 270 Specificità di codifica, 285 Spettro del segmento acustico, 352 Stali finiti, vedi Linguaggio Stereogrammi, 177-182, 4<>5 Stereoscopio, 179, 465 Stimolazione

dicotica, 240-242prossimale, 1 14, 465

Stimolo

ciclopico, 180, 465distale, 30, 67, 113, 166, 465prossimale, 30, 67, 113, 133, 166,465standard, 69variabile, 69

Slimidus evalualion check ( S i : c ) , 90 Stocastici, processi, 52 Strategia mnestica, 282, 285, 286, 465 Strategie percettive, 368, 430 Street, figure ili, 42 Struttura costitutiva, 347 Strutturalismo, 33, 35, 38

linguistico, 52, 341-343 Successo, motivazione al/bisogno di, 465 Superiorità della parola, 355

Iaccuino visuo-spaziale, 267 1dkmg-mto-dccount, 138, 465 Tempo di reazione, 20-2 3, 32 Tendenza

a evitare l'insuccesso o il fallimento, 103-104

al successo, 103 Tentativi ed errori, 43-46 Teoria

a tre stadi, 422bilattoriale dell'emozione, 89, 466centrale delle emozioni, 88-89, 466classica della decisione, 102degli schemi, 329-331, 439-441ilei tratti distintivi, 351-352del conflitto, 424dell'apprendimento, 100, 320

aspettativa ( valore, 100, 101, 105della complessità derivazionale, 362della doppia codifica, 466della specificità di codifica, 466dell'informazione, 341

strutturale (Sri1, Structurdl informa-lion /henry), 172, 46>6

della verificazione, 436, 437e compito di selezione, 432, 437,

439, 440, 442 e materiale tematico, 437-439

periferica delle emozioni, 88, 89, 466 Termini disposizionali, 59 Test mentali, 35 Testimonianza, 305, 306

attendibilità della, 305 'Tori-,, 52Trasformazione grammaticale, 347 'Triangolo di Maxwell, 122, 123, 466 Tricromia, 28

Valore/i, 136, 466 Variabile, 60-62 asistematiche, 62

Page 935: Manual Ed i Psicologia Generale

INDICI; ANALITICO 517

Page 936: Manual Ed i Psicologia Generale

confondente, 62dipendente, 48, 61indipendente, 48, 61interveniente, 48, 61sistematiche, 62 Velocità impulsi

nervosi, 21-22 Vincoli naturali (naturai ctmstramls)

466 Visione

attiva, 1 12, 466

dicottica, 138, 466 fotopica, 28, 121,460 periferica, 185 scotopica, 28, 121 Vissuto, del solutore, 402

Weber, costante di, 24 Wertheimer, leggi di, 41-42 Wiirzburg, scuola di, ^8

Page 937: Manual Ed i Psicologia Generale
Page 938: Manual Ed i Psicologia Generale

Gian Vittorio Caprara insegna Psicologia della personalità e delle dif-ferenze individuali nella Facoltà di Psicologia dell'Università «La Sapienza» di Roma.

Rossana De Beni insegna Psicologia generale nella Facoltà di Psicolo-gia dell'Università di Padova.

Giovanni Battista Flores d'Arcais insegna Psicolinguistica nella Facoltà di Psicologia dell'Università di Padova.

Walter Gerbino insegna Psicologia della percezione e Psicologia ge-nerale nel corso di laurea in Psicologia dell'Università di Trieste.

Paolo Legrenzi insegna Storia della psicologia nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Statale di Milano.

Riccardo Luccio insegna Storia della psicologia e Tecniche sperimen-tali di ricerca nel corso di laurea in Psicologia dell'Università di Trieste.

Giuseppe Mosconi insegna Psicologia nella Facoltà di Lettere e Filo-sofia dell'Università Statale di Milano.

Carlo Umiltà insegna Neuropsicologia nella Facoltà di Psicologia del-l'Università di Padova.

Page 939: Manual Ed i Psicologia Generale

Finito tli stampare nel f ebbi aio 21*01per 1 tipi delle Arti Grafiche [ulitoriali Sri, Urbino

Page 940: Manual Ed i Psicologia Generale

Frutto del lavoro dei maggiori esperti italiani nelle diverse aree della psicologia cogniti -va, il volume, qui presentato in una nuova edizione riveduta e aggiornata, si segnala per completezza e linearità di esposizione. Il principio che sta alla base dell'opera vede nei processi motivazionali l'energia che permette al «motore» (la mente umana) di fun-zionare, e nei processi cognitivi gli strumenti di funzionamento. Dopo un'ampia introdu-zione storico-metodologica, vengono affrontate le problematiche inerenti il versante motivazionale, in relazione alla capacità della mente di proporsi una meta e perseguire un fine; sono poi esaminati singolarmente i diversi processi cognitivi. Per la ricchezza dei temi trattati e per le dimensioni esplorate, il volume è specificamente inteso a sod-disfare le esigenze di chi si accosta per la prima volta allo studio della psicologia.Indice del volume: Introduzione, di Paolo Legrenzi. - I. Storia e metodi, di Riccardo Luccio. - II. Emozioni e motivazioni, di Gian Vittorio Caprara. - III. Percezione, di Walter Gerbino. - IV. Attenzione e coscienza, di Carlo Umiltà. - V. Memoria, apprendimento e immaginazione, di Rossana De Beni. - VI. Linguaggio, di Giovanni Battista Flores d'Arcais. - VII. Pensiero, di Giuseppe Mosconi. - Glossario. - Riferimenti bibliografici. -Indice analitico.Paolo Legrenzi insegna Storia della psicologia all'Università Statale di Milano. Per il Mulino ha curato una fortunata «Storia della psicologia», giunta alla terza edizione (1992) ed è autore di «Percezione, linguaggio e pensiero» (con G. Kanizsa e M. Sonino, 1985), «Immagini della psicologia» (con R. Luccio, 1994), «Prepararsi agli esami. Tecniche e strategie per superare gli esami universitari» (1994) e «Prepararsi ai test. Come superare i test di ammissione all'università» (con R. Rumiati, 1996).

L. 50.0(