Mangiare e bere presso i Romani - LŒSCHER EDITORE

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Questa pagina può essere fotocopiata esclusivamente per uso didattico. © Loescher Editore - Torino LEZIONI D’AUTORE Lezione 5 Lezione 5 Mangiare e bere presso i Romani Un argomento tanto vasto come quello relativo all’alimentazione nel mondo romano e agli «echi lette- rari» di tale fenomeno non può certo essere riassunto in una singola lezione. Ciò che si può fare è solo abbozzare tre filoni di riflessione, tra loro comunque fortemente interconnessi: 1. anzitutto valutare l’aspetto più propriamente afferente alla «cultura materiale», cioè provare a capire che cosa davvero i Romani mangiassero nella loro quotidianità; 2. quindi prendere in esame le implicazioni – per così dire – morali e ideologiche del rapporto tra i Romani e il cibo; 3. da ultimo – a mero titolo esemplificativo – mostrare qualche manifestazione letteraria latina in cui gli atti del mangiare e del bere assumano una particolare centralità. 1. CHE COSA MANGIAVANO I ROMANI? Rispondere a questa domanda in modo univoco è pressoché impossibile. Anzitut- to perché la storia di Roma è stata più che millenaria (e dunque soggetta a numerose forme di «evoluzione»), inoltre perché – ieri come oggi – parlare di alimentazione è impossibile senza fare opportune distin- zioni di tipo socio-economico e geografi- co: insomma, la ricchezza e la povertà, così come il diverso territorio di residenza, po- tevano imporre ai cives di allora una dieta piuttosto diversa. Proviamo però a dire qualcosa d’ordine generale. Gli studiosi (in base alla documentazione archeolo- gica e alle testimonianze letterarie) sono concordi nel dire che nell’alimentazione romana trionfava quella che noi oggi chia- miamo «dieta mediterranea», poiché i Romani – soprattutto in età repubblicana – erano ghiotti di cereali (celebre era la puls, una «polenta» di farro, usata invece del pane), legumi, verdu- re (tra le altre la cipolla, l’aglio, la lattuga…), che prediligevano Uova e selvaggina, particolare da un affresco della casa di Iulia Felix a Pompei, i secolo d.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Fauna marina, particolare da un mosaico pavimentale, i secolo a.C. (Aquileia, Museo Archeologico Nazionale). Asparagi e formaggio, particolare da un affresco pompeiano, i secolo d.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). 143 33314_121_154_lezioni_bzd.indd 143 08/02/19 10:30

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LEZIONI D’AUTORE Lezione 5

Lezione 5

Mangiare e bere presso i RomaniUn argomento tanto vasto come quello relativo all’alimentazione nel mondo romano e agli «echi lette-rari» di tale fenomeno non può certo essere riassunto in una singola lezione. Ciò che si può fare è solo abbozzare tre filoni di riflessione, tra loro comunque fortemente interconnessi:1. anzitutto valutare l’aspetto più propriamente afferente alla «cultura materiale», cioè provare a

capire che cosa davvero i Romani mangiassero nella loro quotidianità;2. quindi prendere in esame le implicazioni – per così dire – morali e ideologiche del rapporto tra i

Romani e il cibo;3. da ultimo – a mero titolo esemplificativo – mostrare qualche manifestazione letteraria latina in

cui gli atti del mangiare e del bere assumano una particolare centralità.

1. CHE COSA MANGIAVANO I ROMANI?

Rispondere a questa domanda in modo univoco è pressoché impossibile. Anzitut-to perché la storia di Roma è stata più che millenaria (e dunque soggetta a numerose forme di «evoluzione»), inoltre perché – ieri come oggi – parlare di alimentazione è impossibile senza fare opportune distin-zioni di tipo socio-economico e geografi-co: insomma, la ricchezza e la povertà, così come il diverso territorio di residenza, po-tevano imporre ai cives di allora una dieta piuttosto diversa.

Proviamo però a dire qualcosa d’ordine generale. Gli studiosi (in base alla documentazione archeolo-gica e alle testimonianze letterarie) sono concordi nel dire che nell’alimentazione romana trionfava quella che noi oggi chia-miamo «dieta mediterranea», poiché i Romani – soprattutto in età repubblicana – erano ghiotti di cereali (celebre era la puls, una «polenta» di farro, usata invece del pane), legumi, verdu-re (tra le altre la cipolla, l’aglio, la lattuga…), che prediligevano

▲Uova e selvaggina, particolare da un affresco della casa di Iulia Felix a Pompei, i secolo d.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

▲Fauna marina, particolare da un mosaico pavimentale, i secolo a.C. (Aquileia, Museo Archeologico Nazionale).

▶Asparagi e formaggio, particolare da un

affresco pompeiano, i secolo d.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

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conditi con olio d’oliva. Alla carne (piuttosto infrequente, soprattutto ovina o suina) preferivano uova, pesce (sia marino sia d’acqua dolce) e formag-gi, e non disdegnavano certo il vino, prodotto abbondantemente nelle regioni dell’Italia centrale.

Particolare importanza, data la difficoltà nella conservazione dei cibi, avevano i processi di salatura e l’uso abbondante delle spezie, che – soprattutto per quanto riguarda le carni – ritardavano i processi di degenerazione. Non va poi dimenticato il garum, vero protagonista della tavola romana; si trattava di una salsa piuttosto forte (lontanamente affine alla nostra «pasta d’acciughe»), prodotta dalla mace-razione del pesce azzurro, usata un po’ ovunque, ma soprattutto sulla carne, della quale «copriva» even-tuali cattivi odori o sapori. Il suo uso era così frequente che intere città della Spagna basavano la loro economia proprio sulla produzione di garum, spedito poi ovunque chiuso in apposite anfore trasportate per via navale.

Con la conquista del mondo greco (dal ii sec. a.C. in poi) per Roma da un lato si aprirono nuovi mercati (e dunque l’accesso a nuove merci commestibili), dall’altro si affermò (ma lo vedremo meglio dopo) l’idea del banchetto come forma di socialità e – per i membri delle classi abbienti – come mo-mento per fare sfoggio delle proprie possibilità economiche e dei propri gusti raffinati. Dall’idea del «mangiare per vivere» si passò gradatamente (ma solo per alcuni…) a quella del «vivere per mangiare», facendo sfoggio di ricchezza, esibendo sulle tavole cibi rari come struzzi, pavoni, ghiri, crostacei e frutti di mare d’ogni genere, nonché frutta esotica come l’albicocca di Armenia, la pesca di Persia, la ciliegia del Ponto, a scapito dei più «nostrani» fichi e pere.

Dunque in età tardo-repubblicana e imperiale Roma ebbe famosi ghiottoni (come il generale Lucul-lo) e veri e propri chef alla moda (come il grande Apicio, di età giulio-claudia) e la «gastronomia» ispirò anche alcune opere letterarie. È però vero che la maggior parte della popolazione (i ceti medio-bassi, per intenderci) continuava a praticare il regime ali-mentare piuttosto semplice di cui si è detto. E ciò sia nei pasti consumati a casa sia in quelli consu-mati nelle taverne o osterie che pullulavano nelle città dell’Italia romana. Per quanto riguarda i pasti in casa, ci si approvvigionava al mercato o in una taberna (negozio), e a questo proposito ci sono ri-maste delle «insegne di bottega» di grande interes-se, come questa che proviene dalla città portuale di Ostia, vicino a Roma, che raffigura una venditrice di polli, uova e lumache.

◀Contenitore per garum, particolare da un mosaico pompeiano, i secolo d.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).

▶Anfore romane

accatastate.

▲Insegna della bottega di una pollivendola, rilievo del

ii secolo d.C. (Ostia Antica, Museo Ostiense).

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Per quanto riguarda invece la ristorazione, si spaziava dalla taberna vinaria, una sorta di snack-bar con mescita di vino e piccoli «stuzzichini» (legumi, rape, salumi…), alla popina, una vera e propria «tavola calda», con posti a sedere anche all’esterno della bottega, alla caupona, una locanda che forniva vitto e alloggio, spesso ubicata lungo strade di grande passaggio. Ancora una volta particolarmente ricche sono le notizie relative a Ostia, dove doveva esistere almeno una quarantina di osterie e locali affini.

Chissà in quale tipo di osteria avrà spillato il vino l’ostessa iberica Sentia Amaranis, la cui lastra fune-raria è conservata al Museo Archeologico di Mérida!

E speriamo proprio – per i suoi clienti… – che Sentia Amaranis fosse più onesta di quell’oste di Pompei contro il quale un’anonima mano scrisse su un muro: Talia te fallant ultimam mendaciam, copo: tu vendes acuam et bibes ipse merum, cioè «Tali trucchi ingannino te, oste: vendi acqua, ma tu bevi vino» (CIL 4, 3948).

Chissà inoltre se il menu posto come insegna di un’osteria (sempre di Pompei) non cambiava proprio mai, dato che era inciso sul marmo! Si legge «abbiamo per cena pollo, pesce, prosciutto, pavone e cacciagio-ne», ma immaginiamo che gli avventori avranno trovato sempre pollo e prosciutto, mentre forse i pesci e la selvaggina (come capita anche oggi) saranno stati soggetti ai capricci della pesca e della caccia...

Taverne e osterie non mancavano, come è ovvio, anche nella grande Roma; anzi, il poeta Marziale (Epigrammi 7, 61) ricorda come furono necessari provvedimenti legislativi per limitare l’espansione verso la strada del dehor delle osterie ed evitare che «la nera osteria… occupi tutta la strada»: niente di nuovo,

dunque, se è vero che anche oggi le autorità comunali sono in perenne lotta contro l’oc-cupazione abusiva di marciapiedi da parte di bar e pizzerie!

2. MANGIARE E BERE: UN FATTO CULTURALE, UNA SCELTA MORALE

Tito Livio (Ab Urbe condita 39, 6) ricorda che sarebbe stato il generale Gneo Manlio Vul-sone, reduce nel 188-187 a.C. da campagne militari in Oriente, a portare a Roma l’u-sanza del banchetto alla greca; quel ban-chetto che – come ha sostenuto lo studioso

Domenico Musti – «consta fondamentalmente di tre momenti (mangiare, bere e riposare/godere)». Livio considera questi banchetti, fatti di cibi raffinati, vini pregiati, musiche e danze erotiche, un segno della progressiva decadenza morale di Roma, che ha perso la sua originale sobrietà; e conclude il racconto di-cendo: «Allora il cuoco, per gli antichi un servo spregevolissimo, nella stima generale e nella pratica, cominciò a essere in gran pregio, e quel che fino ad allora era stato un semplice servizio (ministerium) cominciò a considerarsi un’arte (ars)». Nacque così, come si può ben capire, l’ars culinaria (cioè la gastronomia), che portò non solo all’introduzione di nuovi cibi sulla tavola romana (come già si è detto), ma anche alla nuova usanza – per i ricchi «alla moda» – di cenare non più seduti (come si ostinava a fare ancora Catone il Censore) ma sdraiati su comodi letti in un’appo-sita sala detta triclinium (cioè «sala con tre divani», che potevano ospitare fino a nove persone).

▲Lastra funeraria dell’ostessa Sentia Amaranis (Mérida, Museo Nacional de Arte Romano).

▲Il banco di una taberna, i secolo d.C., Pompei.

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Non mancarono forme di «resistenza culturale» a questi nuovi lussi gastronomici e all’eccessiva licenza nel bere, e non solo da parte dall’austero Catone. Varrà la pena accennare, in tal senso, a due interessanti documenti, uno epigrafico e l’altro letterario.

Il primo è il famoso Senatus consultum de Bacchanalibus (del 186 a.C.), un provvedimento legislati-vo che limita la pratica di riti bacchici – e dunque del conseguente consumo di vino – particolarmente diffusi fra le donne: di tale atto parla anche Tito Livio, proprio nei paragrafi successivi a quelli appena menzionati (Ab Urbe condita 39, 8-9).

L’altro è invece una satira del grande Lucilio (ii sec. a.C.) che, per mettere in cattiva luce un politi-co del tempo, Cornelio Lentulo Lupo (console nel 156 a.C., espulso poi dal senato e in seguito «riabilita-to», acerrimo nemico degli Scipioni), ne enfatizza una golosità che perfino gli dèi gli rimproverano. Anzi, poiché gli dèi imputano a Lupo e alla sua immoralità molti dei mali di Roma, Giove decide di invitarlo a cena e farlo morire di indigestione. Dice infatti il re degli dèi:

Li farò venire a cena, e agli invitati imbandirò anzitutto ventresche di tonno e filetti di branzino (vv. 49-50 Marx).

A lui fa eco – probabilmente – un altro dio, che apostrofa Lupo in persona dicendogli:

Ti uccidono, Lupo, le sardine e la salsa di pesce siluro (v. 54 Marx).

Insomma, i celesti sanno di avere davanti un «ghiottone» e gli propongono piatti succulenti che possa-no stimolare il suo appetito, e ciò doveva probabilmente suonare – alle orecchie dei lettori del tempo – come una presa in giro di certi eccessi della tavola che caratterizzavano la classe dirigente romana. Tali

eccessi durarono secoli, se è vero che Augusto – in alcune sue leggi suntuarie – cercò di limitare il lusso a tavola; ma le norme in mate-ria non dovettero avere troppo successo, al pari di quelle che puni-vano severamente l’adulterio… Evidentemente (e parliamo ancora una volta soprattutto in relazione a nobili e ricchi) quando Sallustio, Livio o Tacito parlavano della corruzione dei costumi di Roma lo facevano a ragion veduta!

▲Commensali banchettano in un triclinium, particolare da un bassorilievo del i secolo d.C. (Ancona, Museo Nazionale delle Marche).

▲Veduta del triclinio, dalla cosiddetta Casa di Nettuno e Anfitrite a Ercolano, i secolo d.C.

◀Tavola bronzea con il testo del Senatus consultum de Bacchanalibus, legge sui Baccanali a Roma, ii secolo a.C. (Vienna, Kunsthistorisches Museum).

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3. VINO, CIBO E LETTERATURA: TRA FANTASIA E REALTÀCome si può immaginare, sono molte le menzioni letterarie del cibo o del vino, e sarebbe inutile provare a farne un pur limitato elenco. Ciò che proporremo qui sono solo tre brevi accenni:a. a due importanti descrizioni di sontuosi banchetti romani, nella Satira 2, 8 di Orazio (la cosiddetta Cena Nasidieni) e nel Satyricon di Petronio (la cosiddetta Cena Trimalchionis);b. al più famoso «gastronomo» dell’antica Roma, quell’Apicio già ricordato, e alle sue ricette;c. ad alcune Odi di Orazio, nelle quali è centrale il tema del simposio, di tradizione greca.

a. Nelle Satire di Orazio la «presa in giro» degli eccessi nel lusso e nella raffinatezza della tavola é frequentissima, ma nulla eguaglia lo spassoso racconto di una cena presso il «nababbo» Nasidieno Rufo (Satire 2, 8), alla quale era stato invitato lo stesso Mecenate. Cena ottima (ed eccessiva, come vedremo), tenuta nella sala tricliniare, che prevedrebbe i tre momenti canonici del banchetto greco, e cioè mangiare, bere, divertirsi… La «cafoneria» del padrone di casa, che esalta in continuazione la rarità, la raffinatezza dei cibi proposti, rende però insopportabile la discussione finale, tanto che Mecenate lascia anzitempo la compagnia.Ma che cosa offrì Nasidieno ai suoi ospiti? Si fa davvero fatica a elencare tutto, ma ci proveremo:

• l’antipasto (gustatio, in latino) è a base di cinghiale lucano e legumi vari; • la cena vera e propria prevede uccelli, pesci e molluschi d’ogni genere; particolare rilievo hanno

pesci come il rombo, la passera di mare e soprattutto la murena, condita con una salsa di gamberi e frutti di mare, non senza la giusta dose di garum;

• insieme con le vivande si mangiano focacce e si beve il «meglio» del vino greco (quello di Chio) e romano, come il Cecubo, l’Albano e il Falerno, pregiati prodotti dell’Italia centrale.

E non è finita qui, perché mentre gli ospiti se ne stanno andando, i servi arrivano con nuove leccornie: carni di gru, spalle di lepre, merli e colombi arrosto, e soprattutto un fegato d’oca farcito di fichi da fare invidia al più prelibato foie gras.

Il tutto è davvero troppo per un uomo di buon gusto come Mecenate. Certo, egli non è insensibile alla «buona tavola» e al buon vino, ma si aspetterebbe una conversazione all’altezza del suo rango e del suo spessore culturale: qui invece, mentre si mangia, si parla di cibo con un accanimento e un’attenzio-ne ai dettagli che sfiorano il ridicolo…

Non molto diverso – dal punto di vista gastronomico – è il quadro che Petronio, nel suo Satyricon, ci dà della cena presso il ricco liberto Trimalchione (▶ vol. 3, T3-T7, pp. 156 sgg.). I protagonisti dell’o-pera petroniana si «imbucano» infatti in una cena proprio a casa di Trimalchione, fatta di cibo – tanto, troppo… – vino, e racconti più o meno volgari. Ma è il menu che ci interessa e possiamo riassumerlo solo per sommi capi: ciò che accomuna tutte le pietanze è la ricerca della spettacolarità, poiché il padrone di casa (un vero parvenu), vuole stupire prima ancora che rimpinzare i suoi ospiti. Ecco comunque una breve carrellata di cibi menzionati: • l’antipasto propone anzitutto olive, presentate in bisacce appese a un asino di metallo, e poi ghiri

conditi con miele, salsicce, frutta ed enormi uova di pavone ripiene con un beccafico; • nel resto della cena si avvicendano piatti uno più spettacolare dell’altro. Si parte da un vassoio con

cibi che simulano i 12 segni zodiacali (ad esempio lo scorpione è un’aragosta), cui ne segue un altro con capponi, mammelle di maiale, pesci d’ogni genere. Poi si passa a un enorme cinghiale – presen-tato con un berretto di feltro in testa – e quindi a un altrettanto grosso maiale arrosto, cotto lì, sul momento, poiché viene prima esibito vivo ai commensali;

• focacce e frutta, condita con salse aromatiche fungono da dessert, ma non mancano qua e là stuz-zichini a base di frutti di mare; il vino, come è ovvio, è l’ottimo Falerno, che scorre davvero «a fiumi».

Anche qui, come nella Cena Nasidieni, è però evidente l’intento dell’autore di parodiare gli eccessi di

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questi padroni di casa davvero esagerati; e non manca chi pensa che la cena di Trimalchione sia una parodia dei lussi spropositati – anche a tavola – di quella corte di Nerone che Petronio ben conosceva.

b. Parlando di cucina romana, è impossibile non ricordare Marco Gavio Apicio, contemporaneo di Tiberio, famoso gastronomo e autore di un vasto ricettario; in realtà le 468 ricette contenute nei 10 libri del suo De re coquinaria sono in parte originali e in parte aggiunte in epoca successiva (fino al v sec. d.C.). Rappresentano comunque i gusti raffinati dei ricchi romani, come Nasidieno o Trimal-chione, che organizzavano banchetti sontuosi in cui si servivano piatti sofisticati con ingredienti esotici e pregiati.Vediamo, ad esempio, una ricetta d’antipasto: non manca la «salsa di Apicio», termine con cui è qui

tradotto il termine liquamen, col quale i Romani indicavano spesso l’onnipresente garum.

Antipasto di zucche ripiene. Vuota la zucca attraverso un piccolo taglio verticale lungo un fianco e les-sala in acqua fredda. A parte prepara un ripieno tritando pepe, levistico, maggiorana, salsa di Apicio, cer-vella già cotte e delle uova crude e amalgama bene, se necessario ammorbidisci il tutto con della salsa. Infarcisci la zucca cotta con il composto, richiudila e friggi. Nel frattempo avrai preparato della salsa acida qui di seguito: pepe tritato, levistico, vino e salsa di Apicio, diluisci con del passito e fai bollire con un po’ di olio. Aggiungi dell’amido per rendere la salsa più densa, versa sopra le zucche fritte con un pizzico di pepe e servi.

(trad. A. Pagano, P. Strano)

Quest’altra ricetta mostra invece l’abitudine romana alla mescolanza di gusti diversi (ad esempio pesce con carne, dolce e salato), con esiti in apparenza molto lontani dai nostri gusti attuali.

Piatto di triglie invece di salume. Squama le triglie e accomodale in un tegame. Condisci con olio e ag-giungi del salame crudo e cuoci. Quindi versa un po’ di vino dolce o passito: spargi di pepe e servi.

(trad. A. Pagano, P. Strano)

È però vero che anche al giorno d’oggi ci sono ricette regionali che accompagnano pesci alle uvette, allo zucchero e – in qualche caso – al parmigiano (come le sarde a beccafico siciliane, o le sarde in saor venete); né mancano cotture di altri pesci o crostacei con il lardo: certo il lardo non è il «salame crudo» di Apicio, ma è pur sempre un derivato del maiale…

c. Orazio, nelle sue Odi, si pone sovente sulla scia della tradizione lirica greca, con quell’atteggia-mento detto dalla critica aemulatio: prende, cioè, spunto dal modello, per arricchirlo con elementi di originalità.Il tema del simposio è molto caro alla lirica greca, e soprattutto ad Alceo (vii-vi sec. a.C.) e Anacre-onte (vi-v sec. a.C.), autori di veri e propri carmi simposiaci, che hanno al centro il vino e le delizie del simposio. Non bisogna però dimenticare come per i Greci, in età arcaica, il bere vino (soprat-tutto in compagnia) è un atto dalle forti implicazioni non solo sociali, ma anche religiose; il vino è infatti, più che una bevanda sacra al dio Dioniso, Dioniso stesso «spremuto», e pertanto per berlo in forma corretta è necessario nel banchetto alternare alle libagioni, al cibo, al divertimento, anche atti cerimoniali e di preghiera.Nel mondo romano, e quindi anche al tempo di Orazio, tale componente religiosa si era fortemente attenuata. Nonostante ciò, il poeta «gioca» con il tema tradizionale del simposio, dedicando addirit-tura un’ode a un’anfora di vino Massico invecchiato (Odi 3, 21) o riprendendo formule e allusioni dai suoi modelli, come l’Alceo emulato nel celebre Nunc est bibendum dell’Ode 1, 37, dedicata al trionfo di Ottaviano su Cleopatra ad Azio nel 31 a.C. (▶ vol. 2, T10, p. 250), evento che valeva davvero una bella bevuta di Cecubo!

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Ma si tratta di allusioni letterarie con fini «nobilitanti», perché i simposi oraziani hanno una dimensione prettamente «laica», e il vino non è certo divino, ma uno dei piaceri della vita che il poeta epicureo invita a fruire con moderazione. Così suggerisce infatti a Taliarco (Odi 1, 9, ▶ vol. 2, T15, p. 265), all’ingenua Leuconoe nella celebre ode del carpe diem (Odi 1, 11, ▶ vol. 2, T16, p. 268) o al modesto schiavo che lo serve mentre egli stesso beve sotto un fitto pergolato (Odi 1, 38, ▶ vol. 2, T18, p. 273). Vi è però, tra le altre, un’ode che merita particolare attenzione. È l’Ode 1, 20 (▶ vol. 2, T9, p. 247), un invito a cena al grande Mecenate, amico di Orazio ma anche intimo di Augusto. Egli, Orazio lo sa, è abituato a bere vini pregiati come il Cecubo e il Falerno, mentre il poeta gli offrirà un modesto vinel-lo della Sabina. Non c’è, in questa scelta, solo un rifiuto di bevande «alla moda», che rischierebbero di omologare il raffinato Orazio ai Nasidieni o ai Trimalchioni; c’è invece un palese ringraziamen-to a Mecenate, che gli aveva regalato una bella villa proprio nella regione della Sabina. È come se quell’anfora di vile Sabinum cementasse in modo durevole l’amicitia tra i due, a prescindere dal valore economico del vino, ed è come se il poeta di Venosa dicesse a noi moderni che è meglio una semplice cena tra amici sorseggiando Lambrusco che non un noioso ricevimento formale bevendo Champa-gne. Non sappiamo quanto a lungo Mecenate si è fermato a casa di Orazio: quel che sappiamo è che dalla Cena Nasidieni (dove appunto si beveva vino di Chio, Cecubo, Albano e Falerno…) era scappato…

CONCLUSIONICome si è visto, parlare di cibo o di vino in relazione al mondo romano significa parlare di cose tra loro molto diverse. E ancor più diverso sarebbe se dovessimo parlare non solo dell’Italia romana, ma anche delle province, laddove dovevano esistere – anche in piena romanizzazione – usanze culinarie indigene del tutto speciali, talora lontane dai gusti romani. È il caso, ad esempio, del burro, sconosciuto ai Roma-ni e usato – insieme ad altri grassi animali – presso le popolazioni celtiche. Plinio il Vecchio racconta infatti che Giulio Cesare, di ritorno dalle Gallie, si era fermato a Milano a casa di un notabile locale. Il pasto – a base di asparagi al burro – non piacque affatto al futuro dictator, ma è indizio concreto dell’ori-gine celtica di Mediolanum-Milano, città dove anche oggi gli asparagi sono conditi rigorosamente con il burro fuso e – in barba al colesterolo… – accompagnati spesso da un gustoso uovo fritto!

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