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i nodi Marsilio

Nazionalista e cosmopolita. Pacifi sta e bellicista. Elitista e populista. Scrittore politico dalla prosa essenziale e romanziere dall’immaginazione barocca. Mitomane, esibizionista, gelido dandy che fl irta con fascismo, marxismo e anarchia, attratto di volta in volta dall’Italia di Mussolini, dall’Urss di Stalin, dalla Cina di Mao e dall’imperialismo americano. Seduttore inveterato, esibizionista, “camaleonte” pronto a servire (e a servirsi di) ogni potere. Tutto e il contrario di tutto, in apparenza, Curzio Suckert detto Malaparte (1898-1957) sfi dò solitario le convenzioni della sua epoca. Oggi questa poderosa biografi a di Maurizio Serra - basata su un’ampia documentazione, su corrispondenze e testimonianze anche inedite - ci restituisce le sfaccettature di una vicenda umana e letteraria che non può ridursi ai luoghi comuni che ne hanno imprigionato la memoria. Emerge così la modernità di un Malaparte visionario interprete della decadenza europea, che non smette di stupire perché aveva, potente e inconfessato, il gusto dello scacco: «Malaparte o le disavventure di Narciso».

In copertina: Malaparte durante il duello con Mario Carli (1926). Foto di proprietà della Biblioteca di via del Senato, Milano.

Maurizio SerraMaurizio SerraMalaparteMalaparte

Vite e leggende

Maurizio Serra M

alaparte

maurizio serra (Londra, 1955), diplomatico e saggista, attualmente ambasciatore d’Italia all’unesco. Oltre a questa biografi a di Malaparte (Prix Casanova e Prix Goncourt de la Biographie 2011) ha scritto numerosi volumi sulla cultura del Novecento, fra cui Drieu-Aragon-Malraux. Fratelli Separati. Il fascista. Il comunista. L’avventuriero (Settecolori, Premio Acqui Storia 2008).

I mille volti di uno degli interpreti più singolari del Novecento, autore di capolavori quali Kaputt e La pelle

«Perderò ad Austerlitz e vincerò a Waterloo»Malaparte

€ 2

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i nodi Marsilio

Nazionalista e cosmopolita. Pacifi sta e bellicista. Elitista e populista. Scrittore politico dalla prosa essenziale e romanziere dall’immaginazione barocca. Mitomane, esibizionista, gelido dandy che fl irta con fascismo, marxismo e anarchia, attratto di volta in volta dall’Italia di Mussolini, dall’Urss di Stalin, dalla Cina di Mao e dall’imperialismo americano. Seduttore inveterato, esibizionista, “camaleonte” pronto a servire (e a servirsi di) ogni potere. Tutto e il contrario di tutto, in apparenza, Curzio Suckert detto Malaparte (1898-1957) sfi dò solitario le convenzioni della sua epoca. Oggi questa poderosa biografi a di Maurizio Serra - basata su un’ampia documentazione, su corrispondenze e testimonianze anche inedite - ci restituisce le sfaccettature di una vicenda umana e letteraria che non può ridursi ai luoghi comuni che ne hanno imprigionato la memoria. Emerge così la modernità di un Malaparte visionario interprete della decadenza europea, che non smette di stupire perché aveva, potente e inconfessato, il gusto dello scacco: «Malaparte o le disavventure di Narciso».

In copertina: Malaparte durante il duello con Mario Carli (1926). Foto di proprietà della Biblioteca di via del Senato, Milano.

Maurizio SerraMaurizio SerraMalaparteMalaparte

Vite e leggende

Maurizio Serra M

alaparte

maurizio serra (Londra, 1955), diplomatico e saggista, attualmente ambasciatore d’Italia all’unesco. Oltre a questa biografi a di Malaparte (Prix Casanova e Prix Goncourt de la Biographie 2011) ha scritto numerosi volumi sulla cultura del Novecento, fra cui Drieu-Aragon-Malraux. Fratelli Separati. Il fascista. Il comunista. L’avventuriero (Settecolori, Premio Acqui Storia 2008).

I mille volti di uno degli interpreti più singolari del Novecento, autore di capolavori quali Kaputt e La pelle

«Perderò ad Austerlitz e vincerò a Waterloo»Malaparte

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Marsilio

Vite e leggende

traduzione di Alberto Folin

MalaparteMaurizio Serra

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Titolo originale: Malaparte. Vies et légendes© Editions Grasset & Fasquelle, 2011

© 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in VeneziaPrima edizione digitale 2012 ISBN [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

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Introduzione. Volti e maschere di un esteta armato

Ringraziamenti e Nota ai testi e alle fonti

Gli inizi di un Bonaparte (1898-1924)37 Primi passi; 58 «Non potendo far altro, facemmo miracoli»; 74 Un giovane in rivolta; 80 Alla ricerca di un ruolo; 86 Con le bande nere della rivoluzione; 94 Una squallida impresa

Fascismo e quartieri alti (1925-1933)107 Fascista, ma non come gli altri; 119 Campagnolo e cittadino; 129 Tra Dux e Camaleonte; 143 Fiat et Soviet!; 161 Flaminia; 171 Tecnica di un’autopromozione; 194 Tanto va la gatta al lardo...

Cremlino e croce uncinata (1934-1943)205 Oh, che bel confino!; 224 Galeazzo e Edda; 232 Virginia; 248 Eccellenti Prospettive; 258 Lawrence d’Etiopia; 265 Senso vietato; 276 Dalle Alpi al Pireo; 288 Sui fronti dell’Est; 308 Intermezzo finlandese

Cronache della peste. Kaputt, La pelle, Mamma marcia (1944-1946)323 «Non ha importanza se quel che racconta sia vero o falso»; 339 Ove si narra di un vaso da notte e di un sigaro; 347 Musica e patibolo; 355 Dalla parte dell’oca; 362 Pelle e fango; 376 Bene o male, purché si parli di me...; 390 Elogio del marciume

Indice

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Da Parigi a Mao (1947-1957)401 Parigi non val più una messa; 413 Due cappelli d’Italia; 425 Teatro; 438 Cinema; 448 «But I loved you, damned!»; 457 Dal varietà alla lunga marcia; 482 «Quel sobborgo di Prato che è Pekino...»; 495 «Al caro, affezionato amico... Gianni Schicchi!»

Conclusione. Capri, o l’uccello che ha ingoiato la propria gabbia

appendici

Una lettera inedita di Henry Miller a Malaparte

La vera storia di un duello mancato di Onofrio Solari Bozzi

Kúppetdi Paolo Vita-Finzi

testimonianze

«Era quasi una replica di Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi...»Colloquio con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

«Con Malaparte, corrispondente di guerra...»Colloquio con Lino Pellegrini

«Ci raccontava delle storie meravigliose...»Colloquio con la contessa Maria Sole Agnelli Teodorani Fabbri

«Quell’uomo era il morso del cobra...»Colloquio con Giordano Bruno Guerri

«Malaparte, condottiero senza truppe e senza prudenza»Colloquio con Francesco Perfetti

Indice dei nomi

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Vi sono molte ragioni, tutte legittime, per non amare Malaparte uomo, scrittore e personaggio. Ma nessuna, a nostro avviso, per negargli un posto di primo piano tra gli interpreti più singolari di un ventesimo secolo le cui inquietudini si prolungano nel nostro. Questo «maledetto toscano» di respiro autenticamente interna-zionale – e non solo europeo, dacché l’Europa dopo il 1945 gli andava stretta – rappresenta un paradigma non eludibile dell’in-tellettuale contemporaneo. È un modello che molti dopo di lui hanno cercato (e cercano) di imitare senza riuscire a eguagliarne l’algida presenza, il valore e lo stile. È giunto ormai il momento di sgombrare il campo dagli stereotipi che, spesso con la complicità dell’interessato, ne hanno occultato l’immagine. Mitomane, esibi-zionista, affabulatore, Malaparte non è stato il voltagabbana che abbandona una dopo l’altra le cause perse per correre incontro ai vincitori, quali che siano. Personalità irta di contraddizioni e di esigenze spesso in conflitto tra loro, egli fu guidato o domina-to, in ogni scelta, più dal temperamento che dagli eventi. La sua coerenza interna può non piacere alle anime belle, ma ci sembra indiscutibile, come il suo coraggio. Se da camaleonte ha saputo adattarsi a tutte le circostanze, la vocazione di esteta armato è riu-scita a preservarlo dalle complicità peggiori, e ad innalzarlo sopra le mode, anche quelle che aveva creato. È stato un inviato speciale nella terribilità della storia, capace di passare senza muovere un muscolo del volto dai salotti alle trincee, dalle rivoluzioni alle con-ferenze diplomatiche, dai campi da golf a quelli di sterminio, da

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IntroduzioneVolti e maschere di un esteta armato

Narciso io...?, e giurava di no.Da una testimonianza di giancarlo vigorelli, 1980

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Mussolini a Hitler, da Stalin a Mao, dagli anarchici al papa. Un «antieroe del nostro tempo», che ha respirato l’aria delle ideologie totalitarie senza esserne intossicato. Malaparte ha cercato di ripro-porre una visione dell’Uomo moderno ricalcata dai tragici greci: impasto di grandezza e cinismo, ideali e servitù – in cui, da buon Narciso, rispecchiava se stesso. Più di cinquant’anni dopo la sua morte, ha vinto la scommessa. Piaccia o non piaccia, è sempre lì, vivo e vegeto, in Italia e forse, più ancora, all’estero.

Se scelse d’impantanarsi nel «sangue, voluttà e morte», cantati da Maurice Barrès, prince de la jeunesse, nella generazione prece-dente, Malaparte ha attraversato tutte le correnti della sua epoca senza farsi coinvolgere totalmente in alcuna. Non ha mai perso di vista il fatto di essere uno scrittore prima che un militante, di ave-re soprattutto il compito di testimoniare, beninteso a suo modo. Non vi è professione di fede che possa arginare il talento, perché nessuna causa merita di esser presa troppo sul serio. Questo pro-va la sua ambiguità, ma anche il bisogno di libertà, il rifiuto di appiattirsi in alcun partito, anche il più allettante. Malaparte si ritrova preso in un vortice di vite e leggende sempre ricominciate, finché non calerà il sipario. Quest’uomo, che sembra vivere per la platea, coltiva il silenzio per ritrovare se stesso. Provocatore nato, ideologicamente inservibile, tentò a più riprese l’unica carriera per la quale non era adatto: quella del politico. È forse questa la ragione per la quale oggi nessuna famiglia di destra o di sinistra lo riconosce tra i suoi padri nobili. A forza di correre incontro ai vincitori, Malaparte è riuscito a situarsi quasi sempre dalla parte sbagliata, con un amore per le cause perse che forza l’ammirazio-ne. Per tutta la vita sarà ossessionato dal gusto dell’esibizione e dello scandalo, fino a toccare forme paranoiche negli ultimi anni: «Qual è il giudizio negativo che vi ha colpito di più?», gli chiesero un giorno. «Il silenzio» fu la risposta, di rara sincerità 1.

Se ha spesso parlato a vanvera, e volentieri mentito, non ha mai tradito le ombre beffarde dei suoi numi: i tragici greci, Saint-Simon, Chateaubriand, Byron, Baudelaire, Foscolo, D’Annunzio. Li ha amati come ogni vero scrittore ama i suoi modelli, il resto conta poco. La ragione non è ovviamente d’ordine morale. Era incapace di mistificare, perché avrebbe dovuto innanzitutto accet-tare la realtà, ammettere che il reale esiste prima della sua rappre-

1 Quaranta minuti alla televisione: tiro incrociato su Malaparte, giugno 1953, in Ma-laparte, x, pp. 368-370.

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sentazione. La storia, di cui contestava qualsiasi valore oggettivo, lo ha interessato solo nella misura in cui poteva tingerla come una stoffa, secondo le innovazioni introdotte nelle filature pratesi da suo padre, eccentrico inventore venuto dalla Sassonia. Malaparte disprezza la storia, che pure è il solo, vero tema di un autore per il quale tutto il resto, tutto ciò che è generalmente materia di lette-ratura – amori, lutti, abbandoni e ritrovamenti, ricordi d’infanzia, tramonti, angosce metafisiche –, è solo contorno. Dalla politica, vissuta con lo stesso trasporto della letteratura ma con ben minor successo, è entrato e uscito a piacimento, prendendone quel che gli serviva e gettandolo quando non gli serviva più, come i «capi-tani di sventura» della Controriforma, eletti a modello dei suoi vent’anni, prelevavano una cantiniera nella taverna di un villaggio per abbandonarla in quella successiva. La storia, ha scritto a più riprese, è la morte; ma questa equivalenza non gli ispira alcuna attrazione morbosa, alcun cupio dissolvi. Occorre qui affrancarsi da un altro luogo comune, perché Malaparte è stato uno degli au-tori meno decadenti e più vitalisti delle patrie lettere. Il mestiere in lui prevaleva infallibilmente sull’emozione. Anche negli effetti più plateali, nelle descrizioni più violente, egli rimane impassibile di fronte a uno specchio che riflette il mondo circostante; e vi è sempre il sospetto che si diverta alle reazioni inorridite dei lettori. Dirà di Kaputt, il suo capolavoro, che «dentro non c’è altro che soldati, cadaveri, cani, girasoli, cavalli e nuvole» 1. Sono, ancora una volta, gli elementi che lo interessano, nella loro scomposizio-ne e disaggregazione primordiale, come in un quadro di Bacon, il pittore coevo che gli assomiglia di più in quella fase centrale della sua opera. Ma guai a farsi catturare da quelle scene di tortura, a crederci fino in fondo. Per lui, la storia va «malapartizzata» come la vita, e basta.

La scelta intorno al 1925 di uno pseudonimo «italiano», forse suggerita o imposta da Mussolini, conferma un precoce talento per l’autopromozione. Dove sarebbe finito, con la zavorra di quel cognome che nemmeno la Questura e la polizia fascista, l’ovra, riuscirono mai a ortografare correttamente? «Malaparte», invece, rappresenta un passaporto vistato per il mondo intero e l’assonan-za col «male» gli permetterà di attrarre e spaventare il pubblico borghese in tutto il mondo. È l’atto di nascita ufficiale di uno scrit-

1 Lettera a R. Laudenbach del 5 gennaio 1948, in Malaparte, viii, pp. 14-15. Origi-nale in francese, traduzione nostra.

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tore, che ha già all’attivo due o tre libri folgoranti, che contengono il germe di quelli a venire. D’ora in poi sarà impossibile distin-guere la scrittura dalla vita. Quest’uomo di ghiaccio cercherà tra i suoi lettori solo complici o avversari incondizionati, e otterrà, in genere, proprio quello che voleva.

Da qui l’errore di rimproverargli una flessibilità amorale, un fiuto innato per barcamenarsi nelle situazioni più scabrose, laddo-ve prevale in lui una sorta d’indifferenza minerale per le passioni che dominano gli uomini e le masse. La sua traiettoria ondivaga diventa così di una razionalità impeccabile e ci obbliga a rendere omaggio allo stoicismo – la parola non sembra eccessiva – che ha mostrato nel coltivare il suo personaggio fin sul letto di morte. Malaparte è stato un condottiero senza truppe, un eterno bastian contrario, un uomo di minoranza permanentemente alla ricerca del consenso e frustrato di non trovarlo. Non un avventuriero. Come Truman Capote, è sempre pronto a giocarsi un amico per una battuta, ma anche a rispondere alla battuta altrui con un’in-giuria o una sfida a duello. Per tutta la vita, lui che pur sapeva essere un fine diplomatico quando voleva, è stato dominato dal demone dell’esibizione e della polemica. Il denaro non contava molto, contrariamente alle apparenze: ne ha avuto molto, ma è morto povero; il potere, che ha bramato, lo avrebbe stancato cin-que minuti dopo averlo ottenuto. E anche il gusto della fama non giungeva fino a corrodere il suo antico, toscanissimo, italianissimo fondo di irrisione e diffidenza.

Fu, dopo il divino Gabriele, il più rinascimentale degli scrittori italiani, e non solo italiani, del Novecento. Aspirò a un’esistenza inimitabile che tuttavia non fu, come capita ai dilettanti, il suo capolavoro: fu semmai il brogliaccio o la stesura preliminare della sua opera. «Posso scrivere solo delle cose che ho viste e vissute» 1: certo, ma a modo suo, senza distinguere il più delle volte fra realtà e finzione 2. La rappresentazione contava per lui assai più del risul-tato e questo spiega la sua costitutiva frigidità umana, la solitudine del dandy, ma anche l’incapacità di perseguire lo scopo prefisso

1 Intervista [a una pubblicazione belga?], ottobre 1949, in Malaparte, viii, p. 588. Originale in francese, traduzione nostra.

2 Il problema si è riproposto, di recente, con le polemiche suscitate dalle rivelazioni contenute nella prima biografia in Polonia di un «discepolo» di Malaparte, lo scrittore e reporter Ryszard Kapuscinski. L’edizione francese, l’unica uscita finora all’estero, porta un significativo sottotitolo: A. Domosławski, Kapuscinski. Le vrai et le plus que vrai, Paris, Les Arènes, 2011, p. 493.

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con la tenacia del vero uomo di potere: presa una direzione, gliene si aprivano immediatamente davanti altre dieci, e non voleva ri-nunciare ad alcuna. Non è (del tutto) una posa, se alla compagnia dei suoi simili preferiva la fedeltà degli animali, specialmente gli amatissimi cani. Le donne cedevano una dopo l’altra al fascino rude e morbido, inerte e felino, di chi concedeva loro ben poco di sé. Per Daniel Halévy, il suo fedele mentore francese, «a tutti gli stranieri sembrava un perfetto esemplare della razza italiana» (Prefazione a fe). È forse questa la ragione per la quale lo hanno apprezzato, e lo apprezzano tuttora, più dei suoi compatrioti.

Nazionalista e cosmopolita, pacifista e bellicista, elitario e po-pulista, cronista asciutto e narratore barocco, arcitaliano e antita-liano, talvolta anche ciarlatano, Malaparte non cessa di sconcerta-re per la sua modernità, per la sfida alle convenzioni e a tutto ciò che puzza di «politicamente corretto». Precoce in tutto, il quat-tordicenne Curt Erich Suckert ha già trovato tra i banchi del col-legio Cicognini e nelle agitazioni della Prato operaia e socialista, l’ideale a cui rimarrà sempre legato: repubblicano e antiborghese, e, malgrado la «conversione» finale, anticlericale. L’interventismo è il passo successivo, che lo condurrà a fuggire da casa per arruo-larsi come volontario garibaldino in Francia. Anche se è dubbio che abbia subito allora il battesimo del fuoco, non fu certo una scampagnata: rischiava la fucilazione, se catturato dai tedeschi, in quanto suddito del Kaiser, non ancora naturalizzato italiano. Dal 1915 al 1918, farà in prima linea tutta la spaventosa «guerra bian-ca» sulle Dolomiti, da soldato e poi da ufficiale. Nel giugno-luglio del 1918 ripartirà sul fronte francese a Bligny, dove «i meravigliosi pazzi contadini» della Brigata delle Alpi, rimasti senza viveri né munizioni, «non potendo fare altro, fecero il miracolo», bloccan-do per due giorni e due notti l’offensiva delle Sturm truppen sulle Argonne. Gli assalti alla baionetta e al lanciafiamme, i cadaveri aggrappati al filo spinato, le fosse comuni, sono una costante della sua opera e si ha un bel dire che esageri: egli capì allora tutto ciò di cui l’uomo è capace, nel bene e nel male. La sua partecipazione alla Grande guerra fu esemplare, come lo fu per i fanti Marinetti, Sant’Elia, Barbusse, Ungaretti o Remarque. Ci vorrebbe un Bor-ges redivivo per proporre l’incontro mai avvenuto, ma del tutto plausibile, nelle tempeste d’acciaio, fra Curzio e il coetaneo fante scelto Ernst Jünger. È stata sicuramente la pagina più autentica della sua vita, forse perché non era ancora Malaparte ma un anoni-

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mo combattente; e in tutta la sua opera riecheggerà la nostalgia di quel battesimo virile. Quarant’anni dopo, tornerà sofferente dalla Cina per essere fulminato da un cancro ai polmoni lesi dai gas tedeschi nel 1918.

Finita la guerra, il Moderno avanza in modo ancor più rabbio-so. È «il vento eroico della rapidità», che D’Annunzio annunciava in Forse che sì forse che no. E il Moderno nell’Europa letteraria del primo dopoguerra si chiama Tzara, Breton, Joyce, Heming-way, Eliot, Pound, Erenburg, Morand, Brecht, Toller, Dos Passos, Chlebnikov, Blok ecc. Il suo epicentro è Parigi, mentre in Italia si traveste da Rivoluzione fascista, fagocitando le poche esperienze d’avanguardia della penisola, dai futuristi ai vociani. Curzio non esita: non vuole restare fuori dal corso degli eventi, la scrittura intesa come torre d’avorio o ricerca solitaria è priva di fascino ai suoi occhi. Rientrato in patria, dopo una parentesi diploma-tica alla Conferenza della pace e alla legazione a Varsavia, esita, come tanti giovani impazienti, nel trovare la sua strada, e prima di trovarla, le prova un po’ tutte. Per darsi un tono nella bohème romana inventa un effimero movimento, «l’Oceanismo». Inizia a coltivare l’immagine del bel tenebroso anche perché, già alto e slanciato di suo, deve spesso saltare i pasti. Pubblica un libro pro-vocatorio, a tratti bellissimo, Viva Caporetto!, che gli frutta il pri-mo dei tanti successi di scandalo e lo obbliga a lasciare l’esercito e la pubblica amministrazione. Ma come spesso gli accadrà, il testo afferma esattamente l’opposto di quello che proclama il titolo: se infatti si scaglia contro l’insipienza degli alti comandi, Curzio non mostra alcuna simpatia per la massa degli sbandati e dei fuggia-schi, incapaci di portare avanti la protesta sino alla conquista del potere. Per farlo, occorre che la rivolta sia guidata da un nucleo di capi lucidi e determinati, gli ufficiali e i sottufficiali che hanno salvato il paese prima e dopo Caporetto. A questo punto, e siamo già nella prospettiva che porterà a Tecnica del colpo di Stato dieci anni dopo, l’opzione di Curzio non può essere che il bolscevismo o il fascismo. Ma il suo retroterra è nazionalista e, a nostro avviso, lo rimarrà sempre, l’Italia, «mamma marcia», rimanendo per lui la misura di ogni cosa nel bene e nel male. E così sceglie il secondo.

Entra nelle file del sindacalismo fascista e si lancia nella batta-glia d’idee in appoggio allo squadrismo, animando una delle rivi-ste più radicali del movimento, «La Conquista dello Stato». Ma non partecipa alla marcia su Roma, cosa che gli verrà rimprove-rata dai puri e duri del partito, inducendolo a sostenere il contra-

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rio, salvo ristabilire la verità nei memoriali difensivi del 1945-46: esempio delle tante contraffazioni, incastrate una dentro l’altra come bamboline russe, che rendono tuttora scivoloso il discorso su Malaparte e il fascismo. La realtà è quella già delineata nella pio-nieristica biografia di Giordano Bruno Guerri 1 e confermata dalla documentazione più recente: come molti altri intellettuali (e non), Malaparte è stato indiscutibilmente, genuinamente fascista sino all’inizio degli anni trenta. Certo, frondista era da sempre, per carat-tere ma anche per convinzione. Lo dimostrò sin dal 1929, precipi-tandosi, da direttore de «La Stampa» fresco di nomina, a descrivere la realtà sovietica in una serie di corrispondenze che indignarono i lettori benpensanti del giornale. E non vi è dubbio che durante il soggiorno – non l’esilio – francese del 1931-33, egli abbia dato motivo di alimentare, con atteggiamenti provocatori, le voci com-plottiste che gli informatori e le spie spargevano sul suo conto. Il duce, che conosceva i suoi uomini (che per lui erano tutti polli), non ne tenne conto e gli evitò il deferimento al Tribunale speciale. Malaparte non si è dimesso dal partito nel 1931, come ha poi pre-teso, e non è stato arrestato e mandato al confino nel 1933-34 per attività antifascista, bensì per aver calunniato il suo ex protettore Italo Balbo, la cui popolarità era diventata una spina nel fianco del duce. Lo fece nel tentativo di acquisire meriti agli occhi di Musso-lini, ripetendo l’operazione spregiudicata che gli era riuscita anni prima, al momento del delitto Matteotti. A Lipari rimase pochi mesi e non i cinque anni che vi doveva scontare, prima di essere trasferito a Ischia, poi a Forte dei Marmi, infine graziato. Cercò allora di riottenere la tessera del pnf per sposare Virginia Agnelli e diventare «il padrone della Fiat»: ennesimo piano campato in aria, in cui riuscì solo a farsi altri potenti nemici. Il mancato ritorno nei ranghi del partito non gli impedì di ridiventare una delle firme più influenti e meglio retribuite del giornalismo italiano, scriven-do pagine non proprio limpide sulla guerra di Spagna e l’attacco alla Grecia, rimanendo nell’orbita del sistema fino al 25 luglio. Nel frattempo, da eroe mancato si è fatto testimone. Il ragazzino Curzio poteva rischiare la vita; lo scrittore professionista Malapar-te deve preservarla: «Sono nato per scrivere belle pagine e non per

1 L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte, Milano, Bompiani, 1980, ultima ed. 2008. A quest’opera indispensabile si aggiungono altri due contributi rilevanti: la prima bio-grafia raccolta dalla voce dello scrittore morente dal giornalista F. Vegliani (Malaparte, Venezia, Edizioni Daria Guarnati, 1957) e, più recentemente, G. Pardini, Malaparte. Biografia politica, Milano, Luni, 1998.

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morire in guerra» 1, dichiarerà allo scoppio del nuovo conflitto. Si dirà che era il prezzo da pagare per restare in sella e permette-re a giovani imbrigliati nell’autarchia fascista di abbeverarsi alle grandi correnti spirituali, dalla psicoanalisi al surrealismo, ormai condannate a fermarsi alla frontiera italiana, grazie a una rivista come «Prospettive». Ma da qui a farne un oppositore interno del regime, ce ne corre.

Questi, sinteticamente, i fatti, che i lettori stranieri, anche i più lucidi e sensibili 2, fanno tuttora fatica ad accettare 3. Quando questa biografia è uscita in Francia l’anno passato, si è registrato molto sconcerto per le «rivelazioni» su di un Malaparte che per molti re-censori apparve peggiore che nella realtà, mentre era semplicemen-te più vicino a quello autentico 4. Manca però sovente in sì virtuosa indignazione – che rinvia al vecchio stilema di un fascismo italiano visto come opera buffa e congiura di pugnalatori – la volontà di capire che Malaparte non era mosso soltanto da opportunismo. Dall’inizio alla fine della sua epopea, si trova in lui un elemento fascistoide che non si smentisce mai, ed è il gusto della forza, sola vera ideologia di un uomo che le disprezzava tutte. L’importante è che si tratti di un capo, poco importa se di destra o di sinistra (Mussolini, Lenin, Stalin, Mao) o di uno Stato guida, poco importa se totalitario (l’urss, il Terzo Reich) o democratico (Francia, Stati Uniti). L’essenziale è imporre il sigillo di una volontà potente a chi ha il compito di ubbidire: nazioni, popoli, individui. È proprio ciò che la «donna come me» (raramente titolo è stato più auto-

1 Citato nell’album iconografico Malaparte. Una proposta, pubblicato dagli «Amici di Capri», Roma, De Luca, 1982, p. 34.

2 Cfr. R. Guérin, Du côté de chez Malaparte, Bordeaux, La Boîte à clous, 1950, nuova ed., Bordeaux, Finitude, 2003; W. Murch, Malaparte’s Partisans 1944, in «All-Story-Zoetrope», vol. 2, n. 3, 1998; K. Lagerfeld, Casa Malaparte, Göttingen, Steidl, 1998; B. Chatwin, Anatomy of Restlessness, London, Cape, 1997, trad. it. Anatomia dell’ir-requietezza, a cura di F. Salvatorelli, Milano, Adelphi, 2005; M. Albath, Die Seele war nicht mehr zu retten, in «Frankfurter Rundschau», 3 luglio 2006; Id., Der Politjonglier, in «swr2», 20 marzo 2008; D. Fernandez, Prefazione alla ristampa di Kaputt, Paris, Denoël, 2006; B. Tessarech, Pour Malaparte, Paris, Buchet-Chastel, 2007; M. Kundera, Une rencontre, Paris, Gallimard, 2009, trad. it., Un incontro, traduzione di M. Riz-zante, Milano, Adelphi, 2009; J.-P. Martin, Eloge de l’apostat. Essai sur la Vita nova, Paris, Seuil, 2010, pp. 35-36; O. Rolin, Bric et broc, Lagrasse, Editions Verdier, 2011; F. Beigbeder, Premier bilan après l’Apocalypse, Paris, Grasset, 2011.

3 L’Encyclopedia Britannica, di solito ben documentata, sorvola sul confino, per af-fermare che «During the 1940s, Malaparte rejected Fascism and was expelled from the Party».

4 Tipico al riguardo il confronto, largamente improprio, tracciato dalla stampa con il caso Céline, alimentato dalle polemiche che nel 2011 hanno segnato le mancate cele-brazioni ufficiali del cinquantenario della morte dello scrittore francese.

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biografico) cerca nel vincitore, anche a costo di commuoversi per i vinti, ma molto più nell’opera che nella vita. Talvolta suscitano il suo rispetto, come la vecchia principessa Radziwill, che in Kaputt rifiuta, grondante di pioggia e con il belletto sfatto che le riga il volto, la sedia che le porge un ufficiale tedesco, nella stazione di Varsavia in rovina. Ma non lo ispirano a lungo: Malaparte non amava sempre i vincitori, ma disprezzava quasi sempre i perdenti.

Fascistoide, marxistizzante e anarcoide, sempre ribelle, Mala-parte lo è e lo rimarrà anche per diffidenza verso la democrazia parlamentare. Se piange abbondantemente nei suoi libri, non ver-sa una lacrima sulla sorte del vecchio continente e sulla fine della sua influenza nel mondo. Mette alla gogna «la nuova Europa che nasce dal cadavere della vecchia Europa morta» (mm, 11), come il vero soldato sa che deve accettare l’amputazione di un arto in cancrena. Verso la fine, si dichiarerà fautore di un «nazionalismo europeo» , dove si intravede una vaga idea di Europa delle patrie, ma oltre non va. Si può leggere una compensazione del fascismo anche nella sua attrazione per l’urss che ha sbaragliato le armate di Hitler e per la Cina di Mao. Pochi intellettuali della sua epoca hanno predetto con tanta precisione e denunciato con più vigore il declino dell’Occidente. Quanto agli Stati Uniti, onore ai vincito-ri, la cui bandiera si arricchisce di un frammento della stoffa mac-chiata del vecchio continente. Malaparte è stato uno dei primi a comprendere cosa significhi per una democrazia energica e senza complessi «esportare» i propri valori nel mondo. E l’11 settem-bre, se fosse sopravvissuto per vederlo, sarebbe entrato di diritto in un American Kaputt.

Fascistoide, vicino ai rivoluzionari e lontano quanto più possi-bile dai conservatori, dai nostalgici, dai reazionari. Siamo dunque nell’orbita del “fascismo rosso”, il fascismo di sinistra, messo fa-ticosamente sotto controllo dopo la marcia su Roma, che risorse trent’anni dopo a Salò, e impregnò parecchi intellettuali passati poi al comunismo. Dall’inverno 1941 le corrispondenze di guerra di Malaparte acquistano un tono via via più ostile all’Asse. Ba-sterebbe questo fatto – senza dimenticare che non si è prestato alle (purtroppo) frequenti delazioni fra intellettuali e non ha mai firmato una riga di propaganda antisemitica – a dimostrare che, nell’arco del ventennio e sul bilancio di un’intera generazione, Malaparte aveva meno da farsi perdonare di altri suoi colleghi, più abili a riciclarsi nel dopoguerra. Ma è stato lui stesso, con i suoi travestimenti incessanti e spesso superflui, con la sua psico-

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logia contraddittoria fino all’autolesionismo, com’è proprio dei grandi narcisi, ad alimentare le voci peggiori, negando spudora-tamente tutto quel che l’amato e odiato “padre padrone” Muss aveva fatto per lui.

Questo apolide delle ideologie è altrettanto poco uno scrittore “di destra” di quanto Pavese e Pasolini siano stati scrittori “di si-nistra”; salvo che a costoro è stato perdonato quel che si continua a rimproverare a lui. Non troviamo in Malaparte le invettive deli-ranti e la xenofobia di un Céline, la paura del contagio e dell’usu-ra di un Pound, la venerazione di un Maurras per il trono e per l’altare. Nondimeno, Malaparte continua a essere considerato un intellettuale di destra, e incontra generalmente a sinistra un netto ostracismo. Messo al bando dal pci contro il parere di Togliatti, precipiterà nel campo anticomunista all’inizio della guerra fred-da, sarà assalito da molti di coloro che aveva beneficato, e deriso dai compagni di strada. Gli scrittori italiani di oggi, specie i più giovani, si fanno un merito, salvo eccezione, di ignorarlo, anche se copiano volentieri, magari di seconda mano, la truculenza delle parti più deboli de La pelle. Non così all’estero, in Francia 1, in Spagna, negli Stati Uniti e in America Latina, dove Malaparte è letto, commentato, discusso, ritradotto. Nelle parole di uno dei migliori scrittori americani contemporanei, Edmund White:

Aveva un modo affascinante, probabilmente unico, di combinare la ve-rità dell’autobiografia con la stravaganza dell’immaginazione mitopoietica. Nei suoi due capolavori, Kaputt e La pelle, si dimostra un narratore sot-tile e perfino modesto, ma ciò che narra supera ogni credibilità. L’idea di cogliere dei momenti attuali della propria vita e di magnificarli in simboli poetici espressivi mi affascina; mi piacerebbe scrivere un libro utilizzan-do questa strategia 2.

Nella biografia di Malaparte, temperamento anaffettivo per il quale gli uomini contavano solo nel bisogno o nell’azione, e le

1 La «Nouvelle Revue Française» ha dedicato il numero di febbraio 2011 a un’in-chiesta sul «romanzo che meglio definisce il xx secolo». Il quesito è stato posto a tren-tuno scrittori del mondo intero (l’Italia era rappresentata da Antonio Tabucchi ed Erri De Luca). Per quel che possono valere simili inchieste e simili classifiche, è comunque significativo che Malaparte si sia piazzato al secondo posto dopo Faulkner e che ab-biano votato per lui due scrittori francesi di talento: Pierre Assouline (che ha indicato Kaputt) e Stéphane Audeguy (La pelle).

2 Testimonianza scritta all’autore.

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donne ancor meno, due soli personaggi si stagliano nitidamen-te: Gobetti e Mussolini. Il primo, fratello separato, rappresenta la cultura disordinata ma onnivora, il radicalismo intransigente del pensiero, la preferenza del paradosso sullo sberleffo, il riget-to della storia italiana vista come eterna lotta di fazioni. Gobet-ti ha quasi tutte le qualità, e alcuni dei difetti, che egli vorrebbe possedere e non possiede. Il motivo per cui l’amore non travalica nell’odio è che Gobetti ha pagato con la vita, lui no. Il secondo è il demiurgo, il padre autorevole che gli è mancato, il politico realista della stoffa dei Bonaparte e dei Lenin, che diventerà più tardi il «grande imbecille» perché Malaparte non gli perdonerà mai di aver fallito. È insomma l’uomo forte che non si è rivelato tale fino in fondo e che ha commesso l’errore imperdonabile di non pren-derlo sul serio. Malaparte, che sogna invano di sedere alla destra del capo, come poi Malraux con de Gaulle, non ha mai potuto accettare che il duce gli impartisse carezze e rimbrotti, molte ca-rote e poco bastone, come un maestro tratta un allievo dotato ma discolo. Dalle carte d’archivio emerge che il principale protettore di Malaparte, anche dopo il confino, non fu Ciano, di cui si limitò a sfruttare l’amicizia, ma proprio Mussolini. Fu il duce a continua-re ad autorizzare i finanziamenti, mai eccessivi ma indispensabili, sia a «Prospettive» che a Malaparte in persona, e ciò letteralmente fino alla vigilia del 25 luglio. È significativo che l’unico momento di pietas che il dittatore sconfitto gli ispiri è quando lo vede – in realtà non lo vide – appeso per i piedi a piazzale Loreto. Anche lì, se ne capisce il motivo: Mussolini, come Gobetti, ci ha lasciato le penne, lui no.

Nella democrazia italiana faticosamente risorta, Malaparte re-sterà attratto, e non solo per opportunismo, dai cavalli di razza che danno il senso della forza, o quantomeno dell’energia: To-gliatti, De Gasperi, Fanfani, perfino Tambroni, che parve per un giorno il de Gaulle della Prima Repubblica, e fu probabilmente eliminato per questo. Ma rimarrà scettico sulla possibilità del pae se di mettere fine alle lotte intestine, alla contrapposizione tra «i due cappelli di paglia d’Italia», che Guareschi illustrerà, con una genialità popolare mai riconosciutagli dai soloni della cultura, nei personaggi di Don Camillo e Peppone. Il morbo che dilaga tra i vincitori e i vinti assimila inesorabilmente i primi ai secondi: Malaparte avrebbe voluto intitolare La peste quella che diventerà La pelle, se Camus non fosse arrivato prima di lui. La procedura di epurazione si trascina per un paio d’anni e sarà

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archiviata, dopo un probabile intervento dell’ex guardasigilli Togliatti. Ma gli ispira pagine amare: «Che delusione questi an-tifascisti! Sono dei fascisti senza camicia nera» 1. Dopo di che, sceglie di «esiliarsi» per la seconda volta – e non fu un esilio nem-meno questo – a Parigi, da dove spera di rientrare in patria onu-sto di gloria letteraria e mondana, come D’Annunzio nel 1915. La delusione sarà cocente, malgrado il successo di Kaputt, del Volga nasce in Europa e de La pelle. Confortato dall’amicizia di pochi grandi vecchi come Cocteau e Cendrars e dei giovani «us-sari» che condividono il suo romanticismo orfano della nazione, Malaparte è tagliato fuori dalla voga dell’esistenzialismo e della letteratura impegnata: Sartre, Camus, Aragon, Eluard, Malraux, nuove stelle del firmamento parigino, lo ignorano a bella posta. Decide allora di sfidarli sul loro terreno, mettendo in scena due commedie scritte in francese. Tutto quel che ottiene è di sfiorare l’ennesimo duello con un critico che paragona il pubblico che abbandona il teatro ai fuggiaschi dell’esodo del 1940, «mitraglia-ti sulle strade di Francia dall’aviazione fascista degli amici di Ma-laparte»: leggenda che purtroppo sopravvive tutt’oggi Oltralpe. Ma sono soprattutto le rivelazioni sui suoi trascorsi – imbeccate dalle italiche «gole profonde», che non mancano mai in questi casi – a spingerlo a fare i bagagli per ritrovare un’Italia dove tra-scorrerà l’ultimo decennio della sua vita sostanzialmente da esule in patria. Appena può, ricomincia a viaggiare: vorrebbe torna-re in Russia, ma i comunisti, malgrado l’amicizia mai smentita di Togliatti, gli rimangono ostili. Si consola con il Cile e l’Uru-guay e annuncia che attraverserà gli Stati Uniti a pedali, con la sponsorizzazione della Coca-Cola, per raggiungere Grace Kelly (ancora nubile) a Hollywood e offrirle un’ampolla dell’acqua di Capri, trovando qualcuno che ci crede e gli regala una bicicletta di lusso. Ormai sembra girare a vuoto, mentre la megalomania si tinge sempre più di paranoia. Litiga con tutti: per pubblicare i suoi libri deve fondare una propria casa editrice, la radio e la nascente televisione lo ignorano, ai premi letterari ha dichiarato guerra, dopo che La pelle ha perso lo Strega nel 1950 contro La bella estate di Pavese. Denuncia i vizi del sistema culturale come se non ne avesse mai fatto parte. La sua speranza è il cinema e va avanti e indietro per via Veneto non ancora scoperta dalla dolce vita in una grande decappottabile americana. Ma dopo il

1 gs, in data 12 ottobre 1943, in Malaparte, vi, p. 452.

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suo unico film, Il Cristo proibito, non trova più i soldi per i mille soggetti o copioni che sforna a getto continuo. Ritenta il teatro a Venezia e Milano con Anche le donne hanno perso la guerra e un critico spiritoso scrive che ha perso lui una buona occasione di tacere. Si lancia nella satira di costume con un varietà, Sexo-phone, esibendosi nei locali della Versilia tra ballerine in boa di struzzo come Wanda Osiris, raccogliendo più fischi che incassi. Fa il giurato ai concorsi di bellezza in Versilia, racconta a puntate per un settimanale il suicidio di un’attricetta americana che ha avuto la pessima idea di innamorarsi di lui. Lancia sulla rivista di una compagnia petrolifera l’idea di un campionato automobi-listico a Capri, proprio lui che vi ha costruito una casa unica e inaccessibile. Sembra preferire le classifiche delle riviste di moda a quelle librarie, come fanno oggi molti scrittori che non hanno un grammo del suo talento. Molti si chiedono se queste compar-sate non siano la conseguenza di un calo dei suoi mezzi, non solo economici ma intellettuali. Pubblica ormai poco e incontra i fa-vori del pubblico solo per un libro minore, i bozzetti di Maledetti toscani. Eppure i suoi cassetti rigurgitano di works in progress, due dei quali, pur incompleti, sono degni di lui: Mamma marcia e Il ballo al Cremlino. Ha forse capito che in un’epoca bizantina come la nostra, la letteratura non basta più ad alimentare la fama di uno scrittore.

L’unica impresa portata avanti fino alla morte è il suo primo amore, il giornalismo. Su «Tempo» settimanale – da non confon-dere con il quotidiano romano, al quale pure collabora attivamen-te – tiene una rubrica, Battibecco, in cui sfoga il proprio estro e i propri umori, sui temi più diversi, da precursore di quello sport nazionale tuttora imperante che è la tuttologia. Alcune di que-ste pagine sono lucide e graffianti, e annunciano il Pasolini degli Scritti corsari. Come lui, anche se per motivi opposti, Malapar-te mitizza un’Italia pre-borghese, «povera e bella», contadina e aristocratico-proletaria, alla quale, a differenza di Pasolini, sotto sotto non crede affatto. E beninteso coltiva l’altro sport nazionale – la protesta indiscriminata contro i «potenti» di turno – in una posta dei lettori intitolata Scrivetemi e avrete giustizia, dove strizza l’occhio al qualunquismo. Spera ancora di tornare in politica. Il risultato è una solenne bocciatura, quando si presenta alle elezioni a Prato nelle file del pri, l’unico partito che l’abbia messo in lista; e per celebrare la sconfitta litiga con i dirigenti, colpevoli di averlo mandato allo sbaraglio.

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