A.v. - Leggende Della Bretagna Misteriosa

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LEGGENDE DELLA BRETAGNA MISTERIOSA PREFAZIONE DI Gwenc'hlan Le Scouëzec ARCANA EDITRICE Titolo dell'opera originale: Histoires et légendes de la Bretagne mystérieuse Traduzione dal francese di Maria Magrini Prima edizione italiana: luglio 1986 INDICE I Bretoni, un popolo di poeti, 9 L'ANKOU E LA SUA FALCE La donna che passò la notte in un ossario, 25 Le lavandaie della notte, 33 Katel Gollet, 39 La storia di Marie-Job Kerguénou, 45 L'anima vista sotto la forma di un sordo bianco, 57 La morte invitata a pranzo, 65 La visione di Pierre Le Rûn, 69 Il lenzuolo funebre di Marie-leanne, 75 La madre che piangeva troppo suo figlio, 83 Il corpo senz'anima, 89 IL PAESE DEL DIAVOLO Jean l'Or, 97 Le donne e il diavolo, 105 LE PIETRE PIANTATE Le pietre di Plouhinec, 113 Le avventure del pastore e della farfalla, 121 La leggenda della Rocca delle Fate, 129 Carnac, il campo delle "pietre piantate", 131 VIAGGI E INIZIAZIONI La Groac'h dell'isola del Lok, 137 Peronnik l'idiota, 151 MAGIE E MERAVIGLIE La damigella in bianco, 171 Il castello di cristallo, 181 I quattro figli del mugnaio, 189 La fanciulla dalle mani tagliate, 197 La morte del topo, 205 DALLA LEGGENDA ALLA STORIA Il Mago Merlino, 211 Note, 267 Fonti delle fiabe, 275 LEGGENDE DELLA BRETAGNA MISTERIOSA I BRETONI, UN POPOLO DI POETI

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LEGGENDE DELLA BRETAGNA MISTERIOSA

PREFAZIONE DI Gwenc'hlan Le Scouëzec

ARCANA EDITRICE

Titolo dell'opera originale:Histoires et légendes de la Bretagne mystérieuse

Traduzione dal francese di Maria MagriniPrima edizione italiana: luglio 1986

INDICE

I Bretoni, un popolo di poeti, 9

L'ANKOU E LA SUA FALCELa donna che passò la notte in un ossario, 25Le lavandaie della notte, 33Katel Gollet, 39La storia di Marie-Job Kerguénou, 45L'anima vista sotto la forma di un sordo bianco, 57La morte invitata a pranzo, 65La visione di Pierre Le Rûn, 69Il lenzuolo funebre di Marie-leanne, 75La madre che piangeva troppo suo figlio, 83Il corpo senz'anima, 89

IL PAESE DEL DIAVOLOJean l'Or, 97Le donne e il diavolo, 105

LE PIETRE PIANTATELe pietre di Plouhinec, 113Le avventure del pastore e della farfalla, 121La leggenda della Rocca delle Fate, 129Carnac, il campo delle "pietre piantate", 131

VIAGGI E INIZIAZIONILa Groac'h dell'isola del Lok, 137Peronnik l'idiota, 151

MAGIE E MERAVIGLIELa damigella in bianco, 171Il castello di cristallo, 181I quattro figli del mugnaio, 189La fanciulla dalle mani tagliate, 197La morte del topo, 205

DALLA LEGGENDA ALLA STORIAIl Mago Merlino, 211

Note, 267

Fonti delle fiabe, 275

LEGGENDE DELLA BRETAGNA MISTERIOSA

I BRETONI, UN POPOLO DI POETI

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I BRETONI SONO UN POPOLO di poeti. Ben lo ha riconosciuto ilMedioevo, che si attribuiva soltanto tre fonti d'ispirazione.l'eredità letteraria di Roma, la tradizione di Francia e la materiabretone. Imiti che diedero origine ai romanzi della TavolaRotonda e i racconti fantastici che ancor oggi si raccolgononelle campagne armoricane manifestano nel loro singolare sincretismola sorprendente fecondità d'immaginazione che gliuomini del nostro paese hanno posseduto in tutti i tempi.Ricordo di aver passato nella mia infanzia lunghe ore inuna casetta vicino al mare, dove un'adorabile vecchietta raccontavaai suoi piccoli amici delle storie straordinarie. Le improvvisavacosì, davanti a noi, partendo da fatti diversi o daqualche vicenda insignificante. Una semplice cartolina postalearrivata dal Marocco le bastava per descriverci nei più minutiparticolari il mercato di Marrakesh brulicante di vita.Una cassa di tè gettata sulla spiaggia vicina, relitto di un vascelloinglese, diventava sulle sue labbra un'epopea, in cui imarinai affrontavano i doganieri, prima di affrontare, davincitori, il difficile problema di fare il tè... La cara vecchianarratrice aveva il dono di vedere una intera scena scaturireda una semplice parola, e di descriverla: ed è questa una capacitàcomune in Bretagna, e che si perpetua fra la sua gente.Un altro esempio chiarisce bene questa capacità creativa,che si diverte particolarmente a spaziare nel regno del fantastico.Le Braz, nella sua Légende de la mort, ha rievocato diversevolte la sorprendente figura di un Abate di Bégard,Guillermic, più conosciuto col nome di Tadig koz, "il vecchiopiccolo padre". Questo abate, che visse nel XIX secolo,era considerato dal popolo come un mago benefico, che sisforzava di strappare al demonio il massimo numero di animecristiane, impiegando pratiche poco ortodosse e inveroassai simili a quelle dei suoi avversari. Per questo, dice semprela tradizione, gli capitava di salire a mezzanotte sul MénéBré per dirvi la messa alla rovescia, dall'ultima parola allaprima, oppure di spedire un fantasma indesiderato al Maraisdes-Enfers,per annegarvelo sotto forma di un cane nero.

L'Abate sul Méné Bré

Anche se questi racconti, come vedremo, si basano su fattiindiscutibili, è certo che i fatti obiettivi sono stati trasformatida un lavoro, d'altronde inconscio, di rimaneggiamento,di interpretazione e interpolazione, al punto da acquistarequel senso magico, quella colorazione inquietante, insommaquel loro fascino tutto particolare. Il sagrestano di Tadig kozfu per molto tempo un certo François Derriennic, nato aPommerit-Iaudy nel 1837. Ora, una sera che insieme al suoabate stava chiudendo la chiesa - era ancora l'antica abbaziadei Cistercensi, oggi distrutta - Derriennic si fece coraggioe interrogò il prete a proposito delle pratiche di cui lo accusavanoi parrocchiani. Perché nelle notti di tempesta se neandava con un asino carico di libri sulla cima del Méné Bré?Naturalmente, la brava gente di Bégard, e in particolare leanime pie, si preoccupavano delle evidenti conclusioni a cuiquesti fatti sembravano condurre: l'abate Guillermic celebravadelle messe nere.Tadig koz condusse allora il suo sagrestano davanti algrande crocifisso di fronte al pulpito e là, solennemente, preseCristo a testimonio:"Biskoaz, François, n'em eus laret an oferenn fall! (Giammai,Francesco, io ho detto la cattiva messa!)"In realtà l'abate Guillermic si dedicava a osservazioni scientifiche.Era in rapporto con diversi studiosi e si interessava allemanifestazioni delle forze della natura, in particolare, pare, ai

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fenomeni di elettricità meteorologica. Questo bastava perché isuoi parrocchiani facessero di lui uno stregone. Così questopio religioso, che il suo sagrestano teneva per santo tanto erascrupoloso nel recitare l'uffizio, è diventato nell'immaginazionedei suoi compatrioti uno strano personaggio, a metà fra ildiavolo e il buon Dio. Sono debitore al nipote di François Derriennicdi aver potuto ristabilire la verità.1Questa verità ha un grande interesse per noi, perché ciconsente di cogliere dal vivo il processo che conduce alla formazionedelle leggende, almeno di qualcuna di esse. In fattinon tutte hanno la stessa natura né la stessa origine. Alcunerisalgono senz'altro a miti assai antichi; altre sembrano sorgerespontaneamente da temi ancestrali e come preesistentinello spirito dei loro creatori. E a loro volta condizionano gliuomini che le ascoltano e le trasmettono: impongono talunitipi di comportamento, talune strutture mentali; orientano ilpensiero verso l'una o l'altra maniera di interpretare i fatti.

Un retaggio inutile?

A questo punto dobbiamo dunque domandarci quale influenzaqueste leggende conservino oggi sulla mentalità delpopolo bretone. In altre parole, che cosa pensa oggi la gentedelle sue antiche credenze? le ha deliberatamente ripudiatecome un inutile retaggio del passato o al contrario le conserva,con l'ostinazione che siamo soliti attribuire al popolo bretone?Gli incontri che ho potuto fare nelle campagne, le conversazioniche ho avuto con la gente mi hanno fruttato alproposito risposte diverse. Per alcuni bretoni, si tratta solo diresidui di una condizione sociale ormai superata, e spessoaborrita, della quale conviene non preoccuparsi e di cui perlo più non si parlerà senza un moto di fastidio e talvolta dicollera. Un moto che non è senza ragione: si sono troppo utilizzatii korrigan, le fate e i dolmen per dipingere il bretonecoi tratti di un essere semplice, ingenuo, un po' infantile edotato di uno sviluppo intellettuale insufficiente. Questi raccontisono serviti a popolare la Bretagna di uomini un po'tonti creando di conseguenza, nonostante il loro stesso contenuto,un mondo tutto di maniera di brava gente piuttostoritardata. L'espressione più caratteristica di questo atteggiamentosi trova nel personaggio, esecrato in tutta la Bretagna,di Bécassine. Tanto si è deformata la realtà degli uomini edelle tradizioni. Ora, contrariamente a quanto vuol far credereun pregiudizio fin troppo tenace, i bretoni sono uominiavidi di imprevisto e di progresso, sempre disposti ad abbandonarel'ieri per il domani, anche se mollano la preda per lasua ombra. Inoltre, sensibilissimi alla beffa, non ammettonoassolutamente il ritratto che si pretende di farne. Questospiega il rifiuto, frequente nei più evoluti dei nostri, di unavisione neolitica del mondo, nonostante il fascino che indubbiamentepossiede e le tracce indelebili che ha lasciato inognuno di noi.

La leggenda di Santa Onenn

Capita tuttavia di incontrare qualche vecchio bretone,malizioso e misterioso, che vi racconta una delle storie tradizionaliprecisando: "Una volta si diceva..." oppure: "Abbiamosentito dire dai nostri vecchi..." e poi conclude: "Per me,non so..." o: "Magari è possibile". Così il narratore evita ilgiudizio dello straniero, si sottrae al suo sorriso incredulo, sischiera apparentemente dalla sua stessa parte, riservandosituttavia la sua opinione personale. Un procedimento forseanalogo consiste nel produrre qualche prova del fatto leggendario,

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ma citandola da qualcun altro. E' così che a Tréhorenteuc,nel 1967, un contadino mi raccontò la leggenda di SantaOnenn, che viveva, mi disse, "al tempo in cui in Bretagnac'erano i re". Poiché questa principessa, sorella di un monarcabretone, in gioventù aveva portato al pascolo le oche, laprocessione che un tempo andava dalla chiesa alla fontanaera spesso preceduta, secondo la tradizione ch'egli mi stavariferendo, da tre di questi volatili. Si mettevano spontaneamentein testa al corteo e arrivati alla fontana si schieravanoa fianco del prete, ascoltavano la predica, poi riprendevanoil loro posto davanti alla croce e di nuovo la precedevanoimpettiti fino al villaggio. Il mio informatore mi con fermòl'esattezza del suo racconto: "Io non ho visto il fatto" aggiunse;"quando è successo, verso il 1950, non mi trovavo a Tréhorenteuc,ma tutti l'hanno visto..." Quest'uomo, che nonpoteva avere più di una quarantina d'anni, ci teneva a che iocredessi alla verità della sua storia, ma nello stesso tempo sirifiutava come testimonio.

Le pietre che crescono

Un'altra volta, invece, un contadino della stessa età non siperitò di varcare i limiti del razionale. Una credenza comunevuole che i megaliti, e persino le pietre delle cave, crescano inaltezza esattamente come le piante e gli animali giovani. Ungiorno, quando chiedevo notizie di un dolmen a un contadinodel Net, non lontano da Saint-Gildas-de-Rhuys, mi sentiirispondere, dopo che m'ebbe dato l'informazione richiesta:"Avete visto la grande pietra crollata nel fosso, venendoda Sarzeau?""No.""Ah, bisogna vederla, è bella e grande... E cresce ancora..."Un silenzio, e poi:"E sono anche venuti, due anni di seguito, a misurarla.Bene, era cresciuta diversi centimetri..."Questo, nel 1965, me lo diceva sul tono della chiacchieraquotidiana, senza alcuna ricerca dell'effetto, come un piccoloavvenimento locale di cui si informa lo straniero senza desiderarnel'approvazione e senza temerne il biasimo.E' difficile, come vedete, fornire una risposta semplice alladomanda che ci siamo posti. Ma probabilmente, come ha dettoPer Jakez Helias,2 è stato sempre così: ieri come oggi gli scetticisi contrappongono ai creduloni. Su un solo punto tuttaviasi è ottenuta l'unanimità in tutta la nostra storia: sull'importanzache si deve attribuire ai narratori, sul valore sociale che sideve riconoscere ai bardi e alle loro parole. Secondo le epoche,essi hanno assunto aspetti diversi. Una volta costituivano unadelle tre grandi classi di cui si componeva l'ordine dei druidi. Inseguito, svolgendo un ruolo oggi ancora mal conosciuto allacorte dei re dell'Armorica, contribuirono a tramandare quelgruppo di tradizioni da cui sorgeranno i romanzi della TavolaRotonda. In un mondo divenuto strettamente campagnolo, ibardi compaiono sotto l'aspetto di contadini ispirati, che improvvisanointerminabili racconti cantati e dirigono le danzecon le loro voci alte e nasali, o ancora nelle vesti di straccivendoli,rigattieri o venditori di cianfrusaglie, che portano divillaggio in villaggio fiabe e lamenti popolari.

Il Vecchio dei Mari del Sud

Anche sull'oceano era presente il bardo, marinaio che ricordavaa tutti i costumi e le leggende del mare. Conoscevale regole di certi giochi, come quell'enigmatico e strambo individuoche chiamavano il "Signore del Foutreau"; e ricorda-

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va agli uomini, nel momento giusto, le storie della nebbia edella tempesta: la storia, per esempio, del Grand Maloc'h, ilvascello che impiega sette anni per virare di bordo e ha unequipaggio formato dai defunti capitani di lungo corso che invita maltrattarono i loro uomini; le avventure di Giovanni ilMarinaio che scese a trovare il Vecchio Pol; la leggenda del"Vecchio dei Mari del Sud", che sale a bordo il settimo giornoquando suona il corno di caccia, per divorare l'assassinoche si trova sulla nave.3 In terra come in mare, il bardo èl'uomo che sa vedere gli esseri misteriosi che popolano l'universo:come l'Ankou, quando viene a cercare uno dei nostri.I sedentari non conoscevano altra lingua che la bella, lavigorosa lingua bretone, o, al nord del paese, il dialetto gallico.I viaggiatori mescolavano ai loro racconti parole straniere,inglesi, francesi, spagnole, raccattate in tutti i porti delmondo. Oggi, in bretone o in francese, ma forse più vivi epiù potenti che mai, i bardi scrivono, o cantano, sulle pubblichescene, per esempio alla radio. Raccontano, piangono,strepitano, ruggiscono, lanciano anatemi. Sono la coscienzadel popolo bretone. Continuano brillantemente la linea inin-terrotta dei poeti e degli ispirati che con le loro canzoni e le lorofiabe hanno cantato la guerra e l'amore, i sortilegi e i mezzi perspezzarli. Per bocca dei bardi Merlino l'inaccessibile parla e affrettail sogno di tutte le Bretagne, il ritorno di Re Artù.Questo patrimonio di leggende, raccolte dagli studiosi difolclore a partire dal secolo scorso, possiede ai nostri occhiun valore incomparabile e sarebbe un grossolano errore vedervisolo un gioco di bambini o un divertimento di esseriprimitivi. D'altronde la società contadina della Bretagna, comesi presenta dal Medioevo ai giorni nostri non è mai statasimile a un gruppo di tribù semiselvagge. In un'opera recente4Yann Brekilien ha dimostrato quanto, al contrario, questomondo fosse civilizzato, persino raffinato sotto moltiaspetti, regolato da riti precisi, animato dai suoi cantori e daisuoi narratori, nobilitato dalla passione per la danza e dalgusto del teatro. Nell'arte come nell'espressione letteraria essoha manifestato il suo possente genio creativo e ha prodottouna cultura originale.

L'uomo e l'Universo

Le leggende che ci ha trasmesso ci rivelano a noi stessi. Visi osserva subito una non comune intimità fra l'uomo e lanatura. Il regno animato e quello inanimato sono separatisoltanto agli occhi degli individui più grossolani, più ciechi.In realtà l'universo appare in tutte le sue parti dotato di unavita cosciente che, pur non essendo sempre manifesta, si svelatuttavia in certe circostanze. Così nella notte di Natale glianimali parlano il linguaggio degli uomini e chiunque liascolti a mezzanotte comprende le loro parole. Taluni privilegiati,possono acquisire definitivamente questo potere, purchéabbiano camminato sull'erba d'oro.

Esistono inoltre altri mondi, oltre a quello abitualmente accessibileagli occhi dell'uomo comune, e si passa senza grandedifficoltà da questo a quelli. Fate, giganti, korrigan possonopertanto sorgere improvvisamente davanti ai nostri occhi. Ipersonaggi sacri alla fede cristiana, Gesù, Sant'Anna, la Verginee i santi, vengono di frequente in Bretagna, sia che vi appaianosotto l'aspetto dato alle loro statue, sia che si celino sottole sembianze di un mendicante in cerca di pane, per mettere allaprova la nostra pietà. Nello stesso modo si comporta il diavolo.Non è poi così difficile entrare in rapporti col VecchioPol, o con Gwilherm - sono la stessa cosa - poiché si tratta

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in fondo di un brav'uomo che si presta senza troppa malagraziaai tiri birboni degli uomini e dei loro protettori, i santi.Mondo di fate, di nani, di giganti; mondo della nuova edell'antica religione; mondo, più pagano che cristiano, dell'Ankou(la morte) e dell'A naon (il popolo dei defunti): ecco imondi che più comunemente interferiscono col nostro. L'ultimoè anche il più vicino a noi: l'intimità con la morte e coi defuntiè stretta e costante, la comunicazione facile: i morti ciparlano e ci ascoltano, ci consigliano, ci guidano, o anche esigonoil nostro aiuto. Anche qui i limiti sono fittizi, dovuti unicamenteall'insufficienza dei nostri sensi. L'universo comune siarresta là dove si smussa l'acutezza delle nostre sensazioni, mataluni individui - e noi tutti talvolta - possono vedere bruscamenteallargarsi il campo della loro percezione, possonovedere l'Aldilà venirgli incontro.

Gli "avatar" di Merlino

Di fronte alla tradizione bretone, il campo sensoriale e razionaleche è concezione comune del nostro secolo ci appare illusorioe deludente, limitato com'è dall'insufficienza dei nostrimezzi fisiologici. Gli sfuggono anche, per i Celti, altri campidel reale e in particolare la mutazione perpetua delle forme, lapossibilità insita nell'essere vivente di cambiare totalmenteaspetto. Gli oggetti più comuni, gli animali, le piante, i fiumi,le pietre, tutto ciò che esiste può celare in sé un'anima umana.L'individuo - soprattutto colui che possiede la scienza dei misteri- è indipendente dal suo involucro fisico: ha la possibilitàdi staccarsene, esattamente come il corpo può liberarsi dell'abitoche lo ricopre. Si dice che Merlino padroneggiasse questopotere e si mostrasse di volta in volta sotto le sembianze diuno studente di bell'aspetto, di un vecchio saggio, di un taglialegna,di un pastore camuffato, d'un homme sauvage, e persinodi un grande cervo, accorso dalla sua foresta fino a Roma.Allo stesso scopo si utilizzano talvolta anche le erbe. Così UterPendragon prende il volto del duca Hoél di Cornovaglia, Tristanoassume l'aspetto di un orribile ometto. Come nei testi enei racconti d'Irlanda e del Galles, in questo libro si troverannonumerosi esempi di questa magia delle metamorfosi. Così lafata dell'isola di Lok trasforma in pesci i suoi mariti e SerpenteVerde e Gatta Bianca sono esseri umani stregati.Legioni di esseri, tutti immateriali, siano essi uomini, vivio morti, maghi del diavolo o di Dio, personaggi mitici o religiosi,geni o divinità, si muovono sotto il mantello delle apparenze,sotto il velo delle forme che essi animano e che nonhanno altra realtà se non quella che gli prestano in quel momento.Una evoluzione continua anima il cosmo, in cui ilcambiamento è la norma. E per di più queste modifiche nonsi fermano alla scorza: le mutazioni esterne rendono manifestele trasformazioni interne. La ragione degli avatar attraversoi quali passano i mariti della fata del Lok sta nel fattoch'essi si sono psichicamente dati in balia della maga, sonodivenuti strettamente dipendenti da lei: la metamorfosi quitraduce un sortilegio.

Viaggio verso l'assoluto

E' quindi d'importanza essenziale, per la nostra tradizione,acquisire il potere necessario per vincere tutti i sortilegi delmondo, insomma il potere di trasformarsi e trasformare senzarischiare di esser trasformati da altri. E' questo uno dei significatidella leggenda, interessante anche sotto altri aspetti,di Perronik l'Idiota. L'eroe deve superare tutte le prove alloscopo di conquistare la lancia che uccide e la coppa che risuscita:

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e non e questo il simbolo del potere supremo, quelloche domina la metamorfosi più essenziale, la morte? Si giungequi al cuore dell'universo dei Celti, che siano d'Irlanda odelle due Bretagne. In realtà questi grandi viaggiatori hannoadattato la loro vita spirituale all'immagine delle loro esplorazioni.Ne hanno fatto un viaggio verso l'assoluto e hannoravvisato l'assoluto nel dominio di sé e, attraverso questo,del mondo.E tuttavia il cuore della Bretagna resta un giardino segreto,con le porte chiuse. Non vi entra l'uomo qualunque: perpenetrarvi bisogna conoscere le strade segrete che vi conducono,le chiavi che aprono le serrature magiche. Dove mai sitrova? Ma è chiaro, da qualche parte in Brocelianda: perchéè quella la patria delle nostre tradizioni. E' il regno della FataViviana. Nel palazzo in cui essa si aggira, sotto le acque dellostagno di Comper, fu allevato Lancillotto del Lago; ed è appuntonei pressi, alla fontana di Barenton, che Viviana incontròMerlino e si innamorarono l'uno dell'altro.

Lo spirito dei Celti

La strada per arrivare alla sorgente miracolosa non è tantofacile da trovare e molti si sono perduti nel cercarla. Forseè meglio così, e Barenton, lontana dalle grandi vie di comunicazione,accessibile solo a chi si intesta di scoprirla,conserva meglio l'incanto tutto particolare che le viene dallabellezza del luogo e dalla grandezza del suo passato. Unabetulla, una quercia e un abete ombreggiano la superficiedelle sue acque freschissime dove affiorano grosse bolle diazoto. Accanto, la grande pietra piatta e la celebre scalinatadi Merlino: un tempo, aspergendola con l'acqua del luogosi potevano scatenare tempeste e meraviglie. Nel vallonevicino si distinguono ancora le rovine di una cappella e delconvento di Moinet, che prese il posto, si dice, di un santuariodruidico.Per noi Bretoni questo luogo è un simbolo: il simbolo delpotere creativo che è nostro e che più volte ha apportato unsoffio nuovo nella letteratura europea. Questa sorgente nascosta,conosciuta e frequentata solo dagli iniziati, è la nostraquercia di Guernica, emblema della nostra personalità e dellanostra originalità.Quando si è ricevuto fin dall'infanzia il battesimo bretone,questo mondo misterioso diviene vicino e familiare: losentiamo in noi prima di ogni formulazione e, per riprenderele parole di un giovane bardo del nostro tempo, conosciamoper esperienza diretta

le prospettive vertiginosedelle nostre anime senza freni né limiti,delle nostre anime guerce e sbilencheche vivono pienamente solo al di là delle stelle.5

Ma per chi non ha ricevuto l'iniziazione celtica questi sonoorizzonti che danno le vertigini: le leggende di questo libro,raccolte dalla bocca di semplici paesani, consentirannoal lettore di avvicinarvisi un poco. Chi ama le belle storie netroverà qui a sazietà. Ma chi, più ambizioso, vorrà conoscerele vie misteriose in cui ama aggirarsi lo spirito dei Celti, viscoprirà forse il segreto del loro errabondo migrare e le porteche conducono ai loro universi multipli e multiformi.

Gwenc'hlan Le Scouëzec

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L'ANKOU E LA SUA FALCE

LA DONNA CHE PASSÒ LA NOTTEIN UN OSSARIO

ERA LA SERA di una "grande giornata"1 a Guernoter,dove erano riuniti i domestici più importanti di tre oquattro fattorie dei dintorni. La cena era stata abbondantee largamente innaffiata, come è d'uso in tali circostanze.Quando tutti ebbero bevuto e mangiato a volontà,fecero cerchio intorno al focolare: gli uomini acceserole pipe, le donne si sedettero ai filatoi e cominciò unaconversazione generale.Dapprima, inutile dirlo, si parlò degli incidenti dellagiornata, che era stata laboriosa.I contadini di Guernoter, e quelli delle fattorie che eranovenuti ad aiutarli, erano partiti verso le tre del mattinoper Saint-Michel-en-Grève, un viaggio di cinque leghe: unlungo viaggio, quando si tratta di farlo, al ritorno, spingendole carrette cariche fino all'orlo di sabbia umida.Naturalmente si parlò di cavalli: vantarono lo stallonegrigio di Roc'h-Laz, il più robusto cavallo da stanga che cifosse nei dintorni; poi il discorso cadde sulle borgate cheavevano attraversato quel giorno. Tutti convennero che ilmiglior sidro d'osteria si beveva dai Moullek, a Ploumilliau."Sicuro," confermò Maudez Merrien, uno dei "ragazzi""e se me ne dessero da bere solo una dozzina di boccali algiorno, andrei volentieri a sostituire l'Ankou di Ploumilliau2per una settimana o due.""Non scherzate così, Maudez" disse la padrona di casa diGuernoter. "Magari incontrerete l'Ankou più presto di quantolo vogliate."Questa riflessione di Marie Louarn bastò per orientare laconversazione sul soggetto della morte. Una delle fanteschecitò l'esempio di un tale che si era fatto beffe dell'ErvoanicPlouillo e che era stato trovato annegato la sera stessa."Bah, sono tutte storie di donnette" ridacchiò uno dei presenti."I morti sono morti" aggiunse un altro; "un morto nonpuò far nulla contro un vivo.""Eppure," riprese la fantesca "se vi proponessero di passarela notte nell'ossario, non parlereste così forte."Tutti i ragazzi si diedero a protestare in coro.Quando gli uomini hanno un bicchiere colmo sotto il naso,sono pronti a mangiarsi il diavolo con tutte le corna.Sì, a parole! Perché a fatti non sono altrettanto bravi.Lo si vide bene quella sera, a Guernoter.Yvon Louarn, il padrone, aveva bevuto moderatamente,per meglio ubriacare i suoi ospiti. Si era ritirato nell'angolodel camino e di lì ascoltava, piuttosto che parlare.Sentendo i ragazzi che protestavano in quel modo alle paroledella fantesca, intervenne."Ebbene", annunciò, fingendo di parlare molto sul serionon sia mai detto che io mi perda una così bella occasionedi mettere alla prova dei giovanotti in gamba come voi.Domani mattina darò uno scudo di sei franchi a quello fravoi che avrà il coraggio di passare tutta la notte nell'ossario.I ragazzi si guardarono l'un l'altro con dei risolini forzati,fingendo di prender la cosa come un semplice scherzo. Due otre si diressero alla porta, come per soddisfare un bisogno urgente."Andiamo!" insisté Yvon Louarn "fatevi sotto! Ho dettouno scudo di sei franchi. Uno scudo di sei franchi da guadagnarein una sola notte! Non si trova spesso una simile cuccagna.

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Chi si decide?"Nessuno si decideva. Tutti cercavano una scappatoia. Efu Maudez Merrien che la trovò per primo."Io accetterei la scommessa" disse "se la giornata non fossestata così lunga e così dura. Ma questa sera, mio caro YvonLouarn, non darei neppure per venti scudi di sei franchi ilmio letto di loppa d'avena nella scuderia del Mezou-Meur."E con questo si alzò.Gli altri assentirono alle sue parole e si prepararono a imitareil suo esempio.Il padrone di Guernoter stava certamente per lanciargliqualche frecciata quando dal gruppo delle donne si levò unavocetta chiara:"Padrone," diceva la vocina "dareste anche a me, come auno dei ragazzi, dareste anche a me i sei franchi, se facessiquello che loro non osano fare?"Colei che aveva fatto la domanda era una ragazzina ditredici o quattordici anni, ma così gracilina, così minuta chenon ne dimostrava nemmeno dieci. La chiamavano Mônik,nient'altro. Non aveva nessun cognome, perché non avevamai saputo di avere genitori. Era una "figlia dell'avventura".L'avevano raccolta alla fattoria, per pietà; e l'avevano fattalavorare come guardiana delle vacche. Per salario aveva soloil cibo e i vestiti. Di solito non alzava mai la voce alle veglie,dove la mettevano a dipanare il filo che le altre fantescheavevano filato. Faceva il suo lavoro tenendosi da parte, in silenzio:tutt'al più la sentivano mormorare qualche preghiera,sempre lavorando, perché era molto devota, con l'animasempre volta alle cose della religione.Grande fu la sorpresa di Marie la fattoressa quando sentìMônik parlare così a sproposito."Ma sentite un po' questa smorfiosa!" esclamò "Hannoben ragione di dire che l'avidità di denaro è la perdita delleanime! Ecco una disgraziata che per sei franchi si farebbe anchedannare, se la si lasciasse fare!... Non hai vergogna, piccolastracciona che non sei altro?""Credetemi, padrona, che se guadagnerò quel denaro nonne farò cattivo uso" rispose umilmente la piccola guardianadi vacche."Ne farai l'uso che vorrai" disse il fattore "purché lo guadagni.Non mi dispiace vedere una ragazzetta come te accogliereuna sfida davanti alla quale gli uomini si ritirano. Soltanto,noi ti accompagneremo fino all'ossario, chiuderemo laporta dietro dite e ne uscirai solo domani mattina all'alba,quando verremo ad aprirti."E così fu fatto, malgrado le proteste indignate di MarieLouarn.L'ossario era pieno di ossa. Ma appena Mônik entrò tuttele ossa si ritirarono contro il muro, ammucchiandosi le unesulle altre per farle un posto dove potesse stendersi durantela notte, come nel suo letto.Mônik cominciò col mettersi in ginocchio, invocò la protezionedelle anime dei defunti poi si coricò senza alcun timoresul terreno umido, che aveva odore di morte.Appena si fu distesa, un torpore delizioso invase le suemembra e una musica dolce, lontana cominciò ad aleggiareintorno a lei, come per cullarla.La fanciulla non si ricordava più di essere in un ossario.Era altrove, ma non sapeva dove, in un paese tutto azzurro,tutto azzurro. Non distingueva niente. Cercava di aprire gliocchi per vedere, ma le sue palpebre erano pesanti come sefossero state di piombo.Così dormì tutta la notte, di un sonno soprannaturale.All'alba fu tutta stupita di trovarsi nell'ossario. La porta

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era aperta e il fattore di Guernoter diceva alla ragazzina:"Ecco lo scudo di sei franchi, Mônik. E' tuo: l'hai ben guadagnato.""Vi ringrazio, padrone," rispose la fanciulla.E si diresse alla chiesa con la sua moneta d'argento. Il curatoera nel confessionale: Mônik vi andò, gli raccontò ciò che avevafatto e gli consegnò la moneta, pregandolo di dire una messaper l'anima del purgatorio che ne aveva più bisogno."Forse" aggiunse "sarà uno dei miei genitori sconosciutiche ne trarrà beneficio. Per questo ho sempre sognato, daquando ho l'uso della ragione, di avere qualche soldo. Leanime dei defunti lo sapevano. Ecco perché mi hanno protettola notte scorsa.""Ebbene," disse il curato dandole l'assoluzione "sarai subitoaccontentata. La messa che ora dirò sarà la tua."Mônik vi assistette devotamente e partecipò alla comunione.Finita la messa, mentre si apprestava, con l'anima leggera,a incamminarsi per Guernoter, incontrò sotto il porticatoun uomo coi capelli bianchi: sembrava vecchio come la terrae tuttavia aveva il corpo diritto e il passo fermo.Si rivolse alla fanciulla con una profonda riverenza:"Signorina, vorreste portare questo biglietto a Kersaliou?""Ma certo, venerabile signore" rispose la fanciulla, prendendoil biglietto che l'uomo le tendeva.Il vecchio ebbe un sorriso così buono, le disse grazie convoce così gentile che Mônik credeva ancora di vedere quelsorriso e di sentire quella voce mentre si incamminava versoKersaliou, e mai aveva avuto nel cuore una gioia così dolce."Che bell'aspetto aveva!" continuava a pensare.Kersaliou è un nobile maniero dal quale dipendeva, primadella rivoluzione, la fattoria di Guernoter. Vi conduce unviale bordato di grandi faggi. Quando la piccola guardianadi vacche vi si inoltrò, le foglie dei faggi si misero a stormire,a stormire e quasi a cantare, come se ogni foglia fosse un uccellino."Non so perché," diceva Mônik fra sé "ma mi sembra cheoggi stia per succedermi qualche cosa di straordinariamentefelice. Ho come il presentimento che l'incontro col vecchiomi porterà fortuna."Stava entrando nel cortile di Kersaliou quando si trovòfaccia a faccia col signore del castello.La fanciulla lo salutò cortesemente."Dove vai così sola, piccola mia?" chiese il castellano."Vengo da voi, signore di Kersaliou.""E che cosa vieni a fare da me?""Vengo a portarvi questo biglietto che mi hanno consegnatoper voi."Raccontò l'avventura che le era toccata sotto il porticodella chiesa, e come il vecchio le fosse sembrato bello, malgradola sua età."Lo riconosceresti, se ti facessi vedere il suo ritratto?" chieseil gentiluomo, che a leggere il biglietto era improvvisamenteimpallidito."Certo che lo riconoscerei.""E allora vieni."La condusse al castello e la fece passare per tutte le sale.Benché Kersaliou avesse perso molto del suo antico splendore,gli appartamenti avevano conservato un aspetto sontuoso.Ai muri, in grandi cornici dorate, erano appesi i ritratti diillustri personaggi della casata di Kersaliou.L'attuale signore condusse Mônik dall'uno all'altro.

Davanti a ciascuno, le domandava:"E' lui?""No," rispondeva lei "non è ancora questo."E così sfilarono davanti a tutti. Mônik aveva un bel guardare

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con attenzione: in nessun ritratto riconosceva l'imponentee venerabile figura del vecchio incontrato sotto ilportico.Il signore di Kersaliou restò un attimo in silenzio, conespressione pensosa e delusa.D'improvviso si picchiò la fronte."Seguimi al granaio!" ordinò alla ragazzina.Quel granaio era pieno zeppo di una quantità di cose deitempi passati. C'erano dei vecchi drappi a brandelli, statuemutilate, quadri crivellati di buchi. Il Gentiluomo si diede afrugare fra quei quadri. E via via che li tirava fuori da quelmucchio di cianfrusaglie li passava a Mônik, la quale li spolveravacol rovescio del grembiule."Eccolo!" esclamò a un tratto la fanciulla.Aveva riconosciuto i lineamenti del vecchio, benché il colorefosse un po' stinto."Bene," disse il signore di Kersaliou "ora scendiamo nelmio studio."E là aprì un grosso libro in cui erano scritti tutti i nomi deimembri della famiglia; e dopo averlo consultato:"Mia cara Mônik", disse "ascoltami. Il vecchio che hai incontratosotto il portico era il trisavolo di mio nonno. Emorto da più di trecento anni. Da trecento anni languiva nellefiamme del purgatorio per mancanza di una messa. E questamessa, bisognava che la pagasse spontaneamente un povero,coi suoi pochi soldi. E proprio quello che hai fatto tu.come testimonia il biglietto che mi hai consegnato e che èscritto appunto con la scrittura del defunto. Grazie a te, ilmio antenato della sesta generazione è stato salvato. E mi in-carica di compensarti in un modo degno di lui e di me. D'orain poi non lavorerai più in nessun altro luogo se non nellamia casa. Ti prometto che sarai trattata con ogni riguardo.Dimmi soltanto se consenti a ciò che ti propongo."La povera piccola guardiana di vacche era così lontanadall'aspettarsi una tale fortuna, che restò come inchiodata sulposto, incapace di proferire una parola.Ma il signore di Kersaliou indovinò facilmente che a renderlacosì muta erano proprio la sorpresa e la gioia.Da quel giorno in poi Mônik visse al castello. E vi trovòla felicità; come diceva Yvon Louarn di Guernoter, quelloscudo di sei franchi se l'era ben guadagnato.

LE LAVANDAIE DELLA NOTTE1

I BRETONI SONO FIGLI del peccato, come tutti, ma amanoi loro morti; hanno pietà di quelli che bruciano nellefiamme del purgatorio e cercano di riscattarli dalfuoco purificatore. Ogni domenica dopo la messa preganoper le loro anime, là sulla terra dove imputridiscono iloro poveri corpi.E' soprattutto nel mese nero2 che fanno il loro dovere dicristiani. Quando arriva la messaggera dell'inverno3ognuno pensa a quelli che si sono presentati alla giustiziadi Dio: fanno dire delle messe all'altare dei morti, gli accendonocandele, li raccomandano ai santi migliori, vannocoi bambini per mano sulle loro pietre tombali; e dopoi vespri il curato esce dalla chiesa per benedirne le fosse.Quella è appunto la notte in cui Cristo dà loro qualchesollievo e gli permette di tornare a visitare i focolari dovehanno vissuto. Allora i morti sono così numerosi nelle casedei vivi come le foglie ingiallite sui sentieri del bosco.Ecco perché i veri cristiani lasciano la tovaglia sulla tavolae il fuoco acceso, perché essi possano mangiare la loro cena

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e scaldarsi le membra intirizzite al freddo dei cimiteri.Ma se ci sono dei sinceri adoratori della Vergine e disuo Figlio, ci sono anche dei figli dell'angelo nero4 che di-menticano proprio quelli che una volta erano più vicini al lorocuore. Wilherm Postik era uno di questi. Suo padre avevaabbandonato questo mondo senza aver ricevuto l'assoluzionee, come dice il proverbio, "Kadiou è sempre figlio di suopadre".5 E così si era occupato soltanto di piaceri proibiti,ballava durante il divino uffizio del rosario, quando poteva,e trincava durante la messa con i gardinn6 mercanti di cavalli.Tuttavia Dio non aveva mancato di mandargli degli avvertimenti.Aveva visto morire nello stesso anno, colpitedalla mala aria,7 la madre, le sorelle e la moglie; ma si eraconsolato della scomparsa delle prime godendosi la loro eredità,e quanto a Katel, aveva detto come tutti i vedovi:

Poiché non ne ho più una tutta mia,ho a mia disposizione tutte le altre.8

E così aveva fatto.Il curato l'aveva ben ammonito durante la predica accusandolodi essere la pietra dello scandalo per tutta la parrocchia;ma questo pubblico ammonimento, ben lungi dal correggereWilherm, aveva avuto solo il risultato di farlo rinunciarealla chiesa, come era facile prevedere, perché non si fatornare un cavallo scappato facendo fischiare la frusta:9 e cosìil giovanotto si dava bel tempo più che mai, senza aver piùfede o legge di una volpe della boscaglia.Ora avvenne che i bei giorni estivi volsero alla fine e arrivòla festa dei morti. Tutti i cristiani battezzati misero i loroabiti da lutto e si recarono in chiesa a pregare per i defunti; eWilherm invece si mise gli abiti della festa e prese la via delborgo vicino, dove si riunivano marinai senza religione e ragazzesenza onore.In questo luogo malfamato passò tutto il tempo che gli altridedicavano a pregare per le anime in pena, bevendo vinodi fuoco, giocando ai dadi coi marinai e cantando alle ragazzedelle canzoncine composte dai mugnai. Continuò così fincirca la metà della notte, e pensò a ritornare solo quando glialtri si sentirono stanchi di peccare. Quanto a lui, aveva uncorpo di ferro per il piacere, e lasciò l'osteria per ultimo, nonmeno fresco e tranquillo di quando vi era entrato.Aveva però il cuore caldo di vino. Cantava ad alta voceper le vie certe canzoni che i più audaci canticchiano di solitoa bassa voce; passava davanti alle croci senza abbassare iltono e senza levarsi il cappello e colpiva a destra e a manca iciuffi di ginestre col bastone, senza temere di ferire le animeche quel giorno riempivano le strade.Arrivò così a un crocicchio dove si aprivano due vie checonducevano al suo villaggio. La più lunga era sotto la protezionedi Dio, mentre la più breve era frequentata dai morti.Molti, percorrendola di notte, avevano sentito rumori e avevanovisto cose di cui si parlava solo quando si era in tanti, emolto vicini alla pila dell'acqua santa: ma Wilherm non avevapaura che della sete e delle ragazze brutte. Prese dunquela via più breve, facendo risuonare i suoi stivali sui ciottolidel sentiero.Era una notte senza luna né stelle; le foglie correvano viaportate dal vento, i ruscelli colavano tristemente lungo i fianchidella collina, i cespugli tremavano come un uomo che hapaura; e in quel silenzio i passi di Wilherm riecheggiavanonella notte come i passi di un gigante; ma niente lo spaventava,e lui continuava a camminare.Passando accanto al vecchio castello in rovina sentì la

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banderuola che gli diceva:"Ritorna, ritorna, ritorna!"Ma egli continuò il suo cammino. Arrivò davanti alla cascatae l'acqua mormorò:"Non passare, non passare, non passare!"Tuttavia Wilherm posò il piede sulle pietre levigate daltorrente e lo attraversò. Quando arrivò vicino a una vecchiaquercia tarlata, il vento che soffiava fra i rami ripeté:"Resta qui, resta qui, resta qui!"Ma Wilherm passando colpì col bastone l'albero morto eaffrettò il passo.Infine entrò nel vallone visitato dalle anime dei morti. Atre parrocchie suonò la mezzanotte. Wilherm si mise a fischiettarel'aria di Marionnik.10 Ma nel momento in cui fischiettavail quarto verso sentì il rumore di una carretta nonferrata11 e la vide venire verso di lui, coperta da un drappomortuario.Wilherm riconobbe la carretta della Morte. Era tirata dasei cavalli neri e guidata dall'Ankou,12 che aveva in manouna frusta di ferro e ripeteva continuamente:"Gira via o io ti rigiro!"Wilherm gli fece posto, senza scomporsi."Che fai tu dunque qui, signore di Ker-Gwen?13" chiesesfrontatamente."Io prendo e sorprendo" gli rispose l'Ankou."Sei dunque un ladro e un traditore?" continuò Wilherm."Io sono colui che colpisce senza sguardo e senza riguardo.""Vale a dire uno stupido e un brutale. Allora non mi stupiscopiù, bello mio, che tu sia dei quattro vescovadi, perchési può applicarti tutto il proverbio.14 Ma dove vai oggi, chehai tanta fretta?""Vado a prendere Wilherm Postik" rispose il fantasma,passando oltre.

L'allegro gaudente scoppiò a ridere e affrettò il passo.Come arrivò davanti alla piccola siepe di prugni selvaticiche conduce al lavatoio, vide due donne bianche che stendevanoi panni sui cespugli.

"Perbacco, ecco delle ragazze che non hanno paura dell'umiditàdella notte" disse. "Come mai siete rimaste fino a cosìtardi nel prato, mie piccole colombe?""Noi laviamo, noi asciughiamo, noi cuciamo" risposero ledue donne a una voce."E che cosa?" domandò il giovanotto."Il sudario del morto che parla e cammina ancora.""Un morto? Perbacco! Mi direte il suo nome.""Wilherm Postik."Il giovanotto rise più forte di prima e scese per il sentierosassoso.Ma via via che avanzava sentiva sempre più distintamentei colpi delle lavandaie notturne sulle pietre della douez:15 eben presto le vide battere i loro lenzuoli funebri cantando iltriste ritornello:

Se un cristiano non viene a salvarcifino al Giudizio dovremo lavare.Al chiar di luna, al soffiare del vento,sotto la neve, il sudario bianco.16

Quando videro l'allegro gaudente venire verso di loro,accorsero tutte con grandi grida, presentandogli i loro lenzuolie dicendogli di torcerli per farne uscire l'acqua."Un piccolo favore non si rifiuta agli amici" rispose allegramente

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Wilherm; "ma una alla volta, belle mie, un uomoha solo due mani per torcere come per abbracciare."Depose il bastone e prese l'estremità del lenzuolo funebreche una delle morte gli presentava, avendo però cura ditorcere dalla stessa parte di lei, perché aveva appreso daisuoi vecchi che quello era il solo modo di non restareschiacciato.Mentre il lenzuolo girava così, ecco però altre lavandaiecircondare Wilherm, che riconobbe in esse sua zia e sua moglie,sua madre e le sue sorelle. E tutte gridavano:"Mille sventure a chi lascia i suoi bruciare all'inferno! Millesventure!"E scuotevano le lunghe chiome, alzando in aria le loro palettebianche; e in tutte le douéz della valle, lungo tutte le siepi,sopra tutte le lande innumerevoli voci ripetevano:"Mille sventure! Mille sventure!"Wilherm, fuori di sé, sentì drizzarsi i capelli sulla testa;nel suo turbamento scordò la precauzione presa fino a quelmomento e cominciò a torcere il lenzuolo dall'altro lato. Inquello stesso istante il lenzuolo gli serrò le mani come unamorsa, e il giovane cadde schiacciato dalle braccia di ferrodella lavandaia.All'alba, mentre passava presso la douéz, una fanciulla diHenvik, chiamata Fantik ar Fur, si fermò per mettere un ramettodi agrifoglio nella sua brocca di latte appena munto17 escorse Wilherm steso sulle pietre bianche. Credette che iltroppo vino lo avesse fatto cadere e si avvicinò con un virgultodi giunco per svegliarlo; ma vedendo che restava immobilesi impaurì e corse al villaggio per avvertire. Accorseroil curato, il campanaro e il notaio, che era il sindaco delpaese; il cadavere fu sollevato e collocato su un carretto tiratoda buoi; ma le candele benedette che vollero accendere sispegnevano continuamente e così tutti capirono che WilhermPostik era ormai dannato. Per cui il suo corpo fu depostofuori del cimitero, sotto la soglia di pietra, là dove si devonofermare i cani e i miscredenti.

KATEL GOLLET

I

ORA, QUESTO AVVENNE prima che Artù di Bretagnafosse battuto da Giovanni senza Cuore e senzaTerra. Il conte Moriss negli anni della vecchiaiaviveva ritirato dal mondo nel suo castello di La Roche,1con una giovane nipote, bella come la luce del sole, che sichiamava Katel. Ma se Katel era bella, si dice che fosseancor più pericolosa, non solo per la seducente leggiadriadella sua persona, ma soprattutto per la malvagità dellasua anima. Il vecchio conte insisteva perché Katel si maritasse,pensando che una leggiadra fanciulla di sedici anni,seducente e leggera come l'ala di un'allodola, era troppodifficile da custodire per un tutore di sessant'anni, cheaveva conosciuto soltanto la guerra. Sfortunatamente Katelnon intendeva affatto accorciarsi la gioventù col matrimonio.Amava alla follia le feste e i piaceri: la danzaera la sua vita. Non pensava che a danzare, e alle insistentisollecitazioni del conte Moriss rispondeva:"Quando troverò un bel cavaliere capace di danzarecon me per dodici ore, gli concederò il mio cuore e la miamano."Questa risposta fu divulgata a suon di tromba in tuttele parrocchie del Léon, e ben presto un gran numero di

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giovani signori ricchi e di bell'aspetto vennero a vedere labella fanciulla bruna e a presentare la loro domanda di matrimonio.Katel dava appuntamento a quelli che le piacevanoper tale o tale sagra della stagione. In quel tempo, le bellesagre non erano rare nel paese. Si danzava tutto il giorno, espesso per metà della notte. La leggiadra silfide volava, quasisenza sfiorare l'erba, senza riposarsi mai, per così dire; equando aveva preso per mano un giovane cavaliere, se quellosi lasciava trascinare in balia della maliarda era perduto,perché lei lo affascinava, lo stregava a tal punto che l'imprudente,posseduto dall'incantevole demonio, danzava, saltava,girava, finché spesso morte ne seguiva...Così la damigella aveva provocato molti lutti nei castellivicini. La pubblica indignazione, le grida di vendetta che leistessa poteva ascoltare avrebbero dovuto avvertirla che anchela sua ultima ora era prossima. Ma il suo cuore era duroe lei non voleva cambiare.Di fronte a ciò, il signore di La Roche proibì a Katel diandare ai balli e la chiuse nella torre, dicendole che dovevarestar-vi fino al giorno in cui si sarebbe decisa a sposare unodei suoi numerosi pretendenti. Ora, Katel aveva un paggio,più basso del levriero di suo zio e nero come un cervo. Unmattino, prima dell'alba, lo chiamò e gli disse:"Dorme, il vecchio Moriss; ma Salaùn veglia per Katel.Monta a cavallo: le guardie ti lasceranno passare. Prepara lascala flessibile che hai fatto per me e porta questo messaggioal castello di Ploudiry."Un'ora dopo, ai piedi della torre, sotto la finestra da cuipendeva una scala di corda, un bel giovane e la bruna prigionierasalivano sullo stesso corsiero... E ben presto, per levie ancora buie della grande foresta, il guardaboschi udì unrapido galoppo, e il nano geloso, restato solo ai piedi deltorrione, ridacchiava dicendo: "Oggi è la sagra della SantaMartire; Salaùn, la campana a morto suonerà per te stasera!..."

II

Vedendoli arrivare così alla sagra della Santa Martire,tutti rimasero stupiti e ammirati, tanto erano entrambi giovanie belli. Katel, più radiosa che mai, presentò Salaùn comesuo fidanzato a tutta la compagnia."Sì," mormorava la gente "fidanzato della danza che inebriae che uccide!"Poco dopo cominciò il ballo. Avevano chiamato i più valentisuonatori di Cornovaglia. Si era riunita una bella e numerosacompagnia, per opera di Katel che prima della sagraaveva mandato in giro molti messaggi per aver più testimonidel suo nuovo trionfo. In principio si mostrò più calma delsolito: dolcemente appoggiata al braccio del fidanzato, si degnavaappena di concedergli un po' di respiro facendo qualcheballo con altri. Poi, a metà della festa, ci fu uno splendidobanchetto. I liquori scorrevano in abbondanza: e versosera si accesero una quantità di torce tutt'attorno, sotto igrandi alberi. E ricominciarono i balli; gavotta, jabadao, farandola,ridda e passapiede, tutti si succedevano senza treguané riposo..."Ancora, ancora" ripeteva Katel radiosa, danzando conSalaùn; "saresti stanco per caso?""No, no, mai quando sono con te" diceva il giovane, affascinato.E la leggiadra coppia scivolava più rapida in mezzo aglialtri ballerini, che si fermavano per guardarli... Tuttavia Katelsi accorse ben presto che il suo cavaliere stava cedendo."Coraggio" gli disse; "ancora qualche giro e Katel è tua."L'insensato, benché allo stremo delle forze, si lanciò ancora

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una volta nel turbine che lo trascinava suo malgrado. Infinei suoi piedi si fecero pesanti, la sua respirazione divennefaticosa, irregolare e poi ansimante come un rantolo."Pietà, pietà!" mormorò. "O Katel, o mia adorata... non tiho... conquistata?"La crudele, quando udì questo lamento, lo abbandonò el'infelice, lasciato solo, si accasciò nell'erba fiorita. Nello stessoistante dalla torre suonò la mezzanotte. Le torce (torce funebri)impallidirono, poi si spensero una a una... E lì accanto,nell'ombra, ridacchiava il nano nero...

III

"Digià!" esclamò Katel gettando uno sguardo sprezzantesu Salaùn svenuto e sui suonatori estenuati "già stanchi percosì poco!... Per l'inferno! Chi mi darà ballerini e musicantidegni di me?"A questa orribile imprecazione un grande lampadario formatodalle luci sfolgoranti si dondolò sotto le grandi querce,il cui fogliame arrossato stormiva, scosso da una brezza difuoco. Due figure, due fantasmi, comparvero d'improvvisoin mezzo al cerchio degli spettatori, che già si preparavano afuggire e rimasero invece inchiodati dal terrore. Uno deglistranieri, vestito di rosso sotto un mantello nero, portavasotto braccio un'enorme cornamusa, la cui canna d'aria eraformata da una testa di serpente. L'altro, di alta e bella figura,vestito di nero con un mantello rosso, portava sulla testaun pennacchio di piume d'avvoltoio, che ricadendogli sullafronte nascondeva il fuoco del suo sguardo.D'improvviso la cornamusa, gonfiata da un soffio formidabile,fece sentire dei suoni che atterrirono tutti i presenti:tutti, fuorché la bruna danzatrice, perché il suonatore rossosuonava un trescone sconosciuto, irresistibile... E il cavalieredal cappello piumato venne e afferrò fra le sue braccia nervoseKatel, che pareva aspettarlo e invitarlo con lo sguardoardente.Allora sotto la volta splendente si scatenò una gavottasfrenata. Pochi ballerini ebbero il coraggio di prendervi parte,malgrado il vino e l'idromele che circolavano senza sosta.Ben presto tutti si fermarono, gravati da una strana fatica:ma Katel, fiera e felice, volava come una figlia dell'aria esembrava sfidare il suo cavaliere... E la musica continuava,sempre più stridente, il trescone infernale sempre più rapido,più affannoso... e il nano nero ghignava sempre più...

IV

Quanto tempo durò l'orribile danza?... Nessuno saprebbedirlo. Katel cominciava a dare qualche segno di stanchezza.Passando guardava non senza paura le fauci spalancate delserpente, che vomitavano una vera musica di dannati, interminabilecome i supplizi dell'inferno... Tuttavia cercava ancoradi batter la terra coi suoi piedi impazienti e si lasciavatrascinare in questo turbine di piacere e di ebbrezza... Benpresto le sembrò che il candelabro abbagliante ruotasse soprala sua testa: si sentì invadere da un terrore indicibile e feceinutili sforzi per sfuggire alla stretta crudele di colui che latrascinava con mano di ferro."Andiamo, andiamo, bella," gridava lo spietato ballerino"il prato è più liscio, la luce più bella, la musica più inebriante!"E Katel, ansimando, a queste parole raccolse le sue ultimeforze. Balzò ancora una volta, come una cerva ferita, in unvolteggio fantastico. D'improvviso il cavaliere nero disparve,e Katel non sentendosi più sostenuta dal braccio fatale Che

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l'aveva spezzata, cadde a sua Volta rantolando, vinta, morente,abbandonata...E le pesanti nubi nere, urtandosi al di sopra della funebreforesta, lanciavano ogni tanto sulla volta di fogliame scie difuoco rosso e di livido Zolfo. Il rombo lontano dei tuoni coprìle ultime note della cornamusa. Torrenti di pioggia si riversaronosui pendii; la grandine crepitava senza sosta sullerocce delle colline... La folla intanto si era allontanata, presada un indicibile terrore, da questo teatro d'orgia e di morte.Poi vi fu un tuono più forte degli altri: gli elementi si placarono,i rumori tacquero, le luci si spensero. E un lugubre silenzioregnò sotto la volta buia dei boschi...Il giorno dopo, all'alba, si potevano vedere, stesi l'uno afianco dell'altro, sull'erba calpestata della radura, due corpiinanimati: tutti e due giovani e belli, avevano sul volto il palloredella morte. Un orribile nano nero li contemplava ghignando.Erano i nostri due fidanzati: Salaùn e Katel... Katel,chiamata ormai Gollet nel ricordo popolare: Gollet, ossiaperduta o dannata, a causa del suo amore sfrenato per il piaceree per la danza!...Un po' più in là, nel punto in cui stava il terribile suonatore,l'erba arrossata e la terra bruciata portavano la stranaimpronta di piedi larghi e biforcuti...E fra le rovine del vecchio castello di La Roche-Morvan sisente ancora talvolta, nel mezzo delle notti più buie, lo sghignazzaresatanico del nano nero.

LA STORIA DI MARIE-JOB KERGUÉNOU

MARIE-JOB KERGUÉNOU era una merciaiola ambulantedell'Ile-Grande, in bretone Enès-Veur,IVI. sulla costa di Trégor. Una volta alla settimana,il giovedì, si recava a Lannion per il mercato, con una carrettamezzo sgangherata, tirata da un povero ronzino.Quanto ai finimenti, più miserabili ancora della bestia,erano lisi e consumati fino a mostrare la corda. Era un miracoloche la vecchia e il suo carretto non fossero rimastiventi volte incagliati sulla strada ciottolosa, piena di fossefangose e di scogli, che durante la bassa marea collega l'isolaal continente. Tanto più che Marie-Job si trovava atraversare questo passaggio sempre di notte, poiché partivaal mattino molto prima dell'alba e non rientrava checon la luna, quando c'era. Ed era pure un miracolo chenon avesse mai fatto qualche brutto incontro, perché allafin fine nei paraggi di Pleumeur e di Trébeurden non mancavanocerto vagabondi, e le mercanzie che di solito riempivanola carretta potevano ben essere una tentazione perindividui poco scrupolosi, che andavano in cerca dei relittigettati dalle onde sulla spiaggia solo perché non avevanoniente di meglio da arraffare.Talvolta qualcuno le chiedeva:"Ma non hai paura, Marie-Job, a viaggiare in questo modo,di notte, tutta sola per le strade?"E lei rispondeva:"Al contrario, sono gli altri che hanno paura di me. Dalrumore che fa la mia carretta credono che sia quella dell'Ankou."Ed è vero che nell'oscurità, in fede mia!, ci si poteva anchesbagliare, tanto l'assale scricchiolava e la ferraglia tintinnavae il cavallo stesso aveva l'aria di una bestia dell'altromondo. E poi, se dobbiam dire proprio tutto, c'era ancheun'altra ragione, che la vecchia Marie-Job non confessava:nel paese si diceva che fosse un po' strega. La vecchia sapevadei "segreti": e i furfanti del posto, anche i più audaci, preferivano

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tenersi rispettosamente a distanza piuttosto che esporsiai suoi malefizi.Una notte tuttavia le capitò un'avventura.

Si era d'inverno, verso la fine di dicembre. Fin dall'iniziodella settimana faceva un gelo che spaccava le pietre delletombe. Benché abituata alle peggiori intemperie, Marie-Jobaveva dichiarato che, se il freddo continuava così intenso,non sarebbe certamente andata al mercato di Lannion, nontanto per risparmiare la propria persona quanto per riguardoverso Mogis, il suo cavallo, il quale era, diceva la vecchia,tutta la sua famiglia. Ma ecco che al mercoledì sera, all'oradell'Angelus, si vide entrare in casa la sua migliore cliente,Glauda Goff, la tabaccaia."E' vera la voce che corre, Marie-Job, che non avete intenzionedi andare al mercato domani?""Ma pensate un po', Glauda Goff! Con che coscienza potreimetter fuori Mogis con un tempo come questo, cheneanche i gabbiani hanno il coraggio di mostrare il becco?""Con tutto questo, ve ne prego per amor mio. Sapete cheavete sempre guadagnato bene con me, Marie-Job... Di grazia,non mi dite di no. La mia provvista di tabacco da masticareè quasi finita. Se non riesco a rinnovarla per domenica,che cosa risponderò ai tagliapietre quando all'uscita dallamessa bassa verranno tutti a comprarsi il tabacco da ciccareper la settimana?"Bisogna dire che l'Enès-Veur è l'isola dei tagliapietre: ce nesono per lo meno da tre a quattrocento, che scalpellano laroccia per farne pietra da taglio, e non sono sempre gente pacifica,tanto più che in mezzo a loro c'è una quantità di Normanni,almeno tanti quanti sono i Bretoni. CertamenteGlauda Goff non si tormentava senza ragione, perché eragente capace di mettere a sacco la sua bottega se lo spaccio ditabacco, che era il solo dell'isola, non gli forniva quel che glioccorreva. E Marie-Job se ne rendeva ben conto. Era lei cheogni giovedì aveva l'incarico di andare a prelevare il tabaccoagli uffici dell'appalto; e in verità le dispiaceva molto che lasua comare, la domenica successiva, rischiasse di ricevere deirimbrotti e magari dei maltrattamenti. Ma dall'altra partec'era Mogis, il povero caro Mogis!... E poi aveva come unpresentimento che anche per lei fosse meglio non partire.Una voce di dentro le diceva: "Non cambiare idea: avevi decisodi restare, e resta!"Tuttavia l'altra continuava a pregare. Così Marie-Job, cheera brusca di modi, ma aveva un cuore sensibile, finì per rispondere:"E va bene, avrete il vostro tabacco."E si diresse senza indugio verso la stalla per far la toilette aMogis, come faceva alla vigilia di ogni viaggio.Il giorno dopo, all'ora della bassa marea, la vecchia lasciòl'isola nel suo solito arnese, con le sue manopole rossicce allemani e la mantella di grosso bigello sulle spalle, gridandoa Mogis, a cui il vento di tramontana pungeva le orec-chie come le punte di mille aghi. Né la vecchia donna né ilvecchio cavallo si sentivano in gamba quel giorno. Tuttaviaarrivarono a Lannion senza inconvenienti. Alla locanda doveMarie-Job si fermava, e che portava l'insegna dell'Ancorad'argento, proprio sulla banchina, l'ostessa, quando la videricomparire dopo che aveva sbrigato tutte le sue commissioni,le disse:"Gesù Maria! Almeno non penserete a ripartire! Non sapeteche diventerete un pezzo di ghiaccio prima di arrivareall'Isola-Grande?"E insistette per trattenerla a dormire quella notte. Ma lavecchia fu irremovibile:

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"Come sono venuta così ritornerò. Datemi soltanto unatazza di caffè ben caldo e un bicchierino di gloria."E tuttavia si vedeva che non aveva il suo aspetto dellegiornate buone. Al momento di congedarsi dall'ostessa dell'Ancorad'argento le disse con voce triste:"Ho idea che il ritorno sarà duro. Mi sento nell'orecchiosinistro qualche cosa che suona male..."Ma questo non le impedì di frustare Mogis e di rimettersiin viaggio, nel crepuscolo precoce di dicembre che stava calando,dopo essersi fatta il segno della croce, come una veracristiana che sa bene che bisogna sempre aver Dio dalla propriaparte. Fin dopo Pleumeur tutto andò bene, tranne che ilfreddo diventava sempre più terribile e Marie-Job, sul suo sedilefra i pacchi e pacchetti che riempivano la carretta, sentivaintirizzirsi il corpo e l'anima. Per cercar di tenersi svegliatirò fuori il rosario, e tenendo le briglie con una mano cominciòa sgranarlo con l'altra. Per esser più sicura di resistereal sonno, recitava le diecine del rosario a voce alta. Ma ilsuono stesso della sua voce finì per cullarla come una canzone,a tal punto che, malgrado i suoi sforzi, un bel momentosi trovò, se non addormentata, almeno mezzo stordita. D'untratto, attraverso il torpore, ebbe la sensazione che accadessequalcosa di insolito. Si sfregò gli occhi, concentrò le idee econstatò che la carretta si era fermata."Ebbene? Mogis?" borbottò.Mogis agitò le sue orecchie a punta, ma non si mosse.Marie-Job lo sfiorò con la frusta: continuò a restare immobile.Allora lo picchiò col manico. Il povero ronzino inarcòla groppa sotto i colpi ma non avanzò d'un passo. Si vedevanoi suoi fianchi ansare come il mantice di una fucina edue nuvole di fumo biancastro uscire dalle sue froge nellanotte gelata, perché era già notte fonda e le stelle brillavanotutte azzurre nel firmamento."Ecco qualcosa di nuovo" pensò Marie-Job Kerguénou.Mogis, in quasi diciassette anni che vivevano insieme, comediceva lei, si era sempre mostrato una bestia esemplare,sempre sottomessa alla volontà della padrona. Che cosa loprendeva dunque quella sera all'improvviso, quando avevatutte le ragioni per affrettarsi verso il caldo della sua stalla,come lei, Marie-Job, verso il caldo del suo letto? Non senzaborbottare, si decise infine a scendere dal sedile per saperlo.Si aspettava di trovare qualche ostacolo, magari un ubriacosdraiato attraverso la strada. Ma ebbe un bel guardare e frugarenell'ombra davanti alla carretta (si trovavano nel puntoin cui la strada scende verso Trovern, per proseguire poi attraversola spiaggia ciottolosa): non vide niente di straordinario.La strada si perdeva, deserta, fra le dune che proiettavanoqua e là l'ombra delle loro querce spoglie."Avanti, Mogis!" fece la vecchia, a mo' di incoraggiamento.E prese il cavallo per le briglie. Il cavallo soffiò rumorosamente,scosse la testa e si inarcò sulle zampe davanti, rifiutandodi fare un sol passo.Allora Marie-Job comprese che doveva esserci qualcheostacolo soprannaturale. Vi ho detto che era anche un po'strega. Un'altra al suo posto sarebbe rimasta terrorizzata.Ma lei, che conosceva i gesti che si devono fare e le paroleche si devono dire secondo le circostanze, disegnò una crocesulla strada col manico della frusta, dicendo:"Con questa croce che traccio sulla strada, ordino alla cosao alla persona che è qui, e che io non vedo, di dichiararese viene da parte di Dio o da parte del diavolo."Non appena ebbe pronunciato queste parole udì una vocerispondere dal fondo del fosso:"E' ciò che porto sulle spalle che impedisce al tuo cavallo

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di passare."La donna marciò coraggiosamente, con la frusta al collo,verso il punto da dove veniva la voce. E vide un ometto vecchissimo,proprio vecchissimo, che stava accovacciato nell'erba,come sfinito dalla fatica. Aveva l'aria così stanca, cosìtriste, così miserabile che ne ebbe pietà."A che pensate dunque, babbo mio, che restate là seduto,in una notte simile, col rischio di morire?""Aspetto" fece il vecchio "che un'anima misericordiosa miaiuti a rialzarmi.""Chiunque voi siate, corpo o spirito, cristiano o pagano,non sarà mai detto che vi sia mancato l'aiuto di Marie-JobKerguénou" mormorò la buona donna chinandosi versoquell'infelice.Col suo aiuto il vecchio riuscì a rimettersi in piedi, ma lasua schiena restava curva, come sotto il peso di un invisibilefardello.Marie-Job chiese:"Dove portate mai quel carico che ha il potere di spaventaregli animali?"E il vecchio rispose con voce lamentosa:"I vostri occhi non possono vederlo, ma le froge del vostrocavallo l'hanno fiutato. Gli animali spesso ne sanno piùdegli uomini. Il vostro ormai non proseguirà il suo camminose non quando non mi sentirà più né davanti né dietro di sésulla strada.""Ma non vorrete mica che io resti qui ad vitam eternam!Io ho bisogno di tornare all'Ile-Grande. Poiché vi ho reso unservizio, datemi a vostra volta un consiglio: che cosa devofare ancora?""Io non ho il diritto di domandare nulla: sta a voi fareun'offerta."Per la prima volta forse in tutta la sua vita Marie-Job Kerguénoula merciaiola restò un attimo imbarazzata."Né davanti né dietro di lui sulla strada" pensava. "Checosa mai posso fare?"A un tratto esclamò:"Una volta salito sulla mia carretta, non sarete più sullastrada. Suvvia, salite.""Dio vi benedica" disse il vecchietto. "Avete indovinato."E si trascinò tutto curvo verso la carretta, dove si issò congran fatica, benché Marie-Job lo spingesse con tutt'e due le mani.Quando si lasciò cadere sull'unico sedile, si sarebbe dettoche l'assale s'incurvasse e vi fu un colpo sordo, come un rumoredi assi urtate. La buona donna si installò alla meglio accantoa quello strano compagno di viaggio, e Mogis senza indugiopartì al trotto, con un ardore che non era nelle sue abitudini,neppure quando cominciava a sentire l'odore della stalla."Allora, andate anche voi all'ile-Grande?" chiese Marie-Job dopo qualche istante, solo per rompere il silenzio."Sì" rispose brevemente il vecchio, che non sembravamolto incline alla conversazione e restava tutto piegato indue, senza dubbio sotto il peso del misterioso fardello chenessuno vedeva."Non ricordo di avervi mai incontrato.""Oh, no, eravate troppo giovane quando sono partito.""E arrivate da lontano, a quanto pare?""Da molto lontano."Marie-Job non osò chiedere di più. D'altronde si stava addentrandonella striscia costiera e doveva fare molta attenzionea causa delle pozze di fango e dei macigni di pietra nerasparsi lungo la cattiva pista che serviva di strada. A questoriguardo, la merciaiola si accorse ben presto che le ruote dellacarretta affondavano nella sabbia più del solito.

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"Cristo santo!" borbottò fra i denti "bisogna proprio chesiamo terribilmente carichi."E poiché aveva ritirato ben poche commissioni in città, ed'altra parte il vecchio, tutto rattrappito, non doveva pesarepiù di un ragazzino, si doveva per forza pensare che quell'eccessodi peso fosse dovuto al fardello che diceva di portare.La cosa dava piuttosto da pensare alla buona donna, e forseanche allo stesso Mogis, il quale, malgrado lo slancio iniziale,cominciava a rallentare e inciampava quasi a ogni passo.Quando infine raggiunse la terra di Enès-Veur, era inondatodi sudore.Come certo sapete, in quel punto si staccano due vie: unagira a destra verso la chiesa parrocchiale del Redentore, l'altrafila diritta fino al villaggio dove Marie-Job Kerguénouaveva la sua "residenza". E poiché Mogis si fermò spontaneamente,senza dubbio per riprender fiato, lei ne approfittò perdire al suo muto compagno, dal quale aveva più che maifretta di separarsi:"Eccomi all'isola, buon vecchio: Dio vi accompagni per lavostra via.""Sia!" gemette il vecchio.E cercò di alzarsi, ma ricadde subito sul sedile, se non contutto il suo peso, almeno con tutto il peso della cosa sconosciuta.E di nuovo l'assale si piegò; di nuovo si sentì il rumoredelle assi urtate."Non ci riuscirò mai!" sospirò il povero vecchio, con unaccento così doloroso che Marie-Job ne fu commossa fino alleviscere."Andiamo," disse "benché io non capisca niente del vostromodo di fare, e benché abbia tanta fretta di arrivare a casa,se c'è ancora qualche cosa che posso fare per voi, parlate.""Ebbene," rispose il vecchio "portatemi fino al cimiterodella chiesa del Redentore."Al cimitero! A quell'ora!... Marie-Job fu sul punto di rispondereche con tutta la buona volontà non poteva far questoper lui: ma Mogis non gliene lasciò il tempo. Come seavesse sentito la frase del povero vecchio, voltò subito a destra,per la via della chiesa del Redentore. Marie-Job non sapevapiù cosa pensare. Quando arrivarono vicino al recintodei morti, il cancello, contrariamente al solito, era aperto. Lostrano pellegrino ebbe un moto di soddisfazione."Come vedete, sono atteso" disse. "In verità, non è neppuretroppo presto."E ritrovando un vigore che nessuno avrebbe supposto inlui, balzò quasi leggermente a terra."Tanto meglio, dunque" disse Marie-Job, preparandosi aprender congedo.Ma non era ancora arrivata alla fine della sua avventura,perché non appena aggiunse, come si conviene: "Arrivedercialla prossima volta" il vecchietto replicò:"Niente affatto, prego!... Poiché mi avete accompagnatofin qui, non siete più liberi di andarvene prima che io abbiaportato a termine il mio compito; altrimenti, il peso che portoio lo avrete voi sulle spalle in avvenire... Ve lo consiglionel vostro interesse e perché siete stata pietosa verso di me:scendete e seguitemi."Marie-Job Kerguénou, come ho già detto, non era unapersona facile da intimidire; ma dal tono con cui il vecchioaveva pronunciato quelle parole capi che la cosa più ragionevoleda farsi era obbedire. Mise dunque piede a terra, dopoaver abbandonato le briglie sulla groppa di Mogis."Ecco," riprese l'altro "ho bisogno di sapere dove è sepoltol'ultimo morto della famiglia dei Pasquiou.""E tutto qui?" fece lei. "C'ero anch'io al funerale. Venite."

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Si mosse, orientandosi in mezzo alle tombe e alle lastre dipietra grigia, strette l'una accanto all'altra, chiaramente visibilial chiarore delle stelle. E quando ebbe trovato quella cheil vecchio cercava:"Eccola! La croce è tutta nuova. Dev'esserci sopra il nomedi Jeanne-Yvonne Pasquiou, maritata Squérent... quanto ame, i miei genitori dimenticarono di insegnarmi a leggere.""E io, da tanto tempo l'ho disimparato" rispose il vecchietto."Ma vediamo un po' se non vi siete sbagliata."Così dicendo si inginocchiò, con la testa in avanti, ai piedialla tomba. E allora accadde una cosa spaventosa, una cosaincredibile... La pietra si sollevò, ruotando su uno dei suoilati come il coperchio di un forziere, e Marie-Job Kerguénousentì sul viso il soffio freddo della morte, mentre da sottoterrasi udiva un suono sordo, come il rumore di una bara cheurtasse il fondo della fossa. Livida di spavento, mormorò:

"Douè da bardon'an anaon (Dio perdoni ai defunti)."

"In un solo momento avete liberato due anime" disse vicinoa lei la voce del suo compagno di viaggio.Ora era ritto in piedi, e completamente trasformato. Ilvecchietto curvo aveva raddrizzato la schiena e appariva dicolpo più alto. La merciaiola poté infine vederlo in faccia... Ilnaso mancava: le occhiaie erano vuote."Non abbiate paura, Marie-Job Kerguénou" disse. "Io sonoMathias Carvennec, di cui certamente avete sentito parla-re in passato da vostro padre, perché siamo stati compagnidi gioventù. Infatti anche lui, insieme agli altri ragazzi dell'isola,venne ad accompagnarci, Patrice Pasquiou e me, quandofummo estratti a sorte per fare il servizio militare: e ci accompagnaronofino al punto della costa dove voi poco fa miavete incontrato. Era ai tempi di Napoleone il Vecchio. Fummomandati in guerra tutti e due, nello stesso reggimento.Patrice fu colpito da una pallottola, al mio fianco; la sera, all'ospedale,mi disse: "Io sto per morire: ecco qui tutto il miodenaro; fa' in modo che mi seppelliscano in un posto facileda riconoscere, in modo che tu, se sopravvivi, possa riportarele mie ossa all'Ile-Grande e farle deporre accanto alle ossadei miei padri, nella terra del mio paese." Mi lasciava unasomma considerevole, almeno duecento scudi. Io pagai perchélo mettessero in una fossa a parte; ma molti mesi dopo,quando ci dissero che la guerra era finita e che saremmo staticongedati, la mia gioia fu così grande che dimenticai la preghieradi Patrice Pasquiou; malgrado il mio giuramento, tornaia casa senza di lui. E poiché nel frattempo i miei genitoriavevano lasciato l'Ile-Grande per prendere una fattoria a Loquemau,io li raggiunsi là. E là presi moglie e allevai i mieifigli, e là infine morii, quindici anni fa. Ma appena fui discesonella tomba dovetti subito rialzarmi: finché non avessi pagatoil mio debito verso il mio amico, non avrei avuto dirittoal riposo. Ho dovuto andare a cercare Pasquiou; e sonoquindici anni che cammino, viaggiando dal tramonto del soleal canto del gallo, e facendo all'indietro, nelle notti pari, lametà più la metà della metà del cammino percorso in avantinelle notti dispari. La bara di Patrice Pasquiou, sulle miespalle, pesava con tutto il peso dell'intero albero che avevafornito le assi. Quel suono di legno urtato che avete sentitoogni tanto era prodotto appunto dalla sua bara. E senza lavostra bontà, e quella del vostro cavallo, ne avrei avuto an-cora per più di un anno, prima di arrivare alla fine della miapenitenza. Ora il mio tempo è compiuto (ma amzer zo paruachu).Dio vi compenserà fra poco, Marie-Job Kerguénou.Tornate a casa in pace, e domani mettete in ordine tutte le

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vostre cose. Perché questo viaggio sarà l'ultimo che farete,voi e il vostro Mogis. A presto, nelle Gioie (ebars er Joaio)!"Il vecchio aveva appena pronunciato queste parole che lamerciaiola si trovò sola fra le tombe. Il morto era scomparso.All'orologio della chiesa suonava la mezzanotte. La poveradonna si senti raggelare tutta; si affrettò a risalire sullasua carretta e infine arrivò a casa. Il giorno dopo, quandoGlauda Goff venne a prendere in consegna il suo tabacco,trovò Marie-Job a letto."Come! siete malata?" le chiese con premura."Dite piuttosto che sono arrivata alla mia passione" le risposeMarie-Job Kerguénou. "Ed è per causa vostra. Ma ioho vissuto abbastanza e non rimpiango nulla. Abbiate soltantola bontà di mandarmi un prete."Morì quello stesso giorno, Dio le perdoni! E dopo che fusepolta, bisognò seppellire anche Mogis: era completamentefreddo, quando andarono a vedere nella stalla.

L'ANIMA VISTA SOTTO LA FORMADI UN SORCIO BIANCO

BENCHE' LUDO GAREL non fosse che un domestico,non era tuttavia il primo venuto. Aveva continuamentelo spirito occupato da una quantità di cose acui l'uomo volgare generalmente non pensa. Le sue continuemeditazioni lo avevano portato molto lontano. Luistesso ammetteva di possedere a fondo, o press'a poco,tutto ciò che è dato a un uomo di conoscere."Tuttavia," aggiungeva "c'e ancora un punto che miconfonde e sul quale non ho alcun chiarimento: è la separazionedell'anima dal corpo. Quando avrò chiarito questopunto non mi resterà più nulla da imparare."Il suo padrone, uno degli ultimi signori della nobile casatadel Quinquiz, aveva grande fiducia in lui, conoscendolocome uomo d'onore e saggio consigliere.Un bel giorno se lo fece venire nel suo gabinetto."Mio povero Ludo," gli disse "oggi non mi sento perniente bene. Credo di star covando una qualche bruttamalattia, e ho il presentimento che non me la caverò. Sealmeno i miei affari fossero in regola!... Questo maledettoprocesso che ho a Rennes è un tormento per me. Sonoquasi due anni che si trascina. Se almeno, prima di morire,lo vedessi terminato a mio favore, me ne andrei colcuore più leggero. Io ti considero un ragazzo in gamba, LudoGarel. D'altra parte - e tu me l'hai provato - non c'è servizioche tu non sia pronto a rendermi. E allora ti domandoquesto, che sarà forse l'ultimo. Domani mattina, allo spuntardell'alba, ti metterai in viaggio per Rennes. Farai visita a ciascunodei giudici e gli chiederai di pronunciarsi al più presto,o per me o contro di me. Tu sei un buon parlatore: contoche troverai il modo di disporli in mio favore. Quanto a me,io vado a mettermi a letto. Piaccia a Dio di non chiamarmi aSé prima che tu sia di ritorno."Prima di congedarsi, Ludo cercò per quanto poteva difar coraggio al suo padrone, che vedeva così abbattuto."Pensate solo a guarire, signor conte. Non siete ancoramaturo per l'Ankou. Fate in modo che io vi ritrovi in buonasalute. Io mi incarico di tutto il resto, in fede mia!"Passò tutto il pomeriggio a fare i preparativi di viaggio e aruminare fra sé i discorsi che avrebbe tenuto ai giudici.Al calar della notte si coricò, per potersi svegliare di buon'ora.Dormì male: mille idee, mille progetti incoerenti si inseguivanonella sua testa.

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D'un tratto gli sembrò di sentire il canto del gallo."Ehi, ehi!" si disse. "Già spunta l'alba. E tempo di partire."E Ludo Garel si mise in cammino.Si era nel cuore dell'inverno e Ludo ci vedeva appena queltanto da poter camminare. Dopo un'ora o un'ora e mezzo diviaggio si trovò ai piedi di un muro che gli sbarrava la via.Proseguì costeggiandolo e arrivò davanti a una scala di pietra,di cui salì i gradini. Era la scala di un cimitero."Hum!" pensò Ludo, vedendosi circondato di tombe e dicroci, "fortuna che l'ora malefica dev'essere passata da moltotempo."Non aveva finito di formulare fra sé queste parole chescorse un'ombra levarsi da terra e dirigersi verso di lui dauno dei viali laterali. Quando fu più vicina, Ludo si avvideche si trattava di un giovane di aspetto distinto, vestito di finepanno nero.Ludo gli augurò il buongiorno."Buongiorno" rispose il giovane. "Vi siete messo in viaggiodi buon'ora.""Io non so di preciso che ora può essere, ma il gallo cantavaquando sono partito.""Sì, il gallo bianco!1" replicò il giovane. "Da che parte andate?""Vado verso Rennes.""Anch'io. Se volete, possiamo fare un pezzo di strada insieme.""Non chiedo di meglio."Lo sguardo e il tono del giovane ispiravano fiducia. LudoGarel, sulle prime un po' inquieto, fu ben presto felicissimodi averlo per compagno, tanto più che l'alba tardava terribilmentea spuntare. Cammin facendo conversavano fra loro.E a poco a poco Ludo divenne espansivo. Mise lo sconosciutodel cimitero al corrente di tutto ciò che lo riguardava, dellamalattia misteriosa del suo signore, dei cattivi presentimentiche gli aveva espresso il giorno prima e del motivo percui il conte lo aveva incaricato di intraprendere quel viaggio.Lo sconosciuto ascoltava, ma non diceva quasi nulla.A un certo punto, da una vicina fattoria si sentì squillareil canto del gallo."Perbacco," esclamò Ludo "sta per spuntare l'alba.""Non ancora," fece il giovanotto "il gallo che ha cantato èil gallo grigio."In realtà il tempo passava e la notte restava sempre egualmentenera.I due giovani continuarono a camminare. Ma poiché Ludoaveva vuotato il sacco delle sue confidenze e lo sconosciu-to non sembrava disposto a confidargli i suoi affari, la conversazionelanguiva e finì per cessare del tutto.Quando non si parla, di giorno ci si annoia: di notte si hapaura.Ludo Garel cominciò a studiare il suo compagno con lacoda dell'occhio e a trovare i suoi modi piuttosto singolari.Invocava con tutte le sue forze la luce dell'alba.Infine un terzo gallo cantò."Ah!" fece Ludo con un sospiro di sollievo "questa voltaalmeno è il gallo buono!""Sicuro," rispose l'altro "questa volta è il gallo rosso. Oral'alba sta per imbiancare il cielo. Ma, come vedete, voi l'avevateanticipata di parecchio. Era appena mezzanotte quandosiete entrato nel cimitero dove mi avete incontrato.""E' possibile" fece Ludo a voce bassa."Un'altra volta cercate di stare più attento all'ora. Se nonvi avessi accompagnato fino a questo momento, vi sarebbecapitata più d'una brutta avventura.""Grazie mille, in questo caso" fece Ludo umilmente."Ma non è tutto. Vi devo dire che è inutile per voi continuare

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il cammino. Il processo del vostro padrone è stato decisogià ieri sera e i giudici si sono pronunciati in suo favore.Tornate dunque da lui, per annunciargli la buona notizia.""Gesù Maria! Tanto meglio, in verità. Il signor conte guariràdi colpo.""No, al contrario: morirà. A questo proposito, Ludo Garel,vi sarà consentito di vedere la separazione dell'anima dalcorpo. una cosa, lo so, che voi desiderate vedere da moltotempo.""Ve l'ho detto io?!" esclamò Ludo, che si domandava, unpo' tardi, se non avesse chiacchierato troppo durante il cammino."No, voi non me l'avete detto. Ma colui che mi ha man-dato in vostro soccorso vi conosce meglio di quanto vi conosciatevoi stesso.""E potrò vedere la separazione dell'anima dal corpo?""La vedrete. Il vostro padrone spirerà fra poco, verso ledieci e mezzo. Poiché tutti crederanno che siate andato fino aRennes e ne siate tornato (perché voi non parlerete a nessunodel nostro incontro), insisteranno perché andiate a riposarvi.Ma voi rifiutate di andare a letto. Restate al capezzale delconte e tenete gli occhi fissi sul suo viso. Quando sarà morto,vedrete la sua anima uscire dalle sue labbra sotto forma diun sorcio bianco. Questo sorcio sparirà immediatamente inqualche buco. Voi non ve ne preoccuperete affatto. Tuttavianon lascerete a nessuno la cura di andare a cercare la crocefunebre alla chiesa del villaggio. Andrete voi stesso. Arrivatosotto il portico della chiesa, aspetterete che il sorcio bianco viraggiunga. Non entrate in chiesa prima di lui. Limitatevisemplicemente a seguirlo. E' essenziale. Se seguirete a puntinole mie raccomandazioni, saprete prima di questa sera ciò chebramate tanto conoscere. E ora, Ludo Garel, addio!"Al che lo strano personaggio svanì in un vapore leggero,che ben presto si confuse coi vapori che salivano dal suoloumido nel giorno nascente.Ludo Garel se ne tornò al Quinquiz."Dio sia lodato!" disse il signore, vedendo entrare il suodomestico. "Avevi ragione, fedele servitore, di affrettarti. Iosono agli estremi. Se avessi tardato una mezz'ora, non avrestitrovato che un cadavere. Come è andato il processo aRennes?""Avete vinto la causa.""Te ne sono molto grato, amico mio. Grazie a te, possomorire tranquillo."Questa volta Ludo Garel non cercò di confortare il padronecon parole di speranza. Sapeva che il destino si devecompiere. Andò tristemente a sedersi al capezzale del morente,in modo però da non perdere mai di vista il viso del signore.La sala era piena di gente in lacrime. La contessa preseLudo per un braccio e gli disse all'orecchio:"Voi siete sfinito di fatica. Non mancano qui anime buoneper vegliare il mio povero marito. Andate a dormire.""Il mio dovere" rispose il giovane "è di restare al capezzaledel mio signore fino all'ultimo momento."E restò là, malgrado le insistenze di tutti.Suonarono le dieci. Come aveva predetto lo sconosciuto,il signore del Quinquiz entrò in agonia. Una vecchia intonòle preghiere, i presenti risposero. Ludo Garel unì la sua vocea quelle degli altri, ma il suo pensiero non era rivolto allepreghiere che borbottava: era tutto teso verso ciò che sarebbeaccaduto nei prossimi secondi, al momento della separazionedell'anima dal corpo.Il conte tuttavia cominciava a dondolare la testa a destrae a sinistra sul guanciale. Sentiva arrivare la morte, ma nonsapeva da quale lato.

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D'un tratto si irrigidì. La morte lo aveva toccato.Emise un lungo sospiro e Ludo vide la sua anima esalaredalla sua bocca sotto forma di un sorcio bianco.L'uomo del cimitero aveva detto il vero.Il sorcio d'altronde non fece che apparire e sparire.La vecchia che aveva cominciato le preghiere intonò il Deprofundis. Ludo approfittò dell'emozione causata dalla finedel conte per eclissarsi e corse per un sentiero nascosto fino alvillaggio. Al Quinquiz non era ancora stato dato l'ordine diandare a prendere la croce funebre, che si trovava già sotto ilportico della parrocchia. Il sorcio bianco vi arrivò quasi nellostesso tempo del giovane, che lo lasciò entrare per primonella chiesa. L'animaletto cominciò a trottare a passettini rapidie minuti, e Ludo coi suoi lunghi passi non faceva fatica aseguirlo. Per tre volte, sempre sulle tracce del sorcio, fece ilgiro della chiesa. Terminato il terzo giro, il sorcio uscì dinuovo attraverso il portico: e Ludo si precipitò sulle sue tracce,tenendo stretta al petto la croce funebre che aveva afferratopassando. I sonagli della croce tintinnavano, e il sorciocorreva, correva. Così il sorcio, la croce e Ludo che la portavapercorsero insieme tutti i campi del Quinquiz. L'animalettobianco saltava sopra ogni barriera, come il signore aveval'abitudine di fare quand'era vivo, poi costeggiò i quattrofossati.Finito il giro dei campi, il sorcio riprese la via del castello.Arrivato nell'aia, si incamminò verso un edificio isolato dovesi conservavano gli attrezzi agricoli. Su tutti posò la sua zampa.2Aratri, vanghe, zappe, a tutti disse addio.Di là ritornò nella casa.Ludo lo vide arrampicarsi sul cadavere e lasciarsi chiuderecon esso nella bara.I preti vennero a prendere il defunto. Cantarono la messafunebre, calarono la bara nella fossa. Ma appena il celebranteebbe asperso la bara di acqua benedetta, non appena i parentivi ebbero gettato le prime manciate di terra, Ludo nevide uscire di nuovo il sorcio bianco.Il giovane sconosciuto gli aveva espressamente raccomandatodi seguirlo fino alla fine, per sassi e rovi, crepacci e pantani.Così Ludo piantò il funerale e ricominciò a pellegrinaredietro il sorcio.Attraversarono boschi, varcarono paludi, scalarono fossati,3passarono per villaggi finché giunsero in una vasta landa,in mezzo alla quale si levava il tronco mezzo seccato diun albero. Era così vecchio, così scorticato che non si sarebbepotuto dire se era un faggio o un castagno. L'interno eracavo. E veramente, stava ritto solo per miracolo. Inoltre lasua magra corteccia era spaccata dall'alto fino in basso. Ilsorcio si infilò in una delle spaccature e Ludo vide subito apparirenel cavo dell'albero il signore del Quinquiz."O mio povero padrone," esclamò con le mani giunte "chefate voi qui?""Ogni uomo, mio caro Ludo, deve fare la sua penitenzanel luogo che Dio gli assegna.""Posso almeno aiutarvi in qualche modo?""Sì, lo puoi.""E come?""Digiunando per me, per il periodo di un anno e un giorno.Se lo farai, io sarò redento per sempre e la tua salvezzaeterna seguirà ben presto la mia.""Lo farò" rispose Ludo Garel.Mantenne la promessa. Compiuto il digiuno, Ludo Garelmorì.

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LA MORTE INVITATA A PRANZO

QUESTO AVVENNE al tempo che i ricchi non eranotanto arroganti e sapevano usare le loro ricchezzeper dare qualche volta un po' di gioia alla poveragente.In verità, avvenne tanto tanto tempo fa.Laou ar Braz era il più grande proprietario di terre chevivesse a Pleyber-Christ. Quando da lui si uccideva unmaiale o una vacca, era sempre di sabato. Il giorno dopo,domenica, Laou veniva al villaggio per la messamattutina.Terminata la messa, il segretario comunale teneva ilsuo discorso dall'alto della scala del cimitero: leggeva agliabitanti del borgo riuniti sulla piazza le nuove leggi o annunciava,a nome del notaio, le vendite che dovevanoaver luogo nella settimana."Ora ascoltate me!" gridava Laou, quando il segretariocomunale aveva finito coi suoi incartamenti.E, come si suol dire, saliva sulla croce.1"Ecco qua," diceva "il più grosso maiale di Kéresper èmorto per una coltellata. Vi invito alla festa del sanguinaccio(ar gwadigennou). Grandi e piccoli, giovani e vecchi,borghesi e braccianti, venite tutti! La casa è grande: ese non basta la casa c'è il granaio; e se non basta il granaio,c'è pure l'aia dove si trebbia."Figuratevi voi se c'era gente ad ascoltare, quando Laou arBraz compariva sulla croce! Facevano a gara per cogliere leparole dalla sua bocca. Assediavano gli scalini del calvario.Dunque, era una domenica, all'uscita dalla messa. Laoulanciava all'alligrapp (ai quattro venti) il suo invito annuale:"Venite tutti!" ripeteva "venite tutti!"A vedere tutte quelle teste accalcate intorno a lui, si sarebbedetto un gran mucchio di mele, grosse mele rosse, tantaera la gioia che illuminava le facce."Non dimenticate, è per martedì prossimo" insisteva Laou.E tutte le voci gli facevano eco:"Per martedì prossimo!"I morti erano là, sotto terra. La gente calpestava le lorotombe. Ma in quel momento chi ci pensava?Mentre la folla cominciava a disperdersi una voce sottile estridula, una voce fioca interpellò Laou ar Braz:"Me iellou ive? (Posso venire anch'io?)""Che io sia dannato!" esclamò Laou "poiché ho invitatotutti, vuol dire che nessuno sarà escluso."L'allegra prospettiva di un gran banchetto a Kéresper fecesì che molti si ubriacarono quella domenica, parecchi altri siubriacarono ancora il lunedì, per meglio festeggiare il giornodopo la morte del principe.2Fin dal martedì mattina un'interminabile processione simosse verso Kéresper. I più agiati viaggiavano in carri consedili; i mendicanti si incamminavano con le loro grucce perle scorciatoie.Tutti erano già seduti a tavola davanti ai piatti pieniquando si presentò un invitato in ritardo. Aveva l'aria di unmiserabile. La sua veste di vecchia tela, tutta a brandelli, eraincollata alla sua pelle e odorava di putridume.Laou ar Braz, gli venne incontro e gli fece trovare un posto.L'uomo sedette, ma toccava solo con la punta dei denti lepietanze che gli servivano. Si ostinava a tener la testa bassa,e malgrado gli sforzi dei suoi vicini per attaccar discorso conlui, per tutto il pranzo non aprì bocca. Nessuno lo conosceva.Qualcuno dei vecchi trovò che somigliava forse a un taleche aveva conosciuto tanto tempo fa, ma che era morto ormai

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da molti anni.Il pranzo finì. Le donne uscirono per ciarlare fra loro,gli uomini per accendere la pipa. Tutti erano allegri e pienidi gioia.Laou si installò sulla porta del granaio dove era stato allestitoil festino, per ricevere il trugaré, il grazie di ciascuno.Molti degli invitati balbettavano e barcollavano. Laou si fregavale mani. Era contento che la gente partisse da casa suapiena fino all'orlo."Bene," disse "questa sera nei fossi delle strade intorno aKéresper ci saranno delle pisciate grosse come ruscelli."Era pienamente soddisfatto anche lui delle sue cuoche,delle sue botti di sidro e dei suoi convitati.A un tratto si accorse che a tavola c'era ancora qualcuno.Era l'uomo con la veste di vecchia tela."Non occorre che ti affretti" gli disse Laou avvicinandosi."Sei stato l'ultimo ad arrivare: è giusto che tu sia l'ultimo apartire... Ma" aggiunse "tu rischi di addormentarti davanti aun piatto e a un bicchiere vuoti."L'uomo infatti aveva rivoltato il suo piatto e il suo bicchiere.3Sentendo le parole di Laou, sollevò lentamente la testa.E Laou vide che era un teschio.L'uomo si alzò in piedi, scosse i suoi stracci che si sparpagliaronoa terra e Laou vide che a ogni brandello era attaccatoun pezzo di carne imputridita. L'odore che ne usciva, e anchela paura, lo presero alla gola.Trattenendo il fiato per non respirare quel putridume,Laou chiese allo scheletro:"Chi sei e che vuoi da me?"Lo scheletro, che mostrava ormai le sue ossa a nudo come irami di un albero spogliato delle sue foglie, si avanzò fino aLaou e posandogli sulla spalla una mano scarnificata gli disse:"Trugaré, Laou! Quando al cimitero ti ho domandato sepotevo venire anch'io, tu mi hai risposto che nessuno sarebbestato escluso. E' un po' tardi ormai per domandarmi chisono. Io sono quello che chiamano l'Ankou. E poiché sei statogentile con me invitandomi allo stesso titolo degli altri,voglio darti a mia volta una prova di amicizia, avvertendotiche ti restano solo otto giorni per mettere in ordine i tuoi affari.Fra otto giorni ripasserò di qui in carrozza e, che tu siapronto o no, ho l'incarico di portarti con me. Dunque, amartedì prossimo! Il pranzo che ti farò servire non sarà forsesontuoso come il tuo, ma la compagnia sarà ancora più numerosa."Con queste parole l'Ankou disparve.Laou ar Braz passò la settimana a far la divisione dei suoibeni fra i suoi figli; la domenica, all'uscita dalla messa, si confessò;il lunedì si fece portare la comunione dal parroco diPleyber-Chirst e dai suoi due assistenti; il martedì sera spirò.La sua generosità gli aveva meritato di fare una buonamorte.E così sia per ciascuno di noi!

LA VISIONE DI PIERRE LE RUN

AI TEMPI DI CUI vi parlo non erano molti i sarti dicampagna. Spesso venivano a chiamarci da moltolontano. E per di più, per essere proprio sicuridi averci, i clienti dovevano avvertirci diverse settimaneprima.Avevo promesso di andare a lavorare al Minihy, a treleghe da casa mia, in una fattoria che si chiamava Rozvilienn.Mi misi in cammino un pomeriggio di domenica, all'oradei vespri, in modo da arrivare per cena a Rozvilienn.

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Mi avevano prenotato per un'intera settimana e ci tenevoa trovarmi già al lavoro il lunedì mattina."Ah, siete voi, Pierre?" mi disse Catherine Hamon, lamassaia, vedendomi comparire nella sua cucina."Sono io, Catel... Ma non vedo Marco, vostro marito.Forse non è ancora tornato dal villaggio?""Ahimè, non vi è neppure andato... E' già una quindicinadi giorni che è a letto, immobile."E mi mostrava l'alcova chiusa da cortinaggi, presso ilfocolare.Mi avvicinai, e inginocchiandomi sul banc-tossel1,scostai le cortine.Il vecchio Marco era steso là, immobile, col viso scavatodalla malattia. Pensai fra me: "Sembra quasi un teschio."Tuttavia gli feci un sorriso allegro e cominciai a prenderlo ingiro, come è d'uso in simili casi:"Ohilà, Marco, cosa diavolo fai? Ma guarda che posizione,per un uomo della tua età e del tuo temperamento! Lasciarsiabbattere così, tu che sei sempre stato una quercia!"Mi rispose non so cosa: aveva il respiro così oppresso, lavoce così debole che il suono delle sue parole non arrivòneanche al mio orecchio."Come l'avete trovato, Pierre?" mi domandò Caterinaquando ebbi preso il mio posto a tavola, fra gli uomini dellafattoria."Beh," dissi "certo non sta bene, ma con un corpo robustocome il suo ci sono sempre delle risorse."Non volevo dire tutto il mio pensiero per non spaventareCatel. Mentre andavo a dormire pensavo:"E finita!... Non passerà la settimana... In verità, caro ilmio Pierre, non taglierai più brache per il tuo vecchio clientedi Rozvilienn!..."Con questa riflessione malinconica mi infilai fra le lenzuola.A Rozvilienn non mi trattavano come un sarto, ma comeun ospite. Invece di farmi dormire in cucina, o nelle scuderie,come succedeva spesso ai miei colleghi, mi riservavano lapiù bella stanza di tutta la casa. Era una grande camera che,al tempo in cui Rozvilienn era un castello, era servita probabilmentecome salone.Questa stanza comunicava con la cucina per mezzo diuna porta che si apriva nel muro maestro, e aveva un'alta elarga finestra, di quelle di una volta, che dava sulla corte esi apriva quasi dal pavimento al soffitto. Perché questacamera aveva un vero pavimento, un parquet di quercia unpo' sbrecciato, è vero, per mancanza di manutenzione, mache insieme ai resti di antichi affreschi, ancora visibili qua elà sulle pareti, non mancava di dare a tutto l'appartamentouna certa aria di nobiltà. Il letto era a baldacchino e si trovavadì fronte alla finestra.Di solito, quando era suonata l'ora della buonanotte mifermavo un momento sulla soglia della camera e prima dichiudere la porta gridavo con aria d'importanza agli uominidi Rozvilienn, ancora riuniti nella cucina:"Salutate il Marchese di Pon ar veskenn (Ponte del ditale)che va nel suo letto a baldacchino a raggiungere la signoramarchesa."Questa facezia, o altre dello stesso genere, li facevano riderea crepapelle.La mattina, alla prima colazione, con modi assai cerimoniosimi domandavano come avessi passato la notte. E io gliscodellavo le storie più straordinarie: avevo ricevuto la visitadella principessa dai capelli d'oro o della principessa dallamano d'argento. Potete immaginarvi a che commenti si prestavanole mie storie. Vi assicuro che non c'era nessuno che

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rimanesse immusonito.Ma questa volta, lo capite bene, non potevo tirar fuori néprincipesse né marchese. Avevo il cuore straziato pensandoche una di quelle sere mi avrebbero svegliato per andare adassistere il buon Marco nei suoi ultimi momenti.Marco Hamon era veramente un galantuomo: servizievole,leale, un cuore pietoso. Cominciai a enumerare fra metutte le sue buone qualità, e così facendo mi addormentai.Non saprei dire quanto tempo durò il mio sonno. Comunque,mi sembrò d'un tratto di sentir scricchiolare il legnotarlato del pavimento, come se qualcuno traversasse la camera.Aprii gli occhi.La luna si era levata. Era chiaro come in pieno giorno.Girai lo sguardo per tutta la camera. Nessuno!Stavo per infilarmi di nuovo sotto le lenzuola quandocredetti di sentire qualcosa di fresco sulla spalla.Guardai dalla parte della finestra e vidi che era aperta.Pensai che forse avevo dimenticato di chiuderla quando miero coricato. Saltai giù dal letto e avevo la mano su un'impostaquando, là nella corte, a due passi da me, vidi un uomoche andava e veniva, con le braccia dietro la schiena e colpasso indolente di chi sta aspettando e passeggia per ingannarela noia dell'attesa. Era alto, magro, con la testa ombreggiatada un largo cappello.In mezzo al cortile, vicino al pozzo, c'era un carro di grossolanafabbricazione, tirato da due magri cavalli con le crinierecosì lunghe che arrivavano al suolo e si imbrogliavano nellezampe anteriori. I fianchi del carro erano fatti a sbarre, e frauna sbarra e l'altra pendevano in fuori gambe, braccia, e persinoteste, teste umane, gialle, sogghignanti, orrende!Era fin troppo facile indovinare a che macellaio appartenessetutta quella carne.D'altra parte dovete credere che non restai a guardarequello spettacolo più del tempo che ho messo a descriverlo.Lasciando la finestra così com'era, tornai al mio letto acarponi: avevo una paura terribile che l'uomo dal grandecappello mi vedesse o mi sentisse.Una volta raggiunto il letto, mi cacciai ben bene sotto lecoperte, ma ebbi cura di lasciarmi all'altezza degli occhi unospiraglio, attraverso il quale potevo continuare a vedere senz'esserevisto.Per circa una mezz'ora l'uomo dal grande cappello continuòa passare e ripassare nel riquadro della finestra, proiettandoogni volta la sua ombra gigantesca sul pavimento dellacamera.A un tratto, nella mia stessa stanza distinsi di nuovo quelrumore di passi che mi aveva svegliato.Era qualcuno che sbucava dal vano della porta che davaaccesso alla cucina.Somigliava in tutto all'altro, all'uomo del cortile, salvoche era ancora più alto, ancora più magro. La sua testa nonera proporzionata al corpo. Era minuta minuta, e oscillavacosì forte da tutte le parti che si temeva ogni volta di vederlastaccarsi. I suoi occhi non erano occhi, ma due candeline accesein fondo a due grandi buchi neri. Non aveva naso. Lasua bocca rideva di un riso che arrivava fino alle orecchie.Sentivo gocce di sudore freddo imperlarmi le tempie escorrermi giù per il petto, le cosce e le gambe fino ai piedi.Quanto ai miei capelli, erano così rigidi che ancora il giornodopo avrei potuto, credo, usarli come aghi.Ah, non ce ne sono molti che sappiano, come me, cosavuol dire aver paura!Aspettate!... Non è tutto.L'uomo dalla testa svitata passando aveva sfiorato il mio

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letto, ma si era subito allontanato per andare a mettersi disentinella vicino alla finestra. In quel momento un secondopersonaggio entrò dalla cucina. Lo sentii venire prima di vederlo.Faceva un tale rumore! Si sarebbe detto che calzassezoccoli troppo grandi e troppo pesanti per i suoi piedi. Li trascinavasul pavimento, li urtava continuamente l'uno control'altro, inciampava, si riprendeva, insomma faceva un talbaccano che in fede mia! - persuaso che volesse proprio mee preferendo persino la morte all'angoscia che mi attanagliava- gettai via le lenzuola e mi alzai a sedere sul letto.L'uomo dagli zoccoli si fermò immediatamente: era a trepassi dal mio capezzale.Lo riconobbi subito. Era Marco Hamon, il povero caroMarco.Mi gettò uno sguardo disperato, che mi arrivò al cuorecome il freddo di una coltellata. Poi, con un lungo e triste sospiro,mi voltò bruscamente le spalle.E tutto sparì.Le imposte della finestra si richiusero con violenza.Per qualche minuto ancora lungo le mulattiere sassose,lontano, sotto la luna, risuonò il wig-a-wag del carro funebre.Non v'era dubbio possibile: l'Ankou era venuta a portarvia Marco.Non osavo più restar solo nella stanza. Mi rifugiai in cucina.Qui trovai Catel seduta al focolare, mezzo addormentatavicino alla candela di resina che gettava una luce fioca."Come va Marco?" le chiesi.Si fregò gli occhi e mormorò:"Sono rimasta a vegliarlo. Credo che riposi. Non ha avutobisogno di niente.""Vediamo" dissi.Ci affacciammo alle cortine dell'alcova. EffettivamenteMarco Hamon non aveva avuto bisogno di niente. Eramorto. Gli chiusi gli occhi, in cui lessi lo stesso sguardo disperatoche mi aveva gettato poco prima, mentre passavaper la mia stanza.Sono sicuro che Marco Hamon, prima di andarsene, avevachiesto di venire a trovarmi nel mio letto "perché avevaqualche cosa da dirmi". Ebbi il torto di spaventarlo, poichéanch'io ero sconvolto dal terrore. E' il più grande dei miei rimorsi.E ora, potete ben credermi, poiché ho visto l'Ankou cosìcome vedo voi: è una cosa terribile morire!

IL LENZUOLO FUNEBRE DI MARIE-JEANNE

MARIE-JEANNE HÉLARY viveva sola da molti anni,in una casetta sul limitare della spiaggia. Pas-sava il tempo a filare sulla soglia della porta.La sua gioia più grande era vedere la bella tela che lei avevafilato, e che il tessitore del villaggio aveva tessuto, disporsiin bell'ordine sui ripiani del suo armadio.Una sera cadde malata: si mise a letto e non si alzò più.Non aveva altri vicini che i Rojou, padroni di una fattoriasituata a un quarto di lega nell'interno.La povera vecchia dovette morire sola, così come avevavissuto.Il giorno dopo il fattore Gonéri Rojou, che era andatoa prendere alghe sulla spiaggia, si stupì di veder chiusa laporta di Marie-Jeanne."Forse" pensò "sarà andata in pellegrinaggio."E tornando a casa riferì la cosa a sua moglie.Passarono così due giorni.Il terzo giorno la fattoressa Rojou disse al suo uomo:

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"Vado a fare un giro dalle parti di Marie-Jeanne, pervedere se è tornata."Quando arrivò alla casa della vecchia trovò la portaancora chiusa. Le venne l'idea di guardare dalla finestra.E vide allora una cosa molto triste: la metà del corpo di Marie-Jeannependeva fuori dal letto e la sua testa poggiava sulbanc-tossel1.La moglie di Rojou corse senza fiato alla fattoria."Presto, prendi una leva" disse ansando al marito "e seguimi."La leva serviva ad abbattere la porta della casa. L'odoredì morte era soffocante, la carne della vecchia cadeva già indecomposizione. Tuttavia Rojou e sua moglie la tolsero dalletto e la stesero sul tavolo."Comunque, adesso la seppelliamo" disse l'uomo. "Vedi setrovi nell'armadio qualche pezzo di tela pulita, perché le lenzuoladel letto sono sudice e quasi a brandelli."La fattoressa aprì l'armadio, e restò meravigliata: i ripianierano pieni di tela tutta nuova, profumata di lavanda, biancacome la neve e fine al tocco come seta."Oh, che bell'armadiata!" esclamò la donna.E il maligno le suggerì subito all'orecchio una cattivaazione.Sapete certamente quanto le massaie amino la bella biancheriae come si inorgogliscano, a ogni bucato, nel sentirlaschioccare al vento, sull'erba dei prati, e poi nel vederla disporsiin alte pile ordinate sui ripiani degli armadi di quercia. Il sognodella fattoressa Rojou era stato sempre di poter passare lesue giornate, come la vecchia Marie-Jeanne, a filare il fine lino,per vederlo poi trasformarsi in fine tela. Ma la poveretta, ahimè!,aveva troppo da fare in casa sua, col marito e i quattro figlie le bestie che bisogna curare come i cristiani. Da dodici annich'era sposata il suo filatorio oziava in un angolo della cucina,e quanto alla tela, in casa sua non c'erano che tele di ragno.Dunque il maligno le disse all'orecchio:"Massaia Rojou, sei qui sola con tuo marito nella casa delladefunta. Nessuno ancora nei dintorni sa che la vecchia è mor-ta. E nessuno sa di preciso che cosa c'è chiuso in quell'armadio.Chi vuoi che si sorprenda che l'abbiate trovato vuoto!Non vi sarà nessun erede a reclamare, poiché Marie-JeanneHélary viveva sola e raccontava lei stessa di aver perdutotutti i parenti. Quel ch'essa lascia andrà in malora, diventeràpreda dello stato, del governo, che è già da solo più ricco ditutti e che non ha mai fatto nulla per la povera Marie-JeanneHélary. Tu invece ti sei sempre mostrata servizievole con leie stai appunto preparandoti a renderle gli estremi uffizi. Nonè forse giusto che tu ti prenda la tua parte di ciò che resta nellasua casa e di cui ormai lei non può più servirsi?"Così parlava il diavolo, l'eterno tentatore.Lénan Rojou era una buona donna, ma era figlia di suamadre, e sua madre era figlia d'Eva. Così ascoltò il consigliodel demonio."Eh, eh, Gonéri," disse "non sono i lenzuoli che mancano.Qui ce n'è abbastanza da seppellire cento cadaveri. Guardaun po'!"Come sua moglie, Gonéri Rojou rimase estasiato."Se tu volessi," riprese lei "potremmo tenerci tutta questatela salvo quella che occorre per fare un lenzuolo funebre allavecchia Marie-Jeanne.""Dopo tutto," osservò Rojou "perché altri e non noi?""Qui ce n'è abbastanza per fare sei dozzine di bei lenzuoli,altrettante tovaglie per avvolgervi il pane,2 e almeno ottantacamicie da uomo, da donna e da ragazzo. Non credi, Gonéri?""Sì, in fede mia!... Ascolta, tu resti qui a vegliare la vecchia.Io sloggio le pezze di tela e le trasporto a casa nostra.

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Nessuno vedrà né sentirà niente. Te ne lascerò solo una ementre io viaggio tu ci fai il lenzuolo funebre."E Gonéri Rojou partì, carico come un asino.E ancora non sentiva il peso del proprio peccato, cheavrebbe dovuto gravargli sulle spalle più di tutto il resto.Dopo mezz'ora era di ritorno.Il cadavere di Marie-Jeanne Hélary aspettava sempre ilsuo lenzuolo funebre. Lénan Rojou, in ginocchio su una pezzadi tela dispiegata a terra, teneva un paio di forbici nellamano destra, ma non si decideva mai a usarle."Damen!" esclamò Gonéri dalla soglia. "Non mi sembrache tu abbia fatto molti progressi nel lavoro.""Ma vedi!" rispose Lénan "sarebbe proprio un peccato tagliareuna tela così bianca per un povero corpo che sta giàimputridendo. Non pensi che per la vecchia Marie-Jeanne sarebbelo stesso dormire da morta nei lenzuoli in cui dormivada viva?""Forse hai ragione" fece Rojou, il quale, come molti maritiimpegnati nei duri lavori dei campi, lasciava alla moglie lacura di pensare per tutti e due.Convennero dunque che non avrebbero tagliato la pezzadi tela nuova e avrebbero sepolto la vecchia nei suoi vecchilenzuoli.E così fu fatto.La sera stessa suonò la campana a morto alla chiesa delvillaggio. Un falegname portò la bara: Marie-Jeanne Hélaryvi fu deposta mezzo nuda e in gran fretta, perché puzzavaterribilmente. Gonéri Rojou si era assunto tutte le spese di funeralee sepoltura: e in tutto il paese lodarono la sua generosità.La domenica dopo il curato li elogiò dal pulpito, lui e lamoglie, additandoli entrambi come esempio ai parrocchiani,come perfetti figli di Gesù Cristo.I coniugi non si mostrarono per nulla insuperbiti da questielogi. Per il che tutti li ammirarono ancora di più.In fondo, non avevano la coscienza tranquilla. Lénan, daparte sua, faceva tacere facilmente i suoi rimorsi. Le bastavacontemplare la bella tela bianca di Marie-Jeanne Hélary, dispostain ordine nel suo armadio, che fino allora erastato così vuoto. Ma per Gonéri Rojou non era la stessa cosa.il pover'uomo non riusciva più a lavorare di gusto, mangiavacon la punta dei denti e di notte dormiva con un occhiosolo.Una notte che stava così mezzo assopito si drizzò d'untratto a sedere sul letto. Qualcuno bussava alla porta."Chi è?" domandò.Nessuna risposta.Gonéri pensò che si trattasse di qualche ubriaco attardatosiper strada, benché non ci fosse poi un gran passaggio perl'aia della sua fattoria."Chi è?" ripeté una seconda volta e poi una terza.Sempre silenzio."Che io sia dannato!" esclamò il fattore, con voce tantopiù furiosa in quanto soffriva nell'anima, "vi farò ben confessareil vostro nome, che veniate da parte di Dio o da partedel diavolo."Stava per alzarsi, ma non appena affacciò il capo fuori dallecortine del letto sentì drizzarsi i capelli dallo spavento. Laporta di casa era spalancata, eppure era ben sicuro di aver tiratoil catenaccio prima di coricarsi. E questo non era ancoraniente. La tovaglia che avvolgeva il pane sulla tavola della cucinasi apriva, si apriva. Sembrava un lenzuolo respinto a pocoa poco dai piedi di un dormiente che avesse troppo caldo.Poi sulla tovaglia si disegnò la forma rigida di un cadavere. Lapagnotta appena intaccata serviva di cuscino alla testa. E questa

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testa, Gonéri Rojou la vide sollevarsi lentamente.Richiuse gli occhi, ben deciso a non vedere nient'altro.Ma dimenticò di tapparsi le orecchie.E non poté impedirsi di udire un passettino minuto divecchia che trotterellava, trotterellava per tutta la casa.Poi fu il rumore che fanno aprendosi le ante male oliate diun armadio.E poi fu una voce fioca e tremolante che ridacchiava, imitandoper beffa l'esclamazione uscita una volta dalle labbradi Lénan davanti alla tela di Marie-Jeanne Hélary:"Oh, che bell'armadiata! che bell'armadiata!"Gonéri Rojou socchiuse le palpebre. Provava un bisognodi vedere che era più forte della sua volontà d'uomo.La luce della luna, entrando obliquamente dalla porta, ritagliavasul pavimento di terra battuta un quadrato biancoche era in tutto simile a una tela stesa in lungo e in largo. Auna delle estremità era inginocchiata una vecchia, che tenevaun paio di forbici nella mano destra. Gonéri la riconobbe dalprofilo: era Marie-Jeanne, la morta!"Eppure è un peccato," essa diceva continuando a imitareil tono di Lénan "eppure è un peccato tagliare una tela cosìbianca per un povero corpo che sta già imputridendo... Perla vecchia Marie-Jeanne sarebbe lo stesso dormire da mortanei lenzuoli in cui dormiva da viva..."Gonéri Rojou sentì un sudore freddo scorrergli per tutto ilcorpo.La vecchia fece una pausa, poi riprese:"Ebbene, no! no! no! Voglio essere sepolta nel lino che hofilato!"E per tre volte ripeté con insistenza:"Mi occorre il mio lenzuolo! mi occorre il mio lenzuolo!mi occorre il mio lenzuolo!"Detto questo sparì.Per amore di sua moglie Gonéri Rojou non l'aveva svegliata.All'alba lei si svegliò da sola e Gonéri le disse:"Donna, sai tu qual è il primo lavoro che dovrai fare appenaalzata?""Sì, marito mio, andrò a fare qualche bracciata di giunchiverdi per le bestie, poi laverò la faccia ai bambini.""No," fece Gonéri "ti metterai tutta in ordine e cercherai ditrovarti in chiesa nel momento in cui il signor curato riceve leconfessioni: e gli racconterai in confessione il nostro peccato.""Ma pensa un po', Gonéri! Di che ti impicci, di grazia?""E non è tutto" proseguì l'uomo. "Io ti seguirò portandosulle spalle la tela rubata che è là nell'armadio. Non dimenticartidi domandare al curato che cosa ne dobbiamo fare.""Che cosa ne dobbiamo fare?!" replicò la donna, incollerita."Se c'è qualcuno che deve saperlo, quella sono io, e non ilcurato! E tu non ti occupare più di quella tela!""Ho le mie buone ragioni per occuparmene" disse Gonéri."Ne va della tua pace e della mia, in questo mondo e nell'altro."E raccontò alla moglie la sua visione della notte.Lénan allora non fece più obiezioni. Collocò essa stessa ilpacco della tela sulle spalle del marito e lo precedette al villaggio.Arrivata in chiesa, si inginocchiò nel confessionaledel curato, mentre Gonéri col suo carico la aspettava vicinoal fonte battesimale.Quando Lénan gli ebbe confessato tutto, il curato le disse:"Torna questa notte, figlia mia, accompagnata dal tuo uomo.Quanto alla tela, la deporrete in sacrestia, dove io la esorcizzerò.Prima di sera spero di averne fatto uscire l'anima funestache vi si è annidata e che non è altro che il vostro peccato."Lénan e Gonéri se ne tornarono alla fattoria, ma la sera diquel giorno li rivide in preghiera, nella chiesa, col curato.

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Quando suonò la mezzanotte il curato fece segno a Lénan:"Ecco l'ora" le disse. "Prendi in sacrestia le pezze di tela:non stupirti di sentirle leggere come una piuma e vai a stenderleuna per una sulla tomba ancora fresca di Marie-Jeanne.Soprattutto abbi cura di aspettare che una sia scomparsa perstendere l'altra. Noi qui nel frattempo pregheremo, tuo maritoe io. Quando tutto sarà finito verrai a renderci conto e cidirai che cosa avrai visto."Lénan Rojou non era molto tranquilla mentre a mezza-notte andava a compiere questa restituzione nel cimitero dellaparrocchia.E neanche Gonéri Rojou si sentiva tranquillo nel coro dellachiesa, mentre pregava accanto al curato per il felice ritornodella moglie.Si sentì sollevato da un gran peso vedendola ricompariresulla porta della sacrestia, sana e salva.Tuttavia la donna tremava in tutte le membra."Ebbene, Lénan?" chiese il curato."Oh," rispose lei "ho visto cose che nessun altro vedrà.""Spiegati, Lénan.""Dapprima, signor curato, ho steso sulla tomba la primapezza di tela. Subito si è levato un vento e la pezza di tela èvolata via gemendo. Ho steso la seconda. Lo stesso vento si èlevato di nuovo e la seconda pezza di tela è volata via comela prima, ma senza gemere. Ho steso la terza. Questa ha fattoun fruscio leggero come il respiro della primavera attraversole foglie novelle. Poi si è gonfiata come una vela e sen'è andata lontano, lungo la via di San Giacomo3, in fondoal cielo. Allora la terra della tomba si è aperta: e ho vistoMarie-Jeanne Hélary allungata, tutta nuda, nel vano nerodella fossa. Ho spiegato la quarta pezza di tela. Invece di volarvia, la tela è scesa nella terra e la morta vi si è avvoltadentro, facendo: "Brr! Brr!" come chi ha molto freddo. Restavala quinta pezza, l'ultima. Stavo per aprirla e stenderlaquando quattro angeli scesi dal paradiso me l'hanno tolta dimano. Ho sentito una voce melodiosa che diceva "Siete perdonati!"E questo è tutto.""Tanto basta" sentenziò il curato. "Tuo marito e tu, LénanRojou, potete andare in pace. Ricordatevi solo che, se è malerubare ai vivi, è odioso rubare ai morti. Quanto a Marie-Jeanne Hélary, state sicuri che non vi tormenterà più."

LA MADRE CHE PIANGEVA TROPPO SUO FIGLIO

GRIDA LENN aveva un figlio unico, che adorava. Il suosogno era di farne un prete. Per questo lo avevamandato a studiare al piccolo seminario di Pont-Croix. Tutte le domeniche per andarlo a trovare percorrevala strada da Dinéault a Pont-Croix, che misura più diuna decina di leghe. Un giorno che scendeva dalla carrozzaalla porta del collegio la informarono che noëlik (era il nomedi quel figlio tanto amato) era molto malato e il medicodisperava di salvarlo. Grida divenne bianca come un fogliodi carta. Per tre giorni e tre notti vegliò al capezzale del figlio,senza voler prendere cibo. E il ragazzo morì. Gridaportò il cadavere a Dinéault nella sua carrozza, che guidavaella stessa. Gli fece fare nel cimitero una bella tomba dipietra levigata, con una lunga epigrafe scolpita sopra. E daquel momento in poi passò quasi tutto il suo tempo inginocchiatasulla tomba a piangere, singhiozzare e supplicareDio di renderle il figlio, il suo povero caro figlio.I preti della parrocchia cercarono di calmare il suo dolore,ma i loro sforzi riuniti rimasero senza risultato. Avevano

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un bel farle la predica, rimproverarla e dirle che nonrassegnarsi alla morte era come bestemmiare i morti: anulla giovava.In tutto il paese credettero che sarebbe diventata "innocente".1E in realtà talvolta, in mezzo ai singhiozzi, la povera donnasi metteva a cantare, a mormorare le ninnenanne con cuiuna volta addormentava il suo noëlik, quando era piccolo.Infine il curato la prese da parte e le disse:"Ascolta, Grida: non puoi continuare così. Tu reclami agran voce tuo figlio. Ebbene, rispondimi: avresti il coraggiodi sopportare la sua vista, se ti ritrovassi faccia a faccia conlui?""Oh, sì, signor curato," esclamò Grida con gli occhi brillanti"se soltanto poteste ottenere che lo riveda, non fosse cheper un istante!""Cercherò di ottenerlo. Ma a tua volta promettimi che inseguito ti comporterai come una vera cristiana, come unacristiana rassegnata alla volontà di Dio.""Prometto tutto quello che volete."Certo capite che il curato di Dinéault sapeva quello chefaceva.Diede appuntamento alla sua parrocchiana nel cimitero,sulla tomba del giovane seminarista, al primo rintocco dellamezzanotte."Ancora una parola" aggiunse. "Non solo vedrai tuo figlio,ma potrai anche parlargli e lui ti parlerà. Giurami find'ora che farai punto per punto tutto quello che ti chiederà.""Lo giuro per i sette dolori della Vergine Maria."Avanti il primo rintocco della mezzanotte Grida era già sulposto dell'appuntamento. Vi trovò il curato che leggeva nelsuo libro nero, alla luce della luna. Suonò la mezzanotte. Ilprete chiuse il libro, fece il segno della croce e chiamò tre voltenoëlik Lenn. Al terzo appello la tomba si aprì: e apparvenoëlik, ritto in piedi. Era tale e quale era stato da vivo, soloche il suo viso era triste e la sua pelle del colore della terra."Ecco tuo figlio, Grida," disse il curato.Grida nell'attesa si era inginocchiata dietro un ciuffo di ginestreche aveva fatto piantare ai piedi della tomba. Alle paroledel prete si alzò e si diresse verso suo figlio, tendendoglile braccia. Ma il giovane la scostò con un gesto."Madre mia," disse "non dobbiamo più abbracciarci finoal giorno del Giudizio Universale."Si chinò per cogliere un ramo dal ciuffo di ginestre."Qualunque cosa io esiga da voi, avete giurato di sottomettervi.vero, l'ho giurato," rispose Grida."Prendete dunque questo ramo di ginestra e frustatemicon tutte le vostre forze."La povera donna si tirò indietro, soffocata dallo stupore eanche dall'indignazione."Frustarti, io!... Frustare mio figlio, il mio noëlik tantoamato! Ah, no, di grazia! Mai!..."Il morto riprese:"Proprio perché una volta mi avete troppo amato, proprioperché non mi avete mai frustato è necessario che lo facciateora. Solo a questo prezzo sarò salvato.""Se è necessario per la tua salvezza, e sia!" disse Grida Lenn.E cominciò a frustarlo, ma così dolcemente, così pianoche sfiorava appena il cadavere."Più forte, più forte!" gridò il morto.La donna picchiò con più foga."Più forte! Più forte ancora, o io sono perduto, perdutoper sempre!" gridava sempre noëlik.Grida frustò con violenza, con furore. Il sangue sprizzavadal corpo di suo figlio. Ma noëlik gridava sempre:

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"Forza, madre mia! Ancora! Ancora!"Intanto i dodici rintocchi finirono di suonare all'orologiodel campanile."Per questa sera è finita" disse il morto a Grida. "Ma se mivolete bene tornerete domani alla stessa ora."E sparì nella tomba che si richiuse su di lui.Grida tornò a casa, in compagnia del curato. Cammin facendoquesti le chiese:"Non hai osservato nulla di particolare?""Sì" fece lei. "Mi è sembrato che il corpo di noëlik diventassepiù bianco via via che lo frustavo.""E' proprio così" disse il curato.E aggiunse:"Ora che ti ho messo in rapporto con tuo figlio, puoi farea meno del mio ministero. Cerca soltanto di aver la forza diandare fino in fondo."Il giorno dopo Grida Lenn si recò tutta sola alla tomba delgiovane seminarista. Le cose si svolsero esattamente come ilgiorno prima, salvo che la madre non si fece più pregare perfrustare suo figlio, e frustò, frustò fino allo stremo delle forze."Non è ancora abbastanza" disse noëlik quando suonòl'ultimo rintocco della mezzanotte. "Bisogna che torniate unaterza volta."E la donna tornò."Soprattutto, madre mia," supplicò il giovane "questa voltafrustatemi con tutto il cuore e con tutte le forze."La donna si mise a picchiare con tanto accanimento che ilsudore le scorreva dal corpo come una pioggia torrenziale eil sangue zampillava dal corpo di noëlik come l'acqua zampillada un annaffiatoio.Alla fine, sentendo che il braccio le si irrigidiva e il fiato lemancava, ella gridò:"Non ne posso più, povero figlio mio, non ne posso più!""Sì, sì, ancora! Madre mia, vi scongiuro!" diceva la vocedi suo figlio, con un tale accento d'angoscia che Grida ritrovòun poco di energia.Malgrado le tempie che le rombavano, malgrado le gambeche le si piegavano, la donna fece uno sforzo supremo.Ma dopo un attimo crollò a terra.Grazie a Dio, il suo ultimo sforzo era bastato.Riversa sull'erba del cimitero, vide il corpo di suo figlio,divenuto bianco come la neve, innalzarsi dolcemente nel cielo,come una colomba che prende il volo.Quando fu a una certa altezza sopra di lei, le disse:"Madre mia, amandomi troppo quand'ero vivo, piangendomitroppo dopo la mia morte voi avete ritardato la miasalvezza eterna. Perché io fossi salvato, bisognava che voistessa faceste uscire dal mio corpo tante gocce di sanguequante lacrime avevate versato su di me. Ormai, siamo pari.Grazie!"Con queste parole svanì nell'aria.Da quella notte in poi Grida Lenn cessò di piangere. Avevacapito che suo figlio stava meglio là dov'era di quantonon sarebbe mai stato su questa terra.

IL CORPO SENZ'ANIMA

C'ERANO UN TEMPO tre fratelli che non avevano neancheil pane: e poiché non trovavano lavoro nel loropaese, partirono insieme per andarlo a cercare altrove.Andarono lontano lontano e arrivarono a una grandeforesta, dove tagliarono della legna per fare un falò.Quando fu fatto e acceso, si accordarono per passare

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la notte a turno vicino al fuoco, in modo che non si spegnesse.Il maggiore si incaricò di far la guardia la primanotte.E un po' prima della mezzanotte vide arrivare unometto, che gli disse:"Che fai tu là?""Guardo il mio fuoco" rispose."Fai bene attenzione," disse il nano "perché a mezzanotteil corpo senz'anima verrà a spegnerlo. Ma non averpaura di lui: se non ti lasci spaventare e ti difendi con coraggio,non ti farà alcun male."L'ometto sparì nella foresta: e a mezzanotte il maggioredei fratelli vide comparire il corpo senz'anima. Era altocome una quercia e gridò con voce assordante:"Che fai tu là, piccolo verme, polvere delle mie mani?""Guardo il mio fuoco.""Ora lo spengo: e tu vattene, o ti capiterà qualche guaio.""La vedremo," rispose il giovane.E difese il suo fuoco così bene che il corpo senz'anima nonriuscì a spegnerlo e se ne andò mogio mogio.Al mattino gli altri due fratelli vennero da lui e gli domandaronocome avesse passato la notte; e lui, per paura dispaventarli, non disse nulla di quanto gli era capitato.La notte dopo fu di guardia il secondo fratello: e un po'prima di mezzanotte vide venire l'ometto, che gli disse:"Che fai tu là?""Guardo il mio fuoco" rispose."Fa' attenzione a star sveglio" disse il nano "perché a mezzanotteverrà il corpo senz'anima per spegnerlo. Ma tu nonlasciarti spaventare dalle sue minacce: se non avrai pauranon ti farà alcun male."L'ometto si allontanò, e a mezzanotte arrivò il corpo senz'anima,gridando:"Che fai tu là, piccolo verme, polvere delle mie mani?""Guardo il mio fuoco.""Lasciamelo spegnere, o ti taglierò a pezzettini come carneda salsicce!""Se ci riuscirai!" rispose il giovanotto.Difese il suo fuoco con coraggio, e il corpo senz'animanon riuscì a spegnerlo e se ne andò mogio mogio.Al mattino i due fratelli vennero a domandargli comeaveva passato la notte: ma lui non raccontò nulla delle apparizioniche aveva visto.La terza notte fu il turno del più giovane, che si pose aguardare il fuoco. Ma il nano questa volta non venne ad avvertirlo,e a mezzanotte il corpo senz'anima gli si presentòdavanti gridando:"Che fai tu là, piccolo verme, polvere delle mie mani?""Guardo il mio fuoco" rispose quello tremando."Io voglio spegnerlo" disse il gigante; "lasciami fare o ti taglieròa pezzettini come carne da salsicce!"Il ragazzino si allontanò, perché aveva paura: e il corposenz'anima spense il fuoco.Quando i due fratelli maggiori arrivarono al mattino, disseroal minore che era proprio un buono a nulla, poiché nonera nemmeno capace di guardare il fuoco."Se mi sgridate tanto," rispose lui "io me ne vado da solo acercar fortuna, e vi lascio insieme.""Vai, vai pure" gli risposero quelli; "tanto qui non farestiche darci fastidio."Così il ragazzo li lasciò e si mise in cammino, senza saperbene dove andare. Mentre passava sulla riva di uno stagno,vide una lavandaia e le augurò il buongiorno. Era la mogliedel corpo senz'anima: ma era cristiana, come il ragazzo.

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"Potreste" le domandò "indicarmi un posto dove potertrovare lavoro e pane? Viaggiavo coi miei fratelli, ma mihanno cacciato via perché ho lasciato che un gigante spegnesseil loro fuoco.""Vieni con me al castello" rispose lei; "ci troverai da mangiaree da bere finché vorrai. Il corpo senz'anima, mio marito,dorme ventiquattr'ore di seguito senza svegliarsi, e non èmolto che si è addormentato.""Perché mai" domandò il giovane "chiamate vostro maritocorpo senz'anima?""Perché" rispose lei "egli possiede un leone spaventoso, nelcorpo del quale c'è un lupo; il lupo ha nel ventre una lepreche racchiude una pernice; la pernice ha tredici uova, e neltredicesimo uovo si trova l'anima di mio marito. Vorrei tantoincontrare un uomo abbastanza coraggioso da togliere leuova dal corpo della pernice: questo malvagio gigante mi harapita e io non lo amo affatto. Avresti tu abbastanza coraggioda tentare l'avventura?""Proverò" disse il ragazzo.Si recò al castello, dove la dama lo trattò con tutti i riguardi,e restò con lei fino al momento in cui il corpo senz'animafu sul punto di svegliarsi; allora la donna lo nascose inun posto sicuro.Quando il gigante si alzò, si guardò attorno e cominciòad allargar le narici, come se annusasse qualcosa."Che c'è dunque qua dentro?" chiese."Niente di nuovo, che io sappia" rispose lei.Il gigante si mise a tavola, mangiò e bevve come il solito,poi tornò a coricarsi e ben presto lo si sentì ronfare.Allora la dama fece uscire il giovane dal suo nascondiglio,gli diede una sciabola ben affilata e lo condusse alla cameradove era rinchiuso il leone. Appena la porta fu aperta il leonesi mise a ruggire spaventosamente e a girare intorno al ragazzo:ma questi non si lasciò spaventare e seppe cavarselacosì bene che gli affondò la spada nel cuore.Appena il leone fu spirato, il giovane andò a cercare ladama, che gli diede da mangiare e da bere per riconfortarlo;quando ebbe ripreso le forze, tagliò in due con un gran fendenteil corpo del leone. Subito ne uscì un lupo che digrignandoi denti si lanciò su di lui per farlo a pezzi; ma dopouna lunga lotta fu trafitto da un colpo di spada e morì.Poiché il gigante stava per svegliarsi, il giovane andò amangiare e a bere e la dama lo nascose nuovamente in unnascondiglio sicuro.Svegliandosi, il corpo senz'anima annusò, come se fiutassequalcosa."Sento odore di carne fresca" disse."No, no, mio caro corpo senz'anima" disse la dama; "è ilmio odore che senti.""Sento odore di carne cristiana, ti dico.""Ti sbagli, sono i nostri maialini nella stalla. Ma il tuopranzo è pronto, vieni a bere e a mangiare, spero che troveraitutto di tuo gusto."Quando il gigante si fu saziato, si addormentò ancora peraltre ventiquattr'ore. Non appena incominciò a ronfare, ilgiovanotto uscì dal nascondiglio e aprì il corpo del lupo. Neuscì una lepre che saltava come una pulce e correva come ilvento: ma il giovane si diede a inseguirla e finì per farla stancare.E quando l'ebbe acchiappata la strangolò."Devo aprirla?" chiese alla dama."No, no," rispose lei "non c'è fretta. Vieni a rinfrescarti e ariposarti, che sei tutto in sudore."Dopo aver mangiato e bevuto per riprender forza, il giovanetornò nella stanza e aprì il ventre della lepre. Ne uscì

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una pernice ch'egli acchiappò: e le tolse le tredici uova, che ladama ripose in una scatola."E ora," disse la dama "potrei sbarazzarmi di lui; ma nonvoglio farlo morire se non quando sarà sveglio."Quando il corpo senz'anima si svegliò, si mise a tavola afianco della dama, che gli disse:"Mio caro corpo senz'anima, non mi avevi assicurato chenon potevi morire?""No," rispose lui "io non morirò. Per proteggermi ho unleone ruggente, che ha nel ventre un lupo terribile; nel suocorpo c'è una lepre che nessun cacciatore può raggiungere; lalepre ha nel ventre una pernice che ha tredici uova, e nel tredicesimouovo è chiusa la mia anima. Vedi bene che è impossibileche io muoia.""Ah, così" disse la donna. "L'altro giorno ho trovato unnido di pernici; è in quest'uovo che si trova la tua anima?"E gli presentò un uovo di quelli che aveva riposto nellascatola."No" rispose lui."E' forse in questo?""No."Insomma, gli mostrò dodici uova e ogni volta lui rispondevadi no. Ma quando la donna prese il tredicesimo, impallidì:"E' questo" disse con voce alterata. "Chi mai te lo ha dato?Abbracciami per l'ultima volta, perché sto per morire."Il corpo senz'anima prese in mano il tredicesimo uovo enon appena l'ebbe schiacciato spirò.Il giovane restò al castello con la dama; la sposò e visserofelici fino alla fine dei loro giorni.

IL PAESE DEL DIAVOLO

JEAN L'OR

C'ERA UNA VOLTA un uomo che aveva in cuore una solapassione: quella della ricchezza. Per questo loavevano soprannominato Jean l'Or. Di mestiere lavoravala terra e faticava giorno e notte al solo scopo diavere, un giorno, la credenza piena di scudi di sei franchi.Ma aveva un bel vangare e sudare: quel giorno non veniva.La bassa Bretagna, come tutti sapete, nutre i suoi figlima non li arricchisce. Jean l'Or decise dunque di abbandonareuna terra così povera. Aveva sentito parlare dipaesi meravigliosi, dove bastava, dicevano, grattare ilterreno con le unghie per mettere a nudo vere e proprierocce d'oro. Solo che questi paesi erano situati dall'altraparte della terra del Buon Dio, nel regno del diavolo. Jeanl'Or era stato battezzato, come voi e come me; e l'idea dicadere nelle grinfie del diavolo non gli piaceva per niente.Ma la passione del denaro lo dominava a tal punto che simise comunque in cammino."Ebbene," diceva fra sé "niente dimostra che le rocced'oro siano proprietà del diavolo. Quelli che lo hanno riferitovolevano senza dubbio scoraggiare questi babbei dicontadini dall'andare a vedere, in modo da tenersi il malloppotutto per loro. Quando il buon Dio ha diviso ilmondo fra Satana e se stesso, non è stato certo così scioccoda lasciare la parte migliore al suo mortale nemico."Vedete bene che Jean l'Or giudicava il mondo alla suastregua.E concludeva:

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"In ogni caso, andiamo a fare un giro da quelle parti. Almenovedrò di che si tratta. Se ci sarà pericolo, farò semprein tempo a tornare indietro."Così si mise in marcia e camminò per leghe e leghe, finchéarrivò alla linea che separa il regno di Dio dal regno del diavolo.Si inginocchiò al di qua della linea e cominciò a grattare ilterreno.Ma riuscì solo a insanguinarsi le unghie contro una roccianon meno dura e non meno povera di quella che formava ilfondo del suo campo, nella bassa Bretagna."In fede mia," brontolò "non sarà mai detto che abbiacamminato tanto per niente. Bisogna che sappia se veramenteil diavolo è più ricco del buon Dio. Andrò a guardare enon toccherò niente."Oltrepassò la linea, si inginocchiò ancora e ricominciò agrattare. Qui il terreno era morbido come sabbia. Vi avevaappena affondato le mani che ne tirò fuori un ciottolo grossocome un uovo: un ciottolo d'oro puro, di un bell'oro biondonuovo fiammante.Poi fu la volta di un secondo ciottolo, grosso come unagirella da calzolaio.1Poi di un terzo, grosso come una macina di mulino.Quest'ultimo, Jean l'Or non si provò neppure a sollevarlo;e ancor meno quelli che scoprì via via in seguito e che formavanocome un pavimento d'oro."Com'è bello!" esclamava man mano che metteva alloscoperto tutte queste meraviglie. "E come sarei ricco, se po-tessi portarmi via solo la decima parte di quello che vedo!"A questo punto ricordò che aveva giurato di non toccarniente."Bah!" disse fra sé, vinto dalla cupidigia. "Mi metterò questoin tasca e quest'altro sotto l'ascella. Non farà male a nessuno.Il diavolo non se ne accorgerà nemmeno."Si mise in tasca il ciottolo grosso come un uovo e sottol'ascella quello grande come una girella da calzolaio.Stava già tagliando la corda al più presto, come ben capirete,quando davanti a sé vide drizzarsi Pòlic.Bisogna dire che proprio quel giorno Satana stava facendoil giro delle sue terre. Aveva visto venire Jean l'Or e, nascostodietro un cespuglio, ne aveva spiato i minimi gesti."Oh, oh, camerata," sghignazzò "non è bello andarsenecosì senza augurare la buonasera alle persone che hai appenaderubato."Jean l'Or avrebbe voluto trovarsi lontano cento leghe.Ma non poteva più pensare a fuggire. Satana gli aveva piantatouna mano sulla spalla, e questa mano pesava e bruciavaterribilmente, come se fosse stata di ferro incandescente. Jeanl'Or gridò, si dibatté, supplicò. Ma il diavolo ha la presa solidae il cuore ben corazzato."Non far tante smorfie! Mi devi seguire."Satana fischiò al suo cavallo, che passava a pochi passi dilì, montò in sella, gettò Jean l'Or di traverso sulla groppa comeun sacco di carbone, e via!Jean l'Or domandava con voce lamentosa:"Cosa volete fare di me, Messere il Diavolo?"E il diavolo rispondeva:"La tua carne sarà arrostita per il pranzo dei miei uomini ele tue ossa calcinate serviranno di foraggio ai miei cavalli."Il povero Jean l'Or si sentiva accapponare la pelle.Così arrivarono all'inferno.Sulla soglia un demonio si precipitò incontro a Satana egli disse:"Padrone, lo stalliere è stato divorato dalle bestie!""Maledizione!" esclamò il diavolo, con una voce così spaventosa

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che i dannati che si trovavano non lontano, in unapalude di pece bollente, si diedero a fare dei balzi da carpa,gettando urla di terrore.Ma la collera del diavolo si placò d'un tratto.Aveva scorto Jean l'Or che si era lasciato scivolare a terrae gemeva, accovacciato, con la testa fra le mani."Alzati, gran balordo," gli disse "e avvicinati."Jean l'Or obbedì a malincuore."Ascolta," continuò Satana. "Le cose si mettono bene perte. Fino a nuovo ordine la tua carne non sarà arrostita e letue ossa non saranno calcinate. Ma tu capisci bene che non titerrò qui a far niente. Ecco quale sarà il tuo compito. Io hotre cavalli nella mia scuderia, compreso quello che montavopoco fa. E tu dovrai averne cura. Tutte le mattine li striglierai,li laverai, li spazzolerai e gli darai delle ossa calcinate comeforaggio. Bada solo che il lavoro sia ben fatto: altrimenti,sai quello che ti aspetta."Jean l'Or non era precisamente lusingato di diventare lostalliere del diavolo. Ma non aveva altra scelta: e meglio erastrigliare i suoi cavalli che esser gettato in pasto ai medesimi.Tutto andò bene per una quindicina di giorni. Jean l'Ornon risparmiava la fatica e cercava in tutti i modi di accontentareil suo terribile padrone.Ma, al calar della notte, quando si era ormai steso sul suogiaciglio in un angolo della scuderia, prima di addormentarsirestava ore e ore a piangere sulla sua sorte e a rimpiangere lasua Bassa Bretagna. Come si pentiva ora della sua maledettacupidigia!Una notte che si girava e rigirava sul giaciglio di paglia,sentì un fiato caldo sfiorargli il viso: era uno dei cavalli, chesi era staccato e tendeva il muso verso Jean l'Or."Cosa vuole da me questa bestia maledetta" pensò, perchéera proprio il cavallo sul quale lui stesso era stato trasportatoin quel luogo di dannazione.Stava per dargli una frustata quando l'animale gli parlòcosì:"Non far rumore, che non si sveglino gli altri cavalli. E' neltuo interesse che vengo a trovarti. Dimmi, Jean l'Or, ti piacevivere in questo paese?""Perdio, no di certo!""In questo caso siamo tutt'e due della stessa opinione. Anch'iovorrei tornare, come te, in terra benedetta, perché, comete, sono anch'io un cristiano.""Ma come possiamo andarcene di qui?""Lascia fare a me. Ti avvertirò quando sarà venuto il momento.Nell'attesa mi darai ogni giorno doppia razione, nondi ossa calcinate, ma di buon fieno e d'avena. Bisogna che riprendale forze, perché il viaggio sarà lungo."A partire da quella sera, Jean l'Or ebbe per l'animale delleattenzioni particolari.Così passarono diverse settimane senza che accadesseniente di nuovo.Ma un mattino l'animale disse a Jean:"E' venuto il momento. Ho visto poco fa Satana passeggiarea piedi. Dunque sellami solidamente, inforcami e partiamo.Come bagaglio non porterai che il secchio per attingeracqua, la striglia e la spazzola."Eccoli dunque in cammino per la terra benedetta.Il cavallo galoppava, galoppava. Galoppò tutto il giorno.E venne la sera. Il cavallo voltò la testa e disse a Jean:"Questa è l'ora in cui il diavolo torna a casa. A quest'ora si èaccorto della nostra fuga. Guarda dietro di te. Vedi niente?""Niente" fece Jean l'Or.E la bestia e l'uomo continuarono ad avanzare.

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E venne la notte, una notte chiara. Il cavallo disse ancora:"Guarda dietro di te. Vedi niente?""Sì," fece Jean l'Or "questa volta vedo venire il diavolo. Eva anche di buon passo.""Allora getta il secchio" disse il cavallo.Non appena il secchio ebbe toccato terra, ne scaturì untorrente: il torrente divenne un fiume, e il fiume un immensostagno.Il diavolo ha paura dell'acqua. Invece di attraversare lostagno, si diede a farne il giro. Era tutto tempo guadagnatoper i nostri fuggitivi.Dopo un'ora o due il cavallo domandò di nuovo:"Jean l'Or, vedi niente?""Sì," rispose Jean l'Or "il diavolo ha fatto il giro dello stagno.""Allora getta la spazzola" disse l'animale.Non appena la spazzola ebbe toccato terra, ognuno deisuoi peli divenne un albero gigantesco, di modo che il diavolosi trovò prigioniero di una foresta inestricabile. Prima chefosse riuscito a liberarsi, Jean l'Or e il suo cavallo l'avevanodistanziato di un bel pezzo.Dopo un'ora o due il cavallo chiese per la terza volta alsuo cavaliere:"Vedi niente?""Sì, vedo il diavolo che esce dalla foresta. E si affretta, siaffretta.""Allora getta la striglia."La striglia aveva appena toccato terra che nel posto in cuiera caduta si levò una montagna enorme, venti volte più altadel Ménez-Mikél. Ed era ancora più larga che alta. Il diavolopreferì valicarla che farne il giro.In tutto questo tempo il cavallo volava veloce come ilvento. Già si poteva vedere la terra benedetta verdeggiarelontano, coi suoi campi, i suoi prati e le sue lande."Jean l'Or, Jean l'Or!" chiese l'animale, tutto ansante. "Vedise il diavolo ci segue sempre?""Sta scendendo il pendio della montagna" rispose Jeanl'Or."In questo caso, prega Dio che ci aiuti: non ci resta più altrasperanza di salvezza."In realtà Satana era già alle calcagna dei due fuggitivi. Estava per abbrancarli quando il cavallo fece un ultimo balzo,un balzo disperato. Le sue due zampe anteriori ricaddero sullaterra benedetta proprio nel momento in cui il diavolo loafferrava per la coda. E tutto ciò che poté portarsi all'infernofu un ciuffo di crini. Il cavallo, che aveva ripreso formaumana, disse a Jean l'Or:"Qui dobbiamo separarci: io vado dritto filato in purgatorio;e tu torna nella Bassa Bretagna e non peccare più."Jean l'Or tornò nella sua Bassa Bretagna, contento di avertolto un'anima dall'inferno e più contento ancora di esserneuscito lui stesso. E ben deciso a far tutto il possibile per nontornarci più, né vivo né morto.

LE DONNE E IL DIAVOLO

LE LEGGENDE DELL'ALTA BRETAGNA, d'accordo in questocon quelle di quasi tutti i paesi, attribuisconopiù astuzia alle donne che agli uomini: sono appuntole donne quelle che più spesso scorgono il piededi cavallo da cui si riconosce il diavolo, malgrado i suoitravestimenti. Sono le donne che, opponendo trucco atrucco, finiscono per ingannare lo stesso Satana, liberandoi mariti o gli amanti dai guai in cui si sono cacciati.

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Ecco alcune brevi leggende che mettono in rilievo questaastuzia delle donne.

Un giovanotto bramava ardentemente sposare unafanciulla che gli piaceva, e che avrebbe ben volentiericonsentito a prenderlo per marito; ma i genitori si opponevanoal matrimonio perché l'innamorato non era abbastanzaricco.Il diavolo, vedendolo desolato, venne a trovarlo e glipropose di aiutarlo, ma a condizione che, il giorno dellenozze, lo sposo gli trovasse un lavoro che lo tenesse occupatofino alla fine della messa nuziale: se alla fine dellamessa il diavolo avesse già terminato il lavoro assegnato-gli, avrebbe aspettato il giovanotto alla porta del cimitero elo avrebbe portato via con se.Il giovane accettò il patto, pensando che gli sarebbe statofacile trovare per il diavolo un lavoro che lo tenesse occupatomezza giornata.I genitori della fanciulla consentirono al matrimonio. Nonsi dice quali mezzi furono messi in opera dal diavolo per ottenerequesto scopo: ma il mattino del giorno fissato per lacerimonia egli si presentò al promesso sposo, proprio nelmomento in cui si alzava dal letto, e gli domandò quali fosseroi suoi ordini."Andrai" gli disse il giovanotto "a disboscare una selvad'alberi che hanno diciotto anni, e strapperai le radici coidenti."Nel momento in cui il giovanotto terminava di farsi labarba e stava per mettersi la cravatta, il diavolo tornò e gliannunciò che il lavoro era terminato."Che cosa mi ordinate ora?""Toglierai dal granaio il fieno che vi hanno riposto e chefermenta perché non era abbastanza asciutto quando lo hannoritirato: lo porterai nella grande prateria, lo stenderai edopo averlo fatto ben seccare lo riporterai nel granaio da dovelo hai preso."Il nostro giovanotto, sicuro questa volta che il diavolofosse impegnato per un bel po' di tempo, terminò tranquillamentela sua toletta e si recò alla casa della sposa. Tuttaviasembrava preoccupato, perché la rapidità con cui si era compiutoil disboscamento gli faceva temere che anche la fienagioneterminasse prima della fine della messa nuziale.La fidanzata, vedendolo pensieroso, lo prese da parte e glichiese che cosa lo angustiava per avere un muso così lungoproprio il giorno in cui di solito si è tanto felici, come se inveceche a nozze dovesse andare a un funerale. Dopo molte esi-tazioni, il giovane finì per confidarle il patto che aveva strettocol diavolo."E' tutto qui?" disse la fanciulla. "Troverò ben io il mododi sbarazzarti del tuo nemico. Se lo vedi tornare, dagli questocapello e comandagli di andare a forgiarlo e di cambiarloin un anello d'argento."Nel momento in cui il corteo nuziale arrivava in vista dellachiesa, il giovanotto scorse sulla porta del cimitero il diavolo,visibile per lui solo, il quale venne a dirgli all'orecchioche il fieno era tutto immagazzinato."Benissimo," rispose lo sposo "ora andrai alla fucina econ questo capello farai un anello d'argento per la miasposa."Il diavolo prese il capello: ma appena lo ebbe accostato alfuoco il capello bruciò e sparì tra le fiamme.Satana si accorse allora che aveva a che fare con qualcunopiù astuto di lui; se ne andò tutto avvilito e lasciò che lenozze si compissero tranquillamente.

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Partendo per la fiera di San Pietro, che si tiene a Rennes edove si recano i domestici in cerca di un posto, un fattoredisse a sua moglie:"Bisogna che questa sera io torni a casa con un garzone,fosse pure il diavolo in persona."Alla fiera, per un caso veramente straordinario, tuttiquelli a cui proponeva di entrare al suo servizio erano giàimpegnati o rifiutavano le sue condizioni; e il fattore lasciò lacittà assai malcontento del suo insuccesso.Passando presso un villaggio, incontrò un viaggiatore chemarciava di buon passo fischiettando una canzone."Ehi, amico!" gli disse raggiungendolo "sembrate tutto allegro,e la vostra giornata è stata certo migliore della mia, aquel che vedo: io non sono riuscito a trovare un garzone, delquale ho tanto bisogno, e se voi potete indicarmene uno visarò molto obbligato.""Non c'è bisogno di andar tanto lontano," disse lo straniero"io sono garzone di una fattoria e sono pronto a entrare alvostro servizio, se volete."Il fattore, felicissimo, condusse lo straniero all'osteria, dovebevvero del sidro e stabilirono le condizioni e il prezzo delservizio.Il giorno dopo, quando il domestico ebbe mangiato la suazuppa, il padrone gli comandò di andare a togliere il letamedalla scuderia."Non c'è fretta!" rispose il domestico, prendendo un tizzoneper accendersi la pipa.Poco dopo uscì per mettersi al lavoro; e quando il padroneandò a vedere come lavorava il nuovo servitore, vide illetame volare fuori della scuderia come se una dozzina dibraccianti fossero impegnati a gettarlo fuori col tridente; inpoco tempo la scuderia fu ripulita e il letame accatastato inbell'ordine."Ora," disse il fattore "bisogna tagliare il fieno della miaprateria e farne covoni."Il prato richiedeva duecento giornate di falciatura: maprima del calar del sole il domestico aveva portato a termineil lavoro.Il giorno dopo il fattore, sospettando qualche magia, pagòil domestico e gli disse di andarsene. E poiché quello nonaveva nessuna fretta di prender la porta:"Che vuoi ancora? Non ti ho dato tutto quello che ti dovevo?""Sì, ma tu verrai con me.""Perché?""Io sono il diavolo, e mi hai chiamato tu l'altro giorno."La fattoressa, che intese questa conversazione dalla stanzaaccanto, prese una bottiglia di acqua benedetta e cominciò aspruzzarne il contenuto sul domestico-demonio, che avevaafferrato suo marito per il collo.E il demonio si affrettò a mollarlo, gridando come un gattoscuoiato, e scappò via così lontano che nessuno da quelmomento lo ha più rivisto alla fattoria.

Il diavolo un giorno incontrò un uomo e gli propose unascommessa: ciascuno dei due la sera doveva portar con seuna bestia e quello che non avesse potuto dirne il nomeavrebbe perduto la scommessa. Se vinceva l'uomo, avrebbericevuto una borsa con cinquecento scudi; se invece vincevail diavolo, si sarebbe portato via lo sconfitto.Tornando a casa, il contadino, che aveva scommesso cosìalla leggera, era molto preoccupato: ma raccontò tutto allamoglie, che gli disse di non aver paura. Si spogliò di tutti isuoi abiti, si spalmò tutto il corpo di miele e andò a voltolarsi

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in un mucchio di balle di avena. Per suo consiglio, il maritosi nascose in un cespuglio a fianco di una chiusa per doveil diavolo doveva passare con le bestie che avrebbe portatocon sé: e la moglie gli disse di star bene in ascolto e di tornarein tutta fretta a casa appena il diavolo gli avesse parlato.Quando il demonio arrivò all'ostacolo che doveva oltrepassare,disse:"Salta, capra, e tu seguila, o capro."Quando il contadino ebbe inteso queste parole, tornò dicorsa a casa: il diavolo arrivò poco dopo e gli domandò ilnome delle sue bestie."In fede mia," rispose l'uomo "non valeva proprio la penadi far tanto chiasso per una capra e un capro. Ma voi, indovinatea vostra volta il nome della bestia che ho a casa."Il diavolo ci mise invano tutta la sua astuzia: non riuscì aindovinare il nome dell'animale che il contadino aveva scel-to. E così il contadino vinse la scommessa per l'abilità di suamoglie.

Il diavolo era entrato al servizio di un fattore: ma avevaposto come condizione che avrebbe avuto il diritto di tormentareil suo padrone quando non avesse più lavori dasbrigare.Il mattino del giorno in cui il nuovo garzone prese serviziogli fu data, come a tutti gli altri lavoranti della fattoria,una scodella di zuppa, ch'egli mangiò perché era in tutto similea un uomo qualsiasi; poi, invece di seguire gli altri neicampi, restò in un angolo del focolare a fumarsi la pipa."Non hai proprio nessuna fretta di andare al lavoro?" glidisse il padrone. "Io ho quattro giornate di maggese da dissodare,e su un terreno ingombro di radici e di pietre.""Avrò tutto il tempo di fare il lavoro" rispose il diavolo,che uscì poco dopo; e alle dieci il campo era tutto perfettamentedissodato, come se ci fossero passate le migliori bracciadel contado."Che tipo in gamba, sul lavoro!" diceva il padrone, e glicomandò di andare a cercare le vacche una per una nel pratoe di legarle nella stalla.In poco tempo l'opera fu terminata e il diavolo venne achiedere al fattore che altro lavoro dovesse fare. Ma la fattoressa,che aveva saputo dal marito chi era il nuovo garzone,fece un gran peto e disse:"Metti la cavezza a quel che ho appena fatto."Il diavolo si riconobbe sconfitto e se ne andò.

LE PIETRE PIANTATE

LE PIETRE DI PLOUHINEC

PLOUHINEC E' UN povero borgo, al di là di Hennebont,verso il mare. Tutt'intorno non si vedono che landebrulle o boschetti di abeti; e la parrocchia non hamai avuto abbastanza erba da allevare un bue da macello,né abbastanza crusca per ingrassare un discendente deiRohan.1Ma se la gente del paese manca di frumento e bestiame,possiede però più sassi di quanti ne occorrerebberoper ricostruire Lorient; e al di là del borgo si estende unavasta brughiera in cui i korrigan hanno piantato due filedi lunghe pietre, che potrebbero sembrare un viale se conducesseroda qualche parte.

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In quei paraggi, verso la riva del fiume d'intel, abitavaun tempo un uomo chiamato Marzinn: era ricco, per queipaesi, il che vuol dire che poteva far salare un piccolo maialeogni anno, poteva mangiare pane nero a volontà ecomprarsi un paio di zoccoli la domenica del lauro.2 Cosìnel paese lo giudicavano superbo e infatti aveva rifiutatosua sorella Rozenn a diversi giovani contadini, che vivevanodel loro quotidiano sudore.Fra questi giovani si trovava Bernèz, ottimo lavoratoree degno cristiano, che però non aveva ereditato, ve-nendo al mondo, null'altro che la buona volontà. Bernèzaveva conosciuto Rozenn ancora bambina, quando era arrivatoda Ponscorff-Bidré per lavorare nella parrocchia: e leispesso lo aveva preso in giro con la canzone che i ragazziniripetono a quelli del suo paese:

Ponscorff-Bidrécarne di capra, beeh!3

Così avevano fatto conoscenza, e a poco a poco, via viache Rozenn cresceva, anche l'attaccamento di Bernèz era cresciutoin egual misura, tanto che un giorno il ragazzo si eratrovato innamorato così come gli inglesi sono dannati, vogliodire senza remissione.Capite bene che il rifiuto di Marzinn fu un brutto colpoper lui; tuttavia non si perse d'animo, perché Rozenn continuavaa vederlo e a cantargli ridendo il ritornello compostoper quelli di Ponscorff.Ora, era arrivata la notte di Natale; e poiché la tempestaaveva impedito di recarsi alla Santa Messa, tutti gli abitantidella fattoria erano riuniti; con loro c'erano diversi giovanottidel vicinato, fra i quali Bernèz. Il padrone di casa, che volevamostrare la sua generosità, aveva fatto preparare unacena di budini e di polenta di grano al miele. Così tutti gli occhierano rivolti verso il focolare, tranne quelli di Bernèz cheguardava la sua cara Rozennik.Ma ecco che nel momento in cui le panche erano accantoalla tavola e i cucchiai di legno erano piantati in tondo dentrola tafferia, un vecchio spinse bruscamente la porta e auguròbuon appetito a tutti.Era un mendicante di Pluvigner che non entrava mai inchiesa e di cui gli uomini onesti avevano paura. Lo accusavanodi gettare il malocchio sul bestiame, di far annerire il gra-no nella spiga e di vendere ai lottatori le erbe magiche. V'eranoalcuni che lo sospettavano persino di diventare gobelinn asuo talento.4Tuttavia, poiché aveva l'abito dei mendicanti, il fattoregli permise di avvicinarsi al focolare: gli fece persino portareuno sgabello a tre piedi e una porzione di cibo, come a un invitato.Quando lo stregone ebbe finito di mangiare, chiese di poterandare a dormire: e Bernèz andò ad aprirgli la stalla, dovec'erano solo un bue magro e un vecchio asino spelacchiato.Il mendicante si sdraiò fra i due animali, per tenersi caldo,appoggiando la testa su un sacco di pula.Mentre stava per addormentarsi suonò la mezzanotte. Ilvecchio asino allora scosse le lunghe orecchie e si voltò versoil bue magro."Ebbene, cugino mio, come va la vita, dopo il Natalescorso quando ci siamo parlati?" chiese con tono amichevole.Invece di rispondere l'animale cornuto gettò un'occhiatain tralice al mendicante."Valeva proprio la pena che la Santissima Trinità ci accordassela parola per la notte di Natale" disse con tono arcigno"per ricompensarci così del fatto che i nostri antenati

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avevano assistito alla nascita di Gesù, se poi dovevamo averead ascoltarci un buono a nulla come questo mendicante!""Siete molto superbo, monsignor di Ker-Muggente" fecel'asino tutto allegro. "Io piuttosto avrei il diritto di lamentarmi,se pensate che il capostipite della mia famiglia portò ungiorno Gesù Cristo a Gerusalemme, come lo prova la croceche, da quel giorno, ci è stata impressa in mezzo alle spalle.Ma io so accontentarmi di ciò che le Tre Sante Persone mihanno voluto concedere. Non vedete, d'altronde, che lo stregoneè addormentato?""Tutti i suoi sortilegi non sono ancora riusciti ad arricchir-lo" riprese il bue "e ha dato l'anima al diavolo per ben poco.Il diavolo non lo ha neppure avvertito della buona occasioneche ci sarà qui vicino fra qualche giorno.""Quale buona occasione?" chiese l'asino."Come!" riprese il bue. "Non sapete dunque che ogni centoanni le pietre della brughiera di Plouhinec vanno a bere alfiume di Intel, e durante quel periodo i tesori ch'esse nascondonorestano allo scoperto?""Ah, ora mi ricordo" interruppe l'asino. "Ma le pietre tornanocosì presto al loro posto che è impossibile evitarle eschiacciano chiunque non abbia, per salvarsi, un ramettodell'erba della croce circondato da quadrifogli a cinque foglie.""E ancora," aggiunse il bue "i tesori che uno si porta viacadono in polvere se non si dà in cambio un'anima battezzata:ci vuole la morte di un cristiano perché il demonio vi lascigodere in pace le ricchezze di Plouhinec."Il mendicante aveva ascoltato tutta questa conversazionesenza avere il coraggio di tirare il fiato."Ah, cari animali, tesorucci miei" diceva fra sé; "voi miavete fatto più ricco di tutti i borghesi di Vannes e di Lorient;state tranquilli, lo stregone di Pluvigner ormai non darà piùl'anima al diavolo per niente."Poi si addormentò, e il giorno dopo allo spuntar dell'albaera già nei campi a cercare l'erba della croce e i quadrifogli acinque foglie.Dovette cercare a lungo e addentrarsi bene nella campagna,là dove l'aria è più calda e le piante restano sempre verdi.Infine, alla vigilia di Capodanno ricomparve a Plouhineccon l'espressione di una faina che ha trovato la strada dellacolombaia.Mentre passava per la landa, vide Bernèz occupato a picchiarecon un martello puntuto contro la più alta delle pietre."Che Dio mi salvi!" esclamò lo stregone ridendo; "avetevoglia di scavarvi una casa in quella grossa pietra?""No" disse Bernèz tranquillamente; "ma poiché per il momentosono senza lavoro, ho pensato che se tracciassi unacroce su una delle pietre maledette farei una cosa gradita albuon Dio, che prima o poi me ne compenserà.""Avete dunque qualche cosa da domandargli?" fece il vecchio."Tutti i cristiani hanno da domandargli la salvezza dellaloro anima" replicò il giovane."E non avete anche qualche cosa da chiedergli a propositodi Rozenn?" aggiunse a bassa voce il mendicante.Bernèz lo guardò."Ah, voi lo sapete" riprese. "Dopo tutto non ce ne onta népeccato, e se io cerco la fanciulla è per condurla davanti alprete. Purtroppo Marzinn vuole un cognato che possa contarpiù scudi d'oro di quanti centesimi possieda io.""E se ti facessi avere più luigi d'oro di quanti scudi pretendeMarzinn?" aggiunse lo stregone a mezza voce."Voi!" esclamò Bernèz."Io!""E che cosa mi domandereste in cambio?"

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"Nient'altro che un ricordo nelle tue preghiere.""Così non ci sarebbe bisogno di compromettere la salutedella mia anima?""Non ci sarebbe bisogno d'altro che di coraggio.""Allora ditemi subito cosa bisogna fare!" esclamò Bernèz,lasciando cadere il mantello "quand'anche dovessi espormi atrenta morti, sono pronto, perché ho meno voglia di vivereche di sposarmi."Quando il mendicante vide che il ragazzo era così ben dispostogli raccontò come qualmente, la prossima notte, i tesoridella landa dovessero trovarsi tutti allo scoperto, senzaperò fargli parola di ciò che occorreva fare per evitare le pietreal ritorno. Il giovanotto credette che bastasse avere coraggioe prontezza e così disse:"Come è vero che Dio è in tre persone, approfitterò diquesta occasione, buon vecchio, e terrò sempre una pinta delmio sangue al vostro servizio, per il buon consiglio che miavete dato. Lasciatemi solo finire la croce che ho cominciatoa incidere su questa pietra: quando sarà il momento, verrò araggiungervi vicino al boschetto di abeti."Bernèz tenne parola e un'ora prima della mezzanotte arrivòal luogo convenuto. Ci trovò il mendicante, che portavauna bisaccia in ciascuna mano e un'altra appesa al collo."Orsù, sedetevi là tranquillo" gli disse il mendicante "epensate a tutto quello che farete quando avrete a vostra disposizionel'argento, l'oro e le pietre preziose."Il giovane sedette a terra e rispose:"Quando avrò argento a volontà, darò alla mia dolce Rozenniktutto ciò che desidera e tutto ciò che ha mai desiderato,dalla tela alla seta, dal pane alle arance.""E quando avrete oro a volontà?""Quando avrò oro a volontà," replicò il giovane "farò ricchitutti i parenti di Rozennik e tutti gli amici dei suoi parenti,fino agli estremi confini della parrocchia.""E quando infine avrete pietre preziose a volontà?""Allora," esclamò Bernèz "farò ricchi e felici tutti gli uominidella terra e dirò che è Rozennik che lo ha voluto."Mentre così conversavano il tempo passava, e arrivòmezzanotte.In quell'istante si scatenò un gran fracasso sulla landa e allaluce delle stelle si videro tutte le grandi pietre lasciare il loroposto e lanciarsi verso il fiume di Intel. Scendevano lungoil pendio scavando solchi nel terreno e urtandosi fra loro, comeuna masnada di giganti che avessero bevuto troppo: pas-sarono così alla rinfusa accanto ai due uomini e scomparveronella notte.Allora il mendicante si precipitò nella brughiera, seguitodal giovanotto, e nel punto dove poco prima si elevavano legrandi pietre videro dei pozzi colmi fino all'orlo di oro, argentoe pietre preziose.Bernèz gettò un grido di meraviglia e si fece il segno dellacroce; ma lo stregone si mise subito a riempire le sue bisacce,tendendo l'orecchio dalla parte del fiume.Stava finendo di caricare la terza bisaccia, mentre il giovanottosi riempiva le tasche della sua giacca di tela, quandosi sentì venire da lontano un mormorio sordo, come di unuragano in arrivo.Le pietre avevano finito di bere e tornavano a riprendereil loro posto. Si lanciavano per il cammino, chine in avanticome dei corridori, e frantumavano tutto davanti a sé.Quando il giovanotto le vide balzò in piedi gridando:"Vergine Maria, siamo perduti!""Ah, no, non io!" fece lo stregone, stringendo in manol'erba della croce e i quadrifogli a cinque foglie, "perché io ho

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qui la mia salvezza: ma bisognava che un cristiano perdessela vita per assicurarmi il possesso di queste ricchezze, e la tuacattiva stella ti ha portato sul mio cammino: rinuncia dunquea Rozenn e preparati a morire."Mentre così parlava, arrivò l'esercito di pietre: ma lo stregonepresentò il suo mazzo di erbe magiche e le pietre si scostaronoa destra e a sinistra, per precipitarsi verso Bernèz!Questi, comprendendo che tutto era finito, cadde in ginocchioe stava chiudendo gli occhi quando la grande pietrache stava alla testa di tutte le altre si arrestò di colpo e sbarrandoil passo si pose davanti a lui come una barriera perproteggerlo.Bernèz sbigottito alzò la testa e riconobbe la pietra sullaquale aveva inciso la croce. Era oramai una pietra battezzata,che non poteva più nuocere a un cristiano.La pietra restò immobile davanti al giovane finché tutte lesue sorelle non ebbero ripreso il loro posto; allora si lanciòcome un uccello marino per riprendere il proprio e incontròsulla sua strada il mendicante, che le pesanti bisacce colmed'oro avevano fatto ritardare.Vedendola venire, il vecchio alzò nuovamente il suo mazzodi erbe magiche: ma la pietra divenuta cristiana non erapiù soggetta agli incantamenti del demonio. E passò brutalmente,schiacciando il mendicante come un insetto.Bernèz raccolse, oltre a quello che si era già messo in tasca,anche le tre bisacce dello stregone e divenne così abbastanzaricco da poter sposare Rozenn e allevare tanti bambiniquanti piccoli ha il laouennanik nella sua covata.5

LE AVVENTURE DEL PASTOREE DELLA FARFALLA

YANICK GUARDAVA venti montoni, venti bei montonidi Gergaut, il fattore: perché era pecoraio, il piccoloYanick, e inoltre era anche il più buon ragazzo ditutta la contrada.Un giorno, mentre si trovava nella landa di Ménec,dove i suoi bei montoni trovavano a malapena qualche filod'erba secca, Yanick vide una farfalla che volteggiavasui bei fiori d'oro della landa."Farfalla, mia bella farfalla," le disse "che splendidi colorihai! come sono belle le tue ali e come vorrei vedertipiù da vicino!""Oh, no, pastore, amico mio!" replicò l'insetto "io non devoaccostarmi di più, perché magari tu vorresti toccarmi, eallora la mia effimera beltà si involerebbe sulle ali del vento!""Io voglio solo contemplarti, e ti giuro sulla vita di miamadre che non ti toccherò: credimi dunque, amica mia,perché giammai Yanick ha mentito.""Tu sei un caro ragazzo, Yanick, bello mio, ti conoscoda tanto tempo, ma, come dice il Vangelo: Spiritus quidempromptus est, caro autem infirma1"."Che dici mai, mia bella farfalla?" esclamò il fanciullo,al quale si erano dimenticati di insegnare il latino."Dico che non si deve mai indurre in tentazione il prossimo,perché l'occasione fa l'uomo ladro, e chi non pensaneanche lontanamente al male, a un certo momento può diventareun criminale.""Parla più chiaro, se vuoi che ti capisca.""Non vedi? Quel che voglio insegnarti è che è imprudentescherzare col fuoco. Il proverbio non dice forse: farfallinafarfallina, fuggi lontano dalla luce ingannatrice della candeladi resina, potresti bruciarti le ali e dovresti poi vegetare sulla

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terra come una larva informe?"Questa volta Yanick non capiva più niente: fece una boccacciaalla farfalla e le voltò le spalle, per correre dietro auno dei suoi montoni che si era allontanato dal gregge.D'improvviso un gran grido risuonò alle sue spalle e locostrinse a voltare la testa.E che vide? La leggiadra farfallina che volava verso di luia tiro d'ala e lo pregava, in nome di quanto aveva di più caro,di liberarla da un orribile calabrone che voleva divorarla.Yanick era buono ma, punto nel suo amor proprio dal rifiutoche aveva poc'anzi accolto la sua richiesta, fece dapprimaorecchie da mercante."Yanick, mio caro Yanick," esclamò la farfalla congiungendole zampine "abbi pietà di me, scaccia il mio crudele nemicoe non avrai a pentirti della tua buona azione.""Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te"replicò sentenziosamente il pastore, parlando anche lui perproverbi."Yanick, si avvicina, sta per raggiungermi.""E sulle ali del vento si involerà la tua effimera bellezza.""Già sento il soffio del suo fiato puzzolente, ancora un attimoe sarà finita per me. Yanick, pietà!"E l'insetto pazzo di terrore fece per nascondersi sotto lagiacca del pastore. Ma questi, temendo di ferirla senza voler-lo nella lotta che doveva affrontare col calabrone, si tolse infretta il cappello e disse:"Mettiti sotto il mio cappello, sarai più al sicuro e finchévivo nessuno verrà a molestarti."La farfalla si infilò sotto il cappello tutta tremante, senzaneppur perder tempo a ringraziare il suo benefattore.Ed era ora che si mettesse al riparo, perché il calabronearrivava come un fulmine, e tale era la forza del suo slancioche, urtando contro il pen-bass del ragazzo, perdette una dellesue antenne.Dalla sua gola sfuggì una sonora bestemmia che fece tremarele pietre."Bastardo d'un ragazzo!" gridò, portandosi la zampa allatesta insanguinata "che hai fatto della mia nemica?""Io non ho visto nessuno" rispose Yanick, mentendo conuna magnifica faccia tosta."Infame impostore, tu l'hai nascosta da qualche parte, e mela consegnerai immediatamente, altrimenti, corpo di Bacco!""Piano, piano, amico mio," riprese il ragazzo "perché andaretanto in collera? Parliamo gentilmente come due ragazziper bene.""Non prendermi in giro, Yanick, non è né l'ora né il momento:e nel tuo stesso interesse non opporti a lungo alla miagiusta vendetta.""Eh, mio Dio, signor de' Calabron, chi vi ha parlato diciò? La vendetta, lo so bene, è il piacere degli dei; vendicatevidunque, se così vi piace, io non mi oppongo affatto: ma,di grazia, non continuate a scocciarmi.""Yanick, la mia pazienza ha un limite" riprese l'animale, scalpitandodi collera; "rendimi la farfalla o, tuoni e fulmini!"Il pastore rispose a questa minaccia con un gesto che èben noto ai monelli di Parigi, e si mise in guardia contro ilcalabrone, il quale riprese in tono più gentile:"Yanick, mio piccolo Yanick, lascia che mi vendichi e io tifarò più potente di tutti i re della terra.""Ah, veramente!""Te lo giuro.""E in cambio?""Ti chiedo solo di toglierti il cappello.""Ah, e per far che cosa?"

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"Lo vedrai, poffarbacco!""E se rifiuto?""Ti ucciderò.""Ebbene, allora uccidimi, se ti riesce... perché anche se tufossi Messer Guglielmo2 in persona, non avrai mai l'innocentevittima di cui mi dichiaro qui il cavaliere."Questa volta un lampo di odio si sprigionò dalle pupilleferoci del calabrone, che si fece indietro di alcuni passi e colpungiglione in resta si precipitò sul pastore; il quale a suavolta, piantato fieramente sulle gambe aperte lo aspettavacol suo pen-bass in pugno.Le due armi si scontrarono e l'aguzzo pungiglione trapassòda parte a parte il temibile bastone dalla grossa testa, chesfuggì dalle mani del ragazzo.La lotta sembrava ormai ineguale: che poteva fare infattiil ragazzo disarmato contro il temibile animale, che d'un solcolpo delle robuste zampe posteriori si era immediatamentesbarazzato del pen-bass e l'aveva mandato a rotolare a più didue leghe di distanza?Yanick, benché gli spiacesse di aver perduto il suo bastone,conservò il sangue freddo e attese a pie' fermo il nemicoche tornava alla carica."Mia buona Sant'Anna," mormorava a bassa voce "pregaper me! Sancta Anna, ora pro nobis."E la buona santa gli mandò di colpo un'idea che riportò ilsorriso sulle sue labbra.Yanick portava, appuntata alla camicia, una di quellepiccole spille di ottone, ornate di perline colorate e di fiocchettidi lana rossa, che si comprano alle sagre dei santi: equella appunto era stata benedetta il giorno della festa diSant'Anna. La staccò in fretta e non appena l'ebbe voltatadalla parte del calabrone la vide cambiarsi in una bella spada,lunga più di due braccia.Il diavolo, ben lontano dal pensare a un miracolo e sicurodella vittoria, si stava precipitando ciecamente sul nemico;ma la spada magica lo fermò a metà strada e lo infilzò comeun vero tacchino.L'animale cacciò un grido orribile, che risuonò fino adAuray, e la sua anima malvagia si involò insieme ai fiotti disangue nero che uscivano dalla piaga.La spada gli aveva trapassato il cuore da parte a parte.Il primo pensiero di Yanick, quando vide il suo nemicoatterrato, fu di mettersi in ginocchio e ringraziare la Verginedi averlo salvato.Compiuto questo dovere corse a liberare la sua gentileprigioniera: ma invano la cercò dappertutto, la farfalla eravolata via, senza ch'egli potesse capire come.E mentre cercava da tutte le parti vide comparire davantiai suoi occhi una bellissima fanciulla, vestita di un abito diun abbagliante candore, con la testa cinta da un'aureola d'oromassiccio, insomma del tutto simile alle sante che circondanoil trono di Dio."Non perder più tempo a cercare, Yanick, mio bravo ragazzo,"disse, con una voce così dolce che gli parve di sentirei suoni incantati dei mandolini durante le feste di nozze "perchésono io la farfallina che hai appena salvato dalle grinfiedel demonio.""Vergine santa!" esclamò il ragazzo cadendo in ginocchio."Io non sono la Vergine Santa, ma sono Santa Guenaèlle,sua umile ancella; e quello che hai appena ucciso è il diavolo,che da molti anni mi perseguita col suo insolente amore. Finoa oggi ero per fortuna riuscita a evitarlo, ma poco fa ha indovinatola mia presenza sotto questo travestimento che minascondeva, e senza di te... Grazie per questo servizio, mio

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piccolo Yanick, io salgo nuovamente al cielo, dove non midimenticherò di te...""Santa Guenaèlle, pregate allora il buon Dio per me.""Yanick, tu ti sei rifiutato di cedere alle lusinghiere offertedel nemico, quando voleva donarti immense ricchezze purchétu mi consegnassi a lui. E benché io sia stata poco compiacentecon te, tu hai reso il bene per male. Questo è bello,questo è sublime. E io voglio compensarti. Seguimi, Yanick."E unendo l'esempio alle parole si avviò in direzione sud,con un passo così leggero - come ebbe a dire più tardi il pastore- che pareva un bell'uccello svolazzante di fiore in fiore.Quando furono arrivati vicino a un dolmen più alto deglialtri la santa si arrestò di colpo e volgendosi verso il pastoregli disse:"Sotto questa pietra dormono incalcolabili tesori: sonoper te, Yanick. Impiegali utilmente per soccorrere i tuoi similie non dimenticare mai che sei stato povero anche tu.""Lo giuro!" esclamò il ragazzo, ancora tutto stordito perciò che vedeva."Ricorda bene le parole che ora pronuncerò" riprese lavergine; "sono la chiave che dovrà aprirti le porte della felicità:Abderamac schalpreck ornitiga raspecrk lito ima bed,mei imagorf neskal à me maier. Questo significa: "Demonioche custodisci questi tesori, vattene ben lontano, ecco qui iltuo signore e padrone." Hai capito bene?""Sì, buona santa!" rispose il ragazzo ripetendo parola perparola lo scongiuro."Benissimo, ripetilo tre volte senza riprender fiato."Yanick fece come gli era stato comandato. Alla terza voltala terra tremò, il dolmen si spostò e ai suoi occhi apparveun immenso sotterraneo. Era colmo dal basso fino in alto didiamanti, perle, rubini e dell'oro più fino, tanto in scudi efiorini che in verghe."tutto tuo, Yanick" riprese la vergine. "E ora addio: cheDio ti apra il paradiso alla fine dei tuoi giorni."Una nube azzurra in forma di carro si avvicinò alla fanciulla:essa vi salì, e mandando al ragazzo un ultimo incantevoleaddio tornò dolcemente in cielo.Rimasto solo, Yanick si sfregò gli occhi, si pizzicò a sangueun braccio per vedere se non stesse sognando. Ma era assolutamentesveglio e il tesoro era sempre li davanti a lui.Infine si decise a scendere i pochi gradini che portavano alsotterraneo, e per ore e ore si divertì a passarsi da una manoall'altra le perle e i diamanti, che ricadendo in brillanti cascatellesotto i raggi del sole riflettevano tutti i colori dell'arcobaleno.Quando arrivò la notte si riempì le tasche di belle moneted'oro sonanti e si accinse a tornare alla fattoria del mezzadroGergaut.Appena il ragazzo ne fu uscito, il sotterraneo si richiuseda sé, il dolmen tornò al suo posto e la landa ridivenne com'eraprima, ossia la fredda patria degli spiriti folletti.La leggenda termina dicendo che Yanick grazie al suo inesauribiletesoro divenne un gran signore, ebbe i più bei castellidella contea e Gergaut, da lui arricchito, fu il suo primoscudiero.Dopo la sua morte il segreto del tesoro andò perduto, einvano molti lo hanno cercato in seguito: è rimasto sempreinvisibile per tutti.

LA LEGGENDA DELLA ROCCA DELLE FATE

LE FATE, AL TEMPO in cui vivevano, onoravano dopo lamorte quelli che avevano fatto del bene quando

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erano in vita, e costruivano grotte indistruttibili perproteggere le loro ceneri dall'invidia e dalla distruzione deltempo: e di notte venivano a parlare con i morti.Si dice pure che la loro benefica influenza diffondessenella regione un incanto indefinibile, insieme all'abbondanzae alla prosperità.Con questo scopo, con queste fatate intenzioni costruironola Rocca delle Fate, che noi abbiamo in uno deinostri campi.Le fate, si dice, si divisero il lavoro: alcune restaronosul posto dove doveva sorgere il monumento, prepararonoi piani e lo costruirono; le altre, nello stesso tempo,senza abbandonare i loro lavori di ricamo, si recavanonella foresta del Theil, si riempivano i grembiuli di pietree le portavano alle compagne lavoratrici, che le mettevanoin opera. Ma non avevano calcolato in anticipo laquantità che occorreva.Ora avvenne che il monumento era già terminato mentrele fate fornitrici erano ancora in cammino per apportaredel nuovo materiale; ma, avvertite che le loro pietreerano ormai inutili, aprirono i grembiuli e deposero il materialelà dove si trovavano quando avevano ricevuto l'avviso.Ce n'erano nella landa Marie; ce n'erano presso Rétiers,ce n'erano a Richebourg e nella foresta del Theil. Ecco la ragioneper cui in tutti questi luoghi si trovano delle pietre dellostesso tipo, e della stessa provenienza, di quelle che formanola nostra Rocca delle Fate.Purtroppo da molto tempo le fate sono scomparse: ma ilmonumento resta. Di notte, quando fuori soffia la tramontana,si sentono come dei lamenti nella Rocca delle Fate, e sidice che siano i morti sepolti lì sotto che chiamano le fate loroprotettrici; e questi lamenti si rinnoveranno finché essenon saranno tornate.

CARNAC, IL CAMPO DELLE"PIETRE PIANTATE"

IN QUEL TEMPO Santo Cornelio era papa a Roma. Cornelio,o Cornély, si attirò ben presto (e qualcuno pretendeche in quei giorni fosse di regola) le maldicenze e le cattiverieche la gente riservava ai primi cristiani. Temendo tuttaviail martirio, o divorato da un qualche zelo missionario,il sant'uomo giudicò prudente fuggire le milizie romane;e se ne andò da Roma, con a fianco una coppia di buoiche portavano i suoi bagagli. Lui stesso, quando era stanco,non disdegnava di salire a cavalcioni senza sella, comeConfucio, su quello dei due buoi che pareva il più forte.I santi attraversano pianure e stretti di mare e valicanomonti senza la minima difficoltà: la fede gli dona chiaroveggenzae l'innocenza (quella di Sant'Antonio o anche diSant'Agata) gli conferisce quell'ardore, quell'impeto chemanca ai viaggiatori interessati. Cornély quindi arrivòben presto in Bretagna. Aveva già costeggiato il golfo diMorbihan e stava percorrendo la via che porta da Auraya Carnac quando incontrò dei contadini che seminavanol'avena. Si fermò qualche minuto a chiacchierare e domandòamabilmente notizie del loro lavoro."Che cosa seminate?""l'avena" gli risposero."Allora" disse il santo "la mieterete domani."I contadini, sbigottiti, credettero che si trattasse di farneticazionedovuta alle fatiche del viaggio, e non ci pensaronopiù: il lavoro aspettava, bisognava rimettersi immediatamente

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all'opera. E l'opera riuscì a meraviglia: il giorno dopol'avena era matura, i contadini mietevano a tutto andare,preoccupati di riporre tutto l'intero raccolto nei granai primadel temporale (i miracoli affascinano la gente di campagna,ma non la stupiscono punto), quando i persecutori romanicomparvero sul limitare del campo."Non avete visto passare di qui un uomo con due buoi?""Certamente" risposero i mietitori. "Stavamo appunto seminandol'avena.""Allora", disse il centurione "non val più la pena di correrglidietro: ha troppo vantaggio su di noi, non lo raggiungeremomai."E i Romani decisero di accamparsi lì.Dietro un avvallamento del terreno, in una località dettaLe Moustoir, Cornély, per sfuggire agli occhi dei Romani, siera nascosto nell'orecchio di un bue: ci stava un po' stretto,ma era contento della sua trovata. Tuttavia capiva che il pericoloera grande. E quando vide tre soldati che venivanoverso di lui, non ebbe più dubbi: era urgente fare qualcosa digrosso per proteggere la propria fuga. Campi aridi si stendevanoa perdita d'occhio, interrotti qua e là da macchie di arbustiassai poco poetici, e persino da paludi che si estendevanoverso il mare. Intuì allora che una tale natura non si sarebbeadirata con lui e, come una terribile fata, trasformòtutti i Romani in pietre: per chilometri e chilometri tutt'attornola terra fu letteralmente seminata di questi strani obelischipiantati con la testa in giù, in file serrate. Sono i "soldati diSan Cornély" (Soudardet san Cornély). In lunghe file, questepietre ormai non parlano che il linguaggio delle grandi immobilità:la paura degli spettri vi è più intensa e l'aspetto sinistrodella landa è indescrivibile.Non furono risparmiati neppure i ritardatari, quelli chezoppicavano o erano ubriachi: il "gigante" di Kerdreff, i "soldatini"che sorgono presso il fiume, nel luogo detto Le Petit Ménec,e persino, a quanto si dice, le pietre distrutte di Luffang sonotestimoni della violenza delle metamorfosi cristiane.Resta tuttavia un enigma. Un enigma leggiadro, la cuibellezza ci aiuta a consolarci delle tenebre di Carnac (il "carnaio",o il campo dei "carnami"): vicinissimo a Kerdreff, lapietra chiomata, si eleva il menhir di Krifol. Si trova sul fianconord degli allineamenti di Ménec come una benevola sentinella:fine, slanciato, cinto di pennacchi di lichene giallo paglia,è veramente il "bel giovanotto di Krifol", prodigo eamoroso, così insolente nella sua bellezza e nella sua gioia divivere che Dio stesso, sdegnato, aveva deciso di punirlo e loaveva cambiato in pietra. Andate a vederlo, saltate i murettiche cingono il suo campo di grano. Perché il menhir di Krifoltorreggia in pieno campo, un campo fatto a sua misura, diun verde tenero che scende con dolce pendio verso gli allineamentidi pietre. E' superiore a tutti e qualche cosa vi diceche è cosciente di questa superiorità. E questa è in certo qualmodo la sua vendetta. Ha rischiato di trovarsi inghiottito inmezzo alle coorti romane, ma ha ottenuto l'estrema libertà dinon essere che la loro sentinella avanzata.Quanto a Cornély, che altro dirne? Naturalmente vissefelice e contento, circondato dalla venerazione dei notabilidel luogo. I contadini lo onorarono anche dopo la sua morte:e qua e là nelle chiesette del Morbihan, certi piccoli buoidi legno dipinto posati su mensolette a mezza altezza dei muririevocano allegramente il ricordo delle brave bestie delsanto.

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VIAGGI E INIZIAZIONI

LA GROAC'H DELL'ISOLA DEL LOK1

TUTTI QUELLI CHE CONOSCONO la Terra della Chiesa(Lanillis) sanno che è una delle più belle parrocchiedella diocesi del Léon. Oltre al fieno e al frumento,ci sono sempre stati dei frutteti ricchi di meli che dannopomi più dolci del miele di Sizun e di susini in cui tutti ifiori maturano in frutti. Per quel che riguarda le fanciulleda marito, sono tutte virtuose e brave massaie, a quantodicono i loro genitori.Nei tempi antichi, quando nella bassa Bretagna i miracolierano tanto comuni quanto lo sono oggi i battesimi ei funerali, viveva a Lanillis un giovanotto che si chiamavaHouarn Pogamm, come pure una fanciulla chiamata BellahPostik. Erano cugini, come usava nel paese, e le loromadri, quando erano ancora in fasce, li avevano allevatinella stessa culla, come si suol fare coi bambini destinatiun giorno a diventare marito e moglie, con l'aiuto di Dio.2Così erano cresciuti insieme, amandosi di tutto cuore.Ma i loro genitori erano morti uno dopo l'altro, e idue orfanelli, che non avevano ricevuto nulla in eredità,furono costretti a mettersi a servizio presso lo stesso padrone.E avrebbero potuto trovarsi benissimo, e vivere felici econtenti: ma gli innamorati assomigliano al mare, che si lagnacontinuamente."Se solo avessimo abbastanza denaro da comperare unavaccherella e un magro maiale," diceva Houarn "io prendereiin affitto dal nostro padrone un pezzetto di terra, il curato cimariterebbe e potremmo andare ad abitare insieme.""Sicuro," rispondeva Bellah con un gran sospiro "ma viviamoin tempi così duri! Le vacche e i maiali sono ancorarincarati all'ultima fiera di Ploudalmezeau; certamente Dionon si preoccupa più di come va il mondo.""Ho paura che dovremo aspettare un sacco di tempo", riprendevail giovanotto "perché non sono mai io che finisco lebottiglie quando bevo all'osteria con gli amici).""Un sacco di tempo," rispondeva la fanciulla "perché nonsono riuscita a sentir cantare il cucù.3"Questi lamenti ricominciavano tutti i giorni, finchéHouarn alla fine perdette la pazienza. Un bel mattino andò atrovare Bellah, che spulava il grano nell'aia, e le annunciòche voleva partire per cercar fortuna.La fanciulla fu molto addolorata da questa notizia e fecetutto quello che poté per trattenerlo; ma Houarn, che era ungiovanotto risoluto, non volle sentir ragione."Gli uccelli" disse "volano dritti davanti al becco finchétrovano un campo di grano, e le api finché trovano fioriper fare il miele: e un uomo può forse aver meno ragionidelle bestie volanti? Anch'io voglio cercar dappertutto ciòche mi manca, ossia i soldi per comprare una vaccherellae un magro maiale. Se mi vuoi bene, Bellah mia, nonopporti più a un progetto che deve affrettare le nostrenozze."La fanciulla comprese che doveva cedere e benché avesseil cuore stretto disse a Houarn:"Parti, con l'aiuto di Dio, poiché è necessario; ma primavoglio dividere con te ciò che vi è di meglio dell'eredità deimiei genitori."Prese il giovanotto per mano, lo condusse davanti al suoarmadio, e ne tirò fuori una campanella, un coltello e un bastone."Queste tre reliquie" disse "non sono mai uscite dalla mia

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famiglia. Ecco prima di tutto la campanella di San Koledok:ha un suono che si fa sempre sentire a qualunque distanza eavverte i nostri amici dei pericoli che corriamo. Il coltello appartenevaa San Corentin e tutto ciò che tocca sfugge ai sortilegidei maghi o del demonio. Infine questo è il bastone cheportava San Vouga: ci conduce ovunque si voglia andare. Ioti do il coltello per difenderti dai malefizi, la campanella perchétu mi faccia sapere quando sei in pericolo e trattengo ilbastone, per raggiungerti se avrai bisogno di me"4.Houarn ringraziò la fidanzata, pianse un poco con lei, comesi deve sempre fare quando ci si separa, e quindi se ne andòdirigendosi verso le montagne.Ma succedeva allora come oggi: in tutti i villaggi dovepassava, Houarn era perseguitato dai mendicanti i quali,poiché le sue brache erano intere, lo prendevano per un signore."In fede mia," egli pensò "questo è un paese in cui vedopiù occasioni di spender denaro che di far fortuna. Andiamopiù lontano."Continuò dunque il cammino scendendo fino alla costa earrivò a Pontaven, che è una graziosa cittadina costruita suun fiume fiancheggiato da pioppi.Mentre stava seduto sulla porta della locanda, sentì duemulattieri che chiacchieravano caricando i muli e parlavanodella groac'h dell'isola del Lok. Houarn chiese cosa fosse unagroac'h e gli risposero che si dava questo nome a una fatache abitava nel lago della più grande delle Glénans e che, aquanto si diceva, era più ricca lei sola di tutti i re messi insieme.Molti erano già andati sull'isola per impadronirsi deisuoi tesori: ma nessuno ne era tornato.Houarn ebbe immediatamente l'idea di recarsi a sua voltasull'isola per tentar l'avventura. I mulattieri fecero di tuttoper distoglierlo da quel progetto: chiamarono persino a granvoce la gente dei dintorni, gridando che dei buoni cristianinon potevano lasciare che un uomo corresse così alla sua rovina.E tutti volevano trattenere a forza il giovanotto. Ma luiringraziò dell'interesse che gli dimostravano e si dichiaròpronto ad abbandonare il suo progetto solo se avessero fattouna colletta per raccogliere abbastanza danaro da permetterglidi comperare una vaccherella e un maiale magro. Ma aquesta proposta i mulattieri e i buoni cristiani si ritirarono,ripetendo che era proprio un testardo e che non c'era mododi trattenerlo.Houarn si recò dunque sulla riva del mare, da un battelliereche lo trasportò sull'isola del Lok.Trovò senza fatica lo stagno posto al centro dell'isola, tuttocircondato da piante marine dai fiori rosa. Mentre ne facevail giro vide a un'estremità, all'ombra di un ciuffo di ginestre,un canotto color del mare che galleggiava sulle acquetranquille. Questo canotto aveva la forma di un cigno addormentatocon la testa sotto l'ala.Houarn, che non aveva mai visto niente di simile, si avvicinòcurioso ed entrò nella barca per vederla meglio: ma appenavi ebbe messo piede il cigno sembrò svegliarsi: la suatesta uscì di sotto l'ala, le larghe zampe si stesero sull'acqua el'uccello si allontanò bruscamente dalla riva.Il giovanotto gettò un grido di spavento: ma il cignoavanzò più veloce verso il centro dello stagno. Houarn vollegettarsi a nuoto, ma l'uccello affondò il lungo collo nell'acquae si tuffò, trascinandolo con sé.Il leonese, che non poteva gridare senza inghiottire l'acquamaleodorante dello stagno, fu costretto a tacere e giunsecosì alla dimora della groac'h.Era un palazzo di conchiglie, che superava in splendoretutto quello che si poteva immaginare. Ci si arrivava per una

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scala di cristallo, fatta in modo tale che, quando uno ci poggiavail piede, ogni gradino cantava come un uccello dei boschi!Tutt'intorno si vedevano immensi giardini dove crescevanoforeste di piante marine e aiuole di alghe verdi, tempestatedi diamanti al posto dei fiori.La groac'h era sdraiata nella prima sala, su un letto d'oro.Era vestita di un manto verdemare, morbido e fine comeun'onda: i suoi capelli neri, sparsi di coralli, le scendevano finoai piedi e il suo viso bianco e rosa aveva lo splendore diun interno di conchiglia.Houarn si fermò, abbagliato alla vista di una creatura cosìbella; ma la groac'h si alzò e sorridendo gli venne incontro.Si muoveva con un passo così morbido che la si sarebbedetta una delle creste bianche che corrono sulla superficie delmare."Siate il benvenuto" disse al giovane, facendogli cenno dientrare. "C'è sempre posto qui per gli stranieri e per i bei giovanotti."Il giovane, rassicurato, entrò."Chi siete, da dove venite, e che cosa cercate?" aggiunse lagroac'h."Mi chiamo Houarn" rispose il leonese. "Vengo da Lanillis ecerco di che comperarmi una vaccherella e un maiale magro.""Ebbene, venite, Houarn," riprese la fata "e non vi preoccupatepiù di nulla, perché avrete tutto ciò che potrà farvi felice."Lo fece entrare in una seconda sala tappezzata di perle,dove gli servì otto tipi di vino in otto calici d'argento scolpi-to. Houarn bevve dapprima gli otto calici di vino: e lo trovòcosì buono che poi ne bevve di nuovo otto volte di ciascuntipo. E ogni volta trovava la groac'h ancora più bella.La fata lo incoraggiava, dicendogli che non doveva averpaura di rovinarla, poiché lo stagno dell'isola del Lok comunicavacol mare e tutte le ricchezze inghiottite dai naufragierano trascinate all'isola da una corrente magica."Per l'anima mia," disse Houarn, reso molto allegro dalvino, "non mi stupisco più se la gente della costa parla maledi voi. Le persone così ricche suscitano sempre gelosia: equanto a me, non chiederei che la metà della vostra fortuna.""E l'avrete, Houarn, se la vorrete," disse la fata."E come?" domandò lui."Sono rimasta vedova di mio marito, il korandon," ripresela fata "e se mi trovate di vostro gusto diventerò la vostrasposa."Il leonese rimase sconvolto da ciò che aveva udito. Lui,sposare la groac'h, che gli pareva così bella, che aveva unpalazzo così splendido e otto tipi di vino che lasciava bere avolontà!... Veramente, aveva promesso a Bellah di sposarla,ma gli uomini dimenticano facilmente questa specie di promesse,e in questo sono proprio come le donne.Rispose dunque cortesemente alla fata:"Non siete certo fatta per essere rifiutata: e sarà una gioiae un onore diventare vostro marito."La groac'h esclamò allora che voleva preparare immediatamenteil pranzo di nozze. Apparecchiò una grande tavola evi imbandì tutto ciò che il leonese conosceva di meglio (oltrea molte altre cose ch'egli non conosceva affatto); poi andò aun piccolo vivaio che si trovava in fondo al giardino e si misea chiamare:"Ehi, tu, procuratore! ehi, tu, mugnaio! ehi, tu, sarto! ehi,tu, cantore!"E a ogni chiamata si vedeva accorrere un pesce, ch'essametteva in una rete d'acciaio.Quando la rete fu piena, la fata passò in una stanza vicinae gettò tutti i pesci in una padella d'oro.Ma a Houarn parve di sentire, in mezzo al crepitio della

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frittura, delle vocine sottili che mormoravano qualcosa."Chi è mai che borbotta nella padella d'oro?" osservò ilgiovane."E' la frittura che rosola" rispose lei attizzando il fuoco.Un attimo dopo le voci sottili ricominciarono a borbottare."Chi è mai che borbotta, Groac'h?" chiese di nuovo lui."E' la frittura che rosola" rispose lei, facendo saltare i pesci.Ma ben presto le vocine cominciarono a gridare più forte."Chi è mai dunque che grida, Groac'h?" ripeté Houarn."E' il grillo del focolare" rispose la fata, cantando così forteche il leonese non sentì più nulla.Ma quel ch'era successo lo aveva fatto riflettere, e poichécominciava ad aver paura, cominciò anche a sentire dei rimorsi."Gesù Maria!" disse fra sé "è mai possibile che io abbia dimenticatocosì presto la mia Bellah per una groac'h, che dev'esserefiglia del demonio? Con questa donna non osereineppure dire le mie preghiere della sera, e sono sicuro di andardritto all'inferno come un ladro di maiali."Mentre così diceva fra sé, la fata aveva messo in tavola lafrittura di pesci e insisteva perché si mettesse a mangiare, dicendoche intanto sarebbe andata a prendere per lui dodicinuovi tipi di vino.Houarn sospirando levò di tasca il coltello e si apprestavaa mangiare: ma non appena la lama che distruggeva i sortilegiebbe toccato il piatto d'oro, tutti i pesci si drizzarono inpiedi e ridivennero dei piccolissimi uomini, ciascuno abbi-gliato secondo la sua condizione. C'era un procuratore incolletto bianco, un sarto in calze violette, un mugnaio colorfarina, un cantore in cotta, e tutti gridavano insieme, nuotandonella frittura:"Houarn, salvaci, se vuoi salvarti anche tu!""Santa Vergine! E chi sono questi ometti che cantano nelburro fuso?" esclamò stupefatto il leonese."Siamo dei cristiani come te" risposero quelli. "Anche noieravamo venuti all'isola del Lok per cercar fortuna, anchenoi abbiamo consentito a sposare la groac'h; e il giorno dopole nozze quella ha fatto di noi ciò che aveva fatto dei nostripredecessori, che sono nel vivaio grande.""E che!" esclamò Houarn "una donna che sembra così giovaneè già vedova di tutti questi pesci!""E tu ti troverai ben presto nello stesso stato, anche tupronto per esser fritto e mangiato da un nuovo venuto!"Houarn fece un salto, come se si fosse già sentito nella padellad'oro, e corse verso la porta, pensando solo a fuggire primadell'arrivo della groac'h: ma questa, che stava appunto entrando,aveva sentito tutto. Gettò la sua rete d'acciaio sul leonese,che immediatamente si trasformò in ranocchio, e andò aportarlo nel vivaio, dove si trovavano già gli altri suoi mariti.In quel momento la campanella che Houarn portava alcollo cominciò a tintinnare da sola, e Bellah la sentì a Lanillis,dove stava scremando il latte munto il giorno prima.Fu per lei come un colpo al cuore. Gettò un grido, esclamando:"Houarn è in pericolo!"E senza un attimo di indugio, senza domandar consiglio anessuno corse a mettersi i vestiti della messa grande, le scarpe,la croce d'argento e uscì dalla fattoria col suo bastone magico.Arrivata al crocicchio, piantò il bastone in terra mormorando:Di San Vouga ti ricorderai!Bastone di melo, mi porteraiper terra, nell'aria, sul mare,ovunque dovrò passare!5

Il bastone si trasformò immediatamente in un puledrorosso di San Thégonec, strigliato, sellato, imbrigliato con un

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nastro per orecchio e un pennacchio azzurro sulla fronte.Bellah balzò in sella senza esitare. Il puledro partì dapprimaal passo, poi al trotto, poi al galoppo; e correva così veloceche i fossati, gli alberi, le case, i campanili passavanodavanti agli occhi della fanciulla come i bracci di un arcolaio.Ma lei non si lagnava, ben sapendo che ogni passo laportava più vicino al suo caro Houarn: al contrario spronavail cavallo, ripetendo:"Il cavallo va meno veloce della rondine, la rondinemeno veloce del vento, il vento meno veloce del lampo;ma tu, mio bel puledrino, se mi vuoi bene, bisogna checorra più veloce di tutti; perché io ho una parte del miocuore che soffre, la metà migliore del mio cuore che è inpericolo."Il puledro la udiva e correva come una paglia portata dalturbine; sicché arrivò infine nell'Arhès, ai piedi della rocciache chiamano il Salto del Cervo.Ma qui si fermò, perché giammai né cavallo né giumentasi era arrampicato per quella roccia. Bellah, che avevacompreso perché l'animale restava immobile, ricominciò adire:

Di San Vouga ti ricorderai!Puledro del Léon, mi porteraiper terra, nell'aria, sul mareovunque dovrò passare!

Non appena ebbe pronunciato queste parole, due grandiali uscirono dai fianchi del cavallo, che divenne un grandeuccello e la trasportò fin sulla cima della roccia.Su questa cima c'era un nido fatto di terra da vasaio eguarnito di muschio secco, sul quale era accovacciato un piccolokorandon tutto nero e tutto rugoso. Quando vide Bellah,il korandon cominciò a gridare:"Ecco la bella fanciulla che viene a salvarmi!""Salvarti!" fece Bellah. "Chi sei tu dunque, mio caro ometto?""Io sono Jeannik, il marito della groac'h dell'isola del Lok;è lei che mi ha mandato qui.""Ma che fai in questo nido?""Covo sei uova di pietra, e non riavrò la mia libertà senon quando si saranno aperte."Bellah non poté trattenersi dal ridere."Mio povero caro galletto!" disse. "E come potrei liberarti?""liberando Houarn, che è in potere della groac'h.""Ah, dimmi, che bisogna fare per liberarlo?" esclamò l'orfanella."Quand'anche dovessi fare in ginocchio il giro deiquattro vescovati, comincerei immediatamente.""Ebbene, cara fanciulla, ci vogliono due cose" disse il korandon."Anzitutto devi presentarti alla groac'h come un giovanotto;poi devi toglierle la rete d'acciaio che porta alla cinturae chiudervela dentro fino al giorno del Giudizio.""E dove potrei trovare un vestito da giovanotto che siadella mia misura, mio caro korandon?"A queste parole il nanetto strappò quattro dei suoi capellirossi, li soffiò nel vento borbottando qualcosa a bassa voce,e i quattro capelli divennero quattro sarti: il primo aveva inmano un cavolo, il secondo un paio di forbici, il terzo unago e il quarto un ferro da stiro.6Tutti e quattro sedettero intorno al nido, con le gambe aforma di X, e si misero a preparare un abito per Bellah.Con la prima foglia del cavolo fecero una bella giacca,impunturata su tutte le costure: un'altra foglia servì per ilpanciotto; ma ce ne vollero due per le grandi brache alla modadel Léon. Infine il cuore del cavolo fu tagliato in forma di

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cappello e il torsolo servì a fare le scarpe.Quando Bellah ebbe indossato quell'abito la si sarebbedetta un gentiluomo vestito di velluto foderato di rasobianco.La fanciulla ringraziò il korandon, che le diede ancoraqualche avvertimento: poi il suo grande uccello la trasportòin un sol volo fino all'isola del Lok. Qui giunta, Bellah gli ordinòdi ridiventare un bastone di melo ed entrò nella barca aforma di cigno, che la condusse al palazzo della groac'h.Alla vista del giovane leonese vestito di velluto la fataparve incantata."Per Satana mio cugino," disse fra sé "ecco il più bel giovanottoche sia mai venuto a trovarmi, e credo che lo ameròfino a tre volte tre giorni."Cominciò dunque a fare un sacco di moine a Bellah, chiamandola"tesoruccio" e "cuoricino mio". Le servì la colazionee Bellah trovò sul tavolo il coltello di San Corentin, cheHouarn vi aveva lasciato. Lo prese, per servirsene all'occasione,poi seguì la groac'h in giardino.La fata le mostrò le aiuole fiorite di diamanti, le fontaneprofumate di lavanda e soprattutto il vivaio, dove nuotavanopesci di mille colori.Bellah parve incantata dai pesci e sedette sul bordo dellostagno per guardarli meglio.La groac'h approfittò di questo momento per chiederle senon le sarebbe piaciuto restare sempre in sua compagnia. EBellah rispose che non domandava di meglio."Così tu saresti disposto a sposarmi immediatamente?"chiese la fata."Sicuro", rispose Bellah "a patto che io possa pescare unodi questi bei pesci con la rete d'acciaio che avete alla cintura."La groac'h, che non aveva alcun sospetto, prese questa richiestacome un capriccio del bel giovanotto; gli diede la retee aggiunse sorridendo:"Vediamo un po', bel pescatore, quel che saprai prendere.""Prenderò il diavolo!" gridò Bellah, gettando la rete apertasulla testa della groac'h. "In nome del Salvatore degli uomini,maledetta strega, diventa nel corpo ciò che sei nel cuore."La groac'h poté solo gettare un grido, che terminò in unmormorio soffocato: perché il voto della fanciulla si eracompiuto e la bella fata delle acque non era più che l'orribileregina dei funghi.7Bellah serrò rapidamente la rete e corse a gettarla in unpozzo, sul quale posò una pietra suggellata col segno dellacroce, affinché non potesse sollevarsi se non insieme a quelledelle tombe, nel giorno del Giudizio.Poi tornò in fretta verso il vivaio: ma tutti i pesci ne eranogià usciti e le venivano incontro come una processione dimonaci variopinti, gridando con le loro vocette roche:"Ecco il nostro signore e padrone, quello che ci ha liberatidalla rete d'acciaio e dalla padella d'oro!""E sarà anche quello che vi renderà la vostra forma di cristiani"disse Bellah tirando fuori il coltello di San Corentin.Ma mentre stava per toccare il primo pesce vide, proprioai suoi piedi, un ranocchio verde che portava al collo la campanellamagica e singhiozzava in ginocchio, stringendo ledue zampette sul suo piccolo cuore. Bellah si sentì dentro comeun colpo e gridò:"Sei tu, sei tu, mio piccolo Houarn, croce e delizia mia?""Sono io!" rispose il giovanotto "inranocchiato".Bellah lo toccò subito con la lama del coltello che avevain mano: Houarn riprese la forma umana e tutti e due si abbracciarono,piangendo con un occhio per il passato e ridendocon l'altro per il presente.

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Poi la fanciulla toccò col coltello tutti i pesci, che ridivennerociò che erano stati.Mentre stava terminando questa operazione vide arrivareil piccolo korandon della Roccia del Cervo, trasportato nelsuo nido, come in un carro, da sei grosse mosche di quercia8che erano uscite dalle sei uova di pietra."Eccomi qui, mia bella fanciulla," gridò il korandon a Bellah."Il sortilegio che mi tratteneva laggiù è spezzato e vengoa ringraziarti, perché di una gallina tu hai fatto un uomo.Condusse quindi i due fidanzati ai forzieri della groac'h,che erano pieni di pietre preziose, dicendo che potevanoprenderne a volontà.I due giovani si riempirono le tasche, le cinture, i cappellie persino le larghe brache leonesi; infine, quando ebbero presotutto quanto potevano portare, Bellah ordinò al suo bastonedi diventare una carrozza alata, abbastanza grande dacondurli a Lanillis insieme a tutti quelli che avevano liberato.Là fecero le pubblicazioni e Houarn sposò Bellah, comeaveva sempre desiderato. Solamente che, invece di comperareuna vaccherella e un maiale magro, comperò tutte le terredella parrocchia e vi installò come fattori gli uomini che avevaportato con sé dall'isola del Lok.

PERONNIK L'IDIOTA1

CERTAMENTE OGNUNO DI voi avrà incontrato qualcunodi quei poveri innocenti che il parroco ha battezzatocon olio di lepre2 e che non sanno far altroche fermarsi sulla soglia delle case per chiedere un tozzodi pane. Li diresti dei vitelli che hanno perduto la stradadella stalla. Guardano da tutte le parti con gli occhi spalancatie la bocca aperta, come se cercassero qualche cosa:ma quello che cercano non è così abbondante nel paeseda poterlo trovare sull'orlo delle strade, perché è propriol'intelletto.Peronnik era uno di questi poveri idioti che hanno perpadre e madre la carità dei buoni cristiani. Andava dirittodavanti a sé senza sapere dove: quando aveva sete bevevaalle fontane; quando aveva fame domandava alle donneche vedeva sulle porte gli avanzi della loro cena; e quandoaveva sonno cercava un mucchio di paglia e ci scavava ilsuo letto, come una lucertola.Del resto Peronnik non era neanche troppo mal vestito,vista la sua condizione. Aveva un par di brache di tela,a cui non mancava che il fondo, un panciotto fornitoanche di una manica e la metà di un berretto che una voltaera nuovo. Così, quando aveva mangiato, cantava contutto il cuore e ringraziava il buon Dio mattina e sera diavergli fatto tanti doni senza esservi obbligato. Quanto a conoscereun mestiere, Peronnik non ne aveva mai imparatouno: ma era piuttosto abile in una quantità di cose. Mangiavatanto pane quanto si voleva, sapeva dormire più a lungodi qualsiasi altro e imitava con la lingua il canto delle allodole.E oggi ci sono tanti cristiani nel paese che non sarebberocapaci di fare altrettanto.Al tempo in cui vi parlo (e sarebbero mille e più anni fa) ilpaese del grano bianco non era così come lo vedete oggi. Daallora molti gentiluomini si sono mangiati la loro eredità ehanno cambiato i tronchi delle loro foreste in zoccoli. La forestadi Paimpont si estendeva su più di venti parrocchie; ecertuni dicono anche che guadava il fiume e andava a raggiungereElven.Comunque sia, Peronnik arrivò un bel giorno a una fattoria

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che sorgeva al margine del bosco; e poiché era già tantotempo che nel suo stomaco suonava la campana del Benedicitesi avvicinò per domandar da mangiare.La fattoressa stava appunto in ginocchio sulla soglia dellaporta e si preparava a ripulire il suo paiolo con la pietra focaia;3ma quando sentì la voce dell'idiota che le domandava damangiare in nome di Dio, si fermò e gli tese il paiolo."Tieni," gli disse "mio povero Giovannin Vitello,4 mangiatile croste e di' un padrenostro per i nostri maiali che nonriescono a ingrassare."Peronnik si sedette per terra, si mise il paiolo fra le gambee cominciò a grattare con le unghie: ma non vi riusciva a trovaregran cosa, perché in quel paiolo erano già passati tutti icucchiai della famiglia. Tuttavia si leccò le dita e fece sentireun grugnito di soddisfazione, come se non avesse mai mangiatoniente di meglio."E' farina di miglio," borbottava a mezza voce "farina dimiglio stemperata in latte di vacca nera5 dalla miglior cuocadi tutto il paese."La fattoressa, che se ne stava andando, si voltò tutta lusingata:"Povero innocente," disse "ne resta ben poco; ma ci aggiungeròun pezzo di pane di segale."6Portò al ragazzo un tozzo di pagnotta che arrivava dalforno: Peronnik ci diede dentro coi denti come un lupoche divora una coscia d'agnello, esclamando che quel panedelizioso doveva esser stato impastato dal fornaio del vescovodi Vannes! La contadina inorgoglita soggiunse cheera ben altra cosa quando lo si mangiava con burro fresco:e per dimostrarlo ne portò un po' in una scodella coperta.Dopo averlo assaggiato l'idiota dichiarò che quel burro eraproprio vivo,7 che quello della Settimana Bianca non eraniente al confronto;8 e per meglio suffragare i suoi elogispalmò sul suo tozzo di pane tutto ciò che restava nellascodella. Ma la fattoressa era così contenta che neppure sene accorse, anzi aggiunse ancora a quanto gli aveva giàdato un bel pezzo di lardo, che era avanzato dalla zuppadella domenica.Peronnik a ogni boccone si profondeva in elogi semprepiù sentiti e mandava giù tutto, come se fosse acqua di sorgente,perché era un bel pezzo che non faceva un pasto simile.La fattoressa andava e veniva, sempre guardandolo mangiare,e aggiungeva ogni tanto qualche avanzo, che il ragazzoriceveva facendosi il segno della croce.Mentre era così impegnato a rimettersi in forze, comparvesulla soglia di casa un cavaliere armato, che si rivolse alladonna per chiederle la strada del castello di Kerglas."Gesù mio! signor gentiluomo, volete proprio andare là?"esclamò la fattoressa."Sì," rispose il cavaliere "e sono venuto per questo da unpaese così lontano che ho dovuto marciare tre mesi giorno enotte per arrivare fin qui.""E cosa venite a cercare a Kerglas?" riprese la donna."Vengo a cercare la coppa d'oro e la lancia di diamante.""Allora sono due cose preziose?" chiese Peronnik."Più preziose di tutte le corone della terra," rispose lo straniero"perché la coppa d'oro, oltre a produrre all'istante tuttii cibi e tutte le ricchezze che si desiderano, basta berci dentroper guarire da tutti i mali, e persino i morti risuscitano appenala toccano con le labbra. Quanto alla lancia di diamante,uccide e frantuma tutto ciò che tocca.""E a chi appartengono questa lancia di diamante e questacoppa d'oro?""A un mago chiamato Rogéar, che abita nel castello diKerglas" rispose la fattoressa. "Lo si vede passare tutti i

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giorni al margine del bosco, sulla sua giumenta nera, che èseguita da un puledrino di tredici mesi; ma nessuno oserebbeattaccarlo, perché ha nelle sue mani la lancia senzapietà.""E' così," disse il cavaliere "ma il comando di Dio gli vietadi servirsene nel castello di Kerglas. Appena vi arriva, devedeporre la coppa e la lancia in fondo a un sotterraneo oscuro,che nessuna chiave può aprire: e così io voglio andare appuntonel castello per attaccare il mago.""Ahimè, non ci riuscirete, mio bel cavaliere," riprese lacontadina. "Più di cento altri gentiluomini hanno tentato lasorte prima di voi, e nessuno è ritornato.""Lo so, lo so, buona donna," replicò il cavaliere; "maquelli non avevano ricevuto, come me, le istruzioni dell'eremitadi Blavet.""E cosa vi ha detto l'eremita?" chiese Peronnik."Mi ha detto tutto ciò che dovrò fare" fece lo straniero."Anzitutto dovrò attraversare il bosco stregato, dove mi im-batterò in incantesimi di ogni genere fatti per atterrirmi efarmi perdere la strada. La maggior parte dei cavalieri che mihanno preceduto si sono persi nel bosco e sono morti di freddo,di fatica o di fame.""E se lo passate?" fece l'idiota."Se lo passerò," continuò il gentiluomo "incontrerò unkorrigan armato di un pungiglione di fuoco che riduce in ceneretutto ciò che tocca. Questo korrigan veglia ai piedi di unmelo da cui dovrò cogliere una mela.""E poi?" chiese Peronnik."Poi troverò il fiore che ride, custodito da un leone con lacriniera formata da vipere, e dovrò cogliere il fiore; dopodichédovrò attraversare il lago dei draghi, e combattere control'uomo nero armato di una palla di ferro che colpiscesempre il bersaglio e torna da sola al suo padrone; infine entrerònella valle dei piaceri, dove vedrò tutto ciò che può tentaree trattenere un cristiano, e infine arriverò a un fiume cheha un solo guado. Qui si troverà ad aspettarmi una damavestita di nero; io la prenderò in spalla e lei mi dirà che cosadovrò fare."La fattoressa cercò di dimostrare allo straniero che nonavrebbe mai potuto superare tutte quelle prove: ma questi risposeche non era cosa che potesse giudicare una donna, edopo essersi fatto indicare la via della foresta mise il cavalloal galoppo e sparì fra gli alberi.La fattoressa gettò un gran sospiro, dichiarando che quelloera un morto che Gesù Cristo avrebbe dovuto giudicare:regalò qualche altra crosta a Peronnik e lo esortò a continuareil cammino.Peronnik stava per rimettersi in marcia quando dai campiarrivò il padrone della fattoria. Questi aveva appena licenziatoil garzone che gli guardava le vacche e pensava fra sécome poterlo sostituire.Alla vista dell'idiota gli si accese una luce nel cervello:pensò subito di aver trovato ciò che gli occorreva, e dopoavergli rivolto qualche domanda chiese a Peronnik se volesserestare alla fattoria per guardare le bestie. Peronnik avrebbepreferito limitarsi a guardare solo se stesso, perché nessunoaveva più coraggio di lui a non far niente. Ma sentiva ancorasulle labbra il buon sapore del lardo, del burro fresco, del panedi segale e delle croste di miglio; e così si lasciò tentare eaccettò la proposta del fattore.Questi lo condusse subito al margine della foresta: contòa voce alta le vacche (ivi comprese le giovenche), tagliò perlui una bacchetta di nocciolo perché potesse guidarle e glidisse di ricondurle al tramonto.

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Ecco dunque il nostro Peronnik divenuto guardiano divacche, con l'incarico di proteggerle dai guai: e così correvadalla nera alla rossa, e dalla rossa alla bianca, per ricondurlenella mandria quando volevano allontanarsi.Ora, mentre correva così da una parte all'altra, sentì d'untratto un rumor di zoccoli e vide fra gli alberi del boscoavanzarsi il gigante Rogéar in sella alla sua giumenta, seguitodal puledrino di tredici mesi. Portava appesa al collo la coppad'oro e aveva in mano la lancia di diamante che brillavacome una fiamma. Peronnik, spaventato, si nascose dietroun cespuglio: il gigante passò accanto a lui e continuò la suastrada. Quando fu scomparso l'idiota uscì dal nascondiglio eguardò dalla parte dove il gigante si era diretto, senza peròdistinguere la strada che aveva preso.Intanto arrivavano continuamente dei cavalieri armati acercare il castello di Kerglas, ma non se ne vedeva tornarenessuno.Invece il gigante faceva tutti i giorni la sua passeggiata.L'idiota finì per prender coraggio: non si nascondeva più alpassaggio del mago, e guardava da lontano con occhi invi-diosi, perché ogni giorno gli aumentava nel cuore il desideriodi possedere la coppa d'oro e la lancia di diamante. Ma eracome per le donne belle: è più facile sognarle che ottenerle.Una sera che Peronnik si trovava solo in mezzo al prato,come al solito, ecco che un uomo dalla barba bianca comparvesul margine della foresta. L'idiota credette che fosse unaltro straniero giunto per tentar la sorte e gli chiese se per casocercava la strada per Kerglas."Non la cerco, perché la conosco" rispose lo sconosciuto."Ci siete già stato, e il mago non vi ha ucciso!" esclamò l'idiota."Perché non aveva nulla da temere da me" replicò il vecchiodalla barba bianca; "mi chiamano lo stregone Bryak esono il fratello maggiore di Rogéar. Quando voglio andarloa trovare vengo qui; e poiché, malgrado i miei poteri, nonriuscirei a traversare il bosco stregato senza smarrirmi, chiamoil puledro nero perché mi guidi."A queste parole tracciò col dito tre cerchi nella polvere,ripeté a voce bassa delle parole che il demonio insegna aglistregoni, poi esclamò:

Puledro sciolto di piedi, puledro sciolto di denti,puledro, io sono qui, vieni presto, ti aspetto.9

Immediatamente comparve il puledro. Bryak gli mise unacavezza, una pastoia, gli salì in groppa e lo lasciò rientrarenella foresta.Peronnik non disse nulla a nessuno di questa avventura;ma ora comprese che la prima cosa da fare, per arrivare aKerglas, era di salire in groppa al puledro che conosceva lastrada. Sfortunatamente non sapeva né tracciare i tre cerchiné pronunciare le parole magiche necessarie per fargli giungerel'appello:

Puledro, sciolto di piedi, puledro sciolto di denti,Puledro, io sono qui, vieni presto, ti aspetto.

Bisognava dunque trovare un altro modo per impadronirsene;e una volta catturato il puledro, bisognava trovare ilmodo di prender la mela, cogliere il fiore che ride, sfuggirealla palla dell'uomo nero e traversare la valle dei piaceri.Peronnik ci pensò a lungo e infine gli parve di potervi riuscire.Quelli che sono forti affrontano i pericoli di petto con la loroforza, e per lo più vanno a finir male; ma i deboli prendono lecose aggirandole di lato. E l'idiota, non potendo sperare di

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combattere contro il gigante, decise di ricorrere all'astuzia.Quanto alle difficoltà, non lo spaventavano: sapeva che le nespolesono dure come sassi quando si colgono, ma con un po' dipaglia e molta pazienza finiscono pure per diventare tenere.10Fece dunque tutti i preparativi per l'ora in cui il gigantedoveva comparire all'entrata del bosco. Intanto si procuròuna cavezza e una pastoia di canapa nera, un lacciuolo daprender beccacce, di cui immerse i crini nell'acqua benedetta,un sacco di tela che riempì di vischio e di piume di allodola,un rosario, un fischietto di sambuco e una crosta di panesfregata sul lardo rancido. Fatto ciò, sbriciolò il pane dellasua colazione lungo il sentiero che Rogéar seguiva con la suagiumenta e il puledro di tredici mesi.Tutti e tre comparvero alla solita ora e attraversarono ilpascolo, come facevano tutti i giorni; ma il puledro, chemarciava a testa bassa fiutando il terreno, sentì l'odore dellebriciole di pane e si fermò per mangiarle, di modo che benpresto si trovò solo e fuori di vista del gigante. Allora Peronniksi avvicinò dolcemente: gli gettò la cavezza, gli legò duezampe con la pastoia, gli balzò in groppa e lo lasciò andare asuo talento. Era sicuro che il puledro, il quale conosceva lastrada, lo avrebbe condotto al castello di Kerglas.Effettivamente il puledro prese senza esitare uno dei sentieripiù selvaggi, marciando tanto rapido quanto lo permettevala pastoia.Peronnik tremava come una foglia, perché tutti gli incantesimidella foresta si erano riuniti per atterrirlo. Ora gli sembravache davanti alla sua cavalcatura si aprisse una voragine senzafondo; ora gli pareva che gli alberi prendessero fuoco e sivedeva in mezzo a un incendio; spesso, al momento di guadareun ruscello, il ruscello diventava un torrente e minacciava ditravolgerlo: altre volte, mentre seguiva un sentiero ai piedi dellacollina, gli pareva che immense rocce si staccassero e rotolasserosu di lui per schiacciarlo. L'idiota aveva un bel dirsi cheerano tutti inganni dello stregone: si sentiva il midollo ghiacciatodalla paura. Infine si decise a tirarsi il berretto sugli occhiper non vedere e a lasciarsi portare dal puledro.Tutti e due arrivarono così a una pianura dove gli incantesimicessarono. Allora Peronnik rialzò il berretto e si guardòintorno.Si trovava in un luogo deserto e più triste di un cimitero.Qua e là si vedevano gli scheletri dei gentiluomini che eranovenuti a cercare il castello di Kerglas. Erano là, stesi a fiancodei loro cavalli, e dei lupi grigi finivano di rosicchiarne le ossa.Infine l'idiota incontrò una prateria, ombreggiata tutta daun solo melo, così carico di frutti che i suoi rami pendevano finoa terra. Davanti all'albero stava il korrigan con in mano laspada di fuoco che riduceva in cenere tutto ciò che toccava.Alla vista di Peronnik gettò un grido simile a quello dellacornacchia di mare e alzò la spada; ma il giovanotto, senzaparer per nulla sbigottito, si levò cortesemente il berretto."Non vi scomodate, mio piccolo principe," disse. "Io vogliosolo passare per recarmi a Kerglas, dove il signore Rogéarmi ha dato appuntamento.""A te?" fece il nano. "E chi sei mai?""Sono il nuovo servitore del nostro padrone" replicò l'idiota;"sapete bene, quello che lui sta aspettando!""Io non so nulla" fece il nano "e tu mi hai tutta l'aria di unimbroglione.""Vogliate scusare," lo interruppe Peronnik "quello non è ilmio mestiere; io sono solo uccellatore e ammaestratore di uccelli.Ma, Dio buono! non mi fate tardare, perché il signormago conta su di me e mi ha persino prestato il suo puledro,come ben vedete, per farmi arrivare più presto al castello."

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Il korrigan osservò allora che, effettivamente, Peronnikera in groppa al puledro del mago e cominciò a pensare chedicesse la verità. D'altra parte l'idiota aveva l'aria così innocenteche non si poteva crederlo capace di inventare tuttauna storia. Tuttavia parve che nutrisse ancora qualche dubbio,perché gli chiese che bisogno avesse il padrone di un uccellatore."Un gran bisogno, a quanto pare," rispose Peronnik "perché,a quanto mi ha detto, tutto ciò che spunta e tutto ciòche matura nel giardino di Kerglas è immediatamente divoratodagli uccelli.""E come farai per impedirlo?" chiese il nano.Peronnik mostrò il piccolo lacciuolo che aveva fabbricatoe disse che nessun uccello poteva sfuggirgli."Voglio un po' assicurarmene" riprese il korrigan. "Ancheil mio melo è devastato dai merli e dai tordi: tendi il tuo lacciuolo,e se riesci a prenderli ti lascerò passare."Peronnik consentì, attaccò il puledro a un albero, si avvicinòal tronco del gigantesco melo, vi fissò una delleestremità del lacciuolo, poi chiamò il korrigan perché tenessel'altra estremità mentre lui preparava le esche. Questi fececome l'idiota gli diceva; allora Peronnik tirò d'improvvisoil nodo scorsoio e il nano si trovò catturato lui stessocome un uccello.Gettò un grido di rabbia e cercò di liberarsi: ma il lacciuolo,che era stato immerso nell'acqua benedetta, resistette atutti i suoi sforzi. L'idiota ebbe il tempo di correre all'albero,di cogliervi una mela e di risalire in groppa al puledro, che ripresela sua strada.Uscirono così dalla pianura e si trovarono davanti a unboschetto dove crescevano le più belle piante che si potesseroimmaginare. Vi erano rose d'ogni colore, ginestre di Spagna,caprifogli rossi, e sopra tutti si levava un fiore meravigliosoche rideva. Ma un leone con la criniera fatta di vipere correvaintorno al boschetto, ruotando gli occhi e digrignando identi come due macine di mulino appena zigrinate.Peronnik si fermò e salutò di nuovo, perché sapeva chedavanti ai potenti un berretto è più utile in mano che sulla testa.Augurò ogni sorta di felicità al leone e alla sua famiglia egli domandò se si trovasse sulla strada giusta per andare aKerglas."Che cosa vai a fare a Kerglas?" chiese il feroce animalecon aria terribile."Con tutto il rispetto," rispose timidamente l'idiota "sonoinviato da una dama che è l'amica del signore Rogéar e chegli manda in dono delle allodole per farne un pasticcio.""Delle allodole," fece il leone, passandosi la lingua sui baffi"è un secolo che non ne mangio. Ne hai molte?""Tutte quelle che può contenere questo sacco, monsignore,"rispose Peronnik mostrando il suo sacco di tela che avevariempito di vischio e di piume.E per far credere a quel che diceva, si mise a rifare il cinguettiodelle allodole.Questo cinguettio aumentò l'appetito del leone."Vediamo un po'," riprese avvicinandosi "mostrami i tuoiuccelli: voglio vedere se sono abbastanza grassi da esser servitial nostro padrone.""Non domando di meglio" fece l'idiota; "ma se li tiro fuoridal sacco, ho paura che volino via.""Aprilo solo un poco, perché io ci guardi dentro" replicòla belva.Era proprio quello che Peronnik sperava: presentò il saccodi tela al leone, che infilò dentro la testa per afferrare le allodolee si trovò prigioniero delle piume e del vischio. L'idiotastrinse presto il cordone del sacco intorno al collo della

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belva, fece il segno della croce sul nodo per renderlo indistruttibile:poi corse verso il fiore che rideva, lo colse e ripartìal galoppo sul suo puledro.Ma non tardò a incontrare il lago dei draghi, che si dovevaattraversare a nuoto; e appena vi fu entrato tutti i draghiaccorsero per divorarlo.Questa volta Peronnik non si divertì a scappellarsi davantia loro, ma cominciò a gettargli i grani del suo rosario,come si getta il grano alle anitre, e a ogni grano inghiottitouno dei draghi si rivoltava sul dorso e moriva, sicché l'idiotapoté arrivare sano e salvo all'altra riva.Gli restava da attraversare il vallone sorvegliato dall'uomonero. Peronnik lo vide ben presto sull'entrata, incatenatocon un piede alla roccia e con in mano una palla di ferro che,dopo aver colpito il bersaglio, ritornava da sola al padrone.Aveva intorno alla testa sei occhi, che vegliavano di solitouno dopo l'altro; ma in quel momento erano tutti e sei aperti.Peronnik, sapendo che, se l'uomo nero lo avesse visto, lapalla di ferro lo avrebbe colpito prima che potesse dire ahi,prese il partito di strisciare lungo la macchia. Arrivò così,nascondendosi dietro i cespugli, a pochi passi dall'uomo nero.Questi si era appena seduto e due dei suoi occhi si eranochiusi per riposarsi. Peronnik, pensando che avesse sonno, simise a canticchiare a mezza voce l'inizio della messa cantata.L'uomo nero parve dapprima stupito e alzò la testa: poi, viavia che il canto incominciava ad agire, chiuse un terzo occhio.Peronnik intonò allora il Kyrie eleison, sul tono deipreti che sono posseduti dal diavolo addormentante.11 L'uomonero chiuse il quarto occhio e la metà del quinto. Peronnikcominciò i vespri: ma prima che fosse arrivato al Magnificatl'uomo nero era bell'e addormentato.Allora il giovanotto prese il puledro per le briglie, lo feceavanzare piano piano per i sentieri coperti di muschio, e passandoaccanto al guardiano addormentato entrò nella valledei piaceri.Era questo il momento più difficile, perché non si trattavapiù di evitare un pericolo, ma di fuggire una tentazione. Peronnikinvocò l'aiuto di tutti i santi della Bretagna.La valle che stava attraversando sembrava un giardinopieno di frutti, di fiori e di fontane: ma le fontane erano divini e liquori deliziosi, i fiori cantavano con voci dolci comequelle dei cherubini del paradiso e i frutti venivano a offrirsida soli. Poi, a ogni svolta della strada, Peronnik vedevagrandi tavole imbandite come per un re; sentiva il profumodei dolci appena tratti dal forno, vedeva dei valletti che sembravalo aspettassero, mentre più lontano bellissime fanciulleche uscivano dal bagno e danzavano sull'erba lo chiamavanoper nome e lo invitavano a condurre il ballo.L'idiota aveva un bel farsi il segno della croce, masenza volerlo rallentava a poco a poco l'andatura del puledro;alzava il naso al vento per meglio sentire il profumodei manicaretti e per meglio vedere le leggiadre danzatrici.E forse forse si sarebbe fermato, e sarebbe stata finita perlui, quando d'improvviso il ricordo della coppa d'oro e dellalancia di diamante attraversò i suoi pensieri. Allora simise subito a fischiare nel suo fischietto di sambuco pernon sentire le dolci voci, cominciò a mangiare il suo panedall'odore di lardo rancido per non sentire il profumo deimanicaretti e fissò gli occhi sulle orecchie del puledro per nonvedere le danzatrici.In questo modo arrivò senza guai al termine del giardinoe finalmente scorse il castello di Kerglas.Ma c'era ancora, fra lui e il castello, il fiume di cui gli avevanoparlato, che aveva un guado solo. Per fortuna il puledro

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lo conosceva ed entrò nell'acqua nel punto giusto.Peronnik allora si guardò intorno per cercare la dama chedoveva condurre al castello, e la vide seduta su una roccia:era vestita di raso nero e il suo viso era giallo come quello diuna saracena.L'idiota si levò di nuovo il berretto e le chiese se per casonon volesse attraversare il fiume."Ti aspettavo proprio per questo" rispose la dama. "Avvicinati,che io possa sedermi dietro di te."Peronnik si avvicinò, la prese in groppa e cominciò a passareil guado. Era arrivato press'a poco a metà quando la damagli disse:"Sai tu chi sono io, povero innocente?""Vogliate scusarmi" rispose Peronnik "ma, a giudicare dallevostre vesti, vedo bene che siete una persona nobile e potente.""Quanto a nobiltà, devo certo essere nobile," riprese ladama "perché la mia origine risale al peccato originale; equanto a potenza, sono certo potente, perché tutte le nazionicedono davanti a me.""E qual è dunque il vostro nome, di grazia, madama?"chiese Peronnik."Mi chiamano la Peste" rispose la donna gialla.L'idiota fece un salto sul cavallo e volle gettarsi nel fiume,ma la Peste gli disse:"Sta' tranquillo, povero innocente, tu non hai nulla da temereda me, anzi io posso renderti un servigio.""E' mai possibile che abbiate questa bontà, madama la Peste?"disse Peronnik levandosi questa volta il berretto per nonrimetterlo più. "In realtà, ricordo ora che proprio voi doveteinsegnarmi il modo di sbarazzarmi dello stregone Rogéar.""Bisogna che lo stregone muoia!" disse la dama gialla."Non domanderei di meglio" fece Peronnik; "ma e immortale.""Ascolta, e cerca di capire" disse la Peste. "L'albero di melocustodito dal korrigan è un virgulto dell'albero del Bene edel Male, piantato nel paradiso terrestre da Dio in persona. Ilsuo frutto, come quello che fu mangiato da Adamo ed Eva,trasforma gli esseri immortali in esseri soggetti a morire. Fa'dunque in modo che lo stregone mangi la mela, e in seguitoio non avrò che da toccarlo perché cessi di vivere.""Cercherò di farlo" disse Peronnik; "ma se ci riesco, comepotrò avere la coppa d'oro e la lancia di diamante, che sononascoste in un sotterraneo oscuro che nessuna chiave puòaprire?""Il fiore che ride apre tutte le porte" rispose la Peste, "e illuminatutte le notti."Come la Peste pronunciò queste parole, arrivarono sull'altrasponda e l'idiota si avviò verso il castello.Davanti all'entrata c'era una grande tettoia, simile al baldacchinosotto il quale avanza monsignor il vescovo di Vannesalla processione del Santissimo Sacramento. Il gigante sene stava là sotto, al riparo dal sole, con le gambe accavallate,come un proprietario di terre che ha già raccolto il suofrumento nei granai, e fumava una pipa d'oro massicciogrande come un corno. Vedendo il puledro che portava ingroppa Peronnik e la dama vestita di raso nero alzò la testa edisse, con una voce che rimbombava come un tuono:"Per Belzebù, nostro signore! Questo idiota è in groppa almio puledro di tredici mesi!""Proprio a lui, o il più grande dei maghi!" rispose Peronnik."E come hai fatto per impadronirtene?" riprese Rogéar."Ho ripetuto quel che mi aveva insegnato vostro fratelloBryak" replicò l'idiota. "Arrivato al margine del bosco, hodetto:

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Puledro sciolto di piedi, puledro sciolto di denti,puledro, io sono qui, vieni presto, ti aspetto.

e il cavallino è subito accorso.""Dunque tu conosci mio fratello?""Come uno conosce il suo padrone" rispose il giovanotto."E perché mio fratello ti manda qui?""Per portarvi in regalo due rarità che ha appena ricevutodal paese dei Saraceni: la mela di gioia, che vedete qui,e la qui presente donna d'obbedienza. Se mangerete la prima,avrete sempre il cuor contento, come un mendicanteche trovi nel suo zoccolo una borsa con cento scudi; e seprenderete la seconda al vostro servizio non avrete più nullada desiderare al mondo.""Allora dammi la mela e fa' scendere la saracena" risposeRogéar.L'idiota obbedì: ma non appena il gigante ebbe morso ilfrutto la dama gialla lo toccò e quello cadde a terra comeun bue abbattuto.Peronnik entrò subito nel palazzo tenendo in mano ilfiore che ride.Traversò una dopo l'altra più di cinquanta sale e infinearrivò al sotterraneo dalla porta d'argento. La porta si aprìda sola davanti al fiore, il quale illuminò le tenebre e per-mise all'idiota di arrivare fino alla coppa d'oro e alla lancia didiamante.Ma appena li ebbe afferrati la terra tremò sotto i suoi piedi:si udì una esplosione terribile, il palazzo scomparve e Peronniksi ritrovò in mezzo alla foresta, munito dei due talismani,coi quali si avviò verso la corte del re di Bretagna.Ebbe solo cura, passando per Vannes, di comprarsi il più riccoabito che poté trovare e il più bel cavallo che fosse in venditanel vescovato del Grano bianco.Ora, quando arrivò a Nantes, la città era assediata daifrancesi, i quali avevano talmente devastato le campagne intornoche non restava più niente se non magre erbe da capra.Inoltre la carestia regnava in città e i soldati che non morivanodi malattia morivano per mancanza di pane. Così, il giornostesso in cui arrivò Peronnik un trombettiere bandì in tuttele piazze che il re di Bretagna prometteva di adottare comeerede chiunque potesse liberare la città e scacciare i francesidal paese.Sentendo questa promessa, l'idiota disse al trombettiere:"Non stare a gridare oltre e conducimi dal re, perché iosono capace di fare quello ch'egli domanda.""Tu!" fece il trombettiere, che lo vedeva così giovane emingherlino; "va' per la tua strada, bel cardellino,12 il re nonha tempo di andare a prender gli uccellini sui tetti dipaglia.13"Per tutta risposta Peronnik sfiorò il soldato con la sualancia e all'istante quello cadde morto, con gran terrore dellafolla presente, che si mise a fuggire: ma l'idiota gridò:"Voi tutti avete visto quello che posso fare contro i mieinemici; sappiate ora quello che posso fare per i miei amici."Accostò la coppa magica alle labbra del morto e questitornò immediatamente in vita.Quando il re seppe di queste meraviglie, conferì a Peron-nik il comando dei soldati che ancora gli restavano. E poichél'idiota con la sua lancia di diamante uccideva migliaia difrancesi, mentre con la coppa d'oro risuscitava i bretoni cheerano caduti in battaglia, in pochi giorni si sbarazzò dell'esercitonemico e si impadronì di tutto ciò che vi era nel suo accampamento.In seguito propose di andare a conquistare i paesi vicini,come l'Angiò, il Poitou e la Normandia, il che gli costò ben

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poca fatica: infine, quando ebbe sottomesso tutto al comandodel re, dichiarò che voleva partire per andare a liberare laTerra Santa e si imbarcò a Nantes su delle grandi navi, insiemealla miglior nobiltà del paese.Arrivato in Palestina, distrusse tutti gli eserciti che gli sifecero incontro, costrinse l'imperatore dei Saraceni a farsibattezzare e poi sposò sua figlia, dalla quale ebbe cento figli:e a ciascuno diede in dono un regno. Alcuni dicono persinoche lui e i suoi figli vivono ancora, grazie alla coppa d'oro, eche regnano in quei paesi; ma altri assicurano che il fratellodi Rogéar, il mago Bryak, è riuscito a riprendersi i due talismani.E quelli che li desiderano non hanno che da andare acercarli.

MAGIE E MERAVIGLIE

LA DAMIGELLA IN BIANCO

C'ERA UNA VOLTA un ragazzino povero povero, cheandava a raccoglier legna nella foresta per scaldarsi.Un giorno incontrò un signore, che gli domandò:"Che fai nella foresta, ragazzino?""Cerco della legna secca" rispose lui; "perché a casa nostranon abbiamo abbastanza denaro per comprarci la legnae riscaldarci.""Se mi prometti di venire a trovarmi qui fra un mese, tido io un po' di denaro" disse il signore.Dopo un mese il ragazzino tornò sul luogo dove avevavisto il signore; ma per quanto guardasse bene da tutte leparti non vide nessuno. Allora si mise a cercare nei dintornie arrivò sulla riva di uno stagno dove tre damigelleerano venute a bagnarsi. La prima era vestita di bianco,la seconda di grigio e la terza aveva una lunga veste azzurra.Il ragazzino si levò educatamente il berretto per augurareil buongiorno e chiese se per caso avevano visto ilsignore che cercava. La damigella vestita di bianco gli dissedove poteva trovarlo e gli indicò la strada per arrivareal suo castello."Tu gli domanderai" disse "se ha bisogno di un valletto.E quando avrà accettato i tuoi servizi, vorrà darti damangiare. Ora, la prima volta che ti presenterà il piatto, tugli dirai: "Sono io che sono qui per servirvi". La seconda voltagli risponderai allo stesso modo, ma con un tono più brusco,e la terza volta respingerai il piatto che ti offre."Il ragazzino non tardò ad arrivare alla porta del castello,dove vide il signore che prendeva il fresco."Ah, eccoti, ragazzino" disse il signore; "cosa sei venuto afare?""A vedere se per caso non avete bisogno di un valletto, signore.""Sei tu che l'altro giorno raccoglievi legna nella foresta;bene, ti prendo al mio servizio."Entrò nel castello e il ragazzino lo seguì; e ben presto il signoregli presentò un piatto di carni:"Grazie, signore," disse il ragazzino in tono molto educato;"ma sono io che sono qui per servirvi.""Prendi il piatto e non farti pregare.""No, signore," riprese l'altro più bruscamente "sono io chesono qui per servirvi.""Prendilo, ti dico."Questa volta il ragazzo gettò il piatto a terra e lo mandòin frantumi.

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"Ah, così," disse il signore, senza inquietarsi "ecco il vallettoche cercavo. Se farai tre cose che io ti comanderò, avraiuna delle mie figlie."

Il giorno dopo il padrone diede al ragazzo un'accetta dipiombo, una sega di carta e una carriola di foglie di quercia;poi gli disse che doveva quel giorno tagliare un bosco del perimetrodi sette leghe e per di più doveva disporre la legna tagliatain cataste ben legate di uno stero l'una. Il ragazzo andòal bosco e cominciò a lavorare: ma l'accetta di piombo sispezzò al primo colpo, la sega di carta non durò di più e lacarriola di foglie di quercia rimase schiacciata dal primo ramettoch'egli vi pose sopra.Quando il ragazzo vide tutto ciò, rinunciò a lavorare e sisedette sull'erba.A mezzogiorno la damigella vestita di bianco che avevavisto sulla riva dello stagno venne a portargli da mangiare."Ah, disgraziato!" gli disse "perché resti lì senza far niente?Quando verrà mio padre ti ucciderà.""Cosa volete che faccia? Gli attrezzi che mi ha dato nonservono a nulla.""Ecco una bacchetta" disse la damigella. "Prendila in manoe vai a fare il giro del bosco dicendo: "Che il bosco cada esia sistemato e legato in cataste di uno stero"."Il ragazzo fece come gli aveva comandato la damigella inbianco e gli alberi cadevano l'uno dopo l'altro così in frettache nel pomeriggio il lavoro era terminato.La sera il signore gli disse:"Hai finito il tuo lavoro?""Sì, signore, potete andare a vedere.""Bene, domani ti darò qualcos'altro da fare."La mattina del giorno dopo il signore disse al suo valletto:"Vedi questa collinetta? Voglio che questa sera al suo postoci sia un giardino, tutto piantato ad alberi da frutto, e inmezzo uno stagno ricco di pesci su cui nuotino delle anitre.Ecco i tuoi attrezzi."Erano una zappa di vetro e una vanga di terracotta; ilgiovane si mise al lavoro, ma al primo colpo i suoi attrezziandarono in mille frantumi."Non val la pena di continuare" disse fra sé. "Con attrezzidel genere non si può concludere niente."A mezzogiorno la damigella in bianco venne a portarglida mangiare."Ah, disgraziato!" esclamò "Ti trovo un'altra volta con lemani in mano. Se mio padre ti vedesse così, ti ucciderebbe.""Ma cosa volete che faccia con una zappa di vetro e unavanga di terracotta?""Tieni", disse la damigella "ecco una bacchetta. Farai il girodel terreno dicendo: "Che il colle sia spianato e al suo postoci sia un giardino piantato ad alberi da frutto e in mezzouno stagno ricco di pesci su cui nuotino delle anitre"."Il giovane prese la bacchetta e ciò che chiedeva avvennerapidamente."Hai fatto il tuo lavoro?" gli disse il padrone."Sì" rispose lui."Domani ne farai un altro: sulla torre più alta del castello,che è di marmo levigato, si troverà una tortorella e tu dovraiandare a prenderla."Ma il giorno dopo il signore, il quale aveva intuito che ladamigella in bianco aiutava il suo valletto, le comandò di andarein città a fare provviste. Quando la damigella appreseciò, si ritirò nella sua camera e cominciò a piangere. Le suesorelle vennero a trovarla e le dissero:"Cos'hai da piangere tanto?"

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"Nostro padre vuol mandarmi in città e io preferirei restarqui.""Non piangere," dissero le due sorelle "andremo noi al tuoposto e nostro padre non si accorgerà di niente."A mezzogiorno la damigella in bianco trovò il giovanottoseduto ai piedi della torre."Ah, disgraziato!" esclamò. "Tutti i giorni ti trovo a nonfar niente: e tuttavia sai bene che se il tuo padrone ti vedessecosì ti ucciderebbe.""Io non sono capace di arrampicarmi su per questa torre"rispose lui. "E' più sdrucciolevole del vetro.""Ti aiuterò ancora" disse la damigella. "Devi prendere unacaldaia, tagliarmi a pezzettini e metterci dentro tutte le mieossa senza eccezione: è il solo modo di riuscire.""No di certo" disse il giovanotto. "Preferirei morire piuttostoche far del male a una così leggiadra damigella.""Fa' quello che ti dico," replicò lei "e non preoccuparti dinulla."Il giovanotto finì per lasciarsi persuadere, ma invece dimettere tutte le ossa nella caldaia conservò l'osso del mignolodel piede sinistro. E la damigella gli diceva:"Sei salito?""No.""Sei salito?""No, non ancora.""Sei salito?""Sì, ho preso la tortorella per le zampe."Quando il giovanotto fu disceso la damigella gli disse:"Hai messo tutte le mie ossa nella caldaia?"

"Proprio sicuro?"

"Guarda bene se non ne hai dimenticato qualcuno.""Ho conservato un piccolo ossicino" finì per dire il giovanotto."Ebbene" disse lei "tienilo da parte."Allora la damigella prese la sua bacchetta, che era accantoalla caldaia, e non appena ebbe toccato le sue ossa,queste si ricongiunsero e lei ridivenne tale e quale eraprima."Ora che le prove sono compiute" gli disse "mio padre tifarà scegliere fra le sue tre figlie, e tu mi riconoscerai guardandoil mio piede sinistro."Quando il giovanotto portò la tortorella al padrone, questigli disse:"Come ti ho promesso, ti do da scegliere fra le mie tre figlie."Le tre damigelle arrivarono: erano tutte velate e il padre leaveva fatte vestire in modo diverso dal solito: ma il giovanottoriconobbe quella che lo aveva aiutato, guardando ilsuo piede sinistro a cui mancava un dito: si diresse verso dilei senza esitare e la sposò.Tuttavia il signore non era contento di quel matrimonio;il giorno delle nozze fece preparare il letto dei giovani sposisopra un sotterraneo e lo fece sospendere al soffitto conquattro corde.Quando i giovani sposi furono coricati, il padre della fanciullaentrò in camera e disse:"Genero mio, dormi?""No.""Genero mio, dormi?" chiese qualche tempo dopo."No, non ancora."Il signore se ne andò e tornò per la terza volta a fare lastessa domanda; e il genero, per consiglio della moglie, fecefinta di dormire e non rispose nulla.Quando suo padre si fu allontanato, la damigella in bianco

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disse al marito:"Non perder tempo, corri alla scuderia e prendi un cavalloche si chiama Piccolo Vento: montalo e fuggi."Poco dopo la partenza del giovanotto, il signore del castellotornò in camera e disse:"Figlia mia, dormi?""No, padre mio.""Figlia mia, dormi?" chiese ancora."No.""Figlia mia, dormi?"Questa volta la damigella non rispose nulla; e il signoredel castello andò da sua moglie e le disse:"Dormono tutti e due: vieni con me, e ci sbarazzeremo diloro."Tagliarono le corde e il letto piombò con gran fracassonel sotterraneo. Allora il signore del castello, che non avevapreso nessun lume per paura di svegliare i giovani sposi, dissefra sé:"E adesso eccoli ammazzati e non li rivedremo maipiù."Invece la giovane sposa aveva lasciato il letto quando suopadre era andato a chiamare la moglie, e corse subito a cercaresuo marito."Ah, disgraziato," gli disse "tu hai preso Grande Vento invecedi montare Piccolo Vento, come ti avevo raccomandato.E questa sarà la causa della morte di qualcuno: fuggiamoal più presto."E mentre fuggivano diceva al marito:"Non vedi niente dietro di noi?""No.""Non vedi niente?" gli domandò dopo un po'."No, niente.""Guarda ancora: vedi qualche cosa?""Sì, vedo un gran fuoco."Allora la fanciulla prese la bacchetta e batté tre colpi dicendo:"Che Gran Vento si cambi in giardino, io in pero e miomarito in giardiniere."Il padre e la madre dei giovani sposi, che li stavano inseguendo,si fermarono vicino al giardino."Non avete visto un giovanotto a cavallo passare di qui?"chiesero al giardiniere."Tre pere per un soldo" rispose costui."Non è questo che vi domando: avete visto passare ungiovanotto?""Quattro per un soldo, perché siete voi" replicò il giardiniere."E proprio sciocco, quest'uomo!" esclamarono i due, econtinuarono l'inseguimento.Quando si furono allontanati, la damigella, suo marito eGran Vento ripresero la loro forma naturale e continuaronoa fuggire."Non vedi niente?" diceva la giovane sposa."No.""Non vedi proprio niente venire in qua?""Sì, vedo una gran striscia di fuoco."Subito la damigella batté tre colpi con la bacchetta e disse:"Che Gran Vento diventi una chiesa, io un altare e miomarito un prete."Poco dopo gli inseguitori dei giovani sposi entrarono nellachiesa e dissero al prete:"Non avete visto passare di qui un giovanotto e una sposina?""Dominus vobiscum" rispose colui che era all'altare."Vi domando se avete visto da queste parti un giovanottoe una sposina.""Et cum spiritu tuo."

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"E proprio sciocco, questo prete!" mormorò il signore.Quando fu uscito dalla chiesa, la bacchetta tornò a fare ilsuo lavoro: Gran Vento e quelli che lo montavano ripreserola loro forma naturale e continuarono a fuggire."Non vedi niente?" chiese la donna a suo marito."No.""E adesso, non vedi niente?""Ancora niente.""Fa' ben attenzione e guarda ancora.""Vedo come un turbine di fuoco."Subito la dama batté tre colpi con la sua bacchetta dicendo:"Che Gran Vento diventi un fiume, io un battello e miomarito un battelliere."Quando il signore e sua moglie arrivarono sulla riva delfiume chiesero al battelliere:"Traghettatore, avete visto da queste parti un giovanottoe una sposina?""Sì", rispose quello "li ho traghettati poco fa."Subito i due salirono sul battello e quando furono in mezzoal fiume il battello fece naufragio e il signore e sua moglieannegarono. La bacchetta entrò in azione ancora una volta eGran Vento e i suoi cavalieri ripresero la loro forma naturalee tornarono tranquillamente al castello. Ereditarono tutta lafortuna del signore e io non so cosa ne è stato dopo.

IL CASTELLO DI CRISTALLO

VIVEVANO UN TEMPO un re e una regina che avevanodue figlie: una si chiamava Aurora e l'altra Crepuscolo.Aurora, che era la più bella, era la preferitadei genitori, che l'amavano più della sorella.Quando le due principesse furono cresciute e furonoin età di maritarsi, il re e la regina diedero un magnificoballo a cui invitarono tutti i principi e i signoridei dintorni.All'inizio della serata tutti i giovani gentiluomini invitavanoa ballare Aurora, perché era la più bella: ma poichénon era per nulla amabile, danzavano con lei soltantouna volta. Invece non potevano stancarsi della compagniadi Crepuscolo, la quale aveva tanta grazia e tantospirito che alla fine del ballo tutti si affollavano intorno alei e la bella Aurora restava quasi sola.Il re si adirò di questa preferenza e decise di sbarazzarsiquella stessa notte di Crepuscolo, in modo che i suoi spasimantifossero obbligati a corteggiare Aurora. Alla finedel ballo la fece venire a sé e le disse:"Figlia mia, devi partire subito per andare a trovare lafata tua madrina.""Ma, padre mio," rispose lei "è notte fonda, avrò pauratutta sola per le strade e sono anche molto stanca. Permettetemidi aspettare domani.""No", rispose il re "bisogna che tu parta subito. Ti darò unpaniere pieno di provviste per il viaggio e uno dei miei scudieriti scorterà."Crepuscolo montò a cavallo e lo scudiero la accompagnò.Quando ebbero fatto un buon tratto di strada Crepuscolo,che era stanca dopo aver tanto ballato, disse alla suascorta:"Vorrei ben dormire un poco, perché non ne posso propriopiù."Scese da cavallo, e poiché si trovavano in una foresta loscudiero raccolse del muschio per fare un letto alla principessa,e mise sotto la sua testa il paniere di provviste perché le

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servisse da guanciale.Appena la fanciulla fu addormentata, lo scudiere, al qualeil re aveva comandato di fare in modo che sua figlia sismarrisse nel bosco, montò a cavallo e fuggì al galoppo.Quando si svegliò, Crepuscolo fu stupita di trovarsi tuttasola in mezzo alla foresta; chiamò la sua scorta, ma lo scudieroera ben lontano e non poteva sentire le sue grida. Pertutto il giorno tentò di ritrovare la via, ma venne la sera primache fosse riuscita a uscire dalla foresta. Quando sentivafame mangiava le provviste del paniere, e al calar della nottesalì su un albero per vedere se non scorgeva un qualche lume;ma non vide nulla, e per paura delle bestie feroci rimasesull'albero tutta la notte.Il giorno dopo si rimise in marcia per cercar di uscire dallaforesta; ma non riuscì a trovare la strada. La sera salì nuovamentesu un alto albero per cercar di scoprire in lontananzaqualche luce, ma non ne vide nessuna; e più desolata ancoradel giorno prima, passò la notte sull'albero.Svegliandosi al mattino vide lontano lontano qualche co-sa che brillava: prese il paniere e si mise in cammino. Piùavanzava, più la cosa diventava brillante: sembrava un fuocod'artificio di tutti i colori, così splendente che si faceva faticaa fissarvi lo sguardo.Infine arrivò a uno splendido castello tutto di cristallo.Nel vederlo restò meravigliata ed esclamò:"Oh, che bel castello!"Bussò alla porta, ma nessuno venne ad aprire: bussò unaseconda volta e non vide niente; ma la terza volta sentì unpiccolo rumore e delle voci sottili che parlavano come in musica.Attraverso la porta di cristallo vide venire dodici minuscolepersoncine, non più alte di un cubito. Sei di esse sollevaronoil saliscendi e sei tirarono la porta per aprirla."Lasciatemi entrare nel vostro castello" pregò Crepuscolo."Sono figlia di un re e mi sono perduta nella foresta.""Entrate" risposero le minuscole donnine "e venite a chiederealla nostra padrona il permesso di restare a casa sua."Le fecero attraversare una lunga serie di sale e la condusserodavanti alla loro padrona: era una bella gatta bianca,che le disse:"Sono ben lieta di riceverti nel mio castello, ma a condizioneche non cercherai di uscirne e che mai mi disobbedirai.""Lo prometto" rispose Crepuscolo.La gatta bianca, pensando che la principessa dovesse averfame, diede l'ordine di servire il pranzo, e le minuscole donnineandarono a cercare tutto il necessario: quattro venneroreggendo un piatto sulle spalle, tre portarono una bottiglia divino e due portavano un bicchiere. E accanto alla gatta biancac'erano ancora altre donnine che aspettavano i suoi ordini.Crepuscolo si mise a tavola e quando ebbe tranquillamentemangiato, la gatta bianca chiese se si trovava a suoagio."Oh, sì, signora" rispose lei."Ebbene, ogni giorno sarai servita così. E ora ti mostreròil mio giardino."La condusse in un vasto recinto dove si trovavano i piùbegli alberi che si potessero vedere e fiori di ogni specie."Vedi," disse la gatta bianca "il mio giardino è grande: potraipasseggiare ovunque a tuo talento e cogliere fiori e frutti;soltanto ti proibisco di avvicinarti al laghetto che si vede là infondo. Se mi disobbedirai lo saprò, e non tarderesti a pentirtene."Crepuscolo assicurò che se ne sarebbe ben guardata, etutti i giorni passeggiava nel giardino.Talvolta però non poteva impedirsi di guardare dalla partedel laghetto, e il pensiero stesso che fosse un luogo proibito

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le dava voglia di andarci. Ma non ne aveva il coraggio.Un giorno che la gatta bianca era in viaggio Crepuscoloscese in giardino, com'era sua abitudine; e passeggiando si trovò,senza averci troppo pensato, a poca distanza dal laghetto."Ah!" disse fra sé "oggi vado a vederlo, dato che sono cosìvicina; qui non ci sono che quelle donnine, tutte occupate alcastello, e la gatta bianca non ne saprà niente."Si avvicinò al laghetto, e quando si trovò sulla riva videdelle foglie di ninfea che si agitavano: ne uscì un serpenteverde, che venne a mettersi ai suoi piedi.La fanciulla ebbe paura e si tirò indietro: ma il serpente ledisse con voce dolce:"Bella principessa, avete forse paura di me? Non temete,non vi farò nulla di male. Vi prego, non ve ne andate e restatequi a parlare con me: è tanto tempo che non parlo connessuno!"Crepuscolo si sentì rassicurata da queste parole: e restòun bel po' di tempo a parlare col serpente. Infine si accorseche era il momento di partire e gli disse:"Addio, serpente verde, devo rientrare; sono rimasta fintroppo tempo con te."Il serpente la supplicò di tornare un'altra volta e quandola fanciulla fu scomparsa si rituffò nello stagno.Nel momento in cui Crepuscolo rientrava al castello dicristallo le comparve davanti la gatta bianca."Da dove vieni, madamigella?" le chiese."Sono stata a passeggiare in giardino" rispose Crepuscolo."Sì," disse la gatta bianca, "tu vieni certamente dal giardino,ma nonostante la mia proibizione sei andata sulla rivadel laghetto. Per castigo, sarai immersa in un bagno di lattebollente."Subito le minuscole donnine accorsero: in un batter d'occhiospogliarono la povera Crepuscolo e la tuffarono in unbagno di latte bollente che la scottò ben bene. Ma non ve lalasciarono a lungo e quando la tirarono fuori la curaronomeglio che poterono. E la fanciulla ben presto fu guarita.Crepuscolo aveva di nuovo promesso alla gatta bianca dinon tornare più allo stagno: ma suo malgrado pensava spessoal serpente verde. E un giorno che la gatta bianca non eraal castello non poté resistere alla voglia di rivederlo e corsesulla riva del laghetto. Il serpente verde era steso sull'erba:era molto smagrito e le disse con una voce triste:"Bella principessa, credevo che mi aveste abbandonato eprovavo tanto dolore.""Ma no," rispose Crepuscolo "ho pensato spesso a te: masono stata così duramente punita per averti visto che nonosavo ritornare."Rimase ancora un po', dimentica di tutto, a parlare colserpente: e quando tornò al castello le comparve davanti lagatta bianca, che le disse con voce furiosa:"Mi hai ancora disobbedito, nonostante le tue promesse: equesta volta sarai tuffata nell'olio bollente."Le minuscole donnine spogliarono Crepuscolo e la tuffaronofino al collo in un bagno di olio bollente. Poi la riportarononella sua camera e la curarono meglio che poterono.Questa volta la povera fanciulla impiegò molto più tempo aguarire: e un giorno che era sola sentì un fruscio e si vide compariredavanti il serpente verde, ancora più magro del solito."Sono tanto malato," le disse "ma se voleste sposarmi guarirei."Crepuscolo voleva molto bene al serpente verde, ma nonpoteva decidersi a prenderlo per marito.Tutti i giorni il serpente veniva a trovarla e le chiedeva sevoleva sposarlo: ma tutti i giorni lei rifiutava.E lui finì per non venire più perché era troppo malato per

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trascinarsi fino al castello. Allora Crepuscolo, che era ormaiguarita, si decise a tornare allo stagno, malgrado tutte le minaccedella gatta bianca. Trovò il povero serpente verde cheera morente e poteva appena muoversi: e al vederlo in quellostato provò tanta pietà che gli disse:"Ti sposerò quando vorrai, se questo può guarirti."Immediatamente il serpente verde cessò di essere malato.Crepuscolo tornò al castello, tremando per la paura di esserepunita: ma quando la gatta bianca la vide, non le rivolseneppure un rimprovero.La gatta bianca ordinò alle minuscole donnine di prepararetutto per le nozze. C'erano centinaia di nanetti al castello di cristallo,omini e donnine, e tutti si misero al lavoro. Centinaia dipersone furono invitate, anche dei re e delle regine, e fra loro igenitori di Crepuscolo e della bella Aurora. Il giorno del matrimonioCrepuscolo indossò una veste color volta del cielo e unacorona di stelle, che il serpente le aveva regalato. Si mise incammino con quell'abito splendido per recarsi alla cappella, eil serpente verde strisciava accanto a lei. Tutti gli invitati dicevano:"Che peccato che una così bella principessa prenda permarito un serpente!"Infine entrarono nella cappella e il vescovo che dovevabenedire le nozze chiese al serpente se consentisse a sposarela principessa: e il serpente rispose subito di sì. Allora il vescovochiese a Crepuscolo se voleva prendere il serpente verdeper suo legittimo sposo."Sì" rispose lei.Non appena ebbe pronunciato quella parola, al posto delserpente comparve al suo fianco il più bel principe che si potessevedere: i nanetti che assistevano al matrimonio ripreserosubito la loro statura naturale e la gatta bianca divenneuna bella principessa.Era stata trasformata in gatta, nello stesso momento incui erano stati trasformati i nanetti, che erano dei principi,dei gentiluomini e delle dame; e il serpente verde era un repotente, che una fata maligna aveva condannato a restare inquella forma finché avesse trovato una fanciulla che consentissea sposarlo.Ci furono grandi festeggiamenti al castello di cristallo,banchetti superbi e un gran ballo, in cui ognuno si divertì edanzò finché volle.La bella Aurora trovò marito fra i principi che erano statitrasformati in nani; tutti furono contenti, e Crepuscolo e ilsuo sposo vissero felici fino alla fine dei loro giorni.

I QUATTRO FIGLI DEL MUGNAIO

C'ERA UNA VOLTA un vecchio mugnaio che avevaquattro figli, e ben poco di che nutrirli. Un mattinoche al mulino non restava altro che una crosta di panegrossa come un pugno, il mugnaio chiamò i suoi figli edisse:"Venite, ragazzi miei, e ascoltatemi: la sfortuna sta sullamia casa e io non macino più abbastanza grano da poternutrire cinque persone. Dividiamoci questo rimasugliodi pane, poi voi andrete in quel campo quadrato che vedetelaggiù: ognuno si metterà nel suo angolo e poi partiràper cercar fortuna, camminando diritto davanti a sé."I figli del mugnaio obbedirono al padre e si incamminaronoin quattro direzioni diverse, dopo essersi promessireciprocamente di tornare al campo quadrato due annidopo, in quel giorno preciso.Il maggiore, dopo aver camminato un po' di tempo,

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arrivò in un grosso borgo, e poiché era molto stanco sifermò e incominciò a giocare. Si trovava davanti alla casadi un sarto, il quale uscì sulla porta e gli disse:"Tu non sei di qui, ragazzo mio: dove vai?""Vado a cercar fortuna e a veder di guadagnarmi la vita"rispose."Vieni con me" fece il sarto "e ti insegnerò il mio mestiere."Il ragazzo fu ben contento di trovar così d'un subito unimpiego e seguì volentieri il sarto.Il secondo figlio del mugnaio, sentendosi stanco, si erasdraiato per terra a riposare. A un certo momento vide passareun cacciatore che bestemmiava dietro i suoi cani: ebbepaura e si mise a piangere."Non aver paura," disse il cacciatore avvicinandosi "non vogliofarti del male, al contrario: che cos'hai da piangere così?""Sono un povero ragazzo, figlio di un mugnaio" rispose "eho lasciato la casa di mio padre perché non c'era più abbastanzapane per nutrirci.""Se vuoi venire con me," disse il cacciatore "ti insegnerò ilmio mestiere."Il terzo figlio si incontrò con dei ladri, che gli chiesero doveandasse con un bagaglio così leggero; e lui rispose che lamiseria regnava nel mulino di suo padre e che lui andava acercar fortuna."Vieni con noi," dissero i ladri "ti insegneremo il nostromestiere.""Io non voglio imparare il mestiere di ladro" rispose; "mihanno sempre detto che è un brutto mestiere.""Ma no," gli dissero "i ladri come noi sono della bravagente e se qualche volta intrappolano uno sciocco o un ingenuo,almeno non ammazzano mai nessuno."E il ragazzino andò con loro.Il quarto figlio del mugnaio si era sdraiato su una rocciaalta: e vide venire un astrologo che col suo cannocchialeesplorava il tempo."Chi sei, ragazzo mio?" gli chiese l'astrologo non appenalo ebbe scorto."Un povero ragazzo che ha lasciato la casa di suo padreperché non c'era più pane.""Vieni con me" gli disse l'astrologo "e ti insegnerò il miomestiere."

In capo a due anni ognuno dei quattro fratelli aveva terminatoil suo tirocinio e tutti sentirono il desiderio di tornareal mulino del padre, così come erano rimasti d'accordo.Quello che lavorava dal sarto disse al suo padrone:"Padrone mio, vado a trovare mio padre.""Da venticinque anni che sono nel mestiere, non ho maivisto un sarto che lavori meglio di te, ragazzo mio. Sonomolto contento di te e ti darò un ago che cucirà dappertuttoe forerà il ferro non meno facilmente della stoffa."Quello che stava col cacciatore gli disse:"Vado a trovare mio padre: da due anni che sto con voiho fatto egregiamente il mio dovere, vero?""Certamente, ragazzo mio; da venticinque anni che faccioquesto mestiere non ho mai trovato un cacciatore che tiri comete. Ti darò una carabina, con la quale colpirai tutto quelloche vorrai, ucciderai tutto quello che vorrai."Quello che era rimasto coi ladri disse ai suoi compagni:"Voglio andare a trovare mio padre: da due anni che sonocon voi, non avete mai avuto a lagnarvi di me, vero?""No, certo," risposero "ma se tu te ne vai, puoi rivelare aigendarmi il posto dove ci nascondiamo.""Ah, no!" replicò il ragazzo "giammai denuncerò degli uomini

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di cui ho mangiato il pane!""Tu sei un così buon ladro che da quando facciamo questomestiere non abbiamo mai conosciuto nessuno che fosseabile come te. Eccoti in regalo una sciabola: ha nell'impugnaturauna scala che ti consentirà di arrampicarti dove vorrai."Quello che stava con l'astrologo disse al suo padrone:"Padrone mio, voglio andare a trovare mio padre.""Va' pure, ragazzo mio" rispose l'astrologo. "Io sono con-tento di te: da venticinque anni che studio astrologia non hovisto nessuno che sapesse riconoscere meglio di te che tempofarà. Ti darò un piccolo binocolo con il quale potrai vederetanto lontano quanto vorrai."I quattro fratelli si misero in cammino, ciascuno dalla suaparte: nel giorno fissato entrarono nel campo dal quale eranopartiti e si incontrarono nel mezzo."Bisogna subito andare al mulino per vedere se nostro padreè ancora in vita" dissero; "ma c'è da temere che sia morto,perché il poveruomo era già vecchio quando lo abbiamolasciato."Quando arrivarono in vista del mulino videro le ali chegiravano al vento."Ah!" esclamarono "nostro padre è ancora in vita, grazie aDio!"Il mugnaio fu ben contento di rivedere i suoi quattro figli,e volle sapere che cosa avevano imparato e che cosa gli eracapitato.Il maggiore disse:"Ho imparato il mestiere di sarto e il mio padrone diceche, da venticinque anni che è nel mestiere, non ha conosciutonessun sarto più abile di me; e m'ha dato un ago che cuceil ferro così facilmente come la stoffa.""Bene, bene" disse il mugnaio. "E tu, che hai fatto?" chieseal secondo."Ho imparato il mestiere di cacciatore, e il mio padronedice che, da venticinque anni che caccia, non ha mai visto untiratore più preciso di me. Mi ha dato una carabina che colpiscequalsiasi cosa io voglia.""Il mestiere di cacciatore è un mestiere da fannulloni" disseil vecchio mugnaio."No, invece, poiché vendendo la selvaggina presa si guadagna.""E tu, che mestiere hai imparato?" chiese il mugnaio al terzofiglio."Il mestiere di ladro.""Non voglio neanche sentir parlare di questo mestiere daassassini!" esclamò il brav'uomo."Ah, padre mio, io non ho mai ammazzato nessuno, maho intrappolato più d'un babbeo. I ladri sono gente più onestadi quanto non si creda: mi hanno dato una sciabola conla quale posso arrampicarmi dove voglio.""E tu, piccolo mio, che mestiere hai imparato?""Il mestiere di astrologo.""Alla buon'ora, è un buon mestiere!""Sì" rispose il figlio; "e il mio padrone mi ha detto che daventicinque anni che fa l'astrologo non ha conosciuto nessunoche sapesse riconoscere come me lo stato del cielo. E miha dato un piccolo binocolo, che mi fa vedere tutto quelloche voglio."Il mugnaio disse fra sé:"Bisogna che veda se i miei figli sono davvero così abili ecosì astuti come pretendono di essere."A una certa distanza dal mulino c'era un albero dove sitrovava un nido di capinere, così ben nascosto fra i rami chenessuno poteva scoprire dov'era."Cosa c'è in quell'albero?" chiese.

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L'astrologo prese il suo binocolo e dopo esserselo aggiustatoall'occhio disse:"Vedo un nido di capinera, e la femmina ha quattro uova,che in questo momento sta covando."Il ladro svitò l'impugnatura della sciabola e arrampicandosilungo la scala tolse la capinera dal nido, con un gestocosì dolce e leggero che l'uccellino non se ne accorse neppure;il cacciatore ruppe le uova in più di cinquantamila pezzi, ilsarto li ricucì col suo ago; e il ladro li rimise nel nido, vi ri-portò la capinera e collocò nuovamente il nido sull'albero, etutto questo così rapidamente che l'uccelletto non se ne accorsenemmeno.

"Bene, bene" disse il mugnaio ai suoi figli. "Vedo che sietedei ragazzi in gamba. Ora, la figlia del re è stata rapita da undrago che la tiene prigioniera su una roccia in mezzo al mare:bisogna tentare di liberarla."I quattro fratelli presero una barca e cominciarono a remaredalla parte dove gli avevano detto che si levava la roccia.Quando la videro, l'astrologo guardò col suo binocolo edisse ai fratelli:"In questo momento il drago dorme e tiene la figlia del refra i suoi artigli."La barca si avvicinò pian piano, il ladro svolse la sua scalae senza far rumore salì a prendere la figlia del re, che tolsedagli artigli del drago senza neppure risvegliarla: poi, portandocon sé la principessa, scese nella barca che si allontanò rapidamentee fu ben presto fuori di vista.Si credevano già liberi da ogni timore quando sentirononell'aria una voce che gridava:"Dov'è la figlia del re? Dov'è la figlia del re?"L'astrologo prese il cannocchiale e disse:"Vedo il drago che sta per piombare su di noi."Il cacciatore mise due pallottole nella carabina e appena ilmostro fu in vista mirò e lo stese secco. Ma l'enorme corpodel drago ricadde sulla barca e la ruppe in più di mille pezzi.Allora il sarto prende il suo ago, cuce e ricuce: in un batterd'occhio la barca è rimessa in mare e non si vede neppuredove è stata spezzata.I quattro fratelli ricondussero la principessa al palazzo delre: e poiché essa doveva sposare il suo liberatore, e tutti equattro avevano contribuito a liberarla, tirarono a sorteper vedere chi dovesse diventare il genero del re. La sorte designòil sarto e dopo le nozze, che furono splendide, il re diedeagli altri figli del mugnaio abbastanza denaro da renderliricchi come principi.

E i tre ragazzi tornarono dal loro padre, che disse:"Il più fannullone di voi tre avrà il podere, la casa e il mulino:ditemi, ognuno a suo turno, che cosa fareste per esseregli uomini più fannulloni del mondo.""Io," disse il ladro "se per un giorno intero fossi trascinatoin mare a rimorchio di una barca e la sera trovassi per scaldarmiun bel fuoco di ceppi, mi lascerei cadere a terra, nonfarei un movimento per andare a scaldarmi.""E io," disse il cacciatore "se fossi trascinato tutto il giornonella nebbia e nel ghiaccio e la sera mi deponessero alla portadi una casa dove si trovasse tutto quello che occorre percambiarsi e scaldarsi, mi lascerei cadere sulla porta e mancomi muoverei.""E io," disse l'astrologo, "se fossi sul punto di salire sullaforca per essere impiccato e avessi un coltello per tagliare lacorda del cappio, non mi darei nemmeno la pena di aprirlo elascerei fare al boia."

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"Sei tu" esclamò il bravo mugnaio "quello che avrà il mu-lino, la casa e il podere, perché senza alcun dubbio sei tu ilpiù fannullone."Subito dopo aver pronunciato queste parole il mugnaiomorì e si irrigidì, e così finisce la storia.

LA FANCIULLA DALLE MANI TAGLIATE

C'ERA UNA VOLTA un vedovo, che si risposò in secon-de nozze: aveva una figlia della prima moglie e laseconda gli diede anch'essa una figlia.La maggiore, che si chiamava Eufrosine, crescendo divennecosì bella che quando passava tutti si voltavano aguardarla, mentre la sua sorellastra era piccola e brutta. Ela moglie del vedovo era gelosa della bellezza della figliastra.Il vedovo era il comandante di una nave, e poiché navigavain alto mare e passava poco tempo a terra, non sapevanulla dei maltrattamenti che la moglie infliggeva aEufrosine.Mentr'egli si trovava in navigazione per un viaggio chedoveva durare a lungo, sua moglie tagliò via le mani allafigliastra e la condusse in una foresta lontana, dove la costrinsea salire su un biancospino che era alto come unmelo. E minacciò di ucciderla se mai si fosse provata ascendere. La perfida donna pensava che Eufrosine sarebbemorta e così sua figlia avrebbe avuto tutta l'eredità. Tuttavianon osava lasciarla morire di fame e ogni otto giorniandava lei stessa a portarle un po' di cibo.Ma mentre spingeva Eufrosine su per l'albero, la ma-trigna si era infilata nel ginocchio una spina, che la facevamolto soffrire. Il male invece di guarire peggiorò e la donnafu ben presto costretta a restare a letto.Eufrosine, non avendo più nulla da mangiare, si desolavae piangeva, pensando di dover morire di fame. Mauna gazza venne a portarle del cibo e la fanciulla, perconvincerla a tornare, cercò di addomesticarla e le parlòdolcemente.Quando il padre tornò dal viaggio, fu assai sorpreso dinon trovare la figlia maggiore e chiese alla moglie che cosa lefosse successo; e questa rispose che Eufrosine le aveva datomolti dispiaceri, che era una ragazza dissoluta ed era partitacon dei soldati per seguire la truppa. Il capitano fece di tuttoper ritrovare la figlia, ma nessuno seppe dargliene notizie edegli la credette perduta.

Intanto Eufrosine restava là sul suo albero e viveva del ciboche la gazza le portava.Un soldato che era venuto in congedo a trovare sua madreun giorno andò a caccia nella foresta e vide con grandesorpresa i suoi cani fermarsi ai piedi di un albero e mettersiad abbaiare. Ebbe un bel fischiare e chiamarli: quelli restavanosotto l'albero. Allora il giovanotto si avvicinò a vedereche cosa succedeva e vide Eufrosine, che era ancora più belladi quando la matrigna l'aveva portata nella foresta. Subito sisentì preso d'amore per lei."Che fate lassù in cima all'albero?" le chiese."Ahimè, signore, sono già tre anni che sto su questo biancospinoe vivo solo grazie a una gazza che mi porta da mangiare.""Una gazza?" fece lui, sbalordito."Sì, signore" rispose lei; "è l'unica che mi porta un po' dicibo."Aveva appena parlato che la gazza arrivò con un pezzo dipane nel becco.

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"E chi vi ha fatto salire su quest'albero?" chiese il giovanotto."La mia matrigna, e credo che agli occhi di tutti mi abbiafatto passare per morta.""Io non resterò molto tempo al paese" disse il soldato; "mafinché resterò vi porterò da mangiare. E parlerò di voi a miamadre."Tornato a casa, raccontò alla madre che aveva visto nellaforesta una fanciulla bella come la Santa Vergine, benchéavesse le mani tagliate."Ah, povera fanciulla!" esclamò la buona donna. "Bisognaandare subito a prenderla. Figlio mio, attacca la nostra carrozzamigliore, di' a un domestico di accompagnarti e conducilaqui. Mi farà compagnia durante la tua assenza."Il soldato fece attaccare la carrozza e andò a prendere Eufrosine,che gli parve ancora più bella della prima volta chel'aveva vista."Sono venuto" le disse "per condurvi al castello; mia madrevuole che restiate con lei.""Vi ringrazio infinitamente, mio bel signore," rispose Eufrosine"ma non voglio più tornare fra la gente. Non ho piùmani per guadagnarmi da vivere e preferisco restare qui, poichého una cara bestiola che Dio mi ha mandata per mantenermiin vita.""Venite da noi, madamigella: e non sarete più curata dauna bestiola, ma da un'ancella che farà tutto ciò che vorrete.Vi prego, non rifiutate."Eufrosine finì per consentire all'invito di recarsi al castello:ma il biancospino era tanto cresciuto e si era fatto così foltoche per arrivare fino a lei si dovettero tagliare molti rami.La fanciulla sali in carrozza e arrivò al castello; la madredel soldato era felicissima di averla con sé, perché era cosìbella e così buona."Mia cara madre," disse il soldato "non ti annoierai piùmentre io sarò in guerra: ti ho portato questa brava fanciullache ti terrà compagnia e ti consolerà."Il giovanotto ripartì per raggiungere l'esercito, dove restòsei mesi, e pensava sempre a Eufrosine; ma poiché la fanciullanon aveva più le mani, egli non osava confessare alla madreche avrebbe voluto sposarla. Un giorno tuttavia le disse:"Come trovi Eufrosine, mia cara madre?""una persona eccellente e non le trovo che delle buonequalità.""Anch'io la penso così: e vorrei prenderla in moglie."Quando la vecchia signora sentì ciò, esclamò che nonavrebbe mai consentito ad aver come nuora una povera mutilata."La sposerò," disse il giovanotto "altrimenti mi ucciderò."La madre, che aveva solo quel figlio, si decise molto controvogliaa dare il suo consenso alle nozze: ma a partire daquel giorno cominciò a odiare Eufrosine tanto quanto l'avevaamata fino a quel momento.Poco tempo dopo il giovanotto dovette tornare al suobattaglione, lasciando Eufrosine incinta; e la suocera, che orala detestava, nelle lettere che scriveva al figlio gli raccontavatutto quel che poteva inventare contro la nuora.Eufrosine ebbe due bambini: e la suocera, invece di dire laverità al figlio, gli scrisse che sua moglie aveva messo almondo un cagnolino e un vitellino e che si sentiva l'uno abbaiaree l'altro muggire.Il marito di Eufrosine, furioso e addolorato per questa notizia,ordinò di uccidere il cagnolino e il vitellino, senza peròfar nulla di male a sua moglie. La suocera fece sparger la voceche Eufrosine era morta: fece fare una bara, vi mise den-tro un grosso ceppo di legno, e le cerimonie del funerale ebberoluogo come se la nuora fosse veramente morta.

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Invece la vecchia partì in segreto dal castello con Eufrosine,mise i due bimbi in una gerla che caricò sulle spalle dellapovera donna priva di mani, e quindi la condusse in una forestalontana. Quando furono arrivate le disse:"Devi promettermi di non uscire mai dalla foresta; altrimentiti ucciderò e abbandonerò qui i bambini."Eufrosine consentì a ciò che la suocera esigeva da lei. Equando voleva prendere i suoi bambini, era costretta asdraiarsi sul dorso per posare a terra la gerla: allora li prendevacoi denti e li portava a bere al ruscello. Restò così tregiorni a piangere e lamentarsi, senza aver nulla da mangiare.Il terzo giorno, mentre portava uno dei bambini sull'orlodel ruscello per farlo bere, aprì i denti e il piccolo cadde nell'acqua.La povera donna gettò un grido e immediatamentevide comparire una bellissima dama, che le disse:"Presto, immergi il moncone nell'acqua!"Eufrosine obbedì, e si vide crescere una mano, con laquale poté ripescare il suo bambino. Anche l'altro poi caddenel ruscello e la bella dama le gridò:"Presto, immergi l'altro moncone nell'acqua!"Così le crebbe anche l'altra mano e Eufrosine non fu piùmutilata e deforme come prima.La bella dama la condusse a una grotta dove molto tempoprima aveva abitato un eremita, del quale si vedevanoancora in un angolo le ossa disseccate. E le disse:"La gazza che ti ha nutrito nel biancospino verrà di nuovoper provvedere ai tuoi bisogni."La bella dama sparì, e ogni giorno la gazza veniva allagrotta portando nel becco tutto ciò che occorreva per Eufrosinee i suoi bambini, pane e acqua, abiti e persino del fuoco.I bambini crescevano forti e sani e belli, e il maschiettosomigliava al padre mentre la bambina sembrava il ritrattodi sua madre.

Quando il marito di Eufrosine tornò dalla guerra chiesenotizie della moglie: e gli dissero che era morta di crepacuore,dopo che per suo ordine erano stati uccisi il cagnolino e ilvitellino.Egli pianse a lungo la moglie amata, e per distrarsi andavaa caccia coi suoi amici. Un giorno che si erano addentratiin una foresta lontana, dove solitamente non si andava acacciare, il marito di Eufrosine venne a trovarsi un po' distantedai suoi e incontrò i due bambini, che erano andati incerca di radici e di legna e ora se ne tornavano alla grotta. Liguardò, e vide subito che la bimbetta aveva gli stessi lineamentidi Eufrosine."Dove abitate, bei bambini?" chiese."In una casetta lontana lontana, in mezzo al bosco.""Volete condurmi là?""Sì, signore, ben volentieri."E mentre camminavano egli parlava coi due piccini."Che cosa cercavate nella foresta?""Radici per mangiare e legna per scaldarci."A un certo punto egli osservò una gazza che aveva qualchecosa nel becco e seguiva i bambini senza parer spaventata."Che è quell'uccello?" chiese. "Senza dubbio è addomesticato.""E' la nostra mamma-balia, signore.""La vostra mamma-balia?""Sì, la mamma ci ha detto di chiamarla così."Quando arrivò alla grotta vide Eufrosine che, malgradola miseria, era ancor più bella di quando l'aveva lasciata, diversianni prima."Mio Dio!" esclamò. "Se non vedessi le vostre due mani,direi che siete mia moglie."

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Eufrosine gli raccontò tutto quel che era successo e si fecericonoscere; e il giovane esclamava:"Ah, Eufrosine, sono stato ingannato! sono stato ingannato!"E piangeva abbracciando la moglie che versava lacrime, eanche i bambini piangevano vedendo piangere la loro madre.Allora il soldato suonò il suo corno di caccia e gli altricacciatori accorsero. Egli condusse al castello sua moglie e isuoi due bambini: la gazza li seguiva e i piccini si voltavanospesso a guardarla.Quando furono arrivati al castello il marito di Eufrosinedisse alla madre:"Ah, madre crudele, riconosci tu Eufrosine e i suoi duebambini?""Come ha fatto, figlio mio," rispose la madre "per tornarequi? Senza dubbio è un miracolo che Dio ha permesso, poichéora essa ha due mani mentre una volta era mutilata.""Barbara donna," fece lui, "io non ti condurrò nella forestacome ben meriteresti: ma ti rinchiuderò in un sotterraneoper il resto dei tuoi giorni."E così fece, malgrado le preghiere di Eufrosine, la qualeera tanto buona che voleva sempre rendere bene per male.

Eufrosine pensava spesso a suo padre, e persino alla suaperfida matrigna e avrebbe voluto avere loro notizie.Partì dunque col marito per andare a trovarli e vide lamatrigna sdraiata sul letto, da cui non si era più alzata dopoaverla abbandonata nella foresta. La spina che le si erainfitta nel ginocchio aveva messo radici, come se fosse statapiantata in terra; ormai era grande come un albero, avevabucato il tetto della casa e da fuori lo si vedeva coperto difiori bianchi.Quando Eufrosine vide la matrigna così ridotta, ebbe pietàdi lei: le tolse la spina dal ginocchio - cosa che nessuno eramai riuscito a fare - e la matrigna guarì immediatamente.Il padre di Eufrosine, che l'aveva creduta morta, fu felicedi vederla viva e maritata; e lei lo condusse al castello delmarito, e prese con sé anche la sorella e persino la matrigna,alla quale perdonò dicendo che in fondo era stata la causadella sua felicità. E fece del bene a tutti.

LA MORTE DEL TOPO

UN GIORNO IL TOPO e la topolina stavano cucinandodei peux, o, se preferite, una polenta di grano nero.La topolina disse al marito:"Sali su per il camino, per prendere un po' di sale dallasaliera."Mentre si arrampicava il topo fece un passo falso ecadde nei peux che stavano bollendo: e vi sparì. La topolina,che non se n'era accorta, diceva:"O topo, scendi dunque, se no mangeremo dei peuxtroppo insipidi."E finì per mettersi a mangiare da sola: ma trovò il topomorto e si mise a piangere e a lamentarsi sull'angolo dellatavola."Che cos'hai da disperarti così?" le chiese la tavola."Ahimè, il topo è caduto nei peux, il topo è morto, ed èper questo che mi dispero.""E io," disse la tavola "io mi metto a cantare."La panca disse alla tavola:"Cos'hai tu, o tavola, che non fai che cantare?""Ah!" rispose quella "il topo è caduto nei peux, il topoè morto, la topolina si dispera e io mi sono messa a

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cantare.""E io mi metto a ballare" disse la panca.La credenza disse alla panca:"O panca, cos'hai che non fai che ballare?""Non lo sai? Il topo è caduto nei peux, il topo è morto, latopolina si dispera, la tavola si è messa a cantare e io a ballare.""E io mi metto a saltare" disse la credenza."Che cos'hai, o credenza, che ti metti a saltare?" chiese laporta."Il topo è caduto nei peux, il topo è morto, la topolina sidispera, la tavola si è messa a cantare, la panca a ballare e ioa saltare.""E allora io esco dai gangheri" disse la porta.L'aratro che era nell'aia disse alla porta:"O porta, che cos'hai, che esci così dai gangheri?""Il topo è caduto nei peux, il topo è morto, la topolina sidispera, la tavola si è messa a cantare, la panca a ballare, lacredenza a saltare, e io sono uscita dai gangheri.""E allora io mi metto ad arare per fare del grano, poiché iltopo è morto."La ragazza che andava a prender acqua disse all'aratro:"Che cos'hai dunque, che ti metti ad arare?""Il topo è caduto nei peux, il topo è morto, la topolina sidispera, la tavola si è messa a cantare, la panca a ballare, lacredenza a saltare, la porta a uscire dai gangheri, e io ad arareper fare il grano.""E allora io rompo la mia brocca" disse la ragazza."Che cos'hai, o ragazza, che rompi la tua brocca?" disse lafontana."Il topo è caduto nei peux, il topo è morto, la topolina sidispera, la tavola si è messa a cantare, la panca a ballare, lacredenza a saltare, la porta a uscire dai gangheri, l'aratro adarare e io ho spaccato la mia brocca.""E allora io mi metto a scorrere fuori del mio buco" dissela fontana."Che cos'hai, o fontana per metterti a scorrere fuori deltuo buco?" dissero le oche."Il topo è caduto nei peux, il topo è morto, la topolina sidispera, la tavola si è messa a cantare, la panca a ballare, lacredenza a saltare, la porta a uscire dai gangheri, l'aratro adarare, la ragazza a spaccare la brocca e io a scorrere fuori delmio buco.""E allora noi ci metteremo a volare" dissero le oche.E non so che cosa sia successo di loro.

DALLA LEGGENDA ALLA STORIA

IL MAGO MERLINO

I

ERA FURIOsO, il Nemico, perché Nostro Signore erasceso all'inferno e aveva liberato Adamo ed Eva equanti altri aveva voluto.Riunì dunque il suo consiglio: e i suoi consiglieri dicevanofra loro:"Non avremmo mai pensato che un nato di donna potessesfuggirci: ma costui è proprio la causa della nostrarovina.""Come potremo trovare qualcuno che pensi, parli, agiscacome noi e abbia la conoscenza che abbiamo noi delle

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cose fatte, dette e passate? Se ci fosse qualcuno che avesseil nostro potere e il nostro sapere, e stesse insieme agli altriuomini sulla terra, potrebbe aiutarci a intrappolarli.Dato che conoscerebbe le cose che si faranno e si dirannovicino e lontano, molti avrebbero fiducia in lui. Chi potessecombinare per noi un tale uomo compirebbe un'eccellenteimpresa.""Me ne incarico io" disse uno dei Nemici. "Io ho il poteredi assumere forma umana."E si mise al lavoro per creare un uomo alla sua maniera,che avesse lo spirito del diavolo per intrappolare l'uomosalvato da Gesù Cristo.Con questo il consiglio si sciolse, avendo raggiunto l'accordosu ciò che si doveva fare.

II

Viveva in quel tempo un galantuomo ricco come Giobbe,e che era altrettanto infelice senza essere paziente come lui.Sua moglie, che aveva fatto un patto col diavolo, fece entrareil Nemico nella sua casa. Questi gettò un maleficio sullegreggi e i cavalli del galantuomo, che morirono tutti. E il ricco,nella sua collera, donò al diavolo tutto ciò che possedeva:e suo figlio si strangolò, sua moglie si impiccò, una dellesue figlie fu sepolta viva per un grave delitto e lui stesso morìdi dolore.Di tutta la famiglia non restavano che due fanciulle, duesorelle.Un buon eremita chiamato Blaise, venuto a conoscenzadelle loro disgrazie, andò a trovarle per consolarle.1 E domandòloro come fossero sopraggiunte tutte quelle sventure."Non ne sappiamo nulla," dissero le fanciulle "se non cheDio deve proprio odiarci, poiché ci manda tanti dolori."Il buon eremita rispose:"Voi non parlate né il vero né il bene. Dio non odia nessuno,al contrario si duole quando il peccatore odia se stesso.Sappiate dunque che è stato il Nemico a rovinare la vostrafamiglia. Guardatevi dalle opere del Nemico: sono perfide econducono quelli che le commettono a una cattiva fine. Venitespesso da me: io vi consiglierò quanto meglio potrò, conl'aiuto di Dio Nostro Signore."Sentendolo parlare così, la più giovane delle fanciulle siburlò di lui e non tardò a pentirsene: poco tempo dopo morìdi morte violenta, come il resto della famiglia. La maggioreinvece ascoltò i consigli di Blaise e in seguito fu ben contentadi averli seguiti.Se qualche volta il Nemico approfittò di una lampadaspenta, di una preghiera dimenticata e soprattutto di unoscatto di collera della fanciulla per intrappolarla, il buon eremita,ch'essa andava subito a trovare, la rialzava benedicendola;e più tardi intrappolò a sua volta il diavolo, togliendoglisuo figlio con la forza dell'acqua battesimale."Così capita a molti," doveva dire un giorno Merlino(perché è proprio di lui che si tratta) "i quali pensano di irretiregli altri e poi cadono essi stessi nella rete."

III

Pur avendo il sangue e il potere del diavolo, il fanciullonon aveva la malvagità del padre. Grazie alla virtù del battesimo,e per amore della sua povera madre innocente, era dotatodi una natura tutta bontà, e invece di ingannare gli uominiera destinato a servirli.La prima prova di ciò (ed era fin troppo giusto) la diede

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in favore di sua madre.Il Nemico, furioso di essere stato preso nella sua stessa rete,aveva trovato un pretesto per farla bruciare viva: ilrogo era già acceso, e già vi stavano conducendo la giovanedonna, spoglia di ogni abito tranne che della camicia,quando sulla sua strada ella vide il suo bambino. Lo presefra le braccia, e marciava così verso la morte. Ma allavista del rogo Merlino fu preso da violenta collera, e lasciandole braccia della madre si slanciò verso il giudice, lo convinsedell'ingiustizia di quella condanna e fece spegnere ilfuoco.Il buon eremita, testimone di questa liberazione, se ne tor-nò via con la madre e il fanciullo, meravigliandosi di scorgeretanto potere in una creatura così piccola; e poiché facevacenno all'origine attribuita dal volgo a quel potere misterioso,Merlino gli disse saggiamente: "E costume di tutti i cuorimalvagi di vedere più il male che il bene nelle cose di questobasso mondo."Poi, sentendo che stava ormai per intraprendere la suaopera, chiese a Blaise una grazia:"Scrivi un libro" gli disse "dove narrerai la mia storia viavia che si svolgerà; e io ti rivelerò, perché tu ve le scriva, coseche nessuno, tranne Dio, potrebbe dirti. Molti di quelliche leggeranno o sentiranno leggere questo libro diverrannomigliori e si guarderanno dal peccato."Blaise rispose:"Io scriverò volentieri il libro, ma tu mi giurerai sul Padre,il Figlio e lo Spirito Santo in cui io credo, e che sono un unicoDio in tre persone: mi giurerai sulla Beata Vergine cheportò il Figlio di Dio, e su tutti gli apostoli e tutti i santi e lesante del paradiso e tutti i prelati della chiesa e tutti gli uominie le donne di buona volontà e tutte le creature che servonoe amano Nostro Signore, che non mi ingannerai né mi gabberaie non farai nulla che sia contro la volontà di Gesù Cristo.Rispondimi: lo giuri?"E Merlino disse: "Lo giuro."Allora l'eremita prese la penna e cominciò a scrivere lastoria di Merlino, a partire dal re che regnava allora in GranBretagna.

IV

Questo re era Vertigier, che finora abbiamo conosciutosotto il nome di Guortigern.Dopo aver costretto Uter e Ambroise, figli del legittimosovrano di Gran Bretagna, a fuggire nel Berry, Vertigier spadroneggiavasu tutta l'isola come se fosse stata sua, e favorivai Sassoni, i quali erano dei Saraceni venuti dalle parti diRoma2 in guerra contro i cristiani. Aveva persino sposatouna delle loro principesse, il che addolorava molto i fedeli,che andavano dicendo: "Qualcuno ha perduto la fede peraver preso una moglie che non crede in Gesù Cristo."E gli dicevano in faccia: "Tu non sei il nostro re: il regnonon appartiene a te." I parenti dei due giovani principi aggiungevano:"No, tu non sei il nostro signore, re Vertigier, etu non tieni a buon diritto questa terra. Tu la tieni controDio e contro la Santa Chiesa e contro ragione. Minacciacipure quanto vuoi: finché avremo in questo paese un soloamico, noi ti faremo guerra.Vedendo che tutti lo odiavano, e temendo il ritorno dei figlidel re legittimo, Vertigier consultò i suoi maghi. E questi gliconsigliarono di costruire una torre, per mettersi al sicuro: epoiché la torre non restava in piedi, gli dissero di uccidere unbambino nato senza padre, il cui sangue l'avrebbe consolidata.

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V

All'avvicinarsi dei messaggeri del re, Merlino, il quale saciò che sta per succedere, va a trovare il buon eremita Blaise:e gli racconta come sarà condotto davanti a Vertigier, comeconfonderà i suoi maghi, come spiegherà perché la torre nonpuò stare in piedi, e ciò che sta sotto la torre e il senso deidue grandi draghi ciechi, uno rosso e uno bianco, che uscirannodal fondo dell'acqua per combattersi a vicenda, e checosa simboleggia il rosso e chi rappresenta il bianco e perchéuno finirà per vincere l'altro."Tu non verrai con me" aggiunse il fanciullo. "Va' dallatua parte, marcia verso il nord e domanda di una terra cheha nome Northumberland. Questa terra è piena di grandi foreste,è sconosciuta agli stessi uomini del posto, perché vi è inessa un luogo in cui nessuno è mai stato."Vacci, e resta là. Io tornerò a trovarti quando il miocompito sarà finito, perché voglio che tu sappia che NostroSignore mi ha dato il potere e i mezzi per svolgerlo bene intutto il regno dove io dovrò agire. O Dio! Quanto lavoro miaspetta! Oh, i nobili cuori che vi troverò! Ma sappi, e mettiloper iscritto, che la mia opera più importante comincerà solocol quarto re, il quale avrà nome Artù. Sappi che mai nessunastoria di re o di saggio è stata ascoltata con tanto piacerequanto lo sarà quella di Artù e degli uomini che vivranno nelsuo tempo."Merlino si allontanò dunque da una parte insieme ai messaggeridel re Vertigier, e il buon eremita andò dall'altra: etutto avvenne così come Merlino aveva annunciato a Blaise,perché Vertigier fu bruciato in una torre ad opera dei duegiovani principi di cui occupava ingiustamente le terre.

VI

Mentre Uter e Ambroise, dopo la loro vittoria sull'usurpatore,stavano ponendo l'assedio a un castello occupato daglistranieri e davanti a loro si raccontava la storia di Merlino,il più serio dei consiglieri disse loro:"Lui vi insegnerà il mezzo di cacciare i Sassoni dal nostropaese, perché è il più saggio uomo del mondo."I due giovani principi, quando vennero a sapere che Merlinoviveva nelle foreste del Northumberland, mandaronodei messi a cercarlo.I messi erano già in viaggio da tre giorni per questa missione,che era ben più gradevole di quella dei messaggeri diVertigier, quando incontrarono all'angolo di un bosco un taglialegna,che aveva una barba così lunga, dei capelli cosìispidi, degli abiti così cenciosi che lo presero per un selvaggio.E la voce dell'uomo, quando aprì la bocca, non era certofatta per deluderli:"Ah, ah, signori miei!" gridò da lontano "io so bene chicercate, è il Mago Merlino. Ma voi non lo cercate bene: sefossi al vostro posto, lo troverei più presto di voi."I messi, sorpresi, gli chiesero: "Tu sai dunque dov'è? El'hai visto?""Se l'ho visto?" replicò il selvaggio. "Certo che l'ho visto, emi ha anche detto che lo cercavate per sapere da lui comeprendere il castello dove regna Hengist, e come cacciare iSassoni dal paese. Ma se anche lo trovaste," aggiunse "nonverrebbe con voi; non vuole andare che col re, e se il re inpersona non viene a cercarlo, nessuno potrà condurlo da lui.Quanto alla città assediata, come è vero che chi vi ha consigliatodi rivolgervi a Merlino è morto, così non potrà esser

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presa finché Hengist vivrà."Dopo aver detto queste parole il taglialegna scomparvenel bosco.I messi tornarono dal re. "Sire," gli dissero "abbiamo incontratoun uomo selvaggio che ci ha fatti tornare indietro.Ci ha detto, da parte di Merlino, che se vogliamo trovare ilmago bisogna che andiate voi stesso a cercarlo; quanto allacittà, ci ha detto, non si potrà prenderla finché Hengist saràvivo. Come prova della verità delle sue parole, ci ha annunciatoche avremmo trovato morto colui che vi ha consigliatodi andare a cercare Merlino."Il re rimase interdetto: effettivamente il suo consigliere eraappena morto. Resistere a un tale segno non sarebbe statosaggio: per cui egli disse a suo fratello: "Continua tu l'assedio:io devo partire. Ma ben presto, spero, sarò di ritornocon colui che ci aiuterà a prendere la città e a cacciare i Sassonidal paese."Quando il re arrivò col suo seguito al bosco dove i suoiprimi messaggeri avevano incontrato il taglialegna: "Guardate,guardate, signore, quell'idiota così sozzo e deforme, a cuile bestie selvagge obbediscono!" esclamarono i suoi compagni.E gli indicarono un personaggio strano, con l'aria istupidita,vestito di una tonaca di bigello, con una grossa mazza inmano a guisa di vincastro, che guardava un branco di daini."Se sono idiota, non lo sono tanto da ignorare chi cercate,o re Ambroise!" disse il guardiano di daini. "Continuate lavostra strada: Merlino non è lontano di qui: chiedete di lui alprimo mendicante che incontrate."Senza fermarsi ad ascoltare quel povero balordo, il re stavacontinuando per la sua strada quando gli comparve davantiil mendicante che gli era stato annunciato. Allora glirincrebbe di aver disprezzato uno che in apparenza era menosaggio di lui: e senza guardare né la condizione miserabile négli abiti a brandelli del mendicante, ma pensando solo a quelche poteva sapere, lo interpellò:"A quanto ci ha detto un idiota che abbiamo appena incontrato,tu puoi darci notizie del famoso mago Merlino, cheda lungo tempo io sto cercando.""Merlino!" ripeté il mendicante scuotendo i suoi cenci senzavergogna. "Merlino! Ma è lui che vi ha parlato! E lui l'idiotache avete incontrato mentre guardava il suo branco didaini nel bosco! E' lui il taglialegna che i vostri messi hannopreso per un selvaggio. Ed è ancora lui che mi manda a voiper darvi una buona notizia: Hengist è morto, vostro fratelloUter l'ha ucciso.""E' mai possibile!" esclamò il re meravigliato."e' cosa sicura" rispose il mendicante; e come il re lo guardavacon più attenzione, l'altro lo tirò per il mantello e lotrascinò da parte nel bosco. Qui, al posto di un miserabilestraccione, il re si vide davanti un leggiadro fanciullo.E il fanciullo gli disse: "Io voglio essere bene accolto davoi e da vostro fratello Uter. Sappiate che io sono quel Merlinoche siete venuti a cercare."Merlino stava ancora parlando quando vennero ad annunciaread Ambroise che durante una sortita Hengist erastato catturato da Uter e decapitato. Il re si affrettò dunque atornare da suo fratello per congratularsi con lui e trar subitoprofitto dal fatto.

VII

Alla vista del re seguito dal buon mago, gli assedianti corseroloro incontro: da ogni parte si sentiva esclamare:"Ecco Merlino! ecco il miglior mago che ci sia al mondo!

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Ora ci dirà come prendere la città." Alcuni si rivolgevano alre: "Sire, domandategli chi vincerà fra noi e i Sassoni; sappiateche, se vuole, certo ve lo dirà."Il re interrogò dunque Merlino e il mago rispose:"Perché i Bretoni possano riavere la loro terra e la loro coronabisogna che gli stranieri spariscano: sì intimi dunque aiSassoni di tornare nel loro paese e si forniscano loro le navinecessarie per farlo."Ma questa intimazione non fu accolta dagli assediati, i qualichiesero di restare e di conservare la loro città: si dichiaravanodisposti a riconoscere la sovranità del re e a pagargli ognianno un tributo di due cavalieri, dieci damigelle, nove falconi,cento levrieri, più cento destrieri e cento palafreni.Ancor prima che le loro proposte fossero trasmesse al re,Merlino già le conosceva: "Offrirci un tributo, per avere il dirittodi restare nel nostro paese!" esclamò indignato. "I lorocavalieri, le loro fanciulle, i loro falconi, i loro cani, i loro cavalli,che bisogno abbiamo di tutto ciò? Che se ne vadano!che sgombrino la terra dei nostri padri! ecco quello che noivogliamo da loro. Altrimenti li faremo morire di fame o dispada. Che lo sappiano bene, e che accettino le nostre propostee le nostre navi: sono già troppo fortunati che gli risparmiamola vita, perché credono già di essere morti."Gli stranieri in realtà finirono per accettare le proposte deiBretoni, stimandosi fortunati di poter lasciare l'isola sani esalvi: e ben presto i Bretoni videro con gioia allontanarsi lenavi che li portavano via.Fu così che, per il consiglio di Merlino, il re Ambroise esuo fratello si liberarono degli stranieri. E poiché il mago sidisponeva a ripartire, i due fratelli lo scongiurarono di restarecon loro. Ma egli resistette a tutte le loro preghiere."Per mia natura," disse "io non posso vivere nel mondo:tuttavia state sicuri che, ovunque sarò, mi ricorderò di voipiù che degli altri uomini. Non appena sarete in pericolo mivedrete accorrere per aiutarvi e consigliarvi. Ma, ve lo devodire, se vorrete godere qualche volta della mia compagnianon dovrete adirarvi con me quando me ne andrò: solo, almio ritorno accoglietemi con molte feste davanti agli occhi ditutti: e così gli uomini buoni che vi ameranno, ameranno ancheme; e i malvagi che vi odieranno mi odieranno del pari."

VIII

In realtà, nonostante la sua bontà, Merlino aveva nemicia corte: e Ambroise corse il rischio di prestar fede alle loroparole. Un giorno dissero al re:"Lasciate, o sire, che lo mettiamo alla prova: e vedretechiaramente che Merlino non sa nulla."Allora ricorsero allo stratagemma che conosciamo: travestironola stessa persona in tre modi diversi e indussero ilmago a predire a quella stessa persona che sarebbe morta ditre morti diverse, ossia: rompendosi il collo, impiccandosi eannegando. Il mago seppe confonderli: ma fu egualmente assaiindignato di essere stato messo alla prova, e così abbandonòla corte.I due fratelli rimasero assai addolorati della sua partenza:credettero che fosse adirato con loro e che non sarebbe piùtornato. Ma questo significava conoscere male il buon mago,e diffidare della sua parola: dopo qualche tempo egli ricomparve."Vi amo troppo per non tornare da voi" disse loro; "iovoglio il vostro bene e il vostro onore. E ora queste cosesono in pericolo. Vi ricordate dei Sassoni che avete cacciatodalle vostre terre dopo la morte di Hengist? Ebbene, quelliche se ne sono andati hanno portato la notizia in Sassonia;

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e poiché Hengist era di alto lignaggio, quelli del suo paesevanno dicendo che non saranno contenti se non avrannovendicato la sua morte. E sperano di riprendersi la nostraterra."Quando i due fratelli sentirono queste notizie ne furonomolto sorpresi e gli chiesero: "Ma hanno dunque tanti soldatida poter resistere ai nostri?"Merlino rispose: "Per un soldato che voi avete essi nehanno due, e se non agirete saggiamente devasteranno e conquisterannoil vostro regno.""Faremo ciò che voi comanderete" replicarono i giovaniprincipi.

IX

Allora il mago propose loro uno stratagemma che avrebbeportato i nemici alla perdizione. Dovevano lasciarli sbarcaresenza ostacoli e avanzare nella pianura di Salisbury.Una volta che fossero avanzati abbastanza profondamente inquesta regione, i cristiani, uscendo da un agguato, dovevanotagliargli la strada per raggiungere le navi. In cielo sarebbecomparso un drago, che sarebbe stato il segno della sconfittadei pagani.Mentre i cristiani erano in cammino per andare a sorprendereil nemico, i due fratelli chiesero a Merlino:"In nome di Dio, Merlino, dicci se moriremo in questabattaglia."Ed egli rispose:"Tutto ciò che ha avuto un principio deve avere una fine:nessun uomo può evitare la morte, tutti lo sanno: e anchevoi morirete, come tutti gli altri uomini. L'importante è dimorir bene. Una buona vita aiuta molto ad avere una buonamorte."Il re Ambroise, vedendo che il mago eludeva la sua domanda:"Ti prego di dirmi se morirò per mano dei Sassoni."E Merlino continuò:"Giuratemi, sulle reliquie dei santi, che in questa battagliasarete leali e prodi verso voi stessi; e sappiate che nessunopuò essere leale e prode verso se stesso se non lo è verso Dio.E io vi insegnerò ora il modo per esserlo: mettete ordine nellavostra coscienza. Dovete farlo oggi più che in qualsiasi altracircostanza, perché vi preparate a combattere i vostri nemici.E se sarete quali io vi voglio, state sicuri che li vincerete: perchéessi non credono nella Santa Trinità, e nemmeno nellaPassione che Gesù Cristo, Nostro Signore, patì in terra. Co-lui che muore difendendo il suo buon diritto, in accordocon Gesù Cristo e con la Santa Chiesa, non deve temere lamorte."Merlino si fermò un istante, e poi proseguì:"Non c'è stata al nostro tempo, e non ci sarà mai, battagliapiù grande di quella che state per combattere: uno di voidue vi morirà; sì, ve lo ripeto, uno di voi due morirà, mapoiché io voglio che ciascuno di voi sia ben preparato a compariredavanti al Signore, e che ciascuno di voi muoia daprode, io non vi dirò quale di voi deve morire."

X

Nel frattempo i pagani erano sbarcati e avanzavano senzatimore per la pianura di Salisbury. D'improvviso alle lorospalle si levò un gran clamore. Erano i cristiani guidati daMerlino, che uscendo dall'imboscata li attaccavano di sorpresa.In quel momento in cielo apparve un mostro: aveva laforma di un drago vermiglio e gettava fuoco e fiamme dal

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naso e dalla gola. I pagani ne furono atterriti: i cristiani invecesentirono raddoppiare il loro coraggio."Ecco il segno predetto da Merlino," esclamò il re; "corriamogliaddosso! Ormai sono sconfitti!"E corsero incontro al nemico con tutta la velocità dei lorocavalli: e così cominciò la battaglia di Salisbury.Era dunque necessario che, nel bel mezzo della vittoria, sicompisse la predizione di Merlino riguardo a uno dei duefratelli? Ma anche il suo desiderio fu esaudito, perché, seAmbroise morì, morì da prode e comparve da buon cristianodavanti al Signore.Molti altri ebbero la stessa sorte; e come tutti sanno perrendergli onore Merlino trasportò sul luogo stesso del loromartirio le pietre del grande cimitero d'Irlanda che chiamavanola Carolle, o la Danza dei Giganti.

XI

Dopo aver onorato il re morto, Merlino onorò il re vivo.Fece fondere per lui un drago d'oro, a causa del quale Uter fusoprannominato Penn-dragon; e da allora portò lui stessoquesta insegna, a guisa di vessillo, alla testa dell'esercito cristiano.Poi, dopo aver fatto incoronare il principe, se ne tornòdall'eremita Blaise, nelle foreste del Northumberland, perraccontargli ciò che qui si è letto.Quando Blaise ebbe messo tutto per iscritto, Merlino glidisse:"Ascoltami bene: ora ti parlerò di un grande mistero, cheè quello della Tavola Rotonda, la tavola dove Nostro SignoreGesù Cristo mangiò e bevve con i suoi discepoli. Essa eraperduta, io l'ho ritrovata e la voglio restituire in questo tempoin cui è re Penn-dragon. Il re vi farà sedere cinquanta deisuoi migliori cavalieri e valentuomini del regno. Ma quelliche vi siederanno sotto il regno di suo figlio, il re Artù, sarannoancora migliori e di più alta fama. Io ora me ne vadoa Cardueil, nel Galles, per preparare questa tavola."Merlino si recò dunque nel Galles alla festa della Pentecoste,dove il re teneva la sua corte nella città di Cardueil, e viportò la Tavola Rotonda, alla quale fece sedere i cinquantamigliori cavalieri del tempo. E il re comandò che fossero serviti,amati e onorati come la sua stessa persona. Venne persinoa vederli intorno alla tavola e domandò se vi si trovavanobene.I cavalieri risposero:"Sire, ci troviamo così bene che vorremmo restarvi pertutta la vita, e non lasciarla mai. Col vostro permesso, faremovenire in questa città le nostre spose e i nostri figli, e cosìvivremo insieme nella pace di Nostro Signore Gesù Cristo;perché noi tutti abbiamo un cuore solo."Il re disse loro:"Veramente siete tutti un solo cuore?""Sì, un solo cuore, in verità," risposero i cavalieri "e siamoanche sorpresi che ciò avvenga, perché ognuno di noi non èniente per gli altri; non ci eravamo mai visti; e ce ne sono pochifra noi che siano della stessa famiglia. Tuttavia ci amiamoaltrettanto e più di quanto i buoni fratelli amino i lorofratelli, e mai, ci sembra, cesseremo di amarci. E mai ci separeremo:la morte soltanto ci separerà."Il re fu ben felice di ciò che vedeva e sentiva; così questaTavola famosa fu istituita da Merlino, al tempo di UterPenn-dragon.

XII

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Ma quelli che non erano stati giudicati degni di assidersialla Tavola Rotonda erano pieni di rancore contro Merlino;e poiché il mago era tornato alle foreste, come era sua abitudine,fecero correre la voce che era morto, che un fellone loaveva ucciso in un bosco del Northumberland.Un posto restava vuoto alla Tavola, un posto misteriosoe riservato. Il mago aveva annunciato che la sciagura avrebbecolto chiunque fosse stato così temerario da occupare quelposto senza averne diritto.Ora, uno dei nemici di Merlino, volendo sfidarlo e nuocerealla sua reputazione di profeta, si presentò un giorno nellasala dove i cinquanta cavalieri erano seduti a tavola:"Ora vedrete" esclamò in tono millantatore "se questo seg-gio è pericoloso come credete sulla parola del cosiddetto profetaMerlino."E avanzandosi a testa alta verso il seggio vuoto posto fradue degni cavalieri della Tavola Rotonda, se ne impadronì evi si installò insolentemente. Ma si era appena seduto quandotutti lo videro fondersi davanti ai loro occhi come fondeun pezzo di piombo nel fuoco; e nessuno seppe mai dove andassea finire.In quel momento Merlino ricomparve nella sala: e fu allorache disse al re le parole divenute celebri:"Così succede a molti che credono ingannare altrui e ingannanose stessi.3"E aggiunse:"E tu puoi ben sapere se questo è vero, sire, poiché egli dicevae faceva credere che un fellone mi avesse ucciso."Rispose il re:"e' vero che lo ha detto" e stava per continuare quando siaccorse che il mago non c'era più.

XIII

Merlino era tornato presso il buon eremita; ma questavolta non gli annunciò quali nuovi servigi si disponesse aprestare a Penn-dragon, e come, grazie a certe erbe magichedegne di miglior uso, il re dovesse prendere le sembianze diun duca di Cornovaglia e diventare padre di Artù. Il santoeremita gli avrebbe rimproverato la sua debolezza; gli avrebberinfacciato di mancare alla sua promessa partecipando alpeccato.Tornò di nuovo presso l'eremita in seguito a una catastrofe,di cui Blaise non esitò a mettere il racconto per iscritto.Il re Uter era malato, i pagani stavano tornando e i suoibaroni rifiutavano di obbedire al cavaliere che aveva incaricatodi governare il regno al suo posto, col pretesto di esserenobili quanto lui, e ricchi quanto lui, se non di più.Vennero dunque ad annunciare al re questa notizia, e adirgli che i pagani avevano sottomesso al loro potere unagran parte del paese. Quasi nello stesso tempo gli riferironoun altro fatto, che lo gettò nella costernazione.Un vecchietto appoggiato a una stampella, con gli occhinascosti sotto il cappuccio e addosso una tonaca scura comequella di un eremita si era presentato alla porta del palazzo,aveva preso in braccio il piccolo Artù col pretesto di carezzarloed era fuggito col bambino.Allora il re pensò che il Signore Iddio lo metteva alla provae pianse.Poi pensò a Merlino."Merlino, mio buon consigliere, dove sei? Perché non vienia trovarmi nella mia disgrazia? Mi avevi promesso che, dovunquetu fossi, ti saresti ricordato di me, che appena avessiavuto bisogno dite ti avrei visto accorrere al mio fianco. Ma tu

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certo sei morto, perché se fossi vivo verresti a consolarmi."

XIV

"Eccomi" disse in quel momento una voce dolce: e il re videMerlino in piedi presso il suo letto."Ho sentito i tuoi lamenti" continuò il buon mago "e il miocuore non ha potuto resistere.""Ah, Merlino, quante sciagure dopo la tua partenza! i paganivincitori! io malato! mio figlio rapito! Sai tu chi ha rapitomio figlio? Sai tu dov'è Artù? Lo sai?"Merlino sorrise:"Non affliggerti per questo; sappi che il bambino è in unluogo sicuro, che è bello, cresce, è ben nutrito. Quanto ai pagani,non aver paura. Riunirai tutti gli uomini che potrai, equando saranno riuniti ti farai portare sul tuo letto alla lorotesta e così andrai a combattere contro il nemico. Sta' certoche conquisterai la vittoria: perché la vittoria viene dal cuoree non dal braccio. Viene da Dio, e non dall'uomo. Ma dopola vittoria tu farai per amore di Dio ciò che ti comanderò."Il re promise di seguire il consiglio di Merlino. Fece arruolaretutti i soldati che poté trovare e diede ordine che lo portasseronel suo letto alla testa dell'esercito.

XV

I pagani, vedendolo venire, si misero a ridere."Che razza di re è quello, che guerreggia dal fondo dellabara e che in bara va alla battaglia!"Ma il loro orgoglio doveva costargli caro. Il re, sentendole loro parole, si drizzò nel suo letto:"Val meglio esser distesi nella bara che esser sani e sconfitti;val meglio morire con onore che vivere a lungo nella vergogna;mostriamo dunque loro che un uomo mezzo mortosa vincere degli uomini vivi."E i cristiani, animati dalla parola e dall'esempio del lorosovrano, attaccarono con tanto accanimento i pagani che lifecero a pezzi e li cacciarono dal paese.Il giorno dopo la battaglia, mentre Merlino era seduto accantoal letto del re vittorioso, Penn-dragon gli disse:"Merlino, sento che non mi resta molto da vivere. Mi lasceraiprima che io muoia, e non ti rivedrò mai più?"Merlino rispose:"Ancora una volta soltanto.""Allora, per amore di Dio, Merlino, insegnami ciò che de-vo fare ora che ho conquistato la vittoria e che sto per presentarmidavanti al Signore.""Spartisci le tue ricchezze fra i poveri e gli indigenti, perl'amore di Dio" disse Merlino "e voglio che tu sappia una cosa:coloro che possiedono grandi beni senza farne parte aipoveri non si comportano da buoni cristiani. Largisci in questomondo, mentre sei vivo, i beni che Dio ti ha dati, affinchétu possa trovare lassù le gioie del paradiso. Conviene all'uomosaggio servirsi di ciò che possiede in questa vita mortaleper acquistare la beatitudine nell'altra; e tu che hai avutotanta fortuna quaggiù, tanti beni, tante ricchezze, tanti onori,che cosa hai fatto per il Dio tuo creatore, da cui hai ricevutotutte queste grazie? Tutti i beni della vita non valgonouna buona fine; tu non porterai nulla con te da questa terra,se non le tue opere buone. Io ti ho molto amato, e ti amoancora; ma, siine certo, nessuno può amarti tanto quanto tustesso."Il re fece dunque portare davanti al suo letto i forzieri dov'eranoconservati i suoi tesori; mandò a chiamare i poveri e

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gli indigenti del paese, le vedove, gli orfani, tutti quelli chepiù avevano sofferto per opera dei pagani sotto il suo regno;e davanti a loro fece aprire i forzieri e distribuì i suoi tesoriper amore di Dio.Questo fece il re, per consiglio di Merlino, e mostrò cosìbene a tutti di amare Dio e la Santa Chiesa e il suo popolo,che tutti i presenti piangevano. Merlino, andandosene, piangevacome gli altri.Il buon mago non si era ancora allontanato dal palazzoquando il re, dopo aver distribuito il suo tesoro ai poveri, sìindebolì del tutto, perse la parola, abbassò la testa; e si sentìripetere da un angolo all'altro del palazzo: "Ill re è morto!"

XVI

Dopo tre giorni Merlino ricomparve. E tutti gli si fecerointorno."Ahimè, ahimè! Merlino, è morto il re che tu amavi tanto!"Merlino rispose:"Voi non dite la verità. Nessuno muore quando fa una finegiusta come lui. Ma io so bene che non è ancora morto."Quelli replicarono:"La cosa è fin troppo certa: sono tre giorni che non parlapiù.""Se piace a Dio, parlerà" fece Merlino sorridendo; "conducetemida lui."Condussero il buon mago nella camera mortuaria. Le finestreerano chiuse. In mezzo giaceva il re, nello stesso lettodel giorno della vittoria.Vedendo tutti i segni del lutto intorno al letto, Merlinoparve sorpreso; andò alla finestra e l'aprì. L'aria e la luce entraronoe un raggio venne a illuminare il volto del re.Quelli che vegliavano intorno al letto si avvicinarono alsovrano e gli dissero:"Sire, ecco Merlino che voi amavate tanto."Il re si girò, aprì gli occhi e riconobbe il suo amico.Allora Merlino disse agli astanti:"Chi vuole ascoltare le ultime parole del re si avvicini" eaccostandosi lui stesso al capezzale del re gli disse all'orecchio:"Tu fai una fine giusta se la tua coscienza è come appare.Sappi in verità che sono io che ho rapito tuo figlio e lo faccioallevare. Tuo figlio Artù sarà re dopo la tua morte per graziadi Nostro Signore Gesù Cristo, e porterà a termine l'operadella Tavola Rotonda che tu hai fondato."Quando il re sentì Merlino parlare di suo figlio i suoi occhibrillarono di gioia."Artù, figlio mio, mio povero bambino! In nome di Dio,che preghi Gesù Cristo per me!"I presenti erano stupefatti al vedere che Merlino avevafatto parlare il re; e poiché non avevano sentito la profeziadel mago, gli chiesero:"Che gli avete dunque detto?"Merlino non rispose, e lasciando bruscamente la corte tornòpresso l'eremita Blaise, nelle foreste del Northumberland.

XVII

Se il re Penn-dragon si era addormentato pieno di speranzain Dio e nelle promesse di Merlino, i suoi cavalieri eranoin preda a grande sgomento in conseguenza della sua morte.Mandarono a chiamare Merlino per consultarlo."Voi siete molto saggio" gli dissero i messaggeri "e avetesempre consigliato bene i nostri re, lo sappiamo. Ecco cheora il regno è senza erede: diteci quello che dobbiamo fare e

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insegnateci il mezzo di trovare un re che voglia la salvezza, ilbene e il vantaggio del popolo. Possa Dio darvi un buonconsiglio!"Merlino ascoltò le loro preghiere e li seguì nella città, doveil popolo lo aspettava. Quando tutti ebbero fatto silenzio,si alzò e disse:"Io amo molto questo regno e tutti gli uomini che ci vivono:poiché volete avere il mio consiglio, ve lo darò buono eleale, secondo Dio e secondo il mondo. Ecco che si avvicinail gran giorno in cui nacque il Re dei Re. Ora, io annuncio avoi, e a tutti gli abitanti del regno, che se in questo giornopregherete devotamente Nostro Signore, egli farà un miraco-lo per farvi trovare un re. Rivolgetegli dunque questa preghiera:"Signore Dio onnipotente, che in questo giorno vi degnastenascere dalla Vergine Maria, Re dei re e Signore deisignori, piacciavi mostrare quale di noi è degno di essere re,per ben governare e mantenere il popolo nella fede cristiana;fate che davanti a tutti appaia un segno, che mostri chi è ilpiù degno di regnare su di noi".""Se pregherete con fervore," continuò Merlino "vedretecertamente l'eletto di Gesù Cristo stesso."Detto questo si allontanò.

XVIII

Quando arrivò la festa del Natale, San Dubriz, arcivescovodi Carlion, disse tre messe, e alla messa della mezzanottesali in pulpito per ricordare ai cristiani che dovevano dire trepreghiere:- la prima, per la salvezza delle loro anime;- la seconda, per l'amore del popolo e il bene del paese;- la terza, per il miracolo che Dio, secondo la promessadi Merlino, doveva fare quella stessa notte per l'elezione delnuovo re.Il miracolo non si fece aspettare.Come l'arcivescovo stava terminando la messa dell'aurora,la folla, uscendo dalla cattedrale, fu sorpresa al vederedavanti al portone della chiesa una scala di marmo di tregradini e in cima a essa una grande incudine di acciaio, econficcata in questa incudine una spada. Ora, sull'elsa dellaspada si leggeva:

Colui che di qui mi trarràin nome di Gesù Cristo re sarà.

XIX

L'arcivescovo lesse l'iscrizione al popolo e invitò i grandidel regno a fare la prova uno dopo l'altro. Ma nessuno deisei re della Gran Bretagna riuscì, malgrado i suoi sforzi, aestrarre la spada dall'incudine. Anche i baroni tentarono invanola ventura. Vennero in seguito i cavalieri, ma non ebberomaggior successo; li seguirono gli scudieri e i servanti einfine i buoni borghesi del paese. Tutti non fecero che perdereil loro tempo.L'arcivescovo, vedendo che i grandi e i forti non riuscivanoa concludere niente, volle che anche i piccoli e i debolifossero ammessi a concorrere, e chiamò i fanciulli.Anche i fanciulli fallirono come gli altri: ne restava unosolo, di cui nessuno conosceva il padre; era venuto alla messacon un vecchio chiamato Antor, che lo aveva adottato eallevato. San Dubriz non credette giusto dimenticarlo, e malgradole risate dei signori gli fece cenno di avvicinarsi.O prodigio! non appena la manina del fanciullo ebbe toccato

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la spada, la trasse fuori dall'incudine, facilmente comeuna freccia dal turcasso.Vedendo ciò, l'arcivescovo lo prese tra le braccia, l'abbracciòteneramente e alzatolo al di sopra della sua testa permostrarlo al popolo cominciò a cantare: Te Deum laudamus.I baroni non ridevano più. Gli uni dicevano tristemente:"E' mai possibile che un fanciullo così giovane diventi nostrore?"E altri aggiungevano:"Ancora non si sa chi è suo padre. Noi non faremo mainostro sovrano uno che non è stato legittimamente generato;no, giammai, piaccia a Dio, lasceremo governare da un bastardoun regno così bello come quello della Gran Bretagna."Ma l'arcivescovo disse ad alta voce queste ardite parole:"Sappiate che, quand'anche il mondo intero fosse controquesta elezione, il fanciullo sarà re: Dio lo vuole!"E rivolgendosi al fanciullo:"Va', figlio mio, tu sei re."Quando il popolo minuto intese le parole dell'arcivescovo,ne fu felice e cominciò a maledire quelli che volevano impedirel'elezione. E schierandosi dalla parte del clero, tutti ripetevano:"Maledetti siano quelli che vorranno nuocere al nuovo re.Colui che l'ha eletto lo conosce meglio di noi."

XX

Avvenne allora che Merlino arrivò a Carlion. I baroni loinvitarono al palazzo, e vedendolo venire gli andarono incontrocon grandi manifestazioni di gioia. Poi lo condusseronel loro consiglio e cominciarono a ragionare con lui, domandandoglila sua opinione su questo nuovo re che l'arcivescovoDubriz voleva incoronare senza il loro consenso."Certamente," disse Merlino "l'arcivescovo farà bene afarlo, perché dovete sapere che questo fanciullo è più grandedi tutti noi, e non è figlio di Antor, se non per il nutrimentoche gli ha dato.""Come!" esclamarono i baroni "che dite mai?""Dico" riprese Merlino "che se volete recare qualche dannoal mio signore Artù, ci perderete più di quanto possiateguadagnarci, perché Dio, il sommo re, nelle mani del quale èil potere su tutta la terra, ne farà vendetta e voi sarete maledetti."I baroni si misero a ridere e a burlarsi di Merlino:"Ah, ah, il mago! Come parla bene, il mago!"

XXI

Intanto era arrivata la Pentecoste e l'arcivescovo di Carlionpensò di non dover rimandare più a lungo la consacrazionedel giovane re. Gli pose dunque la corona sulla testa,nella sua cattedrale, in presenza di tutto il popolo: gli mise loscettro in mano e prendendo dall'altare la spada che il fanciullostesso aveva estratto dall'incudine gliela cinse. E la spadagettò un grande raggio di luce. Il suo nome era Escalibor,nome ebraico che significa in italiano taglia-ferro4 e Merlinola conosceva bene.Allora il nuovo re disse ai baroni:"Io vi perdono di cuore; che Nostro Signore vi perdonianch'egli."Poi fece distribuire a tutti armi, cavalli, vesti di porpora eseta: e oro e argento, quanto ne restava nel tesoro reale.I baroni videro subito che non avrebbero potuto trovarein lui alcuna pecca. Ma la loro gelosia non si placò per questo,e non tardarono a ribellarsi. Dovevano però esserne duramentepuniti, come aveva predetto Merlino.

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XXII

Assediato nella sua capitale, Artù ricorse al buon mago."Ho sentito dire che avete reso grandi servigi al re UterPenn-dragon, mio padre; e io stesso sono stato più volte davoi aiutato. Vi prego dunque, in nome del cielo, di darmi unconsiglio e di aver pietà di me e del mio popolo. Noi saremosterminati se Dio non verrà in nostro aiuto: perché sono seire contro di me, e i cavalieri della Tavola Rotonda sono andatia guerreggiare in paesi lontani."Merlino prese il re per mano e condottolo da parte gli disse:"Non spaventarti, caro sovrano: non hai nulla da temereda loro. Tu sarai liberato dai tuoi nemici: con l'aiuto di Diol'arcivescovo Dubriz e io li fiaccheremo."Non aveva ancor finito di parlare che l'arcivescovo, dall'altodelle mura della città, scomunicava gli assediatori.Da parte sua, Merlino consegnò al re un vessillo dellastessa forma di quello che aveva fatto fare per Penn-dragon,ma ancora più meraviglioso, perché il nuovo drago aveva lacoda ancora più lunga e ancora più attorcigliata dell'altro.Era più leggero, più facile da manovrare e gettava fuoco efiamme dalla gola. Vedendolo levarsi nell'aria sulla punta diuna lancia nessuno osava guardarlo e tutti si domandavanodove Merlino lo avesse preso.Quando Merlino ebbe inalberato questo vessillo, e il reArtù fu pronto a respingere il nemico, le cui tende e i cui padiglionicoprivano la pianura fino all'orizzonte, il mago salisulla cima della torre più alta e fece un tale incantesimo chetutta l'aria si riempì di fiamme e di fumo; tanto che gli assediantinon sapevano dove rifugiarsi e avrebbero voluto esserlontani cento leghe.Vedendoli così sgomenti, Merlino scese da Artù e gli disse:"Ora, all'attacco!"Aperte le porte, il re caricò con tanto slancio i baroni ribelli,già storditi dall'incantesimo di Merlino, che li respinsesull'altra riva del fiume. Ma in questa carica il suo cavallo fuabbattuto, e i baroni, credendolo morto, ripresero coraggio ericominciarono il combattimento.

XXIII

I baroni erano sul punto di riportare la vittoria, e i cavalieridi Artù già indietreggiavano quando i popolani, veden-do dall'alto delle mura che il re era stato disarcionato, accorseroarmati di mazze e di scuri, gridando: "Preferiamo morireche vedere il re soffrire il minimo danno. Non saremo contentise non quando lo avremo vendicato: lotta senza quartiere controi baroni! Nessun altro riscatto se non le loro teste!"E diedero tali colpi ai soldati dei sei re con le loro mazze ele loro scuri, che ne massacrarono un buon numero e miserogli altri in fuga.Nel frattempo Merlino, dall'alto della torre, continuava afar piovere il fuoco del cielo sui padiglioni dei nemici: e tuttoandò bruciato, tranne il vasellame d'oro e d'argento, che ilvincitore donò generosamente a quelli che lo avevano soccorso.E vedendo in lui tanto amore, i popolani del paese giuraronoche avrebbero continuato a servire il re fino alla morte.

XXIV

Grandi feste furono celebrate per la vittoria, ma Merlinonon volle assistervi; e poiché Artù lo pregava di restare glidiede la stessa risposta che un giorno aveva dato al suo defunto

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padre:"Voglio che tu sappia che, per la natura stessa di colui chemi ha generato, è mio costume abitare nei boschi (e non èche io vi resti per godere della sua compagnia, poiché eglinon si cura di avere per compagno nessun amico di Dio); mapuoi star sicuro, come lo era il re tuo padre, che ogni voltache sarai in pericolo arriverò a portarti consiglio."Non ti sorprendere tuttavia se spesso mi mostro a te sottouna forma molto diversa dalla mia solita; non voglio, capisci,che tutti mi riconoscano. Ma devi promettermi di nonrivelare a nessuno ciò che potrò dirti."Il re glielo promise e Merlino si allontanò, assicurandolodel suo amore.

XXV

Il buon profeta aveva predetto ai baroni che, se avesserofatto guerra ad Artù, ne avrebbero ricavato più perdite cheguadagno: e i baroni lo avevano appunto provato. Ma loprovarono ancor meglio quando arrivarono ciascuno nelproprio regno. I Sassoni, approfittando della loro assenza edella loro lotta contro Artù, avevano fatto venire trentamiladei loro compatrioti: ed erano entrati nelle terre dei sei re,dove avevano tutto bruciato e devastato, trascinando con séun ricco bottino verso la capitale della Cornovaglia, che speravanopure di prender d'assalto.Artù fu informato del pericolo che correvano i suoi baroni,e volendo render loro bene per male accorse in loro aiuto.Da parte sua Merlino, ammirando la bontà del suo re, nontardò a raggiungerlo. Non appena scorse da lontano le tendedei Sassoni, suscitò contro di loro una tale tempesta che i padiglioninemici, sollevati dai turbini di un vento furioso, ricadderosulla testa di quelli che stavano dentro e li schiacciaronoquasi tutti. Artù vi trovò tutto il bottino fatto sulle terredei suoi baroni e lo distribuì fra i più poveri dei loro cavalierie scudieri, secondo il consiglio di Merlino.

XXVI

Il re era tornato alla sua corte e Merlino alle sue forestequando un giorno, dall'alto della finestra del palazzo dallaquale stava contemplando i giardini, i prati e il fiume, Artùvide venire lungo la riva un contadino robusto e di alta statura,con un arco in mano e un fascio di frecce sulla spalla.Tre oche selvatiche dal piumaggio bianco stavano bagnandosinel fiume. Il contadino tende l'arco, la freccia parte:un'oca selvatica cade, poi una seconda, poi una terza. Ilcontadino va a raccoglierle, le appende per il collo alla suacintura di pelle di capra e si dirige verso il palazzo dove sitrova il re. Malgrado il cattivo aspetto del villano, e la suaaria rozza e selvatica, Artù, il quale parlava volentieri congente di tutte le condizioni, lo chiamò e gli disse:"Villano, vuoi tu vendermi uno di questi uccelli?""Sono ben contento, signore.""A quanto li vendi?"Il contadino non apri bocca."Ti domando quanto ne vuoi.""Quanto ne voglio" ripeté l'altro borbottando. "Io nonfaccio nessun prezzo. Non stimo un re che ama il suo denaro.Maledetto sia il re rigattiere che non ha il coraggio di faredi un pover'uomo un uomo ricco, quando potrebbe farlo facilmente.Ve le regalo, le mie oche, per quanto pezzente iosia. Ma questo, sappiatelo bene, non vi fa onore, a voi cheavete un così grande tesoro nascosto."

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"Chi ti ha detto una cosa simile?" chiese il re."Un selvaggio come me" rispose il paesano; "un selvaggiodi nome Merlino."Ed entrando nella cucina, dove trovò Keu il siniscalco,fratello di latte del re:"Tieni," gli disse "fai spiumare questi uccelli, e che il tuopadrone li mangi con altrettanto piacere quanto ne provo ionel regalarglieli."E poiché Artù era sopraggiunto, il contadino borbottò frai denti:"E non è neanche il primo dono che gli faccio!""Che vuoi dire?" chiese il re, sorpreso.L'altro si mise a ridere:"Come! Non riconosci Merlino? Perché è Merlino stessoche ti parla, Merlino che ti ha tanto amato, Merlino che ti hatanto servito."Il re stupefatto si fece il segno della croce:"Non vi ho mai visto sotto questo aspetto!""Non devi sorprenderti, sire; Merlino ti farà vedere benaltri cambiamenti, assumerà ben altre forme, per forza d'artee di negromanzia. Se si trasforma così, è perché ci sono inquesto paese molti che vorrebbero vederlo morto."Il re Artù gli disse:"So bene che voi mi amate, o Merlino; mi avete regalatocon tanto buon cuore i vostri uccelli che li mangerò proprioper amor vostro."Merlino era venuto per premunire il re contro le frodi deisuoi baroni, che malgrado i favori ricevuti gli erano ancorarimasti ostili. E spesso si dicevano fra loro: "Tutto il male checi viene da Artù è dovuto ai consigli di Merlino. Finché Merlinosarà contro di noi, noi non potremo far nulla contro Artù.Nessuno è così grande e così saggio da potersi difenderedal mago. Pensiamo quindi alla nostra salvezza e fortifichiamoi nostri castelli."Fortificarono dunque il loro castello migliore, che era Nantesin Bretagna.

XXVII

Mentre Merlino si trovava ancora presso Artù, Léodaganre di Scozia mandò a chiedere aiuto al re e ai cavalieri dellaTavola Rotonda, che da poco erano tornati dalla loro spedizionelontana. Léodagan era aggredito dal gigante Rion, red'Islanda, di Danimarca e di Sassonia, che stava per prendered'assalto la sua capitale.Artù non si fece pregare e Merlino lo accompagnò.Il buon mago marciava alla testa dei cavalieri della TavolaRotonda, portando lui stesso il vessillo di cui aveva fattodono al re; e mentre avanzava cantava:"Se amate il vostro corpo, seguite il mio vessillo ovunquelo vediate."E i cavalieri non perdevano di vista il drago di Merlino,che quel giorno sembrava avere la coda lunga una tesa emezza, spalancava le enormi fauci e agitava con furore la linguasanguinante e lanciava lampi dagli occhi.Merlino cavalcava al galoppo, finché raggiunse una squadradi Sassoni che si stavano portando via un ricco bottino eglielo tolse. Tre re, seguiti da millecinquecento uomini, accorseroper riprenderglielo. Merlino emise un fischio acuto, esubito scoppiò un tal temporale che i nemici, accecati dallapioggia, dalla grandine e dalla polvere, presero la fuga. Sfortunatamente,mentre fuggivano presero prigioniero Léodagane lo trascinarono al cospetto del re Rion, il quale stavaseduto davanti alla sua tenda, sotto le mura della città assediata.

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Grande fu il turbamento dei cavalieri di Artù. Più grandeancora quello della figlia di Léodagan, la bella Ginevra. Dall'altodel palazzo la giovane principessa aveva visto trascinarvia suo padre prigioniero. Il gigante Rion era famoso per lesue manie non meno orgogliose che crudeli. Si era propostodi farsi un mantello foderato con le barbe dei re da lui uccisi,e vedendo venire Léodagan prigioniero si rallegrava tutto all'ideadi far progredire quell'opera a sue spese. Ma la sua gioiafu di breve durata. Merlino, indignato, vi pose termine.Affondando gli speroni nel ventre del suo cavallo gridò aisuoi: "Seguitemi! Addosso, franchi cavalieri! Siete tutti mortise uno solo vi sfugge!" Tutti lo seguirono. Il re è liberato, e riconosceil vessillo di colui a cui deve la sua salvezza.I compagni di Merlino avevano un po' rallentato la corsa."Prodi cavalieri, che fate?" E mostrava loro, sotto le muradella città assediata, i cavalieri della Tavola Rotonda, addossatiai loro cavalli morti, che combattevano a piedi, terribilicome cinghiali. E continuava a galoppare, sempre davanti atutti, oltre il fronte della battaglia, col vessillo in pugno e glisperoni affondati nei fianchi del cavallo.Galoppava a una tale velocità che il suo corsiero grondavasudore e sangue; e il suo drago vomitava verso il cielo talilingue di fuoco che se ne vedeva il chiarore a più di mezzomiglio di distanza. Quale fu la gioia dei cavalieri della TavolaRotonda quando lo videro arrivare! Che colpi menaronoinsieme! Quanti nemici caddero! E quanti corsieri fuggironocon le briglie fra le zampe! Ah, se ne parlerà a lungo! Fecerodavvero il loro dovere, i compagni!

XXVIII

Anche Artù fece il suo dovere. Un gigante, vassallo diRion, sfidava tutti i presenti. Il re bretone accetta la sfida. Invanogli anziani cercano di distoglierlo dall'impresa. Merlinolo approva e lo incoraggia. Artù attacca il gigante e con ungran rovescio di Escalibor ne fa due tronconi.Ginevra dalla sua finestra vide il colpo, lo ammirò e chiesechi lo avesse dato.Quando apprese che era lo stesso giovane cavaliere cheaveva liberato suo padre, trovò il vincitore doppiamenteammirevole e disse fra sé:"Felice e fortunata sarà la dama a cui un tal prode offriràil suo amore, e sia rampognata quella che lo respinga."Merlino da parte sua aveva osservato che Artù era benlungi dall'essere indifferente al fascino di Ginevra; e disse unaparola all'orecchio di uno dei baroni del re, il quale domandòa Léodagan perché non pensasse a maritare la figlia."Ah, vorrei ben trovarle uno sposo simile a un tale che ioconosco!" rispose il re di Scozia; "si troverebbe sposata in tregiorni, e potrebbe dire di avere l'uomo più bello e più prode.Ma quell'uomo è troppo potente per me."Merlino si mise a ridere: tuttavia, sapendo che non eraancora giunto il momento, così parlò ad Artù:"Sire, mentre noi siamo qui a perder il nostro tempo, tuocugino, re della Piccola Bretagna, è aggredito dal re delBerry, che non vuole più obbedirti; e i tuoi quattro giovaninipoti, Gauvain, Ivain, Galeriet e Galéchin, sono assediati inCamalot dai Sassoni, che fanno subire il martirio al buonpopolo del paese. Bisognerebbe avere il cuore più duro dellapietra per non piangere vedendoli massacrare le donne deicristiani, coi loro bambini in braccio; e quando capita chequella povera gente si nasconda in grotte o sotterranei, vi appiccanoil fuoco e bruciano tutti quelli che ci son dentro.Quelli che riescono a scampare fuggono con le loro greggi e i

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loro raccolti verso le grandi foreste del Northumberland. Miconviene andare subito ad aiutarli, e tu da parte tua porteraisoccorso al re della Piccola Bretagna, presso il quale poi tiraggiungerò."Il re rispose a Merlino:"In nome di Dio, dolce amico, non mi abbandonate permolto tempo."E Merlino replicò:"Io ti amo quanto e più di me stesso. Prima che qualchemale ti capiti, sarò al tuo fianco. Ti raccomando a Dio."

XXIX

La mattina del giorno dopo il giovane Gauvain, nipote diArtù, mentre coi suoi compagni stava sulle mura di Camalote guardava le fiamme rosse che si alzavano da tutti i villaggiincendiati dai pagani, diceva:"Vedete quel mandriano dai capelli bianchi che porta lasua mandria verso la città? Come piange, e come si lamenta!Che cosa mai gli sarà capitato? Avvicinati, pastore, e dicciperché ti lamenti così."Il pastore faceva il sordo, e battendo la terra con il suobastone come un forsennato, continuava a gridare. Poi cacciòdavanti a sé le bestie, come se avesse voluto fuggire versola foresta.Gauvain lo chiamò tre volte ad alta voce:"Dimmi, pastore, che cosa hai dunque?"La prima volta il vecchio non rispose nulla; la secondaesclamò:"Ah, prodi cavalieri di Bretagna, che ne è di voi? perchénon siete qui a salvare questi poveri figli?"Alla terza chiamata sollevò verso Gauvain la sua grossatesta grigia e irsuta e lo guardò con un occhio chiuso e l'altroaperto; poi fece una smorfia con la bocca e coi denti e strizzandogli occhi come chi è ferito da un raggio di sole gli rispose:"Che volete da me?""Voglio sapere perché piangi, e perché rampogni i prodicavalieri di Bretagna.""Perché non difendono bene la nostra terra e lasciano chevoi siate tutti sterminati, miei poveri figli!""Forse che tu la difenderesti meglio?""Datemi un cavallo e delle armi, e vedrete quello che sofare."Gli diedero un cavallo e delle armi: e uscirono trecentocavalieri ch'egli condusse contro i pagani.Allora lo avreste visto, ardito e potente, lanciarsi con laspada in mano: e intorno a lui lampeggiavano le armi, ondeggiavanoi vessilli, brillavano le corazze, nitrivano e correvanoi destrieri traendo scintille dai ciottoli, e tutti i cuoribalzavano al suo seguito.I pagani furono respinti: ma che ne era stato del vincitore?Si trovò solo il suo cavallo che fuggiva con la testa levatae gli arcioni tutti insanguinati."Sarà stato ucciso" disse Gauvain piangendo. "Cerchiamolo".Ma lo cercarono invano. E tornando la sera in città tuttiscoraggiati incontrarono sulla porta un giovane che tenevain mano un troncone di lancia e pareva essersi battuto daprode.E il giovane li salutò allegramente.Ma come, saggio Gauvain, tu non indovinasti chi eraquell'allegro giovanotto?

XXX

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Poco tempo dopo Merlino raccontava a Blaise, ridendodi cuore, la sua avventura di Camalot e tutte quelle che glierano capitate dopo il loro ultimo incontro.Ma dopo aver raccontato tutto divenne pensieroso e l'eremitagliene domandò la ragione."Parto" gli rispose Merlino "per la terra che più di tutte devotemere, per quanto dolce e bella sia. La lupa è là nella foresta.Ella legherà il leone selvaggio con delle catene che nonsaranno né di ferro né d'acciaio, né d'oro né d'argento, né distagno né di piombo né di legno, niente di ciò che produconola terra, l'aria e l'acqua; e lo legherà così strettamente chenon potrà più muoversi."Il santo eremita comprese bene il senso di questa profezia."Come, Merlino, la lupa sarebbe più forte del leone! Spiegamiquesto.""Non starò a dirvi tante parole, maestro Blaise: è il destino."E Merlino se ne andò in Gallia a raggiungere Artù, comegli aveva promesso; e quando Artù ebbe liberato il re dellaPiccola Bretagna e ricondotto il Berry sotto la sovranità deiBretoni si congedò da lui per otto giorni, e ritornò solo versoil suo paese, attraverso le grandi foreste dei Galli.

XXXI

Era l'inizio del mese di maggio, stagione fresca e novella;gli uccelli ricominciavano a cantare, le foglie ad aprirsi, i fioria imbalsamare l'aria col loro profumo, le dolci acque a mormorare,e ogni cosa a infiammarsi.Merlino camminava sul far del giorno, al fresco, per evitareil calore del meriggio; e poiché gli era venuta l'idea di farecome la nuova stagione, aveva preso l'aspetto e il volto diun giovane studente in vacanza.Mentre camminava così per i boschi di Brocéliande, incontròuna bella fontana. A questa fontana veniva spesso agiocare una fanciulla di meravigliosa bellezza, che viveva inun castello vicino, ai piedi di una montagna. Suo padre amavale rocce e i boschi, le fontane e i fiumi. Spesso veniva adabitare nel suo castello di Brocéliande per le belle acque e ibegli alberi della foresta, ed era così affabile che tutti quellidel paese lo amavano. La madre della fanciulla era una fatadella valle. Per desiderio di suo padre la bimba era stata do-tata, il giorno della nascita, di tre virtù mirabili: essere amatadall'uomo più saggio del mondo: far fare a quest'uomo tuttociò ch'ella desiderava, senza che lui potesse mai forzarla asoddisfare i suoi desideri; apprendere da lui tutto ciò ch'ellavolesse sapere.Aveva ricevuto dai suoi genitori il nome di Viviana, chesignifica in caldeo: "Io non farò niente.5"

XXXII

Merlino era appena arrivato alla fontana che vi giunseanche Viviana. Egli restò lungo tempo in piedi senza dir nulla,guardandola e pensando fra sé che non era tanto pazzoda innamorarsi di una ragazzina. Tuttavia, dopo che ebbepensato abbastanza a lungo, decise che non poteva andarsenesenza salutarla. E come persona ben educata, Viviana risposeal suo saluto:"Che Colui che conosce i pensieri del cuore" disse la fanciulla"vi mandi pensieri tali che voi ve ne troviate bene, eche vi dia tanta felicità e tanto onore quanto vorrei averneper me stessa."Merlino, sentendola parlare così bene, si sedette sul bordodella fontana; poi, dopo un momento di silenzio le chiese il

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suo nome."Io sono figlia" essa rispose "di un gentiluomo di questopaese; e voi, dolce amico, chi siete?""Damigella, io sono uno studente che torna dal suo maestro.""E che cosa vi ha insegnato, il vostro maestro?""Oh, tante cose, damigella.""Ma cosa dunque? che cosa sapete fare?""Io potrei costruire qui, davanti a voi, un castello e met-terci dentro tanti cavalieri che quelli che volessero assediarlonon riuscirebbero mai a prenderlo. Potrei fare anche altre cose:per esempio far scorrere un fiume là dove mai sgorgògoccia d'acqua, e anche camminarci sopra senza affondarené bagnarmi i piedi.""Certo," replicò la damigella "voi siete molto sapiente, e iodarei qualsiasi cosa per poter fare altrettanto.""Questi sono solo giochi da ragazzi" fece Merlino; "io neso altri, che possono divertire i più alti baroni e i re.""Davvero! Oh, signor studente, se non vi spiacesse vorreitanto conoscere quei giochi; vi offrirei in cambio la mia amicizia,con onore.""In fede mia, damigella, voi mi sembrate così dolce e cosìgentile che non potrei rifiutarmi di insegnarvene qualcuno,solo in cambio della vostra amicizia, senza domandarviniente di più.""E io ve la accordo", replicò Viviana.

XXXIII

Merlino si allontana di qualche passo e traccia sul suolodella brughiera un cerchio con la punta del suo bastone. Poitorna verso la damigella e siede vicino a lei sul bordo dellafontana.Non erano seduti da molto tempo quando Viviana alzagli occhi e vede uscire dalla foresta un gruppo di dame e cavalieri,damigelle e scudieri che, tenendosi per mano, avanzanocantando. Alla loro testa venivano dei suonatori diflauto, di timballo, di tamburo, di ogni sorta di strumentimusicali; e tutti si dirigevano verso il luogo dove Merlinoaveva tracciato il cerchio: e quando furono nel cerchio cominciaronoa danzare con la maggiore allegrezza del mondo.Ora, mentre danzavano, comparve nella brughiera, al marginedella foresta, un castello magnifico: e davanti a questocastello un giardino delizioso, dove gli alberi avevano tantifiori quante foglie, e tanti frutti quanti fiori, e dove spiravauna brezza dolcissima che si poteva respirare fin dalla fontana.Viviana era così sbalordita per le meraviglie che vedeva,e così occupata a osservare i danzatori, che non badò puntoalla loro canzone, il cui ritornello era:

L'amore arriva cantandoe se ne va piangendo.

Non meno meravigliati sembravano quelli del maniero infondo alla valle, quando videro il castello e il giardino comparsid'improvviso su una collina dove mai era spuntato fiore,e le belle dame e le gentili damigelle arrivate non si sapevada dove.La festa durò dal mattino fino alla sera. Quando venne ilmomento di riposare, i ballerini, accompagnando le loro ballerine,entrarono nel giardino e andarono a sedersi all'ombradegli alberi carichi di frutti e di fiori, sull'erba verde e fresca.

XXXIV

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Allora Merlino, prendendo la mano di Viviana:"Che ve ne sembra?" le chiese."Mio dolce amico, sono incantata.""Manterrete la vostra parola, è vero?""Oh, certamente" disse Viviana. "Ma voi non mi avete ancorainsegnato nulla.""Io vi insegnerò tutti quei giochi, e voi li metterete periscritto, voi che sapete scrivere così bene.""E chi vi ha detto che so scrivere?""Il mio maestro stesso: io so per opera sua tutto ciò chesi fa.""Tutto ciò che si fa! Allora voi possedete il più grande saperedi cui io abbia mai sentito parlare, e il più necessario intutti i paesi, quello che io vorrei più di qualsiasi altra cosapossedere; ma le cose che devono ancora avvenire, ne sapetenulla, voi?""Ma sì, dolce amica, una buona parte.""Grazie a Dio! E che cercate ancora? Certo potreste benfare a meno di andare a scuola, se così vi piacesse!"Mentre Merlino e Viviana così discorrevano, le dame e ledamigelle erano tornate cantando sotto il bosco e il castelloera scomparso. Il giardino invece non scomparve. Consentendoalle preghiere di Viviana, Merlino lo conservò, e lochiamarono il Giardino della Gioia.

XXXV

Scesa la sera Merlino disse a Viviana: "Io me ne vado,perché ho da fare altrove.""Come! mio dolce amico! E i giochi che dovevate insegnarmi?""Non abbiate tanta fretta, dolce dama, ve li insegneròquando sarà il momento; ma voi non mi avete ancora datoalcun pegno della vostra amicizia.""Quale pegno?" chiese Viviana. "Dite dunque, e velo darò.""Mia bella amica, giuratemi di fare ciò che mi piacerà."Viviana sapeva bene di non correre un gran rischio, graziealle virtù di cui sua madre l'aveva dotata alla nascita.Tuttavia, fece le viste di riflettere un poco."Dolce amico, io consento," disse "ma promettetemi, daparte vostra, di insegnarmi prima tutte le cose che vi domanderò.""Ve lo prometto" rispose Merlino.E Viviana in cambio gli giurò tutto ciò che voleva.Merlino stava per continuare la sua strada e lei gli domandòquando sarebbe tornato."Fra un anno, mia dolce amica: alla vigilia di San Giovannid'estate."Viviana trovò che era un tempo ben lungo: ma dovetterassegnarsi.

XXXVI

Merlino, come aveva detto a Viviana, aveva molto da farealtrove. Artù lo aspettava per sposare Ginevra.Tornando dalla Piccola Bretagna, il re l'aveva ottenutafacilmente da suo padre, e poiché Léodagan gli domandavain che giorno si sarebbero celebrate le nozze:"Il giorno che vi piacerà" aveva risposto Artù; "ma bisognache sia presente il mio migliore amico, non posso sposarmisenza colui al quale devo la mia terra e la mia corona."Il saggio Gauvain aveva approvato le parole dello zio,aggiungendo che di certo Merlino sarebbe arrivato in tempo,poiché il re lo aspettava; e per suo consiglio avevano decisodi ritardare le nozze di otto giorni.Gauvain non si era ingannato: Merlino arrivò la vigilia

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del matrimonio.Come aveva assistito San Dubriz quando si era trattatodell'elezione di Artù, così lo assisté di nuovo quando l'arcivescovobenedisse le nozze del re; ma in questa circostanza glirese un altro servigio che non si deve dimenticare.Nel momento di condurre la sposa al talamo, Ginevra,che non aveva più madre, doveva essere accompagnata alletto nuziale dalla sua vecchia governante, e tutte e due stavanotraversando un giardino che separava gli appartamentidel re da quelli di sua figlia. Tutto pareva calmo all'esterno.Non si sentiva che lo sciabordio dell'acqua contro un piccolovascello ormeggiato in fondo al giardino, dove scorreva ilfiume e il rumore del vento nel fogliame di un frutteto piantatolungo la riva.Ora, in fondo al vascello c'erano degli uomini armati;non appena Ginevra comparve, si gettarono su di lei, la afferraronoe si affrettarono a tornare con la regina verso l'imbarcazione.Ma anche il frutteto nascondeva uomini armatisotto il fogliame, e Merlino era con loro. Sapendo ciò chestava per accadere, era là in agguato, e quando i rapitoripassarono si precipitò su di loro, mise i traditori in fuga, liberòGinevra: poi andò a chiamare Artù per condurlo al lettonuziale.

XXXVII

Il giorno dopo le nozze di Artù, Merlino si trovava nell'eremitaggiodi Blaise.Quando venne a sapere ciò che il suo amico aveva fattonella foresta di Brocéliande, il buon eremita lo rampognòdolcemente:"Che il leone selvaggio si guardi dalla lupa!"E parlando senza metafora:"Ho una gran paura che la profezia si compia."Merlino rispose bruscamente:"Che si condanni la colpa quando sarà stata commessa!""Sarebbe un gran peccato che lo fosse!" disse Blaise; "e sepotessi impedirlo, ci metterei volentieri tutto il mio impegno."Merlino non rispose: ma cambiando discorso disse al suomaestro:"Non appena vi lascerò, mi recherò dai re della PiccolaBretagna e da quelli dei due regni di Cornovaglia, per invitarlitutti a riunirsi presso Artù; e da molte altre terre ne verrannoaltri, non meno prodi, per amore di Dio e della cristianità;perché sappiate che si prepara una grande battaglia, comenon se ne è vista mai nessuna, e i sei re suoi vassalli, riconciliatiinfine con Artù, si uniranno a lui per sterminare ipagani."Poscia Merlino si congedò da Blaise, che lo raccomandòcaldamente a Dio, tremando e pregando.

XXXVIII

Arrivato nella Piccola Bretagna Merlino si recò a Gad,presso il re Ban le Benoit, poi a Lamballe, presso il re Bohor,e disse loro:"Passate il mare senza alcun indugio, con tanti soldatiquanti ne potrete riunire; andate a Salisbury, dove troveretemolti cavalieri che vi accorreranno per la medesima causa, enon muovetevi di lì prima del mio ritorno."Poi, come era ormai la vigilia di San Giovanni, riprese ilsuo aspetto di studente e andò a trovar Viviana.La sua amica lo aspettava. Scorgendolo di lontano, glicorse incontro, lo prese per mano e lo condusse nel Giardino

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della Gioia, dove un delizioso pranzo era già servito sull'erba,accanto alla fontana.Se Merlino aveva trovato Viviana molto bella la primavolta che la vide, ora la trovò più bella ancora. Se fosse vissutafino alla fine del mondo, non le si sarebbero dati più diquindici anni: la sua pelle era così fresca, così bianca, così li-scia! E Merlino cominciò ad amarla di un amore così violentoche ne era quasi pazzo.Quando Viviana fu ben sicura ch'egli l'amava, lo pregò diinsegnarle i segreti che le aveva promesso. Merlino gliene insegnòtre, ossia: a far sgorgare acqua là dove mai acqua erasgorgata; a cambiare forma a suo piacere; ad addormentarechiunque volesse.Indovinando il suo pensiero riguardo a quest'ultimo punto:"Perché" egli le chiese "mi domandate questo?""Per addormentare mio padre e mia madre tutte le volteche vorrò venire a vedervi" rispose Viviana arrossendo (perchénon stava dicendo la ragione vera); "sappiate che mi ucciderebberose sospettassero che vi amo."Merlino resisté per un po' di tempo; ma un giorno ella gliparlò con una voce così dolce che egli le insegnò le tre parolemagiche con le quali si addormenta un uomo. Pur amandolosinceramente, Viviana diffidava troppo di lui; se lo avesseconosciuto meglio non avrebbe preso tante precauzioni, perchénon si legge in nessuna parte che Merlino abbia maiamato alcuno se non di un amore leale, quantunque abbiaamato perdutamente, e Viviana ne ebbe la prova.Merlino le insegnò dunque questo segreto, e molti altriancora; così volle Dio, Nostro Signore.

XXXIX

Dopo aver passato otto giorni nel Giardino della GioiaMerlino tornò da Artù per annunciargli l'arrivo a Salisburydi cinquantamila cavalieri della Piccola Bretagna e, cosa ancorpiù felice, dei sei re suoi vassalli; poi lo accompagnò alluogo dell'appuntamento.

Artù, vedendo un così vasto esercito, non sapeva comeringraziare Merlino."Mio dolce amico, io non so cosa offrirvi; ma voglioavervi sempre per governante e signore; solo grazie a voi ioavrò la mia terra franca e libera."Libera e franca fu infatti ben presto la terra del re. Il mattinodella grande battaglia che doveva liberare la cristianitàdai pagani, Merlino aveva rivelato i suoi progetti ad Artù equesti gli disse di fare tutto ciò che gli sembrasse opportuno,e che si metteva completamente nelle mani di Dio e nelle sue.Allora il buon mago andò a visitare uno dopo l'altro i sei renei loro padiglioni e li avvertì di tenersi pronti a combattereper il giorno dopo.L'indomani, allo spuntar dell'alba, montato sul suo cavallonero e reggendo il vessillo del re, Merlino avanzò al cospettodell'esercito e mostrando il nemico:"Eccoli" disse "quelli che hanno preso e devastato la nostraterra. Oggi si vedrà come sapremo farne vendetta. Oggi è ilgiorno in cui il paese di Bretagna sarà vinto o onorato. Fate,vi scongiuro, che la nostra dolce terra non perda il suo pregio,il suo onore e la sua fama per colpa di alcuno di voi!"Tutti i capi esclamarono:"Noi faremo quello che vorrete.""Lo giurate?""Lo giuriamo.""Ebbene, con questo avete giurato fedeltà al re Artù. Io ve

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lo dico: non avreste mai potuto distruggere questi paganifinché foste rimasti in discordia fra voi."Nessuno dei re contraddisse Merlino; tutti misero la loromano nella sua e questa pace fu accolta dalle acclamazioni ditutto l'esercito.Se la gioia fu grande al mattino, lo fu ancor più la sera: ipagani, travolti e respinti fino al mare dai cristiani incitatidalla voce del buon mago, perirono tutti o di acqua o dispada."Eccoti questa volta liberato per sempre dai Sassoni" disseallora Merlino al re; "tutta la cristianità se ne rallegrerà e iotornerò alle mie faccende."E imbarcatosi sulla nave che riconduceva il re dalla PiccolaBretagna nelle sue terre, la diresse durante la traversatacon la mano sulla barra del timone, attento ai venti e allestelle.

XL

Le sue faccende, com'egli diceva, consistevano ancoranell'andare a trovare Viviana. La sua amica gli fece grandifeste, perché, malgrado la sua cautela (qual è la donna chenon ne abbia almeno un po'), lo amava di amore sincero.Merlino rimase otto giorni presso di lei in piena festa, edurante questi otto giorni le raccontò la sua storia, a cominciareda quella della sua nascita, di cui la fanciulla fu non pocosorpresa.Come nel Giardino della Gioia, era gran festa nel palazzodi Artù. Poiché si avvicinava il ferragosto, il re aveva detto asuo nipote Gauvain:"Mio caro nipote, voglio tenere una corte così grande ebrillante che tutti i principi e i capi dell'Occidente vi accorranoda vicino e da lontano, e non solo i miei vassalli, ma anchegli stranieri; non solo i ricchi, ma anche i poveri popolani.Voglio offrire feste e gioie a tutti, tali che se ne parli perlungo tempo."Gauvain fece le cose con tanta magnificenza che la città diCamalot non poté bastare al gran numero di invitati e bisognòalzare delle tende sotto le mura: pranzi e tornei, quinta-ne e danze, nulla vi mancò. Non si era mai vista una festa similein Gran Bretagna.Naturalmente i giullari e i menestrelli vi accorsero in folla.Al banchetto, mentre il siniscalco messer Keu, vestito dellasua pelliccia di ermellino, serviva la prima portata alla tavoladel re, arrivò un suonatore d'arpa che attirò l'attenzione ditutti.Portava una cotta di raso e una cintura dorata ornata dipietre preziose che gettavano tanta luce da abbagliare gli occhi.I suoi capelli biondi ricadevano inanellati sulle sue spalle.Aveva in testa una corona d'oro, come un re; aveva lecalze di seta color arancio e i suoi calzari di cuoio bianco diCordova ricamato in oro erano legati sul collo del piede dafibbie d'oro. Portava al collo un'arpa d'argento cesellato, conle corde d'oro, incrostata di diamanti. Il suo viso era il piùbello che si potesse vedere e tutta la sua figura era affascinante.Sfortunatamente, pur avendo degli occhi bellissimi, eracieco. Alla sua cintura pendeva una catena; a questa catenaera attaccato un levriero più bianco della neve, che portavaun collare d'argento dorato; e questo levriero appunto loaveva condotto davanti al re.Ora il giovane cantava accompagnandosi con l'arpa unaballata bretone, con una voce così dolce che era un piacereascoltarlo. Al ritornello della sua ballata salutava il re e la reginae tutti i cavalieri della Tavola Rotonda.

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Il siniscalco restò in piedi, muto di stupore, senza stancarsimai di ammirare l'arpista bretone.

XLI

In quel momento arrivò un messaggero reale, con una letterasuggellata con dieci sigilli. La presentò al re, che la diededa leggere all'arcivescovo Dubriz. L'arcivescovo l'aperse elesse:"Il re Rion, signore e reggitore di tutta la terra d'Occidente,al re Artù:"Sappiano tutti quelli che vedranno e ascolteranno questalettera che io conduco con me nove re coronati, e i cavalieridei loro regni. Di tutti i re che ho sconfitto col mio coraggio ela punta della mia spada ho preso le barbe con la pelle: e aricordo delle mie vittorie mi sono fatto un mantello di rasoche ho foderato di barbe regali. Questo mantello è pronto eguarnito dei suoi alamari: non vi manca che la frangia. Ora,avendo sentito parlare dei prodi fatti d'arme di Artù, la cuifama corre nel mondo, ho voluto ch'egli fosse più onorato ditutti gli altri re. Lo prego quindi di mandarmi la sua barba,per farne la frangia del mio mantello. Io ve la collocherò cononore. Che egli me la mandi per mano di uno dei più valenticavalieri della Tavola Rotonda: altrimenti verrò a strapparglielaio stesso, con le mie proprie mani."Rion voleva così prendersi la rivincita dello scacco cheaveva subito attaccando Léodagan.Immaginatevi un po' l'indignazione dell'arcivescovo e legrida dei cavalieri di Artù. Stavano per mettere a morte l'insolentemessaggero quando il re, alzandosi con calma e accarezzandola sua lunga barba:"Amico mio, va' a dire al tuo padrone che può venir qui aprendere la mia barba quando vorrà."

XLII

Una volta partito il disgraziato messaggero, il giovanemenestrello cieco continuò a suonare la sua arpa e a cantare,passando da un tavolo all'altro, e i convitati non cessavanodi ascoltarlo con ammirazione, perché non erano abituati avedere un tale suonatore d'arpa. Quanto a lui, come il suolevriero lo condusse davanti al re, gli disse:"Sire, se non vi dispiace, gradirei avere la ricompensa delmio servizio.""Certamente, amico mio, è ben giusto: domanda ciò chevuoi; tranne il mio onore, il mio regno, la mia sposa e la miaspada, non ti rifiuterò nulla.""Ben lungi dal perdere il vostro onore, voi ne guadagnerete,al contrario" rispose il menestrello."Parla dunque senza timore" disse il re."Datemi, o signore, il vostro vessillo da portare alla primabattaglia."Il re sorrise:"Amico mio, questo non sarebbe un vantaggio per il mioonore né per quello del mio regno né per la gloria della miaspada. Poiché Nostro Signore Gesù Cristo ti ha privato dellavista, come farai a portare il vessillo reale che deve essere ilrifugio e la sicurezza dell'esercito?""Ah, ah!" fece l'arpista, "Dio saprà ben guidarmi. Non èforse lui la vera guida? Egli mi ha condotto in cento luoghipericolosi. Ve lo ripeto, sarebbe tutto a vostro vantaggio."I baroni si meravigliarono. Il re della Piccola Bretagnaguardò da presso il menestrello e si ricordò che all'età di cinqueanni aveva visto Merlino arrivare sotto questa forma alla

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sua corte. Disse dunque al re:"Consentite alla sua richiesta: non mi sembra uomo da respingere.""Cosa vi viene in mente!" esclamò Artù. "Dare il mio vessilloin mano a un individuo che non ci vede!"Aveva appena pronunciato queste parole che il menestrellosparì.

XLIII

Allora il re si ricordò di Merlino e rimase silenzioso, rimpiangendodi non aver consentito alla sua richiesta."In fede mia!" disse il re della Piccola Bretagna "dovevatepur riconoscerlo!""E' vero," rispose Artù "ma ciò che mi ha confuso è statodi vederlo condotto da un cane, lui che sa condurre unesercito.""Chi era dunque?" chiese Gauvain che sopraggiungeva inquel momento."Mio caro nipote," rispose Artù "era Merlino, il signore dinoi tutti.""Effettivamente" osservò il saggio Gauvain "spesso si travestecosì per rallegrarci e divertirci."Stava ancora parlando che si vide comparire nella sala unfanciullo di otto o dieci anni. Aveva la pelle livida, la testarasata, degli occhi stralunati a fior di pelle; aveva le gambenude e i piedi nudi; portava un frustino a tracolla e avevatutta l'aria di un pazzo.Si inginocchiò davanti ad Artù."Il re Rion" disse "sta arrivando: preparatevi a marciarecontro di lui. Dov'è il vostro vessillo? Datemelo da portare."La gente del palazzo si mise a ridere; ma questa volta il renon rise."Voi l'avrete, amico mio, ve l'affido di tutto cuore.""E ben farete" rispose il ragazzo. "Non sarà in cattivemani."E qui, riprendendo il suo solito aspetto, Merlino disse alre Artù che andava ad avvertire gli alleati.

XLIV

Intanto il re delle isole alla testa delle sue truppe avanzavacontro quelle di Artù.Quando i due eserciti ebbero combattuto per qualchetempo, il gigante Rion, vedendo profilarsi un gran massacroda una parte e dall'altra, afferrò una bandiera e avanzò versoil suo avversario."O re, perché tutto questo macello? Facciamo felici i nostriuomini. Ch'essi si ritirino, e combattiamo noi due."Artù accettò il duello. Che duello! Non se ne vide maiuno simile.Il combattimento che il re bretone aveva sostenuto sottogli occhi di Ginevra contro un altro gigante non era stato cheun gioco in confronto a questo. La carne dei due re si intravedevaattraverso gli squarci delle corazze d'oro; il sangueformava un lago intorno a loro; i cavalli che montavano eranotutti una piaga.Mentre riprendevano fiato, Rion parlò così:"Non ho mai trovato nessuno pari a te. E' un peccato chetu debba morire così giovane: abbi pietà di te stesso, confessache non ne puoi più. Ti concedo la vita e rinuncio a finireil mio mantello."Artù, arrossì di collera: per tutta risposta fece volare conun colpo di spada la testa del cavallo del gigante e rovesciandoil suo nemico sotto l'animale:

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"Arrenditi, o sei morto.""Preferisco morire" urlò il gigante."Vivi, per terminare il tuo mantello: tieni, ecco per finirlo."E Artù gli tagliò la barba."Sono disonorato, voglio morire.""Alzati, ti dico, finisci il tuo mantello, vivi contento ebevi."Il re delle isole non voleva vivere umiliato, e mentre il suogeneroso nemico gli tendeva la mano per rialzarlo gli menòun fendente a tradimento.Artù barcollò, poi cadde. Ma mentre cadeva, la buonaspada che gli aveva dato Merlino aveva mandato la testa delperfido gigante a baciare quella del cavallo morto.Artù, trasportato a Camalot, impiegò molto tempo a rimettersidalle sue ferite; ma infine, grazie alle cure di Merlinoe di Ginevra, tutte si richiusero.Vedendo che il re era guarito, i pagani cacciati, i grandivassalli riconciliati col loro sovrano e la pace ristabilita intutto il paese, Merlino disse ad Artù:"Ora che non hai più bisogno dei miei servigi, permettimidi lasciarti."A queste parole il re divenne triste e rispose sospirando:"Non ho forse sempre bisogno di voi? Posso fare alcunchésenza il vostro aiuto? Io vorrei avervi eternamente presso dime. Perché volete lasciarmi?"Merlino non fece conoscere le sue ragioni; si contentò dirispondere:"Quando sarà necessario, ritornerò.""E quand'è che sarà necessario?" chiese il re.Merlino rispose:"Quando il leone, figlio dell'orso e della pantera, arriveràin questo regno.6"E lasciando il re sconcertato a questa risposta enigmatica,partì.

XLV

Ma partì così bruscamente che quelli che lo videro esclamarono:"Merlino ha perduto la ragione." Partì così rapidoche né cavallo né cervo avrebbero potuto raggiungerlo. Andòdiritto alla foresta e dalla foresta al mare e attraverso ilmare a Roma; e qui si mostrò sotto la forma di un cervo, poidi un uomo selvaggio; fu preso, incatenato, trascinato davantiall'imperatore. Gli spiegò un sogno dei più interessantiper il suo onore coniugale, riacquistò la libertà, corse a Gerusalemme,dove diede a un altro principe la prova del suo poteredivinatorio; infine, spossato da questa corsa furiosa senon guarito della passione che voleva forse stordire, tornò ariposarsi nell'eremitaggio del suo maestro Blaise.Dopo esser rimasto per qualche tempo presso il buon eremitae avergli fatto il racconto dei suoi viaggi, gli disse:"Bisogna che vi lasci: voglio vedere Viviana."Invano l'eremita lo scongiurò di rinunciare: Merlino insistettenella sua decisione:"Non avrò il coraggio di abbandonarla: e tuttavia so beneche, una volta arrivato vicino a lei, non avrò più la forza ditornare da voi.""Poiché sai così bene ciò che deve accadere, non andarci.""Andrò, perché glie l'ho promesso; l'amo di un tale amoreche non mi posso dominare. D'altronde sono io, io solo che leho dato il suo potere, e glielo aumenterò ancora. Ella saprà tuttociò che io so; non potrò, non posso, non voglio difendermi."Il buon eremita, giudicandolo pazzo, si mise a piangere;lo abbracciò, e Merlino partì, piangendo anche lui di dover

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abbandonare il suo caro maestro.

XLVI

Quando Merlino tornò da Viviana, le rose canine eranoin fiore lungo il margine della foresta, come nel giorno in cuiaveva visto la sua amica per la prima volta. E come allora,egli aveva assunto l'aspetto sveglio, i capelli biondi inanellati,la cotta e il cappuccio da studente.Viviana lo trovò così attraente che gli manifestò ancorapiù amore delle altre volte. Tuttavia era triste all'idea di vederloripartire e cercava il modo di trattenerlo presso di sé,così giovane e bello, per sempre; ma invano immaginò ventiespedienti e invano li mise in opera. Merlino solo avrebbepotuto venirle in aiuto. Vedendo ciò, si mise a fargli delle carezzecome non gliene aveva mai fatte."Mio dolce amico, c'è ancora una cosa che non so e vorreitanto imparare: vi prego di insegnarmela."Merlino, benché indovinasse il suo pensiero, tuttavia ledomandò di che cosa si trattasse."Mio dolce amico, vorrei sapere come imprigionare qualcunosenza pietre, senza legno e senza ferro, e solo per incantamento."Merlino crollò il capo e sospirò."Perché sospirate?" chiese lei."Mia dolce dama, vedo bene quel che voi pensate e chevolete trattenermi, ma mi sento così debole che, per amoreo per forza, bisognerà che vi conceda ciò che mi chiedete."Viviana gli saltò al collo con una gioia infantile."Mio dolce amico, non è forse giusto che voi siate mio,poiché io sono vostra? Non ho forse lasciato mio padre emia madre per voi? Tutti i miei desideri, tutti i miei pensierinon sono per voi? Senza di voi, posso mai avere gioia o felicità?In voi sta tutta la mia speranza, non aspetto altro benese non da voi. E poiché io vi amo e voi mi amate, ho ben dirittoche esaudiate i miei desideri, come voi avete diritto cheio esaudisca i vostri."Merlino rispose:"Sì, li esaudirò di tutto cuore, mia dolce amica; è giusto:domandatemi ciò che volete.""Io voglio" rispose Viviana "che questo Giardino delleGioie non sia mai distrutto, che noi due ci viviamo sempreinsieme, senza invecchiare, senza lasciarci mai, senza maicessare di amarci e di essere felici.""Farò ciò che desiderate" rispose Merlino."Non fatelo voi stesso, dolce amico: dite a me come farlo."Merlino le insegnò dunque come doveva fare e Vivianane fu così felice che raddoppiò le sue tenerezze.Ora, un giorno che passeggiavano soli soli, tenendosi permano, sotto le foglie novelle a Brocéliande trovarono ungrande cespuglio di biancospino carico di fiori. Si sedetteroalla sua ombra, nell'erba verde, e Merlino poggiò la testa sulleginocchia di Viviana.Passando e ripassando con amore le dita nei capelli biondidel mago, Viviana finì per addormentarlo. Quando si accorseche dormiva, si alzò e passò nove volte la sua sciarpaintorno al cespuglio di biancospino fiorito, facendo nove incantamentiche Merlino le aveva insegnato. Poi tornò a sedersiaccanto a lui e rimise la testa del mago sulle sue ginocchia,pensando che quanto aveva fatto era soltanto un giocoe che non vi era nulla di serio in quegli incantamenti.Ma quando Merlino aprì gli occhi e si guardò intorno, laforesta, il giardino, il biancospino, tutto era scomparso edegli si trovava in un castello incantato, sdraiato su un letto difiori, prigioniero dell'amore di Viviana.

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"Ah, Viviana!" esclamò "penserei che hai voluto ingannarmi,se mai mi lasciassi!""Mio dolce amico," rispose Viviana al suo caro prigionierovolontario "potresti mai pensarlo? E io, potrei mai lasciarti?"E mantenne la parola.

NOTE

I BRETONI, UN POPOLO DI POETI

1 Ringrazio qui sentitamente M. Hennequin della sua cortese comunicazione.2 Prefazione alla Légende de la mort di ANATOLE LE BRAZ, Alpina, Parigi,1958.3 Citata da MAURICE LE SCOUËZEC, Voyage autor du monde (inedito).4 La Vie quotidienne des paysans en Bretagne au XIXe siècle, Hachette, Parigi,1966.5 PAOL OUÉINNEC, Le Poème du pays qui a faim, Traces, Le Pallet, 1967.

LA DONNA CHE PASSÒ LA NOTTE IN UN OSSARIO

1 Si usano chiamare "grandi giornate" (devez braz) talune solennità agricole,in occasione di qualche lavoro importante per il quale non bastano né ilpersonale né l'equipaggiamento ordinario della fattoria. Si convocano i vicinie gli amici coi loro attrezzi. Si tratta in particolare dei carri per iltrasporto di sabbia e di alghe. (N.d.A.)2 L'Ankou di Ploumilliau, chiamato anche Petit-Yves di Ploumilliau (ErvoanicPlouillo), è una statuetta di legno policTomo che rappresenta il messaggerodella morte in forma di cadavere scorticato. E' una delle più celebrirappresentazioni dell'Ankou. (N.d.A.)

LE LAVANDAIE DELLA NOTTE

1 Kannérez-noz. La credenza nelle lavandaie-fantasma è diffusa in tutta laBretagna, ma soprattutto nel Léon. Il discrevellerr che ci ha raccontato questaleggenda aveva, come Sancio Panza, la mania dei proverbi: noi abbiamo con-servato quelli che ci siamo ricordati e che non richiedevano spiegazioni troppolunghe per essere compresi. (N.d.A.)2 Miz-du (mese nero) è il nome bretone del mese di novembre: talvolta vienechiamato du, per abbreviazione. (N.d.A.)3 Nome dato alla festività di Ognissanti, che viene chiamata anche goël anollsent. (N.d.A.)4 An oël du (angelo nero) o an oël kornek (angelo cornuto): nomi grotteschidel diavolo. (N.d.A.)5 Il proverbio bretone è più espressivo:Map e tad eo KadyouNemed e vamm a lavaré gaou. (N.d.A.)ossia:Di suo padre Kadiou è figlioa meno che sua madre non abbia mentito.6 Gardinn, ossia i gredins (canaglie): è il nome familiare dato nel Leonese aimercanti della Normandia che vengono nel Léon a comprare cavalli. (N.d.A.)7 Avel fal (mala aria) è il nome dato dai Bretoni a qualsiasi morbo maligno.(N.d.A.)8 Il proverbio bretone è meglio formulato:Pa ne meus muy dimé unanE man va lod e peb unan.N (N.d.A.)9 Il proverbio bretone è un distico:Ober strakgla e scourgezikNa distum quet kesek sponntik. (N.d.A.)10 E' l'aria di una canzone molto conosciuta:Koantik ro marionnikKoantik a delikadd,

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Ru evel eur rosennikA glaz e daou lagadd. (N.d.A.)11 Karr-meulon: in Bretagna lo si distingue dalla carretta ferrata, karr-houamet. (N.d.A.)12 L'Ankou, testualmente "l'angoscia": questo nome indica solitamente ilfantasma della morte.13 Scherzo di parole sul pallore dello spettro della morte: gwen significa"bianco".14 Il proverbio è molto conosciuto:Laër evel ul Leonardd,Traytour evel un Treywergadd,Sod evel ur Gwennedadd,Brusk evel ur Kernevadd.ossia:Ladro come un leonese,traditore come un trégorrois, [abitante di Tregor]sciocco come un vannetais, [abitante di Vannes]brutale come un cornovese [abitante della Cornovaglia]. (N.d.A.)15 Douéz significa, in bretone, fossato di città fortificata; ma poiché questifossati una volta erano pieni d'acqua e servivano alle lavandaie, a poco a pocola gente incominciò a chiamare douéz i lavatoi; anzi, nel Léon questo termine èpersino passato dal bretone al francese corrente. Si è solo aggiunto un errorelessicale, facendo diventare douéz maschile. (N.d.A.)16 Abbiamo cambiato poche cose al testo bretone:Quen na zui kristen salverRede goëlc'hi hou liçerDidan an earc'h ag an aër.ossia:Finché non arrivi un cristiano salvatoredobbiamo lavare il nostro sudariosotto la neve e il vento. (N.d.A.)17 Le donne bretoni portano le brocche di latte sulla testa, e per evitare discuotere troppo il liquido vi immergono di solito dei rametti di rovo o diagrifoglio. (N.d.A.)

KATEL GOLLET

1 La Roche-Morice, o Morvan, vicino a Landerneau. (N.d.A.)

L'ANIMA VISTA SOTTO LA FORMA DI UN SORCIO BIANCO

1 I galli bianchi e i galli grigi, mi dice la mia narratrice, passano pervolatili sventati e senza giudizio. Non sanno distinguere quando spuntaveramente il giorno e cantano a sproposito. Così non si deve fidarsi del lorocanto. (N.d.A.)2 Il signore del Quinquiz, di cui si parla in questa leggenda, era a quantopare uno di quei gentiluomini-contadini, una volta assai numerosi nella BassaBretagna, che si recavano sui campi con la spada al fianco e la sospendevano aqualche tronco di quercia per prendere in mano il manico dell'aratro. Fra essive n'erano anche alcuni che non disdegnavano di disputare ai semplici contadini,nei marradek, la palma dell'aratura. (N.d.A.)3 Fossati ha qui il senso di scarpate (foz). (N.d.A.)

LA MORTE INVITATA A PRANZO

1 Dal piedestallo della croce eretta sulla soglia del cimitero si fanno ladomenica le comunicazioni profane che interessano i parrocchiani. (N.d.A.)2 E' uno dei nomignoli dati al maiale, che chiamano anche "il signore vestitodi seta". (N.d.A.)3 Segno di rifiuto o di malcontento.

LA VISIONE DI PIERRE LE RUN

1 E' la parte dell'alcova che forma pedana. (N.d.A.)

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IL LENZUOLO FUNEBRE DI MARIE-JEANNE

1 V. nota a p. 69.2 Nella maggior parte delle fattorie della Bretagna, dove sono ancora invigore le antiche usanze, il pane si tiene sempre sulla tavola. Lo si avvolge inun panno (ann doubier). E' appunto il panno che si spiega davanti all'ospite nelmomento in cui prende posto alla tavola comune. (N.d.A.)3 La Via Lattea. (N.d.A.)

LA MADRE CHE PIANGEVA TROPPO SUO FIGLIO

1 In Bretagna si indicano con questo vocabolo tutti gli individui ritardati, ideboli di mente inoffensivi. Per tradizione hanno diritto al rispetto. (N.d.A.)

JEAN L'OR

1 I nostri calzolai si servono di una forma di pane piatta, che tengono sulleginocchia per battere il cuoio e renderlo più morbido (N.d.A.).

LE PIETRE DI PLOUHINEC

1 In Bretagna chiamano i maiali mab-Rohan, figli di Rohan: ignoriamo l'originedi questo nome. (N.d.A.)2 La domenica di Pasqua (sul et lauré), così chiamata perché quel giorno inchiesa si distribuisce del lauro benedetto. (N.d.A.)3 Questo ritornello beffardo che i bambini ripetono agli abitanti diPonscorff-Bidré, o Bas-Ponscorff, deriva dal fatto ch'essi allevano un grannumero di capre, e la gente suppone che ne mangino in quantità.4 Il gobelinn non è altro che il lupo mannaro, in francese loup-garou, che iNormanni chiamano varou.5 Nome bretone del reattino: significa testualmente "piccolo gioioso".

LE AVVENTURE DEL PASTORE E DELLA FARFALLA

1 Lo spirito è pronto, ma la carne è debole.2 Nome dato al diavolo. (N.d.A.)

LA GROAC'H DELL'ISOLA DEL LOK

1 Groac'h o grac'h significa propriamente "vecchia"; era il titolo dato alledruidesse che avevano i loro collegi su un'isola vicina alle costedell'Armorica, e che perciò appunto era chiamata Isola di Groac'h (da cui percorruzione proviene Groais o Groix). Ma a poco a poco questo termine perdette ilprimitivo significato: invece di indicare una vecchia, fini per designare unadonna dotata di poteri sugli elementi e abitante in mezo alle onde, come ledruidesse dell'isola; in breve, una specie di fata delle acque, ma di naturamalefica, come tutte le fate bretoni. (N.d.A.)2 Questa usanza è diffusa in tutta la Cornovaglia: i bambini destinati l'unoall'altro sono posti fin dalla nascita nella stessa culla. (N.d.A.)3 Tutti sanno che colui il quale beve l'ultimo bicchiere di una bottiglia sisposerà entro l'anno: e anche il canto del cucù annuncia alle fanciulle unmatrimonio prima dell'arrivo dell'inverno. (N.d.A.)4 Ancora una volta la tradizione popolare ha qui alterato i fatti dellaleggenda.San Ké, chiamato dai bretoni Kolédok, ossia "colui che ama perdersi"nei boschi (da kollet, perduto), aveva una campanella, come tutti gli eremiti;ma il solo miracolo che la leggenda le attribuisca è quello di aver suonatoda sola per indicare il luogo dove il santo doveva stabilirsi. Tuttavia presso inostri contadini è credenza comune che questa campanella lo avvertisse anchedel bene che doveva fare, o del male che doveva evitare.Quanto a San Corentin, aveva presso il suo eremitaggio una fonte incui si trovava un pesce miracoloso: tutta la carne che il coltello del santo glitoglieva rinasceva immediatamente, in modo che il pesce restava sempre

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tutto intero.Non sappiamo da cosa sia sorta la leggenda del bastone di San Vouga.La leggffnda dice che il santo attravesò il mare su uno scoglio, ma non parladi questo bastone che nella tradizione bretone sta al posto degli stivali dellesette leghe nel racconto di Perrault. (N.d.A.)5 L'invocazione bretone è leggermente diversa da quella che diamo qui. Eccola:En han sant Vouga, baz-avalenn(E' peq quèver red eo trémenn),Bez conduer en ear, en douar,Var an dour fresq, pe dour cloixar.ossia, testualmente:In nome di San Vouga, bastone di melo(ovunque si dovrà passare)sii tu mia guida, nell'aria, sulla terra,sull'acqua fredda o sull'acqua tiepida. (N.d.A.)6 In Bretagna si crede che gli stregoni, soffiando i loro capelli in aria, glifacciano assumere la forma che vogliono. Ora, il korandon, che compare qui, èuna specie di stregone, o di genio inferiore, che appartiene a quella razza dinani chiamati korrigans, poulpiquets, komikanets ecc. (N.d.A.)7 I Bretoni chiamano i funghi "troni dei rospi". (N.d.A.)8 Con questo nome in Bretagna si indicano i maggiolini. (N.d.A.)

PERONNIK L'IDIOTA

1 Questo nome di "idiota" non deve ingannarci: l'idiota delle fiabe popolari èla personificazione della debolezza astuta che finisce per trionfare sulla forzabruta: appartiene sempre, più o meno, alla famiglia del pecoraio dell'avvocatoPatelin. Nelle tradizioni dei popoli cristiani l'idiotismo ha su per giù lostesso ruolo che aveva la bruttezza fisica nelle tradizioni dell'antichitàclassica. Presso i popoli antichi era il gobbo Esopo che compiva fattistraordinari: nel Medioevo cristiano sarà Peronnik, o qualsiasi giovanottopovero di spirito, in modo che il contrasto fra l'eroe e l'azione sia più vivo eil risultato più inatteso. (N.d.A.)2 Badezet gad eol gad: è un'espressione tradizionale in Bretagna, quando sivuol parlare di una mente debole. (N.d.A.)3 Nei paesi della costa per togliere le incrostazioni bruciacchiate cherestano sulle pareti dei paioli si servono di una conchiglia di datteri di mare;nell'interno adoperano allo stesso scopo una pietra tagliente, per lo più unapietra focaia. (N.d.A.)4 lann ar lue, imbecille. (N.d.A.)5 In Bretagna il latte di vacca nera è considerato il più sano e il piùdelicato (N.d.A.)6 Mislilhon: fatto con miscela di segale e di frumento. (N.d.A.)7 Aman fresk-beo. (N.d.A.)8 I Bretoni attribuiscono al burro della Settimana Bianca e delle Rogazioniuna delicatezza particolare e persino delle proprietà medicinali, grazieall'eccellenza delle erbe dei pascoli a quell'epoca. (N.d.A.)9 Hebel dishual, digabest,Deuit buan, me a so prest. (N.d.A.)10 E' un proverbio bretone:Gad colo hac amserE veura ar mesper. (N.d. A.)11 I Bretoni credono all'esistenza di un diavolo particolare che fa dormire inchiesa, e che chiamano ar c'houskezik, da kouska, dormire. (N.d.A.)12 Koanta pabaour, appellativo beffardo, comune presso i Bretoni. (N.d.A.)13 Espressione proverbiale, per dire che non si ha tempo da perdere. (N.d.A.)

IL MAGO mERLINO

1 Questo personaggio non è altri che Saint Loup, vescovo di Troyes, l'apostolodei Bretoni del V secolo, il cui nome latino, Lupus, viene tradotto conBlaidd (che si pronuncia Blaiz) nella leggenda gallese (Myvyrian, t.II, p. 249)e si scrive Bleiz in dialetto armoricano. (N.d.A.)2 Come critico, sento il dovere di rispettare le opinioni del romanziere,

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nell'etnografia e nella geografia come in tutto il resto. (N.d.A.)3 Cfr. LA FONTAINE, La rana e il topo, libro IV, favola IX. (N.d.A.)4 Naturalmente il termine non è ebraico, è di origine celtica, ma ha realmenteil senso che gli attribuisce il romanziere. (N.d.A.).5 Viviana non è che un'alterazione del nome celtico Chwiblian o Vivlian edè giustamente tradotto con "ninfa" nei dizionari gallesi. Il romanziere loapplica a quella che Merlino fin qui ha chiamato sua sorella, la sua Gwendydd ola sua Ganiéda. (N.d.A.)6 Infatti vedremo ricomparire Merlino, col suo libro di profezie in mano,sotto il regno del Leone, ossia di Enrico I, per aiutare i sudditi oppressi diArtiù. (N.d.A.)

FONTI DELLE FIABE

COMTE D'AMÉZUIL, Légendes bretonnes, Souvenirs du Morbihan, E.Dentu Ed., 1862 (Le avventure del pastore e della farfalla)P. BÉZIER, Inventaire des monuments mégalithiques du départementd'Ille-et-Vilaine, in "Societé archéologique d'Ille et Vilaine", Rennes 1883 (Laleggenda della rocca delle Fate)E. Du LAURENS DE LA BARRE, Fantômes bretons, C. DiDet, 1879 (KatelGollet)HERSART DE LA VILLEMARQUÉ, Myrdhinn ou l'enchanteur Merlin, 1862 (IlMago Merlino)ANATOLE LE BRAZ, La Légende de la Mort en basse Bretagne, © EditionsChampion, 1823 (La donna che passò la notte in un ossario, La storia diMarie-Job Kerguénou, L'anima vista sotto la forma di un sorcio bianco, LaMorte invitata a pranzo, La visione di Pierre Le Rûn, Il lenzuolo funebre diMarie-Jeanne, La madre che piangeva troppo suo figlio, Jean l'Or)ZACHALRE LE ROUZIE, Carnac, légendes, coutumes et contes du pays,1912 (Carnac, il campo delle "pietre piantate")PAUL SÉBILLOT, Contes populaires de la basse Brétagne, Charpentier,1880 (Il corpo senz'anima, Le donne e il diavolo, La damigella in bianco, Ilcastello di cristallo, I quattro figli del mugnaio, La fanciulla dalle manitagliate, La morte del topo)EMILE SOUVESTRE, Le Foyer breton, W. Coquebert Ed., 1845 (Le lavandaiedella notte, Le pietre di Plouhinec, La Groac'h dell'isola del Lok, Peronnikl'idiota)