LUNGO LA STRADA DEI RICORDI
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RENATO ALTERIO
NAVELLORUMNAVELLORUM
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LUNGO LA STRADA DEI RICORDI
LA STORIA DI FAUSTO
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LUNGO LA STRADA DEI RICORDI
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Il nonno ai suoi nipotini Valerio e Chiara
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Ora che il giornoscivola via verso seravorrei tanto raccontarmi,ma non capisco perché.Forse ho solo bisognodi fare qualcosa peresorcizzare la noia.
RICORDI DI UNA VITA DIFFICILERICORDI DI UNA VITA DIFFICILE
Ora che sono in procinto di tuffarmi nell’archivio dei ricordi per
rivangare il passato mi assale il timore che rievocando i ricordi
remoti mi ritorni in mente anche l’angoscia e la sofferenza che li
ha a suo tempo accompagnati e mi dispiacerebbe se io dovessi
soffrire di nuovo le sofferenze di allora.. Per tanti anni la mia
non è stata un vita normale perché per buona parte, ai tempi
della mia fanciullezza e della mia gioventù è stata accompagnata
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da frustrazioni e dolori. Temo perciò che rievocare certi ricordi
farà certamente riaffiorare nella mia mente la tristezza per le
umiliazioni subite. E pur tuttavia, se voglio riesumarli qualche
rischio lo devo pur correre, perciò mi faccio coraggio e vado
avanti comunque. Inoltre fra il racconto di un episodio e quello
successivo è nelle mie intenzioni discettare anche sul mio modo
di pensare e sul mio modo di essere che certamente è
conseguenza delle mie particolari esperienze del passato.
Semmai, il timore più grande che ho è quello della inutilità del
mio ricordare se nessuno leggerà.quello che avrò scritto al di
fuori dei miei nipotini se loro avranno la pazienza di farlo. Però,
se nessun editore vorrà pubblicare queste mie esperienze allora,
chi mai potrà leggere il racconto delle esperienze di una vita
vissuta nella penombra? Rimane però indiscutibile il fatto che
ho voglia di raccontarmi comunque vadano le cose. Mi piacerà
anche di illustrare come era un piccolo mondo contadino
all’inizio del secolo ventesimo. Inoltre farò particolare
riferimento a quegli accadimenti di guerra avvenuti nel mio
piccolo borgo natio intorno agli anni quaranta. Mi rendo conto
che, in fondo, si tratta solo di vicende locali che, seppur fuori dal
comune, si svolsero a Navelli paese d’Abruzzo arrampicato sul
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fronte di una collina da dove fa da belvedere alla pianura di
fronte. Se farò la cronaca di vicende che risalgono a quando
avevo intorno ai dodici anni è perché mi sono rimaste
particolarmente impresse nella mente ed anche perché si tratta
pur sempre di vicende che forse nessuno racconterà mai. Se non
lo farò io forse scompariranno per sempre nel mondo dell’oblio.
Prima però è utile che io descriva nei dettagli la struttura e la
natura di allora del mio paese. Poiché era un paese contadino era
anche quasi del tutto autarchico ossia autosufficiente in quanto
consumava solo quello che produceva ed era del tutto uguale a
quei tanti paesi abruzzesi che i viaggiatori ammiravano da
lontano con una certa curiosità ma che, non avendo particolari
motivi per fermarvisi, tiravano dritto. Ed invece fra gli anni
1940 e 1950 a Navelli fummo testimoni e partecipi di
eccezionali e cruenti eventi di guerra. Mi si perdoni l’ardire con
il quale oserò cimentarmi con rievocazioni storiche, si tratta di
qualcosa che non solo non ho mai fatto prima e per di più gli
eventi stessi saranno rievocati secondo il mio punto di vita.
Tuttavia aggiungo che, se quando ero uno scolaro, erano i miei
insegnanti a costringermi a scrivere, adesso invece lo faccio in
obbedienza ad un mio inaspettato desiderio. Ciò malgrado se
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qualcuno mi chiedesse per quale altro motivo rievoco i miei
ricordi non saprei dire altro se non rispondere: Chi lo sa perché.
Ciò nonostante mi sforzerò di essere obiettivo sia quando
parlerò di me stesso ( ma che narciso rischierò di sembrare!)
che quando descriverò gli eventi dei quali sono stato testimone.
Però avverto gli improbabili occasionali lettori che è più forte di
me la incontenibile voglia di mettere sempre tutto in
discussione, per dissentire quando serve perché mi piace
ragionare con il mio cervello e non mi faccio troppo facilmente
influenzare dal pensiero comune.
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CHI SONO IO, RIFLESSIONICHI SONO IO, RIFLESSIONI
È appena incominciato l’anno 2010 ed io ho ormai una età
ragguardevole, con i miei settantanove anni che sto per
compiere mi sono avvicinato agli ottanta ed è inutile dire che mi
pesano abbastanza. Ho capito che se voglio usare la mente per
fare ancora qualcosa di buono non mi posso più concedere di
perdere tempo. Finora da pensionato ho passato il mio tempo
libero da fannullone, e sì che di tempo libero ne ho avuto tanto
ma tanto ne ho perso, l’ho passato in casa oziando sempre alla
ricerca di qualcosa di utile da fare, se nonché non ho saputo fare
altro che giocherellare con il computer curiosando su internet o
usando la mia casella di posta elettronica. Il mio problema è
sempre stato lo scetticismo ed il disincanto ma ora che sono
ormai vecchio questi miei problemi si sono aggravati..Perciò,
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annoiato ho letto con continuità e con qualche interesse solo
qualche rivista di mio gradimento ed ogni tanto anche qualche
quotidiano. Però diffido della stampa di oggi perché é in genere
al soldo del padrone e perciò falsa e bugiarda, inaffidabile.
D’altra parte anche la nostra TV di stato è lottizzata ed i vari
telegiornali raccontano solo frottole ad uso dell’ineffabile
“popolo sovrano” che ama essere preso in giro. È per questo che
spesso mi capita di dover usare il telecomando per azzittire quei
cialtroni che senza vergogna ci stordiscono con le solite bugie. È
chiaro adesso che tipo sono io? In realtà distaccato dal mondo ci
sono sempre stato tanto che non ho mai capito il mistero per cui
si nasce, si cresce, si invecchia e si muore. L’unica certezza che
ho è quella di esistere, anche se persino tutto quello che esiste è
per me solo a tempo determinato
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IL 21 GIUGNO DEL 1931IL 21 GIUGNO DEL 1931
Beh! Mi sono sfogato, mi si perdoni la debolezza.. Ed ora,
passerò finalmente al racconto della mia vita incominciando
dall’inizio, ossia dal giorno in cui sono venuto in questo nostro
misterioso e meraviglioso mondo che l’incoscienza degli uomini
rischia di guastare. Non me ne vogliate se ancora una volta:
aggiungo “chissà perché” lo faccia. E vi voglio raccontare
davvero tutto a partire dalla storia della mia nascita avvenuta nel
modo in cui mi è stata riferita. Era il giorno 21 di giugno
dell’anno 1931 e da quanto ho saputo dal racconto di mia madre
quella del 21 giugno era una bella giornata di sole a Navelli,
borgo contadino dell’Abruzzo. Al mattino di quel primo giorno
d’estate, mia madre Teodora, era al settimo mese di gravidanza
ed io mi dimenavo tranquillo nel suo pancione, perciò nulla
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lasciava presagire quello che sarebbe successo più tardi. Per
inquadrare meglio l’evento aggiungo che il borgo di Navelli era
semideserto quel giorno perché tutti i contadini, uomini e donne
erano nei campi a mietere il grano omai maturo. Ma mia madre
no, per fortuna era rimasta prudentemente a casa, infatti
successe quanto nessuno si sarebbe aspettato. La donna, verso
mezzogiorno, capì che io avevo deciso di venire al mondo quel
giorno anche se ero stato concepito solo sette mesi prima. Mi è
stato riferito che la povera donna fece solo quello che poteva
fare, si mise a urlare, facendo accorrere le poche donne del
vicinato che erano rimaste a casa. E furono quelle che si dettero
da fare, chiamarono la levatrice, come la chiamavano allora e si
misero all’opera. Malgrado l’improvvisazione però il parto andò
bene mentre i problemi veri vennero dopo. Siccome ero arrivato
totalmente inaspettato ed in quella casa contadina esisteva solo
l’essenziale, le volenterose donne presenti non riuscirono a
trovare un posto dove potermi adagiare. Non solo non c’era
nessun lettino preparato per me ma nulla era stato preparato per
accogliermi. Alla fine, mi sistemarono alla belle e meglio sul
ripiano di una macchina da cucire con la quale mia madre
confezionava gli indumenti al mio papà, una Singer per
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l’esattezza, macchina che da qualche parte nella mia vecchia
casa esiste ancora. Le civettuole e pettegole donne presenti al
parto osservarono subito che ero brutto, ed io non sono mai
riuscito a capire se sembravo così perché ero nato di sette mesi o
perché ero proprio brutto. Ma che importa, se la situazione era
quella, non mi sembra che io abbia incominciato la mia vita nel
migliore dei modi, anzi l’avevo incominciata nelle peggiori
condizioni possibili Ma pazienza, oramai esistevo e perciò
andiamo avanti. Dei miei primi anni di vita ricordo naturalmente
poco. I miei primi ricordi sono vaghi come è naturale che siano,
ricordo però confusamente un lettino di una stanza in cima alle
scale della mia vecchia abitazione. Ricordo i risvegli del mattino
quando ormai il sole era alto, ricordo il silenzio rotto solo dal
tranquillo e dolce razzolare delle galline nella strada sottostante.
Ricordo il viso di una donna bellissima. Per come li ricordo
erano risvegli meravigliosi, dolcissimi, pieni di gioia di vivere.
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MIA MADRE I MIEI NONNI E LE STREGHEMIA MADRE I MIEI NONNI E LE STREGHE
Ma mia madre era una donna onesta, determinata e coriacea, si
comportava però sempre con un pizzico di cinismo, badava
all’essenziale. Poiché credo che ne valga la pena, vi racconterò
brevemente la strana storia della sua vita. La donna aveva
certamente avuto una vita a dir poco difficile, come del resto
tutte le donne di allora, però alcuni degli episodi della sua vita
risultano fuori della norma anche per quei tempi. Ma ad onor del
vero ancora più fuori norma era mia nonna. Costei si chiamava
Anna Domenica, era molto religiosa e purtroppo nello stesso
tempo credeva anche alle streghe, che a quei tempi ce n’erano a
volontà. Quella brava donna aveva generato tanti figli, non ho
mai saputo con esattezza quanti, però mi è stato raccontato che
ogni volta che gliene nasceva uno lo lasciava nella culla solo ed
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incustodito per tutto il giorno. Il perché è presto detto. Essendo
molto povera, così come a quei tempi erano molti, lei era
costretta ad assentarsi per andare ad aiutare mio nonno nel duro
lavoro dei campi. Ma erano così poveri da ricavarne con molta
fatica, si e no, il minimo indispensabile per sopravvive. Erano
tanto poveri che non possedevano nulla al di fuori di un asinello,
di alcune galline e di un solo appezzamento di terreno che si
trovava per di più in una zona lontanissima dal paese chiamata
pian cisterna situata nei possedimenti di quel paese limitrofo al
loro che si chiama Capestrano. Quell’appezzamento si trova in
una valle in fondo ad una zona scoscesa, accessibile solo a piedi
e tutt’al più dagli asinelli. Era tutto quello che avevano, in quel
terreno avevano creato e vi coltivavano un uliveto, un vigneto ed
un po’ di grano. Per raggiungerlo però si dovevano mettere in
cammino al mattino di buon’ora, affrontando un viaggio a piedi
che durava ore e non potevano quindi portare i neonati con loro.
Era per questa ragione che erano costretti ad abbandonarli a casa
per tutto il giorno per riprenderne per così dire la cura solo alla
sera tardi quando tornavano sfiniti per il lavoro ed il lungo
viaggio. Detto questo, non è difficile capire i motivi per i quali i
loro figlioletti morirono tutti uno dopo l’altro, tranne l’ultimo
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ossia mia madre, la quale, chissà per quale miracolo, si salvò. La
cosa assurda è che i miei nonni, data la loro estrema ignoranza,
soggiogati da terrificanti superstizioni, non si sentivano
colpevoli di nulla anzi si ritenevano semplicemente vittime. Essi
erano convinti che la colpa delle loro tragedie fosse tutta da
addebitare alle streghe cattive, le quali, sempre secondo quello
che loro credevano, avevano a quei tempi la brutta abitudine di
rubare la vita ai bambini! È una storia di altri tempi e perciò ve
l’ho voluta raccontare ed io non vorrei fare ulteriori commenti,
ognuno se vuole aggiunga i suoi. Non posso però fare a meno di
constatare che quel comportamento è una chiara prova di quali
possono essere le conseguenze dell’ignoranza e delle
superstizioni insieme.
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IL MIO PAESE FRA LEGGENDA E REALTÀIL MIO PAESE FRA LEGGENDA E REALTÀ
Nel mio racconto poteva mancare la descrizione del mio paese?
Certo che no . Eccola. Il mio paese è conosciuto soprattutto
perché è uno dei pochi luoghi in Italia dove si coltiva il fiore di
croco, ossia lo zafferano, fiore bello e delicato, dalla vita
effimera ma che ha una storia ed il cui derivato è molto
apprezzato in cucina. Il borgo è di origine medioevale e si
avvolge a forma di superficie conica intorno al fronte di una
collina ad una altitudine fra i 700 e i 750 metri dal livello del
mare. È facilmente riconoscibile anche da lontano, mostra alla
sua sommità un grande maestoso palazzo simile ad un castello
medioevale che è a struttura rettangolare con tanto di cortile
interno, in tutto simile a quello di tanti altri castelli
settecenteschi. Nel bel mezzo del cortile esiste la solita cisterna
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usata nel passato per la raccolta e l’uso delle acque piovane. I
paesani chiamano questa costruzione semplicemente Il Palazzo.
La storia di questo antico paese contadino è una storia poco
certificata e perciò lascia spazio a miti, leggende e dicerie. La
prima cosa che incuriosisce è il suo stesso nome di Navelli nome
che evoca nella mente l’idea delle navi e quindi del mare. Tanto
più che nello stemma comunale del paese vi è raffigurata
proprio una barca, con l’aggiunta della scritta Navellorum, che
induce a pensare che l’origine del borgo è antica e risale forse al
tempo in cui come lingua si usava il latino. Questo riferimento
alla parola Navellorum significa forse quelli delle navi, oppure
“quelli dei navelli” ossia delle piccole barche. Questa
ovviamente è però solo una mia interpretazione cervellotica
priva di prove ma abbastanza suggestiva. Come già detto
ribadisco che non esistono prove di ipotetici navelli e null’altro
o poco si sa in proposito. Il mistero comunque rimane perché ci
sono altri indizi tutti da interpretare, è vero che in realtà
l’insediamento è situato in un altipiano la cui altitudine sul
livello del mare supera i settecento metri ma è vero anche che
uno dei quartieri del borgo ancora oggi viene chiamato le
spiagge grandi ed un altro più a monte prende invece il nome di
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le spiagge piccole, perché? Mistero. Una leggenda vuole che
nella piana che si estende davanti al paese fosse esistito in tempi
remoti un lago. Quel lago sarebbe stato poi prosciugato su
iniziativa di fantomatici frati i quali pare che fecero aprire un
canale che permise il deflusso a valle delle acque regalando il
suo prezioso alveo alla coltivazione contadina. Nei tempi della
mia fanciullezza nel mio paese natale la vita dei paesani era
molto più difficile e diversa da quella attuale, il paese durante il
giorno era quasi sempre deserto perché tutti i contadini erano nei
campi dediti al duro lavoro della terra, sembrava un paese
abbandonato da tutti e vi regnava dovunque un silenzio
profondo, impressionante, specialmente in estate. Nelle stradine
razzolavano tranquille solo le galline. Le rustiche abitazioni di
allora erano tutte in pietra, con le fondamenta semplicemente
poggiate sulle rocce della collina. Non esistevano fognature, le
strade le stradine e i vicoli erano solo dei camminamenti spesso
maleodoranti, a causa dei rifiuti organici che venivano
scaraventati giù nella strada da balconi e finestre senza troppi
riguardi per i malcapitati passanti. Poiché le strade non erano
pavimentate si camminava sulla breccia o sulla terra battuta e
ogni volta che pioveva quei camminamenti diventavano piccoli
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ruscelli e pantani fangosi. L’assetto sociale degli abitanti, era
quello tipico di una comunità contadina ma, pur essendo quasi
tutti contadini, erano in pochi quelli che erano proprietari
terrieri, la maggior parte di loro coltivava la terra a mezzadria o
era costretta a coltivare quella dei padroni. Per questo i più
facevano la fame perché non rimaneva loro altra possibilità se
non quella di adattarsi a coltivare in proprio solo piccoli
appezzamenti montani, poco fertili e di disagevole accesso. Per
di più, i padroni usavano verso di loro ogni tipo di prepotenza
approfittando del fatto che senza la loro terra quei poveracci
sarebbero veramente morti di fame. La razza padrona esisteva
allora come oggi e non aveva nessun riguardo per i loro
dipendenti. I braccianti iniziavano il loro lavoro al mattino
all’alba per terminarlo alla sera dopo il calar del sole, senza
soste, sotto il controllo continuo dei loro padroni. Per rendersi
conto di come funzionavano le cose basta pensare che i
possidenti del paese, all’ora del pranzo sfamavano i loro
braccianti con zuppe di ceci rossi, di quelle che i contadini, ogni
tanto, in previsione di lavori particolarmente impegnativi,
davano in pasto anche ad asini e cavalli per far aumentarne il
loro rendimento. Ai braccianti però i ceci rossi venivano serviti
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all’interno di particolari recipienti di legno, in gergo chiamati
schifi, ricavati da tronchi d’albero e opportunamente sagomati
per la bisogna. Le posate non c’erano oppure erano quelle che i
braccianti stessi si portavano dietro. Tanta era la loro fame che
chi non era svelto ad arraffare i ceci nello schifo rischiava di
rimanere senza pasto. Questa era la situazione in paese per quel
che riguarda la vita terrena dei paesani. Tutti però nel paese
erano devoti e la cura delle anime era naturalmente compito del
clero. Il clero era rappresentato da un arciprete ed un prete suo
assistente. Gli obblighi spirituali erano rigidi e venivano
controllati puntigliosamente. Dei due, l’arciprete era zoppo ma
possedeva la terra appartenente alla diocesi, il prete semplice
invece viveva di elemosine. La parrocchia, ossia l’arciprete,
possedeva la terra ed era perciò economicamente autonoma. E
ciò malgrado l’arciprete in chiesa era sempre minaccioso verso i
fedeli, ai quali prometteva le pene dell’inferno e pretendeva
obbedienza assoluta, la faceva anche lui da padrone. La
comunità in sostanza era del tutto autarchica perché si limitava a
consumare solo ciò che produceva, però non sempre riusciva a
sopperire ai bisogni più elementari. I figli delle famiglie più
povere non portavano scarpe ai piedi e camminavano scalzi. Le
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scarpe, per quelli che le portavano, le facevano su misura i due
calzolai del paese. Erano scarpe funzionali con l’uso che se ne
dovevano fare, erano scarponi da montanari abbondantemente
provvisti di chiodi sotto e zeppe sul davanti. Ma per sbarcare il
lunario i suddetti calzolai si adattavano a fare più spesso da
ciabattini. I due fabbri del paese invece si arrangiavano
mettendo i ferri negli zoccoli di asini e cavalli. I falegnami
costruivano qualche mobile del tipo di quelli dell’arte povera, i
sarti confezionavano vestiti su misura ed un paio di muratori
facevano il loro mestiere quando capitava. Stavo per trascurare
di menzionare il mulino e l’esistenza di un mugnaio. Questo
invece ne macinava di grano! Il suo mulino serviva anche le
comunità dei paesi limitrofi. Infine, a Natale entrava in funzione
anche un frantoio per la macina delle olive. Dalla spremitura di
queste si ricavava, così come ancora oggi si ricava, un tipo di
olio veramente eccezionale per qualità. Questo frantoio era
provvisto di una grossa ruota di pietra il cui motore era un asino
bendato che la faceva girare in tondo, e la ruota girando
schiacciava le olive e le preparava ad una successiva spremitura
che avveniva in speciali torchi manovrati a mano. La nostra
comunità era quindi, come già detto, a suo modo praticamente
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autarchica, perché era provvista di tutti gli strumenti per
utilizzare in loco quasi esclusivamente tutto quello di cui aveva
bisogno. Non c’erano negozi che vendevano il pane perché il
pane veniva ammassato in ogni casa dalle massaie e portato poi
a cuocere in un forni a legna. Ma in un paese autarchico non
potevano mancare neanche i macellai fai da te che vendevano la
carne degli animali che loro stessi ammazzavano, ne esistevano
un paio, ma la carne spesso mancava perché se ne consumava
poca ed era ritenuta un lusso. Quando c’era era quasi sempre
carne di pecore vecchie o di agnelli di stagione e solo raramente
di nostri vitelli. Per completare il quadro della struttura paesana
di allora aggiungo che esistevano nel paese due o tre piccole
botteghe, per la verità di scarsa utilità collettiva, che servivano
solo per l’acquisto di particolari prodotti, spesso aperte part-
time, a discrezione del bottegaio e spesso bisognava bussare per
accedervi. Che cosa vendevano? Vendevano il sale, le sigarette
anche sfuse, le famose popolari e nazionali, ma vendevano
anche tabacco da avvolgere, tabacco da naso, sarde, stoccafissi,
caramelle ed altre piccole cose. Alla parte amministrativa
provvedeva il municipio situato in cima al paese ed era diretto
da un rappresentante dello stato italiano nella persona del
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podestà, ma in pratica era gestito dal segretario comunale con
l’aiuto di una guardia municipale il tremendo Ottavio che faceva
anche il guardiano del territorio. Le novità erano rare, ecco
perché le poche notizie di pubblico interesse venivano
comunicate al popolo paesano da un banditore che si appostava
nei punti strategici del paese, suonava la sua trombetta e, a
squarciagola, urlava ai quattro venti le notizie del giorno,
quando c’erano. Non erano grandi notizie, erano di solito del
tipo: “è arrivato alla piazza San Pelino, ossia alla piazza di sotto,
il venditore di scarpe”, oppure” è arrivato il merciaio”, oppure
rendevano note le decisioni del podestà e cosi via. Il paese era
idealmente diviso in due quartieri che i paesani chiamavano il
quarto di sopra ed il quarto di sotto intendendo per quarto il
quartiere. C’era la guerra fra i due quartieri, guai se quelli di un
quartiere si cercavano la fidanzata nell’altro quartiere, di notte
volavano le pietre. Del resto l’illuminazione notturna allora era
scarsa, molte strade erano affogate nel buio, le altre erano
illuminate da lampade di debole potenza. Alla sera non molto
dopo il calar del sole dappertutto calava il silenzio assoluto, era
come se tutto il mondo fosse sprofondato nel buio della notte. Di
giorno comunque ognuno dei due quartieri poteva rivendicare il
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possesso della sua piazza, ovviamente chiamate piazza di sopra
quella a monte e piazza di sotto quella da basso. Nel bel mezzo
di quella di sotto esiste ancora una bella fontana di quelle che
dall’alto fanno lo schizzetto con tre distinte cannelle che versano
l’acqua in una vasca, intorno alla quale facevano e fanno ancora
l’ombra una serie di grossi platani. Per il resto del paese case
stalle e pagliai coesistevano in un unico agglomerato. Nelle
stalle gli ospiti più frequenti erano gli asini, a questi a volte
tenevano loro compagnia una vacca ed un maiale, a volte un
cavallo o un mulo, a volte c’erano anche le pecore e spesso
anche le galline. All’alba la sveglia agli abitanti veniva data dal
canto dei galli. A quei tempi, nelle abitazioni l’acqua corrente
non c’era, l’acqua potabile doveva quindi essere prelevata nelle
fontane pubbliche, esistenti nel paese in numero di due o tre.
Quelle fontanelle erano corredate di vasca per l’abbeveraggio di
asini, cavalli e mucche, e di un lavatoio dove le donne andavano
a lavare la biancheria. Quando in casa serviva dell’acqua erano
quasi sempre le giovani quelle addette a questo servizio, loro
servendosi di quel recipiente caratteristico di rame che è la
conga abruzzese, rifornivano la loro casa di acqua potabile. In
estate però anche nelle fontanelle l’acqua scarseggiava a causa
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dell’esaurimento delle sorgenti e si doveva perciò razionarla nel
senso che poteva essere erogata solo per tempi brevi prestabiliti
consentendo così al serbatoio comunale di accumulare i piccoli
flussi di acqua che ancora arrivavano dall’acquedotto. Quando
poi l’acqua mancava del tutto si era costretti a servirsi di secchi
e bidoni e recarsi presso i pochi pozzi esistenti nei dintorni
malgrado che in essi l’acqua fosse poco potabile, melmosa e
torbida. La mia abitazione si trovava in Via delle Spiagge
Grandi, era disposta con le stanze, una per piano ai lati di una
scala, a pianterreno si trovava la cucina e poi, su due livelli
diversi, due piccole stanze a destra e due a sinistra della scala. In
cucina facevano bella mostra di se le “conghe” con l’acqua
potabile che erano disposte su un ripiano in muratura a ridosso
di una parete, vi si prelevava l’acqua con un grosso mestolo di
rame e non si pensava neanche a proteggerle dalla polvere
coprendole. In inverno poi, visto che il riscaldamento domestico
non esisteva, l’acqua delle “conghe” durante la notte ghiacciava
e al mattino, per poterla usare bisognava aspettare che il
ghiaccio si sciogliesse. Naturalmente i servizi igienici in casa
non erano previsti non essendoci acqua corrente e neanche le
fognature. Ci servivamo tutti delle nostre stalle. Eppure, anche
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se ciò può sembrare strano, c’è da dire che malgrado tutto non vi
era inquinamento né dell’aria e neanche del suolo così come
accade oggi quasi dappertutto. L’aria era pulita, si respirava il
profumo della campagna e, specialmente a primavera, quello dei
fiori selvatici o quello del fieno, mentre in autunno prevaleva il
profumo del mosto. Non esisteva neanche il problema dello
smaltimento dei rifiuti perché questi non c’erano, a parte quelli
di natura organica provenienti dalle stalle che comunque erano
usati per concimare i campi. La plastica allora non esisteva
ancora. Le relazioni sociali erano caratterizzate da rispetto,
cordialità ed amicizia e c’era fra i contadini grande solidarietà.
Per chiarire meglio basta ricordare che ’accesso all’interno delle
abitazioni era praticamente libero per tutti perché nessuno
pensava, almeno durante il giorno, di chiudere con la chiave la
porta di casa. Questo la dice lunga sulla natura semplice e
solidale di quella comunità contadina.Qualche furfante però
c’era anche a quei tempi.
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LA MIA FANCIULLEZZALA MIA FANCIULLEZZA
I miei ricordi di bambino risalgono a quando all’età di tre anni,
mi recavo tutti le mattine all’asilo gestito dalle suore situato
nella parte alta del mio paese.. Non mi accompagnava nessuno,
mi ci recavo da solo con il cestino in mano. Mia madre mi
faceva indossare un grembiulino bianco, mi preparava il cestino
con gli ingredienti per il pranzo e spesso ci metteva una scodella
di piselli raccolti nell’orto. Ma per me i piselli erano un
problema, non erano graditi al mio palato, ciò malgrado lei nel
cestino ce li metteva lo stesso perché diceva che io dovevo
imparare a mangiare di tutto. Ero piccolo, però avevo già capito
che con mia madre non serviva a nulla discutere. Però se lei era
testarda io lo ero ancora di più perché facevo finta di niente,
buttavo via i piselli e mangiavo solo quello che rimaneva nel
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cestino. Il problema dei piselli però durò poco perché cambiai
asilo. Da Navelli io mia madre e mio fratello ci trasferimmo
nella città dell’Aquila e lì seguitai ad andare all’asilo del posto.
Dopo l’asilo, all’età di sei anni, frequentai i primi tre anni di
scuola elementare in quella città, perché nell’ottobre di ogni
anno ci trasferivamo lì per tutta la durata dell’anno scolastico
allo scopo di permettere a mio fratello maggiore Aurelio di
proseguire gli studi nelle scuole superiori. Andavamo tutti ad
eccezione di mio padre che rimaneva al paese per occuparsi
della coltivazione dei campi. Ed ero all’Aquila all’epoca di
quelle “patriottiche” manifestazioni studentesche a favore della
seconda guerra mondiale. Ero stupefatto, in realtà non capivo
perché. Quelle gazzarre durarono per diversi giorni e poi la
guerra invocata ci fu davvero. Io e la mia famiglia però,
infischiandocene della guerra, alla fine di ogni anno scolastico
tornavamo a Navelli per restarci sino alla fine dell’estate. Queste
migrazioni in città durarono fino a quando mio fratello non finì
gli studi nel liceo, dopo di che, stipati come sardine insieme ad
altri nel taxi di Spoken, così come veniva soprannominato il
tassista, vi tornammo per sempre. Terminai la scuola elementare
a Navelli e lì conseguii la licenza elementare. Subito dopo però
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la mia vita cambiò bruscamente perché mentre prima la mattina
andavo a scuola ed ero costretto a dedicarmi al pesante e
sgradito lavoro dei campi solo nel pomeriggio dopo invece il
mio impegno divenne totale. Ricordo che finché andai a scuola
il sabato mattina l lezioni erano sospese, al loro posto c’era
l’adunata fascista nella piazza di sopra del paese. Guai a
mancare! Vestiti con l’uniforme da balilla noi ragazzi eravamo
attesi tutti in piazza, per seguire gli addestramenti alla fierezza
fascista. Dopo essere stati balilla sino all’ultimo anno delle
elementari, ci preparavano alla guerra come avanguardisti. La
divisa era diversa, più simile a quella dei militari veri, con i
pantaloni alla zuava e fasce alle gambe e si fingeva di insegnarci
l’uso delle armi facendoci giocare con un vecchio fucile. Il tutto
era accompagnato da inni fascisti che erano tutto un programma
e recitavano fra l’altro: “chi se ne frega di morir” , oppure “chi
se ne frega della brutta morte” . Ma che bel futuro
prospettavano a noi giovani! Quelli però erano i tempi del
“credere obbedire combattere” Poi, alla fine dei cori si
chiudeva allegramente tutti insieme con un saluto fascista e con
un: “eia eia alalà” e così finiva l’adunata.
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DOPO LA SCUOLA LA SCHIAVITÙDOPO LA SCUOLA LA SCHIAVITÙ
Con il conseguimento della licenza elementare finì la frequenza
della scuola, finirono le adunate fasciste ed invece si
appesantirono bruscamente e di molto i miei molteplici obblighi
lavorativi. Mio padre riteneva che dopo la suola io dovessi “full
time” dedicarmi all’agricoltura. Anche se il lavoro della terra
non mi piaceva ero costretto ad obbedire ai suoi ordini, mi
portava in campagna con se tutti i giorni e mi dava le direttive
circa il lavoro che dovevo fare, non potevo sottrarmi pena le
percosse. Le attività alle quali ero costretto erano svariate a
seconda delle esigenze del momento, dovetti fare il pastore di
pecore, lo stalliere, il bifolco, lo zappatore, il mietitore di grano,
la bestia da soma e tante altre cose senza peraltro acquisire
nessun merito.. Per di più in famiglia non riscontravo equità di
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trattamento fra me e mio fratello maggiore. I miei genitori
cinicamente usavano per noi pesi e misure diverse. Aurelio, mio
fratello maggiore, malgrado avesse dieci anni più di me, non lo
si poteva “sciupare” facendogli fare il contadino. Lui era
l’intellettuale di famiglia perciò, a lui accordavano tanti privilegi
ed a me no . Io venivo considerato ed utilizzato solo come
strumento di lavoro e bestia da soma, senza scrupoli, mi usavano
anche e soprattutto in molte attività fisicamente molto pesanti
che mio padre non si sentiva di fare e le programmava perciò
per me anche se erano fuori misura per un adolescente. Ma,
come se tutto ciò non bastasse, la cosa ancora più grave era che i
miei genitori non avevano nessun rispetto per me come persona,
mi consideravano semplicemente un automa senza anima, un
oggetto, una provvidenziale macchina da lavoro al loro servizio.
Per questo motivo furono loro che uccisero il mio “io”. Come
poteva non essere così se mi costringevano a vestire come uno
straccione in particolare con pantaloni rattoppati e logori.
Indossavo sempre un abbigliamento da lavoro e mai un
abbigliamento decente ma, loro non se ne preoccupavano
affatto, se ne infischiavano. Era mia madre che mi costringeva a
vestire in quel modo poiché era molto avara e non era disposta a
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spendere qualche lira per un vestiario più dignitoso. Io mi
vergognavo di mostrarmi agli occhi della gente in quelle
condizioni. Mi sentivo offeso nella mia dignità di ragazzo..
Questo fatto mi spinse gradualmente a nascondermi, a stare da
parte, da solo, sempre più a margine rispetto ai miei coetanei, mi
sentivo profondamente umiliato. Gli effetti di quello stato di
cose hanno pesato molto nello sviluppo della mia vita sociale
futura. Dulcis in fundo, come se tutto ciò non bastasse spesso mi
picchiavano pure e, ogni volta che ciò accadeva, io tentavo di
salvarmi correndo precipitosamente a rinchiudermi a chiave in
camera mia. Però serviva a poco perché la salvezza era solo
temporanea. Ricordo che smisero di picchiarmi solo quando
incominciai a ribellarmi ed a scaraventare piatti e bicchieri
contro i muri della cucina. Fu la vendetta della pecora.
Ovviamente, stando così le cose non avevo né la forza né i
mezzi per uscire da una simile umiliante situazione di schiavo.
Per me non c’era alternativa, privo di personalità, morto dentro,
mi comportavo come un automa ubbidendo ai loro ordini. Le
conseguenze però sono state terribili al punto che quelli di allora
sono rimasti fra i ricordi più terrificanti della mi vita.
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IL SECOLO DELL’ERA FASCISTAIL SECOLO DELL’ERA FASCISTA
Nei tempi in cui la mia vita familiare era quella appena descritta
eravamo in piena era fascista e a “vegliare” sulla sorti della
nazione c’era il Duce. Ci era stato mandato direttamente dalla
divina provvidenza con la marcia su Roma delle camicie nere
per la gloria sua per prima e poi per quella della nazione. Forte
dei suoi “sei milioni di baionette”, si era messo in mente di
conquistare il mondo intero in combutta con quel pazzo di
Hitler. Servendosi della milizia fascista soggiogò il popolo
ignorante di allora e ne divenne il padrone assoluto..
Ovviamente odiava gli inglesi che erano suoi nemici, c’era
scritto: “Dio stramaledica gli inglesi” su di un distintivo di
regime. Erano quelli i tempi in cui a scuola agli alunni si
distribuivano gratis giornalini a fumetti nei quali si derideva
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l’inglese Churcillone.. I mezzi di comunicazione di massa a quei
tempi erano quasi inesistenti, da noi esisteva solo la radio. Del
resto i nostri contadini lavoravano nei campi durante il giorno e
non avevano certamente il tempo per distrarsi, perciò venivano
informati sull’andamento della guerra alla sera, nel dopolavoro
del paese da gracchianti microfoni della radio di regime istallati
per la bisogna sui balconi del dopolavoro sovrastanti la piazza
S.Pelino. Le trasmissioni erano sempre precedute dagli squilli di
una marcia militare e proseguivano poi con roboanti proclami
accompagnati da notizie di guerra ad uso degli stolti. Notizie
alternative però non ce n’erano se si escludono quelle
“clandestine” trasmesse da radio Londra proibite dal regime e
che solo coraggiosi cospiratori potevano ascoltare di nascosto.
La guerra naturalmente andava benissimo, le perdite erano
sempre solo quelle del nemico, noi vincevamo sempre ed il
nemico invece, era sempre allo sbando e subiva perdite su
perdite sotto i colpi delle “truppe dell’Asse” I contadini del
paese però “scarpe dure ma cervello fine” non si facevano
prendere in giro e mugugnavano. Non credevano alla sempre
imminente vittoria dell’asse “Roma Berlino Tuttavia poiché
eravamo in inverno e l’inverno si sa è una cattiva stagione, i
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fascisti dicevano che tutto era rimandato alla primavera. E
perciò cantavano, cantavano: “a primavera viene il bello” e
forza con le canzonette di regime come quella il cui ritornello
suonava così: “vincere e vinceremo, in cielo in terra e in mare, è
la parola d’ordine, dura ed estrema volontà” come se bastasse
la volontà per vincere una guerra. In realtà più le cose andavano
male e più martellante si fece la campagna propagandistica per
mascherare i fallimenti. Ma oltre alla pubblicità dinamica c’era
quella murale, “Credere Obbedire Combattere”, erano le tre
parole chiave della propaganda di regime. E non parliamo
dell’onnipresente “fotocopia”del capoccione del condottiero
“Benito imperatore” con tanto di elmetto.. Questo ed altro era
costretto a sopportare l’ingenuo e maltrattato popolo italiano al
quale non veniva permessa né libertà di pensiero né tanto meno
quella di espressione. Il regime fascista non perdonava il
dissenso e per eliminarlo utilizzava gli spioni del regime che
osservavano e riferivano e le malelingue venivano punite. Tutti
li temevano. Eravamo rassegnati. A volte però le cose di questo
nostro mondo cambiano all’improvviso e così avvenne allora
quando ormai non avevamo più nessuna speranza di
cambiamento.
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LA FINE DI UNA DITTATURA
Ero a lavorare nell’aia quel giorno in cui ci arrivarono i primi
echi degli avvenimenti diffusi dai notiziari della radio del
dopolavoro, stentammo a credere alle nostre orecchie però
smettemmo di lavorare per esultare e chiedere conferma di
quanto si diceva. Fra sbalorditi ed eccitati, apprendemmo quello
che non avremmo mai osato immaginare. Era stato spodestato
addirittura il Duce e questo fatto segnava la fine dell’era
fascista. Ma chi lo avrebbe mai sperato! Per una volta tanto, noi
appartenenti al popolo contadino di allora, esultammo di cuore.
Cacciato Mussolini prese il suo posto il generale Badoglio che
ebbe l’incarico di presiedere un governo provvisorio. Ma, dopo
l’esultanza del primo momento subentrò in noi la paura perché
quello sconvolgimento della vita pubblica ebbe conseguenze
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drammatiche e determinò poi una vera e propria catastrofe
nazionale. Il fatto più sconvolgente di tutti fu la firma di un
armistizio con gli anglo americani ed il capovolgimento delle
alleanze. I tedeschi diventavano nostri nemici mentre gli anglo
americani divennero di botto i nostri alleati. Nella nuova
situazione ci si doveva sbarazzare di quell’incomodo di
Mussolini e che cose se ne fece? Fu arrestato e deportato in
fretta e furia a respirare aria fresca sul Gran Sasso d’Italia, nella
speranza di averlo così definitivamente messo da parte. Ma non
andò proprio così. I servizi segreti tedeschi vennero a sapere
dov’era stato deportato e riuscirono a riprenderselo, un po’
stralunato ma ancora vivo e vegeto.. Se lo portarono via a bordo
di un piccolo aereo. Questa fu l’inizio dell’odissea del Duce ma
il Re come si comportò il Re? E già, il Re. Perché a quei tempi
l’Italia era ancora una nazione monarchica, vi regnava Sua
Maestà Vittorio Emanuele III, chiamato dal popolo
semplicemente Pippetto a causa sia della sua bassa statura che
dell’ineffabile inconsistenza del suo essere.. Ebbene, Pippetto
Re, liberatosi del Duce, avrebbe avuto il dovere di farsi coraggio
e di prendere la situazione nelle sue mani. Ma Sua Maestà non
lo ebbe il coraggio anzi nella speranza di salvare il salvabile,
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pensò bene di tirarsi fuori dai guai squagliandosela dall’Italia
alla chetichella. Decise di attendere all’estero che maturassero i
tempi che gli consentissero di riprendere il suo ruolo di monarca
senza problemi. Perciò, quatto, quatto si fece portare nel porto di
Ortona in Abruzzo e lì si imbarcò su di una nave che lo portò in
esilio, o se preferite in vacanza, in Egitto, ospite dell’allora suo
collega Re Faruk. E così il paese Italia orfano sia del Duce che
del Re divenne simile ad un cane cieco. Purtroppo questi eventi
straordinari furono solo l’inizio delle future rovinose tempeste.
Al popolo italiano non rimase altro che annusare l’aria in attesa
di novità. Non avevamo capito ancora che era la guerra quella
che stava per dilagare all’interno di tutta la nazione.. Purtroppo,
come vedremo, quel che stava per accadere si rivelò una vera
tragedia con morti e distruzioni anche in casa nostra. Noi
abituati alla calma ed alla tranquillità di un piccolo paese
contadino di montagna, non vi eravamo preparati, perciò
disorientati e confusi fummo costretti a subire ogni sorta di
malversazione.
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L’INVASIONE TEDESCAL’INVASIONE TEDESCA
Tutto incominciò nel giorno in cui vedemmo transitare lungo la
strada provinciale che costeggia la parte bassa del nostro paese
una strana carovana di camion militari, mai visti prima dalle
nostre parti.. Non capimmo subito di che cosa si trattava però
dopo il ripetersi di quell’avvenimento finalmente scoprimmo la
che si aggiravano dalle nostre parti le truppe dell’esercito
tedesco. Questa prima scoperta però non bastò per farci capire
perché. Non capivamo per quale motivo su quei camion c’erano
i soldati tedeschi e non i nostri. La verità però non tardò ad
arrivare e si trattò di una verità amara. L’esercito italiano non
esisteva più. Che cosa era successo? I comandanti dell’esercito
italiano, dopo il capovolgimento delle alleanze, privi di direttive
chiare entrarono in uno stato confusionale e non seppero che
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pesci pigliare, perciò fecero così come aveva fatto Pippetto, si
eclissarono, consegnando di fatto l’Italia in mano ai tedeschi. A
loro volta il nostro esercito, senza comandanti, abbandonato al
suo destino, non ebbe altra scelta, che quella di sciogliersi.
Abbandonarono vettovaglie armi e munizioni e si dettero alla
fuga in un fuggi, fuggi generale e se ne tornarono nelle loro
case, disertarono in massa. Fu quella una delle più ingloriose
disfatte della recente storia del popolo italiano.. Dopo di che
accadde quello che era logico che accadesse. Evaporato
l’esercito italiano rimase padrone della piazza l’esercito tedesco.
Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che, a causa di ciò,
avremmo dovuto subire le sevizie dei soldati di Hitler. Con
tristezza e paure fummo costretti ad affrontare uno dei periodi
più incerti e pericolosi della nostra vita. L’unica speranza che ci
rimaneva era che arrivassero al più presto gli anglo-americani a
liberarci dall’occupazione tedesca. Ma le loro truppe, che erano
sbarcate in Sicilia, stavano risalendo la penisola però la loro
avanzata fu lenta e difficile e perciò non arrivavano mai. Così,
passa oggi che viene domani, perdemmo anche quella speranza.
L’avanzata alleata lungo la penisola rallentò a causa della forte
resistenza dell’esercito tedesco, che con il passare dei giorni si
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era sempre più riorganizzato, anzi alla fine, il fronte di battaglia
si stabilizzò nei pressi di Cassino. Furono i cannoni dell’armata
tedesca ad inchiodare gli alleati a Cassino per lungo tempo. E si
che lì le provarono tutte ma non riuscirono a passare. Disperati,
ebbero addirittura la bella idea, con uno lo stile di guerra
squisitamente americano che prevede la tecnica ancora oggi in
uso dal loro esercito del distruggi e terrorizza, di distruggere sia
la città di Cassino che la basilica benedettina di Montecassino.
Ma neanche questo servì a nulla perché la resistenza delle truppe
tedesche rimase sempre la stessa. Ed perciò intanto, mentre il
fronte era fermo a Cassino, a Navelli, retrovia del fronte, si
stabilirono i servizi di sussistenza tedesca occupando di fatto
tutta la parte bassa del paese utile ai loro scopi e vi istallarono
forni, cucine e quant’altro serviva per la confezione dei cibi
destinati alle truppe del fronte di Cassino. Noi abitanti del posto
diventammo loro sudditi. Alla sera avevamo l’obbligo di
rispettare il coprifuoco, di notte nessuno poteva più uscire di
casa. Ma i nostri sonni non erano tranquilli, spesso eravamo
svegliati di soprassalto dai boati delle bombe sganciate dagli
aerei inglesi in ricognizione notturna sul nostro territorio, sulla
statale 17 e sulla provinciale per Capestrano. Erano le strade
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lungo le quali transitavano, in un continuo viavai notturno i
convogli dell’esercito tedesco diretti al fronte. Ma avveniva la
stessa cosa anche di giorno, i caccia inglesi arrivavano
all’improvviso a tutte le ore, perlustravano le strade e
distruggevano quei convogli nemici che vi si avventuravano di
giorno. Di notte invece; quei candelotti luminosi che gli aerei
alleati sparavano nel cielo per illuminare il territorio sottostante
sembravano fuochi di artificio.. Di solito però il buio della notte
era profondo ed era reso omogeneo anche nei centri abitati
perché vigeva l’obbligo del coprifuoco ed era obbligatorio per
tutti il totale rispetto dell’oscuramento notturno. Per di più, noi
non potevamo immaginare che anche la struttura del territorio
intorno al nostro paese avesse per i tedeschi una valenza
strategica. Ce ne accorgemmo solo dopo che arrivarono da noi
dei reparti militari della Repubblica Italiana di Salò, i cosiddetti
“repubblichini”, agli ordini dei tedeschi. Accadeva che, siccome
le truppe tedesche combattenti, attestate sul fronte di Cassino,
promettevano di rimanerci a lungo, gli strateghi di guerra
tedeschi ritennero di avere a disposizione tutto il tempo
necessario per realizzare a scopo preventivo una linea fortificata
di difesa nel nostro territorio estesa fra la chiesetta di montagna
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di S. Eugenio ed il territorio di Civita Retenga. Naturalmente la
manovalanza necessaria per allestire quelle trincee fortificate di
montagna era affidata ai repubblichini ecco perché erano
arrivati. Erano loro che muniti delle necessarie attrezzature da
lavoro scavavano e fortificavano quelle trincee. Per nostra
fortuna quella linea di resistenza di riserva non entrò mai in
funzione perché gli eventi poi si svolsero in maniera diversa dal
previsto. Al momento però nel paese eravamo angosciati e
vivevamo con il fiato sospeso a causa della pesante atmosfera di
guerra che ci opprimeva nel timore di una futura e possibile
catastrofe che da un giorno all’altro avrebbe potuto abbattersi su
di noi. Nel frattempo per noi il pericolo maggiore era costituito
dagli aerei alleati in ricognizione che sganciavano bombe qua e
là e mitragliavano i convogli che sulle strade si muovevano di
giorno. Ci convincemmo che nulla era dato per scontato tanto
più perché, un brutto giorno, a rafforzare i nostri tormenti e le
nostre paure, fummo testimoni di una vera e cruenta battaglia fra
aerei inglesi e la contraerea tedesca. Io, che allora ero un
ragazzo di dodici anni, ricordo benissimo la paura che provai dal
momento che quella battaglia si svolse fra cielo e terra proprio al
di sopra della mia testa. Gli artiglieri della contraerea tedesca
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avevano piazzato le loro batterie mobili di contraerea leggera,
fornite di mitragliatrici a quattro canne, lungo il tratto di strada
provinciale che attraversa la parte bassa del nostro paese. Perciò,
quando arrivarono i caccia inglesi i quali non fecero fatica ad
individuarle ma quando si accinsero a mitragliarle, i tedeschi
furono più svelti di loro e colpirono in pieno il primo aereo che
picchiò su di loro. E così, l’aereo inglese, con grande angoscia
di noi paesani, precipitò sulla collina a ridosso dell’abitato e ci
rimise la vita quello sfortunato pilota che lo pilotava. Colti di
sorpresa e vista la malaparata, gli altri aerei della pattuglia
preferirono dileguarsi alla svelta. Quella fu la riprova del fatto
che ormai per noi non c’era più sicurezza e tutto poteva ancora
accadere in qualsiasi momento. Purtroppo la sussistenza tedesca,
rimase lì dov’era sino all’abbandono del fronte di Cassino da
parte delle loro truppe combattenti. Il pane che usciva da quei
forni consisteva in pagnotte scure e pesanti che a noi paesani
abituati al buon pane casereccio facevano storcere il naso.
Eravamo rassegnati, nessuno si sentiva al sicuro, nulla si poteva
fare per proteggersi dalla scelleratezza dei nostri invasori. Tanto
per citare qualche episodio che meglio ricordo mi torna in mente
la paura di quella volta quando i tedeschi requisirono le donne
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del paese. Però, per fortuna, se le portarono nei loro capanni
semplicemente per sbucciare i noccioli di mandorle che
servivano per la confezione di dolci da inviare alle truppe del
fronte in occasione del Natale. Ma era forte la paura anche al
solo pensiero di chissà che cosa sarebbe successo se il fronte di
Cassino avesse ceduto. Il fatto è che quella linea di difesa di cui
ho già scritto prevedeva trincee fortificate sui monti, con a valle
campi minati, le cui mine ivi interrate, dopo la ritirata tedesca
uccisero comunque vacche e contadini del paese. Se il fronte si
fosse spostato da noi sarebbero stati guai seri. In previsione di
questo scenario i contadini del paese cercarono di correre ai
ripari accaparrandosi l’uso di tutte le grotte nascoste sparse nel
nostro territorio per trasferirvi in caso di necessità il loro
bestiame e le vettovaglie necessarie alla sopravvivenza per un
certo periodo di tempo. Ed a questo punto ricordo una buffa
preoccupazione dei contadini i quali temevano che gli asini che
avrebbero voluto nascondere in quelle grotte avrebbero potuto
ragliare facendo scoprire ai tedeschi il luogo dove erano nascosti
ed allora addio sicurezza! Ma intanto mentre i contadini
discutevano sul modo per non far ragliare gli asini i giorni
passavano e con il passare dei giorni arrivò il Natale ed arrivo
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anche l’inverno, che manco a farlo apposta, fu un brutto inverno
con tanta neve. Quell’anno le nevicate furono particolarmente
frequenti ed abbondanti ed ostruirono di continuo le strade non
consentendo il transito ai convogli militari tedeschi. Ed allora,
questa volta fu la volta degli uomini validi, i tedeschi li
requisirono e muniti di pale e li portarono a spalare la neve sulle
strade. Il pericolo era evidente perché siccome tali operazioni
avvenivano di giorno gli inermi spalatori di neve non potevano
evitare di trovarsi costantemente esposti al tiro degli aerei alleati
che sicuramente come al solito sarebbero arrivati..Ed arrivarono
infatti e l’unico modo per tentare di ripararsi da quegli attacchi
erano quelle file di buche a forma di “L”, profonde un paio di
metri, che loro stessi scavarono sui due lati delle strade. Quando
alla sera, gli spalatori tornavano a casa raccontavano che spesso
i piloti alleati si rendevano conto della loro incolpevole
situazione di pericolo e perciò, a volte, prima di mitragliare
facevano dei passaggi a bassa quota facendo capire agli spalatori
che dovevano scappare. Ma non è tutto perché intanto, nel
nostro borgo, la soldataglia tedesca spadroneggiava, era sempre
a caccia di maiali o di galline alle quali sparava per strada
incurante di chi avrebbe potuto trovarsi lungo la traiettoria dei
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tiri dei loro fucili. Io stesso ricordo qualcosa del genere per
esperienza diretta. Comunque, dopo tanto tempo, accadde quello
che tutti aspettavamo, finalmente il fronte di Cassino franò a
causa dello sbarco degli alleati ad Anzio a nord di Cassino.
Allora i tedeschi che erano da noi non ebbero altra alternativa se
non quella di sloggiare alla svelta, se non l’avessero fatto
sarebbero stati tagliati fuori dalle vie di fuga. Quindi non ebbero
scelta e furono costretti ad una precipitosa e disordinata ritirata.
Il contingente italiano repubblichino che non serviva più, fu
quello che sparì per prima, alla chetichella, sicuramente di notte
quando c’era il coprifuoco. Lo stesso fece per lo stesso motivo
anche la sussistenza tedesca, sparì dalla sera alla mattina.
Quando al canto del gallo il paese si svegliò si accorse che i
tedeschi non c’erano più. Si può quindi facilmente immaginare
la nostra gioia che però durò poco perché a rovinarci la festa
furono gli eventi in procinto di verificarsi. Avevamo fatto i conti
senza l’oste ed infatti dovemmo far fronte ad uno dei fenomeni
più pericolosi di una guerra, la ritirata dopo una disfatta. Vi
posso assicurare, per esperienza diretta, che non c’è cosa
peggiore di quella di essere investiti dal una ritirata incontrollata
di un esercito in rotta. Purtroppo il flusso disordinato delle
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truppe di Hitler in fuga, provenienti da Cassino, durò diversi
giorni, e per diversi giorni le soldataglie tedesche in fuga
transitarono e sostarono da noi. Arrivavano sempre di notte, non
si sa con quali mezzi, e la mattina ci li ritrovavamo fra i piedi. Si
trattava sempre di una soldataglia abbandonata a se stessa, senza
responsabili del comando ed ogni gruppo si gestiva la ritirata a
modo suo. Erano soldati visibilmente stanchi, disorientati,
sporchi, abbrutiti da una lunga permanenza al fronte, abituati ad
uccidere senza pensarci due volte. Dal loro modo di comportarsi
si capiva che erano molto pericolosi e per di più senza propri
mezzi di trasporto. Avevano fretta, si fermavano da noi un solo
giorno, il tempo necessario per riposarsi e rifocillarsi con quello
che trovavano con le loro razzie e poi alla sera ripartivano con
mezzi di fortuna requisiti sul posto. Ma il particolare che,
indelebile mi è rimasto scolpito nella mente, è il ricordo di
quando, in uno di quei giorni di caos, io e mio nonno
rischiammo davvero di rimetterci la vita. Ve lo racconto. Al
mattino di quel giorno, noi due eravamo a sornione presidio
della nostra cantina, ne avevamo spalancata la porta rendendola
accessibile a tutti perché i soldati tedeschi, se trovavano delle
porte chiuse, le forzavano e facevano razzia di quello che
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trovavano. Noi, per evitare questo pericolo, decidemmo di
tenere la porta della cantina aperta perché fosse chiaro a chi
passava fuori che non c’era nulla da rubare. In realtà non era
proprio così, l’inganno c’era. Infatti la cantina aveva un vano
sotterraneo al quale si accedeva da una botola situata subito a
fianco della porta d’ingresso. Il problema era che in quel
sotterraneo tutto il vicinato aveva nascosto qualcosa da sottrarre
alle ruberie tedesche ed inoltre vi si trovavano anche delle botti
piene di buon vino. Il compito di mio nonno e mio era proprio
quello di fare in modo che i tedeschi non se ne accorgessero. Per
nascondere alla vista la botola di accesso al sotterraneo vi
avevamo sistemato sopra una catasta di legna. Al piano terra
c’era invece un vano in cui troneggiava un torchio per la
spremitura delle uve. Nello stesso piano, ma dietro al vano del
torchio, vi era un altro vano dove c’era una vasca per la
pigiatura delle uve ed un pozzetto per la raccolta del mosto. E
dov’era il trucco? Il trucco era rappresentato da una botte piena
di vino adulterato, posta da noi ad arte, nell’interno di quella
vasca, a copertura delle botti buone nascoste nel sotterraneo.
Pensavamo che se era vero che la nostra era una cantina doveva
pur avere, da qualche parte, una botte di vino. Entrò un soldato
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tedesco, vide la botte del vino adulterato, e malgrado che quel
vino facesse schifo al palato, ne tracannò non si sa quanto, poi
ubriaco fradicio sprofondò malamente nel pozzetto per la
raccolta del mosto. Ma quel pozzetto, alto un paio di metri, era
in buona parte pieno di acqua. Quell’acqua era per noi una
riserva idrica di sicurezza da usare nel caso in cui i guastatori
tedeschi, che in quei giorni erano molto attivi, avessero distrutto
anche il nostro acquedotto. Quel timore era giustificato dal fatto
che i guastatori stavano già abbattendo sistematicamente tutti i
tralicci delle linee elettriche e stavano danneggiando anche ponti
e strade ed era perciò prevedibile che avessero danneggiato
anche l’acquedotto.Vi lascio immaginare in che modo quel
soldato ubriaco e semiaffogato si mise a gridare aiuto. I suoi
commilitoni che stazionavano nella strada lo udirono e credendo
che fosse stato aggredito ci puntarono le armi contro pronti a
spararci. Fortuna volle che il soldato incidentato, onestamente,
riuscì a fugare l’equivoco dichiarando subito di essere caduto
nel pozzo da solo, senza essere stato, per così per dire, aiutato da
noi. E fu così che io e mio nonno ci salvammo la vita .
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IL NONNO SEBASTIANO IL NONNO SEBASTIANO
Mio nonno si chiamava Sebastiano ma nel paese lo chiamavano
Biano. Io gli ero molto affezionato lui era l’unico nonno che mi
era rimasto visto che i nonni paterni erano morti entrambi
quando io ero ancora troppo piccolo per ricordare di loro
qualcosa di significativo. Biano invece era un vecchietto arzillo,
dalla chioma tutta bianca, di statura medio - bassa, di sana
costituzione ed aveva una formidabile memoria. Per me lui era il
libro delle favole perché non perdeva occasione per raccontarmi
qualcosa della sua vita e delle sue conoscenze. Mi raccontava
cose che sono rimaste impresse nella mia mente come per
esempio quella di quando in gioventù, durante la stagione estiva,
partiva dal suo paese insieme ad altri contadini ed insieme
andavano a mietere il grano nei Castelli Romani. Una specie di
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transumanza umana del penultimo secolo. Dopo un lungo
cammino attraverso i monti arrivavano nei pressi Roma, in quel
di Marino, per offrirsi come mietitori di grano con la speranza di
potersene, alla fine, tornare a casa con qualche soldo per la
famiglia. Per capire quei viaggi della speranza occorre sapere
che erano pochissimi ai suoi tempi i contadini che possedevano
la terra, quasi totale appannaggio di poche famiglie benestanti.
Poiché per arrivare a Marino ci volevano più giorni di cammino
a piedi attraverso le montagne, si portavano appresso, insieme ai
loro pochi bagagli, nelle proprie bisacce la farina di mais e le
pentole che usavano per cuocere la polenta, perché solo di quella
si nutrivano durante il loro lungo viaggio Durante le soste
all’aperto accendevano il fuoco, si preparavano la polenta e poi
tutti a dormire per terra, si riposavano fino all’alba del giorno
successivo. Il viaggio pare che durasse di solito sei o sette
giorni. Finita la mietitura facevano il percorso inverso, con
qualche soldo in tasca e, sempre a piedi, tornavano al paese. Mio
nonno però era curioso e in una delle sue transumanze trovò il
modo di deviare dal solito percorso di ritorno. Lui, malgrado il
suo umile stato, era un uomo pieno di interessi e di voglia di
conoscere, e per questo non volle perdere l’opportunità di
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visitare la città di Roma ed in modo particolare la basilica di San
Pietro. In quella visita sicuramente si avvalse dell’aiuto di
qualche addetto alla basilica per ricavarne le informazioni più
interessati su parte del suo contenuto artistico perché era in
grado di raccontare a me storie e leggende relative a sculture e
pitture ivi contenute. Povero Ulisse dell’ottocento!
Evidentemente “nato non era per vivere come bruto ma per
seguir virtude e conoscenza”. Ciò malgrado la mancanza di
mezzi pecuniari lo costringeva a tornarsene in cima al paese a
casa sua dove lo aspettava la moglie.. La sua era una abitazione
da contadino il cui ingresso era adornato da un superbo
pergolato di ottima uva bianca. Era povera e spoglia la sua
abitazione, consisteva solo in una grande cucina con camino in
pietra, di quelli che al giorno d’oggi non esistono più, oltre alla
cucina c’era uno stanzino ed una camera con un letto i cui
sacconi, leggi materassi, erano ripieni con foglie secche di mais.
Oltre alla casa il mio povero nonno non possedeva altro che una
vigna ed un uliveto in quel di Capestrano, paese limitrofo a
quello di Navelli. Per chi avesse interesse a saperlo dirò che
Capestrano si chiama così perché in tempi antichi era il posto in
cui c’era un tribunale, un capestro per le esecuzioni capitali e la
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casa del boia. La sua vigna si trovava però in un posto non solo
distante dal nostro paese ma anche di accesso disagevole, si
raggiungeva solo a piedi oppure a dorso d’asino. Recarvisi
equivaleva a fare un viaggio che durava circa un’ora di asino.
Mio nonno mi ci portava spesso in quel luogo, tutti e due
andavamo in groppa al suo asinello. Per tutta la durata del
tragitto lui tirava sempre fuori alla sua memoria qualcosa da
raccontarmi. Per me i suoi racconti erano favole, erano in parte
frutto di sue conoscenze dirette, in parte leggende provenienti da
racconti orali tramandatisi di padre in figlio per intere
generazioni. Quando lui apriva il libro di storia contenuto nella
sua mente tirava fuori di tutto, come per esempio la singolare
leggenda della peste. Secondo la versione di mio nonno tale
leggenda era il racconto di quando nel paese, nei tempi passati,
c’era stata la peste, però non ricordo se sapeva dire quando.
Comunque lui mi raccontava che l’epidemia decimò quasi tutta
la comunità, e che quando finì erano rimaste vive solo
venticinque persone. Lui ricordava persino quale risultò la
distribuzione dei superstiti nei vari vicoli del paese alla fine
dell’epidemia. Ma lui non li chiamava vicoli ma rue e ruette
diceva: tanti ne rimasero nella tale rua e tanti altri nella tale
56
ruetta. L’uso di questi nomi che non sono della lingua italiana
incuriosisce però forse erano entrati nel dialetto del posto
durante la presenza in quei luoghi di un esercito di soldati di
ventura. E mio nonno raccontava anche un particolare
raccapricciante riferito sempre al periodo della peste. Pare che,
mentre quella malattia dilagava, tutti fossero terrorizzati per la
gran paura di infettarsi a contatto degli ammalati e che perciò
nessuno si premurava di rimuovere i cadaveri. Gli infettati allora
furono costretti a risolvere il problema da soli. Quando
scoprivano di essere appestati si recavano in un sotterraneo della
chiesa dove era stata scavata una fossa comune, si sedevano su
una sedia ai bordi di tale fossa e una volta spirati vi cadevano
dentro automaticamente. Questa versione dei fatti ve la offro
proprio così come mi è stata riferita però per quanto assurda
possa sembrare potrebbe essere almeno in parte vera, soprattutto
perché nei sotterranei in questione di recente è stata rinvenuta
davvero una moltitudine di scheletri mummificati che solo ora
incominciano ad essere oggetto di indagine scientifica.
Comunque vero o falso che sia quella che ho fatto è la cronaca
di quello che mi raccontava mio nonno.
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IL SOLDATO DI NAPOLEONEIL SOLDATO DI NAPOLEONE
Ma c’erano altre leggende conservate nel libro di storia di mio
nonno, quello contenuto nella sua memoria, perché raccontando
e raccontando a volte gli tornava in mente anche la storia di un
suo avo vissuto, pensate un po’, ai tempi di Napoleone e che
come soldato dell’esercito di Napoleone partecipò alla
campagna di Russia arrivando fino a Mosca.. Quel contadino di
cui non mi è dato sapere il nome, forse perché amava
l’avventura ed era stufo di fare una vita di stenti nel suo paese,
decise di emigrare e con la bisaccia piena di misere cose, lasciò
il paese e si recò a piedi a Roma. E lì come suo primo lavoro
fece la guardia notturna nella città e pare lo facesse con molto
impegno ed intelligenza. Ma non gli bastò perché un bel giorno
si arruolò nell’esercito di Napoleone Bonaparte e quando questi
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decise di invadere la Russia se lo portò con il suo esercito.
Arrivò a Mosca e partecipato ai saccheggi ma dopo accadde
qualcosa per cui, o perché disertò, oppure perché l’esercito di
Napoleone se lo perse, rimase solo. Che cosa fece da disperso in
terra straniera non si sa. Quello che invece si è saputo dopo è
che non si scoraggiò e decise temerariamente di intraprendere
una lunga marcia, di ritorno nel suo paesello d’Abruzzo
certamente a tappe successive. Intenzione pazzesca a quei tempi
per chi sicuramente non aveva mezzi adeguati per farla. A volte
però la perseveranza aiuta anche se richiede tempi lunghi. Fatto
sta che “, il soldato di Napoleone” tornò nel suo paese e
sicuramente tornò a piedi o con mezzi i fortuna magari facendo
ogni volta piccole tappe. E quello sì che fu un bel viaggio, però
di sicuro c’è solo che ricomparve inaspettatamente nel suo paese
dopo diciassette anni da quando era partito. Il suo ritorno
equivalse ad un brutto scherzo per i suoi fratelli i quali dovettero
ridistribuirsi l’eredità già acquisita quando si erano persuasi che
lui fosse morto. Questi e tanti altri, che più non ricordo, erano i
racconti di mio nonno, ed ora si capisce meglio perché io lo
ritenevo il libro delle favole.
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LA FINE DELLA RITIRATA NAZISTA LA FINE DELLA RITIRATA NAZISTA
Chiusa la parentesi relativa a mio nonno, è ora che torni a
descrivere le conseguenze delle ultime fasi della ritirata tedesca.
Furono molti i soldati tedeschi in fuga che transitarono nelle
nostre strade e che si fermarono un solo giorno nel nostro paese.
Torno a ripetere che arrivavano per gruppi e che non avevano
organizzazione né leve di comando, che ogni gruppo si gestiva
la ritirata da solo, che arrivavano di notte e nessuno sapeva con
quali mezzi fossero arrivati, la sola cosa che era chiara era che
non avevano mezzi di trasporto propri e che perciò erano
costretti a reperire e servirsi di qualsiasi mezzo mobile che
trovavano in loco purché fosse utile a trasportare le loro cose. In
sostanza per poter proseguire la fuga senza abbandonare le loro
armi avevano bisogno di qualsiasi tipo di mezzo con le ruote.
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Questo fu il motivo per cui bivaccavano da noi durante il giorno,
si rifocillavano con tutto quello che riuscivano a razziare e poi
requisivano carri agricoli, cavalli, asini, e loro padroni. Usavano
i padroni dei carri per caricare le loro cose e alla sera se li
portavano via come conducenti dei loro carri.
LA STORIA PARTIGIANA DI AURELIO E COMPAGNILA STORIA PARTIGIANA DI AURELIO E COMPAGNI
Precedendo nel tempo le soldataglie tedesche in fuga i soldati
della repubblica di Salò, erano scappati per tempo ed avevano
lasciato in un magazzino i loro normali attrezzi di lavoro. Li
trovarono lì in seguito i contadini del paese e se ne
appropriarono. Vi trovarono pale, picconi, seghe, mazze di ferro
ed altri attrezzi che erano stati usati come strumenti per lo scavo
e l’allestimento di quelle trincee scavate sulle montagne
circostanti delle quali abbiamo già detto. Anche se tutta quella
attrezzatura aveva un modesto valore ai nostri contadini
autarchici fece pur sempre comodo. Invece i repubblichini le
poche ed obsolete armi da guerra che avevano in dotazione,
qualche fucile, un po’ di munizioni ed una vecchia mitragliatrice
le sotterrarono nel cortile di una abitazione in Via del
61
Commercio numero 16 che, guarda caso, in seguito diventò la
mia nuova abitazione. Il caso volle che quelle armi diventassero
di lì a poco una fonte di molti guai per alcuni giovani del nostro
paese. Il perché è presto detto, qualcuno nel paese se ne accorse
e passò parola, alla fine la notizia si diffuse ed arrivò
all’orecchio di mio fratello, il partigiano Aurelio e dei suoi
amici, i quali sentendosi patrioti “in pectore” pensarono di
recuperarle, lucidarle, oliarle e poi utilizzarle in qualche modo.
Per fare che cosa? Per fare i partigiani no? E così si misero
all’opera. Progettarono un loro piano che prevedeva l’assalto, in
una notte buia, al primo trasporto tedesco isolato che fosse
capitato a tiro lungo la provinciale che da Capestrano porta a
Navelli. Lo progettarono l’assalto e lo fecero davvero. Ma non
ebbero successo e non potevano averlo perché a conti fatti
l’imboscata altro non fu se non una specie di arrembaggio
fallito. Nel dettaglio le cose andarono così: si appostarono a
ridosso della provinciale, non distante da Capestrano,
aspettarono sino all’arrivo del primo camion e, quando questo
arrivò a tiro, il capo partigiano Aurelio ordinò di fare fuoco! Ma
ahimè! Non ci si improvvisa guerriglieri su due piedi, quelle
armi erano obsolete e non potevano funzionare ma loro non lo
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avevano capito. La mitragliatrice infatti riuscì a sparare un solo
colpo, poi si inceppò ed allora i nostri spericolati partigiani
fuggirono a rotta di collo giù per il pendio a valle del luogo dove
si erano appostati dileguandosi nella notte. La conseguenza fu
che un presidio tedesco di stanza a Navelli si insospettì e decise
di segnalare il pericolo ai loro commilitoni in transito su quella
strada con cartelli con su scritto: “Actung Banditen”. Eppure
neanche questo bastò a scoraggiare le attività partigiane di mio
fratello Aurelio e della sua combriccola. Questa era composta da
un gruppetto di cinque o sei persone che erano solite riunirsi alla
sera a casa di Aurelio in Via delle Spiagge Grandi per ascoltare
di nascosto “Radio Londra” e progettare altre azioni. Ricordo
benissimo quel rullo di tamburo e poi: ”Qui è radio Londra,
questa è la BBC”. Il regime fascista ne aveva proibito l’ascolto e
perciò loro la ascoltavano di nascosto parlando sottovoce e
mantenendo basso il volume della radio, con prudenza insomma,
attenti a non farsi scoprire. Invogliati dagli appelli alla resistenza
che questa lanciava al nostro popolo, loro sentirono il dovere di
seguitare ad impegnarsi in ogni sorta di azione di contrasto
possibile alle attività delle truppe tedesche. Fra le altre cose
decisero di fare l’unica cosa per loro più agevole, quella di
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nascondere i prigionieri fuggiaschi che ogni tanto evadevano da
un campo di concentramento tedesco situato nei pressi della città
dell’Aquila per poi facilitarne la fuga. Per carità, questa sì che
era un’opera di solidarietà umana meritoria e condivisibile però
anche questa era rischiosa, ed infatti, anche in questa attività le
loro iniziative non andarono a buon fine. Vediamo perché. Mio
fratello ed alcuni suoi amici passavano le loro giornate
passeggiando ed oziando. Accadde che in uno di quei giorni,
mentre la loro combriccola passeggiava lungo la strada statale,
venne avvicinata da una donna che si presentò fingendo di
essere una prostituta ma che in realtà era una spia al servizio dei
tedeschi.. Non le fu difficile farsi credere dai nostri annoiati
peripatetici quando confidò loro di aver nascosto nelle vicinanze
alcuni fuggiaschi inglesi evasi da .un campo di concentramento.
Incautamente la combriccola abboccò all’amo ed accettò di
occuparsene, si disse disposta a prenderli in consegna e di
facilitarne la fuga e si dettero appuntamento al calar del sole,
cascando in pieno nella trappola. Infatti una volta calata la notte,
invece di trovare la donna con i fuggiaschi inglesi, trovarono i
servizi segreti tedeschi con le armi spianate. La spia aveva fatto
per i tedeschi un ottimo lavoro. Ma non furono arrestati solo per
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questo episodio di fallito favoreggiamento di soldati inglesi
perché in realtà i tedeschi cercavano i famosi “banditen” della
strada di Capestrano ed erano convinti di aver messo le mani
sulle persone giuste. Inutile dire che il loro destino a quel punto
sembrava segnato ma, anche questa volta, li aiutò la fortuna.
Infatti dopo tante paure ed altrettante peripezie se la cavarono.
In manette furono trasferiti prima nel carcere di Sulmona,
successivamente in quello di Teramo ed è quasi superfluo
spiegare che rischiavano la fucilazione! E fu proprio mentre
erano rinchiusi nel carcere di Teramo che li aiutò la dea fortuna
ed avvenne il miracolo, perché i tedeschi erano ormai allo
sbando, in procinto di fuggire ed avevano quindi problemi più
urgenti da risolvere per cui nella concitazione generale ne
avevano affidata la custodia a carcerieri italiani. Questi da parte
loro erano disorientati per il modo in cui si succedevano gli
eventi e perciò, dopo qualche trattativa, si fecero convincere a
chiudere un occhio ed alla fine addirittura scapparono rendendo
così possibile la loro evasione. Questa in ogni caso fu una
evasione al cardiopalma, perché furono il bersaglio del tiro dei
cecchini tedeschi che un po’ di ritardo si accorsero che stavano
evadendo. Per non essere scoperti dovettero attendere che
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arrivasse la notte sdraiati immobili in un campo di grano prima
di proseguire la fuga, ma con il buio riuscirono a proseguire e si
salvarono. Scavalcarono a piedi il massiccio del Gran Sasso e
riuscirono finalmente a tornarsene a casa quando gli ultimi
tedeschi se n’erano appena andati via.
L’AVVENTURA DI MIO PADRE SEBASTIANOL’AVVENTURA DI MIO PADRE SEBASTIANO
Ma ora, tornando di un giorno indietro nel tempo rispetto alla
fuga di mio fratello, debbo aggiungere alle peripezie di Aurelio
quelle di nostro padre Sebastiano. Fu sequestrato dai tedeschi
nell’ultimo giorno della loro ritirata insieme alla sua asina
Angelapalma. I soldati tedeschi gli requisirono il suo carro
agricolo, lo fecero caricare con le loro robe e gli ordinarono in
modo perentorio di partire con loro. E così i tedeschi,
Sebastiano, Angelapalma ed il loro carro partirono tutti insieme
nel buio della notte andando verso un destino ignoto.
Immaginatevi l’angoscia che assali me, mia madre ed i miei
nonni una volta rimasti soli. Dopo aver perso le tracce di mio
fratello stavamo perdendo anche quelle di mio padre. Ma, devo
riconoscere che per merito del suo coraggio anche questa volta
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tutto andò per il meglio. Infatti mio padre, dopo un viaggio di
una trentina di chilometri che lo aveva portato nei pressi della
città dell’Aquila, alla sera tardi, mentre i tedeschi stanchi ed
ubriachi dormivano, si fece coraggio e ne approfittò per fuggire
portando con se anche l’asina Angelapalma! Il suo viaggio di
ritorno a casa fu tortuoso e pieno di pericoli, avvenne di notte,
lontano dalle strade di transito, con la persistente paura che
l’asina si mettesse a ragliare e che fosse quindi scoperta la sua
fuga spericolata. Però, per fortuna, i tedeschi si accorsero troppo
tardi della sua fuga e non furono più in grado di rintracciarlo.
Così dopo una fuga avventurosa e dall’esito incerto attraverso
viottoli e sentieri scoscesi, alla fine mio padre e la sua docile
asina riuscirono ad arrivare in prossimità del nostro paese e poi a
ricongiungersi con la famiglia. Sopravvenne solo allora la quiete
dopo la tempesta.Gli eventi appena descritti furono infatti gli
ultimi di una lunga serie che aveva coinvolto tutti, anche mio
nonno Biano. Anche lui qualche tempo addietro aveva avuta sua
piccola avventura ma al cardiopalma, era stato protagonista di
un salvataggio, un episodio, che se fosse andato storto avrebbe
potuto costargli la vita.. Ma mio nonno era una persona mite e
con grande senso dell’umana solidarietà. Lui, rischiando molto,
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riuscì a salvare un prigioniero austriaco che era appena fuggito
dal distaccamento tedesco di stanza sotto i platani di piazza
San.Pelino. L’austriaco se l’erano portato dietro i tedeschi per
farlo lavorare al loro servizio e di certo non avevano nessun
riguardo per lui, però in un momento di distrazione dei suoi
aguzzini era fuggito. Aveva ormai gli inseguitori alle spalle
ma,.quando stava per essere raggiunto, mio nonno riuscì, appena
in tempo, a nasconderlo in mezzo al fieno del suo pagliaio.
Subito dopo arrivarono gli inseguitori e alle loro domande mio
nonno rispose di non aver visto nessuno dalle sue parti, i
tedeschi tornarono indietro e fu così che l’austriaco poté
riprendere la sua fuga e mio nonno ebbe sala la vita.
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LA FINE DELLA RITIRATA TEDESCALA FINE DELLA RITIRATA TEDESCA
Gli ultimi tedeschi a transitare nel nostro territorio furono i
soldati del genio guastatori. Costoro non li vedemmo neanche
perché si tennero alla larga dal paese però sentimmo i boati della
loro dinamite usata per abbattere i tralicci dell’alta tensione, per
distruggere ponti e ponticelli e danneggiarono la statale 17. Ma,
per fortuna, furono gli ultimi e, dopo di loro, sopravvenne una
calma surreale. Fu come la quiete subito dopo la tempesta
perché anche le galline tornarono sulle strade. Ma i guai no,
quelli per noi non erano finiti perché ci ritrovammo isolati e
senza corrente elettrica. Ci volle del tempo perché il nostro
modo di vivere tornasse normale. Senza illuminazione, le strade
di notte erano buie, e nelle case fummo costretti a riesumare
vecchi lumi e lampade ad olio messe in disuso dai nostri nonni.
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Dopo il passaggio degli ultimi guastatori tedeschi ci
aspettavamo l’arrivo immediato delle truppe alleate ed invece
queste se la presero comoda, inviarono prima in perlustrazione
un piccolo aereo che atterrò in un prato nella pianura antistante
al paese di Collepietro e fu accolto dai navellesi con grande
calore ed entusiasmo oltre che con grande curiosità perché mai
un aereo era atterrato prima nelle nostre campagne. Il suo pilota
si fermò giusto il tempo necessario per raccogliere le
informazioni di cui aveva bisogno e caricare una donna che si
diceva ammalata ma forse non lo era. Solo in seguito finalmente
arrivarono le truppe alleate di terra. La tempesta era passata, la
gioia fu tanta e da allora, anche se molto lentamente, ci fu
possibile riprendere la nostra vita normale.
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LA RIPRESA DELLA VITA NORMALELA RIPRESA DELLA VITA NORMALE
E riprese respiro anche la mia vita in famiglia, ormai occorreva
pensare di nuovo a progettare il futuro. Negli anni prima della
bufera mio padre aveva deciso che mio fratello Aurelio dovesse
proseguire gli studi post elementari nella scuola superiore, nella
città dell’Aquila e gli dette la possibilità di conseguire la
maturità nel locale liceo scientifico. Dieci anni dopo di lui
decise che toccava a me, perciò ritenne che gli stessi studi avrei
dovuto farli anch’io. È bene ricordare che in quel tempo
l’istruzione era considerata un lusso, possibile solo per chi se lo
poteva permettere. Per accedere alla scuola superiore dopo le
elementari era addirittura obbligatorio superare un “esame di
ammissione”. Allora però l’istruzione postelementare non era
obbligatoria, perciò di scuole di quel tipo ne esistevano poche e
71
perciò quell’esame era possibile sostenerlo solo nei luoghi dove
queste scuole esistevano e cioè in città. E, la città a noi più
vicina era quella dell’Aquila degli Abruzzi. Quella era allora la
città nella quale operava tutta la burocrazia provinciale ragione
per cui quando i miei compaesani dovevano risolvere i loro
problemi con l’amministrazione pubblica, essendo ignoranti e
non sapendo districarsi da soli, si rivolgevano ad una specie di
azzeccagarbugli, domiciliato in quella città, soprannominato
Settepanze. Tale soprannome era dovuto al fatto che quando
qualcuno si rivolgeva a lui per essere aiutato, era bene che
bussasse alla sua porta con i piedi, avendo le mani occupate da
prosciutti, salsicce, uova, olio, vino e quant’altro aveva a
disposizione per lui, e per di più Settepanze non si mostrava mai
sazio. Ricordo che la notte prima dell’esame di ammissione, mio
padre mi svegliò a notte fonda, attaccò l’asina al carretto ed
insieme partimmo per L’Aquila. Il viaggio durò molte ore,
l’asina camminava piano e la strada da fare era tanta, circa 35
chilometri. Io ero preoccupato, eccitato per il fatto di andare in
città ma non sapevo in quale situazione di difficoltà mi sarei
trovato. Invece, feci quell’esame e, quando dopo qualche giorno,
ci comunicarono l’esito, fui contento di apprendere che tutto era
72
andato per il meglio e che ero stato ammesso a frequentare la
scuola media. Però onestamente ho ancora il sospetto che mi
abbia, per così dire, aiutato il signor Settepanze. Tornammo a
Navelli e poiché gli eventi bellici che si susseguirono furono
quelli che ho già descritti in precedenza, addio scuola, dovetti
aspettare a lungo prima di iniziare gli studi regolari nella scuola
media dell’Aquila. Nel frattempo comunque, mio padre mi
affidò alle cure di Don Cesare, il pacifico prete del paese. Ma, a
quel tempo, per i curati di campagna, specialmente quelli di
seconda categoria come Don Cesare che aveva come superiore
un arciprete, sbarcare il lunario non era certo cosa facile, ragion
per cui Don Cesare si adattava a fare un po’ di tutto anche se
non ne era all’altezza. Lui infatti cercava di insegnarmi un
pochino di tutto, dall’italiano al latino, dalla storia alla geografia
e insomma faceva quello che poteva ma con scarso successo.
Questo per due motivi, il primo perché non aveva lui stesso una
preparazione adeguata per farlo, il secondo perché io,
profondamente inserito com’ero in quel contesto contadino, non
avevo nessuna voglia di studiare ed andavo da lui con
malavoglia, perciò apprendevo con scarso profitto. Ma se non
mi invogliava il fatto che Don Cesare mi dava l’impressione che
73
gestisse i suoi insegnamenti in maniera approssimata e caotica,
non mi aiutava neanche mio padre che si rivelava per me un
nume tutelare negativo perché mi portava sempre con se al
lavoro dei campi impegno che diventava cosi la mia
occupazione principale facendomi sentire, a torto o a ragione, un
contadino per il quale lo studio, tutto sommato, non fosse poi
così tanto importante. Ma come poteva essere così ottimista mio
padre se pensava che io alla sera, sporco e stanco com’ero,
avevo ancora la voglia di mettermi a studiare!. Lasciai gli
insegnamenti di Don Cesare alla fine della guerra e finalmente
sbarcai nella città dell’Aquila per completare i miei studi. Non
tutti i problemi però erano risolti perché l’istruzione ricevuta da
Don Cesare era stata una istruzione privata e piuttosto
approssimata ed ufficialmente del mio grado d’istruzione non
risultava nulla a nessuno. Dovetti quindi sottopormi ad una
specie di nuovo esame, questa volta piuttosto informale, di
verifica delle mie conoscenze perché, alle autorità scolastiche,
serviva capire da quale livello potevano farmi partire. Feci con i
professori il colloquio richiesto, dopo di che loro decisero che
avevo l’età giusta e sufficienti competenze per poter frequentare
nientemeno che la classe terza della scuola media, così di botto,
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senza avere prima frequentato né la classe prima e neanche la
seconda. Ritennero che poteva bastare quello che mi aveva
insegnato Don Cesare. Ed ebbi la sensazione che avrebbe potuto
andare anche meglio perché per poco non mi ammisero
addirittura all’esame di licenza media! Miracoli di altri tempi!
Però questi erano i rischi ed i miracoli del dopoguerra.
Successivamente ho pagato caro questo salto in avanti perché, a
mano a mano che frequentavo la terza media, con professori
veri, mi rendevo conto di tutte le lacune che mi ero lasciato alle
spalle. Comunque sia, malgrado tutto superai anche l’esame di
terza media.
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LE MIE DISAVVENTURE DI STUDENTE LE MIE DISAVVENTURE DI STUDENTE
C’era però qualcosa in me che non funzionava in modo giusto.
Infatti incominciai a frequentare il liceo scientifico senza voglia
di studiare, non mi sentivo a mio agio, sentivo che i miei
compagni aquilani avevano rispetto a me una marcia in più, io
invece mi sentivo ancora un contadino ignorante ed ingenuo ed
avevo la sensazione di essere in qualche modo emarginato. Per
esorcizzare quella spiacevole sensazione e tentare di portarmi al
livello dei miei coetanei tentai di eccellere almeno in attività
extrascolastiche rifugiandomi nel gioco del pallone. Ma se il
mio tempo libero lo consumavo soprattutto giocando a pallone
era ovvio che mi rimanesse poco tempo per studiare ed poca
voglia di farlo. Stando così le cose fu inevitabile che, alla fine
del secondo anno di liceo fossi bocciato. Ma a volte non tutti i
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mali vengono per nuocere perché quell’insuccesso produsse
nella mia vita una svolta radicale, vedremo come e perché. Già
la bocciatura di per se mi aveva procurato un grande sconforto
mi sentivo allo sbando, un fallito, per di più intervenne su di me
in modo pesante anche mio padre Sebastiano che non esitò a
trattarmi con maniere forti, fin troppo forti.
PAPÀ SEBASTIANOPAPÀ SEBASTIANO
E visto che l’ho tirato in ballo voglio parlare anche di mio padre
per far capire chi era costui. Sebastiano, figlio di contadini
poveri, fu costretto da giovane, come molti altri contadini del
suo paese, ad emigrare negli Stati Uniti d’America in cerca di
fortuna. Vi arrivò come tutti in quei tempi con una nave per via
mare. Una volta lì si rese subito conto delle opportunità che gli
offriva l’america e perciò, siccome era una persona intelligente e
volenterosa, non si limitò ad accettare la prospettiva di un lavoro
qualsiasi, così come del resto faceva la maggior parte dei suoi
compaesani, ma intuì che in quel contesto dalle ampie
opportunità l’istruzione era una cosa molto importante per chi
voleva avere successo. Si iscrisse perciò ad una scuola serale
dove non solo imparò a leggere e scrivere l’inglese ma
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incominciò anche a frequentarvi un corso per elettricisti. Pare
che se la cavasse molto bene, e che ricevesse elogi sperticati da
parte di insegnanti e compagni di studio. Purtroppo però quelli
erano i tempi in cui si stava combattendo in Europa la prima
guerra mondiale e gli Stati Uniti entrarono in guerra anche loro.
Poiché lui aveva appena ottenuta la cittadinanza americana si
sentì americano a tutti gli effetti e non si sa perché ebbe la bella
idea di arruolarsi nell’esercito di quel paese, forse lo considerò
un dovere. Così, dopo un breve periodo di addestramento,
ottenuta la qualifica di fuciliere scelto, fu mandato a combattere
nel fronte francese. La sua guerra durò però meno di un giorno
perché, appena arrivato al fronte, fu ferito seriamente in
prossimità dell’inguine dalle schegge di una bomba nemica
scoppiatagli vicino e se la cavò per miracolo anche dai gas
asfissianti solo perché qualcuno ebbe la bontà di infilargli in
tempo la maschera antigas. Fu portato nell’ospedale da campo,
poi rimpatriato in America dove fece una lunga convalescenza
in ospedale. Alla fine, con una pensione di guerra tornò in Italia
dove, ormai anziani, vivevano i suoi genitori. Vi si stabilì
definitivamente e si sposò con mia madre.
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LA DIFFICILE CONVIVENZA FAMILIARE
E qui praticamente finisce la storia di mio padre padrone perciò
ora posso raccontare che cosa mi combinò in occasione della
mia bocciatura. La prima cosa che fece fu quella di maltrattarmi
in presenza dei miei coetanei nei pressi della mia scuola,
comportamento orribile che provocò in me una vergogna
tremenda, poi come se ciò non bastasse, tornati a casa lui e mia
madre decisero insieme di togliermi la parola mettendomi in
quarantena ed ignorandomi del tutto e questo fecero per lungo
tempo. Era come se io per loro non esistessi più! Facevano finta
di non vedermi e di non sentirmi, mi trattavano come se io non
esistessi. Io in situazioni simili non avrei mai riservato alle mie
figlie un trattamento del genere loro però lo adoperarono per me.
Tale comportamento è inutile dirlo mi sconvolse. Mi sentivo un
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intruso nella mia stessa famiglia e quello non era certamente il
trattamento del quale avrei avuto bisogno. Ma la cosa non finì lì
perché l’anno successivo, alla riapertura dell’anno scolastico per
punizione mi segregarono in collegio nel Convitto Nazionale
dell’Aquila. Loro ritenevano che lì, sotto stretta sorveglianza,
non potendo uscire per scorrazzare nella città non avrei potuto
fare altro che studiare per forza. E questa volta ebbero ragione
perché nel giro di un anno studiai tanto da diventare il più
brillante alunno della mia classe. Conservai quella nomea e
quella posizione sino alla fine del corso di studi del liceo
scientifico riportando agli esami di maturità la migliore
votazione di tutta la classe. Questo rasserenò di molto
l’atmosfera familiare, mi sembrava che agli occhi della famiglia
avessi finalmente acquisito quella dignità e quel rispetto di cui
avevo estremo bisogno. Ero più sereno, quasi felice, ma non tutti
quei problemi miei che venivano da lontano erano risolti. Erano
state troppe e troppo profonde le umiliazioni e le ferite del
passato che era impensabile che potessero rimarginarsi così
facilmente. E poi, c’era ancora qualcosa nel loro comportamento
verso di me che mi metteva a disagio. Senza rispettare
minimamente la mia personalità loro seguitavano a trattarmi
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come se potessero disporre di me a loro piacimento trattandomi
da padroni, non mi lasciavano spazio, mi impedivano di fatto la
libertà di contatti relazionali con i miei coetanei. E fu per questo
che, per sfuggire allo stato di schiavitù in cui mi tenevano,
facendo leva sui miei ultimi successi scolastici chiesi ed ottenni
di poter proseguire gli studi all’università.
LA DISDICEVOLE ESPERIENZA DI TORINOLA DISDICEVOLE ESPERIENZA DI TORINO
La mia scelta cadde sulla facoltà di ingegneria presso il
politecnico di Torino. Feci quella scelta non per vocazione ma
perché volevo allontanarmi quanto più possibile dalla mia
famiglia in modo da evitarne qualsiasi controllo e godermi
finalmente la mia libertà. Intimamente sapevo che dal punto di
vista professionale quella era una scelta sbagliata però volli farla
lo stesso. E loro mi accontentarono. Intanto Aurelio, il mio
fratello maggiore, si era laureato in Chimica all’università di
Bologna e pensava come sempre solo ai fatti suoi, pur avendo
più esperienza di me non mi dette nessun consiglio e mi lasciò
partire semplicemente ignorandomi. Non c’era nessuna
comunicazione fra di noi, non succedeva mai che lui avesse
qualche attenzione per me, preferiva ignorarmi forse anche
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perché si vergognava di me perché i miei genitori mi gestivano
come un garzone di famiglia. Oggi mi accorgo che, gira e rigira,
non riesco ancora a fare a meno di ricordare con tristezza le
difficoltà del passato. Ma vado avanti con il racconto. Prima
dell’inizio dell’anno accademico nel Politecnico arrivai a
Torino. Partii in pullman per Roma e da Roma proseguii in treno
per Torino. Prima di allora non avevo mai viaggiato su di un
treno, quella fu la prima volta. Rimasi un paio di giorni in
albergo, poi presi alloggio in un pensionato universitario situato
in una contrada di Torino chiamata Fioccardo, fra Torino e
Moncalieri. Quel pensionato era gestito da Padri Maristi. Vi
trovai un ambiente molto diverso da quello del Convitto
Nazionale perché i preti lasciavano ai loro studenti ospiti piena
autonomia di comportamento. Ed io non ebbi sufficiente forza
per gestire al meglio quella improvvisa libertà. Non vi ero
abituato e per di più avevo estremo bisogno di sentirmi libero e
di gestirmi a modo mio. Per i suddetti motivi di quella libertà
non seppi fare buon uso. Trascinato dal vento delle mie pulsioni
personali non riuscii quindi ad evitare di cadere in quella
trappola che io stesso avevo preparata. E, a favorire il mio
fallimento giocò il fatto che, siccome noi ospiti eravamo tutti
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studenti universitari, avevamo creata una un’atmosfera
goliardica troppo spensierata, e poiché oltre me anche altri miei
compagni, arrivati a Torino dal sud, avevano all’incirca i miei
stessi problemi, non riuscivamo a studiare con quella
convinzione e perseveranza che sarebbe stata necessaria.
Insomma, fatta eccezione per alcuni virtuosi, la maggioranza
degli studenti del pensionato preferiva scorrazzare per la città in
cerca di divertimento. Andavamo volentieri a teatro, giocavamo
volentieri a pallone, però frequentavamo l’università con
fastidio e non trovavamo molto tempo da dedicare allo studio.
Per di più, su insistenza dei miei amici forse un pochino più
furbi di me ed in cerca di polli da spennare, imparai, si fa per
dire, a giocare a poker. Io non avevo la grinta del giocatore e
non avrei potuto permettermelo, però il vizio del gioco è un
vizio satanico che una volta preso non te lo togli più, a meno che
non ti accade quello che accadde a me. Noi pokeristi ci eravamo
tanto appassionati a questo cinico gioco che spesso restavamo a
giocare sino a notte fonda ed io lo facevo malgrado perdessi
sempre parte di quei soldi che i miei genitori mi inviavano per
pagarci la pensione. Fui tanto stupido e sconsiderato che mi
giocai persino i soldi con i quali avrei dovuto pagare un mese di
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retta, e compiuto il misfatto, dovetti ricorrere a degli
stratagemmi per rimediare. Insomma, in poche parole imbrogliai
i preti o almeno così pensai io, ma forse in realtà loro ebbero
pietà di me e chiusero un occhio. La cosa incredibile fu che,
malgrado tutto, un po’ di profitto nello studio lo ottenni lo stesso
perché riuscii a superare diversi esami importanti come quello di
analisi matematica, analitica, chimica, mineralogia ed altri. Ma
ora, visto che ci sono, in quanto a fatti incredibili ve ne
racconterò uno del tutto particolare. Accadde un giorno nel
quale il destino decise di giocare con me e mi mise molta paura.
Fu uno scherzo di cattivo gusto quello che il destino fu sul punto
di farmi. Forse voleva punirmi per la mia vita dissoluta ma, per
fortuna, all’ultimo momento si confuse, si distrasse e mollò la
preda. Quel giorno io ed un mio compagno ed amico carissimo,
salvadoregno, che si chiamava Luis decidemmo di andare in
riva al Po per fare un bagno in un posto in cui sulla riva vi era
una piccola spianata di sabbia. Io non sapevo nuotare e stavo
bene attento a che la corrente del fiume non mi portasse con se.
Ciò malgrado, mentre ero in acqua, sentii mancarmi la terra
sotto i piedi ed affondai. Fortuna volle che, un istante prima di
essere sommerso dalle acque, riuscii a gridare cercando aiuto
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dopo di che, con la mente attiva come un vulcano, mi preparai a
morire. Chi non ha mai vissuto una esperienza del genere non
può neanche immaginare quale folla di tragici pensieri ti
possono passare per la mente in pochi istanti Ma per fortuna che
c’era Luis perché quando credevo di essere già morto accadde il
miracolo, il destino forse ci ripensò credendo che la lezione mi
sarebbe bastata e permise al mio amico di salvarmi la vita.
Infatti Luis riuscì ad individuarmi, ad afferrarmi per un braccio
ed a portarmi a riva quando il mio corpo era già sparito
sott’acqua. Ancora oggi mi monta la paura quando ripenso a
quell’ avvenimento e nello stesso tempo sento una grande
gratitudine per il mio generoso amico con il quale dopo tanti
anni ho perso i contatti ma che mi piacerebbe rivedere nel caso
esista ancora in vita. Grazie Luis.! Dopo quel brutto incidente,
piano, piano, la mia sbornia di libertà si attenuò ed
all’incoscienza subentrò la riflessione. Mi resi conto che le cose
non potevano seguitare ad andare così e che perciò sarebbe stato
opportuno cambiare aria e subito.
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DA TORINO A ROMADA TORINO A ROMA
E fu per questo motivo che abbandonai gli studi nel Politecnico
di Torino e mi trasferii alla università La Sapienza di Roma,
cambiando facoltà passai da Ingegneria a Matematica e Fisica. Il
cambio si rivelò però un disastro perché molti degli esami
superati a Torino non mi vennero convalidati e perciò invece di
un passo avanti mi resi conto di aver fatto un passo indietro.
Oramai però la frittata era fatta ed io non potevo farci più nulla.
Mi sentivo come un albero senza foglie, come uno sbandato che
non ne azzecca mai una, ed ero in un tale stato confusionale da
non riuscire più a concentrarmi nello studio! Soffrivo
d’insonnia, ed il solo aprire una dispensa universitaria mi faceva
venire il voltastomaco. Si trattava del rifiuto assoluto di un
percorso che ormai si prospettava per me come un completo
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fallimento. Potete immaginare quali furono le ripercussioni di
questo stato di cose in famiglia.. Come era prevedibile, i rapporti
con i miei genitori tornarono ad essere a dir poco molto tesi.
Quello che mi faceva più male era la mancanza di dialogo con
loro, mai che abbiano cercato di chiedermi spiegazioni, di
parlarmi, di comprendere, di chiedermi come potevano aiutarmi,
di manifestare per me dell’affetto malgrado che le avessi
sbagliate proprio tutte. E, tutte le volte che io tentavo di essere
affettuoso con loro nella speranza di essere aiutato, loro mi
schivavano e si schermivano. Non mi capivano. Alla fine
diventammo separati in casa, fra di noi cadde definitivamente il
silenzio quasi assoluto, non avevamo più nulla da dirci, ci
ignoravamo a vicenda. Frustrato, umiliato, disorientato, in uno
stato d’animo disastroso avendo persa persino la fiducia in me
stesso, mi sentivo come paralizzato non essendo capace di
trovare soluzioni alternative alla mia situazione. Alla fine però, a
denti stretti, non potendo fare altro dovetti riprendere comunque
a studiare. Ed allora il destino, ancora una volta, decise di,
aiutarmi e lo fece per caso senza farsene accorgere. Infatti fu
proprio in quel periodo che accadde qualcosa destinata a
cambiare la mia vita.
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L’INCONTRO CON LA MIA FUTURA MOGLIEL’INCONTRO CON LA MIA FUTURA MOGLIE
Dopo tanto buio un po’ di luce, ci fu il mio primo incontro con
una fanciulla diventata poi mia moglie. Accadde tutto per caso e
vi voglio raccontare come. Dovete sapere che a quell’epoca la
mia famiglia risiedeva in quel piccolo borgo d’Abruzzo
chiamato Navelli, in una via che si chiama Via delle Spiagge
Grandi. Era il mese di maggio e vicino alla nostra abitazione, a
ridosso della strada principale del quartiere, avevamo un orto
recintato dove, abbarbicato sulla rete metallica di recinzione
esisteva un bel rosaio. Un giorno, uscendo di casa, sorpresi una
ragazza che, infilata una mano attraverso la rete metallica, stava
cogliendo dal rosaio una rosa. Non riuscii a fare diversamente ed
approfittai di quell’occasione perché la ragazza mi sembrò
molto carina. Mi venne subito il desiderio di essere galante con
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lei. Del resto lei era una ragazza che aveva diciotto anni ma ne
dimostrava anche di meno ed era di una freschezza e di un
profumo pari a quella della rosa, ed allora non potei proprio
farne a meno, colsi la rosa e con garbata galanteria gliela offrii!
Mi innamorai di lei all’istante! Ci fidanzammo. Ma per lungo
tempo nella mia vita anche questa volta in famiglia la fortuna mi
voltò le spalle ed infatti, quando i miei genitori lo vennero a
sapere apriti cielo, dovetti fare i conti con la loro cocciutaggine
specialmente con quella di mia madre. A loro quel fidanzamento
non piaceva. Il mio matrimonio avrebbero voluto combinarlo
loro indipendentemente dalla mia volontà e questo la dice lunga
su quale era il loro modo di pensare e come era distruttiva per un
figlio la loro pretesa di esserne i padroni assoluti. E così alle mie
ferite del passato se ne aggiunsero altre procuratemi dai miei
genitori ed in famiglia si e si aprì un altro fronte di battaglia.
Però, se loro erano testardi io ero più testardo di loro, avevo
fatta la mia scelta, ero sicuro che fosse la scelta giusta ed ero
quindi deciso ad andare ad ogni costo per la mia strada. Inutile
aggiungere che questa decisione mi costò molto perché dovetti
sopportare molte offese da parte loro e subire minacce e soprusi
di ogni tipo. Mio fratello, perché dovete sapere che in famiglia
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viveva anche un fratello, ne frattempo si era laureato in chimica
presso l’università di Bologna ed aveva trovato un lavoro da
insegnante in una scuola di Pratola Peligna dove si era anche
fidanzato e poi sposato. Lui però non mi aiutò mai, in nessuna
circostanza, tutt’altro. Per questo un bel giorno, non riuscendo a
sopportare più quella situazione di ostilità che cera in famiglia,
decisi di andar via da casa. Feci la mia piccola valigia e me ne
andai nella città dell’Aquila dove risiedeva la mia ragazza.Vi
trovai lavoro come istitutore allo stesso Convitto Nazionale in
cui ero stato da studente. Il vitto e l’alloggio erano garantiti ed in
più mi pagavano un piccolo stipendio mensile.
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LA VITA MILITARELA VITA MILITARE
Però così passavano gli anni e quando raggiunsi l’età di ventisei
anni dovetti abbandonare tutto. e licenziarmi perché fui costretto
a partire per il servizio militare. Tornai a casa per salutare,
malgrado tutto, i miei genitori ma non trovai l’accoglienza che
almeno in quella circostanza speravo. Sembra incredibile ma
quando partii loro non mi salutarono neanche, né ritennero di
darmi qualche lira per le mie eventuali necessità, me ne andai
via solo ed amareggiato, con una valigia ed il solo biglietto
ferroviario fornitomi dall’esercito. Dopo un lungo e tortuoso
viaggio in treno arrivai ad Ascoli Piceno alla scuola allievi
ufficiali di complemento. Fui assegnato alla settima compagnia.
Qui la vita era dura, quelli che ci comandavano per
spersonalizzarci e farci entrare nelle vesti dei marmittoni e
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renderci docili e pronti alla cieca ubbidienza a qualsiasi ordine,
una delle prime cose che ci ordinarono di fare fu quella di
ripulire, procedendo a stretto contatto di gomito, tutti gli spazi
erbosi della caserma da tutti i mozziconi di sigaretta che vi si
trovavano. Guai se davanti a noi ce ne sfuggiva qualcuno, ci
punivano per la nostra disattenzione. Al mattino la sveglia era
alle cinque, poi di corsa tutti in fila nel cortile in pantaloncini e
maglietta a fare una mezz’ora di ginnastica, dopo di che si
andava in refettorio per fare la colazione. Successivamente si
provvedeva alla pulizia dei cessi ed infine si andava in aula ad
assistere alle lezioni di tecnica e tattica militare. I pasti erano
quasi immangiabili ed io purtroppo non avevo alternative o
consumavo quelli o niente altro. Non avendo altre risorse,
potevo disporre, e solo alla fine di ogni due decadi, di circa
duemila lire, al lordo delle trattenute, che non potevo spendere
perché ne avevo bisogno quando, dal sabato alla domenica,
ottenevo i permessi di licenza di trentasei ore, per pagarci il
biglietto dell’autobus che mi portava all’Aquila dove risiedeva
la mia ragazza. La permanenza di circa sei mesi ad Ascoli
Piceno fu quindi per me una specie di lungo incubo che si
aggiungeva a quelli del passato. Infatti quando finalmente alla
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sera c’era la libera uscita, ero costretto ad uscire da solo, non
certo per mia volontà, ma perché non avevo i mezzi economici
adeguati per accompagnarmi ai miei commilitoni i quali invece
fortunati loro, facevano baldorie e si divertivano andando a cena
nelle trattorie della città, oppure andando al cinema o in altri
ritrovi. Io invece ero costretto ad uscire da solo non sapendo
neanche dove andare, camminavo a caso per le strade della città
senza fermarmi da nessuna parte, giusto il tempo per arrivare
all’ora della ritirata. Per capire certe sofferenze bisogna averle
vissute. Io stringevo i denti e malgrado tutto andavo avanti con
la sola forza di volontà. Con il passare dei giorni ero diventato
magrissimo e per di più soffrivo senza che lo sapessi di calcolosi
renale. Rimasi in quel di Ascoli Piceno quei cinque o sei
lunghissimi mesi della durata del corso. Quando lo finimmo i
miei superiori mi comunicarono che mi avevano assegnato alla
scuola di artiglieria contraerea per allievi ufficiali di
complemento di Sabaudia. Dopo una breve licenza ripartii
dunque per Sabaudia. Qui le cose non cambiarono di molto,
l’importo della decade era sempre lo stesso. Le mie libere uscite
serali anche qui erano come quelle di Ascoli Piceno. Per di più,
le spese di viaggio per andare all’Aquila erano maggiori perché
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il viaggio era più lungo. Non era proprio il caso di stare allegri
neanche questa volta. Fra le cose che ricordo con più
raccapriccio è che lì a pranzo ogni giorno ci servivano sempre
rigatoni al ragù, pollo e patatine. Il resto è per me cosa del tutto
da dimenticare. Ed a Sabaudia rimasi per altri cinque o sei mesi
fino alla fine del corso. Anche a Sabaudia ero solo e l’unico mio
conforto lo trovavo nella corrispondenza con la mia ragazza che
aveva una frequenza quasi giornaliera. Una sola volta ricevetti
inaspettatamente i saluti da mio padre attraverso una cartolina
illustrata mandatami da Abano Terme dove lui si trovava per
fare i fanghi perché soffriva di artrite. Ma grazie al cielo, come
tutte le cose di questo nostro mondo, anche questo corso di
addestramento di Sabaudia finalmente arrivò a conclusione e,
con i gradi di sottotenente di complemento, fui destinato al
raggruppamento di difesa antiaerea territoriale di Savona la
cosiddetta D.A.T. Fu qui che mi resi definitivamente conto che,
anche se il contesto era completamente cambiato, di non essere
io adatto alla vita militare. Ma, prima di me se ne era reso
naturalmente conto anche il colonnello comandante del
raggruppamento il quale fece scrivere poi sul mio foglio di
congedo: “scarsa attitudine militare”! Ma visto che ci sono,
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voglio raccontarvi come andarono le cose anche lì a Savona.
Quando arrivai nel raggruppamento di destinazione, con indosso
la divisa nuova di sottotenente, fui assegnato all’ufficio
comando. Qui pensavo che qualcosa mi avrebbero fatto fare,
invece la mia presenza era praticamente ignorata dagli altri
addetti all’ufficio, tutti seguitarono a fare il loro lavoro
ignorandomi, non mi assegnarono né mi proposero nessun
lavoro ed io avevo l’impressione di stare lì solo a fare la
comparsa. Questa cosa mi infastidì al punto che dopo alcuni
giorni non mi feci più vedere. Approfittando del lassismo
generale, preferivo varcare in uscita l’ingresso della caserma e,
salutata la ossequiosa sentinella di turno, raggiungevo la
spiaggia che si trovava a due passi dalla caserma. Tornavo in
caserma giusto all’ora del pranzo e mai nessuno si accorse delle
mie assenze, o almeno non se ne curò nessuno. Per me questo
voleva dire che in realtà in caserma non servivo. Però, a
prescindere dallo strano andamento delle cose, confesso che
quest’ultimo periodo di servizio militare mi fu molto utile
perché percepii finalmente una paga più decente della decade
che mi consentì, risparmiando al massimo, di accumulare un
piccolo gruzzoletto.
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IL RITORNO A CASA
Una volta tornato a casa la prima cosa di cui ebbi bisogno fu
quello di mettere mano al mio gruzzoletto guadagnato, si fa per
dire, a Savona. Ne ebbi un estremo bisogno per le mie necessità
personali urgenti specialmente in vestiario. Intanto erano passati
circa sedici mesi da quando avevo lasciato l’incarico di istitutore
nel convitto nazionale dell’Aquila. E correva l’anno 1959
quando ottenni il congedo ed io, una volta a casa, senza
prospettive, senza un lavoro, dovetti seriamente riflettere sul
come utilizzare il mio incerto futuro. Mi sentivo come
paralizzato, mi rendevo conto con tristezza che non avevo
alternative e che la cosa più opportuna da fare era quella di
tapparmi il naso, riprendere seriamente gli studi e concluderli.
Nello stesso tempo però, mi infastidiva molto l’idea di non avere
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appigli per gestirmi da solo senza pesare ancora sui miei
genitori. Sentivo di avere un assoluto bisogno di intraprendere
una qualsiasi attività che mi rendesse economicamente
indipendente e mi desse la possibilità di vivere serenamente.
Finalmente però questa volta la fortuna mi venne incontro ed io
l’afferrai a piene mani. Il caso volle che poiché quello era un
periodo in cui, finita la guerra e completata la ricostruzione, la
nazione era in pieno sviluppo e perciò i governanti di allora si
resero conto che si doveva passare velocemente da una civiltà
contadina ad una civiltà preindustriale. La prima cosa da
riformare era la scuola. Poiché il grado di istruzione del popolo
italiano era mediamente basso, nell’intento di innalzarlo, lo stato
incominciò ad aprire molte nuove scuole decentrate rispetto a
quelle prima esistenti solo in città situate in posti dove prima
non esistevano affatto,. Fu per questo che nel mio paese fu
istituita la prima classe di un Istituto di Avviamento
Professionale. Il problema era che, poiché gli insegnanti laureati
non erano sufficienti a coprire i nuovi posti di insegnamento si
dovette ricorrere all’utilizzo dei laureandi. E questa fu la mia
fortuna che mi tirò fuori dai guai. Era proprio quello che mi ci
voleva, approfittai di quella circostanza, chiesi di essere assunto
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come insegnante di Matematica nella prima classe della nuova
scuola di Navelli. Fui accontentato e vi insegnai a tempo
determinato come supplente annuale. L’anno successivo fui
confermato nell’incarico esteso anche alla seconda classe, e
l’anno appresso esteso anche alla terza classe. Questa volta
avevo preso tanto seriamente il mio ruolo di insegnante che
decisi di svolgere il mio lavoro con molto impegno. riuscii a
dare ai miei alunni il meglio di me e fui molto apprezzato per i
risultati da me ottenuti sia dai colleghi che dalle famiglie degli
alunni, cosa questa che mi permise di incominciare a recuperare
quella tranquillità e fiducia in me stesso di cui avevo estremo
bisogno. Sapevo però che la soluzione definitiva dei miei
problemi era ancora lontana, sapevo che le cose a breve
sarebbero cambiate e perciò occorreva assolutamente che mi
laureassi. Ma la svolta determinante che cambiò la mia vita la
propizio la mia fidanzata la quale, malgrado che lei avesse il
diploma di maestra elementare aveva trovato lavoro a Roma
presso l’Istituto Centrale di Statistica, ragion per cui decise che
era tempo che ci fossimo sposati. Fu una decisione che mi colse
di sorpresa perché non avendo io un lavoro stabile avevo paura
del futuro però malgrado io fossi molto preoccupato e perplesso
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ci sposammo nell’anno 1963, il sei di ottobre, nella cattedrale
dell’Aquila.
IL TRASFERIMENTO A ROMAIL TRASFERIMENTO A ROMA
Dopo di che fui costretto a lasciare l’insegnamento a Navelli per
trasferirmi a Roma dove lavorava mia moglie. A Roma
prendemmo in affitto un piccolo appartamento mobiliato vicino
a Via Veneto al costo di 36.000 lire al mese. E fu qui che portai
tutto quello che avevo, una sola valigia con i miei libri e pochi
effetti personali. Ricordo che di affitto pagavamo trentaseimila
lire al mese quando dal macellaio lo spezzatino di vitella costava
duemilacinquecento lire al chilogrammo. E per di più lavorava
solo mia moglie. Perciò mi detti molto da fare per trovare un
lavoro e poiché l’unico lavoro che sapevo fare era quello
dell’insegnamento lo cercai nelle scuole private di Roma perché
trovarlo nella scuola statale, nelle mie condizioni di non laureato
era impossibile. Ero molto preoccupato per il nostro futuro
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perché qualche lavoro nelle scuole private lo trovavo però si
trattava sempre di lavori precari che da un anno all’altro
potevano finire. L’unico lato rassicurante del nostro menage era
che ormai, risiedendo stabilmente a Roma, fui in grado di
riprendere a frequentare l’università perché ero deciso a
laurearmi ad ogni costo pur non avendo la preparazione che
avrei voluta. E così fu, nel mese di febbraio a denti stretti mi
laureai in matematica e fisica all’università La Sapienza di
Roma. Finalmente dall’ottobre successivo, alla riapertura
dell’anno scolastico, ebbi accesso con pieni diritti
all’insegnamento nella scuola statale. Era quello che volevo, fu
la svolta di una vita perché quell’evento, dal punto di vista
temporale, coincise con il vertice di una parabola con la gobba
rivolta verso il basso che da quel momento incominciò a risalire.
In altre parole fu da quel momento che, una volta conquistata la
tanto agognata semi-tranquillità economica, iniziò per me un
periodo molto lungo durante il quale pian piano riuscii a curare,
cicatrizzare, se non a guarire del tutto, molte delle ferite del mio
tormentato passato. Finalmente, a mano a mano che mi liberavo
da quella zavorra pesante che mi ostruiva i canali della mente,
recuperavo la coscienza del mio vero modo di essere. Ma
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confesso che c’è voluto ancora molto tempo perché la mia
guarigione potesse considerarsi completa o quasi. Ecco perché,
solo dopo di allora, la storia della mia vita è diventata a poco a
poco la storia di una vita normale. Ed è stato bello scoprire,
dopo tante sofferenze, di avere ancora un cervello in grado di
ragionare, a modo suo si intende, però sempre in buona fede. E,
a questo punto, con la mente sgombra da zavorre e pregiudizi,
ho incominciato ad osservare e giudicare il mondo con
disincanto, usando solo la mia ragione in maniera autarchica e
con spirito critico senza tener conto in alcun modo delle più
comuni suggestioni della gente. Non ho mai assorbito il pensiero
di massa Che diavolo! Non sarà mica proibito rivendicare libertà
di pensiero? A molti può dare fastidio che alcune mie
osservazioni e le conseguenti meditazioni solitarie si siano
esplicitate in una collana di favole “fuori norma”raccolte in un
volume dal titolo: “FAVOLE a modo mio” pubblicatomi a denti
stretti da una casa editrice inaffidabile. Inaspettatamente ho
scoperto che oltre al piacere della meditazione esiste anche il
piacere di scrivere.Troppo tardi? Può darsi, so che avrei bisogno
di rigoroso tirocinio però alla mia età imparo soltanto facendo. E
comunque, come suole dirsi, è meglio tardi che mai, ora con la
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mente libera mi rimane la malinconia dell’età però faccio finta
di avere accantonata la mia vita passata e vado avanti. Il fatto è
che dal punto di vista mentale mi sento un vulcano, ho la mente
perfettamente funzionante, forse troppo, se considero il fatto che
metto tutto in discussione senza riguardi per nessuno.
RIFLESSIONI FINALI RIFLESSIONI FINALI
Una delle credenze che faccio particolarmente fatica ad accettare
consiste nel fatto che l’umanità, da sempre, alla ragione ha
sostituito la “supposizione” e la verità è stata sostituita dalla
bugia dando così spazio a quelle “pandemie di fantasie
collettive” che traggono origine solo da una arbitraria ed
infondata interpretazione della realtà. Alla certezza si è sostituita
la speranza. Il motivo va cercato nel rifiuto della certezza della
morte e nella speranza dell’aldilà. Tuttavia, poiché io da solo
non ho la forza e la capacità per cambiare l’andamento delle
cose, sono costretto a starmene alla finestra senza poter fare
nulla, anzi la finestra spesso la chiudo per non vedere le storture
e le nefandezze di un mondo che non condivido e che mi
procura la nausea. A scanso di fraintendimenti qui ribadisco che
102
per esempio lo sport è cosa bella ed utile però quando come il
calcio viene utilizzato per alimentare bassi interessi commerciali
allora diventa una fabbrica di illusioni che alleggerisce le tasche
della povera gente ingrassa quella pletora di persone che lo
gestiscono e distoglie le menti sia dai problemi reali della vita
sia dai veri interessi culturali. Devo confessare che, da buon
pensionato, mi sarebbe piaciuto fare come facevano gli antichi
romani i quali quando smettevano di occuparsi della “cosa
pubblica” si dedicavano alla coltivazione del loro orticello fuori
o dentro le mura di Roma. Il mio orticello ce l’avrei avuto
anch’io, però si trova nel mio paese natale ed è quello al quale si
dedicava con molta passione mio padre in età avanzata.
Purtroppo c’è stato il terremoto in Abruzzo ed il mio orticello e
diventato inaccessibile e comunque per diversi motivi non sono
più in condizioni fisiche idonee per poterlo fare ed allora ho
ripiegato sull’esercizio della mente. Ho sbagliato? Sono sicuro
di no perché questa è una opportunità che consente a noi persone
anziane, una volta liberatici dagli assilli giovanili, di mettere a
fuoco tanti aspetti della vita che in precedenza avevamo
trascurati. Insomma è l’ora delle riflessioni. Del resto, ad usare
la mente non solo non è cosa inutile ma è soprattutto un piacere.
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Semmai quello che genera in me un po’ di tristezza è
l’incapacità di comunicare agli altri quello che penso, forse le
conclusioni delle mie riflessioni nessuno mai le leggerà. E forse
interesseranno a pochi. Ma tant’è, poco me ne importa, perché
l’importante è l’essere sicuri delle proprie verità ed io ne sono
sicuro e non dico bugie. Ma c’è di più perché confesso che a
furia di scrivere, sia pure da dilettante e con uno stile “ fai da
te”, alla fine, quasi senza esserne consapevole, ho scoperto il
piacere di farlo, non solo occupandomi di me stesso, ma anche
delle vicende di questo nostro strano e complicatissimo mondo.
Fra le cose che si capiscono a volte solo ad una età avanzata ho
capito che quando il corpo invecchia e man mano perde alcune
sue prerogative, la mente invece, se si mantiene in funzione, si
arricchisce sempre di più perché osserva il mondo con
disincanto e fa tesoro di tante nuove conoscenze cosicché più
verità scopre e più ancora ne vuole scoprire.. Quello che però
non si può fare è adattare il mondo alle nostre esigenze mentre è
molto pi facile adattare noi stessi alle esigenze della natura. Alla
fine una è soprattutto l’angoscia che mi rimane e che si
concretizza nella domanda: perché in questo nostro mondo tutto
ciò che comincia, finisce? La verità sta nella fisica o nella
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metafisica? Ed esistono davvero questi due mondi così diversi
eppur conseguenti? Quello fisico e quello metafisico? Mi viene
da ridere perché io credo di sapere qual è la risposta giusta ma
non ve lo voglio dire. Però chi legge non ci faccia caso, provi a
ragionare con la sua testa e ad essere un tantino più ottimista di
me se ci riesce. Auguri!
Renato AlterioRenato Alterio
LA STORIA DI FAUSTOLA STORIA DI FAUSTO
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LA STORIA DI FAUSTOLA STORIA DI FAUSTO
Buttati Fausto, buttati! Gli gridò disperatamente un suo amico
mentre la loro nave affondava. Ma Fausto non sapeva nuotare e
perciò all’amico non rimase che piangerlo. Il giovane Cantalini
Fausto era nato a Navelli, paese di montagna nel cuore
dell’Abruzzo, in provincia dell’Aquila, paese di contadini.
Apparteneva ad una famiglia numerosa composta dai genitori,
da ben quattro figli maschi e due figlie femmine. Avevano tutti
la residenza a Navelli ma vivevano a Popoli, in provincia di
Pescara, perché il capofamiglia aveva trovato lavoro in uno
stabilimento chimico a Bussi, paese non distante da Popoli. Dei
suoi tre fratelli lui era il maggiore, il più grande dopo di lui era
Francesco, e poi, via, via, venivano prima Aldo e poi Carlo il
più piccolo dei maschi, seguivano le due sorelle Maria e Lucia o
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Luciana come la chiamava Fausto. Correva l’anno 1941 quando
Fausto, all’età di appena diciannove anni, si affidò al destino che
però si prese gioco di lui e lo beffò dopo averlo trascinato
nell’unica avventura della sua vita. In una famiglia così
numerosa come la sua, nella quale lavorava solo il capofamiglia,
non doveva essere semplice far quadrare i bilanci familiari. Per
questo motivo, Fausto, che era ormai quasi maggiorenne, decise
di arruolarsi nel Corpo della R. Guardia di Finanza. Ignorando il
fatto che era in corso una guerra, lui ebbe due tipi di incentivi
per farlo, il primo era la possibilità di contribuire al bilancio
familiare ed il secondo era la speranza che in quel Corpo lui
riuscisse a fare carriera. Era un ragazzo buono, religioso, amava
la patria e la famiglia, era volenteroso, ma un po’ troppo
credulone. Inoltre, non aveva un apprezzabile grado di
istruzione in quanto, a quei tempi, nei piccoli paesi contadini
d’Abruzzo, l’istruzione era un lusso che non tutti si potevano
permettere. Ai contadini di allora bastava ciò che a stenti
avevano imparato nella scuola elementare, in pratica, la cultura
per loro non era necessaria perché per la coltivazione dei campi
bastava la loro esperienza. Quei contadini si accontentavano di
saper leggere e scrivere e poco importava loro la grammatica e
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la sintassi. Perciò, non facciamoci nessuna meraviglia, allora si
scriveva male perché si parlava male, e si parlava sempre in
dialetto, e quando si scriveva veniva fuori una scrittura con tanti
strafalcioni, metà in italiano e metà in dialetto. Questa era la
norma e non se ne scandalizzava nessuno. Fausto non era
diverso dagli altri. E fu con quel tipo di bagaglio culturale che i
due compaesani ed amici Fausto ed Ugo partirono insieme da
Navelli con le loro valigie di cartone. Prima tappa a Roma e poi,
in treno, via verso Predazzo in provincia di Trento dove erano
attesi alla scuola della Guardia di Finanza. Lì li aspettava un
altro navellese di nome Aniceto. Quando vi arrivarono era il
mese di settembre dell’anno 1941 e Fausto si affrettò a
descrivere alla famiglia dov’era, qual’era la vita di caserma e a
quanto ammontava la paga : …Ad Aniceto gli hanno già dato
tutto, gli hanno dato una valigia e una cassa con tutto il
necessario occorrente. Appena che mi danno anche a me
l’occorrente rimanderò la valigia…Dove siamo noi vi è una
bella caserma siamo vicinissimo al paese il quale è a 1016
metri sul livello del mare…nei dintorni non si vedono che
montagne altissime, vi è già la neve sulle cime dei monti più
alti. Si sente un po’ freschetto, e a me fa molto impressione…io
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mi trovo molto bene anche perché c’è Aniceto al quale gli posso
chiedere qualche consiglio, lui ci aiuta ha voluto persino
lavarmi la cavetta il primo giorno che siamo arrivati…Sto
scrivendo sulla branda insieme con Aniceto e con Ugo…
Domani forse ci manderanno a fare la prima marcia, ma io me
la caverò perché domani sarò di ramazza..…State tranquilli
Fausto sta bene e distintamente vi saluta Aniceto….Per il
mangiare sto benissimo, e sto facendomi una scorpacciata di
frutta che sta a metà prezzo di quando era già a Popoli, e come
sai a me piace molto e non ci faccio caso…Però farò di tutto
per venire a Natale con la licenza premio che probabilmente ci
daranno…ieri ci hanno pagato, e ho ricevuto £ 115,50. Ed
invece la licenza premio sfumò e Fausto anziché per Popoli
dovette partire prima per Trieste e poi per Bari. Il perché lo
spiega lui stesso: Carissimi genitori:… Vi fo sapere che la mia
Compagnia è stata mobilitata, e di conseguenza lo sono
anch’io…Ricevuta questa notizia, vi metterete di sicuro in
pensiero, purtroppo invece non dovete pensarci affatto. Con la
parola mobilitata non dovete intendere che vado a combattere…
A me questa notizia mi ha sollevato, perché i mesi che sono
mobilitato, mi contano come se avessi fatto il confine, per poter
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concorrere alla Scuola Sottuficiali. A Bari incontrò il cugino
Luigi, ufficiale del R. Esercito in servizio nei pressi di Bari. Ne
informò i suoi genitori così: …Nel pomeriggio di ieri mi è
venuto a trovare il cugino Luigi, e ci abbiamo riabbracciati
affettuosamente…gli ho dovuto prestare 20 lire perché era in
bolletta….Quando lasciarono Bari tornarono al nord a Villa del
Nevoso. Agli spot del regime del tipo: “Vincere e Vinceremo”
Fausto ci credeva, perciò era tranquillo, si sentiva fuori dalla
mischia. Purtroppo non era così, però lui non poteva saperlo. E
partirono anche da Villa del Nevoso, questa volta con
destinazione Creta. Transitarono per Belgrado, sostarono al
Pireo e dal Pireo salparono in nave alla volta di Creta. Dal Pireo
Fausto scrisse al padre:…Ho serie intenzioni di fidanzarmi
ufficialmente con Pesetti Anna, cioè la sorella di Fulvio quella
che veniva a studiare a Sulmona. Magari se volete andrete voi
stessi a casa sua a parlargliene e io sono in attesa di una vostra
sollecita risposta che spero sia affermativa…Invece da Creta
scrisse ai genitori:”Ho provato una grande emozione
nell’attraversare per la prima volta il mare, durante la
traversata mi sono divertito un mondo, ed ho visto tante cose
nuove, …mi trovo benissimo. il clima è mite, tanto freddo non si
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sente e credo che la neve non ci sarà”. Già il mare! Affascinante
e crudele! Ma, una volta a Creta, ben presto, il suo umore
cambiò. Infatti, dalla Base Militare 121 così scrisse alla
famiglia:“…ho lasciato il paese , ardentemente desidero
rivederlo e speriamo che il buon Gesù conceda questa grande
grazia. Il giorno della Vittoria non è ancora molto lontano,
preghiamo il buon Dio che faccia ancora una volta trionfare la
nostra bella bandiera” Era la fine del mese di Agosto del 1943.
Dopo di allora ci fu un lungo silenzio, ma a volte i silenzi
pesano più delle parole. Di Fausto non si seppe più nulla sino a
guerra finita. Solo allora, un suo fortunato compagno di sventura
si recò a riferire alla famiglia come si era conclusa la loro
avventura. Il suo epilogo non fu molto diverso da quello dei
superstiti della strage di Cefalonia, perché furono anche loro
catturati dai tedeschi, stipati su di una carretta del mare e
naufragarono in adriatico. E, buttati Fausto!, Buttati! Così, gli
gridò il suo amico al momento del naufragio, l’ amico si salvò a
nuoto, ma Fausto non sapeva nuotare. D’un colpo gli si oscurò il
cielo, l’acqua salata gli occupò i polmoni e con gli occhi chiusi
dette addio alla vita. E tutto finì in un solo momento, giusto il
tempo di dire addio ai sogni, addio alle speranze, addio ai
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genitori, ai fratelli, alle sorelle, addio agli amici, addio ad una
giovinezza rubata.
Renato AlterioRenato Alterio
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