LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

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RENATO ALTERIO

NAVELLORUMNAVELLORUM

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LA STORIA DI FAUSTO

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Il nonno ai suoi nipotini Valerio e Chiara

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Ora che il giornoscivola via verso seravorrei tanto raccontarmi,ma non capisco perché.Forse ho solo bisognodi fare qualcosa peresorcizzare la noia.

RICORDI DI UNA VITA DIFFICILERICORDI DI UNA VITA DIFFICILE

Ora che sono in procinto di tuffarmi nell’archivio dei ricordi per

rivangare il passato mi assale il timore che rievocando i ricordi

remoti mi ritorni in mente anche l’angoscia e la sofferenza che li

ha a suo tempo accompagnati e mi dispiacerebbe se io dovessi

soffrire di nuovo le sofferenze di allora.. Per tanti anni la mia

non è stata un vita normale perché per buona parte, ai tempi

della mia fanciullezza e della mia gioventù è stata accompagnata

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da frustrazioni e dolori. Temo perciò che rievocare certi ricordi

farà certamente riaffiorare nella mia mente la tristezza per le

umiliazioni subite. E pur tuttavia, se voglio riesumarli qualche

rischio lo devo pur correre, perciò mi faccio coraggio e vado

avanti comunque. Inoltre fra il racconto di un episodio e quello

successivo è nelle mie intenzioni discettare anche sul mio modo

di pensare e sul mio modo di essere che certamente è

conseguenza delle mie particolari esperienze del passato.

Semmai, il timore più grande che ho è quello della inutilità del

mio ricordare se nessuno leggerà.quello che avrò scritto al di

fuori dei miei nipotini se loro avranno la pazienza di farlo. Però,

se nessun editore vorrà pubblicare queste mie esperienze allora,

chi mai potrà leggere il racconto delle esperienze di una vita

vissuta nella penombra? Rimane però indiscutibile il fatto che

ho voglia di raccontarmi comunque vadano le cose. Mi piacerà

anche di illustrare come era un piccolo mondo contadino

all’inizio del secolo ventesimo. Inoltre farò particolare

riferimento a quegli accadimenti di guerra avvenuti nel mio

piccolo borgo natio intorno agli anni quaranta. Mi rendo conto

che, in fondo, si tratta solo di vicende locali che, seppur fuori dal

comune, si svolsero a Navelli paese d’Abruzzo arrampicato sul

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fronte di una collina da dove fa da belvedere alla pianura di

fronte. Se farò la cronaca di vicende che risalgono a quando

avevo intorno ai dodici anni è perché mi sono rimaste

particolarmente impresse nella mente ed anche perché si tratta

pur sempre di vicende che forse nessuno racconterà mai. Se non

lo farò io forse scompariranno per sempre nel mondo dell’oblio.

Prima però è utile che io descriva nei dettagli la struttura e la

natura di allora del mio paese. Poiché era un paese contadino era

anche quasi del tutto autarchico ossia autosufficiente in quanto

consumava solo quello che produceva ed era del tutto uguale a

quei tanti paesi abruzzesi che i viaggiatori ammiravano da

lontano con una certa curiosità ma che, non avendo particolari

motivi per fermarvisi, tiravano dritto. Ed invece fra gli anni

1940 e 1950 a Navelli fummo testimoni e partecipi di

eccezionali e cruenti eventi di guerra. Mi si perdoni l’ardire con

il quale oserò cimentarmi con rievocazioni storiche, si tratta di

qualcosa che non solo non ho mai fatto prima e per di più gli

eventi stessi saranno rievocati secondo il mio punto di vita.

Tuttavia aggiungo che, se quando ero uno scolaro, erano i miei

insegnanti a costringermi a scrivere, adesso invece lo faccio in

obbedienza ad un mio inaspettato desiderio. Ciò malgrado se

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qualcuno mi chiedesse per quale altro motivo rievoco i miei

ricordi non saprei dire altro se non rispondere: Chi lo sa perché.

Ciò nonostante mi sforzerò di essere obiettivo sia quando

parlerò di me stesso ( ma che narciso rischierò di sembrare!)

che quando descriverò gli eventi dei quali sono stato testimone.

Però avverto gli improbabili occasionali lettori che è più forte di

me la incontenibile voglia di mettere sempre tutto in

discussione, per dissentire quando serve perché mi piace

ragionare con il mio cervello e non mi faccio troppo facilmente

influenzare dal pensiero comune.

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CHI SONO IO, RIFLESSIONICHI SONO IO, RIFLESSIONI

È appena incominciato l’anno 2010 ed io ho ormai una età

ragguardevole, con i miei settantanove anni che sto per

compiere mi sono avvicinato agli ottanta ed è inutile dire che mi

pesano abbastanza. Ho capito che se voglio usare la mente per

fare ancora qualcosa di buono non mi posso più concedere di

perdere tempo. Finora da pensionato ho passato il mio tempo

libero da fannullone, e sì che di tempo libero ne ho avuto tanto

ma tanto ne ho perso, l’ho passato in casa oziando sempre alla

ricerca di qualcosa di utile da fare, se nonché non ho saputo fare

altro che giocherellare con il computer curiosando su internet o

usando la mia casella di posta elettronica. Il mio problema è

sempre stato lo scetticismo ed il disincanto ma ora che sono

ormai vecchio questi miei problemi si sono aggravati..Perciò,

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annoiato ho letto con continuità e con qualche interesse solo

qualche rivista di mio gradimento ed ogni tanto anche qualche

quotidiano. Però diffido della stampa di oggi perché é in genere

al soldo del padrone e perciò falsa e bugiarda, inaffidabile.

D’altra parte anche la nostra TV di stato è lottizzata ed i vari

telegiornali raccontano solo frottole ad uso dell’ineffabile

“popolo sovrano” che ama essere preso in giro. È per questo che

spesso mi capita di dover usare il telecomando per azzittire quei

cialtroni che senza vergogna ci stordiscono con le solite bugie. È

chiaro adesso che tipo sono io? In realtà distaccato dal mondo ci

sono sempre stato tanto che non ho mai capito il mistero per cui

si nasce, si cresce, si invecchia e si muore. L’unica certezza che

ho è quella di esistere, anche se persino tutto quello che esiste è

per me solo a tempo determinato

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IL 21 GIUGNO DEL 1931IL 21 GIUGNO DEL 1931

Beh! Mi sono sfogato, mi si perdoni la debolezza.. Ed ora,

passerò finalmente al racconto della mia vita incominciando

dall’inizio, ossia dal giorno in cui sono venuto in questo nostro

misterioso e meraviglioso mondo che l’incoscienza degli uomini

rischia di guastare. Non me ne vogliate se ancora una volta:

aggiungo “chissà perché” lo faccia. E vi voglio raccontare

davvero tutto a partire dalla storia della mia nascita avvenuta nel

modo in cui mi è stata riferita. Era il giorno 21 di giugno

dell’anno 1931 e da quanto ho saputo dal racconto di mia madre

quella del 21 giugno era una bella giornata di sole a Navelli,

borgo contadino dell’Abruzzo. Al mattino di quel primo giorno

d’estate, mia madre Teodora, era al settimo mese di gravidanza

ed io mi dimenavo tranquillo nel suo pancione, perciò nulla

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lasciava presagire quello che sarebbe successo più tardi. Per

inquadrare meglio l’evento aggiungo che il borgo di Navelli era

semideserto quel giorno perché tutti i contadini, uomini e donne

erano nei campi a mietere il grano omai maturo. Ma mia madre

no, per fortuna era rimasta prudentemente a casa, infatti

successe quanto nessuno si sarebbe aspettato. La donna, verso

mezzogiorno, capì che io avevo deciso di venire al mondo quel

giorno anche se ero stato concepito solo sette mesi prima. Mi è

stato riferito che la povera donna fece solo quello che poteva

fare, si mise a urlare, facendo accorrere le poche donne del

vicinato che erano rimaste a casa. E furono quelle che si dettero

da fare, chiamarono la levatrice, come la chiamavano allora e si

misero all’opera. Malgrado l’improvvisazione però il parto andò

bene mentre i problemi veri vennero dopo. Siccome ero arrivato

totalmente inaspettato ed in quella casa contadina esisteva solo

l’essenziale, le volenterose donne presenti non riuscirono a

trovare un posto dove potermi adagiare. Non solo non c’era

nessun lettino preparato per me ma nulla era stato preparato per

accogliermi. Alla fine, mi sistemarono alla belle e meglio sul

ripiano di una macchina da cucire con la quale mia madre

confezionava gli indumenti al mio papà, una Singer per

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l’esattezza, macchina che da qualche parte nella mia vecchia

casa esiste ancora. Le civettuole e pettegole donne presenti al

parto osservarono subito che ero brutto, ed io non sono mai

riuscito a capire se sembravo così perché ero nato di sette mesi o

perché ero proprio brutto. Ma che importa, se la situazione era

quella, non mi sembra che io abbia incominciato la mia vita nel

migliore dei modi, anzi l’avevo incominciata nelle peggiori

condizioni possibili Ma pazienza, oramai esistevo e perciò

andiamo avanti. Dei miei primi anni di vita ricordo naturalmente

poco. I miei primi ricordi sono vaghi come è naturale che siano,

ricordo però confusamente un lettino di una stanza in cima alle

scale della mia vecchia abitazione. Ricordo i risvegli del mattino

quando ormai il sole era alto, ricordo il silenzio rotto solo dal

tranquillo e dolce razzolare delle galline nella strada sottostante.

Ricordo il viso di una donna bellissima. Per come li ricordo

erano risvegli meravigliosi, dolcissimi, pieni di gioia di vivere.

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MIA MADRE I MIEI NONNI E LE STREGHEMIA MADRE I MIEI NONNI E LE STREGHE

Ma mia madre era una donna onesta, determinata e coriacea, si

comportava però sempre con un pizzico di cinismo, badava

all’essenziale. Poiché credo che ne valga la pena, vi racconterò

brevemente la strana storia della sua vita. La donna aveva

certamente avuto una vita a dir poco difficile, come del resto

tutte le donne di allora, però alcuni degli episodi della sua vita

risultano fuori della norma anche per quei tempi. Ma ad onor del

vero ancora più fuori norma era mia nonna. Costei si chiamava

Anna Domenica, era molto religiosa e purtroppo nello stesso

tempo credeva anche alle streghe, che a quei tempi ce n’erano a

volontà. Quella brava donna aveva generato tanti figli, non ho

mai saputo con esattezza quanti, però mi è stato raccontato che

ogni volta che gliene nasceva uno lo lasciava nella culla solo ed

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incustodito per tutto il giorno. Il perché è presto detto. Essendo

molto povera, così come a quei tempi erano molti, lei era

costretta ad assentarsi per andare ad aiutare mio nonno nel duro

lavoro dei campi. Ma erano così poveri da ricavarne con molta

fatica, si e no, il minimo indispensabile per sopravvive. Erano

tanto poveri che non possedevano nulla al di fuori di un asinello,

di alcune galline e di un solo appezzamento di terreno che si

trovava per di più in una zona lontanissima dal paese chiamata

pian cisterna situata nei possedimenti di quel paese limitrofo al

loro che si chiama Capestrano. Quell’appezzamento si trova in

una valle in fondo ad una zona scoscesa, accessibile solo a piedi

e tutt’al più dagli asinelli. Era tutto quello che avevano, in quel

terreno avevano creato e vi coltivavano un uliveto, un vigneto ed

un po’ di grano. Per raggiungerlo però si dovevano mettere in

cammino al mattino di buon’ora, affrontando un viaggio a piedi

che durava ore e non potevano quindi portare i neonati con loro.

Era per questa ragione che erano costretti ad abbandonarli a casa

per tutto il giorno per riprenderne per così dire la cura solo alla

sera tardi quando tornavano sfiniti per il lavoro ed il lungo

viaggio. Detto questo, non è difficile capire i motivi per i quali i

loro figlioletti morirono tutti uno dopo l’altro, tranne l’ultimo

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ossia mia madre, la quale, chissà per quale miracolo, si salvò. La

cosa assurda è che i miei nonni, data la loro estrema ignoranza,

soggiogati da terrificanti superstizioni, non si sentivano

colpevoli di nulla anzi si ritenevano semplicemente vittime. Essi

erano convinti che la colpa delle loro tragedie fosse tutta da

addebitare alle streghe cattive, le quali, sempre secondo quello

che loro credevano, avevano a quei tempi la brutta abitudine di

rubare la vita ai bambini! È una storia di altri tempi e perciò ve

l’ho voluta raccontare ed io non vorrei fare ulteriori commenti,

ognuno se vuole aggiunga i suoi. Non posso però fare a meno di

constatare che quel comportamento è una chiara prova di quali

possono essere le conseguenze dell’ignoranza e delle

superstizioni insieme.

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IL MIO PAESE FRA LEGGENDA E REALTÀIL MIO PAESE FRA LEGGENDA E REALTÀ

Nel mio racconto poteva mancare la descrizione del mio paese?

Certo che no . Eccola. Il mio paese è conosciuto soprattutto

perché è uno dei pochi luoghi in Italia dove si coltiva il fiore di

croco, ossia lo zafferano, fiore bello e delicato, dalla vita

effimera ma che ha una storia ed il cui derivato è molto

apprezzato in cucina. Il borgo è di origine medioevale e si

avvolge a forma di superficie conica intorno al fronte di una

collina ad una altitudine fra i 700 e i 750 metri dal livello del

mare. È facilmente riconoscibile anche da lontano, mostra alla

sua sommità un grande maestoso palazzo simile ad un castello

medioevale che è a struttura rettangolare con tanto di cortile

interno, in tutto simile a quello di tanti altri castelli

settecenteschi. Nel bel mezzo del cortile esiste la solita cisterna

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usata nel passato per la raccolta e l’uso delle acque piovane. I

paesani chiamano questa costruzione semplicemente Il Palazzo.

La storia di questo antico paese contadino è una storia poco

certificata e perciò lascia spazio a miti, leggende e dicerie. La

prima cosa che incuriosisce è il suo stesso nome di Navelli nome

che evoca nella mente l’idea delle navi e quindi del mare. Tanto

più che nello stemma comunale del paese vi è raffigurata

proprio una barca, con l’aggiunta della scritta Navellorum, che

induce a pensare che l’origine del borgo è antica e risale forse al

tempo in cui come lingua si usava il latino. Questo riferimento

alla parola Navellorum significa forse quelli delle navi, oppure

“quelli dei navelli” ossia delle piccole barche. Questa

ovviamente è però solo una mia interpretazione cervellotica

priva di prove ma abbastanza suggestiva. Come già detto

ribadisco che non esistono prove di ipotetici navelli e null’altro

o poco si sa in proposito. Il mistero comunque rimane perché ci

sono altri indizi tutti da interpretare, è vero che in realtà

l’insediamento è situato in un altipiano la cui altitudine sul

livello del mare supera i settecento metri ma è vero anche che

uno dei quartieri del borgo ancora oggi viene chiamato le

spiagge grandi ed un altro più a monte prende invece il nome di

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le spiagge piccole, perché? Mistero. Una leggenda vuole che

nella piana che si estende davanti al paese fosse esistito in tempi

remoti un lago. Quel lago sarebbe stato poi prosciugato su

iniziativa di fantomatici frati i quali pare che fecero aprire un

canale che permise il deflusso a valle delle acque regalando il

suo prezioso alveo alla coltivazione contadina. Nei tempi della

mia fanciullezza nel mio paese natale la vita dei paesani era

molto più difficile e diversa da quella attuale, il paese durante il

giorno era quasi sempre deserto perché tutti i contadini erano nei

campi dediti al duro lavoro della terra, sembrava un paese

abbandonato da tutti e vi regnava dovunque un silenzio

profondo, impressionante, specialmente in estate. Nelle stradine

razzolavano tranquille solo le galline. Le rustiche abitazioni di

allora erano tutte in pietra, con le fondamenta semplicemente

poggiate sulle rocce della collina. Non esistevano fognature, le

strade le stradine e i vicoli erano solo dei camminamenti spesso

maleodoranti, a causa dei rifiuti organici che venivano

scaraventati giù nella strada da balconi e finestre senza troppi

riguardi per i malcapitati passanti. Poiché le strade non erano

pavimentate si camminava sulla breccia o sulla terra battuta e

ogni volta che pioveva quei camminamenti diventavano piccoli

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ruscelli e pantani fangosi. L’assetto sociale degli abitanti, era

quello tipico di una comunità contadina ma, pur essendo quasi

tutti contadini, erano in pochi quelli che erano proprietari

terrieri, la maggior parte di loro coltivava la terra a mezzadria o

era costretta a coltivare quella dei padroni. Per questo i più

facevano la fame perché non rimaneva loro altra possibilità se

non quella di adattarsi a coltivare in proprio solo piccoli

appezzamenti montani, poco fertili e di disagevole accesso. Per

di più, i padroni usavano verso di loro ogni tipo di prepotenza

approfittando del fatto che senza la loro terra quei poveracci

sarebbero veramente morti di fame. La razza padrona esisteva

allora come oggi e non aveva nessun riguardo per i loro

dipendenti. I braccianti iniziavano il loro lavoro al mattino

all’alba per terminarlo alla sera dopo il calar del sole, senza

soste, sotto il controllo continuo dei loro padroni. Per rendersi

conto di come funzionavano le cose basta pensare che i

possidenti del paese, all’ora del pranzo sfamavano i loro

braccianti con zuppe di ceci rossi, di quelle che i contadini, ogni

tanto, in previsione di lavori particolarmente impegnativi,

davano in pasto anche ad asini e cavalli per far aumentarne il

loro rendimento. Ai braccianti però i ceci rossi venivano serviti

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all’interno di particolari recipienti di legno, in gergo chiamati

schifi, ricavati da tronchi d’albero e opportunamente sagomati

per la bisogna. Le posate non c’erano oppure erano quelle che i

braccianti stessi si portavano dietro. Tanta era la loro fame che

chi non era svelto ad arraffare i ceci nello schifo rischiava di

rimanere senza pasto. Questa era la situazione in paese per quel

che riguarda la vita terrena dei paesani. Tutti però nel paese

erano devoti e la cura delle anime era naturalmente compito del

clero. Il clero era rappresentato da un arciprete ed un prete suo

assistente. Gli obblighi spirituali erano rigidi e venivano

controllati puntigliosamente. Dei due, l’arciprete era zoppo ma

possedeva la terra appartenente alla diocesi, il prete semplice

invece viveva di elemosine. La parrocchia, ossia l’arciprete,

possedeva la terra ed era perciò economicamente autonoma. E

ciò malgrado l’arciprete in chiesa era sempre minaccioso verso i

fedeli, ai quali prometteva le pene dell’inferno e pretendeva

obbedienza assoluta, la faceva anche lui da padrone. La

comunità in sostanza era del tutto autarchica perché si limitava a

consumare solo ciò che produceva, però non sempre riusciva a

sopperire ai bisogni più elementari. I figli delle famiglie più

povere non portavano scarpe ai piedi e camminavano scalzi. Le

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scarpe, per quelli che le portavano, le facevano su misura i due

calzolai del paese. Erano scarpe funzionali con l’uso che se ne

dovevano fare, erano scarponi da montanari abbondantemente

provvisti di chiodi sotto e zeppe sul davanti. Ma per sbarcare il

lunario i suddetti calzolai si adattavano a fare più spesso da

ciabattini. I due fabbri del paese invece si arrangiavano

mettendo i ferri negli zoccoli di asini e cavalli. I falegnami

costruivano qualche mobile del tipo di quelli dell’arte povera, i

sarti confezionavano vestiti su misura ed un paio di muratori

facevano il loro mestiere quando capitava. Stavo per trascurare

di menzionare il mulino e l’esistenza di un mugnaio. Questo

invece ne macinava di grano! Il suo mulino serviva anche le

comunità dei paesi limitrofi. Infine, a Natale entrava in funzione

anche un frantoio per la macina delle olive. Dalla spremitura di

queste si ricavava, così come ancora oggi si ricava, un tipo di

olio veramente eccezionale per qualità. Questo frantoio era

provvisto di una grossa ruota di pietra il cui motore era un asino

bendato che la faceva girare in tondo, e la ruota girando

schiacciava le olive e le preparava ad una successiva spremitura

che avveniva in speciali torchi manovrati a mano. La nostra

comunità era quindi, come già detto, a suo modo praticamente

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autarchica, perché era provvista di tutti gli strumenti per

utilizzare in loco quasi esclusivamente tutto quello di cui aveva

bisogno. Non c’erano negozi che vendevano il pane perché il

pane veniva ammassato in ogni casa dalle massaie e portato poi

a cuocere in un forni a legna. Ma in un paese autarchico non

potevano mancare neanche i macellai fai da te che vendevano la

carne degli animali che loro stessi ammazzavano, ne esistevano

un paio, ma la carne spesso mancava perché se ne consumava

poca ed era ritenuta un lusso. Quando c’era era quasi sempre

carne di pecore vecchie o di agnelli di stagione e solo raramente

di nostri vitelli. Per completare il quadro della struttura paesana

di allora aggiungo che esistevano nel paese due o tre piccole

botteghe, per la verità di scarsa utilità collettiva, che servivano

solo per l’acquisto di particolari prodotti, spesso aperte part-

time, a discrezione del bottegaio e spesso bisognava bussare per

accedervi. Che cosa vendevano? Vendevano il sale, le sigarette

anche sfuse, le famose popolari e nazionali, ma vendevano

anche tabacco da avvolgere, tabacco da naso, sarde, stoccafissi,

caramelle ed altre piccole cose. Alla parte amministrativa

provvedeva il municipio situato in cima al paese ed era diretto

da un rappresentante dello stato italiano nella persona del

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podestà, ma in pratica era gestito dal segretario comunale con

l’aiuto di una guardia municipale il tremendo Ottavio che faceva

anche il guardiano del territorio. Le novità erano rare, ecco

perché le poche notizie di pubblico interesse venivano

comunicate al popolo paesano da un banditore che si appostava

nei punti strategici del paese, suonava la sua trombetta e, a

squarciagola, urlava ai quattro venti le notizie del giorno,

quando c’erano. Non erano grandi notizie, erano di solito del

tipo: “è arrivato alla piazza San Pelino, ossia alla piazza di sotto,

il venditore di scarpe”, oppure” è arrivato il merciaio”, oppure

rendevano note le decisioni del podestà e cosi via. Il paese era

idealmente diviso in due quartieri che i paesani chiamavano il

quarto di sopra ed il quarto di sotto intendendo per quarto il

quartiere. C’era la guerra fra i due quartieri, guai se quelli di un

quartiere si cercavano la fidanzata nell’altro quartiere, di notte

volavano le pietre. Del resto l’illuminazione notturna allora era

scarsa, molte strade erano affogate nel buio, le altre erano

illuminate da lampade di debole potenza. Alla sera non molto

dopo il calar del sole dappertutto calava il silenzio assoluto, era

come se tutto il mondo fosse sprofondato nel buio della notte. Di

giorno comunque ognuno dei due quartieri poteva rivendicare il

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possesso della sua piazza, ovviamente chiamate piazza di sopra

quella a monte e piazza di sotto quella da basso. Nel bel mezzo

di quella di sotto esiste ancora una bella fontana di quelle che

dall’alto fanno lo schizzetto con tre distinte cannelle che versano

l’acqua in una vasca, intorno alla quale facevano e fanno ancora

l’ombra una serie di grossi platani. Per il resto del paese case

stalle e pagliai coesistevano in un unico agglomerato. Nelle

stalle gli ospiti più frequenti erano gli asini, a questi a volte

tenevano loro compagnia una vacca ed un maiale, a volte un

cavallo o un mulo, a volte c’erano anche le pecore e spesso

anche le galline. All’alba la sveglia agli abitanti veniva data dal

canto dei galli. A quei tempi, nelle abitazioni l’acqua corrente

non c’era, l’acqua potabile doveva quindi essere prelevata nelle

fontane pubbliche, esistenti nel paese in numero di due o tre.

Quelle fontanelle erano corredate di vasca per l’abbeveraggio di

asini, cavalli e mucche, e di un lavatoio dove le donne andavano

a lavare la biancheria. Quando in casa serviva dell’acqua erano

quasi sempre le giovani quelle addette a questo servizio, loro

servendosi di quel recipiente caratteristico di rame che è la

conga abruzzese, rifornivano la loro casa di acqua potabile. In

estate però anche nelle fontanelle l’acqua scarseggiava a causa

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dell’esaurimento delle sorgenti e si doveva perciò razionarla nel

senso che poteva essere erogata solo per tempi brevi prestabiliti

consentendo così al serbatoio comunale di accumulare i piccoli

flussi di acqua che ancora arrivavano dall’acquedotto. Quando

poi l’acqua mancava del tutto si era costretti a servirsi di secchi

e bidoni e recarsi presso i pochi pozzi esistenti nei dintorni

malgrado che in essi l’acqua fosse poco potabile, melmosa e

torbida. La mia abitazione si trovava in Via delle Spiagge

Grandi, era disposta con le stanze, una per piano ai lati di una

scala, a pianterreno si trovava la cucina e poi, su due livelli

diversi, due piccole stanze a destra e due a sinistra della scala. In

cucina facevano bella mostra di se le “conghe” con l’acqua

potabile che erano disposte su un ripiano in muratura a ridosso

di una parete, vi si prelevava l’acqua con un grosso mestolo di

rame e non si pensava neanche a proteggerle dalla polvere

coprendole. In inverno poi, visto che il riscaldamento domestico

non esisteva, l’acqua delle “conghe” durante la notte ghiacciava

e al mattino, per poterla usare bisognava aspettare che il

ghiaccio si sciogliesse. Naturalmente i servizi igienici in casa

non erano previsti non essendoci acqua corrente e neanche le

fognature. Ci servivamo tutti delle nostre stalle. Eppure, anche

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se ciò può sembrare strano, c’è da dire che malgrado tutto non vi

era inquinamento né dell’aria e neanche del suolo così come

accade oggi quasi dappertutto. L’aria era pulita, si respirava il

profumo della campagna e, specialmente a primavera, quello dei

fiori selvatici o quello del fieno, mentre in autunno prevaleva il

profumo del mosto. Non esisteva neanche il problema dello

smaltimento dei rifiuti perché questi non c’erano, a parte quelli

di natura organica provenienti dalle stalle che comunque erano

usati per concimare i campi. La plastica allora non esisteva

ancora. Le relazioni sociali erano caratterizzate da rispetto,

cordialità ed amicizia e c’era fra i contadini grande solidarietà.

Per chiarire meglio basta ricordare che ’accesso all’interno delle

abitazioni era praticamente libero per tutti perché nessuno

pensava, almeno durante il giorno, di chiudere con la chiave la

porta di casa. Questo la dice lunga sulla natura semplice e

solidale di quella comunità contadina.Qualche furfante però

c’era anche a quei tempi.

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LA MIA FANCIULLEZZALA MIA FANCIULLEZZA

I miei ricordi di bambino risalgono a quando all’età di tre anni,

mi recavo tutti le mattine all’asilo gestito dalle suore situato

nella parte alta del mio paese.. Non mi accompagnava nessuno,

mi ci recavo da solo con il cestino in mano. Mia madre mi

faceva indossare un grembiulino bianco, mi preparava il cestino

con gli ingredienti per il pranzo e spesso ci metteva una scodella

di piselli raccolti nell’orto. Ma per me i piselli erano un

problema, non erano graditi al mio palato, ciò malgrado lei nel

cestino ce li metteva lo stesso perché diceva che io dovevo

imparare a mangiare di tutto. Ero piccolo, però avevo già capito

che con mia madre non serviva a nulla discutere. Però se lei era

testarda io lo ero ancora di più perché facevo finta di niente,

buttavo via i piselli e mangiavo solo quello che rimaneva nel

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cestino. Il problema dei piselli però durò poco perché cambiai

asilo. Da Navelli io mia madre e mio fratello ci trasferimmo

nella città dell’Aquila e lì seguitai ad andare all’asilo del posto.

Dopo l’asilo, all’età di sei anni, frequentai i primi tre anni di

scuola elementare in quella città, perché nell’ottobre di ogni

anno ci trasferivamo lì per tutta la durata dell’anno scolastico

allo scopo di permettere a mio fratello maggiore Aurelio di

proseguire gli studi nelle scuole superiori. Andavamo tutti ad

eccezione di mio padre che rimaneva al paese per occuparsi

della coltivazione dei campi. Ed ero all’Aquila all’epoca di

quelle “patriottiche” manifestazioni studentesche a favore della

seconda guerra mondiale. Ero stupefatto, in realtà non capivo

perché. Quelle gazzarre durarono per diversi giorni e poi la

guerra invocata ci fu davvero. Io e la mia famiglia però,

infischiandocene della guerra, alla fine di ogni anno scolastico

tornavamo a Navelli per restarci sino alla fine dell’estate. Queste

migrazioni in città durarono fino a quando mio fratello non finì

gli studi nel liceo, dopo di che, stipati come sardine insieme ad

altri nel taxi di Spoken, così come veniva soprannominato il

tassista, vi tornammo per sempre. Terminai la scuola elementare

a Navelli e lì conseguii la licenza elementare. Subito dopo però

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Page 31: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

la mia vita cambiò bruscamente perché mentre prima la mattina

andavo a scuola ed ero costretto a dedicarmi al pesante e

sgradito lavoro dei campi solo nel pomeriggio dopo invece il

mio impegno divenne totale. Ricordo che finché andai a scuola

il sabato mattina l lezioni erano sospese, al loro posto c’era

l’adunata fascista nella piazza di sopra del paese. Guai a

mancare! Vestiti con l’uniforme da balilla noi ragazzi eravamo

attesi tutti in piazza, per seguire gli addestramenti alla fierezza

fascista. Dopo essere stati balilla sino all’ultimo anno delle

elementari, ci preparavano alla guerra come avanguardisti. La

divisa era diversa, più simile a quella dei militari veri, con i

pantaloni alla zuava e fasce alle gambe e si fingeva di insegnarci

l’uso delle armi facendoci giocare con un vecchio fucile. Il tutto

era accompagnato da inni fascisti che erano tutto un programma

e recitavano fra l’altro: “chi se ne frega di morir” , oppure “chi

se ne frega della brutta morte” . Ma che bel futuro

prospettavano a noi giovani! Quelli però erano i tempi del

“credere obbedire combattere” Poi, alla fine dei cori si

chiudeva allegramente tutti insieme con un saluto fascista e con

un: “eia eia alalà” e così finiva l’adunata.

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Page 32: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

DOPO LA SCUOLA LA SCHIAVITÙDOPO LA SCUOLA LA SCHIAVITÙ

Con il conseguimento della licenza elementare finì la frequenza

della scuola, finirono le adunate fasciste ed invece si

appesantirono bruscamente e di molto i miei molteplici obblighi

lavorativi. Mio padre riteneva che dopo la suola io dovessi “full

time” dedicarmi all’agricoltura. Anche se il lavoro della terra

non mi piaceva ero costretto ad obbedire ai suoi ordini, mi

portava in campagna con se tutti i giorni e mi dava le direttive

circa il lavoro che dovevo fare, non potevo sottrarmi pena le

percosse. Le attività alle quali ero costretto erano svariate a

seconda delle esigenze del momento, dovetti fare il pastore di

pecore, lo stalliere, il bifolco, lo zappatore, il mietitore di grano,

la bestia da soma e tante altre cose senza peraltro acquisire

nessun merito.. Per di più in famiglia non riscontravo equità di

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Page 33: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

trattamento fra me e mio fratello maggiore. I miei genitori

cinicamente usavano per noi pesi e misure diverse. Aurelio, mio

fratello maggiore, malgrado avesse dieci anni più di me, non lo

si poteva “sciupare” facendogli fare il contadino. Lui era

l’intellettuale di famiglia perciò, a lui accordavano tanti privilegi

ed a me no . Io venivo considerato ed utilizzato solo come

strumento di lavoro e bestia da soma, senza scrupoli, mi usavano

anche e soprattutto in molte attività fisicamente molto pesanti

che mio padre non si sentiva di fare e le programmava perciò

per me anche se erano fuori misura per un adolescente. Ma,

come se tutto ciò non bastasse, la cosa ancora più grave era che i

miei genitori non avevano nessun rispetto per me come persona,

mi consideravano semplicemente un automa senza anima, un

oggetto, una provvidenziale macchina da lavoro al loro servizio.

Per questo motivo furono loro che uccisero il mio “io”. Come

poteva non essere così se mi costringevano a vestire come uno

straccione in particolare con pantaloni rattoppati e logori.

Indossavo sempre un abbigliamento da lavoro e mai un

abbigliamento decente ma, loro non se ne preoccupavano

affatto, se ne infischiavano. Era mia madre che mi costringeva a

vestire in quel modo poiché era molto avara e non era disposta a

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Page 34: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

spendere qualche lira per un vestiario più dignitoso. Io mi

vergognavo di mostrarmi agli occhi della gente in quelle

condizioni. Mi sentivo offeso nella mia dignità di ragazzo..

Questo fatto mi spinse gradualmente a nascondermi, a stare da

parte, da solo, sempre più a margine rispetto ai miei coetanei, mi

sentivo profondamente umiliato. Gli effetti di quello stato di

cose hanno pesato molto nello sviluppo della mia vita sociale

futura. Dulcis in fundo, come se tutto ciò non bastasse spesso mi

picchiavano pure e, ogni volta che ciò accadeva, io tentavo di

salvarmi correndo precipitosamente a rinchiudermi a chiave in

camera mia. Però serviva a poco perché la salvezza era solo

temporanea. Ricordo che smisero di picchiarmi solo quando

incominciai a ribellarmi ed a scaraventare piatti e bicchieri

contro i muri della cucina. Fu la vendetta della pecora.

Ovviamente, stando così le cose non avevo né la forza né i

mezzi per uscire da una simile umiliante situazione di schiavo.

Per me non c’era alternativa, privo di personalità, morto dentro,

mi comportavo come un automa ubbidendo ai loro ordini. Le

conseguenze però sono state terribili al punto che quelli di allora

sono rimasti fra i ricordi più terrificanti della mi vita.

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Page 35: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

IL SECOLO DELL’ERA FASCISTAIL SECOLO DELL’ERA FASCISTA

Nei tempi in cui la mia vita familiare era quella appena descritta

eravamo in piena era fascista e a “vegliare” sulla sorti della

nazione c’era il Duce. Ci era stato mandato direttamente dalla

divina provvidenza con la marcia su Roma delle camicie nere

per la gloria sua per prima e poi per quella della nazione. Forte

dei suoi “sei milioni di baionette”, si era messo in mente di

conquistare il mondo intero in combutta con quel pazzo di

Hitler. Servendosi della milizia fascista soggiogò il popolo

ignorante di allora e ne divenne il padrone assoluto..

Ovviamente odiava gli inglesi che erano suoi nemici, c’era

scritto: “Dio stramaledica gli inglesi” su di un distintivo di

regime. Erano quelli i tempi in cui a scuola agli alunni si

distribuivano gratis giornalini a fumetti nei quali si derideva

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Page 36: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

l’inglese Churcillone.. I mezzi di comunicazione di massa a quei

tempi erano quasi inesistenti, da noi esisteva solo la radio. Del

resto i nostri contadini lavoravano nei campi durante il giorno e

non avevano certamente il tempo per distrarsi, perciò venivano

informati sull’andamento della guerra alla sera, nel dopolavoro

del paese da gracchianti microfoni della radio di regime istallati

per la bisogna sui balconi del dopolavoro sovrastanti la piazza

S.Pelino. Le trasmissioni erano sempre precedute dagli squilli di

una marcia militare e proseguivano poi con roboanti proclami

accompagnati da notizie di guerra ad uso degli stolti. Notizie

alternative però non ce n’erano se si escludono quelle

“clandestine” trasmesse da radio Londra proibite dal regime e

che solo coraggiosi cospiratori potevano ascoltare di nascosto.

La guerra naturalmente andava benissimo, le perdite erano

sempre solo quelle del nemico, noi vincevamo sempre ed il

nemico invece, era sempre allo sbando e subiva perdite su

perdite sotto i colpi delle “truppe dell’Asse” I contadini del

paese però “scarpe dure ma cervello fine” non si facevano

prendere in giro e mugugnavano. Non credevano alla sempre

imminente vittoria dell’asse “Roma Berlino Tuttavia poiché

eravamo in inverno e l’inverno si sa è una cattiva stagione, i

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Page 37: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

fascisti dicevano che tutto era rimandato alla primavera. E

perciò cantavano, cantavano: “a primavera viene il bello” e

forza con le canzonette di regime come quella il cui ritornello

suonava così: “vincere e vinceremo, in cielo in terra e in mare, è

la parola d’ordine, dura ed estrema volontà” come se bastasse

la volontà per vincere una guerra. In realtà più le cose andavano

male e più martellante si fece la campagna propagandistica per

mascherare i fallimenti. Ma oltre alla pubblicità dinamica c’era

quella murale, “Credere Obbedire Combattere”, erano le tre

parole chiave della propaganda di regime. E non parliamo

dell’onnipresente “fotocopia”del capoccione del condottiero

“Benito imperatore” con tanto di elmetto.. Questo ed altro era

costretto a sopportare l’ingenuo e maltrattato popolo italiano al

quale non veniva permessa né libertà di pensiero né tanto meno

quella di espressione. Il regime fascista non perdonava il

dissenso e per eliminarlo utilizzava gli spioni del regime che

osservavano e riferivano e le malelingue venivano punite. Tutti

li temevano. Eravamo rassegnati. A volte però le cose di questo

nostro mondo cambiano all’improvviso e così avvenne allora

quando ormai non avevamo più nessuna speranza di

cambiamento.

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Page 38: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LA FINE DI UNA DITTATURA

Ero a lavorare nell’aia quel giorno in cui ci arrivarono i primi

echi degli avvenimenti diffusi dai notiziari della radio del

dopolavoro, stentammo a credere alle nostre orecchie però

smettemmo di lavorare per esultare e chiedere conferma di

quanto si diceva. Fra sbalorditi ed eccitati, apprendemmo quello

che non avremmo mai osato immaginare. Era stato spodestato

addirittura il Duce e questo fatto segnava la fine dell’era

fascista. Ma chi lo avrebbe mai sperato! Per una volta tanto, noi

appartenenti al popolo contadino di allora, esultammo di cuore.

Cacciato Mussolini prese il suo posto il generale Badoglio che

ebbe l’incarico di presiedere un governo provvisorio. Ma, dopo

l’esultanza del primo momento subentrò in noi la paura perché

quello sconvolgimento della vita pubblica ebbe conseguenze

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Page 39: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

drammatiche e determinò poi una vera e propria catastrofe

nazionale. Il fatto più sconvolgente di tutti fu la firma di un

armistizio con gli anglo americani ed il capovolgimento delle

alleanze. I tedeschi diventavano nostri nemici mentre gli anglo

americani divennero di botto i nostri alleati. Nella nuova

situazione ci si doveva sbarazzare di quell’incomodo di

Mussolini e che cose se ne fece? Fu arrestato e deportato in

fretta e furia a respirare aria fresca sul Gran Sasso d’Italia, nella

speranza di averlo così definitivamente messo da parte. Ma non

andò proprio così. I servizi segreti tedeschi vennero a sapere

dov’era stato deportato e riuscirono a riprenderselo, un po’

stralunato ma ancora vivo e vegeto.. Se lo portarono via a bordo

di un piccolo aereo. Questa fu l’inizio dell’odissea del Duce ma

il Re come si comportò il Re? E già, il Re. Perché a quei tempi

l’Italia era ancora una nazione monarchica, vi regnava Sua

Maestà Vittorio Emanuele III, chiamato dal popolo

semplicemente Pippetto a causa sia della sua bassa statura che

dell’ineffabile inconsistenza del suo essere.. Ebbene, Pippetto

Re, liberatosi del Duce, avrebbe avuto il dovere di farsi coraggio

e di prendere la situazione nelle sue mani. Ma Sua Maestà non

lo ebbe il coraggio anzi nella speranza di salvare il salvabile,

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Page 40: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

pensò bene di tirarsi fuori dai guai squagliandosela dall’Italia

alla chetichella. Decise di attendere all’estero che maturassero i

tempi che gli consentissero di riprendere il suo ruolo di monarca

senza problemi. Perciò, quatto, quatto si fece portare nel porto di

Ortona in Abruzzo e lì si imbarcò su di una nave che lo portò in

esilio, o se preferite in vacanza, in Egitto, ospite dell’allora suo

collega Re Faruk. E così il paese Italia orfano sia del Duce che

del Re divenne simile ad un cane cieco. Purtroppo questi eventi

straordinari furono solo l’inizio delle future rovinose tempeste.

Al popolo italiano non rimase altro che annusare l’aria in attesa

di novità. Non avevamo capito ancora che era la guerra quella

che stava per dilagare all’interno di tutta la nazione.. Purtroppo,

come vedremo, quel che stava per accadere si rivelò una vera

tragedia con morti e distruzioni anche in casa nostra. Noi

abituati alla calma ed alla tranquillità di un piccolo paese

contadino di montagna, non vi eravamo preparati, perciò

disorientati e confusi fummo costretti a subire ogni sorta di

malversazione.

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Page 41: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

L’INVASIONE TEDESCAL’INVASIONE TEDESCA

Tutto incominciò nel giorno in cui vedemmo transitare lungo la

strada provinciale che costeggia la parte bassa del nostro paese

una strana carovana di camion militari, mai visti prima dalle

nostre parti.. Non capimmo subito di che cosa si trattava però

dopo il ripetersi di quell’avvenimento finalmente scoprimmo la

che si aggiravano dalle nostre parti le truppe dell’esercito

tedesco. Questa prima scoperta però non bastò per farci capire

perché. Non capivamo per quale motivo su quei camion c’erano

i soldati tedeschi e non i nostri. La verità però non tardò ad

arrivare e si trattò di una verità amara. L’esercito italiano non

esisteva più. Che cosa era successo? I comandanti dell’esercito

italiano, dopo il capovolgimento delle alleanze, privi di direttive

chiare entrarono in uno stato confusionale e non seppero che

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Page 42: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

pesci pigliare, perciò fecero così come aveva fatto Pippetto, si

eclissarono, consegnando di fatto l’Italia in mano ai tedeschi. A

loro volta il nostro esercito, senza comandanti, abbandonato al

suo destino, non ebbe altra scelta, che quella di sciogliersi.

Abbandonarono vettovaglie armi e munizioni e si dettero alla

fuga in un fuggi, fuggi generale e se ne tornarono nelle loro

case, disertarono in massa. Fu quella una delle più ingloriose

disfatte della recente storia del popolo italiano.. Dopo di che

accadde quello che era logico che accadesse. Evaporato

l’esercito italiano rimase padrone della piazza l’esercito tedesco.

Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che, a causa di ciò,

avremmo dovuto subire le sevizie dei soldati di Hitler. Con

tristezza e paure fummo costretti ad affrontare uno dei periodi

più incerti e pericolosi della nostra vita. L’unica speranza che ci

rimaneva era che arrivassero al più presto gli anglo-americani a

liberarci dall’occupazione tedesca. Ma le loro truppe, che erano

sbarcate in Sicilia, stavano risalendo la penisola però la loro

avanzata fu lenta e difficile e perciò non arrivavano mai. Così,

passa oggi che viene domani, perdemmo anche quella speranza.

L’avanzata alleata lungo la penisola rallentò a causa della forte

resistenza dell’esercito tedesco, che con il passare dei giorni si

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Page 43: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

era sempre più riorganizzato, anzi alla fine, il fronte di battaglia

si stabilizzò nei pressi di Cassino. Furono i cannoni dell’armata

tedesca ad inchiodare gli alleati a Cassino per lungo tempo. E si

che lì le provarono tutte ma non riuscirono a passare. Disperati,

ebbero addirittura la bella idea, con uno lo stile di guerra

squisitamente americano che prevede la tecnica ancora oggi in

uso dal loro esercito del distruggi e terrorizza, di distruggere sia

la città di Cassino che la basilica benedettina di Montecassino.

Ma neanche questo servì a nulla perché la resistenza delle truppe

tedesche rimase sempre la stessa. Ed perciò intanto, mentre il

fronte era fermo a Cassino, a Navelli, retrovia del fronte, si

stabilirono i servizi di sussistenza tedesca occupando di fatto

tutta la parte bassa del paese utile ai loro scopi e vi istallarono

forni, cucine e quant’altro serviva per la confezione dei cibi

destinati alle truppe del fronte di Cassino. Noi abitanti del posto

diventammo loro sudditi. Alla sera avevamo l’obbligo di

rispettare il coprifuoco, di notte nessuno poteva più uscire di

casa. Ma i nostri sonni non erano tranquilli, spesso eravamo

svegliati di soprassalto dai boati delle bombe sganciate dagli

aerei inglesi in ricognizione notturna sul nostro territorio, sulla

statale 17 e sulla provinciale per Capestrano. Erano le strade

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Page 44: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

lungo le quali transitavano, in un continuo viavai notturno i

convogli dell’esercito tedesco diretti al fronte. Ma avveniva la

stessa cosa anche di giorno, i caccia inglesi arrivavano

all’improvviso a tutte le ore, perlustravano le strade e

distruggevano quei convogli nemici che vi si avventuravano di

giorno. Di notte invece; quei candelotti luminosi che gli aerei

alleati sparavano nel cielo per illuminare il territorio sottostante

sembravano fuochi di artificio.. Di solito però il buio della notte

era profondo ed era reso omogeneo anche nei centri abitati

perché vigeva l’obbligo del coprifuoco ed era obbligatorio per

tutti il totale rispetto dell’oscuramento notturno. Per di più, noi

non potevamo immaginare che anche la struttura del territorio

intorno al nostro paese avesse per i tedeschi una valenza

strategica. Ce ne accorgemmo solo dopo che arrivarono da noi

dei reparti militari della Repubblica Italiana di Salò, i cosiddetti

“repubblichini”, agli ordini dei tedeschi. Accadeva che, siccome

le truppe tedesche combattenti, attestate sul fronte di Cassino,

promettevano di rimanerci a lungo, gli strateghi di guerra

tedeschi ritennero di avere a disposizione tutto il tempo

necessario per realizzare a scopo preventivo una linea fortificata

di difesa nel nostro territorio estesa fra la chiesetta di montagna

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Page 45: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

di S. Eugenio ed il territorio di Civita Retenga. Naturalmente la

manovalanza necessaria per allestire quelle trincee fortificate di

montagna era affidata ai repubblichini ecco perché erano

arrivati. Erano loro che muniti delle necessarie attrezzature da

lavoro scavavano e fortificavano quelle trincee. Per nostra

fortuna quella linea di resistenza di riserva non entrò mai in

funzione perché gli eventi poi si svolsero in maniera diversa dal

previsto. Al momento però nel paese eravamo angosciati e

vivevamo con il fiato sospeso a causa della pesante atmosfera di

guerra che ci opprimeva nel timore di una futura e possibile

catastrofe che da un giorno all’altro avrebbe potuto abbattersi su

di noi. Nel frattempo per noi il pericolo maggiore era costituito

dagli aerei alleati in ricognizione che sganciavano bombe qua e

là e mitragliavano i convogli che sulle strade si muovevano di

giorno. Ci convincemmo che nulla era dato per scontato tanto

più perché, un brutto giorno, a rafforzare i nostri tormenti e le

nostre paure, fummo testimoni di una vera e cruenta battaglia fra

aerei inglesi e la contraerea tedesca. Io, che allora ero un

ragazzo di dodici anni, ricordo benissimo la paura che provai dal

momento che quella battaglia si svolse fra cielo e terra proprio al

di sopra della mia testa. Gli artiglieri della contraerea tedesca

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Page 46: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

avevano piazzato le loro batterie mobili di contraerea leggera,

fornite di mitragliatrici a quattro canne, lungo il tratto di strada

provinciale che attraversa la parte bassa del nostro paese. Perciò,

quando arrivarono i caccia inglesi i quali non fecero fatica ad

individuarle ma quando si accinsero a mitragliarle, i tedeschi

furono più svelti di loro e colpirono in pieno il primo aereo che

picchiò su di loro. E così, l’aereo inglese, con grande angoscia

di noi paesani, precipitò sulla collina a ridosso dell’abitato e ci

rimise la vita quello sfortunato pilota che lo pilotava. Colti di

sorpresa e vista la malaparata, gli altri aerei della pattuglia

preferirono dileguarsi alla svelta. Quella fu la riprova del fatto

che ormai per noi non c’era più sicurezza e tutto poteva ancora

accadere in qualsiasi momento. Purtroppo la sussistenza tedesca,

rimase lì dov’era sino all’abbandono del fronte di Cassino da

parte delle loro truppe combattenti. Il pane che usciva da quei

forni consisteva in pagnotte scure e pesanti che a noi paesani

abituati al buon pane casereccio facevano storcere il naso.

Eravamo rassegnati, nessuno si sentiva al sicuro, nulla si poteva

fare per proteggersi dalla scelleratezza dei nostri invasori. Tanto

per citare qualche episodio che meglio ricordo mi torna in mente

la paura di quella volta quando i tedeschi requisirono le donne

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Page 47: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

del paese. Però, per fortuna, se le portarono nei loro capanni

semplicemente per sbucciare i noccioli di mandorle che

servivano per la confezione di dolci da inviare alle truppe del

fronte in occasione del Natale. Ma era forte la paura anche al

solo pensiero di chissà che cosa sarebbe successo se il fronte di

Cassino avesse ceduto. Il fatto è che quella linea di difesa di cui

ho già scritto prevedeva trincee fortificate sui monti, con a valle

campi minati, le cui mine ivi interrate, dopo la ritirata tedesca

uccisero comunque vacche e contadini del paese. Se il fronte si

fosse spostato da noi sarebbero stati guai seri. In previsione di

questo scenario i contadini del paese cercarono di correre ai

ripari accaparrandosi l’uso di tutte le grotte nascoste sparse nel

nostro territorio per trasferirvi in caso di necessità il loro

bestiame e le vettovaglie necessarie alla sopravvivenza per un

certo periodo di tempo. Ed a questo punto ricordo una buffa

preoccupazione dei contadini i quali temevano che gli asini che

avrebbero voluto nascondere in quelle grotte avrebbero potuto

ragliare facendo scoprire ai tedeschi il luogo dove erano nascosti

ed allora addio sicurezza! Ma intanto mentre i contadini

discutevano sul modo per non far ragliare gli asini i giorni

passavano e con il passare dei giorni arrivò il Natale ed arrivo

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Page 48: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

anche l’inverno, che manco a farlo apposta, fu un brutto inverno

con tanta neve. Quell’anno le nevicate furono particolarmente

frequenti ed abbondanti ed ostruirono di continuo le strade non

consentendo il transito ai convogli militari tedeschi. Ed allora,

questa volta fu la volta degli uomini validi, i tedeschi li

requisirono e muniti di pale e li portarono a spalare la neve sulle

strade. Il pericolo era evidente perché siccome tali operazioni

avvenivano di giorno gli inermi spalatori di neve non potevano

evitare di trovarsi costantemente esposti al tiro degli aerei alleati

che sicuramente come al solito sarebbero arrivati..Ed arrivarono

infatti e l’unico modo per tentare di ripararsi da quegli attacchi

erano quelle file di buche a forma di “L”, profonde un paio di

metri, che loro stessi scavarono sui due lati delle strade. Quando

alla sera, gli spalatori tornavano a casa raccontavano che spesso

i piloti alleati si rendevano conto della loro incolpevole

situazione di pericolo e perciò, a volte, prima di mitragliare

facevano dei passaggi a bassa quota facendo capire agli spalatori

che dovevano scappare. Ma non è tutto perché intanto, nel

nostro borgo, la soldataglia tedesca spadroneggiava, era sempre

a caccia di maiali o di galline alle quali sparava per strada

incurante di chi avrebbe potuto trovarsi lungo la traiettoria dei

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Page 49: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

tiri dei loro fucili. Io stesso ricordo qualcosa del genere per

esperienza diretta. Comunque, dopo tanto tempo, accadde quello

che tutti aspettavamo, finalmente il fronte di Cassino franò a

causa dello sbarco degli alleati ad Anzio a nord di Cassino.

Allora i tedeschi che erano da noi non ebbero altra alternativa se

non quella di sloggiare alla svelta, se non l’avessero fatto

sarebbero stati tagliati fuori dalle vie di fuga. Quindi non ebbero

scelta e furono costretti ad una precipitosa e disordinata ritirata.

Il contingente italiano repubblichino che non serviva più, fu

quello che sparì per prima, alla chetichella, sicuramente di notte

quando c’era il coprifuoco. Lo stesso fece per lo stesso motivo

anche la sussistenza tedesca, sparì dalla sera alla mattina.

Quando al canto del gallo il paese si svegliò si accorse che i

tedeschi non c’erano più. Si può quindi facilmente immaginare

la nostra gioia che però durò poco perché a rovinarci la festa

furono gli eventi in procinto di verificarsi. Avevamo fatto i conti

senza l’oste ed infatti dovemmo far fronte ad uno dei fenomeni

più pericolosi di una guerra, la ritirata dopo una disfatta. Vi

posso assicurare, per esperienza diretta, che non c’è cosa

peggiore di quella di essere investiti dal una ritirata incontrollata

di un esercito in rotta. Purtroppo il flusso disordinato delle

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truppe di Hitler in fuga, provenienti da Cassino, durò diversi

giorni, e per diversi giorni le soldataglie tedesche in fuga

transitarono e sostarono da noi. Arrivavano sempre di notte, non

si sa con quali mezzi, e la mattina ci li ritrovavamo fra i piedi. Si

trattava sempre di una soldataglia abbandonata a se stessa, senza

responsabili del comando ed ogni gruppo si gestiva la ritirata a

modo suo. Erano soldati visibilmente stanchi, disorientati,

sporchi, abbrutiti da una lunga permanenza al fronte, abituati ad

uccidere senza pensarci due volte. Dal loro modo di comportarsi

si capiva che erano molto pericolosi e per di più senza propri

mezzi di trasporto. Avevano fretta, si fermavano da noi un solo

giorno, il tempo necessario per riposarsi e rifocillarsi con quello

che trovavano con le loro razzie e poi alla sera ripartivano con

mezzi di fortuna requisiti sul posto. Ma il particolare che,

indelebile mi è rimasto scolpito nella mente, è il ricordo di

quando, in uno di quei giorni di caos, io e mio nonno

rischiammo davvero di rimetterci la vita. Ve lo racconto. Al

mattino di quel giorno, noi due eravamo a sornione presidio

della nostra cantina, ne avevamo spalancata la porta rendendola

accessibile a tutti perché i soldati tedeschi, se trovavano delle

porte chiuse, le forzavano e facevano razzia di quello che

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Page 51: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

trovavano. Noi, per evitare questo pericolo, decidemmo di

tenere la porta della cantina aperta perché fosse chiaro a chi

passava fuori che non c’era nulla da rubare. In realtà non era

proprio così, l’inganno c’era. Infatti la cantina aveva un vano

sotterraneo al quale si accedeva da una botola situata subito a

fianco della porta d’ingresso. Il problema era che in quel

sotterraneo tutto il vicinato aveva nascosto qualcosa da sottrarre

alle ruberie tedesche ed inoltre vi si trovavano anche delle botti

piene di buon vino. Il compito di mio nonno e mio era proprio

quello di fare in modo che i tedeschi non se ne accorgessero. Per

nascondere alla vista la botola di accesso al sotterraneo vi

avevamo sistemato sopra una catasta di legna. Al piano terra

c’era invece un vano in cui troneggiava un torchio per la

spremitura delle uve. Nello stesso piano, ma dietro al vano del

torchio, vi era un altro vano dove c’era una vasca per la

pigiatura delle uve ed un pozzetto per la raccolta del mosto. E

dov’era il trucco? Il trucco era rappresentato da una botte piena

di vino adulterato, posta da noi ad arte, nell’interno di quella

vasca, a copertura delle botti buone nascoste nel sotterraneo.

Pensavamo che se era vero che la nostra era una cantina doveva

pur avere, da qualche parte, una botte di vino. Entrò un soldato

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Page 52: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

tedesco, vide la botte del vino adulterato, e malgrado che quel

vino facesse schifo al palato, ne tracannò non si sa quanto, poi

ubriaco fradicio sprofondò malamente nel pozzetto per la

raccolta del mosto. Ma quel pozzetto, alto un paio di metri, era

in buona parte pieno di acqua. Quell’acqua era per noi una

riserva idrica di sicurezza da usare nel caso in cui i guastatori

tedeschi, che in quei giorni erano molto attivi, avessero distrutto

anche il nostro acquedotto. Quel timore era giustificato dal fatto

che i guastatori stavano già abbattendo sistematicamente tutti i

tralicci delle linee elettriche e stavano danneggiando anche ponti

e strade ed era perciò prevedibile che avessero danneggiato

anche l’acquedotto.Vi lascio immaginare in che modo quel

soldato ubriaco e semiaffogato si mise a gridare aiuto. I suoi

commilitoni che stazionavano nella strada lo udirono e credendo

che fosse stato aggredito ci puntarono le armi contro pronti a

spararci. Fortuna volle che il soldato incidentato, onestamente,

riuscì a fugare l’equivoco dichiarando subito di essere caduto

nel pozzo da solo, senza essere stato, per così per dire, aiutato da

noi. E fu così che io e mio nonno ci salvammo la vita .

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Page 53: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

IL NONNO SEBASTIANO IL NONNO SEBASTIANO

Mio nonno si chiamava Sebastiano ma nel paese lo chiamavano

Biano. Io gli ero molto affezionato lui era l’unico nonno che mi

era rimasto visto che i nonni paterni erano morti entrambi

quando io ero ancora troppo piccolo per ricordare di loro

qualcosa di significativo. Biano invece era un vecchietto arzillo,

dalla chioma tutta bianca, di statura medio - bassa, di sana

costituzione ed aveva una formidabile memoria. Per me lui era il

libro delle favole perché non perdeva occasione per raccontarmi

qualcosa della sua vita e delle sue conoscenze. Mi raccontava

cose che sono rimaste impresse nella mia mente come per

esempio quella di quando in gioventù, durante la stagione estiva,

partiva dal suo paese insieme ad altri contadini ed insieme

andavano a mietere il grano nei Castelli Romani. Una specie di

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Page 54: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

transumanza umana del penultimo secolo. Dopo un lungo

cammino attraverso i monti arrivavano nei pressi Roma, in quel

di Marino, per offrirsi come mietitori di grano con la speranza di

potersene, alla fine, tornare a casa con qualche soldo per la

famiglia. Per capire quei viaggi della speranza occorre sapere

che erano pochissimi ai suoi tempi i contadini che possedevano

la terra, quasi totale appannaggio di poche famiglie benestanti.

Poiché per arrivare a Marino ci volevano più giorni di cammino

a piedi attraverso le montagne, si portavano appresso, insieme ai

loro pochi bagagli, nelle proprie bisacce la farina di mais e le

pentole che usavano per cuocere la polenta, perché solo di quella

si nutrivano durante il loro lungo viaggio Durante le soste

all’aperto accendevano il fuoco, si preparavano la polenta e poi

tutti a dormire per terra, si riposavano fino all’alba del giorno

successivo. Il viaggio pare che durasse di solito sei o sette

giorni. Finita la mietitura facevano il percorso inverso, con

qualche soldo in tasca e, sempre a piedi, tornavano al paese. Mio

nonno però era curioso e in una delle sue transumanze trovò il

modo di deviare dal solito percorso di ritorno. Lui, malgrado il

suo umile stato, era un uomo pieno di interessi e di voglia di

conoscere, e per questo non volle perdere l’opportunità di

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Page 55: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

visitare la città di Roma ed in modo particolare la basilica di San

Pietro. In quella visita sicuramente si avvalse dell’aiuto di

qualche addetto alla basilica per ricavarne le informazioni più

interessati su parte del suo contenuto artistico perché era in

grado di raccontare a me storie e leggende relative a sculture e

pitture ivi contenute. Povero Ulisse dell’ottocento!

Evidentemente “nato non era per vivere come bruto ma per

seguir virtude e conoscenza”. Ciò malgrado la mancanza di

mezzi pecuniari lo costringeva a tornarsene in cima al paese a

casa sua dove lo aspettava la moglie.. La sua era una abitazione

da contadino il cui ingresso era adornato da un superbo

pergolato di ottima uva bianca. Era povera e spoglia la sua

abitazione, consisteva solo in una grande cucina con camino in

pietra, di quelli che al giorno d’oggi non esistono più, oltre alla

cucina c’era uno stanzino ed una camera con un letto i cui

sacconi, leggi materassi, erano ripieni con foglie secche di mais.

Oltre alla casa il mio povero nonno non possedeva altro che una

vigna ed un uliveto in quel di Capestrano, paese limitrofo a

quello di Navelli. Per chi avesse interesse a saperlo dirò che

Capestrano si chiama così perché in tempi antichi era il posto in

cui c’era un tribunale, un capestro per le esecuzioni capitali e la

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Page 56: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

casa del boia. La sua vigna si trovava però in un posto non solo

distante dal nostro paese ma anche di accesso disagevole, si

raggiungeva solo a piedi oppure a dorso d’asino. Recarvisi

equivaleva a fare un viaggio che durava circa un’ora di asino.

Mio nonno mi ci portava spesso in quel luogo, tutti e due

andavamo in groppa al suo asinello. Per tutta la durata del

tragitto lui tirava sempre fuori alla sua memoria qualcosa da

raccontarmi. Per me i suoi racconti erano favole, erano in parte

frutto di sue conoscenze dirette, in parte leggende provenienti da

racconti orali tramandatisi di padre in figlio per intere

generazioni. Quando lui apriva il libro di storia contenuto nella

sua mente tirava fuori di tutto, come per esempio la singolare

leggenda della peste. Secondo la versione di mio nonno tale

leggenda era il racconto di quando nel paese, nei tempi passati,

c’era stata la peste, però non ricordo se sapeva dire quando.

Comunque lui mi raccontava che l’epidemia decimò quasi tutta

la comunità, e che quando finì erano rimaste vive solo

venticinque persone. Lui ricordava persino quale risultò la

distribuzione dei superstiti nei vari vicoli del paese alla fine

dell’epidemia. Ma lui non li chiamava vicoli ma rue e ruette

diceva: tanti ne rimasero nella tale rua e tanti altri nella tale

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Page 57: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

ruetta. L’uso di questi nomi che non sono della lingua italiana

incuriosisce però forse erano entrati nel dialetto del posto

durante la presenza in quei luoghi di un esercito di soldati di

ventura. E mio nonno raccontava anche un particolare

raccapricciante riferito sempre al periodo della peste. Pare che,

mentre quella malattia dilagava, tutti fossero terrorizzati per la

gran paura di infettarsi a contatto degli ammalati e che perciò

nessuno si premurava di rimuovere i cadaveri. Gli infettati allora

furono costretti a risolvere il problema da soli. Quando

scoprivano di essere appestati si recavano in un sotterraneo della

chiesa dove era stata scavata una fossa comune, si sedevano su

una sedia ai bordi di tale fossa e una volta spirati vi cadevano

dentro automaticamente. Questa versione dei fatti ve la offro

proprio così come mi è stata riferita però per quanto assurda

possa sembrare potrebbe essere almeno in parte vera, soprattutto

perché nei sotterranei in questione di recente è stata rinvenuta

davvero una moltitudine di scheletri mummificati che solo ora

incominciano ad essere oggetto di indagine scientifica.

Comunque vero o falso che sia quella che ho fatto è la cronaca

di quello che mi raccontava mio nonno.

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Page 58: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

IL SOLDATO DI NAPOLEONEIL SOLDATO DI NAPOLEONE

Ma c’erano altre leggende conservate nel libro di storia di mio

nonno, quello contenuto nella sua memoria, perché raccontando

e raccontando a volte gli tornava in mente anche la storia di un

suo avo vissuto, pensate un po’, ai tempi di Napoleone e che

come soldato dell’esercito di Napoleone partecipò alla

campagna di Russia arrivando fino a Mosca.. Quel contadino di

cui non mi è dato sapere il nome, forse perché amava

l’avventura ed era stufo di fare una vita di stenti nel suo paese,

decise di emigrare e con la bisaccia piena di misere cose, lasciò

il paese e si recò a piedi a Roma. E lì come suo primo lavoro

fece la guardia notturna nella città e pare lo facesse con molto

impegno ed intelligenza. Ma non gli bastò perché un bel giorno

si arruolò nell’esercito di Napoleone Bonaparte e quando questi

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Page 59: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

decise di invadere la Russia se lo portò con il suo esercito.

Arrivò a Mosca e partecipato ai saccheggi ma dopo accadde

qualcosa per cui, o perché disertò, oppure perché l’esercito di

Napoleone se lo perse, rimase solo. Che cosa fece da disperso in

terra straniera non si sa. Quello che invece si è saputo dopo è

che non si scoraggiò e decise temerariamente di intraprendere

una lunga marcia, di ritorno nel suo paesello d’Abruzzo

certamente a tappe successive. Intenzione pazzesca a quei tempi

per chi sicuramente non aveva mezzi adeguati per farla. A volte

però la perseveranza aiuta anche se richiede tempi lunghi. Fatto

sta che “, il soldato di Napoleone” tornò nel suo paese e

sicuramente tornò a piedi o con mezzi i fortuna magari facendo

ogni volta piccole tappe. E quello sì che fu un bel viaggio, però

di sicuro c’è solo che ricomparve inaspettatamente nel suo paese

dopo diciassette anni da quando era partito. Il suo ritorno

equivalse ad un brutto scherzo per i suoi fratelli i quali dovettero

ridistribuirsi l’eredità già acquisita quando si erano persuasi che

lui fosse morto. Questi e tanti altri, che più non ricordo, erano i

racconti di mio nonno, ed ora si capisce meglio perché io lo

ritenevo il libro delle favole.

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Page 60: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LA FINE DELLA RITIRATA NAZISTA LA FINE DELLA RITIRATA NAZISTA

Chiusa la parentesi relativa a mio nonno, è ora che torni a

descrivere le conseguenze delle ultime fasi della ritirata tedesca.

Furono molti i soldati tedeschi in fuga che transitarono nelle

nostre strade e che si fermarono un solo giorno nel nostro paese.

Torno a ripetere che arrivavano per gruppi e che non avevano

organizzazione né leve di comando, che ogni gruppo si gestiva

la ritirata da solo, che arrivavano di notte e nessuno sapeva con

quali mezzi fossero arrivati, la sola cosa che era chiara era che

non avevano mezzi di trasporto propri e che perciò erano

costretti a reperire e servirsi di qualsiasi mezzo mobile che

trovavano in loco purché fosse utile a trasportare le loro cose. In

sostanza per poter proseguire la fuga senza abbandonare le loro

armi avevano bisogno di qualsiasi tipo di mezzo con le ruote.

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Page 61: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

Questo fu il motivo per cui bivaccavano da noi durante il giorno,

si rifocillavano con tutto quello che riuscivano a razziare e poi

requisivano carri agricoli, cavalli, asini, e loro padroni. Usavano

i padroni dei carri per caricare le loro cose e alla sera se li

portavano via come conducenti dei loro carri.

LA STORIA PARTIGIANA DI AURELIO E COMPAGNILA STORIA PARTIGIANA DI AURELIO E COMPAGNI

Precedendo nel tempo le soldataglie tedesche in fuga i soldati

della repubblica di Salò, erano scappati per tempo ed avevano

lasciato in un magazzino i loro normali attrezzi di lavoro. Li

trovarono lì in seguito i contadini del paese e se ne

appropriarono. Vi trovarono pale, picconi, seghe, mazze di ferro

ed altri attrezzi che erano stati usati come strumenti per lo scavo

e l’allestimento di quelle trincee scavate sulle montagne

circostanti delle quali abbiamo già detto. Anche se tutta quella

attrezzatura aveva un modesto valore ai nostri contadini

autarchici fece pur sempre comodo. Invece i repubblichini le

poche ed obsolete armi da guerra che avevano in dotazione,

qualche fucile, un po’ di munizioni ed una vecchia mitragliatrice

le sotterrarono nel cortile di una abitazione in Via del

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Page 62: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

Commercio numero 16 che, guarda caso, in seguito diventò la

mia nuova abitazione. Il caso volle che quelle armi diventassero

di lì a poco una fonte di molti guai per alcuni giovani del nostro

paese. Il perché è presto detto, qualcuno nel paese se ne accorse

e passò parola, alla fine la notizia si diffuse ed arrivò

all’orecchio di mio fratello, il partigiano Aurelio e dei suoi

amici, i quali sentendosi patrioti “in pectore” pensarono di

recuperarle, lucidarle, oliarle e poi utilizzarle in qualche modo.

Per fare che cosa? Per fare i partigiani no? E così si misero

all’opera. Progettarono un loro piano che prevedeva l’assalto, in

una notte buia, al primo trasporto tedesco isolato che fosse

capitato a tiro lungo la provinciale che da Capestrano porta a

Navelli. Lo progettarono l’assalto e lo fecero davvero. Ma non

ebbero successo e non potevano averlo perché a conti fatti

l’imboscata altro non fu se non una specie di arrembaggio

fallito. Nel dettaglio le cose andarono così: si appostarono a

ridosso della provinciale, non distante da Capestrano,

aspettarono sino all’arrivo del primo camion e, quando questo

arrivò a tiro, il capo partigiano Aurelio ordinò di fare fuoco! Ma

ahimè! Non ci si improvvisa guerriglieri su due piedi, quelle

armi erano obsolete e non potevano funzionare ma loro non lo

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Page 63: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

avevano capito. La mitragliatrice infatti riuscì a sparare un solo

colpo, poi si inceppò ed allora i nostri spericolati partigiani

fuggirono a rotta di collo giù per il pendio a valle del luogo dove

si erano appostati dileguandosi nella notte. La conseguenza fu

che un presidio tedesco di stanza a Navelli si insospettì e decise

di segnalare il pericolo ai loro commilitoni in transito su quella

strada con cartelli con su scritto: “Actung Banditen”. Eppure

neanche questo bastò a scoraggiare le attività partigiane di mio

fratello Aurelio e della sua combriccola. Questa era composta da

un gruppetto di cinque o sei persone che erano solite riunirsi alla

sera a casa di Aurelio in Via delle Spiagge Grandi per ascoltare

di nascosto “Radio Londra” e progettare altre azioni. Ricordo

benissimo quel rullo di tamburo e poi: ”Qui è radio Londra,

questa è la BBC”. Il regime fascista ne aveva proibito l’ascolto e

perciò loro la ascoltavano di nascosto parlando sottovoce e

mantenendo basso il volume della radio, con prudenza insomma,

attenti a non farsi scoprire. Invogliati dagli appelli alla resistenza

che questa lanciava al nostro popolo, loro sentirono il dovere di

seguitare ad impegnarsi in ogni sorta di azione di contrasto

possibile alle attività delle truppe tedesche. Fra le altre cose

decisero di fare l’unica cosa per loro più agevole, quella di

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Page 64: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

nascondere i prigionieri fuggiaschi che ogni tanto evadevano da

un campo di concentramento tedesco situato nei pressi della città

dell’Aquila per poi facilitarne la fuga. Per carità, questa sì che

era un’opera di solidarietà umana meritoria e condivisibile però

anche questa era rischiosa, ed infatti, anche in questa attività le

loro iniziative non andarono a buon fine. Vediamo perché. Mio

fratello ed alcuni suoi amici passavano le loro giornate

passeggiando ed oziando. Accadde che in uno di quei giorni,

mentre la loro combriccola passeggiava lungo la strada statale,

venne avvicinata da una donna che si presentò fingendo di

essere una prostituta ma che in realtà era una spia al servizio dei

tedeschi.. Non le fu difficile farsi credere dai nostri annoiati

peripatetici quando confidò loro di aver nascosto nelle vicinanze

alcuni fuggiaschi inglesi evasi da .un campo di concentramento.

Incautamente la combriccola abboccò all’amo ed accettò di

occuparsene, si disse disposta a prenderli in consegna e di

facilitarne la fuga e si dettero appuntamento al calar del sole,

cascando in pieno nella trappola. Infatti una volta calata la notte,

invece di trovare la donna con i fuggiaschi inglesi, trovarono i

servizi segreti tedeschi con le armi spianate. La spia aveva fatto

per i tedeschi un ottimo lavoro. Ma non furono arrestati solo per

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Page 65: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

questo episodio di fallito favoreggiamento di soldati inglesi

perché in realtà i tedeschi cercavano i famosi “banditen” della

strada di Capestrano ed erano convinti di aver messo le mani

sulle persone giuste. Inutile dire che il loro destino a quel punto

sembrava segnato ma, anche questa volta, li aiutò la fortuna.

Infatti dopo tante paure ed altrettante peripezie se la cavarono.

In manette furono trasferiti prima nel carcere di Sulmona,

successivamente in quello di Teramo ed è quasi superfluo

spiegare che rischiavano la fucilazione! E fu proprio mentre

erano rinchiusi nel carcere di Teramo che li aiutò la dea fortuna

ed avvenne il miracolo, perché i tedeschi erano ormai allo

sbando, in procinto di fuggire ed avevano quindi problemi più

urgenti da risolvere per cui nella concitazione generale ne

avevano affidata la custodia a carcerieri italiani. Questi da parte

loro erano disorientati per il modo in cui si succedevano gli

eventi e perciò, dopo qualche trattativa, si fecero convincere a

chiudere un occhio ed alla fine addirittura scapparono rendendo

così possibile la loro evasione. Questa in ogni caso fu una

evasione al cardiopalma, perché furono il bersaglio del tiro dei

cecchini tedeschi che un po’ di ritardo si accorsero che stavano

evadendo. Per non essere scoperti dovettero attendere che

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Page 66: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

arrivasse la notte sdraiati immobili in un campo di grano prima

di proseguire la fuga, ma con il buio riuscirono a proseguire e si

salvarono. Scavalcarono a piedi il massiccio del Gran Sasso e

riuscirono finalmente a tornarsene a casa quando gli ultimi

tedeschi se n’erano appena andati via.

L’AVVENTURA DI MIO PADRE SEBASTIANOL’AVVENTURA DI MIO PADRE SEBASTIANO

Ma ora, tornando di un giorno indietro nel tempo rispetto alla

fuga di mio fratello, debbo aggiungere alle peripezie di Aurelio

quelle di nostro padre Sebastiano. Fu sequestrato dai tedeschi

nell’ultimo giorno della loro ritirata insieme alla sua asina

Angelapalma. I soldati tedeschi gli requisirono il suo carro

agricolo, lo fecero caricare con le loro robe e gli ordinarono in

modo perentorio di partire con loro. E così i tedeschi,

Sebastiano, Angelapalma ed il loro carro partirono tutti insieme

nel buio della notte andando verso un destino ignoto.

Immaginatevi l’angoscia che assali me, mia madre ed i miei

nonni una volta rimasti soli. Dopo aver perso le tracce di mio

fratello stavamo perdendo anche quelle di mio padre. Ma, devo

riconoscere che per merito del suo coraggio anche questa volta

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Page 67: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

tutto andò per il meglio. Infatti mio padre, dopo un viaggio di

una trentina di chilometri che lo aveva portato nei pressi della

città dell’Aquila, alla sera tardi, mentre i tedeschi stanchi ed

ubriachi dormivano, si fece coraggio e ne approfittò per fuggire

portando con se anche l’asina Angelapalma! Il suo viaggio di

ritorno a casa fu tortuoso e pieno di pericoli, avvenne di notte,

lontano dalle strade di transito, con la persistente paura che

l’asina si mettesse a ragliare e che fosse quindi scoperta la sua

fuga spericolata. Però, per fortuna, i tedeschi si accorsero troppo

tardi della sua fuga e non furono più in grado di rintracciarlo.

Così dopo una fuga avventurosa e dall’esito incerto attraverso

viottoli e sentieri scoscesi, alla fine mio padre e la sua docile

asina riuscirono ad arrivare in prossimità del nostro paese e poi a

ricongiungersi con la famiglia. Sopravvenne solo allora la quiete

dopo la tempesta.Gli eventi appena descritti furono infatti gli

ultimi di una lunga serie che aveva coinvolto tutti, anche mio

nonno Biano. Anche lui qualche tempo addietro aveva avuta sua

piccola avventura ma al cardiopalma, era stato protagonista di

un salvataggio, un episodio, che se fosse andato storto avrebbe

potuto costargli la vita.. Ma mio nonno era una persona mite e

con grande senso dell’umana solidarietà. Lui, rischiando molto,

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Page 68: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

riuscì a salvare un prigioniero austriaco che era appena fuggito

dal distaccamento tedesco di stanza sotto i platani di piazza

San.Pelino. L’austriaco se l’erano portato dietro i tedeschi per

farlo lavorare al loro servizio e di certo non avevano nessun

riguardo per lui, però in un momento di distrazione dei suoi

aguzzini era fuggito. Aveva ormai gli inseguitori alle spalle

ma,.quando stava per essere raggiunto, mio nonno riuscì, appena

in tempo, a nasconderlo in mezzo al fieno del suo pagliaio.

Subito dopo arrivarono gli inseguitori e alle loro domande mio

nonno rispose di non aver visto nessuno dalle sue parti, i

tedeschi tornarono indietro e fu così che l’austriaco poté

riprendere la sua fuga e mio nonno ebbe sala la vita.

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Page 69: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LA FINE DELLA RITIRATA TEDESCALA FINE DELLA RITIRATA TEDESCA

Gli ultimi tedeschi a transitare nel nostro territorio furono i

soldati del genio guastatori. Costoro non li vedemmo neanche

perché si tennero alla larga dal paese però sentimmo i boati della

loro dinamite usata per abbattere i tralicci dell’alta tensione, per

distruggere ponti e ponticelli e danneggiarono la statale 17. Ma,

per fortuna, furono gli ultimi e, dopo di loro, sopravvenne una

calma surreale. Fu come la quiete subito dopo la tempesta

perché anche le galline tornarono sulle strade. Ma i guai no,

quelli per noi non erano finiti perché ci ritrovammo isolati e

senza corrente elettrica. Ci volle del tempo perché il nostro

modo di vivere tornasse normale. Senza illuminazione, le strade

di notte erano buie, e nelle case fummo costretti a riesumare

vecchi lumi e lampade ad olio messe in disuso dai nostri nonni.

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Page 70: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

Dopo il passaggio degli ultimi guastatori tedeschi ci

aspettavamo l’arrivo immediato delle truppe alleate ed invece

queste se la presero comoda, inviarono prima in perlustrazione

un piccolo aereo che atterrò in un prato nella pianura antistante

al paese di Collepietro e fu accolto dai navellesi con grande

calore ed entusiasmo oltre che con grande curiosità perché mai

un aereo era atterrato prima nelle nostre campagne. Il suo pilota

si fermò giusto il tempo necessario per raccogliere le

informazioni di cui aveva bisogno e caricare una donna che si

diceva ammalata ma forse non lo era. Solo in seguito finalmente

arrivarono le truppe alleate di terra. La tempesta era passata, la

gioia fu tanta e da allora, anche se molto lentamente, ci fu

possibile riprendere la nostra vita normale.

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Page 71: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LA RIPRESA DELLA VITA NORMALELA RIPRESA DELLA VITA NORMALE

E riprese respiro anche la mia vita in famiglia, ormai occorreva

pensare di nuovo a progettare il futuro. Negli anni prima della

bufera mio padre aveva deciso che mio fratello Aurelio dovesse

proseguire gli studi post elementari nella scuola superiore, nella

città dell’Aquila e gli dette la possibilità di conseguire la

maturità nel locale liceo scientifico. Dieci anni dopo di lui

decise che toccava a me, perciò ritenne che gli stessi studi avrei

dovuto farli anch’io. È bene ricordare che in quel tempo

l’istruzione era considerata un lusso, possibile solo per chi se lo

poteva permettere. Per accedere alla scuola superiore dopo le

elementari era addirittura obbligatorio superare un “esame di

ammissione”. Allora però l’istruzione postelementare non era

obbligatoria, perciò di scuole di quel tipo ne esistevano poche e

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Page 72: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

perciò quell’esame era possibile sostenerlo solo nei luoghi dove

queste scuole esistevano e cioè in città. E, la città a noi più

vicina era quella dell’Aquila degli Abruzzi. Quella era allora la

città nella quale operava tutta la burocrazia provinciale ragione

per cui quando i miei compaesani dovevano risolvere i loro

problemi con l’amministrazione pubblica, essendo ignoranti e

non sapendo districarsi da soli, si rivolgevano ad una specie di

azzeccagarbugli, domiciliato in quella città, soprannominato

Settepanze. Tale soprannome era dovuto al fatto che quando

qualcuno si rivolgeva a lui per essere aiutato, era bene che

bussasse alla sua porta con i piedi, avendo le mani occupate da

prosciutti, salsicce, uova, olio, vino e quant’altro aveva a

disposizione per lui, e per di più Settepanze non si mostrava mai

sazio. Ricordo che la notte prima dell’esame di ammissione, mio

padre mi svegliò a notte fonda, attaccò l’asina al carretto ed

insieme partimmo per L’Aquila. Il viaggio durò molte ore,

l’asina camminava piano e la strada da fare era tanta, circa 35

chilometri. Io ero preoccupato, eccitato per il fatto di andare in

città ma non sapevo in quale situazione di difficoltà mi sarei

trovato. Invece, feci quell’esame e, quando dopo qualche giorno,

ci comunicarono l’esito, fui contento di apprendere che tutto era

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Page 73: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

andato per il meglio e che ero stato ammesso a frequentare la

scuola media. Però onestamente ho ancora il sospetto che mi

abbia, per così dire, aiutato il signor Settepanze. Tornammo a

Navelli e poiché gli eventi bellici che si susseguirono furono

quelli che ho già descritti in precedenza, addio scuola, dovetti

aspettare a lungo prima di iniziare gli studi regolari nella scuola

media dell’Aquila. Nel frattempo comunque, mio padre mi

affidò alle cure di Don Cesare, il pacifico prete del paese. Ma, a

quel tempo, per i curati di campagna, specialmente quelli di

seconda categoria come Don Cesare che aveva come superiore

un arciprete, sbarcare il lunario non era certo cosa facile, ragion

per cui Don Cesare si adattava a fare un po’ di tutto anche se

non ne era all’altezza. Lui infatti cercava di insegnarmi un

pochino di tutto, dall’italiano al latino, dalla storia alla geografia

e insomma faceva quello che poteva ma con scarso successo.

Questo per due motivi, il primo perché non aveva lui stesso una

preparazione adeguata per farlo, il secondo perché io,

profondamente inserito com’ero in quel contesto contadino, non

avevo nessuna voglia di studiare ed andavo da lui con

malavoglia, perciò apprendevo con scarso profitto. Ma se non

mi invogliava il fatto che Don Cesare mi dava l’impressione che

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Page 74: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

gestisse i suoi insegnamenti in maniera approssimata e caotica,

non mi aiutava neanche mio padre che si rivelava per me un

nume tutelare negativo perché mi portava sempre con se al

lavoro dei campi impegno che diventava cosi la mia

occupazione principale facendomi sentire, a torto o a ragione, un

contadino per il quale lo studio, tutto sommato, non fosse poi

così tanto importante. Ma come poteva essere così ottimista mio

padre se pensava che io alla sera, sporco e stanco com’ero,

avevo ancora la voglia di mettermi a studiare!. Lasciai gli

insegnamenti di Don Cesare alla fine della guerra e finalmente

sbarcai nella città dell’Aquila per completare i miei studi. Non

tutti i problemi però erano risolti perché l’istruzione ricevuta da

Don Cesare era stata una istruzione privata e piuttosto

approssimata ed ufficialmente del mio grado d’istruzione non

risultava nulla a nessuno. Dovetti quindi sottopormi ad una

specie di nuovo esame, questa volta piuttosto informale, di

verifica delle mie conoscenze perché, alle autorità scolastiche,

serviva capire da quale livello potevano farmi partire. Feci con i

professori il colloquio richiesto, dopo di che loro decisero che

avevo l’età giusta e sufficienti competenze per poter frequentare

nientemeno che la classe terza della scuola media, così di botto,

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Page 75: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

senza avere prima frequentato né la classe prima e neanche la

seconda. Ritennero che poteva bastare quello che mi aveva

insegnato Don Cesare. Ed ebbi la sensazione che avrebbe potuto

andare anche meglio perché per poco non mi ammisero

addirittura all’esame di licenza media! Miracoli di altri tempi!

Però questi erano i rischi ed i miracoli del dopoguerra.

Successivamente ho pagato caro questo salto in avanti perché, a

mano a mano che frequentavo la terza media, con professori

veri, mi rendevo conto di tutte le lacune che mi ero lasciato alle

spalle. Comunque sia, malgrado tutto superai anche l’esame di

terza media.

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Page 76: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LE MIE DISAVVENTURE DI STUDENTE LE MIE DISAVVENTURE DI STUDENTE

C’era però qualcosa in me che non funzionava in modo giusto.

Infatti incominciai a frequentare il liceo scientifico senza voglia

di studiare, non mi sentivo a mio agio, sentivo che i miei

compagni aquilani avevano rispetto a me una marcia in più, io

invece mi sentivo ancora un contadino ignorante ed ingenuo ed

avevo la sensazione di essere in qualche modo emarginato. Per

esorcizzare quella spiacevole sensazione e tentare di portarmi al

livello dei miei coetanei tentai di eccellere almeno in attività

extrascolastiche rifugiandomi nel gioco del pallone. Ma se il

mio tempo libero lo consumavo soprattutto giocando a pallone

era ovvio che mi rimanesse poco tempo per studiare ed poca

voglia di farlo. Stando così le cose fu inevitabile che, alla fine

del secondo anno di liceo fossi bocciato. Ma a volte non tutti i

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Page 77: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

mali vengono per nuocere perché quell’insuccesso produsse

nella mia vita una svolta radicale, vedremo come e perché. Già

la bocciatura di per se mi aveva procurato un grande sconforto

mi sentivo allo sbando, un fallito, per di più intervenne su di me

in modo pesante anche mio padre Sebastiano che non esitò a

trattarmi con maniere forti, fin troppo forti.

PAPÀ SEBASTIANOPAPÀ SEBASTIANO

E visto che l’ho tirato in ballo voglio parlare anche di mio padre

per far capire chi era costui. Sebastiano, figlio di contadini

poveri, fu costretto da giovane, come molti altri contadini del

suo paese, ad emigrare negli Stati Uniti d’America in cerca di

fortuna. Vi arrivò come tutti in quei tempi con una nave per via

mare. Una volta lì si rese subito conto delle opportunità che gli

offriva l’america e perciò, siccome era una persona intelligente e

volenterosa, non si limitò ad accettare la prospettiva di un lavoro

qualsiasi, così come del resto faceva la maggior parte dei suoi

compaesani, ma intuì che in quel contesto dalle ampie

opportunità l’istruzione era una cosa molto importante per chi

voleva avere successo. Si iscrisse perciò ad una scuola serale

dove non solo imparò a leggere e scrivere l’inglese ma

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Page 78: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

incominciò anche a frequentarvi un corso per elettricisti. Pare

che se la cavasse molto bene, e che ricevesse elogi sperticati da

parte di insegnanti e compagni di studio. Purtroppo però quelli

erano i tempi in cui si stava combattendo in Europa la prima

guerra mondiale e gli Stati Uniti entrarono in guerra anche loro.

Poiché lui aveva appena ottenuta la cittadinanza americana si

sentì americano a tutti gli effetti e non si sa perché ebbe la bella

idea di arruolarsi nell’esercito di quel paese, forse lo considerò

un dovere. Così, dopo un breve periodo di addestramento,

ottenuta la qualifica di fuciliere scelto, fu mandato a combattere

nel fronte francese. La sua guerra durò però meno di un giorno

perché, appena arrivato al fronte, fu ferito seriamente in

prossimità dell’inguine dalle schegge di una bomba nemica

scoppiatagli vicino e se la cavò per miracolo anche dai gas

asfissianti solo perché qualcuno ebbe la bontà di infilargli in

tempo la maschera antigas. Fu portato nell’ospedale da campo,

poi rimpatriato in America dove fece una lunga convalescenza

in ospedale. Alla fine, con una pensione di guerra tornò in Italia

dove, ormai anziani, vivevano i suoi genitori. Vi si stabilì

definitivamente e si sposò con mia madre.

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Page 79: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LA DIFFICILE CONVIVENZA FAMILIARE

E qui praticamente finisce la storia di mio padre padrone perciò

ora posso raccontare che cosa mi combinò in occasione della

mia bocciatura. La prima cosa che fece fu quella di maltrattarmi

in presenza dei miei coetanei nei pressi della mia scuola,

comportamento orribile che provocò in me una vergogna

tremenda, poi come se ciò non bastasse, tornati a casa lui e mia

madre decisero insieme di togliermi la parola mettendomi in

quarantena ed ignorandomi del tutto e questo fecero per lungo

tempo. Era come se io per loro non esistessi più! Facevano finta

di non vedermi e di non sentirmi, mi trattavano come se io non

esistessi. Io in situazioni simili non avrei mai riservato alle mie

figlie un trattamento del genere loro però lo adoperarono per me.

Tale comportamento è inutile dirlo mi sconvolse. Mi sentivo un

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Page 80: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

intruso nella mia stessa famiglia e quello non era certamente il

trattamento del quale avrei avuto bisogno. Ma la cosa non finì lì

perché l’anno successivo, alla riapertura dell’anno scolastico per

punizione mi segregarono in collegio nel Convitto Nazionale

dell’Aquila. Loro ritenevano che lì, sotto stretta sorveglianza,

non potendo uscire per scorrazzare nella città non avrei potuto

fare altro che studiare per forza. E questa volta ebbero ragione

perché nel giro di un anno studiai tanto da diventare il più

brillante alunno della mia classe. Conservai quella nomea e

quella posizione sino alla fine del corso di studi del liceo

scientifico riportando agli esami di maturità la migliore

votazione di tutta la classe. Questo rasserenò di molto

l’atmosfera familiare, mi sembrava che agli occhi della famiglia

avessi finalmente acquisito quella dignità e quel rispetto di cui

avevo estremo bisogno. Ero più sereno, quasi felice, ma non tutti

quei problemi miei che venivano da lontano erano risolti. Erano

state troppe e troppo profonde le umiliazioni e le ferite del

passato che era impensabile che potessero rimarginarsi così

facilmente. E poi, c’era ancora qualcosa nel loro comportamento

verso di me che mi metteva a disagio. Senza rispettare

minimamente la mia personalità loro seguitavano a trattarmi

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Page 81: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

come se potessero disporre di me a loro piacimento trattandomi

da padroni, non mi lasciavano spazio, mi impedivano di fatto la

libertà di contatti relazionali con i miei coetanei. E fu per questo

che, per sfuggire allo stato di schiavitù in cui mi tenevano,

facendo leva sui miei ultimi successi scolastici chiesi ed ottenni

di poter proseguire gli studi all’università.

LA DISDICEVOLE ESPERIENZA DI TORINOLA DISDICEVOLE ESPERIENZA DI TORINO

La mia scelta cadde sulla facoltà di ingegneria presso il

politecnico di Torino. Feci quella scelta non per vocazione ma

perché volevo allontanarmi quanto più possibile dalla mia

famiglia in modo da evitarne qualsiasi controllo e godermi

finalmente la mia libertà. Intimamente sapevo che dal punto di

vista professionale quella era una scelta sbagliata però volli farla

lo stesso. E loro mi accontentarono. Intanto Aurelio, il mio

fratello maggiore, si era laureato in Chimica all’università di

Bologna e pensava come sempre solo ai fatti suoi, pur avendo

più esperienza di me non mi dette nessun consiglio e mi lasciò

partire semplicemente ignorandomi. Non c’era nessuna

comunicazione fra di noi, non succedeva mai che lui avesse

qualche attenzione per me, preferiva ignorarmi forse anche

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Page 82: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

perché si vergognava di me perché i miei genitori mi gestivano

come un garzone di famiglia. Oggi mi accorgo che, gira e rigira,

non riesco ancora a fare a meno di ricordare con tristezza le

difficoltà del passato. Ma vado avanti con il racconto. Prima

dell’inizio dell’anno accademico nel Politecnico arrivai a

Torino. Partii in pullman per Roma e da Roma proseguii in treno

per Torino. Prima di allora non avevo mai viaggiato su di un

treno, quella fu la prima volta. Rimasi un paio di giorni in

albergo, poi presi alloggio in un pensionato universitario situato

in una contrada di Torino chiamata Fioccardo, fra Torino e

Moncalieri. Quel pensionato era gestito da Padri Maristi. Vi

trovai un ambiente molto diverso da quello del Convitto

Nazionale perché i preti lasciavano ai loro studenti ospiti piena

autonomia di comportamento. Ed io non ebbi sufficiente forza

per gestire al meglio quella improvvisa libertà. Non vi ero

abituato e per di più avevo estremo bisogno di sentirmi libero e

di gestirmi a modo mio. Per i suddetti motivi di quella libertà

non seppi fare buon uso. Trascinato dal vento delle mie pulsioni

personali non riuscii quindi ad evitare di cadere in quella

trappola che io stesso avevo preparata. E, a favorire il mio

fallimento giocò il fatto che, siccome noi ospiti eravamo tutti

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Page 83: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

studenti universitari, avevamo creata una un’atmosfera

goliardica troppo spensierata, e poiché oltre me anche altri miei

compagni, arrivati a Torino dal sud, avevano all’incirca i miei

stessi problemi, non riuscivamo a studiare con quella

convinzione e perseveranza che sarebbe stata necessaria.

Insomma, fatta eccezione per alcuni virtuosi, la maggioranza

degli studenti del pensionato preferiva scorrazzare per la città in

cerca di divertimento. Andavamo volentieri a teatro, giocavamo

volentieri a pallone, però frequentavamo l’università con

fastidio e non trovavamo molto tempo da dedicare allo studio.

Per di più, su insistenza dei miei amici forse un pochino più

furbi di me ed in cerca di polli da spennare, imparai, si fa per

dire, a giocare a poker. Io non avevo la grinta del giocatore e

non avrei potuto permettermelo, però il vizio del gioco è un

vizio satanico che una volta preso non te lo togli più, a meno che

non ti accade quello che accadde a me. Noi pokeristi ci eravamo

tanto appassionati a questo cinico gioco che spesso restavamo a

giocare sino a notte fonda ed io lo facevo malgrado perdessi

sempre parte di quei soldi che i miei genitori mi inviavano per

pagarci la pensione. Fui tanto stupido e sconsiderato che mi

giocai persino i soldi con i quali avrei dovuto pagare un mese di

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retta, e compiuto il misfatto, dovetti ricorrere a degli

stratagemmi per rimediare. Insomma, in poche parole imbrogliai

i preti o almeno così pensai io, ma forse in realtà loro ebbero

pietà di me e chiusero un occhio. La cosa incredibile fu che,

malgrado tutto, un po’ di profitto nello studio lo ottenni lo stesso

perché riuscii a superare diversi esami importanti come quello di

analisi matematica, analitica, chimica, mineralogia ed altri. Ma

ora, visto che ci sono, in quanto a fatti incredibili ve ne

racconterò uno del tutto particolare. Accadde un giorno nel

quale il destino decise di giocare con me e mi mise molta paura.

Fu uno scherzo di cattivo gusto quello che il destino fu sul punto

di farmi. Forse voleva punirmi per la mia vita dissoluta ma, per

fortuna, all’ultimo momento si confuse, si distrasse e mollò la

preda. Quel giorno io ed un mio compagno ed amico carissimo,

salvadoregno, che si chiamava Luis decidemmo di andare in

riva al Po per fare un bagno in un posto in cui sulla riva vi era

una piccola spianata di sabbia. Io non sapevo nuotare e stavo

bene attento a che la corrente del fiume non mi portasse con se.

Ciò malgrado, mentre ero in acqua, sentii mancarmi la terra

sotto i piedi ed affondai. Fortuna volle che, un istante prima di

essere sommerso dalle acque, riuscii a gridare cercando aiuto

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dopo di che, con la mente attiva come un vulcano, mi preparai a

morire. Chi non ha mai vissuto una esperienza del genere non

può neanche immaginare quale folla di tragici pensieri ti

possono passare per la mente in pochi istanti Ma per fortuna che

c’era Luis perché quando credevo di essere già morto accadde il

miracolo, il destino forse ci ripensò credendo che la lezione mi

sarebbe bastata e permise al mio amico di salvarmi la vita.

Infatti Luis riuscì ad individuarmi, ad afferrarmi per un braccio

ed a portarmi a riva quando il mio corpo era già sparito

sott’acqua. Ancora oggi mi monta la paura quando ripenso a

quell’ avvenimento e nello stesso tempo sento una grande

gratitudine per il mio generoso amico con il quale dopo tanti

anni ho perso i contatti ma che mi piacerebbe rivedere nel caso

esista ancora in vita. Grazie Luis.! Dopo quel brutto incidente,

piano, piano, la mia sbornia di libertà si attenuò ed

all’incoscienza subentrò la riflessione. Mi resi conto che le cose

non potevano seguitare ad andare così e che perciò sarebbe stato

opportuno cambiare aria e subito.

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Page 86: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

DA TORINO A ROMADA TORINO A ROMA

E fu per questo motivo che abbandonai gli studi nel Politecnico

di Torino e mi trasferii alla università La Sapienza di Roma,

cambiando facoltà passai da Ingegneria a Matematica e Fisica. Il

cambio si rivelò però un disastro perché molti degli esami

superati a Torino non mi vennero convalidati e perciò invece di

un passo avanti mi resi conto di aver fatto un passo indietro.

Oramai però la frittata era fatta ed io non potevo farci più nulla.

Mi sentivo come un albero senza foglie, come uno sbandato che

non ne azzecca mai una, ed ero in un tale stato confusionale da

non riuscire più a concentrarmi nello studio! Soffrivo

d’insonnia, ed il solo aprire una dispensa universitaria mi faceva

venire il voltastomaco. Si trattava del rifiuto assoluto di un

percorso che ormai si prospettava per me come un completo

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fallimento. Potete immaginare quali furono le ripercussioni di

questo stato di cose in famiglia.. Come era prevedibile, i rapporti

con i miei genitori tornarono ad essere a dir poco molto tesi.

Quello che mi faceva più male era la mancanza di dialogo con

loro, mai che abbiano cercato di chiedermi spiegazioni, di

parlarmi, di comprendere, di chiedermi come potevano aiutarmi,

di manifestare per me dell’affetto malgrado che le avessi

sbagliate proprio tutte. E, tutte le volte che io tentavo di essere

affettuoso con loro nella speranza di essere aiutato, loro mi

schivavano e si schermivano. Non mi capivano. Alla fine

diventammo separati in casa, fra di noi cadde definitivamente il

silenzio quasi assoluto, non avevamo più nulla da dirci, ci

ignoravamo a vicenda. Frustrato, umiliato, disorientato, in uno

stato d’animo disastroso avendo persa persino la fiducia in me

stesso, mi sentivo come paralizzato non essendo capace di

trovare soluzioni alternative alla mia situazione. Alla fine però, a

denti stretti, non potendo fare altro dovetti riprendere comunque

a studiare. Ed allora il destino, ancora una volta, decise di,

aiutarmi e lo fece per caso senza farsene accorgere. Infatti fu

proprio in quel periodo che accadde qualcosa destinata a

cambiare la mia vita.

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Page 88: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

L’INCONTRO CON LA MIA FUTURA MOGLIEL’INCONTRO CON LA MIA FUTURA MOGLIE

Dopo tanto buio un po’ di luce, ci fu il mio primo incontro con

una fanciulla diventata poi mia moglie. Accadde tutto per caso e

vi voglio raccontare come. Dovete sapere che a quell’epoca la

mia famiglia risiedeva in quel piccolo borgo d’Abruzzo

chiamato Navelli, in una via che si chiama Via delle Spiagge

Grandi. Era il mese di maggio e vicino alla nostra abitazione, a

ridosso della strada principale del quartiere, avevamo un orto

recintato dove, abbarbicato sulla rete metallica di recinzione

esisteva un bel rosaio. Un giorno, uscendo di casa, sorpresi una

ragazza che, infilata una mano attraverso la rete metallica, stava

cogliendo dal rosaio una rosa. Non riuscii a fare diversamente ed

approfittai di quell’occasione perché la ragazza mi sembrò

molto carina. Mi venne subito il desiderio di essere galante con

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lei. Del resto lei era una ragazza che aveva diciotto anni ma ne

dimostrava anche di meno ed era di una freschezza e di un

profumo pari a quella della rosa, ed allora non potei proprio

farne a meno, colsi la rosa e con garbata galanteria gliela offrii!

Mi innamorai di lei all’istante! Ci fidanzammo. Ma per lungo

tempo nella mia vita anche questa volta in famiglia la fortuna mi

voltò le spalle ed infatti, quando i miei genitori lo vennero a

sapere apriti cielo, dovetti fare i conti con la loro cocciutaggine

specialmente con quella di mia madre. A loro quel fidanzamento

non piaceva. Il mio matrimonio avrebbero voluto combinarlo

loro indipendentemente dalla mia volontà e questo la dice lunga

su quale era il loro modo di pensare e come era distruttiva per un

figlio la loro pretesa di esserne i padroni assoluti. E così alle mie

ferite del passato se ne aggiunsero altre procuratemi dai miei

genitori ed in famiglia si e si aprì un altro fronte di battaglia.

Però, se loro erano testardi io ero più testardo di loro, avevo

fatta la mia scelta, ero sicuro che fosse la scelta giusta ed ero

quindi deciso ad andare ad ogni costo per la mia strada. Inutile

aggiungere che questa decisione mi costò molto perché dovetti

sopportare molte offese da parte loro e subire minacce e soprusi

di ogni tipo. Mio fratello, perché dovete sapere che in famiglia

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viveva anche un fratello, ne frattempo si era laureato in chimica

presso l’università di Bologna ed aveva trovato un lavoro da

insegnante in una scuola di Pratola Peligna dove si era anche

fidanzato e poi sposato. Lui però non mi aiutò mai, in nessuna

circostanza, tutt’altro. Per questo un bel giorno, non riuscendo a

sopportare più quella situazione di ostilità che cera in famiglia,

decisi di andar via da casa. Feci la mia piccola valigia e me ne

andai nella città dell’Aquila dove risiedeva la mia ragazza.Vi

trovai lavoro come istitutore allo stesso Convitto Nazionale in

cui ero stato da studente. Il vitto e l’alloggio erano garantiti ed in

più mi pagavano un piccolo stipendio mensile.

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Page 91: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

LA VITA MILITARELA VITA MILITARE

Però così passavano gli anni e quando raggiunsi l’età di ventisei

anni dovetti abbandonare tutto. e licenziarmi perché fui costretto

a partire per il servizio militare. Tornai a casa per salutare,

malgrado tutto, i miei genitori ma non trovai l’accoglienza che

almeno in quella circostanza speravo. Sembra incredibile ma

quando partii loro non mi salutarono neanche, né ritennero di

darmi qualche lira per le mie eventuali necessità, me ne andai

via solo ed amareggiato, con una valigia ed il solo biglietto

ferroviario fornitomi dall’esercito. Dopo un lungo e tortuoso

viaggio in treno arrivai ad Ascoli Piceno alla scuola allievi

ufficiali di complemento. Fui assegnato alla settima compagnia.

Qui la vita era dura, quelli che ci comandavano per

spersonalizzarci e farci entrare nelle vesti dei marmittoni e

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Page 92: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

renderci docili e pronti alla cieca ubbidienza a qualsiasi ordine,

una delle prime cose che ci ordinarono di fare fu quella di

ripulire, procedendo a stretto contatto di gomito, tutti gli spazi

erbosi della caserma da tutti i mozziconi di sigaretta che vi si

trovavano. Guai se davanti a noi ce ne sfuggiva qualcuno, ci

punivano per la nostra disattenzione. Al mattino la sveglia era

alle cinque, poi di corsa tutti in fila nel cortile in pantaloncini e

maglietta a fare una mezz’ora di ginnastica, dopo di che si

andava in refettorio per fare la colazione. Successivamente si

provvedeva alla pulizia dei cessi ed infine si andava in aula ad

assistere alle lezioni di tecnica e tattica militare. I pasti erano

quasi immangiabili ed io purtroppo non avevo alternative o

consumavo quelli o niente altro. Non avendo altre risorse,

potevo disporre, e solo alla fine di ogni due decadi, di circa

duemila lire, al lordo delle trattenute, che non potevo spendere

perché ne avevo bisogno quando, dal sabato alla domenica,

ottenevo i permessi di licenza di trentasei ore, per pagarci il

biglietto dell’autobus che mi portava all’Aquila dove risiedeva

la mia ragazza. La permanenza di circa sei mesi ad Ascoli

Piceno fu quindi per me una specie di lungo incubo che si

aggiungeva a quelli del passato. Infatti quando finalmente alla

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Page 93: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

sera c’era la libera uscita, ero costretto ad uscire da solo, non

certo per mia volontà, ma perché non avevo i mezzi economici

adeguati per accompagnarmi ai miei commilitoni i quali invece

fortunati loro, facevano baldorie e si divertivano andando a cena

nelle trattorie della città, oppure andando al cinema o in altri

ritrovi. Io invece ero costretto ad uscire da solo non sapendo

neanche dove andare, camminavo a caso per le strade della città

senza fermarmi da nessuna parte, giusto il tempo per arrivare

all’ora della ritirata. Per capire certe sofferenze bisogna averle

vissute. Io stringevo i denti e malgrado tutto andavo avanti con

la sola forza di volontà. Con il passare dei giorni ero diventato

magrissimo e per di più soffrivo senza che lo sapessi di calcolosi

renale. Rimasi in quel di Ascoli Piceno quei cinque o sei

lunghissimi mesi della durata del corso. Quando lo finimmo i

miei superiori mi comunicarono che mi avevano assegnato alla

scuola di artiglieria contraerea per allievi ufficiali di

complemento di Sabaudia. Dopo una breve licenza ripartii

dunque per Sabaudia. Qui le cose non cambiarono di molto,

l’importo della decade era sempre lo stesso. Le mie libere uscite

serali anche qui erano come quelle di Ascoli Piceno. Per di più,

le spese di viaggio per andare all’Aquila erano maggiori perché

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Page 94: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

il viaggio era più lungo. Non era proprio il caso di stare allegri

neanche questa volta. Fra le cose che ricordo con più

raccapriccio è che lì a pranzo ogni giorno ci servivano sempre

rigatoni al ragù, pollo e patatine. Il resto è per me cosa del tutto

da dimenticare. Ed a Sabaudia rimasi per altri cinque o sei mesi

fino alla fine del corso. Anche a Sabaudia ero solo e l’unico mio

conforto lo trovavo nella corrispondenza con la mia ragazza che

aveva una frequenza quasi giornaliera. Una sola volta ricevetti

inaspettatamente i saluti da mio padre attraverso una cartolina

illustrata mandatami da Abano Terme dove lui si trovava per

fare i fanghi perché soffriva di artrite. Ma grazie al cielo, come

tutte le cose di questo nostro mondo, anche questo corso di

addestramento di Sabaudia finalmente arrivò a conclusione e,

con i gradi di sottotenente di complemento, fui destinato al

raggruppamento di difesa antiaerea territoriale di Savona la

cosiddetta D.A.T. Fu qui che mi resi definitivamente conto che,

anche se il contesto era completamente cambiato, di non essere

io adatto alla vita militare. Ma, prima di me se ne era reso

naturalmente conto anche il colonnello comandante del

raggruppamento il quale fece scrivere poi sul mio foglio di

congedo: “scarsa attitudine militare”! Ma visto che ci sono,

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Page 95: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

voglio raccontarvi come andarono le cose anche lì a Savona.

Quando arrivai nel raggruppamento di destinazione, con indosso

la divisa nuova di sottotenente, fui assegnato all’ufficio

comando. Qui pensavo che qualcosa mi avrebbero fatto fare,

invece la mia presenza era praticamente ignorata dagli altri

addetti all’ufficio, tutti seguitarono a fare il loro lavoro

ignorandomi, non mi assegnarono né mi proposero nessun

lavoro ed io avevo l’impressione di stare lì solo a fare la

comparsa. Questa cosa mi infastidì al punto che dopo alcuni

giorni non mi feci più vedere. Approfittando del lassismo

generale, preferivo varcare in uscita l’ingresso della caserma e,

salutata la ossequiosa sentinella di turno, raggiungevo la

spiaggia che si trovava a due passi dalla caserma. Tornavo in

caserma giusto all’ora del pranzo e mai nessuno si accorse delle

mie assenze, o almeno non se ne curò nessuno. Per me questo

voleva dire che in realtà in caserma non servivo. Però, a

prescindere dallo strano andamento delle cose, confesso che

quest’ultimo periodo di servizio militare mi fu molto utile

perché percepii finalmente una paga più decente della decade

che mi consentì, risparmiando al massimo, di accumulare un

piccolo gruzzoletto.

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Page 96: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

IL RITORNO A CASA

Una volta tornato a casa la prima cosa di cui ebbi bisogno fu

quello di mettere mano al mio gruzzoletto guadagnato, si fa per

dire, a Savona. Ne ebbi un estremo bisogno per le mie necessità

personali urgenti specialmente in vestiario. Intanto erano passati

circa sedici mesi da quando avevo lasciato l’incarico di istitutore

nel convitto nazionale dell’Aquila. E correva l’anno 1959

quando ottenni il congedo ed io, una volta a casa, senza

prospettive, senza un lavoro, dovetti seriamente riflettere sul

come utilizzare il mio incerto futuro. Mi sentivo come

paralizzato, mi rendevo conto con tristezza che non avevo

alternative e che la cosa più opportuna da fare era quella di

tapparmi il naso, riprendere seriamente gli studi e concluderli.

Nello stesso tempo però, mi infastidiva molto l’idea di non avere

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Page 97: LUNGO LA STRADA DEI RICORDI

appigli per gestirmi da solo senza pesare ancora sui miei

genitori. Sentivo di avere un assoluto bisogno di intraprendere

una qualsiasi attività che mi rendesse economicamente

indipendente e mi desse la possibilità di vivere serenamente.

Finalmente però questa volta la fortuna mi venne incontro ed io

l’afferrai a piene mani. Il caso volle che poiché quello era un

periodo in cui, finita la guerra e completata la ricostruzione, la

nazione era in pieno sviluppo e perciò i governanti di allora si

resero conto che si doveva passare velocemente da una civiltà

contadina ad una civiltà preindustriale. La prima cosa da

riformare era la scuola. Poiché il grado di istruzione del popolo

italiano era mediamente basso, nell’intento di innalzarlo, lo stato

incominciò ad aprire molte nuove scuole decentrate rispetto a

quelle prima esistenti solo in città situate in posti dove prima

non esistevano affatto,. Fu per questo che nel mio paese fu

istituita la prima classe di un Istituto di Avviamento

Professionale. Il problema era che, poiché gli insegnanti laureati

non erano sufficienti a coprire i nuovi posti di insegnamento si

dovette ricorrere all’utilizzo dei laureandi. E questa fu la mia

fortuna che mi tirò fuori dai guai. Era proprio quello che mi ci

voleva, approfittai di quella circostanza, chiesi di essere assunto

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come insegnante di Matematica nella prima classe della nuova

scuola di Navelli. Fui accontentato e vi insegnai a tempo

determinato come supplente annuale. L’anno successivo fui

confermato nell’incarico esteso anche alla seconda classe, e

l’anno appresso esteso anche alla terza classe. Questa volta

avevo preso tanto seriamente il mio ruolo di insegnante che

decisi di svolgere il mio lavoro con molto impegno. riuscii a

dare ai miei alunni il meglio di me e fui molto apprezzato per i

risultati da me ottenuti sia dai colleghi che dalle famiglie degli

alunni, cosa questa che mi permise di incominciare a recuperare

quella tranquillità e fiducia in me stesso di cui avevo estremo

bisogno. Sapevo però che la soluzione definitiva dei miei

problemi era ancora lontana, sapevo che le cose a breve

sarebbero cambiate e perciò occorreva assolutamente che mi

laureassi. Ma la svolta determinante che cambiò la mia vita la

propizio la mia fidanzata la quale, malgrado che lei avesse il

diploma di maestra elementare aveva trovato lavoro a Roma

presso l’Istituto Centrale di Statistica, ragion per cui decise che

era tempo che ci fossimo sposati. Fu una decisione che mi colse

di sorpresa perché non avendo io un lavoro stabile avevo paura

del futuro però malgrado io fossi molto preoccupato e perplesso

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ci sposammo nell’anno 1963, il sei di ottobre, nella cattedrale

dell’Aquila.

IL TRASFERIMENTO A ROMAIL TRASFERIMENTO A ROMA

Dopo di che fui costretto a lasciare l’insegnamento a Navelli per

trasferirmi a Roma dove lavorava mia moglie. A Roma

prendemmo in affitto un piccolo appartamento mobiliato vicino

a Via Veneto al costo di 36.000 lire al mese. E fu qui che portai

tutto quello che avevo, una sola valigia con i miei libri e pochi

effetti personali. Ricordo che di affitto pagavamo trentaseimila

lire al mese quando dal macellaio lo spezzatino di vitella costava

duemilacinquecento lire al chilogrammo. E per di più lavorava

solo mia moglie. Perciò mi detti molto da fare per trovare un

lavoro e poiché l’unico lavoro che sapevo fare era quello

dell’insegnamento lo cercai nelle scuole private di Roma perché

trovarlo nella scuola statale, nelle mie condizioni di non laureato

era impossibile. Ero molto preoccupato per il nostro futuro

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perché qualche lavoro nelle scuole private lo trovavo però si

trattava sempre di lavori precari che da un anno all’altro

potevano finire. L’unico lato rassicurante del nostro menage era

che ormai, risiedendo stabilmente a Roma, fui in grado di

riprendere a frequentare l’università perché ero deciso a

laurearmi ad ogni costo pur non avendo la preparazione che

avrei voluta. E così fu, nel mese di febbraio a denti stretti mi

laureai in matematica e fisica all’università La Sapienza di

Roma. Finalmente dall’ottobre successivo, alla riapertura

dell’anno scolastico, ebbi accesso con pieni diritti

all’insegnamento nella scuola statale. Era quello che volevo, fu

la svolta di una vita perché quell’evento, dal punto di vista

temporale, coincise con il vertice di una parabola con la gobba

rivolta verso il basso che da quel momento incominciò a risalire.

In altre parole fu da quel momento che, una volta conquistata la

tanto agognata semi-tranquillità economica, iniziò per me un

periodo molto lungo durante il quale pian piano riuscii a curare,

cicatrizzare, se non a guarire del tutto, molte delle ferite del mio

tormentato passato. Finalmente, a mano a mano che mi liberavo

da quella zavorra pesante che mi ostruiva i canali della mente,

recuperavo la coscienza del mio vero modo di essere. Ma

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confesso che c’è voluto ancora molto tempo perché la mia

guarigione potesse considerarsi completa o quasi. Ecco perché,

solo dopo di allora, la storia della mia vita è diventata a poco a

poco la storia di una vita normale. Ed è stato bello scoprire,

dopo tante sofferenze, di avere ancora un cervello in grado di

ragionare, a modo suo si intende, però sempre in buona fede. E,

a questo punto, con la mente sgombra da zavorre e pregiudizi,

ho incominciato ad osservare e giudicare il mondo con

disincanto, usando solo la mia ragione in maniera autarchica e

con spirito critico senza tener conto in alcun modo delle più

comuni suggestioni della gente. Non ho mai assorbito il pensiero

di massa Che diavolo! Non sarà mica proibito rivendicare libertà

di pensiero? A molti può dare fastidio che alcune mie

osservazioni e le conseguenti meditazioni solitarie si siano

esplicitate in una collana di favole “fuori norma”raccolte in un

volume dal titolo: “FAVOLE a modo mio” pubblicatomi a denti

stretti da una casa editrice inaffidabile. Inaspettatamente ho

scoperto che oltre al piacere della meditazione esiste anche il

piacere di scrivere.Troppo tardi? Può darsi, so che avrei bisogno

di rigoroso tirocinio però alla mia età imparo soltanto facendo. E

comunque, come suole dirsi, è meglio tardi che mai, ora con la

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mente libera mi rimane la malinconia dell’età però faccio finta

di avere accantonata la mia vita passata e vado avanti. Il fatto è

che dal punto di vista mentale mi sento un vulcano, ho la mente

perfettamente funzionante, forse troppo, se considero il fatto che

metto tutto in discussione senza riguardi per nessuno.

RIFLESSIONI FINALI RIFLESSIONI FINALI

Una delle credenze che faccio particolarmente fatica ad accettare

consiste nel fatto che l’umanità, da sempre, alla ragione ha

sostituito la “supposizione” e la verità è stata sostituita dalla

bugia dando così spazio a quelle “pandemie di fantasie

collettive” che traggono origine solo da una arbitraria ed

infondata interpretazione della realtà. Alla certezza si è sostituita

la speranza. Il motivo va cercato nel rifiuto della certezza della

morte e nella speranza dell’aldilà. Tuttavia, poiché io da solo

non ho la forza e la capacità per cambiare l’andamento delle

cose, sono costretto a starmene alla finestra senza poter fare

nulla, anzi la finestra spesso la chiudo per non vedere le storture

e le nefandezze di un mondo che non condivido e che mi

procura la nausea. A scanso di fraintendimenti qui ribadisco che

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per esempio lo sport è cosa bella ed utile però quando come il

calcio viene utilizzato per alimentare bassi interessi commerciali

allora diventa una fabbrica di illusioni che alleggerisce le tasche

della povera gente ingrassa quella pletora di persone che lo

gestiscono e distoglie le menti sia dai problemi reali della vita

sia dai veri interessi culturali. Devo confessare che, da buon

pensionato, mi sarebbe piaciuto fare come facevano gli antichi

romani i quali quando smettevano di occuparsi della “cosa

pubblica” si dedicavano alla coltivazione del loro orticello fuori

o dentro le mura di Roma. Il mio orticello ce l’avrei avuto

anch’io, però si trova nel mio paese natale ed è quello al quale si

dedicava con molta passione mio padre in età avanzata.

Purtroppo c’è stato il terremoto in Abruzzo ed il mio orticello e

diventato inaccessibile e comunque per diversi motivi non sono

più in condizioni fisiche idonee per poterlo fare ed allora ho

ripiegato sull’esercizio della mente. Ho sbagliato? Sono sicuro

di no perché questa è una opportunità che consente a noi persone

anziane, una volta liberatici dagli assilli giovanili, di mettere a

fuoco tanti aspetti della vita che in precedenza avevamo

trascurati. Insomma è l’ora delle riflessioni. Del resto, ad usare

la mente non solo non è cosa inutile ma è soprattutto un piacere.

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Semmai quello che genera in me un po’ di tristezza è

l’incapacità di comunicare agli altri quello che penso, forse le

conclusioni delle mie riflessioni nessuno mai le leggerà. E forse

interesseranno a pochi. Ma tant’è, poco me ne importa, perché

l’importante è l’essere sicuri delle proprie verità ed io ne sono

sicuro e non dico bugie. Ma c’è di più perché confesso che a

furia di scrivere, sia pure da dilettante e con uno stile “ fai da

te”, alla fine, quasi senza esserne consapevole, ho scoperto il

piacere di farlo, non solo occupandomi di me stesso, ma anche

delle vicende di questo nostro strano e complicatissimo mondo.

Fra le cose che si capiscono a volte solo ad una età avanzata ho

capito che quando il corpo invecchia e man mano perde alcune

sue prerogative, la mente invece, se si mantiene in funzione, si

arricchisce sempre di più perché osserva il mondo con

disincanto e fa tesoro di tante nuove conoscenze cosicché più

verità scopre e più ancora ne vuole scoprire.. Quello che però

non si può fare è adattare il mondo alle nostre esigenze mentre è

molto pi facile adattare noi stessi alle esigenze della natura. Alla

fine una è soprattutto l’angoscia che mi rimane e che si

concretizza nella domanda: perché in questo nostro mondo tutto

ciò che comincia, finisce? La verità sta nella fisica o nella

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metafisica? Ed esistono davvero questi due mondi così diversi

eppur conseguenti? Quello fisico e quello metafisico? Mi viene

da ridere perché io credo di sapere qual è la risposta giusta ma

non ve lo voglio dire. Però chi legge non ci faccia caso, provi a

ragionare con la sua testa e ad essere un tantino più ottimista di

me se ci riesce. Auguri!

Renato AlterioRenato Alterio

LA STORIA DI FAUSTOLA STORIA DI FAUSTO

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LA STORIA DI FAUSTOLA STORIA DI FAUSTO

Buttati Fausto, buttati! Gli gridò disperatamente un suo amico

mentre la loro nave affondava. Ma Fausto non sapeva nuotare e

perciò all’amico non rimase che piangerlo. Il giovane Cantalini

Fausto era nato a Navelli, paese di montagna nel cuore

dell’Abruzzo, in provincia dell’Aquila, paese di contadini.

Apparteneva ad una famiglia numerosa composta dai genitori,

da ben quattro figli maschi e due figlie femmine. Avevano tutti

la residenza a Navelli ma vivevano a Popoli, in provincia di

Pescara, perché il capofamiglia aveva trovato lavoro in uno

stabilimento chimico a Bussi, paese non distante da Popoli. Dei

suoi tre fratelli lui era il maggiore, il più grande dopo di lui era

Francesco, e poi, via, via, venivano prima Aldo e poi Carlo il

più piccolo dei maschi, seguivano le due sorelle Maria e Lucia o

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Luciana come la chiamava Fausto. Correva l’anno 1941 quando

Fausto, all’età di appena diciannove anni, si affidò al destino che

però si prese gioco di lui e lo beffò dopo averlo trascinato

nell’unica avventura della sua vita. In una famiglia così

numerosa come la sua, nella quale lavorava solo il capofamiglia,

non doveva essere semplice far quadrare i bilanci familiari. Per

questo motivo, Fausto, che era ormai quasi maggiorenne, decise

di arruolarsi nel Corpo della R. Guardia di Finanza. Ignorando il

fatto che era in corso una guerra, lui ebbe due tipi di incentivi

per farlo, il primo era la possibilità di contribuire al bilancio

familiare ed il secondo era la speranza che in quel Corpo lui

riuscisse a fare carriera. Era un ragazzo buono, religioso, amava

la patria e la famiglia, era volenteroso, ma un po’ troppo

credulone. Inoltre, non aveva un apprezzabile grado di

istruzione in quanto, a quei tempi, nei piccoli paesi contadini

d’Abruzzo, l’istruzione era un lusso che non tutti si potevano

permettere. Ai contadini di allora bastava ciò che a stenti

avevano imparato nella scuola elementare, in pratica, la cultura

per loro non era necessaria perché per la coltivazione dei campi

bastava la loro esperienza. Quei contadini si accontentavano di

saper leggere e scrivere e poco importava loro la grammatica e

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la sintassi. Perciò, non facciamoci nessuna meraviglia, allora si

scriveva male perché si parlava male, e si parlava sempre in

dialetto, e quando si scriveva veniva fuori una scrittura con tanti

strafalcioni, metà in italiano e metà in dialetto. Questa era la

norma e non se ne scandalizzava nessuno. Fausto non era

diverso dagli altri. E fu con quel tipo di bagaglio culturale che i

due compaesani ed amici Fausto ed Ugo partirono insieme da

Navelli con le loro valigie di cartone. Prima tappa a Roma e poi,

in treno, via verso Predazzo in provincia di Trento dove erano

attesi alla scuola della Guardia di Finanza. Lì li aspettava un

altro navellese di nome Aniceto. Quando vi arrivarono era il

mese di settembre dell’anno 1941 e Fausto si affrettò a

descrivere alla famiglia dov’era, qual’era la vita di caserma e a

quanto ammontava la paga : …Ad Aniceto gli hanno già dato

tutto, gli hanno dato una valigia e una cassa con tutto il

necessario occorrente. Appena che mi danno anche a me

l’occorrente rimanderò la valigia…Dove siamo noi vi è una

bella caserma siamo vicinissimo al paese il quale è a 1016

metri sul livello del mare…nei dintorni non si vedono che

montagne altissime, vi è già la neve sulle cime dei monti più

alti. Si sente un po’ freschetto, e a me fa molto impressione…io

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mi trovo molto bene anche perché c’è Aniceto al quale gli posso

chiedere qualche consiglio, lui ci aiuta ha voluto persino

lavarmi la cavetta il primo giorno che siamo arrivati…Sto

scrivendo sulla branda insieme con Aniceto e con Ugo…

Domani forse ci manderanno a fare la prima marcia, ma io me

la caverò perché domani sarò di ramazza..…State tranquilli

Fausto sta bene e distintamente vi saluta Aniceto….Per il

mangiare sto benissimo, e sto facendomi una scorpacciata di

frutta che sta a metà prezzo di quando era già a Popoli, e come

sai a me piace molto e non ci faccio caso…Però farò di tutto

per venire a Natale con la licenza premio che probabilmente ci

daranno…ieri ci hanno pagato, e ho ricevuto £ 115,50. Ed

invece la licenza premio sfumò e Fausto anziché per Popoli

dovette partire prima per Trieste e poi per Bari. Il perché lo

spiega lui stesso: Carissimi genitori:… Vi fo sapere che la mia

Compagnia è stata mobilitata, e di conseguenza lo sono

anch’io…Ricevuta questa notizia, vi metterete di sicuro in

pensiero, purtroppo invece non dovete pensarci affatto. Con la

parola mobilitata non dovete intendere che vado a combattere…

A me questa notizia mi ha sollevato, perché i mesi che sono

mobilitato, mi contano come se avessi fatto il confine, per poter

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concorrere alla Scuola Sottuficiali. A Bari incontrò il cugino

Luigi, ufficiale del R. Esercito in servizio nei pressi di Bari. Ne

informò i suoi genitori così: …Nel pomeriggio di ieri mi è

venuto a trovare il cugino Luigi, e ci abbiamo riabbracciati

affettuosamente…gli ho dovuto prestare 20 lire perché era in

bolletta….Quando lasciarono Bari tornarono al nord a Villa del

Nevoso. Agli spot del regime del tipo: “Vincere e Vinceremo”

Fausto ci credeva, perciò era tranquillo, si sentiva fuori dalla

mischia. Purtroppo non era così, però lui non poteva saperlo. E

partirono anche da Villa del Nevoso, questa volta con

destinazione Creta. Transitarono per Belgrado, sostarono al

Pireo e dal Pireo salparono in nave alla volta di Creta. Dal Pireo

Fausto scrisse al padre:…Ho serie intenzioni di fidanzarmi

ufficialmente con Pesetti Anna, cioè la sorella di Fulvio quella

che veniva a studiare a Sulmona. Magari se volete andrete voi

stessi a casa sua a parlargliene e io sono in attesa di una vostra

sollecita risposta che spero sia affermativa…Invece da Creta

scrisse ai genitori:”Ho provato una grande emozione

nell’attraversare per la prima volta il mare, durante la

traversata mi sono divertito un mondo, ed ho visto tante cose

nuove, …mi trovo benissimo. il clima è mite, tanto freddo non si

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sente e credo che la neve non ci sarà”. Già il mare! Affascinante

e crudele! Ma, una volta a Creta, ben presto, il suo umore

cambiò. Infatti, dalla Base Militare 121 così scrisse alla

famiglia:“…ho lasciato il paese , ardentemente desidero

rivederlo e speriamo che il buon Gesù conceda questa grande

grazia. Il giorno della Vittoria non è ancora molto lontano,

preghiamo il buon Dio che faccia ancora una volta trionfare la

nostra bella bandiera” Era la fine del mese di Agosto del 1943.

Dopo di allora ci fu un lungo silenzio, ma a volte i silenzi

pesano più delle parole. Di Fausto non si seppe più nulla sino a

guerra finita. Solo allora, un suo fortunato compagno di sventura

si recò a riferire alla famiglia come si era conclusa la loro

avventura. Il suo epilogo non fu molto diverso da quello dei

superstiti della strage di Cefalonia, perché furono anche loro

catturati dai tedeschi, stipati su di una carretta del mare e

naufragarono in adriatico. E, buttati Fausto!, Buttati! Così, gli

gridò il suo amico al momento del naufragio, l’ amico si salvò a

nuoto, ma Fausto non sapeva nuotare. D’un colpo gli si oscurò il

cielo, l’acqua salata gli occupò i polmoni e con gli occhi chiusi

dette addio alla vita. E tutto finì in un solo momento, giusto il

tempo di dire addio ai sogni, addio alle speranze, addio ai

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genitori, ai fratelli, alle sorelle, addio agli amici, addio ad una

giovinezza rubata.

Renato AlterioRenato Alterio

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