Aldous Huxley Lungo La Strada Annotazioni Di Un Turista

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Aldous Huxley

LUNGO LA STRADA

Annotazioni di un turista

Traduzione di Graziella Cillario

FRASSINELLI

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Indice

Parte prima I1 viaggio in generale

Perché non rimanere a casa? Uccelli migratori La visione del viaggiatore Le guide turistiche Gli occhiali La campagna Libri da viaggio

Parte seconda Luoghi

Montesenario I1 fiume di Patinir Portoferraio I1 Palio di Siena Paesaggi d'Olanda Sabbioneta

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Parte terza Opere d'arte

Bruegel Rimini e Alberti Consolo II più bel dipinto del mondo La fonte delle Muse

Parte quarta Altri appuntamenti

Una notte a Pietramala Lavoro e tempo libero La musica popolare Il mistero del teatro

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PARTE PRIMA

Il viaggio in generale

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Perché non rimanere a casa?

Ci sono persone che viaggiano per lavoro, altre per motivi di salute. Ma non sono certo i malati e gli uomini d'affari che riempiono i grandi alberghi e le tasche dei lo- ro proprietari. Sono quelli che viaggiano « per piacere », come si dice comunemente. Ciò che Epicuro - il quale non viaggiava mai, salvo quando fu esiliato - cercava nel suo giardino, i nostri turisti lo cercano lontano da ca- sa. E trovano la felicità? Coloro che frequentano le loca- lità cosiddette turistiche giudicheranno la domanda, con un'eventuale risposta negativa, piuttosto indelicata. In- fatti i turisti sono, nella maggioranza, gente dall'aria tri- ste. Ho visto facce più allegre a un funerale che in piazza San Marco. Solo quando si riuniscono in gruppo e riesco- no a illudersi fuggevolmente di essere a casa, la maggior parte dei turisti appaiono veramente contenti. Ci si do- manda perché vadano all'estero.

I1 fatto è che ben pochi amano davvero viaggiare. Se affrontano i fastidi e le spese di un viaggio non è tanto per curiosità o per divertimento o per il piacere di vedere

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cose belle e insolite, quanto per una forma di snobismo. La gente viaggia per le stesse ragioni per cui colleziona opere d'arte: perché così fa la buona società. Essere stati in certi punti della superficie terrestre è socialmente ap- propriato; dà un senso di superiorità su coloro che non ci sono mai stati. Inoltre i viaggi offrono argomenti di con- versazione utili quando si ritorna a casa. Questi non sono di solito così numerosi da potersi permettere di trascurare un'opportunità per allargare il proprio repertorio.

Per giustificare questo snobismo si è andata formando col tempo tutta una serie di miti. I luoghi che è social- mente elegante aver visitato sono aureolati di fascino, tanto da apparire a chi non c'è mai stato altrettante leg- gendarie Babilonia o Bagdad. Chi ha viaggiato ha un in- teresse personale a coltivare e diffondere queste leggen- de. Infatti se Parigi e Montecarlo sono dawero così me- ravigliose come le immaginano gli abitanti di Bradford o del Milwaukee, di Tomsk e di Bergen, allora tanto più grande è il merito di chi le ha visitate, tanto più marcata la sua superiorità su chi è rimasto a casa. È per questa ra- gione (e perché arricchiscono gli albergatori e le compa- gnie di navigazione) che le leggende sono mantenute scru- polosamente in vita.

Poche cose sono più patetiche dello spettacolo di certi viaggiatori inesperti, nutriti di questi miti, che fanno di tutto per far coincidere la realtà con la leggenda. È per amore del mito e, meno consciamente, per snobismo che hanno lasciato le loro case; ammettersi delusi dalla realtà sarebbe come ammettere la propria stupidità per aver creduto nella leggenda, e diminuirebbe il loro merito per aver intrapreso il pellegrinaggio. Sulle centinaia di mi- gliaia di anglosassoni che frequentano i night-club e le sa- le da ballo di Parigi ce ne sono indubbiamente molti che

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apprezzano sinceramente queste cose. Ma moltissimi altri provano segretamente un senso di fastidio e anche di di- sgusto. Eppure sono stati educati a credere in una Parigi favolosa, dove tutto è straordinariamente eccitante e do- ve, unico luogo al mondo, è possibile vedere quella che dawero si può chiamare Vita. Quindi, arrivando a Pari- gi, si dedicano coscienziosamente allo sforzo di essere al- legri. Ogni notte le sale da ballo e i bordelli sono affollati di seri giovani compatrioti di Emerson e di Matthew Ar- nold, assiduamente impegnati a tentare di vedere la Vita, pur in modo abbastanza confuso, attraverso i fumi sem- pre più densi dell'Heidsieck e del Roederer.

Ancora più coraggiose e determinate sono le loro com- pagne: queste per lo più (a meno che siano estremamente «moderne») non ricorrono al Roederer perché le aiuti a trovare Parigi allegra. Lo spettacolo più triste al quale abbia mai assistito è stato in una boîte di Montmartre alle cinque circa di un mattino d'autunno. A un tavolino d'angolo sedevano tre giovani americane, non accompa- gnate, avventurosamente impegnate a studiare la Vita da sole. Sul loro tavolo c'erano le rituali bottiglie di cham- pagne; ma per loro gusto, o forse per principio, bevevano limonata. L'orchestra jazz suonava stancamente; il per- cussionista, sfinito, chinava il capo sul suo tamburo, i1 saxofonista sbadigliava nel suo saxofono. A coppie, in gruppi, i clienti uscivano barcollando. Ma risolute, indo- mite, nonostante la stanchezza e la noia chiaramente visi- bili sui loro visi ingenui e graziosi, le tre ragazze non si muovevano dal loro posto. C'erano ancora quando al- l'alba me ne andai. Chissà quali storie, pensavo, avreb- bero raccontato al loro ritorno! E quale invidia avrebbe- ro fatto nascere nelle amiche rimaste a casa: «Parigi è semplicemente stupenda.. . »

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Ai parigini il mito regala diverse centinaia di miliardi di buona moneta. A esso dedicano un'abbondante pub- blicità; gli affari sono affari. Ma se io fossi il padrone di una sala da ballo di Montmartre direi ai miei camerieri di recitare la loro parte allegra con un po' più di convinzio- ne. «Ragazzi», direi loro, «dovete aver l'aria di credere nel mito sul quale ci guadagniamo da vivere. Sorridete, siate allegri. La vostra espressione attuale, che è un misto di noia, di disprezzo per i clienti e di cinica avidità, non è incoraggiante. Un bel giorno i clienti potrebbero essere abbastanza sobri per accorgersene. E allora dove an- dremmo a finire? »

Ma Parigi e Montecarlo non sono le sole mete di pelle- grinaggio. Ci sono pure Roma e Firenze. Ci sono musei, chiese e rovine, oltre che negozi e casinò. E lo snobismo che decreta che si deve amare l'Arte - o, per maggiore esattezza, che si devono visitare i luoghi dov'è visibile l'Arte - è quasi altrettanto tirannico quanto quello che ordina di visitare i luoghi dove si contempla la Vita.

Siamo tutti più o meno interessati alla Vita - anche a quella fetta abbastanza meschina che si può trovare a Montmartre. Ma il gusto per l'Arte - intendo il genere di arte che si trova nei musei e nelle chiese - non è affat- to universale. Quindi il caso dei poveri turisti che per sno- bismo visitano Roma e Firenze è ancora più patetico di quello di chi va per la stessa ragione a Parigi e Montecar- lo. I turisti che visitano una chiesa portano una maschera di riverente interesse; ma quanta stanchezza, quale tedio assoluto traspare così spesso dai loro occhi! E questa stanchezza è sentita ancora più forte proprio per lo sfor- zo di simulare un'attenzione assorta, di andare ipocrita- mente in estasi davanti alle cose segnalate dal Baedeker con varie stelle. Ci sono momenti in cui l'essere umano

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non riesce più a sopportare lo sforzo. I1 filisteismo rifiuta nettamente di pagare il tributo dovuto al gusto. Esaspe- rato e ribelle, il turista giura che non metterà mai più pie- de in una chiesa, e preferisce passare le sue giornate nel salone dell'albergo leggendo il Daily Mail, edizione per il continente.

Ricordo di aver assistito a una di queste ribellioni a Ve- nezia. Una società di navigazione lagunare faceva la pub- blicità di gite pomeridiane all'isola di Torcello. Preno- tammo i posti e all'ora fissata partimmo in compagnia di altri sette o otto turisti. Romantica nella sua solitudine, Torcello ci apparve sulla laguna. I marinai attraccarono a un piccolo molo in rovina. A quattrocento metri circa, fra i campi, sorgeva la chiesa. Essa contiene alcuni dei più bei mosaici d'Italia. Scendemmo sulla riva, tutti ad eccezione di una coppia di americani ostinati i quali, quando seppero che l'interesse dell'isola consisteva sol- tanto in una chiesa, ancora un'altra, decisero di rimanere comodamente seduti nella barca ad aspettare il ritorno del gruppo. Li ammirai per la loro fermezza e la loro one- stà. Ma nello stesso tempo mi parve piuttosto triste che avessero fatto tanta strada e speso tanto denaro semplice- mente per il piacere di stare seduti in un motoscafo or- meggiato a un molo putrido. Ed erano soltanto a Vene- zia. La loro avventura italiana era appena iniziata. Pado- va, Ferrara, Ravenna, Bologna, Firenze, Siena, Perugia, Assisi e Roma, con le loro innumerevoli chiese e pitture, erano ancora da vedere prima di raggiungere il felice tra- guardo di Napoli e potersi finalmente imbarcare sul tran- satlantico che li avrebbe riportati a casa. Poveri schiavi, pensai, di un padrone così esigente!

Li chiamiamo viaggiatori semplicemente perché non se ne restano a casa. Ma non sono viaggiatori autentici,

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viaggiatori nati. Infatti viaggiano non per il piacere di viaggiare ma per rispetto delle convenzioni. Partono nu- triti di speranze e illusioni fantastiche e ritornano, anche se non lo ammettono, delusi. Scarsamente interessati alla realtà, corrono dietro ai sogni, e le cose che vedono, sia pure belle, curiose e varie, sono una delusione. Solo la vi- cinanza dei loro compagni di viaggio, con i quali ogni tanto si creano una piccola oasi domestica nel deserto di un paese straniero, insieme alla coscienza di assolvere un dovere sociale, li tiene sia pur moderatamente allegri di fronte alle deprimenti realtà del viaggio.

L'autentico viaggiatore, invece, è così interessato alle cose reali che non giudica necessario credere nei miti. È di una curiosità insaziabile, ama le cose sconosciute pro- prio in quanto sconosciute, si entusiasma per ogni mani- festazione di bellezza. Sarebbe assurdo, certo, dire che non si annoia mai. È praticamente impossibile viaggiare senza annoiarsi ogni tanto. Per il turista una parte della. giornata è inevitabilmente vuota. Per cominciare, si pas- sa molto tempo a spostarsi da un luogo all'altro. E quan- do le visite sono finite, il turista si ritrova stanco fisica- mente e con niente di particolare da fare. A casa propria, fra le varie occupazioni normali, non ci si annoia mai. La noia è essenzialmente un sentimento della vacanza. (Non è forse il male cronico dello sfaccendato?) Proprio per questa ragione il vero viaggiatore trova piacevole la noia: è il simbolo della sua libertà - del suo eccesso di libertà. Accetta la noia, quando viene, non solo con filosofia ma quasi con gioia.

Per il viaggiatore nato viaggiare è il vizio dominan- te. Come gli altri vizi è tirannico, esige dalla sua vitti- ma tempo, denaro, energie e il sacrificio delle sue como- dità. Vanta dei diritti; e il viaggiatore nato cede di buon

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grado, quasi con entusiasmo. Molti vizi, vorrei aggiunge- re tra parentesi, esigono considerevole abnegazione. È un grave errore immaginare che una vita di vizi sia una vita di ininterrotti piaceri. È quasi altrettanto faticosa e diffi- cile - se intensamente vissuta - quanto quella di Chri- stian ne Il viaggio delpellegrino. La differenza principale fra Christian e l'uomo vizioso è che il primo ottiene qual- cosa dai suoi sacrifici - sotto forma di un certo saltuario benessere spirituale, per non parlare di ciò che può trova- re in quella Gerusalemme gravemente problematica oltre il fiume - mentre il secondo non ottiene nulla, salvo for- se la gotta e la paralisi progressiva della demenza.

I1 vizio di viaggiare, è vero, non porta necessariamente con sé queste due malattie; anzi, per la verità, nessun tipo di malattia, a meno che i vostri vagabondaggi si spingano fino ai tropici. Nessuna malattia del corpo, perché viag- giare non è un vizio del corpo (semplicemente lo fiacca) ma della mente. I1 viaggiatore che ama il viaggio in sé stesso è come il lettore sregolato - un uomo che si ab- bandona al proprio piacere.

Come tutti gli altri uomini viziosi, il lettore e il viaggia- tore hanno un intero arsenale di giustificazioni per difen- dersi. Leggere e viaggiare, dicono, allargano la mente, stimolano la fantasia, sono altamente educativi. E così via. Questi sono argomenti speciosi; non convincono nes- suno. Perché, anche se è vero che per alcuni le letture e i viaggi senza scopo sono molto istruttivi, non è per questo motivo che la maggior parte dei lettori appassionati e dei viaggiatori nati indulgono ai loro gusti. Leggiamo e viag- giamo non per allargare e arricchire la nostra mente, ma per dimenticare piacevolmente la sua esistenza. Amiamo la lettura e i viaggi perché sono i più deliziosi di tutti i sur- rogati del pensiero. Surrogati sofisticati e abbastanza raf-

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finati. Per questo motivo non sono alla portata di tutti. Il lettore o il viaggiatore congenito appartiene a quella raz- za esigente che non trova lo svago di cui ha bisogno nelle scommesse, nel mah-jong, nell'alcol, nel golf e nel ballo.

Sono ben pochi quelli che viaggiano o che leggono con uno scopo e un metodo definiti. Sono una classe moral- mente ammirevole. Ed e la classe alla quale in genere ap- partengono le persone che realizzano qualcosa nella vita. Però non sempre, in verità. Purtroppo, infatti, si posso- no avere nobili scopi e una bella personalità ma nessun talento. Qualcuno dei viaggiatori e dei lettori che più in- dulgono al piacere momentaneo ha saputo trarre vantag- gio dai propri vizi. La sregolatezza nella lettura fu il pec- cato principale del dottor Johnson; leggeva qualsiasi li- bro gli capitasse fra le mani, ma nessuno fino alla fine. Eppure i suoi risultati non furono da poco. E ci sono stati viaggiatori frivoli, come Beckford, che sono andati in gi- ro per il mondo indulgendo a una curiosità capricciosa, con risultati quasi altrettanto buoni. La virtù ha in sé il suo compenso; ma l'uva che il talento sa cogliere non è un po' acida?

Per me viaggiare è decisamente un vizio. La tentazione di indulgervi è irresistibile, quasi come quella di leggere in maniera indiscriminata, onnivora e senza scopo. Ogni tanto, è vero, prendo la decisione incrollabile di emen- darmi. Traccio programmi di letture serie e proficue; ten- to di trasformare i miei vagabondaggi in viaggi sistemati- ci attraverso la storia dell'arte e della civiltà. Ma senza molto successo. Dopo un po' ricado nei miei vecchi erro- ri. Deplorevole debolezza! Cerco di consolarmi con la speranza che anche i miei vizi possano essermi di qualche utilità.

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Uccelli migratori

Capelli biondi, capo scoperto, faccia abbronzata, più scura dei capelli, essi arrancano sulle strade polverose. Portano calzoncini corti tirolesi, dai quali escono le gi- nocchia cotte dai sole. Gli enormi scarponi chiodati han- no un suono metallico sulle lastre di pietra delle chiese nelle quali, Kunstforscher coscienziosi, si introducono. Portano sul dorso lo zaino e fra le mani a volte un basto- ne, a volte un grosso ombrello; li ho visti scalare il Viale dei Colli a Firenze con la piccozza in mano. Sono gli « uc- celli migratori» e, come il loro nome (così romantico e usato senza ironia) schilleriano così palesemente dimo- stra, vengono dalla Germania. Molti di loro hanno fatto tutto il percorso a piedi, da Berlino a Taranto attraverso le Alpi e ritorno, senza denaro, mangiando pane e acqua, dormendo nei fienili o ai lati della strada. Giovani avven- turosi e audaci! Sento per loro la più profonda ammira- zione. Addirittura li invidio, vorrei avere la loro energia, il loro coraggio. Ma non li imito. Dice l'inno:

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Gli antichi Santi salivano al Cielo Con dolore, sforzo e fatica.

Signore, a noi pure sia data la forza Per seguire in corteo. *

Per me, devo confessare, anche il treno è diventato un mezzo di locomozione troppo scomodo per farne molto uso. Correggerei i due ultimi versi dell'inno così:«Signo- re, a noi pure sia data la ricchezza per seguire in automo- bile». La preghiera è stata esaudita, almeno in parte; in- fatti è da vedere se una Citroen dieci cavalli possa vera- mente essere chiamata automobile. 1 possessori di Na- pier, Vauxhall, Delage e Voisin lo negherebbero di certo. Non discuterò la faccenda. Tutto quello che posso dire a favore della Citroen dieci cavalli è che funziona. Mode- stamente e alla buona, non molto velocemente, ma con regolarità e sicurezza. Questo esemplare ci ha portati per diverse migliaia di chilometri sulle strade d'Italia, Fran- cia, Belgio e Olanda; il che, per chiunque abbia familiari- tà con quelle strade, è tutto dire.

A questo punto, se sapessi controllarmi, smetterei di parlare di Citroen e ritornerei a temi più elevati. Ma la tentazione di parlare di automobili, per chi ne possiede una, è irresistibile. Prima di comprare la mia Citroen nes- sun argomento mi pareva meno interessante; ora nessuno lo è di più. Posso parlare per ore di motori con gli altri automobilisti. E sono pronto ad annoiare implacabil- mente i non motorizzati parlando loro all'infinito di que- sto delizioso argomento. Spreco molto tempo prezioso

* I1 verso in lingua originale suona: To follow in the train, dove train significa «corteo», ma anche «treno»: di qui il gioco di parole nelle considerazioni successive. (N.d. T.)

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leggendo giornali di automobilismo, mi appassiono alle notizie delle corse su pista, leggo con la massima atten- zione i vari dettagli tecnici che non capisco. E una pazzia, ma di un genere molto piacevole.

Le conseguenze spirituali dell'essere un possessore di automobile non sono, mi accorgo, tutte benefiche. L'in- trospezione e i discorsi degli altri automobilisti mi hanno dimostrato che possedere un'automobile puo avere un pessimo effetto sul carattere. Per cominciare, ogni auto- mobilista è un bugiardo. Non può dire la verità circa la sua macchina. Ne esagera la velocità, il numero di chilo- metri che fa con un litro di benzina, le proprie prodezze di arrampicatore in montagna. Nel calore della conversazio- ne anch'io ho peccato in questo senso più di una volta; e anche a freddo, con premeditazione, ho proferito sull'ar- gomento bugie coscienti e calcolate. Non mi pesano molto sulla coscienza. Non sono un casuista, ma mi pare che una menzogna pronunciata senza aspettarsi che nessuno ci creda sia una colpa molto veniale. L'automobilista, come

il pescatore, non suppone mai realmente che le sue vante- rie vengano credute. Io pure ho smesso da molto tempo di dare il benché minimo credito a quello che mi dicono i miei compagni automobilisti. I1 mio ultimo residuo di fi- ducia fu distrutto da un guidatore belga il quale mi assicu- rb che due ore erano più che sufficienti per il percorso da Bruxelles a Ostenda; lui stesso, dichiarò, lo faceva conti- nuamente e non impiegava di più. Gli credetti e non con- sultai la guida delle strade. Se lo avessi fatto avrei scoper- to che la distanza fra le due città è di oltre cento chilome- tri, che la strada è tutta pavimentata a ciottoli e per di più molto male, e che si deve passare attraverso tre grandi cit- tà e circa venti paesi. Così partimmo a pomeriggio inoltra- to e fummo fatalmente sorpresi dalla notte. Ora, quando

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un automobilista mi dice quanto impiega per andare da un luogo all'altro, aggiungo alla cifra dal trenta al sessan- ta per cento, a seconda della persona. In questo modo ot- tengo la verità approssimativa.

Un altro orribile peccato sviluppato dal possesso di un'automobile, specialmente se piccola, è l'invidia. Qua- le amarezza riempie l'animo del proprietario di una 10 HP quando viene superato da una 40 HP lanciata silen- ziosamente a tutta velocità! Che odio feroce prova per il possessore della macchina più grande! Da quale invidia e bramosia viene preso! Sulle strade piane si prova minore invidia che su quelle in salita. In pianura infatti anche l'automobile piccola se la cava con onore a mantenere la fiducia in se stesso del guidatore. Mentre in un paese montagnoso, come per esempio l'Italia, dove le strade salgono fino a settecento o ottocento metri di altezza per poi ridiscendere, fiorisce il peccato mortale dell'invidia. Là veramente l'automobile piccola deve riconoscere la sua mortificante piccolezza. La superiorità della 40 HP diviene dolorosamente evidente. Fu sul Moncenisio che la coppa della nostra umiliazione traboccò e l'invidia più nera invase le nostre anime. Eravamo partiti da Torino. Per i primi cinquanta chilometri la strada è perfettamente piana. Li percorremmo di slancio; le piccole Fiat mangia- vano la nostra polvere. Di fronte a noi, come un immen- so muro irregolare, le Alpi sorsero improvvisamente dal- la pianura. In fondo a una lunga valle dal fondo piatto che conduce nel cuore delle montagne si incontra la città di Susa. La si attraversa e di colpo, senza preavviso, la strada comincia ad arrampicarsi. Prosegue ripida, senza tregua, per i prossimi venticinque chilometri. I1 passo su in cima è a quasi duemila metri sul livello del mare. La Citroen passò in seconda e affrontò sbuffando la salita.

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Avevamo percorso circa un chilometro quando ci colpì un rumore che veniva dalla valle, come il frastuono di molte mitragliatrici tutte insieme. Divenne sempre più forte. Dopo un minuto un'enorme Alfa Romeo rossa da corsa, stranamente simile a quella che aveva appena vin- to il Gran Premio d'Europa, ci superò rombando a una velocità non inferiore agli ottanta chilometri all'ora. Era guidata evidentemente da un genio, perché guardando in su vedemmo il mostro scarlatto che affrontava un tor- nante dopo l'altro della strada a zig zag sopra di noi sen- za abbassare la velocità di un solo chilometro orario. In altri trenta secondi scomparve alla vista. I1 rumore si ri- percuoteva fra le montagne come un tuono. Noi conti- nuammo ad arrancare. Mezz'ora più tardi incrociammo il terrore rosso che scendeva; nelle svolte mostrava lo stesso disprezzo per le più elementari regole della dinami- ca che aveva mostrato nella salita. Pensavamo di averlo visto per l'ultima volta. Ma mentre aspettavamo alla do- gana italiana che il funzionario esaminasse le nostre carte - operazione che, come in tutte le dogane, richiese mol- to tempo - udimmo in distanza un rumore familiare. In pochi minuti divenne assordante. Come un enorme razzo rosso, trascinandosi dietro una nuvola di fumo, 1'Alfa Romeo precedette la sua polvere bianca. «Stanno facen- do dei collaudi di salita in montagna)), spiegò il soldato di guardia. Ripartimmo ancora una volta. La dogana è solo a metà strada della montagna; restavano all'incirca altri mille metri per raggiungere la cima. Lentamente, sempre in seconda, ci disponemmo a percorrerli. Erava- mo solo a un chilometro dalla dogana quando, per la se- conda volta, incrociammo 1'Alfa Romeo che scendeva. Scomparve, portando con sé un carico di odio, di invidia e di sentimenti poco caritatevoli di varia specie.

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La strada saliva e saliva. Passammo attraverso la zona delle pinete. Intorno e sopra di noi, ora i pendii spogli; sulle cime più vicine, al di là della stretta valle, c'erano chiazze di neve. Nonostante fosse estate, l'aria era insoli- tamente pungente. Soffiava il vento; all'ombra faceva decisamente freddo. Ma questo non impediva all'auto- mobile di bollire.

I1 ricovero e gli alberghi del Moncenisio sorgono sulle rive di un lago al centro di un piccolo pianoro, un mira- colo di terra pianeggiante fra le linee perpendicolari cir- costanti. Sul lato italiano questa piattaforma fra le alture finisce bruscamente in una specie di precipizio. Negli ulti- mi cento o duecento metri la strada che vi conduce è ta- gliata nella roccia e sale con una pendenza non comune. Eravamo a metà strada su per questi ultimi tornanti quando di colpo, irrompendo con un rombo dall'angolo di una sporgenza rocciosa che ne aveva attutito il rumo- re, 1'Alfa Romeo scarlatta ricomparve in fondo allo stra- piombo che stavamo faticosamente risalendo a zig-zag. Ci inseguiva come una bestia feroce che insegue la sua preda ruggendo. Proprio mentre raggiungevamo la cima il mostro ci sorpassò e continuò la sua corsa sul pianoro. La nostra umiliazione era al culmine. Invidia e malumore bollivano in noi, come l'acqua bolliva nel radiatore della nostra misera macchinetta. «Se almeno », dicemmo, ((avessimo una vera automobile.. . » Ambivamo a sosti- tuire la passione dell'invidia con le passiopi altrettanto perverse e non cristiane dell'orgoglio e del disprezzo, cioè a essere quelli che superano con esultanza invece di quelli che sono superati. Sì, anche il cuore dei figli dell'uomo è pieno di malvagità, e la follia alberga nel loro cuore fin- ché sono vivi, dopo di che vanno tra i morti. Quando ar- rivammo all'albergo 1'Alfa Romeo aveva girato e si pre-

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parava alla terza discesa. «È una brutta automobile)), di- cemmo.

Tali sono le conseguenze morali di possedere una pic- cola automobile. Tentammo di ragionare fra noi. «Dopo tutto», dicevamo, «questa macchinetta ha fatto un buon servizio. Ci ha portati su strade cattive, su e giù per mon- tagne immense, attraverso tutta una serie di paesi. Ci ha portati non solo attraverso lo spazio, sulla faccia della terra, ma attraverso il tempo - nelle varie epoche - at- traverso l'arte, attraverso le lingue e gli usi, la filologia e l'antropologia. È stata strumento di grandi e svariati pia- ceri. Costa poco, si comporta bene, ha delle abitudini re- golari come quelle di Immanuel Kant. Nel suo modo sen- za pretese è un modello di virtù. » Dicemmo tutto questo e molto di più, e fu consolante. Ma nel fondo dei nostri cuori covavano ancora l'invidia e lo scontento, come ser- penti attorcigliati, pronti ad alzare la testa la prossima volta che quaranta cavalli ci avrebbero superati in una sa- lita.

Si può obiettare che il proprietario della piccola auto- mobile non è il solo a provare invidia. I viandanti che percorrono i loro sei chilometri all'ora, sudando su per la salita polverosa, devono invidiare indiscriminatamente sia l'uomo della dieci cavalli che quello della quaranta ca- valli. Certo, alcuni di loro probabilmente lo fanno. Ma non va dimenticato che ci sono pedoni che vanno a piedi perché lo preferiscono sinceramente al farsi portare co- modamente da un mezzo meccanico. In gioventù cercavo di convincermi che preferivo andare a piedi piuttosto che ricorrere ad altri mezzi di locomozione. Ma presto scoprii che non era vero. Per un po' di tempo recitai come tanti (e sono assai numerosi) la parte del campagnolo cordiale che va in giro a bere birra nelle piccole osterie perché è la

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cosa giusta da fare. Tuttavia finii per ammettere con me stesso e con gli altri che non avevo lo spirito del girovago appiedato, che non ero fatto per l'esercizio pesante e per le scomodità e che non intendevo più fingere di esserlo. Ma continuo ad avere il massimo rispetto per quelli che lo sono, e penso che appartengano a un tipo di umanità superiore a quello predominante nel nostro tempo, amante dell'ozio e degli agi. Una delle grandi attrattive del progresso meccanico è che esso ci permette di fare ogni cosa facilmente e rapidamente. Questo è molto pia- cevole, ma non credo che sia salutare per lo spirito. E non lo è neppure per il corpo. È nei paesi civilizzati, dove gli esseri umani mangiano di più e fanno meno esercizio, che il cancro è più diffuso. Questo male aumenta con l'e- spandersi delle fabbriche di Henry Ford.

Nonostante tutto preferisco seguire in automobile. Ai viandanti che superiamo sulla nostra strada faccio tanto di cappello. È un segno della mia stima sincera. Ma den- tro di me ripeto le parole dell'Abate nei Racconti di Can- terbury: «Che sia riservata a Austin la sua dura fatica)).

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La visione del viaggiatore

Potrei dare molte eccellenti ragioni della mia avversio- ne per i grandi pranzi, le serate, i ricevimenti, le feste, gli incontri letterari, i balli. La vita non è abbastanza lunga per sprecare il tempo in queste cose; il gioco non vale la candela. I1 rapporto sociale superficiale è come un picco- lo sorso di alcol che stimola il sistema nervoso ma non nutre. E così via. Tesi rispettabili e certamente vere. E su di me hanno avuto senza dubbio il loro peso. Ma l'argo- mento decisivo contro i grandi raduni e in favore della solitudine e delle piccole riunioni intime è, nel mio caso, di carattere più personale. Dipende non dalla mia ragione ma dalla mia vanità. I1 fatto è che nelle grandi assemblee non brillo affatto; in realtà emetto appena un barlume. E la coscienza del proprio grigiore è umiliante.

Questa incapacità di essere brillante in compagnia è dovuta interamente alla mia eccessiva curiosità. Non rie- sco ad ascoltare quello che dice il mio interlocutore o a trovare qualcosa da rispondergli perché non so fare a me- no di ascoltare le conversazioni che si svolgono intorno a

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me a portata di orecchio. Per esempio, il mio interlocuto- re sta dicendo qualcosa di molto intelligente a proposito di Henry James e ovviamente alla fine del suo discorso si aspetta da me un commento brillante o acuto. Ma le due donne alla mia sinistra stanno raccontando una storia scandalosa che riguarda una persona che conosco. L'uo- mo dalla voce tonante all'altro capo della stanza sta di- scutendo i meriti di varie automobili. Lo studioso di scienze accanto al camino sta parlando della teoria dei quanti. L'illustre avvocato irlandese sta raccontando aneddoti nel suo inimitabile stile professionale. Dietro di me un giovanotto e una ragazza si stanno scambiando opinioni sull'amore, mentre dal gruppo nell'angolo più distante colgo una frase incidentale che mi fa arguire che stanno parlando di politica. Sono dominato da una cu- riosità invincibile, dall'ardente desiderio di captare quel- lo che ognuno sta dicendo. Scandali, motori, quanti, amenità irlandesi, amore e politica mi sembrano infinita- mente più interessanti di Henry James; e ognuno di que- sti argomenti è a sua volta più interessante di tutti gli al- tri. La curiosità svolazza disperatamente di qua e di là, come un uccello in una gabbia di vetro. E il risultato fina- le è che, non ascoltando quello che dice il mio interlocu- tore ed essendo troppo frastornato per rispondere sensa- tamente, devo apparire un idiota ai suoi occhi, e intanto il numero eccessivo delle mie illecite curiosità mi rende impossibile soddisfarne neppure una.

Ma questa esagerata ed eterogenea avidità di sapere, così fatale a chi desidera essere bene accetto in società, è un notevole vantaggio per chi sta semplicemente a guar- dare, senza partecipare alle azioni dei suoi simili.

Per il viaggiatore che è costretto, gli piaccia o no, ad atteggiarsi a osservatore distaccato, la curiosità è addirit-

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tura una necessità. La noia, dice Baudelaire, è fruit de la morne incuriosité. I1 turista che non ha curiosità è con- dannato alla noia.

Ci sono pochi passatempi più piacevoli che stare seduti al caffè o al ristorante o nella carrozza di terza classe di un treno guardando i propri vicini e ascoltando (senza tentare di partecipare alla conversazione) i frammenti di discorso che si possono intercettare qua e là. Dal loro aspetto e dalle loro parole si può ricostruire con l'imma- ginazione la loro personalità, la storia della loro vita. Sulla base di un singolo osso fossile, con un po' di fanta- sia si costruisce l'intero diplodoco. È un magnifico gioco. Ma va giocato con discrezione. Una curiosità troppo ma- nifesta può offendere. Si deve osservare e ascoltare senza averne l'aria. Se il gioco viene fatto in due, i commenti devono essere espressi in una lingua diversa da quella del paese in cui ci si trova. Ma forse la regola più importante del gioco è quella che vieta, salvo casi eccezionali, di fare qualsiasi sforzo per arrivare a conoscere l'oggetto della propria curiosità.

Purtroppo, infatti, l'oggetto della propria curiosità, una volta conosciuto da vicino, si rivelerà del tutto imme- ritevole di ogni interesse ulteriore. A distanza è possibile sentire un'acuta curiosità per un abbonato della linea di Surbiton. La sua testa calva è così luccicante; i suoi baffi impornatati sono così buffi; diventa così rosso in faccia quando parla dei socialisti con gli amici; la sua risata è così sonora e sgradevole quando uno di loro racconta una storiella sporca; suda così abbondantemente quando fa caldo; fa sfoggio di tanta competenza quando parla di rose; ha una sorella che vive a Birmingham; suo figlio ha appena vinto un premio per la matematica a scuola. A una certa distanza tutto questo è affascinante; stimola

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l'immaginazione. Questo ometto si fa amare; è un perso- naggio simpatico, una vera fetta di vita. Ma fatene la co- noscenza... Da quel momento farete di tutto per viaggia- re in un altro scompartimento.

Come sono divertenti, originali e fantastiche le persone viste a distanza! Quando penso al numero di uomini e donne affascinanti che non ho mai conosciuto (soltanto visto o ascoltato temporaneamente) sono meravigliato. Ne ricordo a centinaia. I miei preferiti, sono incline a pensare, sono stati quegli impiegati delle poste, maschi e femmine, che vivevano in pensione nel piccolo albergo di Ambérieu dove tempo fa ho abitato per una settimana o poco più terminando di scrivere un libro. Erano un grup- petto straordinario. C'era l'uomo vecchiotto che arriva- va sempre in ritardo per la cena, con un berretto in testa - un tipo arcigno e taciturno; c'era il ragazzo giovanissi- mo, niente affatto arcigno ma silenzioso a causa della ti- midezza; c'era il meridionale allegro e vivace che scherza- va e faceva il galante con le signorine; e c'erano le tre si- gnorine, una brutta ma abbastanza vivace, una piuttosto graziosa ma un tipo molle e anemico, la terza così carica di vitalità che non si poteva fare a meno di trovarla bella - occhi neri così mobili, un sorriso, una voce, e così spi- ritosa! I1 giovanotto timido la contemplava con occhi bo- vini, arrossiva quando lei lo guardava, l'ascoltava parla- re con un sorriso tonto e dimenticava di mangiare la sua cena. La sua presenza addolciva la tetraggine dell'uomo anziano e spingeva il meridionale a voli sempre più arditi. E la sua superiorità era così marcata che la ragazza brutta e quella clorotica non erano minimamente gelose, ma la adoravano. È assurdo essere gelosi degli dèi.

Quanto mi piaceva quel gruppo! Con quale appassio- nato interesse li sorvegliavo dal mio tavolo nella saletta

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da pranzo! Con quanta attenzione tendevo l'orecchio ai loro discorsi! Seppi dove avevano passato le loro vacan- ze, chi di loro era stato a Parigi, dove abitavano i loro pa- renti, che cosa pensavano del direttore dell'ufficio posta- le di Ambérieu, e un'infinità di altre cose, tutte straordi- nariamente interessanti ed eccitanti. Ma per niente al mondo avrei voluto fare la loro conoscenza. La padrona si offrì di presentarmeli; ma rifiutai l'onore. Temo che mi giudicasse uno snob; era fiera dei suoi pensionanti. Mi era impossibile spiegarle che la mia riluttanza a conoscer- li era dovuta al fatto che li amavo ancora più di lei. Co- noscerli avrebbe signficato rovinare tutto. Da esseri straordinari e misteriosi sarebbero decaduti a piccoli im- piegati insignificanti e patetici, condannati a passare la loro vita malinconicamente in una piccola città di provin- cia.

Poi vi furono i milionari di Padova. Come ci divertim- mo alle loro spalle! Fu il cameriere a dirci che erano dei plutocrati. Nel ristorante dell'Hotel Storione di Padova c'è, pare, un tavolo speciale riservato ai milionari. Quat- tro o cinque di questi pranzavano lì regolarmente ogni giorno nel periodo che noi passammo all'albergo. Erano personaggi splendidi, perfettamente in carattere con i mi- lionari dei film italiani. Nei film americani, certo, il tipo e molto diverso. Un milionario di Hollywood e un uomo forte e taciturno, ben sbarbato, con una faccia come un'accetta oppure come una focaccina non cotta. Questi invece avevano enormi barbe, parlavano in continuazio- ne, erano vestiti lussuosamente e portavano guanti bian- chi. Sembravano un gruppetto di Barbablù.

Un altro dei miei ricordi preferiti è la sirena che vedem- mo al Ristorante Centrale di Genova. Era seduta a un ta- volo vicino a noi con quattro uomini, tutti disperatamen-

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te innamorati di lei, e parlava, lo si vedeva dal loro modo di ascoltare e di ridere, come tutte le eroine di Congreve fuse in una sola. Uno degli uomini era turco e doveva ri- correre continuamente all'interprete, senza il cui aiuto la maggioranza degli avventori di quel ristorante poliglotta non sarebbero stati in grado di ordinare i loro macchero- ni. Un altro - era vecchio e pagava il pranzo - doveva essere il marito o l'amante. Poveretto, ogni tanto aveva un'aria afflitta, quando lei si rivolgeva al turco, sua vitti- ma principale, con l'intenzione troppo evidente di sedur- lo, oppure a uno degli altri uomini. Ma allora lei gli sorri- deva, guardandolo un momento con i suoi occhi grigio- azzurri, e lui era di nuovo contento. No, non proprio contento; è il termine sbagliato. Ubriaco - penso che si avvicini di più. Ebbro di gioia in superficie; e dentro. di un'infelicità senza fondo. Così ragionavamo romantica- mente da lontano. Che cosa avremmo scoperto in uno studio più ravvicinato non lo so - né voglio saperlo.

L'essere umano piu insignificante, visto a una certa di- stanza da uno spettatore dotato di un'attiva fantasia e della volontà di vedere il meglio delle cose, assume un fa- scino misterioso, diventa strano ed eccitante. Si pub pro- vare una forte emozione a proposito di persone lontane e sconosciute; emozione che è impossibile ritrovare dopo averne fatto la conoscenza, ma che cede il posto al giudi- zio e conseguente affetto o antipatia.

Certi scrittori hanno sfruttato, sia deliberatamente che per incapacità di fare altrimenti, l'emozione dello spetta- tore in presenza di attori sconosciuti. Per esempio Joseph Conrad. Il fascino acuto e misterioso dei suoi personag- gi, in particolare quelli femminili, è dovuto al fatto che lui non sa niente di loro. Se ne sta in disparte, li osserva agire e poi continua a chiedersi, attraverso le pagine del

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lungo e tortuoso racconto di Marlow, perché mai essi ab- biano agito così, quali siano stati i loro moventi, che cosa abbiano sentito e pensato. La visione quasi divina di quei romanzieri che realmente sanno o pretendono di sapere esattamente che cosa accade nella mente dei loro perso- naggi è l'opposto della visione del viaggiatore, dell'estra- neo che parte con nessuna conoscenza della personalità degli attori e può solo dedurre dalle loro azioni cib che avviene nelle loro menti. Conrad, bisogna ammetterlo, riesce a dedurne ben poco; gli manca la fantasia del pa- leontologo, il potere di ricostruire il pensiero in base al comportamento. Alla fine di un romanzo le sue eroine sono altrettanto nebulose quanto lo erano all'inizio. Hanno agito, e Conrad si è a lungo chiesto - senza sco- prirlo - perché hanno agito in quel particolare modo. La sua perplessità è contagiosa; il lettore è sconcertato quanto lui e giudica i personaggi altrettanto sorprenden- temente misteriosi. Il mistero è eccitante e delizioso; ma è assurdo dargli troppa importanza. Una cosa è misteriosa semplicemente perché è sconosciuta. I misteri esisteranno sempre perché ci saranno sempre cose sconosciute e inco- noscibili. Ma è meglio conoscere ciò che è conoscibile. Non c'è nessun merito a non conoscere ciò che può essere conosciuto. Certi letterati, per esempio, si vantano della loro ignoranza della scienza; sono degli sciocchi e degli arroganti. Se i personaggi di Conrad sono misteriosi, non è perché sono complicati, difficili q sfuggenti, ma sempli- cemente perché lui non li capisce; e non riuscendo a capi- re come sono, fa delle ipotesi senza successo, e finisce per ammettere che sono impenetrabili. L'onestà con la quale confessa la sua ignoranza é meritoria, non così l'ignoran- za. I personaggi dei grandi romanzieri come Dostoevskij e Tolstoj non sono misteriosi; sono capiti perfettamente e

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descritti con chiarezza. Questi scrittori vivono con le loro creazioni. Conrad le guarda soltanto di lontano, senza capirle, senza neppure fare su di loro qualche ipotesi plausibile lavorando di fantasia.

Sotto questo aspetto è diverso da Katherine Mansfield, un'altra scrittrice che applica agli esseri umani la visione del viaggiatore. La Mansfield infatti ha una fervida fan- tasia. Come Conrad, vede i suoi personaggi da una certa distanza, come da un tavolino al caffè; coglie brani dei loro discorsi - sulle loro zie a Battersea, le loro raccolte di francobolli, le loro anime - e li trova straordinari, più attraenti di qualsiasi persona reale e conosciuta, origina- li, estremamente eccitanti. Scopre che sono la Vita stessa, la Vita bella e fantastica. Ma raramente va oltre questa conoscenza a distanza con i suoi personaggi per familia- rizzarsi con le loro piatte vite quotidiane. Dove Conrad, perplesso, si limita a fare congetture, la Mansfield usa la sua immaginazione. Inventa vite credibili per le favolose creature adocchiate al caffè. E come sono sempre entu- siasmanti queste vite immaginarie! Ma proprio per que- sta ragione non sono molto convincenti. I suoi studi di interni sono come quelle brillanti ricostruzioni paleonto- logiche che vediamo nei libri di scienza popolare - l'it- tiosauro nelle sue acque natie, lo pterodattilo che svolaz- za e si slancia nel tiepido cielo del terziario - troppo fan- tasticamente romantici, nonostante la loro pretesa di rea- lismo, per essere veramente genuini. I suoi personaggi so- no visti con straordinaria vivacità e precisione, come si vede un gruppo di persone in un salotto illuminato, di se- ra, attraverso una finestra con le tende scostate - una di quelle riunioni mondane di cui si legge nel Peter Bell:

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Alcuni sorseggiano punch, altri tè, Tutti nel più grande silenzio,

Tutti zitti e tutti dannati.

Li si vede per un momento in una luce significativa. Sembrano creature favolose (anche se naturalmente, nel- la loro realtà individuale e agli occhi di quelli che stanno con loro nella stanza, non lo sono affatto). Poi si passa oltre e scompaiono. Ciascuna delle storie di Katherine Mansfield è una finestra su una stanza illuminata. La vi- sta dei suoi occupanti che sorseggiano tè e punch è straor- dinariamente eccitante. Ma, una volta passati oltre, non si sa nulla di cib che veramente sono. Questa è la ragione per cui, pur stimolanti a una prima lettura, le sue storie non resistono al tempo. A differenza di quelle di Cecov; ma lui aveva vissuto con i suoi personaggi, oltre che guar- darli dalla finestra. La visione del viaggiatore su uomini e donne non è esauriente. Si può passare la vita sui treni e nei ristoranti e alla fine non conoscere niente dell'umani- tà. Per conoscerla occorre essere attore oltre che spetta- tore. Si deve pranzare a casa come nei ristoranti, smettere il gioco divertente di spiare attraverso finestre sconosciu- te per vivere la vita piatta, tranquilla, senza emozioni fra le pareti domestiche. Tuttavia il gioco, se è considerato un divertimento saltuario e non una seria attività della vi- ta, è un'ottima cosa. Ed è l'unico vero gioco da viaggio.

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Le guide turistiche

Per il viaggiatore che abbia dei gusti personali l'unica guida utile sarebbe quella scritta da lui stesso. Tutte le al- tre non fanno che irritarlo. Segnano con asterischi le ope- re d'arte che lui trova insignificanti e passano sotto silen- zio quelle che ammira. Gli fanno percorrere chilometri e chilometri per vedere un cumulo di sciocchezze; vanno in estasi su rovine il cui unico pregio è di essere antiche. Le informazioni pratiche non sono mai aggiornate. Racco- mandano cattivi alberghi e definiscono «modesti» quelli buoni. In una parola, sono insopportabili.

Quante volte ho imprecato contro il barone Baedeker per avermi mandato attraverso la polvere a vedere un So- doma ripugnante o un Andrea del Sarto appena decoro- so! Quanto mi ha fatto arrabbiare con le sue stelle attri- buite a cose antiche semplicemente perché sono antiche! E come l'ho odiato per la sua mancanza di discriminazio- ne! Ha un certo modo di mettere insieme tutte le cose an- tiche di un certo genere e di trattarle come se, apparte- nendo allo stesso periodo, il loro valore fosse esattamen-

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te uguale. Per esempio, le vetrate di Sens sono considera- te dalle guide alla stregua di qualsiasi altra vetrata del quattordicesimo secolo, mentre in realtà sono uniche per bellezza e audacia di disegno. La serie di illustrazioni del- la Bibbia a Sens è opera di un grandissimo artista. I1 ba- rone parla con pari ammirazione dell'abile lavoro artigia- nale di Chartres e Canterbury.

Come pure le sculture nella chiesa di Brou e la tran- senna del coro di Chartres ottengono lo stesso numero di stelle della tomba di Ilaria del Carretto a Lucca e del bassorilievo di Luca della Robbia nell'Opera del Duo- mo di Firenze. Sono tutti esemplari di scultura rinasci- mentale.

Fra loro c'è solo questa lieve differenza: che le opere italiane sono capolavori assoluti, mentre quelle francesi sono opere rozze: le sculture di Brou di un'evidente bana- lità, quelle di Chartres volonterose, stentate e francamen- te insignificanti. E il barone è così privo di senso delle proporzioni che dà alla chiesa di Brou lo stesso numero di stelle della cattedrale di Bourges, segnalando con pari entusiasmo un brutto incubo architettonico e la più gran- diosa, la più sorprendente, la più incredibilmente bella costruzione d'Europa.

Imbecille! Ma un imbecille colto e, ahimè, indispensa- bile. Non c'è scampo; si deve viaggiare in sua compagnia, almeno la prima volta. Solo dopo avere scrupolosamente seguito i suoi dettami, dopo avere scoperto le sue lacune in fatto di gusto, i suoi pregiudizi artistici e i suoi snobi- smi antiquari, il turista può redigere quella guida perso- nale che è l'unica che gli serva. Se soltanto l'avesse posse- duta fin dal suo primo viaggio! Ma purtroppo, se è facile imbrogliare gli altri con la pittoresca descrizione di luo- ghi mai visti con i nostri occhi, è invece difficile imbro-

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gliare se stessi. La propria guida deve essere frutto di du- ra esperienza personale.

L'unico sostituto soddisfacente di una guida scritta da sé è una guida riccamente illustrata. Conoscere le cose in fotografia è quello che più si avvicina a conoscere le cose stesse. Le illustrazioni consentono di vedere che cosa esattamente raccomanda il barone. Una riproduzione di quei ridondanti Sodoma permetterebbe di ridurre gli asterischi del testo. Qualche fotografia delle tombe di Tarquinia ci convincerebbe che vale infinitamente più la pena di visitarle che non il Foro. Una veduta della chiesa di Brou ci dispenserebbe dall'andarci. La migliore guida illustrata che conosco è il Libro delle Strade della Tosca- na di Parnpaloni, nel quale le informazioni consuete si ri- ducono a un breve compendio, sono descritti i principali itinerari da una località all'altra e sono segnate con aste- rischi soltanto le cose riprodotte in fotografia.

A qualcuno, lo so, Pampaloni appare un po' troppo sintetico. Sono evitate tutte le tiritere - anche quel tanto che trova posto nel Baedeker - e si ha solo un'esposizio-

ne telegrafica di dati corredata da fotografie. Personal- mente non ho un debole per le tiritere (a meno che non siano quelle di un genio), quindi trovo Pampaloni del tut- to soddisfacente. Molti turisti, invece, preferiscono una guida più letteraria. Amano il sentimento, lo stile elabo- rato, gli stati d'animo di fronte al Colosseo sotto la luna e via dicendo. Anch'io amo queste cose, ma non dalla penna di chi scrive guide sovrabbondanti. Perfino il Bae- deker mi pare a volte un po' troppo lirico. Mi piace che le guide siano ricche di informazioni, misurate nell'entusia- smo e, dove trattano questioni pratiche, bene aggiornate - ciò che il Baedeker (restio ad ammettere, credo per ra- gioni patriottiche, la realtà dell'ultima guerra) non è af-

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fatto. Se voglio leggere una tiritera prendo con me uno stilista migliore del barone o dei suoi esuberanti sostituti.

Le uniche guide letterarie che mi vanno a genio sono quelle veramente brutte - così brutte che la loro pessima qualità compie, per così dire, un giro completo e diviene qualcosa di sublime. Le comuni guide letterarie non sono mai brutte in modo così superlativo. C'è in esse quella corretta, efficiente mediocrità sulla quale non c'è nulla da eccepire. Solo in certe oscure guide locali si trova il co- mico sublime. In ogni città vale sempre la pena di dare un'occhiata alla guida locale. Se si è fortunati se ne trove- rà una in cui il treno viene chiamato «la magica creatura di Stephenson». Non capita spesso, lo ammetto (perché non è di ogni giorno la nascita di un genio che inventi si- mili perle); ma abbastanza spesso perché valga la pena di fare questa ricerca. Io stesso ho trovato qualche passo notevole nelle guide locali italiane. Questa descrizione di un dipinto di infimo ordine, Venere che sorge dal mare, è ghiotta: Venere, abbigliata di una calda nudità, sorge dalle onde.. . È una seducente figura di donna, palpitan- te, voluttuosa. Sembra che sotto l'epidermide pulsino le vene frementi e scorra tepido il sangue. L'occhio langui- do pare inviti a una dolce tregenda.* Lo stesso D'Annun- zio non avrebbe potuto far meglio. Ma il più bell'esem- pio di stile in fatto di guide l'ho trovato in Francia. È una descrizione di Digione: Comme une jolie femme dont une maturité savoureuse arrondit les formes plus pleines, la capitale de la Bourgogne a fait, en grandissant, éclater la tunique étroite de ses vieilles murailles; elle a revêtu la ro- be plus moderne et plus confortable des larges boule-

* In italiano nel testo.

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vards, des places spacieuses, des faubourgs s'égrenant dans les jardins; mais elle a gardé le corps aux lignes pu- res, aux charmants détails que des siècles épris d'art avaient amoureusement ornés. Tanto di cappello alla Francia! Mi faccio premura, in questa occasione, di ade- rire all'invito di Lord Rothermere.

Le vecchie guide, così superate da divenire documenti storici, sono ottimi compagni di viaggio. Una Murray di altri tempi è un tesoro. In realtà qualsiasi libro di viaggi europeo, anche se oscuro, è interessante, purché sia stato scritto prima dell'epoca delle ferrovie e di Ruskin. È di- vertente leggere sul posto le impressioni e i giudizi di turi- sti che hanno visitato cent'anni prima, con i mezzi di tra- sporto e i pregiudizi estetici dell'epoca, i luoghi che stia- mo visitando oggi. I1 viaggio non è più un semplice spo- stamento nello spazio; diventa pure un'escursione nel tempo e nel pensiero. Questi vecchi libri di viaggi sono inoltre letture moralmente sane, perché ci fanno consta- tare il carattere transitorio dei nostri gusti e delle nostre convinzioni intellettuali fondamentali. A noi pare assio- matico, ad esempio, che Giotto fu un grande artista; ep- pure Goethe, quando andò ad Assisi, non si diede neppu- re la pena di guardare gli affreschi della chiesa. Per lui l'unica cosa che meritasse di essere vista ad Assisi era il portico del tempio romano. Quanto a noi, non troviamo nessuna attrattiva particolare nel Guercino; eppure Stendhal ne era entusiasta. Troviamo Canova «diverten- te» e talvolta, come nella statua di Paolina Borghese, ve- ramente incantevole nel suo modo dolce e voluttuoso (perfino il cuscino al quale si appoggia si gonfia voluttuo- samente; vengono in mente quelle nuvole davvero inde- centi dalle quali gli angeli del Correggio guardano in giù dalla cupola del duomo di Parma). Ma non siamo del tut-

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to d'accordo con Byron quando dice: «Quali furono i Grandi di un tempo, Canova è oggi». Eppure, in fondo, Goethe, Stendhal e Byron non erano degli stupidi. Data la loro formazione, non potevano pensare diversamente. Noi avremmo pensato esattamente come loro se fossimo vissuti cent'anni fa. I nostri modelli di giudizio diversi e la nostra tolleranza, in genere più grande, sono soprat- tutto il risultato della migliore conoscenza dell'arte di ogni paese e di ogni tempo, conoscenza dovuta a sua vol- ta principalmente alla fotografia. La maggior parte del- l'arte mondiale è stata non realistica; noi la conosciamo come mai la conobbero i nostri antenati; è quindi natura- le che siamo molto più favorevoli all'arte non realistica, molto meno colpiti dal realismo di quanto lo fossero co- loro che erano educati quasi esclusivamente nella cono- scenza del realismo dell'arte greca, romana e moderna. Quei vecchi libri ci insegnano a non essere troppo arro- ganti nei nostri giudizi. Anche noi potremmo essere tac- ciati di stupidità.

Questi libri sono così numerosi e così caratteristici del- la loro epoca che si può sceglierli a caso negli scaffali di una libreria ben fornita, sicuri di imbatterci in una lettura piacevole e istruttiva. Parlando per esperienza personale, ho sempre trovato Stendhal un gradevole compagno di viaggio in Italia. Le Passeggiate romane mi hanno ac- compagnato nei miei giri in quella città senza mai delu- dermi. Ottimo pure, quando si visita Roma, il troppo tra- scurato Veuillot. Non pretendo che Veuillot sia un gran- de scrittore. In realtà molto del suo fascino e della sua apparente originalità consiste nel fatto puramente acci- dentale che i suoi pregiudizi erano diversi da quelli che la maggioranza dei viaggiatori si portano dietro in Italia. Siamo così abituati a sentir dire che il potere temporale è

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stato un male indiscutibile e che i preti sono stati la causa della decadenza italiana che chi ci dice il contra- rio ci appare di un'originalità sorprendente. Dopo la condanna decretata da tanti protestanti e liberi pensato- ri leggiamo questo libro con particolare piacere; oltre tutto è abbastanza ben scritto, tra parentesi Veuillot era un giornalista di prim'ordine. (Allo stesso modo, è l'in- solita natura del punto di vista dal quale fu scritto che ci fa ammirare Les Paysans di Balzac forse più di quan- to meriti. Siamo abituati ai romanzi che esaltano le umili virtù dei contadini, che deplorano il loro duro de- stino e denunciano la tirannia del padrone. Balzac parte dal presupposto che il contadino è una canaglia bell'e buona e reclama la nostra simpatia per il disgraziato pa- drone, rappresentato come vittima innocente delle per- secuzioni dei suoi contadini. L'interpretazione balza- chiana della storia sociale può non essere corretta; ma almeno fa da piacevole diversivo a quella dei tanti ro- manzieri che hanno trattato un tema simile.) Il profumo di Roma di Veuillot divide con Les Paysans il merito di essere scritto da un punto di vista insolito. Veuillot visi- ta gli Stati Pontifici deciso a vedervi il paradiso terre- stre. E ci riesce. Sua Santità ha solamente sudditi felici. Fuori di questo gregge benedetto si aggirano le bestie feroci, Cavour, Mazzini, Garibaldi e gli altri; è dovere di ogni benpensante impegnarsi a non lasciarli entrare. È questa la sua tesi, e trova in tutto ciò che vede un pre- testo per ritornarvi. Il profumo di Roma è scritto con curiose intemperanze di linguaggio. Veuillot, come Zim- mi, era:

Così ultraviolento e ultracivile Che per lui ogni uomo era Dio o il Diavolo.

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Inoltre era logico e aveva il coraggio delle sue opinioni. Straordinaria, per esempio, la sua denuncia di tutta l'arte pagana basata sul fatto che non era cristiana! Mentre il resto del mondo si prosterna davanti ai Greci e ai Roma- ni, Veuillot, coerente adepto dell'Ultramontanismo, li condanna insieme a tutte le loro opere, per principio, sdegnosamente. È davvero spassoso.

Degli altri vecchi compagni di viaggio che mi hanno di- lettato saltuariamente posso solo nominarne qualcuno. C'è quella miniera di informazioni che è il Président des Brosses. Non c'è compagno migliore per un viaggio in Italia. I1 nostro Young è quasi altrettanto bravo per la Francia. Pieni d'interesse sono i diari di viaggio della Berry. Si trova del buono anche in lady Mary Montagu. Beckford è il perfetto dilettante. Borrow, l'insignificante divulgatore della Bibbia, ha però il merito di essere stato il primo ad apprezzare E1 Greco.

Se la pittura non è il vostro interesse principale, c'è l'eccellente dottor Burney, il cui Viaggio musicale in Ita- lia è non solo istruttivo ma delizioso. I suoi libri sull'Ita- lia sono preziosi, fra molti altri motivi, perché ci spiega- no che cosa accadde nel diciottesimo secolo del talento prodigioso che un tempo si manifestava nel dipingere quadri, scolpire statue, costruire chiese. Passò tutto nella musica. Perfino i suonatori ambulanti erano abili con- trappuntisti; i contadini cantavano divinamente (dovre- ste sentire come cantano adesso!), ogni chiesa aveva un buon coro che eseguiva continuamente nuove messe, mottetti e oratori; non c'era quasi dama o gentiluomo che non fosse un conoscitore e un esecutore di prim'ordi- ne; c'erano innumerevoli concerti. I1 dottor Burney de- scrive quel secolo come il paradiso del musicista. E che ne è oggi del genio italiano? Esiste ancora? O è morto?

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Esiste ancora, penso; ma è stato deviato dalla musica, come dalle arti visive, verso la politica, e più tardi verso il commercio e la tecnica. I primi due terzi del diciannovesi- mo secolo furono occupati dalla realizzazione della liber- tà e dell'unità. I sessant'anni trascorsi da allora sono stati dedicati allo sfruttamento delle risorse del paese; e le energie restanti sono andate nella politica. Un giorno, quando avranno finito di organizzare modernamente la vecchia casa e avranno eliminato i servi turbolenti per in- sediare una buona direzione domestica, tranquilla e one- sta, quel giorno forse gli italiani riverseranno di nuovo le loro energie e il loro talento nei vecchi canali. Speriamo che ciò avvenga.

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Gli occhiali

Non vado mai in giro senza una copiosa scorta di lenti da vista. Un paio di occhiali per leggere, un paio per ve- dere a distanza, due lenti di riserva, mi seguono ovunque io vada. Per romperli tutti ci vorrebbero un terremoto o un disastro ferroviario. E la distrazione dovrebbe spin- gersi fino all'idiozia per arrivare a perderli tutti. In più, c'è un'ulteriore sicurezza in una scorta abbondante: per- ché la materia (chi potrebbe dubitarne?) non è neutra co- me gli uomini di scienza erroneamente insegnano, ma un po' maligna, sta dalla parte dei diavoli contro di noi. Di conseguenza, un paio di occhiali è destinato a rompersi o a scomparire proprio quando non ci si può permettere di farne a meno e non si è in grado di rimpiazzarli. Ma la cosiddetta materia inanimata non è stupida; e quando un paio di occhiali si rende conto che ne possedete due o tre altre paia in tasca o in valigia, capirà che non c'è niente da fare e, anziché decidere di rompersi o perdersi, si sfor- zerà di restare intatto.

Ma allorché, in un mese qualsiasi dopo l'equinozio di

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primavera e prima dell'autunno, i miei vagabondaggi mi portano al sud, verso il sole, il mio armamentario di oc- chiali si arricchisce dell'aggiunta di tre paia di lenti colo- rate - due tonalità di verde, una più chiara e una più scura e un paio nero. I1 riverbero delle strade bianche di polvere, dei muri candidi e del cielo di un azzurro metalli- co è fastidioso e anche pericoloso per gli occhi. Con il progredire o declinare dell'estate, il crescere o calare del- la luce del giorno, io mi sistemo sul naso le lenti verde pallido, verde cupo oppure nere. In questo modo riesco a mitigare l'illuminazione del mondo secondo le mie preci- se esigenze.

Ma anche se non soffrissi affatto dell'eccesso di luce e potessi compiere senza strizzare gli occhi le imprese del- l'aquila o del saldatore ossiacetilenico, porterei ugual- mente con me i miei occhiali colorati nei viaggi al sud, poiché hanno un uso estetico oltre che pratico. Migliora- no il paesaggio, così come riposano gli occhi.

Quando ci si awicina alla grande fascia desertica che avvolge la terra con qualche migliaio di chilometri di ari- dità su questo lato del tropico del Cancro, il paesaggio subisce una modifica che, perlomeno a noi altri nordici, sembra una modifica in peggio. Esso perde la sua vegeta- zione lussureggiante. A sud di Lione (salvo fra le monta- gne e le paludi) non c'è erba degna di questo nome. Gli alberi a foglie caduche crescono con riluttanza, lasciando il posto al nero cipresso e al pino, al lauro e al ginepro verde cupo, all'olivo di un pallido grigio. I verdi di un paesaggio italiano sono o tenui e offuscati o scuri e luci- di. Solo quando si sale a settecento metri - e anche allo- ra non immancabilmente - si vede qualcosa di simile al verde smagliante, che pare brillare di luce propria, del paesaggio inglese. I1 tipico panorama dell'Italia del nord

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è fatto di colline, con i pendii più bassi grigi di olivi e le cime, quando superano il livello delle colture, nude e di colore bruno. Questo paesaggio rappresenta un compro- messo non del tutto soddisfacente fra quello nordico e quello decisamente meridionale. I1 panorama inglese è re-

, so ricco e piacevole dalle forme piene e dai colori, ravvi- vati dal clima umido, della sua lussureggiante vegetazio- ne. E la sua franca rusticità è addolcita e resa più roman- tica dal fiorire delle nebbie che in parte lo velano alla vi-

sta. I1 paesaggio meridionale, mediterraneo, che fa la sua prima comparsa italiana a Terracina, è spoglio, dai con- torni nitidi, di un austero splendore. L'aria è limpida, e le terre viste da lontano sembrano anch'esse aria colorata. I1 paesaggio dell'Italia settentrionale non appartiene né al nord né al sud - non è di un'eterea chiarita e neppure di un verde rigoglioso, deciso o velato.

Qui, in questo paesaggio semiriarso che non ha ancora raggiunto l'eterea perfezione del sud, il viaggiatore sag- gio inforcherà i suoi occhiali verdi. L'effetto è magico. Ogni filo d'erba polverosa diviene all'istante ricco di lin- fa. Ogni sfumatura di verde nascosta nel grigio dell'olivo affiora intensificata. I boschi disseccati rinverdiscono. Le vigne e il grano nascente sembrano avere assorbito una pioggia ristoratrice. Tutto quello che mancava alla

compiuta bellezza del panorama gli viene istantaneamen- te prestato. Attraverso gli occhiali verdi contempliamo il paesaggio settentrionale, ma trasformato ed esaltato - più vivace, più nobilmente drammatico e romantico.

Gli occhiali verdi funzionano pure ottimamente sulle spiagge del Mediterraneo settentrionale. Nel sud l'azzur- ro del mare è di una bella tonalità intensa, come quella dei lapislazzuli. È il mare dell'antichità, di colore cupo come il vino, che per contrasto fa apparire ancora più

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chiara e immateriale la terra illuminata dal sole. Ma a nord di Roma l'azzurro non è abbastanza intenso; è quel- lo della porcellana, non del lapislazzulo. I1 mare di Mon- tecarlo e di Genova, di La Spezia e di Civitavecchia ha la fissità azzurrina e vitrea di un occhio di bambola, che di- venta irritante nella sua vacuità e trasparenza. Mettetevi gli occhiali verdi e questo sguardo ebete si trasformerà in quello cupamente glauco ed enigmatico che occhieggia, fra i cipressi, dalle acque della Villa d'Este a Tivoli. I1 mare, da ebete che era, diventa sirena, e le aride colline che lo circondano si coprono di verzura come sotto il toc- co della primavera.

Oppure, se preferite, mettetevi gli occhiali neri e incu- pite il colore fino a raggiungere la tonalità vinosa del Me- diterraneo della Grecia, Magna Grecia e isole. Tuttavia gli occhiali neri non contribuiscono a dare un aspetto più meridionale alle terre. Accanto al loro mare intensamen- te azzurro, le coste meridionali sembrano fatte di aria co- lorata. Gli occhiali neri possono scurire il mare setten- trionale; ma danno pure maggior peso e solidità alla ter- ra. Le lenti che faranno sembrare il mondo più chiaro, più vivace e ridente, che porteranno la luce del sole su un paesaggio grigio e trasformeranno il nord in sud, pur- troppo sono ancora da inventare.

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La campagna

È un fatto curioso, del quale non trovo nessuna spiega- zione soddisfacente, che l'entusiasmo per la vita campe- stre e l'amore per lo scenario naturale sono più forti e molto più diffusi proprio nei paesi europei che hanno il clima peggiore e dove la ricerca del pittoresco comporta maggiori difficoltà. I1 culto della natura aumenta in pro- porzione esatta con la distanza dal Mediterraneo. Gli ita- liani e gli spagnoli non hanno quasi nessun interesse per la natura in se stessa. I francesi hanno un certo amore per la campagna, ma non abbastanza da far loro desiderare di viverci se hanno la possibilità di stare in città. Gli abi- tanti della Germania meridionale e della Svizzera sono apparentemente un'eccezione alla regola. Vivono più vi- cino al Mediterraneo dei parigini, eppure amano di più la campagna. Ma l'eccezione, come ho detto, è solo appa- rente; perché a causa della lontananza dall'oceano e della conformazione montagnosa della loro terra questa gente vive per la maggior parte dell'anno in un clima che è, tut- to sommato, artico. In Inghilterra, dove il clima è dete-

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stabile, amiamo la campagna a tal punto che siamo di- sposti, per il privilegio di viverci, ad alzarci alle sette esta- te e inverno e, con qualunque tempo, a raggiungere in bi- cicletta una stazione lontana per poi fare un'ora di viag- gio fino al nostro posto di lavoro. Nei nostri momenti li- beri facciamo gite a piedi, e i viaggi in roulotte sono un vero divertimento. In Olanda il clima è molto piu sgrade- vole che in Inghilterra e quindi ci si aspetterebbe che gli olandesi siano ancora piu appassionati di noi alla natura. Tuttavia l'acqua onnipresente rende difficile sistemarsi in campagna e andare avanti e indietro fra questa e le città. Ma, pur inadatti alle costruzioni, i prati fradici dei Paesi Bassi sono abbastanza saldi per reggere delle tende. Im- possibilitati a vivere in permanenza in campagna, gli olandesi sono i più grandi campeggiatori al mondo. Il mio povero zio Toby, quando era in guerra da quelle par- ti, trovava l'umidità così penetrante che era costretto a bruciare nella sua tenda del buon brandy per asciugare l'aria. Ma lo zio Toby era un vero inglese, cresciuto in un clima che, paragonato a quello olandese, è balsamico. Gli olandesi più intrepidi vanno in campeggio per diverti- mento. Della Germania settentrionale basti dire che è la patria dei girarnondo. Quanto alla Scandinavia, è noto che non c'è altra parte del mondo, esclusi i tropici, dove la gente si spogli con tanta disinvoltura. La passione degli svedesi per la natura è così forte che può esprimersi sol- tanto in un completo stato di naturalezza. «Come anime disincarnate », dice Donne, «i corpi devono essere svestiti per gustare la completa felicità. » Nobili, rudi e molto più moderni di qualsiasi altro popolo europeo, essi nuotano nelle gelide acque del Baltico e vagano nudi nelle foreste vergini. L'italiano prudente, invece, si bagna nel suo tie- pido mare solo due mesi su dodici; porta sempre la canot-

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tiera sotto la camicia e, se può evitarlo, non lascia mai la città, salvo in estate quando il caldo si fa insopportabile, e di nuovo per breve tempo in autunno per sovrintendere alla produzione del suo vino.

Strano e inspiegabile stato di cose! È forse perché colo- ro che vivono sotto cieli inclementi cercano di illudersi di vivere nell'Eden? Sono così decisi nel loro amore per la natura allo scopo di convincersi che essa è altrettanto bel- la nell'umidità e nel grigiore quanto nella piena luce del sole? Sfidano i disagi della vita in campagna per poter di- re a coloro che vivono in paesi piu fortunati: «La nostra campagna è attraente come la vostra; e la prova ne è che ci viviamo N?

Ma qualunque ne sia la ragione, resta il fatto che il cul- to della natura aumenta con la distanza dal sole. Ricer- carne le cause è impresa vana; ma è facile e anche abba- stanza interessante registrarne gli effetti. Così, la passio- ne di noialtri anglosassoni per la campagna ha avuto co- me risultato di trasformarla in un'unica immensa città; ma una città senza le comodità cittadine che rendono tol- lerabile la vita urbana.

I1 fatto è che amiamo la campagna a tal punto che desi- deriamo viverci anche soltanto durante la notte, quando non siamo al lavoro. Costruiamo cottage, compriamo abbonamenti ferroviari e biciclette per andare alla stazio- ne. E intanto la campagna muore. I1 Surrey che conosce- vo da ragazzo era pieno di distese selvagge. Oggi Hind- head si distingue appena dall'Elephant and Castle. Lloyd George si è fatto costruire un cottage per il weekend ai piedi del Salto del Diavolo (una scelta, direi, piuttosto appropriata); diverse migliaia di persone stanno affret- tandosi a seguire il suo esempio. Ogni sentiero è diventa- to una via cittadina. Harrod's e Selfridge's vi fanno con-

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segne giornaliere. Non esiste più la campagna, almeno per cinquanta miglia intorno a Londra. I1 nostro amore l'ha uccisa.

Salvo che d'estate, quando fa troppo caldo per restare in città, i francesi, e più ancora gli italiani, non amano la campagna. I1 risultato è che hanno ancora una campagna da non amare. La solitudine arriva quasi alle porte di Pa- rigi. (Parigi, non dimentichiamolo, ha ancora delle por- te; ci si arriva per strade di campagna, le si attraversa e ci si trova a pochi minuti dal centro della città.) I1 silenzio regna indisturbato - a parte la flebile musica dei fanta- smi - fino a un chilometro dal monumento di Vittorio Emanuele a Roma. In Francia e in Italia nessuno vive in campagna all'infuori dei contadini. L'agricoltura è una cosa seria; le fattorie sono ancora fattorie e non cottage per il weekend; e il grano può ancora crescere nei campi che in Inghilterra sarebbero ambiti terreni fabbricabili.

Nonostante gli italiani istruiti amino la campagna me- no ancora dei francesi, in Italia c'è un numero minore di zone disabitate che in Francia, perché ci sono più conta- dini. Quanto pochi ce ne sono in Francia! Un viaggio dal- la frontiera belga al Mediterraneo dà vita e significato a quelle statistiche dalle quali apprendiamo in teoria che la Francia è sottopopolata. Lunghi percorsi solitari si sten- dono fra una città e l'altra.

Come pietre preziose sparse in modo rado, O come gioielli nel collare del capitano.

Anche i villaggi sono pochi e distanti fra loro. E in Francia si cercherebbe invano l'equivalente' delle innume- revoli fattorie che spuntano fra gli oliveti sui fianchi delle colline italiane. Viaggiando attraverso le fertili pianure

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della Francia centrale può accadere di guardarsi intorno senza vedere neppure una casa. E quante foreste ricopro- no ancora il suolo francese! Immense zone silvestri disa- bitate, senza un gitante o un turista che cammini nella lo- ro ombra.

Tutto questo è una delizia per me personalmente, per- ché amo la campagna, mi piace la solitudine e non mi in- teressa affatto il futuro politico della Francia. Ma imma- gino che per un patriota francese un viaggio attraverso la sua terra natale possa sembrare deprimente. Enormi po- polazioni, sui cui crani è visibile lontano un miglio il ber- noccolo della prolificità, pullulano sull'altro lato di quasi tutte le frontiere. Senza fretta, senza tregua, come per un miracolo in stabile progresso, i tedeschi e gli italiani si moltiplicano come i pani e i pesci. Ogni tre anni un milio- ne di nuovi teutoni si affacciano al Reno, un milione di italiani si chiedono dove troveranno lo spazio per vivere nel loro angusto paese. E i francesi sono sempre lo stesso numero. Che cosa accadrà di qui a vent'anni? I1 governo francese promette premi a chi mette al mondo molti figli. Invano: ognuno sa tutto sul controllo delle nascite, e an- che nelle classi meno istruite non esistono pregiudizi e si bada al risparmio. Orde di neri vengono istruite ed equi- paggiate; ma i neri non sono che una povera difesa, alla lunga, contro la prolificità europea. Presto o tardi questa terra semideserta sarà colonizzata. Può avvenire pacifi- camente o con la violenza; speriamo pacificamente con il consenso e su invito degli stessi francesi. La Francia già importa temporaneamente non ricordo più quanti lavo- ratori stranieri ogni anno. Col tempo, senza dubbio, gli stranieri cominceranno a sistemarsi: gli italiani nel sud, i tedeschi nell'est, i belgi nel nord, forse anche qualche in- glese nell'ovest.

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Ai francesi il piano pub non piacere; ma, finché tutte le nazioni non saranno d'accordo nel praticare il con- trollo delle nascite esattamente nella stessa misura, è il migliore che si possa escogitare.

I portoghesi, che alla fine del Cinquecento e nel Sei- cento subirono un forte calo di popolazione (meta degli uomini validi erano emigrati nelle colonie, dove moriva- no in guerra o di malattie tropicali, mentre quelli rima- sti a casa erano periodicamente decimati dalle carestie - poiché le colonie producevano solo oro, non pane), risolsero il loro problema importando schiavi neri per lavorare i campi abbandonati. I neri si insediarono. Si mescolarono agli abitanti con matrimoni misti. In due o tre generazioni si estinse la razza che aveva conquistato mezzo mondo, e il Portogallo, fatta eccezione per una piccola area nel nord del paese, fu abitato da una razza ibrida di euroafricani. 1 francesi possono ritenersi fortu- nati se, evitando la guerra, riusciranno a riempire il loro paese sguarnito con uomini bianchi civilizzati.

Nel frattempo, questo paesaggio deserto è una delizia per chiunque sia amante della natura e della solitudine. Ma anche in Italia, dove le fattorie e i contadini e i figli dei contadini sono fittamente disseminati su tutte le ter- re, l'amante della campagna si sente molto più felice che nelle zone meno popolate del suo paese d'origine. Questo perché le fattorie e i contadini sono prodotti della campagna, altrettanto naturali all'ambiente quan- to gli alberi o il grano, e altrettanto inoffensivi. È l'in- truso cittadino che rovina la campagna inglese. Né lui né la sua casa le appartengono. In Italia, invece, quan- do un abitante della città si awentura nella campagna, la trova genuinamente rustica. La campagna è densa- mente popolata, ma è pur sempre campagna. Non è sta-

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ta uccisa dal fatale amore di coloro che, come me, sono cittadini nati.

Temo non sia lontano il giorno in cui ogni regione ru- rale d'Europa, compresa quella spagnola, sarà invasa da- gli amanti della natura venuti dalle città. In fondo non è passato molto tempo da quando Evelyn era terrorizzata e rivoltata dallo spettacolo delle rocce di Clifton. Fino alla fine del diciottesimo secolo ogni persona sensibile, perfi- no in Inghilterra, perfino in Svezia, temeva e detestava le montagne. L'entusiasmo per la natura selvaggia è una tendenza recente e ha avuto inizio - insieme alla cura per gli animali, all'industrialismo e ai viaggi in ferrovia - proprio fra inglesi. (Forse non è sorprendente che il popolo che per primo ha reso inabitabili le sue città con la sporcizia, il fumo e i rumori sia stato anche il primo ad amare la campagna.) I1 sentimento della natura si è diffu- so da questa isola insieme alle macchine. Tutto il mondo ha accolto con gioia l'avvento delle macchine; ma il senti- mento della natura è fiorito finora soltanto nel nord. Tuttavia ci sono segni evidenti che anche i latini comin- ciano a esserne contagiati. In Francia e in Italia la natura selvaggia è diventata - sia pure in misura minore che in Inghilterra - oggetto di predilezione snobistica. In quei paesi è considerato elegante essere innamorati della natu- ra. Fra pochi anni, ripeto, tutti ne andranno pazzi come una cosa normale. Perfino nel nord quelli che non l'ama- no affatto sono costretti a credere di amarla dall'abile e incessante opera di persuasione di gente che ha interesse a farla apprezzare. Nessun uomo moderno, anche se dete- sta la campagna, può resistere al richiamo degli innume- revoli annunci pubblicitari diffusi dalle ferrovie, dalle in- dustrie automobilistiche, dai fabbricanti di thermos da viaggio, dai sarti sportivi, dagli agenti immobiliari e da

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tutti coloro il cui sostentamento dipende dall'impulso da- to alla campagna. Nei paesi latini l'arte della pubblicità è ancora poco sviluppata. Ma anche là sta avanzando. La marcia del progresso è irresistibile. La Fiat e le Ferrovie dello Stato devono soltanto assumere esperti di pubblici- tà americani per trasformare gli italiani in una razza di gitanti e di pendolari. C'è già una Città-Giardino alle porte di Roma; Ostia si sta sviluppando in un sobborgo residenziale in riva al mare; l'autostrada aperta di recente ha messo i laghi a breve portata da Milano. Prevedo che i miei nipoti dovranno passare Ie vacanze nel centro del- l'Asia.

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Libri da viaggio

Tutti i turisti nutrono un'illusione dalla quale nessun accumulo di esperienza può mai guarirli completamente; pensano di trovare il tempo, nel corso dei loro viaggi, per molte letture. Si immaginano, alla fine di una giornata di visite ai monumenti o di giri in automobile, o mentre viaggiano in treno, impegnati a girare le pagine di tutte le opere serie e voluminose che in tempi ordinari non trova- no mai il tempo di leggere. Partono per un giro di quindi- ci giorni in Francia portando con sé la Critica della ra- gion pura, Apparenza e realtà, le opere complete di Dan- te e il Ramo d'oro. Ritornano a casa e scoprono che han- no letto un po' meno di mezzo capitolo del Ramo d'oro e i primi cinquantadue versi dell'Inferno. Ma questo non impedisce loro di partire con lo stesso numero di libri alla prossima occasione.

La lunga esperienza mi ha insegnato a ridurre in certa misura le dimensioni della mia biblioteca viaggiante. Ma anche ora sono sempre troppo ottimista sulle mie possibi- lità di lettura durante un viaggio. Insieme ai libri che so

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di poter leggere continuo a mettere qualcuno degli altri, nella pia speranza che un giorno in qualche modo verran- no letti. Grossi volumi hanno viaggiato con me per mi- gliaia di chilometri attraverso l'Europa e sono ritornati con i loro segreti intatti. Ma mentre in passato portavo soltanto i più voluminosi, e per di più in grosse quantità, ora ne porto solo uno o due di quelli e per il resto metto in valigia unicamente quel tipo di libri che so per espe- rienza di poter leggere in una stanza d'albergo dopo una giornata di visite turistiche.

Ecco le qualità essenziali di un buon libro da viaggio. Deve essere di un genere che ci permetta di aprirlo a un punto qualsiasi, sicuri di trovarvi qualcosa di interessan- te, di completo in se stesso e facile da leggere in breve tempo. Un libro che richieda un'attenzione continua e uno sforzo mentale prolungato è inutile in viaggio; per- ché il tempo libero, in queste occasioni, è scarso e accom- pagnato da stanchezza fisica, la mente è distratta e inca- pace di esercizi prolungati.

Pochi libri da viaggio sono più indicati di una buona antologia poetica, nella quale ogni pagina contiene un pezzo completo e perfetto a sé stante. Le brevi tregue nel- la fatica che il volonteroso turista si concede non possono essere riempite in modo più piacevole che con la lettura di poesie, che si potranno perfino imparare a memoria; in- fatti la mente, riluttante a seguire un ragionamento, pro- va invece piacere nella lieve fatica di assimilare qualche verso melodioso.

Nella scelta delle antologie ogni viaggiatore seguirà la sua ispirazione. La mia preferita è il Pocket Book of Poems and Songs for the Open Air di Edward Thomas. L'autore era un uomo di ampia cultura e di gusti squisiti, e in più particolarmente dotato per comporre un'antolo-

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gia dell'«Aria aperta)). Infatti, nell'enorme tribù dei poe- tucoli moderni che ciarlano di verdi prati, Thomas è qua- si l'unico che sentiamo veramente «poeta della natura» (l'espressione è abbastanza brutta ma non ce ne sono al- tre) per diritto di nascita e conquista di reale comunione e comprensione. Non tutti quelli che dicono Signore, Si- gnore, entreranno nel regno dei cieli; e pochi, pochissimi di quelli che gridano cucù, cucù saranno ammessi nella compagnia dei poeti della natura. A prova di ciò rimando i miei lettori ai vari volumi di poesia dell'epoca georgia- na.

Oltre la poesia, altrettanto adatte alle necessita del viaggiatore sono le raccolte di massime e aforismi. Se so- no buone - e devono esserlo veramente, poiché non c'è niente di più deprimente di un «grande pensiero)) enun- ciato da un autore che non possieda egli stesso certi ele- menti di grandezza - le massime sono la migliore lettura possibile. Si leggono in un minuto e forniscono una ma- teria su cui il pensiero può ruminare per ore. Le migliori sono quelle di La Rochefoucauld. Io stesso riservo sem- pre la tasca superiore sinistra del mio panciotto a una pic- cola ristampa in sedicesimo delle Massime. È un libro dall'interesse inesauribile. A mano a mano che la nostra vita procede e aumenta la conoscenza di noi stessi e degli altri, esso allarga i suoi significati. La Rochefoucauld co- nosceva quasi tutto dell'animo umano, tanto che pratica- mente tutte le scoperte che facciamo per conto nostro nel corso della vita sono state anticipate da lui ed espresse con brevità ed eleganza ineguagliabili. Ho detto pruden- temente che La Rochefoucauld conosceva «quasi» tutto dell'animo umano, poiché è ovvio che non lo conosceva per intero. Sapeva tutto sugli esseri umani in quanto ani- mali sociali. Dell'animo dell'uomo in solitudine, quando

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non è più interessato alle soddisfazioni e ai successi socia- li che per La Rochefoucauld erano di estrema importan- za, sa poco o nulla. Se desideriamo sapere qualcosa del- l'animo umano in solitudine - delle sue relazioni non con i suoi simili ma con Dio - dobbiamo rivolgerci al- trove: per esempio ai Vangeli, ai romanzi di Dostoiev- skij. Ma l'uomo nei suoi rapporti sociali non è mai stato più acutamente descritto, i suoi moventi mai più sottil- mente analizzati che da La Rochefoucauld. Gli aforismi variano notevolmente di valore; ma i migliori - straordi- nariamente numerosi - sono di una profondità e di una pregnanza sorprendenti. Essi riassumono una ricca espe- rienza. In una frase La Rochefoucauld condensa tanto materiale quanto servirebbe a un romanziere per una lun- ga storia. E viceversa, non mi meraviglierebbe apprende- re che qualche romanziere ricorra alle Massime per tro- varvi spunti per trame e personaggi. È impossibile, per esempio, leggere Proust senza pensare alle Massime, o le Massime senza pensare a Proust. «Le plaisir de I'amour est d'aimer, et l'on est plus heureux par la passion que I'on a que par celle que I'on donne. » «Il y a des gens si remplis d'eux-mêmes, que, lorsqu'ils sont amoureux, ils trouvent moyen d'être occupés de leurpassion sans l'être de la personne qu'ils aiment. » Che cosa sono tutte le sto- rie d'amore di Alla ricerca del tempo perduto se non im- mensi sviluppi di questi aforismi? Proust è un La Roche- foucauld ingrandito diecimila volte.

Poco meno soddisfacenti come libri da viaggio sono gli aforismi di Nietzsche. In comune con quelli di La Roche- foucauld i detti di Nietzsche hanno la pregnanza e la va- stità. I suoi aforismi migliori sono lunghi corsi di pensie- ro condensati. La mente può soffermarvisi a lungo, per- ché in essi c'è tanto di implicito. È così che i buoni afori-

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smi si distinguono dai semplici epigrammi, nei quali tutto consiste nella felicità di espressione. I1 piacere dell'epi- gramma è nella sua capacità di sorprenderci; dopo il pri- mo momento l'effetto si esaurisce e non siamo più inte- ressati. Non ci si fa prendere due volte dallo stesso scher- zo. Ma un aforisma non si basa sull'arguzia verbale. I1 suo effetto non è momentaneo, più ci pensiamo più lo troviamo denso di significato.

Un altro libro da viaggio eccellente - poiché unisce ampi aforismi e aneddoti - è la Vita di Samuel Johnson di Boswell, che la Oxford Press pubblica ora su carta d'India in un unico volume in ottavo. (Tutti i viaggiatori, tra parentesi, devono molto alle fatiche di Henry Frowde della Oxford Press, l'inventore, o almeno il reinventore europeo di quella carta sottile mista a minerale per ren- derla opaca che chiamiamo carta d'India.) Ciò che l'afo- risma è alla dissertazione filosofica, tale è il libro di carta d'India rispetto alle ponderose edizioni del passato. Tut- to Shakespeare, perfettamente leggibile, è racchiuso in un volume non più grande di un singolo romanzo del de- funto Charles Garvice. Tutto Pepys, o almeno quanto di suo è consentito leggere al pubblico inglese, trova ora po- sto in tre tascabili. E la Bibbia, ridotta allo spessore di due centimetri e mezzo, rischia certamente di perdere la sua funzione di fermaproiettili sul petto dei combattenti che un tempo possedeva, almeno nelle storie romantiche. Grazie a Henry Frowde si può infilare in uno zaino un milione di parole per le nostre letture, con una differenza di peso trascurabile.

La carta d'India e la fotografia hanno reso possibile includere in una libreria portatile quello che secondo me è il libro da viaggio migliore di tutti - un volume (uno qualsiasi dei trentadue) della dodicesima edizione, dimez-

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zata rispetto alle precedenti, dell'Enciclopedia Britanni- ca. Occupa poco spazio (21,6 cm per 16,5 per 2,5 non mi pare eccessivo), contiene circa mille pagine e un numero quasi infinito di dati curiosi e insoliti. Può essere consul- tato in qualunque punto, i capitoli che lo compongono sono ognuno a sé stante e non troppo lunghi. Per il viag- giatore, il quale dispone soltanto di brevi mezz'ore, è il li- bro ideale, tanto più immaginando che sia un viaggiatore nato e probabilmente anche uno di quei lettori saltuari e senza metodo per i quali l'Enciclopedia, al di fuori di ogni fine pratico, può essere del massimo interesse. Non passo mai un giorno lontano da casa senza portarne con me un volume. È il libro dei libri. Sfogliandolo, rovistan- do fra le riserve di voci straordinariamente eterogenee riunite secondo il capriccio dell'ordine alfabetico, mi cro- giolo nel mio vizio mentale. Un volume isolato dell'Enci- clopedia è come la mente di un pazzo erudito - imbotti- ta di idee corrette fra le quali, tuttavia, non c'è altra rela- zione che il fatto di avere un'iniziale in comune; da orach, o {(spinacio di montagna)), si passa direttamente a oracle. Se leggendo l'Enciclopedia non si impazzisce o non si diventa una miniera di nozioni inutili e slegate, è perché si dimentica. La mente ha una grande capacità di oblio. Provvidenziale, altrimenti nel caos di una futile memoria sarebbe impossibile ricordare le cose utili e si- gnificative. D'abitudine lavoriamo su generalizzazioni, ricavate dal groviglio delle cose reali. Se ricordassimo ogni cosa perfettamente, non saremmo mai in grado di generalizzare, poiché alla nostra mente non si presente- rebbero che immagini staccate, precise e varie. Senza l'i- gnoranza non potremmo generalizzare. Ringraziamo il cielo per la nostra capacità di dimenticare. Nei riguardi dell'Enciclopedia essa è immensa. La mente ricorda sol-

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tanto quello che le serve. Cinque minuti dopo aver letto dello spinacio di montagna, l'uomo comune, che non sia né un botanico né un cuoco, ha dimenticato tutto sull'ar- gomento. Letta per divertimento, l'Enciclopedia serve soltanto come svago momentaneo; non istruisce, non de- posita niente di duraturo sulla superficie della mente. È un semplice passatempo e un temporaneo stimolatore del cervello. Lo uso solo per diletto nei miei viaggi; mi vergo- gnerei di indulgere a una curiosità così fine a se stessa quando sono a casa in tempi di lavoro serio.

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PARTE SECONDA

Luoghi

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Montesenario

Era marzo e la neve si stava sciogliendo. Metà inverna- le, metà primaverile, la montagna era tutta a chiazze co- me un cane rognoso. Le pendici a sud erano scoperte; ma in ogni cavità, sulle parti senza sole degli alberi, c'era an- cora la neve, bianca sotto le azzurre ombre trasparenti.

Attraversammo una piccola pineta; il sole pomeridia- no che filtrava attraverso lo scuro fogliame toccava qui un ramo, là un pezzo di tronco, trasformando la cortec- cia rossastra in una specie di corallo dorato. Oltre il bo- sco sorgeva il monte, nudo fino alla vetta. Lungo la cre- sta, una massa di costruzioni elevava le sue alte mura illu- minate dal sole contro il cielo pallido, una piccola Geru- salemme delle regioni fredde. Era il monastero di Monte- senario. Affrontammo faticosamente la salita; l'ultima fase del pellegrinaggio da Firenze a Montesenario è inso- litamente ripida, e si deve lasciare l'automobile a un certo punto. E all'improvviso, come a darci il benvenuto, co- me a incoraggiare le nostre fatiche, la città celeste ci man- dò incontro una schiera di angeli. Svoltando un angolo

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del sentiero li vedemmo venire a due a due in lungo cor- teo; angeli in tonaca nera con cappello nero rotondo in testa - un seminario nella sua ora d'aria pomeridiana. Erano tutti ragazzi molto giovani, i più vecchi potevano avere sedici o diciassette anni, i più giovani non più di dieci. Con le loro nere sottane svolazzanti, camminavano con una dignità innaturale. Vedendo quei piccoletti in te- sta alla fila, con il grosso padre sorvegliante che avanza- va a grandi passi al loro fianco, era difficile credere che non si trattasse di una mascherata. Sembrava uno spetta- colo di irriverente comicità; una caricatura di Goya ani- mata all'improwiso. Ma i loro visi erano seri; paffuti o affinati dall'adolescenza, avevano già un'espressione mellifluamente pretesca. Non era uno scherzo. Guardan- do quei ragazzini vestiti di nero, ci si sarebbe augurato che lo fosse.

Continuammo a salire; i pretini, scendendo, scompar- vero alla vista. Giungemmo finalmente alle porte della città celeste. Una piccola piattaforma lastricata e munita di ringhiera serviva da pianerottolo alla fuga di gradini che conducevano al cuore del convento. In mezzo alla piattaforma sorgeva una statua di dimensioni più grandi del naturale raffigurante un santo sconosciuto. Ammire- vole nella sua comicità, era un pezzo di scultura barocca del diciottesimo secolo. Scolpito con rozzo talento, il per- sonaggio gesticolava in preda all'estasi, con gli occhi ri- volti al cielo; le vesti gli svolazzavano intorno in ampie pieghe. In certo modo non era il tipo di santo che ci si aspetta di trovare di sentinella sul più severo eremo della Toscana. E anche il convento sembrava un'incongruenza in cima a questa austera montagna. Infatti la città celeste era un bell'esempio del primo barocco, con decorazioni e aggiunte settecentesche. La chiesa era piena di sculture

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dorate e contorte e di pitture tremendamente abili; le spo- glie dei sette pii fiorentini che nel tredicesimo secolo fug- girono dalla città di perdizione della pianura sottostante e fondarono questo eremo sulla montagna erano conser- vate in una grande urna di cristallo e oro, illuminate, co- me in una bacheca nel salotto di un collezionista di por- cellane, da lampadine elettriche nascoste. No, gli edifici erano ridicoli. Ma, in fondo, che importano gli edifici? Si possono dipingere bei quadri in una catapecchia, scrivere poesie nel più orrendo quartiere cittadino; e viceversa si può vivere in una casa stupenda, circondati da capolavori d'arte antica, eppure (come quasi sempre succede quan- do i collezionisti dell'antico, affidandosi per una volta al loro giudizio e non alla tradizione, si innamorano dell'ar- te moderna) essere grossolanamente insensibili e privi di gusto. Entro certi limiti, l'ambiente esterno conta ben poco. Solo quando l'ambiente è estremamente sfavore- vole può distruggere o distorcere le facoltà della mente. E anche se favorevole, non può far nulla per allargare i li- miti posti dalla natura alle capacità umane. Così qui l'ar- chitettura appariva assolutamente inappropriata al luogo severo e all'idea stessa di romitaggio; ma gli eremiti che vivono nel suo ambito non si accorgono forse neppure della sua esistenza. All'ombra dell'assurda statua di San Filippo Benizi un Buddha potrebbe sviluppare il suo pen- siero buddhista come sotto un fico della pagoda.

Sui terreni intorno al monastero vedemmo una mezza dozzina di Serviti in tonaca nera che segavano legna, con vigore e umiltà, in uno spirito ben diverso dalle preten- ziose dorature della chiesa e dal campanile settecentesco. Erano la presenza più genuina. E la vista dalia seconda cima della montagna era nella più pura tradizione eremi- tica. Le alture si estendevano fin dove l'occhio poteva ar-

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rivare nella foschia invernale, come un grande mare tem- pestoso immobilizzato dal gelo. Le valli erano piene di ombre azzurre, e tutti i pendii esposti al sole erano color ruggine dorata. Ai nostri piedi il terreno scendeva verso un immenso abisso azzurro cupo. L'aria velata ammorbi- diva ogni contorno, confondeva ogni particolare, soltan- to luci dorate e ombre violette fluttuavano sotto il pallido cielo come l'essenza disincarnata di un paesaggio.

Rimanemmo a lungo in contemplazione di quel regno del silenzio, di una maestosa bellezza. La solitudine era altrettanto profonda quanto l'abisso d'ombra sotto di noi; si estendeva fino ai brumosi orizzonti e al cielo senza confini. Nel cuore stesso di questa solitudine, pensavo, l'uomo può cominciare a capire qualcosa di quella parte del suo essere che non si rivela nel commercio quotidiano della vita, che i contatti sociali non suscitano, neppure a sprazzi, da quella pietra focaia inerte che è uno spirito mai messo alia prova; quella parte del suo essere di cui l'uomo prende coscienza unicamente nella solitudine e nel silenzio. E se nella sua vita non c'è silenzio, se la soli- tudine gli è ignota, allora può accadergli di scendere nella tomba senza indovinarne l'esistenza, senza comprender- ne la natura o realizzarne le potenzialità.

Ritornammo sui nostri passi verso il monastero e di là scendemmo per il ripido sentiero fino all'automobile. Dopo un chilometro di strada in direzione di Pratolino incontrammo i pretini di ritorno dalla loro passeggiata. Poveri ragazzini! Ma forse che il loro destino era peggio- re, mi chiesi, di quello degli abitanti della città nella val- le? In cima alla loro montagna essi vivevano sotto una re- gola tirannica, veniva loro insegnato a credere in una quantità di cose chiaramente insulse. Ma quella regola era forse più tirannica delle sciocche convenzioni che do-

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minano la vita degli esseri sociali della pianura? Lo sno- bismo a proposito di duchesse e illustri scrittori era più ragionevole di quello a proposito di Gesù Cristo e dei santi? I1 duro lavoro per la maggior gloria di Dio era più detestabile delle otto ore quotidiane di ufficio per la mag- gior fortuna degli ebrei? La temperanza era un peso, non c'è dubbio; ma veniva così disgustosamente a noia come l'eccesso? E l'impegno dello spirito nella preghiera e nel- la meditazione era meno divertente dell'impegno in un mare di bassezze? Scendendo in automobile verso la città di pianura riflettevo. E quando, in via Tornabuoni, pas- sammo vicino a Mrs Thingummy che stava laboriosa- mente estraendo il suo corpo flaccido da una gigantesca limousine per scendere sul marciapiede, di colpo capii perfettamente che cosa avesse spinto i sette ricchi mer- canti fiorentini, settecento anni fa, ad abbandonare la lo- ro posizione nel mondo e a raggiungere quell'elevato luo- go selvaggio per vivere in caverne sulla cima di Montese- nario. Mi volsi a guardare: Mrs Thingummy entrava di- menandosi nel negozio dell'orefice. Sì, capivo perfetta- mente.

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I1 fiume di Patinir

I1 fiume scorre in una stretta valle fra le colline. Un fiu- me ampio, colmo e scintillante. Le colline sono scoscese e di un'unica altezza. Dove il fiume descrive una curva, le colline su un lato sporgono a bastione, sull'altro si ritira- no. Ci sono dirupi e boschi digradanti dal cupo fogliame. Al di sopra di questa striscia di terra capricciosamente scolpita e dentellata il cielo è pallido. Da questo cielo de- ve scendere a volte una pioggia di un bianco di lino. In- fatti sulle rocce aleggia un pallore di cenere; e il verde del- l'erba e degli alberi si sfuma di bianco fino ad assumere la tonalità del «verde smeraldo» delle scatole di colori dei bambini.

Fiume colmo e scintillante, pallidi dirupi, alberi di un intenso verde cupo, pendii dove il tappeto erboso ha il colore del verderame stinto - pensavo che fosse tutto di fantasia. Osservando questi quadretti, dipinti con milioni di minuscole pennellate di un pennello di martora com- posto da quattro peli, ero affascinato e divertito dalla graziosa invenzione. Questo Joachim Patinir, pensavo,

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ha una fantasia delicata. Da anni ero abituato a farmi cullare da questo fiume fra i dirupi come da un fiume del- la mente, fuori dal mondo.

Poi un giorno - un umido giorno d'autunno - uscen- do in automobile da Namur verso Dinant attraverso la pioggia, mi trovai improvvisamente a percorrere, veloce come potevano portarmi i miei dieci cavalli nella fanghi- glia sdrucciolevole, la riva di questo fiume immaginario. La pioggia, è vero, offuscava un po' il paesaggio. Si frap- poneva, come una lastra di vetro sudicio, fra la scena e gli occhi dello spettatore. Malgrado cib distinguevo, in- confondibile, il paesaggio favoloso dei piccoli dipinti del fiammingo. Rocce, fiume, prati verde smeraldo, boschi cupi erano là, nella loro indubbia realtà. Avevo attribui- to a Joachim Patinir il merito che appartiene a Dio. Quella che avevo preso per una sua squisita invenzione era la Mosa autentica e reale.

Viaggiammo, chilometro su chilometro, da Namur a Dinant; da Dinant, chilometro su chilometro, fino a Gi- vet. Tutto il tempo in compagnia di Patinir; il fiume ser- peggiante, la doppia linea di colline sporgenti e rientran- ti, l'erba color verderame, i dirupi e gli alberi pensili, lun- go tutto il percorso. A Givet lasciammo il fiume, poiché la destinazione era Reims e il nostro itinerario passava per Rethel. Lasciammo il fiume, ma ci rimase l'impres- sione che esso ripercorresse all'indietro tutta una serie di paesaggi di Patinir fino alla sua lontana sorgente a Pois- sy. Mi piace pensare che fosse realmente così. Perché Pa- tinir era un pittore delizioso e poche sono le sue opere ri- maste. Duecento miglia di paesaggi suoi non sarebbero affatto troppe.

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Portoferraio

I1 cielo era la tavolozza di Tiepolo. Una nuvola di fu- mo saliva nell'azzurro, bianca nella parte verso il sole, tendente a scurirsi fino al grigio, passando per il colore delle pieghe in ombra di un abito da sposa. In primo pia- no sulla destra sorgeva una grande casa rosa, il rosa acce- so del geranio, inondata dal sole. C'era il materiale per una Madonna con seguito di santi e angeli; o per un epi- sodio della leggenda di Troia; o per una Crocifissione; o per una scena delle tresche di Giove Tonante.

La terra era mediterranea - un pezzo di riviera intera- mente circondato dal mare. In una parola, 1'Elba. Le col- line scendevano fino a una grande e bella baia curva, riempita da un mare sfacciatamente azzurro. Sul pro- montorio a un capo della baia di Portoferraio si ergeva su gradinate di stucco dipinto. Ai suoi piedi giaceva un piccolo porto irto di alberature di barche. L'odore di pe- sce e il ricordo di Napoleone aleggiavano perpetuamente nell'aria. La coscienza e il barone Baedeker ci dicevano che avremmo dovuto visitare la casa di Napoleone - ora,

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molto opportunamente, museo di storia naturale. Ma op- ponevamo una strenua resistenza. È molto spiacevole sa- pere di non aver fatto il proprio dovere. «Com'è fastidio- sa una coscienza colpevole», dice il Cardinale nella Du- chessa di Amalfi. Aveva perfettamente ragione. Passeg- giavamo nelle belle strade assolate gemendo sotto il peso del peccato.

Poi, introducendoci attraverso una porta nelle mura della città vecchia, ci trovammo di fronte a una scena che ci liberò completamente dal senso di colpa. Ai nostri oc- chi si presentò una visione al cui confronto una casa pie- na di ricordi napoleonici era cosi insignificante che la no- stra ribellione al barone Baedeker non era più una colpa ma decisamente un merito.

Sotto di noi, sull'altro lato di una piccola insenatura, sullo sfondo delle montagne, si stendeva un piccolo pez- zo di Terra Nera. Nel mezzo c'era un gruppo di fornaci in attività con tre enormi ciminiere alle loro spalle, come i campanili di una cattedrale. Alla loro destra ce n'erano altre cinque o sei. Tre gru immense erano piantate in riva all'acqua, e un ponte di ferro conduceva dalla banchina alle fornaci. Le ciminiere, le gru, le fornaci e le costruzio- ni, il mucchio di rottami, il terreno stesso di questa picco- la area fra il Mediterraneo e le montagne - tutto era ne- ro come carbone. Nero contro il cielo, nero contro le col- line glauche e oro, nero anche il riflesso nelle scintillanti acque azzurre.

Se ne fossi stato capace avrei voluto dipingere la scena. Era di un'estrema bellezza. Bella e anche drammatica. La mente si diletta dei contrasti violenti. Birmingham è spa- ventosa cosi com'è situata, il corpo nel Warwickshire e i suoi neri tentacoli che si allungano attraverso la terra on- dulata fino a Stafford. Ma trasportatela in Sicilia o sulle

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rive del Lago Maggiore e il suo orrore diventa subito più dolorosamente palese. Nel Warwickshire essa è un inin- terrotto sermone sulla civiltà, ma durante i sermoni si dorme. Vicino al Mediterraneo diventa il più caustico e memorabile degli epigrammi. Inoltre, la Birmingham ef- fettiva del Warwickshire è troppo estesa per poterne ab- bracciare la vista per intero. Questo pezzo isolato di nero fra l'azzurro del cielo e l'azzurro del mare era densamen- te simbolico. E proprio perché il cielo e l'erba erano an- cora visibili tutto intorno, la lotta fra l'industria e le bel- lezze naturali della terra era rappresentata molto più effi- cacemente qui che nei luoghi come le grandi città del nord, dove l'industrializzazione ha ottenuto una vittoria definitiva e non ci si accorge neppure più di quello che esisteva prima.

Restammo a lungo a guardare il fumo che usciva dalle ciminiere e saliva nell'aria immota. Bianchi veli; bianco raso, lucente o ombreggiato; soffice grigio - gli angeli di Tiepolo volteggiavano; e il cielo azzurro era la serica ve- ste della Madonna; e la grande casa rosa sulla destra ave- va il colore di uno di quei sontuosi velluti per i quali, nel paradiso dell'ultimo dei grandi veneziani, i santi hanno una così comprensibile predilezione.

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I1 Palio di Siena

Le nostre stanze erano in una torre. Dalle finestre si ve- deva, al di sopra dei tetti di tegole brune, il duomo sulla sua collina. Cento piedi più sotto c'era la strada, uno stretto vicolo fra alti muri, perennemente senza sole; le voci dei passanti salivano rimbombando come da un ba- ratro. Là sotto si camminava sempre nell'ombra; nella nostra torre godevamo fino ali'ultimo la luce del sole. Nelle giornate calde faceva più fresco giù nella strada; ma noi almeno avevamo il vento. Arrivava a ondate, si rompeva contro la torre e riprendeva a scorrere sui due lati. E alla sera, quando solo i campanili, le cupole e i tet- ti più alti erano ancora incendiati dal sole al tramonto, le nostre finestre erano a livello del volo di rondini e rondo- ni. Nei tramonti di tutta quella lunga estate saettavano e roteavano intorno alla nostra torre. C'era sempre uno stormo che eseguiva complicate evoluzioni proprio da- vanti alla nostra finestra. Deviavano bruscamente in tut- te le direzioni, si tuffavano e risalivano, arrestavano il lo- ro volo precipitoso con un battito delle lunghe ali appun-

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tite e facevano una virata su se stesse. Solide, agili, affu- solate, parevano l'incarnazione dell'eterea velocità. E il loro grido sottile, acuto, fulmineo era la velocità fatta suono. Stavo alla finestra a guardarle tracciare i loro complicati arabeschi fino a esserne stordito, finché le lo- ro stridule grida parevano sorgere dentro le mie orecchie e il loro volo mi sembrava un moto continuo, guizzante, straordinariamente multiplo, che sorgesse dietro i miei occhi. E intanto il sole declinava, le ombre si arrampica- vano sempre più in alto su case e torri, e la luce che anco- ra indugiava sulle loro cime si faceva più rosea. Infine l'ombra raggiungeva anche queste, e la città si adagiava in un grigio e denso crepuscolo sotto il pallido cielo.

Una sera, verso la fine di giugno, mentre sedevo alla fi- nestra guardando il volo degli uccelli, udii attraverso le grida delle rondini un rullo di tamburo. Guardai giù nel vicolo in ombra ma non vidi nulla. I1 suono si fece sem- pre più forte e improvvisamente, dall'angolo dietro il quale girava il vicolo, comparvero tre personaggi usciti da un affresco del Pinturicchio. Erano vestiti in costume verde e giallo - giubbetto giallo con bordi e riporti ver- di, calze e scarpe dei due colori, e altrettanto i cappelli piumati. Il suonatore di tamburo era in testa. Gli altri due seguivano portando bandiere verdi e gialle. Proprio sotto la nostra torre la via si allargava in una minuscola piazza. In questo spazio vuoto i tre personaggi di Pintu- ricchio fecero una sosta, e la piccola folla di bimbi e di sfaccendati che li seguivano da presso si radunarono in- torno a loro in attesa. Il suonatore di tamburo accelerò il rullo e i due sbandieratori avanzarono al centro della piazzetta. Restarono lì immobili per un momento, con il piede destro un po' in avanti rispetto all'altro, il pugno sinistro sul fianco e le bandiere abbassate nel destro. Poi

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contemporaneamente le sollevarono e cominciarono a sventolarle intorno alle loro teste. Nel movimento circo- lare le bandiere si aprirono. Erano della stessa misura, entrambe gialle e verdi, ma con i colori disposti secondo un diverso disegno. E la bellezza di quei disegni! Non si può immaginare niente di più «moderno». Potevano es- sere state disegnate da Picasso per i Balletti Russi. Se fos- sero state di Picasso, i critici più autorevoli le avrebbero definite futuristiche, come il jazz più scatenato. Ma non erano di Picasso; erano state disegnate quattrocento anni prima dal genio innominato che preparava lo spettacolo annuale dei senesi. Di conseguenza, i critici possono sol- tanto levarsi il cappello. Queste bandiere sono classiche, sono arte nobile; non c'è altro da dire.

I1 tamburo continuava a rullare. Gli sbandieratori agi- tavano i loro drappi con tanta arte che l'intero disegno colorato era sempre visibile in tutta la sua estensione, on- deggiante nell'aria. Si passavano le bandiere da una ma- no d'altra, dietro la schiena, sotto una gamba sollevata. Infine, raccogliendo le forze per compiere uno sforzo su- premo, le lanciarono per aria. Esse salirono in alto, ro- teando in un movimento ascendente lento e continuo, ri- masero sospese un istante al culmine della loro traietto- ria, poi ricaddero, con la pesante asta all'ingiù, verso i lanciatori che le afferrarono prima che toccassero terra. Un ultimo sventolio, poi il tamburo riprese il suo ritmo di marcia, gli uomini si misero in spalla le bandiere e, segui- ti dai bimbi e dai fannulloni anacronistici del ventesimo secolo, i tre giovani virtuosi del Pinturicchio si incammi- narono spavaldi su per la strada buia, mentre i rulli di tamburo si facevano sempre più fievoli fino a svanire del tutto.

In seguito ogni sera, quando le rondini si lanciavano

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nei loro voli e nei loro gridi intorno alla torre, udimmo il rullo del tamburo. Ogni sera, nella piazzetta sotto di noi, prendeva vita un frammento del Pinturicchio. A volte erano i nostri amici in verde e giallo che ritornavano a sventolare le loro bandiere sotto le nostre finestre. A vol- te erano i rappresentanti di altre contrade o zone della città, in blu e bianco, rosso e bianco, nero, bianco e aran- cione, bianco, verde e rosso, giallo e scarlatto. I giubbotti e le calze di due vivaci colori spiccavano sui grigi e i neri funerei della piccola folla del ventesimo secolo che li cir- condava. I gonfaloni spiegati ondeggiavano nella strada come ali colorate di immense farfalle. I1 tamburo accele- rava il suo ritmo e un rullo prolungato accompagnava il lancio delle bandiere che si arrotolavano e vibravano nel- l'aria.

Per lo straniero che non ha mai assistito a un palio queste prove generali sono un anticipo molto eccitante. Affascinato da questi primi assaggi, si prepara con impa- zienza a ciò che gli riserva la grande giornata. Anche i se- nesi sono eccitati. Lo spettacolo, pur familiare, non li stanca mai. E l'appassionato di gioco che è in loro, il pa- triota locale, aspetta ansiosamente il risultato della gara. Gli ultimi giorni di giugno che precedono il primo Palio, la settimana di metà agosto che precede il secondo, sono giorni di crescente eccitazione e tensione in città. Si gode tanto di più il Palio dopo averli vissuti.

Perfino il sindaco e il consiglio comunale sono conta- giati dall'emozione generale. Sono talmenti compresi del- l'importanza dell'avvenimento che negli ultimi giorni di giugno mandano una squadra sulla piazza del Palazzo Comunale a sradicare ogni filo d'erba o ciuffi di muschio cresciuti nelle fessure fra le pietre. È quasi una caratteri- stica nazionale, questo odio per le cose naturali che cre-

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scono fra" le opere dell'uomo. Ho visto spesso nelle vec- chie città italiane degli operai impegnati a strappare le er-

i bacce nelle vie e nelle piazze meno frequentate. I1 Colos- seo, invaso fino a trenta o quarant'anni fa da una vegeta-

zione piranesiana e romantica di arbusti, erbe e fiori, è stato ufficialmente ripulito con tale energia che il suo aspetto di abbandono e rovina è notevolmente aumenta- to. Nei pochi mesi che durò quel lavoro sono state fatte crollare più pietre di quante ne fossero spontaneamente cadute nei mille anni precedenti. Ma gli italiani ne furono

soddisfatti; il che, in fondo, è la cosa più importante. I1 loro odio per la vegetazione selvatica è alimentato dal- l'orgoglio nazionale; un grande paese, soprattutto se si vanta di essere moderno, non può permettere che le er- bacce crescano neppure fra le sue rovine. Capisco e con- divido in pieno il punto di vista degli italiani. Se Ruskin e i suoi discepoli avessero parlato di me e della mia casa co- me parlavano dell'Italia e degli italiani, mi farei anch'io

un punto d'onore della mia modernità; installerei bagni,

riscaldamento centrale, ascensore, farei raschiare tutta la muffa dai muri, farei ricoprire di linoleum i pavimenti di marmo. Davvero, credo che nella mia irritazione farei abbattere l'intera casa per costruirne una nuova. Consi- derata la provocazione che hanno ricevuto, mi pare che gli italiani siano stati notevolmente moderati in fatto di diserbamento, distruzioni e ricostruzioni. La loro mode- razione è in parte dovuta, non C'è dubbio, alla loro relati- va povertà. I loro antenati costruivano case di una tale prodigiosa solidità che abbatterne una vecchia costereb- be come costruirne una nuova. Pensate, per esempio, se si dovesse demolire il Palazzo Strozzi di Firenze. Com- porterebbe una fatica pari a quella di demolire il Cer- vino. A Roma, che è in prevalenza una città barocca del

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diciassettesimo secolo, le case sono fatte di materiale più leggero. Di conseguenza, là il processo di modernizzazio- ne è molto più rapido che nella maggior parte delle altre città italiane. Nella più ricca Inghilterra si sono lasciati in piedi pochissimi monumenti antichi. La maggior parte delle grandi case di campagna inglesi furono ricostruite durante il diciottesimo secolo, Se l'Italia avesse mantenu- to la sua indipendenza e la sua prosperità durante il di- ciassettesimo, il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, ci sarebbe probabilmente un numero molto minore di co- struzioni medievali e rinascimentali di quante invece ne sopravvivono. La mancanza di denaro, dunque, impedi- sce la completa modernizzazione. L'estirpazione del ver- de ha il merito di essere a buon mercato ed è nello stesso tempo ricca di simboli. Quando si dice di una città che l'erba cresce nelle sue strade, si intende che è completa- mente morta. Viceversa, se non c'è erba nelle strade, si- gnifica che & ben viva. Certamente il sindaco e il consiglio comunale di Siena non mettevano la questione in questi termini. Ma che la questione esistesse in modo vago in fondo ai loro pensieri, non lo metto in dubbio. I1 diserba- mento era simbolo di modernità.

Con gli addetti a questo lavoro arrivavano altri operai che costruivano tutto intorno ai lati curvi della piazza grande una serie di gradinate di legno, sei file una sull'al- tra, per gli spettatori. La piazza, che non so se per caso o ad arte ha già la forma di un teatro antico, diveniva per l'occasione un vero teatro. Fra i posti a sedere e l'area centrale della piazza la pista era delimitata da sbarre e gli instabili stendardi venivano parzialmente coperti con sabbia. L'aspettativa cresceva ogni giorno di più.

E finalmente arrivava il gran giorno. Come sempre le rondini e i rondoni disegnavano i loro arabeschi nella

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chiara luce dorata sulla città. Ma le loro strida erano co- perte dal brusio profondo, continuo e informe della folla che gremiva le strade e la piazza. Sotto la sua volta di pie- tra il campanone della torre del Mangia oscillava senza posa avanti e indietro; anch'esso sembrava muto. Il cica- leccio, le risa, le grida di quarantamila persone salivano dalla piazza come una solida colonna sonora, impenetra- bile a qualsiasi rumore ordinario.

Erano le sei passate. Prendemmo posto in una delle gradinate di fronte al Palazzo Comunale. I1 nostro lato della piazza era già nell'ombra; ma il sole illuminava an- cora il palazzo e la sua torre alta e sottile, facendo brilla- re le loro superfici di mattoni rosati come di un fuoco in- terno. Un'enorme affluenza di popolo riempiva la piazza e tutte le file di posti all'intorno. C'era gente a ogni fine- stra e perfino sui tetti. Al Derby di Wembley, nei giorni di regate, ho visto folle più vaste; ma mai tante persone confinate in un così piccolo spazio.

Un colpo di fucile risuonb attraverso il frastuono di voci; a questo segnale una compagnia di carabinieri a ca- vallo irruppe nella piazza, spingendo avanti i ritardatari che ancora affollavano la pista. Erano in alta uniforme, nera e rossa con guarnizioni d'argento; tricorno in testa e spada in mano. Sui loro bei cavallini sembravano uno squadrone di elegante cavalleria napoleonica. Davanti a loro gli ultimi arrivati si affrettarono a infilarsi attraver- so ogni possibile varco fra le sbarre fino allo spazio cen- trale, che presto fu fittamente stipato. La pista fu libera- ta con un giro al passo e ripercorsa poi al trotto veloce, nel migliore stile Carle Vernet. I carabinieri ricevettero un bell'applauso e si ritirarono. La folla fremeva nell'at- tesa. Per un momento si fece quasi il silenzio. La campa- na delia torre ridivenne sonora. Qualcuno nella folla lan-

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ciò un paio di palloni, che salirono perpendicolari nell'a- ria tranquilla, una sfera rossa e una porpora. Passarono dall'ombra alla luce del sole, e il rosso divenne rubino, il porpora scintillante ametista. Arrivati al di sopra dei tet- ti, una leggera brezza li spinse via, sempre con movimen- to ascendente, fino a scomparire alla vista.

Ci fu un altro colpo di fucile e Vernet lasciò i1 posto al Pinturicchio. I1 frastuono della folla aumentò, la campa- na oscillò di nuovo senza suono e le trombe del corteo in arrivo si udirono appena. I rappresentanti delle diciasset- te contrade della città fecero lentamente il giro della piaz- za. Oltre il tamburino e i due portastendardi ogni contra- da aveva un armigero a cavallo, tre o quattro alabardieri e paggetti e, nel caso delle dieci prescelte per la gara, un fantino; tutti indossavano la divisa alla Pinturicchio nei colori particolari di ogni contrada. Avanzavano lenta- mente, poiché ogni cinquanta passi si fermavano per per- mettere ai portastendardi di esibirsi in prove di abilità con le bandiere. Impiegarono almeno un'ora a fare il gi- ro. Ma il tempo sembrava perfino troppo breve. I1 Palio è uno spettacolo del quale non ci si stanca. Ormai l'ho vi- sto già tre volte, e l'ultima mi ha divertito come la prima.

I turisti inglesi sono spesso diffidenti a proposito del Palio. Ricordano quelle terribili rievocazioni storiche che erano in gran voga nel loro paese circa quindici anni fa, e pensano che il Palio si riveli qualcosa di simile. Ma voglio rassicurarli; non è affatto così. Non esiste nessuna poesia di Louis Napoleon Parker a Siena. Qui non ci sono cori di fanciulle i cui canti sommessi esprimono elevati senti- menti morali. Non ci sono scialbi attori-impresari imper- fettamente camuffati da Hengist e Horsa, né una folla di comparse gesticolanti vestite con pessimo gusto e addobbi dei più scadenti. Infine, a Siena capita raramente di esse-

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re colti dal quasi invariabile accompagnamento delle pa- rate inglesi - la pioggia. No, il Palio è soltanto spettaco- lo; non ha nessun «significato» particolare ma, per il semplice fatto di mantenere in vita una tradizione, signi- fica infinitamente di più di quei deprimenti pasticci con tutta la loro vuota poesia parkeriana e le loro drammati- che rievocazioni. Tutti questi paggi e armigeri e sbandie- ratori vengono direttamente da un passato che la pittura del Pinturicchio raffigura così bene. I loro abiti sono quelli disegnati per i loro avi, copiati fedelmente a ogni generazione con gli stessi colori e le stesse ricche stoffe; non le flanelle e i cotoni ma le sete, i velluti, le pellicce. E quei colori furono assortiti, gli abiti tagliati in origine da uomini il cui gusto era quello impeccabile del primo Ri- nascimento. Non c'è dubbio che oggi ci sono costumisti dal gusto altrettanto raffinato. Ma non erano certo i Pa- quin, i Lanvin o i Poiret a vestire gli attori di quegli spet- tacoli inglesi; erano i fabbricanti di parrucche e le sarte da strapazzo. Ho già parlato della bellezza degli stendar- di, del loro disegno audace, fantasioso, moderno. Nel Palio ogni altro particolare è in armonia con gli stendar- di, originale, estroso, ma sempre appropriato, sempre di un'irreprensibile raffinatezza. L'unica nota falsa è pro- prio il «Palio» in se stesso - lo stendardo che viene dato alla contrada il cui cavallo ha vinto la gara. Questo sten- dardo è dipinto appositamente ogni anno in questa occa- sione. Guardatelo mentre avanza, esposto orgogliosa- mente sul grande carro da guerra medievale che chiude la sfilata - guardatelo, o forse è preferibile di no. Sembra uscito dalla collezione di addobbi di uno di quegli spetta- coli inglesi. È il capolavoro di una sarta da strapazzo. Rabbrividendo, si distolgono gli occhi.

Preceduto da una fila di paggi del Quattrocento che

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portano festoni di foglie d'alloro e scortato da una com- pagnia di cavalieri, il carro da combattimento avanzava lento e pesante, inalberando il poco degno trofeo. A que- sto punto le trombe in testa al corteo si misero a suonare, in modo appena udibile da noi sull'altro lato della piaz- za. Finalmente tutta la sfilata completò il suo giro intor- no alla piazza e si schierò in buon ordine davanti al Pa- lazzo Comunale. Sopra le teste degli spettatori radunati nello spazio centrale vedemmo i trentaquattro stendardi che ondeggiavano in un'ultima esibizione d'insieme, ve- nivano infine lanciati per aria, esitavano un istante al cul- mine del loro slancio, poi ricadevano fuori della nostra vista. Ci fu uno scoppio di applausi. Lo spettacolo era terminato. Un altro colpo di fucile. E in mezzo ad altri applausi i cavalli della gara furono riportati al luogo di partenza.

I1 percorso è di tre giri intorno alla piazza, la cui for- ma, come ho detto, somiglia a quella di un teatro antico. Ci sono dunque due curve strette dove le estremità del se- micerchio incontrano il diametro. Una di esse, data l'ir- regolarità della pianta, è più stretta dall'altra. In questo punto la parete esterna della pista è imbottita con mate- rassi per impedire ai fantini irruenti, che prendono la cur- va troppo velocemente, di sfracellarsi. I fantini cavalca- no senza sella; i cavalli corrono su un sottile strato di sab- bia sparsa sulle lastre di pietra della piazza. I1 Palio è for- se la corsa in piano più pericolosa al mondo. Ed è resa ancora più pericolosa dal patriottismo esagerato delle contrade rivali. Infatti i1 vincitore della gara, quando tira le redini del suo cavallo dopo avere oltrepassato il tra- guardo, è assalito dai sostenitori delle altre contrade (i quali pensano tutti che il loro cavallo avrebbe dovuto vincere) con una furia così scatenata che i carabinieri de-

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vono sempre intervenire a proteggere l'uomo e l'animale dal linciaggio. I nostri posti erano a duecento o trecento metri oltre il traguardo, così avevamo un'ottima visuale della battaglia che si accendeva intorno al cavallo vincen- te mentre rallentava l'andatura. I1 traguardo era appena superato che la folla gia rompeva le file e faceva irruzione sul percorso. I1 cavallo avanzava sulla pista, ancora al piccolo galoppo. Una banda di ragazzi si lanciò all'inse- guimento, agitando bastoni e gridando. Contemporanea- mente, con le code delle loro giubbe napoleoniche solle- vate dalla corsa, i tricorni traballanti, brandendo la spa- da con le mani guantate di bianco, i carabinieri a cavallo accorsero in aiuto. Vi fu una breve lotta intorno all'ani- male ora fermo, i giovani furono respinti, e circondato dai tricorni, seguito da una folla di sostenitori della sua contrada natia, il cavallo fu portato via in trionfo. Noi abbandonammo i nostri posti. Ora la piazza era comple- tamente in ombra. Soltanto in cima alla torre e sulle mer- lature del palazzo brillava l'ultimo sole, accendendovi una luce rosata contro il cielo azzurro pallido. Le rondini continuavano i loro giri incessanti lassù nella luce. Si dice che al crepuscolo e all'alba questi uccelli innamorati della luce salgano in cielo con le loro ali robuste a dare un ulti- mo addio o un mattiniero benvenuto al sole calante o na- scente. Mentre noi ci abbandoniamo al sonno, rassegnati all'oscurità, le rondini guardano lontano dalla loro torre di osservazione nell'alto dei cieli, fino all'orlo del pianeta ruotante verso la luce. Sarà una favola, mi chiedevo guardando in su a quella ronda vorticosa di uccelli, o è vero? Intanto qualcuno imprecò contro di me che non guardavo dove stavo andando. Rimandai la riflessione.

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Paesaggi d'Olanda

Ho sempre avuto un debole per la geometria piana; probabilmente perché è la sola branca della matematica che mi è stata insegnata in modo che potessi capirla. In- fatti, pur non avendo nessuna fiducia nel potere dell'i- struzione di trasformare i ragazzi della scuola pubblica in tanti Newton (è ovvio che, qualunque sia l'opportunità offerta loro, soltanto certi rari esseri desiderosi di impa- rare e in possesso di doti naturali imparano realmente qualcosa), devo tuttavia ripetere a mia difesa che l'inse- gnamento matematico del quale sono stato disgraziata- mente vittima a Eton era inteso non solo a trasformare il mio desiderio di imparare in ostinata resistenza passiva, ma anche a soffocare qualunque disposizione naturale io avessi in questa materia. Ma lasciamo andare. Basti dire che, nonostante l'educazione ricevuta e la mia inettitudi- ne congenita, la geometria piana mi ha sempre affascina- to per la sua semplicità ed eleganza, la sua eliminazione del dettaglio e del caso individuale, la sua insistenza sui principi generali.

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I1 mio amore per la geometria piana mi ha preparato a sentire un'attrazione speciale per l'Olanda. Infatti il pae- saggio olandese ha tutte le qualità che rendono così pia- cevole la geometria. Un viaggio in Olanda è un viaggio attraverso i primi libri di Euclide. In un paese che è la su- perficie piana ideale dei libri di geometria, le strade e i ca- nali tracciano le distanze più brevi fra un punto e l'altro. Nelle sconfinate distese di polder, le dighe sormontate dalle strade e gli scintillanti canali si intersecano ad ango- lo retto, formando un incrocio di linee perfettamente pa- rallele. Ogni rettangolo di grassa terra erbosa contenuto in questo reticolato di dighe ha esattamente la stessa area. Cinque chilometri di lunghezza, tre di larghezza - queste cifre vengono registrate sul quadrante del conta- chilometri. Cinque per tre per.. . quante volte? I1 demone del calcolo s'impossessa della mente. Viaggiando lungo le levigate strade color mattone che corrono fra i canali, l'occhio si sforza di contare le dighe perpendicolari o pa- rallele alla nostra. Si calcola l'area dei polder che esse racchiudono. Tanti chilometri quadrati. Ma questi devo- no essere trasformati in acri. È una somma spaventosa da calcolare con la propria testa; tanto più che si è dimenti- cato quanti metri quadrati ci sono in un acro.

E a mano a mano che si procede l'immenso paesaggio geometrico si allarga ai due lati dell'automobile come un ventaglio aperto. Sulla linea piatta dell'orizzonte una se- rie di mulini a vento agitano le braccia come tanti danza- tori di un balletto geometrico. Inevitabilmente, le leggi della prospettiva conducono le lunghe strade e le acque scintillanti a un punto di fuga indistinto nella bruma. Qua e là - presenze irrilevanti in questa astratta pianura - alcune mucche bianche e nere uscite da un dipinto di Cuyp pascolano instancabilmente nell'erba verde e rigo-

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gliosa oppure, ricordando Paul Potter, si specchiano co- me tanti Narcisi ruminanti nelle acque di un canale. Tal- volta si incontrano degli esseri umani, deplorevolmente fuori luogo, ma che di solito fanno del loro meglio per compensare il loro aspetto poco geometrico girando in bicicletta. Le ruote circolari propongono una serie di nuovi teoremi e un nuovo compito per il demone del cal- colo. Supponiamo che il raggio delle ruote sia di trenta centimetri; trenta volte per trenta volte pi greco darà l'a- rea. L'unico guaio è che abbiamo dimenticato il valore del pi greco.

Mi affretto a esorcizzare il demone del calcolo per esse- re libero di ammirare la fattoria sulla riva opposta del ca- nale alla nostra destra. Con quale perfezione si inserisce nello schema geometrico! Su un cubo, ridotto a circa un terzo della sua altezza, è collocata un'alta piramide. Que- sta è la casa. La circonda una piantagione di alberi dispo- sti a quinconce; i confini del suo giardino rettangolare so- no disegnati dall'acqua sulla verde pianura, e al di là le dighe ordinate si succedono sulla piatta distesa illimitata. Non ci sono rimesse, fienili, cortili con cataste disordina- te. I1 fieno è riposto sotto il grande tetto piramidale, e nel cubo tronco sottostante vivono da una parte il fattore e la sua famiglia, dall'altra parte (ma solo durante l'inverno, perché nel resto dell'anno dormono nei campi) le sue mucche bianche e nere alla Cuyp. Tutte le fattorie dell'O- landa settentrionale si adeguano a questo stile, che è tra- dizionale e così perfettamente conforme al paesaggio che sarebbe impossibile immaginarne uno più appropriato. Una fattoria inglese, con le sue costruzioni sparse, il suo cortile disordinato, pieno di animali, i suoi pagliai e pic- cionaie, qui sarebbe terribilmente fuori luogo. Si adatta bene al paesaggio inglese, con la sua conformazione acci-

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dentata e la sua varietà di particolari. Ma qui, in questa Olanda settentrionale, euclidea e uniforme, sarebbe un controsenso e una stonatura. La geometria esige geome- tria; con un senso delle convenienze estetiche che non si ammirerà mai abbastanza, gli olandesi si sono adeguati alle esigenze del paesaggio e hanno costellato la superfi- cie piana del loro paese di cubi e piramidi.

Paesaggio delizioso! Non conosco altra terra dove viaggiare sia più stimolante per la mente. Non fa meravi- glia che Cartesio la preferisse a ogni altra. È il paradiso del razionalista. Quando si corre nella propria automobi- le da sessanta chilometri all'ora ci si sente un illuminista cartesiano, ebbro di eccitazione intellettuale, convinto che Euclide è la verità assoluta, che Dio è un matematico, che l'universo è una semplice questione da spiegare in ter- mini di fisica e di meccanica, che tutti gli uomini sono ugualmente dotati di ragione e che si tratta soltanto di metterli di fronte ai giusti argomenti per mostrare loro gli errori in cui incorrono e inaugurare il regno della giusti- zia e del buon senso. Quelli erano sogni nobili e commo- venti, encomiabile esaltazione! Oggi noi siamo più misu- rati. Abbiamo imparato che nulla è semplice e razionale tranne ciò che abbiamo inventato noi stessi; che Dio non pensa in termini di Euclide né di Riemann; che la scienza non ha «spiegato» nulla; che più allarghiamo le nostre conoscenze più il mondo ci appare misterioso e più pro- fonde le tenebre che ci circondano; che la ragione è distri- buita in modo irregolare; che l'istinto è l'unica fonte del- l'azione; che il pregiudizio è infinitamente più forte del pensiero ragionato e che anche nel ventesimo secolo gli uomini si comportano come ai tempi delle grotte di Alta- mira e delle abitazioni lacustri di Glastonbury. E simboli- camente si fanno le stesse scoperte in Olanda. Perché i

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polder non sono illimitati, né tutti i canali diritti, né ogni casa un connubio di cubi e piramidi, e neppure la fonda- mentale superficie piana è ovunque tale. Quella deliziosa sensazione di ((Ultima corsa insieme)) che ci pervade quando viaggiamo lungo le strade di mattoni sulle righe fra i canali è un'illusione. I1 presente non è eterno; l'«Ul- tima corsa» attraverso la geometria piana si interrompe bruscamente - in una città, in una foresta, sulla costa, sulle rive di un fiume sinuoso o su un grande estuario. Non importa quale di questi luoghi: sono tutti essenzial- mente non geometrici; ognuno ha il potere di dissolvere in un istante tutti quei «paralogismi del razionale)) (come li chiama il professor Rougier) dei quali ci siamo beata- mente nutriti fra i polder. Le città hanno vie tortuose e affollate; le case hanno forme e dimensioni diverse. I1 li- torale non è rettilineo né a curve regolari, le dune o le di- ghe (dove non ci riesce la natura è l'opera dell'uomo che deve difendere la costa dall'invasione delle onde) si ergo- no immancabilmente sulla superficie piana. I boschi non hanno niente di scientifico nel loro ombroso mistero e non se ne possono distinguere tutti i singoli alberi. I fiumi sono tortuosi e brulicanti di chiatte e battelli. Le insena- ture del mare hanno forme del tutto irregolari. È il mon- do reale dopo quello ideale - irrimediabilmente diversi- ficato, complesso e oscuro; ma, passato il primo rim- pianto, non meno affascinante del paesaggio geometrico che ci siamo lasciati alle spalle. E lo troveremo ancora più attraente se abbiamo una mente concreta ed estrover- sa. Personalmente, le mie simpatie sono bilanciate. Per- ché amo il mondo interiore quanto quello esteriore. Quando questo mi disturba mi ritiro nella semplicità ra- zionale di quello interiore - nei polder dello spirito. E quando, a loro volta, i polder mi sembrano eccessiva-

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mente piatti, le strade troppo diritte e le leggi della pro- spet tiva troppo tiranniche, riemergo nella simpatica con- fusione della realtà non addomesticata.

E com'è bella e stimolante quella confusione in Olan- da! Penso a Rotterdam con il suo fiume enorme e i suoi grandi ponti, così invasa dal traffico di una grande me- tropoli che si è costretti a code lunghe mezzo miglio per attraversare le strade. Penso all'Aja e alle sue pretese di eleganza, mentre riesce soltanto a essere rispettabile e al- to-borghese. A Delft, la città commerciale di trecento an- ni fa; a Haarlem, dove in autunno si vedono passare i carri di bulbi come in altri paesi i carri di patate; a Hoorn sullo Zuyder Zee, con il suo piccolo porto e il castello che guarda il mare, il suo assurdo museo pieno di costose sciocchezze di vario genere, il suo enorme magazzino di formaggi, come un arsenale dei vecchi tempi, dove gli operai sono indaffarati tutto il giorno a lucidare palle di cannone gialle in una specie di tornio e a dipingerle di ro- sa acceso con colori all'anilina. Penso a Volendam - una fila di case di legno sull'alto della diga costiera e un'altra fila in basso, nei campi verdi dietro la diga. La gente di Volendarn e vestita come per una commedia mu- sicale - Miss Hook d'Olanda - gli uomini con pantalo- ni a sbuffo e giacchette corte, le donne con cuffie bianche ad ali, corsetti aderenti e quindici sottane sovrapposte. Cinquemila turisti vengono ogni giorno a vederli; ma mi- racolosamente essi conservano la loro dignità e indipen- denza. Penso ad Amsterdam; la città vecchia, una specie di Bruges più animata, specchia nei canali le sue alte case di mattoni. In un quartiere, a ogni finestra si affacciano grasse prostitute sorridenti, gli esemplari umani più pol- posi che abbia mai visto. Alle nove del mattino, all'ora di colazione, alle sei di sera, le vie si riempiono all'improv-

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viso di trecentomila biciclette; ad Amsterdam tutti vanno e vengono dal lavoro su un paio di ruote. Per il pedone come per l'automobilista è un incubo. Sono tutti ciclisti spericolati. Bambini di quattro anni portano bambini di tre sul manubrio. Madri pedalano allegramente con pupi di pochi mesi addormentati in culle legate al portapacchi. Giovani fattorini portano come niente fosse due metri cubi di pacchi. I lattai fanno il loro giro su biciclette spe- ciali che possono portare duecento bottiglie da un quarto su un ripiano fra le due ruote, Ho visto orticoltori tra- sportare quattro palme e una dozzina di vasi di crisante- mi sul manubrio. Ho visto cinque persone filare nel traf- fico su un'unica bicicletta. Le gesta più audaci del circo e del music hall fanno parte della routine quotidiana di Amsterdam.

Penso alle dune vicino a Schoorl. Viste da una certa di- stanza nella pianura sembrano una catena di enormi montagne contro il cielo. Seguendo con gli occhi il loro contorno frastagliato si possono provare le stesse emo- zioni suscitate per esempio dallo spettacolo delle Alpi vi- ste da Torino. Le dune sono grandiose; su di loro si po- trebbe scrivere un intero canto de Il pellegrinaggio del giovane Harold. Poi, ahimè, ci rendiamo conto di ciò che per un momento avevamo dimenticato, che questa fila di cime imponenti non sorge a cinquanta chilometri da noi, al limite curvo del pianeta; è a una distanza di poche deci- ne di metri, e i comignoli delle case alla sua base raggiun- gono quasi i due terzi dell'altezza di quelle cime. Ma che importa? Con un po' di buona volontà, ripeto, si posso- no provare in Olanda tutte le emozioni che ci procura la Svizzera.

Sì, le dune di Schoorl e di Groet sono davvero grandio- se. Ma lo spettacolo più grandioso che mi ha offerto la

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parte non geometrica d'Olanda è stata Zaandam; Zaan- dam vista da lontano, dalla pianura.

Avevamo viaggiato attraverso i polder e l'aperta cam- pagna dell'Olanda del nord. Zaandam fu il primo pezzo di realtà non geometrica che incontrammo dopo Alk- maer. In termini tecnici, Zaandam non è pittoresca; la guida ha poco da segnalare. È un porto e una città indu- striale sullo Zaan, qualche chilometro a nord di Amster- dam; questo è tutto. Ci sono fabbriche di cacao e di sapo-

ne. L'aria è carica, a strati alternati, di esalazioni delizio- se di cioccolato fuso e di puzza di grasso bollito. Sulle banchine in riva al fiume ci sono depositi di grano ameri- cano e di legname del Baltico. I granai furono i primi ad annunciarci da lontano la presenza di Zaandam. Come cattedrali di una nuova religione non ancora divulgata, essi troneggiavano nell'aria velata autunnale - enormi rettangoli di cemento collocati verticalmente, quasi senza finestre, di un grigio uniforme. Era come se tutta la loro forza fosse diretta verso l'alto; guardare il mondo oriz- zontalmente da una finestra sarebbe stato un nonsenso; gli occhi erano costretti a questo sforzo verso l'alto. E ta- le direzione era accentuata dalle linee dei riquadri alter- natamente sporgenti e rientranti nei quali erano divise le superfici dei muri di questi grandi edifici - lunghe e sot- tili linee d'ombra che correvano ininterrotte per cento piedi dalla base alla sommità. I costruttori del palazzo papale di Avignone usarono un accorgimento simile a questo per dare al loro fabbricato il suo aspetto di verti- calità e di straordinaria imponenza. I riquadri in rilievo e gli archi ciechi sostenuti da montanti di inverosimile al- tezza, con i quali essi hanno movimentato le superfici, conferiscono all'intero edificio un forte slancio verso l'alto. Lo stesso accade per i silos di Zaandam. Nella fo-

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schia dell'Olanda autunnale mi venne in mente la Pro- venza. Guardando quelle forme troneggianti che diveni- vano sempre più grandi a mano a mano che ci avvicina- vamo, pensavo a Chartres, a Bourges e a Reims: sagome gigantesche viste alla fine di una giornata di viaggio, ver- so sera, contro un pallido cielo, con le piccole luci di una città intorno alla loro base.

Ma se da una certa distanza Zaandam, con i suoi mo- numenti commerciali, ricorda i castelli provenzali e le cattedrali gotiche francesi, uno sguardo più rawicinato ne denuncia l'inequivocabile carattere olandese. Ai piedi dei silos e delle fabbriche poco meno gigantesche, nell'a- ria che sa di cioccolato e di sapone, giace la città con le sue case sparse. I sobborghi sono lunghi ma stretti, ag- grappati precariamente alla sottile striscia di terra fra due acque. Le case sono piccole, di legno dipinto a colo- ri vivaci, con giardini grandi come un fazzoletto, ben cu- rati e pieni di begonie rigogliose, almeno nella stagione in cui li ho visti. In uno di essi, grande come due fazzo- letti, c'erano non meno di quattordici gruppi scultorei. Nelle vie si incontrano uomini che fumano, con zoccoli di legno ai piedi. Cani che tirano carri pieni di vasi d'ot- tone. Innumerevoli biciclette. È l'Olanda reale, non quella ideale geometrica; affollata, confusionaria, multi- forme, strana, affascinante ... Ma entrando nella città sospirai. Era finita l'«Ultima corsa insieme)); ci erava- mo lasciati alle spalle gli amati paralogismi razionalisti- ci. Ora si doveva affrontare il mondo reale degli uomini e, nel mio caso, affrontarlo conoscendo esattamente sei parole di olandese (dialetto, per giunta) imparate anni prima a beneficio di una cameriera fiamminga: «Ha da- to da mangiare ai gatto?)) Non c'è da stupirsi che rim- piangessi i polder.

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Sabbioneta

«Lo chiamano il Palazzo del Tè», disse la cameriera della piccola locanda di una via laterale dove avevamo fatto colazione, «perché i Gonzaga ci andavano di solito a prendere il tè. » E questo era tutto ciò che lei, e proba- bilmente la maggior parte degli abitanti di Mantova, sa- peva sui Gonzaga e i loro palazzi. E forse c'era da mera- vigliarsi che ne sapesse tanto. Gonzaga: il nome, almeno, risuonava ancora sia pur debolmente. Dopo duecento an- ni quanti nomi vengono ancora ricordati? Pochi in veri- tà. I Gonzaga, mi parve, godono di un grado di immorta- lità che può fare invidia. Sono scomparsi, sono una razza estinta come i dinosauri; ma nella città che in passato go- vernarono il loro nome è ancora vagamente familiare, e per chi voglia ascoltarli essi hanno lasciato alcuni dei più eloquenti sermoni sulla vanità delle aspirazioni umane e l'incostanza della fortuna che le pietre abbiano silenzio- samente pronunciato.

Ho visto molte rovine di ogni periodo. Stonehenge e Ansedonia, Ostia e la medievale Ninfa (che il duca di

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Sermoneta sta attivamente trasformando nella copia di un lindo parco suburbano), Bolsover e le orribili rovine moderne della Francia del nord. Ho visto grandi città morte o in declino: Pisa, Bruges e la Vienna degli orrori recenti. Ma mi pareva che su nessuna incombesse una malinconia così profonda come su Mantova; nessuna appariva così morta o così totalmente spoglia di gloria; in nessun luogo la solitudine era più carica di ricordi del- lo splendore passato, il silenzio più ricco di echi. Nella labirintica Reggia di Mantova ci sono mille stanze - go- tiche, rinascimentali, barocche, altre con le assurde pre- tenziose decorazioni del Primo Impero, enormi sale delle udienze e salotti privati, e gli orridi e squisiti apparta- menti dei nani - mille stanze, le cui pareti racchiudono un vuoto che è il lugubre fantasma di una ricca presenza scomparsa. Camminando per Mantova si percepisce il creux néan t musicien di Mallarmé .

E non solo a Mantova. Infatti i Gonzaga, ovunque vis- sero, lasciarono dietro di sé lo stesso vuoto patetico, la stessa opprimente solitudine, gli stessi echi, gli stessi fan- tasmi di uno splendore scomparso.

I1 Palazzo del Tè ha la stessa malinconica bellezza che incombe sulla Reggia. È vero, l'insulsa banalità di Giulio Romano ha avuto modo di esibirsi su quelle pareti in una serie di deplorevoli affreschi (è strano, fra l'altro, che Giulio Romano sia stato l'unico artista italiano del quale Shakespeare avesse mai sentito parlare, o almeno l'unico da lui menzionato); ma le cose assurde e banali sembrano rendere in realtà ancora più commovente questo luogo. I defunti occupanti del palazzo divengono in certo modo più reali quando si scopre il loro gusto per i dipinti trom- pe i'oeii di giganti in lotta e per le scene vagamente por- nografiche tratte dalla mitologia pagana. E sembrando

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più umani sembrano pure più morti; e nel vuoto lasciato dalla loro scomparsa echeggia più che mai una sottile tri- stezza.

Anche i figli cadetti della famiglia Gonzaga avevano il potere di lasciare dietro di sé una desolazione più che pompeiana. A trentadue chilometri da Mantova, sulla strada per Cremona, c'è un villaggio chiamato Sabbione- ta. Sorge vicino al Po ma non sulle sue rive; ha una popo- lazione abbastanza numerosa per un villaggio, dedita so- prattutto all'agricoltura; è piuttosto sporco e ha un'ap- parenza - forse illusoria - di povertà. In realtà è molto simile a tutti gli altri villaggi della pianura padana, ma con questa differenza: un tempo ci viveva un Gonzaga. Lo squaliore di Sabbioneta non è consueto; è uno squal- lore che in passato era magnificenza. I suoi contadini e mercanti di cavalli vivono nella sporcizia e in condizioni precarie fra tesori architettonici del tardo Rinascimento. Il municipio è un palazzo ducale; nella scuola pubblica le lezioni avvengono sotto soffitti dipinti e scolpiti, e quan- do il maestro è fuori della classe i bambini scrivono i loro nomi sui ventri di marmo delle pazienti, malconce caria- tidi che sostengono la cappa blasonata del camino. Le proiezioni settimanali di film avvengono in un Teatro Olimpico, costruito qualche anno dopo il famoso teatro di Vicenza da un allievo di Palladio, Scamozzi. La gente prega in chiese sontuose; se per caso la truppa capita in città, viene alloggiata nella bella residenza estiva deserta.

I1 creatore di tutte queste meraviglie fu Vespasiano, fi- glio di quel Luigi Gonzaga che fu compagno di orge rega- li e che, per il suo valore e la sua forza favolosa, i suoi contemporanei soprannominarono Rodomonte. Luigi morì giovane, ucciso in battaglia; e suo figlio Vespasiano fu allevato dalla zia Giulia Gonzaga, una delle più raffi-

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nate dame dell'epoca. Gli fece imparare il latino, il greco, la matematica, le buone maniere e l'arte della guerra. In quest'ultima si distinse servendo successivamente sotto molti principi, in particolare Filippo I1 di Spagna, che gli concesse favori speciali. Vespasiano fu, pare, il tipico ti- ranno italiano di quel periodo - colto, intelligente e con quel tanto di incontrollabile feroce ribalderia che ci si aspetta da un uomo abituato a esercitare il potere assolu- to. Fu nell'intimità della vita privata che esibì le sue ca- ratteristiche meno apprezzabili. Avvelenò la prima mo- glie sul semplice sospetto, probabilmente infondato, di infedeltà, assassinò il suo presunto amante e ne esiliò i parenti. La seconda moglie lo abbandonò misteriosa- mente dopo tre anni di vita coniugale e morì di crepacuo- re in un convento, portando con sé nella tomba chissà mai quale spaventoso segreto. La terza moglie, è vero, visse fino a tarda età; ma a questo punto Vespasiano mo- rì dopo pochi anni appena di matrimonio. I1 suo unico fi- glio, che lui amò con la trepidante passione del parvenu ambizioso che aspira a fondare una dinastia, un giorno lo mandò in collera per non essersi tolto il berretto incon- trandolo per strada. Vespasiano gli rimproverò aspra- mente questa mancanza di rispetto. I1 ragazzo gli rispose con impertinenza. Al che Vespasiano gli sferrò un pugno così violento d'inguine che lo uccise. Questo dimostra che, anche quando si castigano i propri figli, conviene os- servare le regole di Queensberry.

Fu nel 1560 che Vespasiano decise di trasformare il mi- sero villaggio dal quale prendeva il suo titolo in una capi- tale degna del suo principe. Si mise al lavoro con energia. In pochi anni il villaggio di povere casupole raggruppate intorno a un castello feudale diede luogo a una città cinta da mura, con vie ampie, due belle piazze, un paio di pa-

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lazzi e un nobile Museo di Antichità. Vespasiano aveva ereditato queste ultime da suo padre Rodomonte, il quale aveva partecipato al sacco di Roma del 1527 e si era di- mostrato uno zelante e sagace razziatore. Sabbioneta fu a sua volta saccheggiata dagli Austriaci, che trasportarono le spoglie di Rodomonte a Mantova. I1 museo rimane; ma non contiene altro che quel creux néant musicien che soltanto i Gonzaga, fra tutti i principi italiani, ebbero l'arte speciale di creare con la loro scomparsa.

Eravamo arrivati a Sabbioneta da Parma. Qui, nel grande palazzo Farnese il vuoto non risuona di echi musi- cali; e un vuoto normale, per nulla inquietante. Soltanto nel colossale Teatro Estense si ritrova qualcosa della ma- linconia mantovana. Passammo per Colorno, dove l'ulti- mo degli Este costruì un palazzo d'estate vasto quasi co- me Hampton Court. Attraversammo il Po su un ponte di barche, poi Casalmaggiore e avanti, in un itinerario tor- tuoso di piccole strade secondarie nella pianura. Ci tro- vammo di fronte un tratto di mura con una bella porta. La oltrepassammo e immediatamente udimmo intorno a noi il fievole suono di fantomatici oboi; eravamo a Sab- bioneta fra i fantasmi dei Gonzaga.

La piazza centrale è rettangolare; il palazzo di Vespa- siano sorge su uno dei lati brevi, presentando alla vista una modesta facciata con cinque finestre, un tempo ricca di decorazioni, oggi nuda. Attualmente ospita il munici- pio. Nella sala d'attesa del primo piano ci sono quattro statue equestri a grandezza naturale, di legno scolpito e dipinto, che raffigurano quattro antenati di Vespasiano. Un tempo erano una squadra di dodici; ma le altre sono state fatte a pezzi o bruciate. Questo crimine, insieme a tutti gli altri danni operati dal tempo o dai vandali nel corso di tre secoli, fu attribuito dal sindaco, che ci fece

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personalmente gli onori di casa, ai socialisti che lo ave- vano preceduto nella carica. È superfluo dire che lui era un fascista.

Girammo nelle grandi sale vuote sotto i magnifici sof- fitti scolpiti e dorati. I1 custode sedeva fra gli affreschi in rovina del Gabinetto di Diana. I1 consiglio municipale teneva le sue sedute nel Salone Ducale. La Galleria degli antenati ospitava gli archivi cittadini e un impiegato. I1 vicesindaco aveva il suo ufficio nella Sala degli Elefanti. La Sala d'Oro era diventata una classe di asilo infantile. Uscimmo nella piazza soleggiata letteralmente con il cuore spezzato.

I1 Teatro Olimpico è pochi passi più in là nella via. Accompagnati dal giovane custode gentile del Gabinetto di Diana, vi entrammo. È un teatro minuscolo ma per- fetto e straordinariamente elegante. Dalla platea cinque scalini semicircolari salgono a una loggia a colonne, die- tro la quale sta il palco ducale che domina l'intera sala. La loggia è composta di dodici colonne corinzie, sor- montate da una cornice. Su questa, al di sopra di ogni colonna, c'è una dozzina di dèi e dee di stucco. Nasi e dita, capezzoli e orecchie hanno fatto la fine di tutte le cose d'arte; ma sopravvivono le forme generali. Le loro bianche sagome gesticolano con grazia nella semioscuri- tà della sala.

I1 palcoscenico era un tempo ornato di uno scenario fisso in prospettiva, come quello costruito dal Palladio a Vicenza. I1 sindaco volle farci credere che l'avevano di- strutto i suoi predecessori bolscevichi; ma certamente era stato asportato circa un secolo prima. Distrutti erano pure gli affreschi che in passato ricoprivano i muri. Du- rante un'epidemia il teatro fu usato come ospedale. Pas- sata la peste, si pensò che fosse necessaria una disinfe-

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zione e gli affreschi furono imbiancati a calce. Non c'è il denaro per raschiare via la calce e riportarli in luce.

Seguimmo il giovane custode fuori del teatro. Altri duecento o trecento metri e arrivammo sulla Piazza d'Ar- mi. È uno spazio erboso rettangolare. Lungo l'asse del rettangolo, vicino al fondo, su un bel piedistallo che so- stiene una colonna scanalata di marmo, sorge la statua di Atena, la dea protettrice della città di Vespasiano. I1 pie- distallo, il capitello e la statua sono del tardo Rinasci- mento. La colonna appartiene all'antichità classica; face- va parte del bottino romano di Rodomonte. Evidente- mente costui non era un ladruncolo da poco. Se una cosa merita di essere fatta, la si deve fare fino in fondo; questo era certamente il suo motto.

Uno dei lati lunghi del rettangolo è occupato dal Mu- seo di Antichità. È uno splendido edificio, come architet- tura di gran lunga il più bello della città. Il pianterreno è formato da un portico a grandi archi; i muri della galleria sovrastante sono ornati di archi ciechi; al centro di ogni arco ci sono finestre ben proporzionate e, fra l'uno e l'al- tro, le tipiche colonne toscane. Una cornice dalla forte sporgenza, sormontata da un tetto basso, completa il di- segno della facciata, che per la sua sobria e imponente eleganza è a mio parere fra i più notevoli nel suo genere.

Il lato opposto delia piazza è aperto, una siepe lo sepa- ra dai giardini posteriori delle case vicine. Immagino che qui sorgesse in origine il castello feudale. Esso fu abbat- tuto nel diciottesimo secolo (quanto si davano da fare quei bolscevichi!) e i suoi mattoni vennero usati, a scopi più utili ma meno estetici, per rinforzare gli argini che proteggono, non troppo efficacemente, la pianura circo- stante dalle acque del Po.

La sua distruzione ha lasciato isolata la residenza estiva

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di Vespasiano, o Palazzo del Giardino (salvo nella parte confinante con il museo), che ha un certo aspetto di ab- bandono in fondo alla lunga piazza. È una costruzione bassa e allungata di soli due piani, abbastanza insignifi- cante all'esterno. È evidente che Vespasiano la costruì con il massimo risparmio possibile. Per lui era solo una casetta da weekend, un luogo di vacanza, dove sfuggire al fasto cittadino e all'andirivieni del palazzo sulla piazza princi- pale, spostandosi appena di mezzo chilometro. Come tutti i sovrani di piccoli stati, Vespasiano deve aver incontrato gravi difficoltà per prendersi una vera vacanza. Non pote- va allontanarsi di dieci chilometri in qualsiasi direzione senza incontrare una frontiera. Nei suoi domini era im- possibile cambiare aria. Saggiamente, dunque, decise di concentrare i suoi lussi. Costruì il suo Balmoral a cinque minuti di strada dal suo Buckingham Palace.

Bussammo alla porta. Ci aprì la guardiana, una vec- chia che avrebbe potuto calcare qualsiasi scena nella par- te della nutrice di Giulietta senza nessuna prova prelimi- nare. L'avevamo appena conosciuta che già ci confidava di essersi sposata da poco per la terza volta, a settant'an- ni suonati. I suoi commenti sullo stato coniugale erano così in stile con la nutrice di Giulietta, così decisamente «Comare di Bath», che ci fecero sentire molto vittoriani al confronto di questa gagliarda vecchia comare del Quattrocento.* Dopo averci detto tutto quello che si può dire (e molto che non si può, almeno nelia buona società) sullo stato matrimoniale, passò a farci gli onori di casa. Ci guidò attraverso le stanze, aprendo le persiane di ognuna a mano a mano che entravamo. E nella luce che

* In italiano nel testo.

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irrompeva dalle finestre senza vetri quali delizie gonza- ghesche ci furono rivelate! C'era un Gabinetto di Venere con i resti di nudi voluttuosi, una Sala dei Venti con che- rubini che soffiavano e una cappa di camino di marmo rosso; un Gabinetto dei Cesari con pavimento di marmo e ornato di medaglioni di tutti i ribaldi deil'antichità; una Sala dei Miti sul cui soffitto a forma di piramide tronca vista dall'interno erano dipinte cinque incantevoli scene alla Lemprière - un Icaro, un Apollo e Marsia, un Fe- tonte, un'Aracne, e al centro una scena per me alquanto misteriosa: una bellezza nuda seduta in groppa non a un toro (questo sarebbe stato abbastanza semplice) ma a un cavallo sdraiato che gira amorosamente la testa a guar- darla mentre lei gli accarezza il collo. Chi fosse la dama e chi il dio travestito non so con esattezza. Vaghi ricordi di una scappatella di Saturno mi fluttuano in mente. Ma forse sto diffamando una divinità rispettabile.

Ad ogni modo, qualunque ne sia il soggetto, il dipinto è affascinante. L'artista principale di Vespasiano fu Ber- nardino Campi di Cremona. Non era un gran pittore, certo; ma la sua mediocrità era aggraziata e gentile, mai banale come quella di Giulio Romano. Sul Palazzo del Tè incombe un'atmosfera di paura appena attenuata dal tempo; ma il Giardino è tutto dolcezza - manierata e piuttosto fiacca - tuttavia autentica nel suo sfacelo.

La vecchia guardiana ci illustrava le pitture mentre gi- ravamo - non in base alla conoscenza di ciò che rappre- sentavano, ma alla sua immaginazione, che era ben più interessante. Nella Sala delle Grazie, le cui pareti recava- no ancora le tracce di una serie di graziosi «grotteschi»*

* In italiano nel testo.

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nello stile pompeiano, la sua fantasia superò se stessa. Queste, disse, sono raffigurazioni dei sogni del Duca. Ogni volta che faceva un sogno mandava a chiamare il suo pittore perché lo disegnasse sulle pareti della sua stanza. Queste - e indicò una coppia di Chimere - le ha viste in un incubo; questi satiri danzanti lo hanno visitato nel sonno dopo una serata allegra; questi quattro fiaschi sono stati sognati dopo una solenne bevuta. Quanto alle tre Grazie nude che danno il nome alla sala e a quei.. . so- pra le Grazie, a questo punto ridivenne troppo Comare di Bath per riferire le sue parole.

Le sue risate di vecchia chioccia continuarono a risuo- nare nelle stanze vuote; esse parvero condensare e cristal- lizzare tutta la malinconia in sospensione, per così dire, fra quei muri sbiaditi e scrostati. I1 senso di desolazione, prima vagamente sentito, si fece più acuto. E quando la vecchia ci introdusse in un'altra stanza, buia e odorosa di muffa come tutto il resto, e apri gli scuri annunciando nella luce rivelatrice la Sala degli Specchi, avrei voluto piangere. Infatti nella Sala degli Specchi non ci sono più specchi, ma soltanto le loro complicate cornici sui muri e sul soffitto. Dove un tempo scintillavano i vetri di Mura- no ci sono ora superfici di gesso che guardano come oc- chi ciechi, vacui e, si direbbe, pieni di rimprovero. «In questa sala una volta ballavano», disse la vecchia.

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PARTE TERZA

Opere d'arte

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Bruegel

La maggior parte dei nostri errori sono fondamental- mente grammaticali. Ci creiamo noi stessi delle difficoltà usando un linguaggio inadeguato per descrivere la realtà. Così, per fare un esempio, diamo lo stesso nome a cose diverse e più di un nome alla medesima cosa. Le conse- guenze, quando dobbiamo discutere, sono disastrose. In- fatti usiamo un linguaggio che non descrive adeguata- mente le cose delle quali parliamo.

La parola «pittore» è una di quelle la cui applicazione indiscriminata ha condotto ai peggiori risultati. Così ven- gono chiamati senza distinzione tutti coloro che per qual- siasi ragione e a qualsiasi scopo mettono il pennello sulla tela e dipingono. Ingannati dall'unicità del nome, gli stu- diosi di estetica hanno voluto farci credere che c'è una so- la psicologia del pittore, una sola funzione del dipingere, un solo standard di critica. La moda cambia e con essa le idee dei critici d'arte. Ai nostri giorni è di moda credere nella forma trascurando il soggetto. I giovani vanno qua- si in deliquio per l'emozione estetica davanti a un Matis-

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se. Due generazioni prima si sarebbero asciugati gli occhi di fronte all'ultimo Landseer. (Ah, quei cani più che umani, addirittura divini, come erano commoventi, qua- le lezione impartivano! Non c'era più stata pittura reli- giosa come quella di Landseer dai tempi di Carlo Dolci.)

Queste considerazioni storiche dovrebbero metterci in guardia contro la fede esclusiva in una qualsiasi teoria ar- tistica. Un genere di pittura, una corrente di idee sono di moda in un dato momento. Diventano la base di una teo- ria che condanna gli altri generi di pittura e le teorie criti- che precedenti. I1 processo si ripete in continuazione.

Attualmente, è vero, abbiamo raggiunto un eclettismo e una tolleranza senza precedenti. Riusciamo, se siamo aggiornati, ad apprezzare tutto, dalla scultura nera a Luca della Robbia e da Magnasco ai mosaici bizantini. Ma questo eclettismo è raggiunto quasi completamente a spese del contenuto delle opere d'arte considerate. Ciò che abbiamo imparato a vedere in tutte queste opere sono le loro qualità formali, che isoliamo dai resto e definiamo arbitrariamente essenziali. Il soggetto dell'opera, con tut- to ciò che il pittore ha voluto esprimere ai di là del suo senso dei rapporti formali, è rifiutato dalla critica con- temporanea come un fattore di nessuna importanza. I1 giovane pittore evita scrupolosamente di introdurre nei suoi quadri qualunque cosa abbia attinenza con una sto- ria, o che sia l'espressione di una visione della vita, men- tre il giovane Kunstforscher rifiuta, come inutile esibizio- nismo, ogni manifestazione di interesse, vietata a un con- temporaneo, per il dramma o la filosofia. Certo, gli anti- chi maestri potevano permettersi di rappresentare delle storie e di esprimere i loro pensieri sul mondo. Poveretti, non sapevano fare di meglio! L'osservatore moderno si mostra indulgente verso la loro ignoranza e sorvola su

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tutto cib che esula dai rapporti formali. Gli ammiratori di Giotto (oggi altrettanto numerosi quanto quelli di Gui- do Reni cent'anni fa) si sforzano di guardare i suoi affre- schi prescindendo da quello che rappresentano o che il pittore ha voluto esprimervi. Li depurano da ogni accen- no di dramma o di significato; ammirano soltanto la composizione. È un processo analogo alla lettura di versi latini senza capire la lingua, semplicemente per amore della ritmica sonorità degli esametri.

Sarebbe assurdo, naturalmente, negare l'importanza dei rapporti formali. Nessun dipinto sta insieme senza una corretta composizione, nessun bravo pittore è privo di uno specifico amore per la forma in se stessa - come non c'è bravo scrittore che non abbia la passione delle parole e delle loro combinazioni. È owio che nessuno può espri- mersi adeguatamente se non ha interesse per i mezzi che si propone di usare per esprimersi. Non tutti i pittori sono interessati allo stesso tipo di forme. Alcuni, ad esempio, amano i volumi e le superfici dei solidi. Altri hanno il gu- sto delle linee. Alcuni compongono a tre dimensioni. Ad altri piace disegnare sagome piatte. Alcuni amano levigare la superficie del dipinto, renderla per così dire traslucida, in modo che gli oggetti rappresentati nel quadro siano visti ben distinti e separati, come attraverso una lastra di vetro. Altri (ad esempio Rembrandt) amano le superfici a pen- nellate ricche e dense che fondono in un unico insieme tut- ti gli oggetti rappresentati, pur rispettando la profondità delia composizione e la distanza degli oggetti dal primo piano del dipinto. Tutte queste considerazioni puramente estetiche sono, come ho detto, importanti. Tutti gli artisti vi sono interessati; ma quasi per nessuno questo interesse esclude tutti gli altri. Capita davvero molto di rado che un pittore sia ispirato soltanto dal suo interesse per la forma e

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per la materia della pittura. I buoni pittori di soggetti «astratti» o anche di nature morte sono rari. Le mele e la geometria solida non stimolano un uomo a esprimere i suoi sentimenti circa la forma e a fare una composizione. Tutti i pensieri e le emozioni sono interdipendenti. Per usare le parole della cara vecchia canzone:

Le rose intorno allaporta Mi fanno amare di più la mamma.

Un sentimento suscita l'altro. Le nostre facoltà funzio- nano meglio in un'atmosfera di emozioni congeniale. Per esempio, la facoltà di Mantegna di fare nobili composi- zioni di forme era stimolata dai suoi sentimenti su un'u- manità eroica e quasi divina. Esprimendo quei sentimen- ti, che trovava esaltanti, esprimeva pure - nel modo più perfetto di cui era capace - i suoi sentimenti sui volumi, le superfici, i solidi, i vuoti. «Le rose intorno alla porta» - cioè il suo culto per gli eroi - «gli facevano amare di più la mamma» - stimolando il suo dono della composi- zione lo faceva dipingere meglio. Se Isabella d'Este gli avesse ordinato di dipingere mele, tovaglie e bottiglie, es- sendo poco interessato a questi oggetti avrebbe eseguito una mediocre composizione. Eppure, da un punto di vi- sta puramente formale, mele, bottiglie e tovaglie sono al- trettanto interessanti quanto i volti e i corpi umani. Ma Mantegna, come la maggioranza dei pittori, non aveva un interesse appassionato per questi oggetti inanimati. Quando siamo annoiati diventiamo noiosi.

Le mele intorno alla porta Mi fanno diventare terribilmente noioso.

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esclusivo per la forma da poter dipingere qualsiasi cosa abbia una forma; o che possieda una certa dose di quel bizzarro panteismo, di quella superstizione animistica per cui Van Gogh considerava i più umili e comuni degli oggetti come divinamente o diabolicamente vivi. Crains dans le mur aveugle un regard qui t'épie. Se un pittore sente così, sarà in grado, come Van Gogh, di dipingere campi di cavoli e povere stanze d'albergo che avranno la stessa violenta drammaticità di un Ratto delle Sabine.

Oggi e di moda ammirare soprattutto il pittore che si li- mita al lato formale della sua arte e dipingere quadri del tutto privi di letteratura. I1 detto del vecchio Renoir, Un peintre, voyez-vous, qui a le sentiment du téton et des fesses, est un homme sauvé», induce i puristi a sospettar- lo di spirito godereccio. Un pittore che ha il gusto delle tette e delle natiche è qualcuno che gode a ritrarre modelli reali. I1 puro esteta avrebbe solo i1 gusto delle sfere, delle linee curve e delle superfici. Ma questo «gusto delle nati- che» è comune a tutti i buoni pittori. È il minimo comun denominatore del mestiere. È possibile, come Mantegna, avere la passione di tutto ciò che è solido, e nello stesso tempo essere un filosofo stoico e un ammiratore di eroi; avere, come Michelangelo, una perfetta conoscenza di se- ni e interessarsi anche di anime o, come Rubens, avere il sentimento della grandezza umana e nello stesso tempo dei sederi umani. Il più grande contiene il più piccolo; i grandi pittori drammatici e riflessivi hanno le stesse co- gnizioni di quelli estetici che dipingono forme geometri- che, mele o natiche; ma anche molte di più. Quello che hanno da dire sui rapporti formali, sebbene importante, è solo una parte di quello che hanno da esprimere. L'insi- stenza attuale sulla forma, a esclusione di tutto il resto, è

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un assurdo. Come lo era un tempo l'insistenza sull'imita- zione della natura e sul sentimento a esclusione della for- ma. Non ci devono essere esclusioni. Nonostante il nome unico, ci sono molti tipi diversi di pittori e tutti, a parte quelli che non sanno dipingere o che hanno una persona- lità banale o volgare o noiosa, hanno il diritto di esistere.

Tutte le classificazioni e le teorie sono fatte a posterio- ri; i fatti devono prima accadere per poi essere catalogati e ridotti a metodo. Invertendo il processo storico, noi af- frontiamo i fatti già con una scorta di pregiudizi teorici. Invece di valutare ogni singolo fatto in base ai suoi meri- ti, ci chiediamo come esso si adatti allo schema teorico. A un dato momento un certo numero di fatti meritevoli non concordano con la teoria di moda e devono quindi essere ignorati. Così l'arte di E1 Greco non si conformò all'idea- le pittorico in auge presso Filippo I1 e i suoi contempora- nei. Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo i primitivi senesi erano giudicati dei barbari incompetenti. Sotto l'influenza di Ruskin il tardo diciannovesimo secolo pen- sò bene di condannare quasi tutta l'architettura che non fosse gotica. E all'inizio del nostro secolo, sotto l'in- fluenza dei francesi, si deplora o si ignora, in pittura, tut- to quello che è letterario o drammatico o che riflette un pensiero.

In ogni epoca la teoria ha portato gli uomini ad ap- prezzare molte cose brutte e a rifiutarne molte belle. I1 critico d'arte dovrebbe avere un solo pregiudizio, quello contro l'incompetenza, la disonestà mentale, la superfi- cialità. Infiniti sono i modi per fare buoni quadri, e tutti dipendono soltanto dalla varietà delle menti umane. Ogni buon pittore inventa un nuovo metodo di dipingere. Quest'uomo è un pittore esperto? Ha qualcosa da dire, è genuino? Sono queste le domande che il critico si deve

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porre. E non: Si adegua alla mia teoria dell'imitazione, o della deformazione, o della purezza morale, o dell'im- portanza della forma?

C'è un pittore contro il quale, mi pare, il pregiudizio teorico ha sempre agito molto ingiustamente. Questo è Bruegel il Vecchio. Guardando i suoi dipinti più belli mi accorgo che posso rispondere in modo affermativo a tut- te le domande che un critico può legittimamente porsi. È estremamente abile dal punto di vista estetico; ha moltis- simo da dire; ha una mente originale, interessante, piena di vigore; e non ha false pretese, è assolutamente onesto. Eppure non ha mai goduto l'alta fama che le sue doti gli meritavano. Credo sia dovuto al fatto che la sua opera non si è mai pienamente accordata con nessuna delle va- rie teorie critiche che dai suoi tempi si sono succedute nel campo estetico.

Colorista sottile, disegnatore robusto e sicuro, con una sapienza di composizione che gli permette di ordinare gli innumerevoli personaggi che riempiono i suoi quadri in gruppi piacevolmente decorativi (costruiti, come si vede se analizziamo i suoi metodi di composizione formale, con singole figure piatte, quasi semplici sagome, colloca- te in una successione di piani digradanti), Bruegel può vantare meriti puramente estetici che dovrebbero farlo apprezzare anche dai più rigidi cultori della forma. Av- volta in questa salsa estetica, si suppone che la pillola amara della sua letteratura dovrebbe essere inghiottita facilmente. Se a Giotto sono perdonate le sue intrusioni nella storia sacra, perché non si dovrebbe accettare che Bruegel sia un antropologo e un filosofo sociale? Al che arrischio questa risposta: perdoniamo Giotto perché ab- biamo così totalmente smesso di credere nella religione cattolica che possiamo facilmente ignorare il soggetto dei

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suoi dipinti e concentrarci soltanto sulle loro qualità for- mali; Bruegel invece è imperdonabile perché i suoi com- menti sull'umanità hanno ancora per noi un interesse. Dai suoi soggetti non possiamo estraniarci; ci toccano troppo da vicino per poterli ignorare. Ecco perché Brue- gel è disprezzato da tutti i Kunstforscher aggiornati.

E anche in passato, quando non c'erano obiezioni teo- riche alla mescolanza di pittura e letteratura, Bruegel non ottenne, per altre ragioni, il riconoscimento dovuto. Era considerato volgare, rozzo, buffonesco, e come tale inde- gno di seria considerazione. Così l'Enciclopedia Britan- nica, sulla quale in queste faccende si può fare affida- mento per conoscere l'opinione corrente di un paio di ge- nerazioni fa, nelle undici righe che con parsimonia dedica a Peter Bruegel ci informa che «i soggetti dei suoi dipinti sono principalmente figure umoristiche, come quelle di D. Teniers; e se a lui manca il tocco delicato e l'argentea luminosità di quel maestro, è ampiamente dotato di spiri- to e di capacità comiche)).

Chiunque abbia scritto queste parole - e si suppone che siano state scritte, cinquant'anni fa, da qualcuno de- sideroso di andare sul sicuro e di dire la cosa giusta - è probabile che non si sia mai dato la pena di guardare nes- suno dei quadri dipinti da Bruegel nella sua piena maturi- tà di artista.

In gioventù, è vero, fece una certa quantità di lavoro scadente per un mercante specializzato in caricature e diavoli nello stile di Hieronymus Bosch. Ma i suoi quadri successivi, dipinti quando si era veramente impadronito dei segreti della sua arte, non sono affatto comici. Sono studi di vita contadina, allegorie, pitture religiose di una concezione insolitamente meditativa, paesaggi squisita- mente poetici. Bruegel morì ai sommo delle sue capacità. \

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Ma è sufficiente quanto esiste della sua opera matura - ad Anversa, a Bruxelles, a Napoli e soprattutto a Vienna - per dimostrare la stoltezza del verdetto classico e rive- larlo per quello che fu: il maggior paesaggista del suo se- colo, il più acuto studioso di costumi, il pittore che con straordinaria abilità ha rappresentato o suggerito una vi- sione della vita. È a Vienna che l'arte di Bruegel può esse- re meglio studiata in tutti i suoi aspetti. Là ci sono prati- camente tutti i suoi migliori dipinti di vari generi. Quelli sparsi tra Anversa, Bruxelles, Parigi, Napoli e altrove non danno che una pallida idea delle sue capacità. Nei musei di Vienna sono raccolti più di una dozzina di suoi quadri, tutti appartenenti al suo ultimo e migliore perio- do. La Torre di Babele, la Salita al Calvario, il Censi- mento a Betlemme, i due paesaggi dell'lnverno, quello dell'Autunno, la Conversione di san Paolo, la Battaglia fra i Filistei e gli Israeliti, il Pranzo di nozze e la Danza di contadini - tutte queste opere mirabili sono presenti qui. È su queste che si deve giudicarlo.

I paesaggi a Vienna sono quattro: i Cacciatori nella ne- ve (Gennaio), la Giornata oscura (Febbraio), il Ritorno della mandria (Novembre), e il Censimento a Betlemme, che nonostante il titolo è poco più di un paesaggio con fi- gure. Quest'ultimo, come il paesaggio di Gennaio e la Strage degli innocenti a Bruxelles, è uno studio di neve. Le scene di neve si prestavano in modo particolare allo stile pittorico di Bruegel. Infatti, visti su uno sfondo in- nevato, tutti gli oggetti scuri o colorati hanno un risalto speciale, come sagome dai contorni netti. In tutte le sue composizioni Bruegel fa quello che la neve fa nella natu- ra. Nei suoi quadri (che ricordano molto la maniera dei giapponesi) tutti gli oggetti sono sagome estremamente sottili disposte, un piano dopo l'altro, come gli arredi

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teatrali nella profondità del palcoscenico. Di conseguen- za quando dipinge le scene di neve, dove è la natura che per prima imita il suo metodo abituale, egli raggiunge un grado quasi inquietante di realismo essenziale. Quei cac- ciatori che scendono dalla collina verso la valle coperta di neve con i suoi stagni gelati sono tanti Jack Frost con la sua banda. La folla che gira per le bianche strade di Be- tlemme si inserisce in un inverno assoluto, e quei feroci soldati a cavallo che si danno al saccheggio e alla caccia agli innocenti in un paesaggio da cartolina di Natale fan- no parte dell'esercito stesso dell'inverno, e gli innocenti che uccidono sono i giovani germogli della terra.

Lo stile di Bruegel è meno strettamente compatibile con i paesaggi senza neve di Febbraio e Novembre. I di- versi piani sono separati in modo un po' troppo netto e piatto. Occorre un tipo di pittura più morbida e pastosa per cogliere l'intima qualità di scene come quelle raffigu- rate in questi due dipinti. Uno specialista dell'autunno, ad esempio, avrebbe fuso gli animali, gli uomini, gli albe- ri e le montagne in un insieme più indistinto, unendo il tutto, il vicino e il lontano, nella ricca materia della sua pittura. Bruegel aveva un modo di dipingere troppo piat- to e trasparente per essere l'interprete perfetto di simili paesaggi. Eppure, anche dove il suo stile non era total- mente adeguato, ha fatto meraviglie. Questo Autunno é di una squisita bellezza. Qui, come nel più cupamente drammatico paesaggio di Febbraio, fa un uso sapiente di ori, gialli e bruni, in una sobria luminosa armonia di co- lori. Il paesaggio di Novembre è del tutto calmo e sereno; invece nella Giornata oscura il pittore ha rappresentato uno dei drammi naturali del cielo e della terra - un con- flitto fra la luce e l'oscurità. La luce irrompe di sotto le nuvole all'orizzonte, scintilla dal fiume che scorre nella

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valle a media distanza, risplende sulle cime delle monta- gne. Il primo piano, che rappresenta la cresta di una col- lina boscosa, è scuro; e gli alberi spogli sui pendii sono neri contro il cielo. Questi due dipinti sono i più bei pae- saggi del sedicesimo secolo che conosco. Sono intensa- mente poetici ma misurati, senza concessioni al pittore- sco e al romantico. Gli aspri dirupi e i vertiginosi precipi- zi così cari agli antichi pittori non appaiono in questi esempi dell'opera matura di Bruegel.

L'antropologia di Bruegel è altrettanto attraente quan- to la sua poesia della natura. Conosceva i suoi fiammin- ghi, li conosceva intimamente, nei loro momenti di pro- sperità come negli anni infelici di lotte, rivolte, persecu- zioni, guerre e conseguente povertà che seguirono all'av- vento della Riforma nelle Fiandre.

Fiammingo lui stesso, in un modo così profondo e in- crollabile che riuscì ad andare in Italia e, come il suo grande connazionale Roger van der Weyden un secolo prima, a ritornarne senza la più lieve traccia di italiani- smo - era perfettamente qualificato a essere lo storico dei costumi delle genti fiamminghe. Le mostra per lo più in quei momenti di orgiastica allegria con la quale mitiga- no la monotona fatica del vivere quotidiano: enormi ab- buffate e bevute, goffe danze, abbandono a certe ameni- tà scatologiche tipicamente fiamminghe. I1 Pranzo di nozze e la Danza di contadini, entrambi a Vienna, sono superbi esempi di questo tipo di pittura antropologica. Né dobbiamo dimenticare quei due quadri curiosi che so- no il Combattimento fra Carnevale e Quaresima e i Gio- chi di bimbi. Anche questi ci mostrano certi aspetti alle- gri di vita fiamminga. Ma la visione non si limita a una scena individuale, colta per caso al suo culmine e ripro- dotta. Questi due dipinti sono sistematici ed enciclopedi-

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ci. Nell'uno sono illustrati i giochi dei bambini, nell'altro i divertimenti del Carnevale, con tutte le forze schierate dalla parte dell'ascetismo. Allo stesso modo, nella straor- dinaria Torre di Babele, sono rappresentati tutti i proces- si della costruzione. Questi dipinti sono veri e propri ma- nuali dei rispettivi soggetti.

La tendenza di Bruegel a generalizzare e sistemizzare è illustrata inoltre nei suoi pezzi allegorici. I1 Trionfo della Morte, al Prado, è impressionante nella sua concezione e nella sua ricchezza compositiva. I1 fantastico «Dulle Griet» ad Anversa è un trionfo del male quasi altrettanto elaborato. Le illustrazioni di proverbi e parabole appar- tengono alla stessa categoria. Esse dimostrano che Brue- gel fu un uomo profondamente convinto della realtà del male e degli orrori che questa vita mortale, per non parla- re dell'eternità, riserva all'umanità sofferente. I1 mondo è un luogo orribile; ma ciò nonostante, o proprio per questo, gli uomini e le donne mangiano, bevono e balla- no, il Carnevale combatte contro la Quaresima e trionfa, sia pure momentaneamente; i bambini giocano nelle stra- de, la gente si sposa fra grossolani festeggiamenti.

Ma fra tutti i quadri di Bruegel quello che più invita al- la riflessione non è specificamente allegorico o sistemati- co. Cristo che porta la Croce è uno dei suoi dipinti più grandi, affollato di piccole figure ritmicamente raggrup- pate contro un ampio e romantico sfondo. La composi- zione è semplice, gradevole in se stessa, e sembra scaturi- re dal soggetto anziché imporsi ad esso. Questo per il lato puramente estetico.

Della crocifissione e della salita al Calvario esistono centinaia di versioni dei più grandi e più vari maestri. Ma di tutti quelli che ho visto questo Calvario di Bruegel è il più suggestivo e il più impressionante per drammaticità.

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Tutti gli altri maestri hanno dipinto queste tragiche scene dall'interno, per così dire, verso l'esterno. Per loro Cri- sto è il centro, l'eroe divino della tragedia; questo è il fat- to dal quale essi partono, che influenza e trasforma tutti gli altri fatti, giustificando, in certo senso, l'orrore del dramma e disponendo tutto ciò che circonda la figura centrale in una gerarchia ordinata di bene e di male. Bruegel invece parte dall'esterno per giungere al centro. Rappresenta la scena come sarebbe apparsa a uno spetta- tore casuale sulla strada per il Golgota un certo mattino di primavera dell'anno 33 d.C. Altri artisti si sono sentiti angeli e hanno dipinto la scena tenendo presente il suo si- gnificato. Bruegel resta invece decisamente uno spettato- re umano. Ci mostra una folla di persone che camminano di buon passo sul pendio di una collina, allegre come fos- sero in vacanza. Sulla cima, visibile a media distanza sul- la destra, ci sono due croci alle quali sono attaccati due ladroni, e fra esse un buco nel terreno in cui verrà presto piantata un'altra croce. Intorno alle croci, sulla cima brulla della collina, c'è un gruppo di persone venute qui con i loro cestini del picnic ad assistere allo spettacolo gratuito offerto dai ministri della giustizia. I più previ- denti hanno già preso posto intorno alle croci; sono quel- li che ai nostri giorni vedremmo con seggiolini pieghevoli e thermos, sei ore prima dello spettacolo, in testa alla fila per una serata della Melba al Covent Garden. I meno previdenti o i più awenturosi sono nella folla che sale sulla collina insieme al terzo e più importante dei malfat- tori, la cui croce occuperà il posto d'onore fra le altre due. Nella loro ansia di non perdere nulla del divertimen- to durante la salita, essi dimenticano che dovranno ac- contentarsi di posti arretrati sul luogo dell'esecuzione. Potrebbe darsi, pero, che abbiano prenotato i loro posti

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lassù. A Tyburn si poteva ottenere un ottimo posto in un palco privato per mezza corona; con il biglietto in tasca, si poteva seguire il carro lungo tutto il percorso dalla pri- gione, arrivare contemporaneamente al condannato e avere una vista perfetta sullo spettacolo. Ai nostri giorni, in cui un dubbio spirito umanitario ha finora ottenuto che le impiccagioni avvengano in privato, e le grida della signora Thompson non possono neppure essere registrate alla radio, dobbiamo accontentarci di leggere le notizie sulle esecuzioni, anziché assistervi. Gli impresari che ven- devano posti a Tyburn sono stati sostituiti da famosi pro- prietari di giornali che vendono ghiotte descrizioni di Ty- burn a un pubblico infinitamente più vasto. Se la gente venisse ancora impiccata a Marble Arch, Lord Riddell sarebbe molto meno ricco.

Quel febbrile, fremente, lascivo interesse per il sangue e la bestialità che in questi tempi più civili possiamo sod- disfare soltanto a un passo dalla realtà nelle pagine dei nostri giornali, al tempo di Bruegel veniva accontentato più apertamente; il bruto ingenuo che cova nell'uomo era meno sofisticato, gli si dava maggiore spazio, poteva ab- baiare e agitare festosamente la coda intorno alla vittima designata. Vista così, con indifferenza, dall'esterno, la tragedia non purifica e non eleva; sgomenta e sconvolge, oppure può perfino ispirare una sorta di macabra ilarità. La stessa situazione può essere tragica o comica, a secon- da che sia vista attraverso gli occhi di chi patisce o di chi guarda. (Spostando appena il punto di vista, Macbeth può essere letto come una farsa clamorosa.) Bruegel fa una concessione alla tradizione altamente tragica collo- cando nel primo piano del suo dipinto il piccolo gruppo delle pie donne che piangono e si torcono le mani. Esse stanno in disparte dalle altre figure del quadro e sono

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fondamentalmente in contrasto con quelle, essendo di- pinte nello stile di Roger van der Weyden. Una piccola oasi di spiritualità appassionata, di consapevolezza e par- tecipazione, in mezzo alla dilagante insensibilità e bestia- lità. Perché Bruegel le abbia messe nella scena è difficile precisare; forse a beneficio dei religiosi convenzionali, forse per rispetto della tradizione; oppure la sua visione gli pareva troppo sconfortante e ha voluto aggiungere questo nobile particolare per rassicurare se stesso.

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Rimini e Alberti

Quella mattina Rimini fu onorata dalla presenza di tre illustri visitatori - noi due e il Braccio Taumaturgico di San Francesco Saverio. Separato dalle altre spoglie del santo, la cui dimora è un'urna tempestata di gemme nella chiesa del Gesù a Goa, il Braccio stava girando come noi per l'Italia. Ma, mentre noi poveri turisti comuni spende- vamo via via il nostro denaro, il Braccio Taumaturgico invece ne raccoglieva, e questo era forse il suo risultato più miracoloso. Era sufficiente che questo pezzo di sche- letro, con un dito ossuto sul quale brillava un enorme anello con ametista, si mostrasse attraverso il cristallo dei reliquiario nel quale viaggiava per procurargli la venera- zione degli spettatori e una pioggia di monete di rame parcamente mescolate ad altre di nichel e a qualche bi- glietto di piccolo taglio. Le monete andavano alle missio- ni estere; che cosa succedesse della venerazione, è diffici- le indovinare; è probabile che venisse segnata, insieme al- l'offerta della loro monetina, a credito di coloro che ne erano pervasi, nel registro degli angeli.

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Provavo un po' di pena per il braccio di San France- sco Saverio. I1 corpo del santo, dopo la traslazione dalla Cina alla Malacca e dalla Malacca all'India, ora riposa, come ho detto, nell'urna sfarzosa di Goa. Dopo una vita così straordinariamente intensa, il grande missionario meriterebbe di riposare in pace. E così fa, almeno la maggior parte di lui. Ma il braccio destro ha dovuto ri- nunciare alla sua quiete secolare; i suoi viaggi missionari non sono ancora finiti. Nella sua cassetta di cristallo e oro si sposta instancabilmente attraverso il mondo catto- lico raccogliendo oboli - «per rovinare l'innocenza de- gli indiani)), come con espressione concisa e piuttosto caustica ha detto Matthew Green duecento anni fa. Po- vero braccio!

Quella mattina lo trovammo nella chiesa di San Fran- cesco a Rimini. Una folla di fedeli riempiva l'edificio e traboccava nella strada. Pareva che la gente aspettasse nella vaga speranza di qualche evento taumaturgico. Al- l'interno della chiesa una lunga fila di uomini e donne strascicava i piedi fino al coro per baciare il reliquiario ingioiellato e deporre le monete. Fuori, fra la folla alla porta della chiesa, giravano i venditori ambulanti con cartoline a colori del Braccio Taumaturgico e brevi ma favolose biografie del suo possessore. Ci mettemmo a parlare con uno di loro, il quale ci raccontò che seguiva il Braccio di città in città, vendendo le sue mercanzie ovunque esso si fermava per mostrarsi. Era un'attività abbastanza redditizia, che gli permetteva di mantenere moglie e figli a Milano in una certa agiatezza. Ci mostrò le loro fotografie: mamma e bambini avevano l'aria ben nutrita. Ma, poveraccio, questo lavoro lo teneva quasi ininterrottamente lontano da casa. «A che serve sposar- si?» disse rimettendosi in tasca le fotografie. Sospirò

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scuotendo la testa. Se almeno fosse stato possibile indur- re il Braccio a starsene fermo per un po'!

All'ora di colazione il Braccio fu portato in giro per Rimini. Drappi rossi e gialli erano appesi in suo onore a tutte le finestre; i fedeli aspettavano con impazienza. E finalmente arrivò, in una grande Fiat molto sporca e ru- morosa, accompagnato non dai dignitari ecclesiastici del- la città come ci si sarebbe aspettato, ma da sette o otto giovanotti molto laici in camicia nera, con i capelli cre- spi, le tasche dei pantaloni gonfie di pistole automatiche - certamente una rappresentanza del fascio locale.

I1 Braccio stava sul sedile anteriore, vicino all'autista; i fascisti erano adagiati dietro. Al passaggio dell'automo- bile i fedeli si comportavano in modo curioso: mescolan- do gesti di riverenza e di applauso, cadevano in ginocchio e battevano le mani. I1 Braccio era trattato come se fosse un misto di Jackie Coogan e dell'ostia sacra. Dopo pran- zo fu trasportato rapidamente a Bologna. I venditori di immagini sacre lo seguirono con la velocità consentita dalle ferrovie italiane, la folla si disperse e la chiesa di San Francesco ritornò al suo consueto silenzio.

Di questo ci rallegrammo, poiché non era per vedere un frammento di San Francesco Saverio che eravamo ve- nuti a Rimini, ma per visitare la chiesa di San Francesco d'Assisi. Finché vi aveva sostato il Braccio, la visita era stata impossibile; la sua partenza ci diede modo di guar- darci intorno a nostro agio. Tuttavia ero molto contento di aver visto là dentro la reliquia peripatetica e i suoi ado- ratori. In questa strana chiesa che Malatesta trovò come tempio cristiano, ricostruì con forme pagane e ridedicò a se stesso, alla sua amante e al classicismo, la scena di cui eravamo stati testimoni era carica di sorprendenti con- traddizioni che provocavano, per uno scherzo delle circo-

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stanze, una serie di divertite riflessioni. Provai a immagi- nare che cosa avrebbe pensato di Sigismondo Malatesta il primo San Francesco, che cosa avrebbe pensato di lui Si- gismondo e come avrebbe giudicato la profanazione del suo tempio nietzschiano compiuta dalla visita postuma di un frammento del secondo San Francesco. Ci si può im- maginare uno spassoso dialogo alla Gobineau e alla Lu- ciano fra quei quattro personaggi nei Campi Elisi, un vo- lo lieve e ardito al di sopra delle profondità dello spirito. E per chi ha orecchi per intendere c'è un'eloquenza anche nella muta disputa delle pietre. Gli archi gotici dell'inter- no protestano contro la struttura classica nella quale l'Alberti ha racchiuso la chiesa di San Francesco; contro le decorazioni pagane di Matteo de' Pasti; contro l'au- toesaltazione blasfema di Malatesta; e mentre lodano il costante disinteresse del missionario, protestano contro l'eccessiva ricchezza del reliquiario gesuitico. Seria, so- bria, razionale, la facciata classica dell'Alberti sembra deplorare la naïveté del primo San Francesco e gli entu- siasmi intolleranti del secondo e, pur stimando l'intelli- genza di Malatesta, sembra rimproverargli la sua lussuria e i suoi eccessi. Malatesta, intanto, se la ride cinicamente di tutti loro. I1 potere, il piacere e Isotta - sono queste, dichiara attraverso lo schema delle decorazioni che fece eseguire da Matteo de' Pasti, le sole cose che contano.

L'esterna della chiesa è interamente di Alberti. Né a San Francesco né a Malatesta e concesso disturbare la sua solenne e armoniosa bellezza. La facciata è un arco trion- fale, una versione più nobile di quell'arco di Augusto che scavalca la strada all'altro capo di Rimini. Nell'enorme spessore del muro a sud Alberti ha inserito una serie di profonde nicchie ad arco. Ombre rientranti si alternano armoniosamente nella lunga prospettiva a lisce zone di

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pietra illuminata dal sole; e in ogni nicchia, semplice e se- vero come il carattere di un romano antico nelle pagine di Plutarco, sta il sarcofago di uno studioso o di un filoso- fo. Qui non c'è nulla dell'ingenuità primordiale di San Francesco. Alberti è un adulto pienamente consapevole; il suo culto è la ragione e ad esso si dedica razionalmente. L'intero edificio è un inno alla bellezza intellettuale, un'esaltazione della ragione come unica fonte di grandez- za umana. La sua forma è romana; infatti Roma fu l'U- topia retrospettiva nella quale uomini come Alberti, dal tempo del Rinascimento fino a un'epoca molto più tarda, videro la realizzazione dei loro ideali. I1 mito romano è duro a morire, quello greco ancora di più; ci sono certe vittime dell'educazione classica che considerano ancora la Repubblica come la sede di tutte le virtù e l'Atene di Pericle come l'unico ricettacolo dell'intelligenza umana.

Malatesta avrebbe ottenuto una più splendida apoteosi personale se fosse vissuto in un secolo più tardo. Alberti era un artista troppo stoico e austero per accondiscendere a una grandiosità puramente teatrale. Del resto il gran- dioso in arte non fu veramente apprezzato fino al dicias- settesimo secolo, l'età del barocco, della pompa regale ed ecclesiastica. Lo zelante missionario, il cui braccio aveva- mo visto quella mattina nel tempio malatestiano, riposa a Goa in un ambiente che si adatterebbe meglio al mauso- leo innalzato da un tiranno alla propria gloria. I1 monu- mento costruito da Alberti è invece un tributo alla gran- dezza intellettuale. Come commemorazione di un bricco- ne particolarmente scaltro e sanguinario è assurdo.

All'interno della chiesa, è vero, Malatesta ha voluto che le cose fossero fatte a modo suo. Alberti non era pre- sente a interferire nel suo progetto di decorazione, così Sigismondo fu libero di dettare a Matteo de' Pasti e ai

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suoi aiuti tutti i temi delle loro sculture. Di conseguenza questo interno è un unico grande tributo personale a Ma- latesta e Isotta, con qualche saltuaria buona parola a fa- vore delle divinità pagane, della letteratura, dell'arte e della scienza. La gestualità troppo espressiva e teatrale degli architetti e degli artisti barocchi non era ancora sta- ta inventata; la volgare tirannia di Sigismondo è quindi celebrata con gusto ineccepibile e con fantasia colta e de- licata. A Sigismondo tocco in sorte ben più di quanto me- ritasse. Meritava un Borromini, un cavaliere d'Arpino, uno scadente imitatore di Bernini. Invece gli toccarono, per una questione di tempi, Matteo de' Pasti, Piero della Francesca e Leon Battista Alberti.

La partecipazione di Alberti a questo monumento, dunque, è una sorta di inno alla bellezza razionale, un peana in lode della civiltà, espressi nel linguaggio di Ro- ma, ma usato liberamente e senza pedanteria, così come i filosofi e i poeti dell'epoca usavano l'idioma latino. Se- condo me lui fu forse il romano più nobile di tutti. L'e- sterno di San Francesco a Rimini, l'interno di Sant'An- drea a Mantova (purtroppo imbrattato da decorazioni successive e con l'assurda cupola a tamburo di Juvara al centro invece della cupola ribassata disegnata dallo stesso Alberti) sono i più begli esempi di architettura rinasci- mentale. Ciò che li rende ancora più notevoli è che furo- no senza precedenti in quell'epoca. Alberti fu uno dei reinventori di quello stile. Quella maniera tipicamente ro- mana (che divenne il linguaggio corrente del tardo Rina- scimento) fu una sua riscoperta esclusiva. L'altra manie- ra del primo Rinascimento, basata, come quella di Alber- ti, sui classici - la maniera di Brunelleschi - era desti- nata a estinguersi, almeno per quanto riguarda l'archit-

tettura delle chiese. Sant'Andrea di Mantova fu il model-

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lo al quale si ispirarono le chiese tipiche del tardo Rina- scimento, ben più che alle chiese fiorentine di San Loren- zo e di Santo Spirito del Brunelleschi.

Un confronto fra questi due architetti quasi contempo- ranei - Brunelleschi nacque circa venticinque anni pri- ma di Alberti - è estremamente interessante e istruttivo. Entrambi furono studiosi entusiasti dell'antico, entrambi si ispirarono a Roma, entrambi usarono nelle loro co- struzioni gli elementi caratteristici dell'architettura classi- ca. Eppure è difficile trovare due architetti la cui opera sia così nettamente diversa. Paragonate gli interni delle due chiese fiorentine di Brunelleschi con quello di San- t'Andrea di Alberti. Gli interni di Brunelleschi sono divi- si in tre navate, quella centrale e le due laterali, da due fi- le di colonne alte e sottili che sostengono gli archi a tutto sesto. I particolari sono così rigorosamente classici che potrebbero essere stati eseguiti da artefici romani. Ma il disegno generale non è romano, bensì romanico. Queste chiese sono semplicemente versioni più esili delle basili- che dell'undicesimo secolo, con particolari più «puri». Tutto e levità e grazia; c'è perfino una certa impressione di instabilità in questi interni di chiese, tanto esili sono le colonne, tanti gli spazi liberi.

Quale contrasto con la grande chiesa di Alberti! Essa è costruita in forma di croce latina, con un'unica navata e cappelle laterali. La volta della navata e a botte; sopra il transetto c'è la cupola (purtroppo di Juvara, non di Al- berti); l'altare è situato nell'abside. Le cappelle si aprono sulla navata centrale con archi a tutto sesto, molto alti e larghi in proporzione. Fra ogni cappella c'è un enorme pilastro in muratura, largo come gli archi che esso sepa- ra. In ogni altro pilastro si apre una porticina che dà ac- cesso a una cappella supplementare ricavata nel suo volu-

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me. Ma queste porte non si notano neppure, e l'impres- sione generale è di vuoti e solidi equamente alternati. Quella di Alberti è essenzialmente un'architettura di vo- lumi, quella di Brunelleschi di linee. Perfino all'immensa cupola di Santa Maria del Fiore, Bruneileschi riesce a conferire una straordinaria leggerezza, come di linee al- ternate a vuoti. L'enorme massa è come sospesa nell'a- ria, trattenuta dalle sue otto nervature di marmo. Un mi- racolo si realizza senza sforzo sotto i nostri occhi. Ma una cupola, per quanto leggera la si faccia, è soprattutto una questione di volumi. Disegnando la sua per Santa Maria del Fiore, Brunelleschi dovette sottostare alla vi- sione plastica delle cose. Forse è il motivo per cui questa cupola è di gran lunga la cosa più bella che abbia fatto. I1 tipo di problema architettonico da risolvere non gli per- mise di dare libero sfogo alla sua passione per la levità e le belle linee. Qui aveva a che fare con dei volumi; di qui non si sfuggiva. I1 risultato fu che, trattando il volume della cupola per quanto possibile a base di linee sottili, robuste, scattanti, riuscì a conferire a quest'opera un'ele- ganza e una forza ideali quali non furono mai eguagliate in nessuna altra cupola. Le altre opere sue, pur piene di grazia e di fascino, sono a mio avviso molto meno soddi- sfacenti, proprio perché tutto si riduce a una questione di linee. Brunelleschi studiò l'architettura dei Romani; ma ne prese soltanto i particolari. Ciò che in essa era essen- ziale - la sua massiccia imponenza - lo lasciò indiffe- rente. Preferì, in tutti i suoi progetti di chiese, seguitare a Perfezionare l'opera degli architetti romanici, arrivando alla fine a una fragile eleganza tutta vuoti e linee.

Per contro Alberti prese dai Romani la loro fondamen- tale concezione di un'architettura di masse e la sviluppò, Perfezionandola, per usi più attuali e cristiani. Secondo

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me fu lui, fra i due, l'architetto più bravo e più autentico. Personalmente io amo l'imponenza e la solidità. Altri, lo so, preferiscono la linearità e la leggerezza e metterebbe- ro al primo posto l'interno di San Lorenzo rispetto a quello di Sant'Andrea, la cappella dei Pazzi rispetto a San Francesco di Rimini. Non ci metteremo mai d'accor- do. Tutti quelli che praticano le arti visive e presumibil- mente tutti quelli che le apprezzano devono avere un cer- to sentimento della forma come tale. Ma non tutti sono interessati allo stesso tipo di forme. I cultori della linea pura e quelli del volume stanno ai limiti opposti della sca- la estetica. La passione estetica di un artista o di un amante dell'arte è la solidità; un altro è sensibile soltanto agli arabeschi di linee o alle superfici piatte. Queste pas- sioni formali possono avere conseguenze dannose. 1 pit- tori possono essere trascinati dal loro amore eccessivo per la solidità tridimensionale in un campo che esula dal- la pittura; Michelangelo ne è un esempio probante. Gli scultori che tendono troppo all'effetto lineare non sono più scultori, e la loro opera non è altro che piatta decora- zione nella pietra o nel metallo, che va contemplata da un solo punto di vista e manca di profondità; la famosa Dia- na attribuita a Goujon (ma probabilmente di Benvenuto Cellini) è una di queste statue concepita secondo il crite- rio della piattezza. Così come i pittori non devono amare troppo i solidi o gli scultori essere troppo inclini alle su- perfici piatte, mi pare che nessun architetto dovrebbe es- sere troppo interessato alle linee. L'architettura nelle ma- ni di un appassionato delia linea è destinata all'eleganza troppo esile e fragile dell'opera di Brunelleschi.

Gli psicanalisti, che fanno risalire l'interesse per l'arte a un amore infantile per gli escrementi, ci offrirebbero certo una semplice spiegazione fecale per la varietà delle

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nostre passioni estetiche. L'uno ama i volumi, l'altro le linee: la spiegazione in termini di coprofilia è così lam- pante che mi si può dispensare dal darla qui. Mi accon- tenterò di citare dalle opere del dottor Ernest Jones la ra- gione per cui il culto della forma risulterebbe in molti casi legato al culto di un ideale morale; in una parola, perché l'arte è così spesso religiosa. «La religione», dice il dot- tor Jones, «ha sempre usato l'arte sotto l'una o l'altra forma per la ragione che i desideri incestuosi costruisco- no invariabilmente le loro fantasie con materiale fornito dalla memoria inconscia di interessi coprofili infantili; questo è il significato nascosto della frase: 'L'Arte è l'ancella della Religione'. » Parole illuminanti ! Peccato che non siano state scritte trent'anni fa. Mi sarebbe pia- ciuto leggere i commenti di Tolstoj in Che cos'è? l'arte sul- l'ultima e più interessante delle teorie estetiche.

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Consolo

Sapere quello che tutti sanno - per esempio che Virgi- lio scrisse l'Eneide, o che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due angoli retti - è piuttosto banale e noioso. Se volete acquistare una fama di erudizione a buon mercato è meglio ignorare le piatte e insignificanti cognizioni che tutti possiedono e concentrarsi su qualco- sa di originaie e insolito. Invece di citare Virgilio citate Sidonio Apollinare ed esprimete a gran voce il vostro di- sprezzo per coloro che preferiscono il poeta di corte di Augusto al panegirista di Avito, Maggioriano e Antemio. Quando il discorso cade su Jane Eyre o su Cime tempe- stose (che naturalmente non avete letto) dite che preferite di gran lunga Il fattore di Wildfell Hall. Quando quaicu- no fa le lodi di Donne, prendete un'aria superiore e dite a costui che dovrebbe leggere Gongora. Quando viene menzionato Raffaello, fate il gesto di vomitare (anche se non siete mai stati in Vaticano); i Raphael Mengs che ci sono a Pietroburgo, direte, sono gli unici dipinti accetta- bili. In questo modo vi farete la reputazione di persona di

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profonda cultura e gusti squisiti. Mentre invece, se date prova di conoscere Dickens, di aver letto la Bibbia, i clas- sici inglesi, Euclide e Orazio, nessuno avrà un grande concetto di voi. Sarete uno come tutti gli altri.

L'estrema insufficienza della mia istruzione mi ha spesso condotto, nel corso della mia carriera giornalisti- ca, a ricorrere a questa tattica. Ho scritto con disinvoltu- ra di cose remote e insolite per nascondere la mia igno- ranza di quelle vicine e tradizionali. Il mestiere di giorna- lista letterario non è tale da incoraggiare l'onestà. Tutto cospira a farne un ciarlatano. Non ha tempo di leggere regolarmente o con metodo; il lavoro di recensore lo por- ta a conoscenza di una massa di nozioni frammentarie ed eterogenee. Sarebbe un prodigio di rettitudini intellettua- li se non le inserisse nei suoi articoli, con leggerezza e bal- danza, come se ogni particolare eccentrico fosse un pro- montorio isolato nel vasto continente della sua sapienza universale. Inoltre la necessità in cui si trova di stimolare sempre l'interesse lo spinge a essere originale e fuori del comune a qualunque costo. C'è da meravigliarsi se, co- noscendo cinque righe sia di Virgilio che di Apollinare, preferisce citare il secondo? O se, non conoscendo nulla di Virgilio, trasforma la sua ignoranza in virtù critica e lascia intendere che i migliori cervelli sono ora passati da Marone a Sidonio?

Nel monastero di Subiaco, che sorge in un remoto an- golo di terra dietro Tivoli, si trovano, oltre molte altre cose belle di interesse storico, diversi affreschi di un mae- stro del tredicesimo secolo, noto soltanto come autore di queste opere, chiamato Consolo. È un nome magnifico e non si potrebbe desiderare di meglio. Solenne e nello stes- so tempo lievemente grottesco, non comune (anzi, a quanto mi risulta, unico) e facile da ricordare, è un nome

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che sembra appartenere di diritto a un grand'uomo. Con- solo: al suono di queste belle sillabe la persona colta ha la vaga e fastidiosa sensazione che dovrebbe sapere a che cosa si riferiscono. Sarà una battaglia? O una filosofia scolastica? O un'eresia? O che cosa? Venendo a sapere, dopo un momento di angosciosa incertezza (durante il quale si chiede se il suo interlocutore scioglierà l'enigma o lo costringerà a confessare la sua ignoranza), che Con- solo era un pittore, la persona colta si lancia fiduciosa. «Un così meraviglioso artista! » esclama estasiata.

Il vecchio Adamo giornalistico non è morto del tutto in me, e conosco la società istruita. La tentazione era forte. Avrei divulgato Consolo in un mondo ottenebrato e, esaltando lui come artista, avrei esaltato anche me stesso come critico d'arte. E che operazione a buon mercato! Al prezzo di tredici litri di benzina, dieci lire di cartoline e mance, un'ottima colazione a base di trote a Tivoli, mi sarei impadronito perfettamente dell'argomento e avrei affermato la mia fama di Kunstforscher. Niente viaggi faticosi a lontani musei, alla ricerca di opere minori del maestro, niente laboriose letture di monografie tedesche. Soltanto questa piacevolissima gita sull'alta valle dell'A- niene, questa passeggiata di quaranta minuti sulla colli- na, questo giretto al primo eremo di san Benedetto - ed è tutto. Sarei ritornato a Londra, avrei scritto qualche ar- ticolo, o addirittura un libretto sul maestro, con qualche bella riproduzione. E quando, nella società colta, qualcu- no avrebbe parlato di Duccio o di Simone Martini, io avrei sorriso dall'alto della mia superiorità. «Sono tutti ottimi, non c'è dubbio. Ma quando si è visto Consolo.. . » E avrei seguitato a parlare dei suoi valori tattili e olfatti- vi, del suo modo magistrale di trattare la quarta dimen- sione, del suo uso squisitamente sottile dei contrasti, del-

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la sua straordinaria padronanza del colore che gli per- metteva di dipingere tutte le carni in due toni di ocra, porpora impuro e verde escremento d'oca. I miei ascolta- tori (atterriti, come tutti i membri della società colta sem- pre lo sono, di essere lasciati indietro neila gara intellet- tuale) seguirebbero avidamente il mio discorso. E se ne andrebbero trionfanti, consci di aver segnato un punto sui loro rivali, di essere entrati in un giro del quale fa par- te soltanto un'élite, di essersi messi al passo con una mo- da venuta direttamente da Parigi (poiché naturalmente lascerei intendere che Derain e Matisse sono pienamente d'accordo con me); e da quel momento il nome di Conso- lo, e il mio insieme, comincerebbe a risuonare, in cre- scendo e con una nota di ammirazione, in tutti i migliori salotti da Euston ai confini del mondo.

La tentazione era forte; ma lottai eroicamente contro di essa e alla fine ebbi il sopravvento. Decisi di non defor- mare la verità allo scopo di conquistarmi la fama, sia pu- re lusinghiera, di critico acuto e selettivo. Perché la veri- tà, ahimè, è che questo Consolo dal nome unico e altiso- nante è un pittore francamente trascurabile. È abile e co- nosce il suo mestiere, ma questo è tutto. Il suo merito principale consiste nel fatto che visse nel tredicesimo se- colo e lavorò nello stile caratteristico della sua epoca. Di- pingeva nella maniera bizantina decadente che noi, guar- dando indietro dalla Firenze del sedicesimo secolo invece che avanti dalla Ravenna del sesto secolo, chiamiamo er- roneamente «primitiva». In questo, ripeto, consiste il suo merito principale, almeno per noi. Infatti un secolo fa il suo primitivismo avrebbe suscitato soltanto derisio- ne e pena. Oggi abbiamo rivoluzionato tutto, in maniera così radicale che molti giovani, nella loro ansia di non ap- parire antiquati, considerano con sospetto qualsiasi di-

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pinto che abbia una stretta somiglianza con il suo model- lo e, se non è garantito chimicamente puro da un'autorità estetica riconosciuta, lo trovano ridicolo a priori. Per questi asceti ogni bellezza naturale, se riprodotta dall'ar- te, è condannabile. Una bella donna fedelmente resa è «una scatola di cioccolatini»; un bel paesaggio è puro esercizio poetico. Se un'opera d'arte attrae naturalmen- te, se commuove a prima vista, secondo quella gente è ir- rimediabilmente brutta. Questo principio applicato alla musica ha portato all'esaltazione di Bach, anche del Bach più meccanico e meno ispirato, a spese di Beethoven. Ha portato all'esecuzione fredda e «classica» della musica di Mozart, considerato privo di sentimento perché non è ba- nalmente sentimentale come Wagner. Ha portato a esal- tare i pezzi per organo di Haendel e gli sbraitamenti senza senso di Palestrina. E quei giovani irragionevoli, nella lo- ro reazione al sentimentalismo e al lacrimoso idealismo che secondo loro hanno caratterizzato l'età vittoriana, pur lasciati del tutto freddi da quelle esecuzioni, proprio per questa ragione le lodano come artistiche in sommo grado. Lo stesso accade con la pittura. Più terrosi sono i colori, più deformate le immagini, più è vera arte. Ci so- no centinaia di giovani pittori che non osano dipingere in modo realistico e piacevole, anche se ne fossero capaci, per paura di perdere la stima degli intenditori che sono anche i loro mecenati. Certo, i buoni pittori dipingono bene e si esprimono compiutamente a qualunque regola si attengano; e i pittori scadenti fanno una pittura sca- dente in qualsiasi circostanza. Non dovremmo dunque preoccuparci minimamente se i giovani pittori scadenti preferiscono la deformazione e il colore terroso alla viva- cità, al realismo e alla piacevolezza. Non ha dawero im- portanza come dipingono. Eppure in passato si provava

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un certo interesse per pittori scadenti che facevano del lo- ro meglio per imitare la natura e raccontare dei fatti. Ci si accontentava di copie fedeli di begli oggetti, documenti di vita e appunti pittorici, storie divertenti e commenti sulla vita contemporanea. Tutte queste cose potevano non essere grande pittura; ma almeno valevano qualcosa, anche se era un valore diverso da quello estetico. Miran- do a un certo mitico ideale di estetica pura, al quale sacri- fica tutto fuorché la forma, il giovane pittore senza talen- to dei nostri giorni non ci offre altro che noia. Perché i suoi dipinti non sono buona pittura, e la loro cattiva qua- lità non è compensata dal fatto di ricordarci dei begli og- getti; non hanno neppure il merito di essere documenti o commenti, né di raccontare una storia. In una parola non hanno niente che ci attiri. Dai tempi in cui ci procurava un certo piacere, l'artista mediocre (se per caso è anche «d'avanguardia») è diventato un insopportabile noioso.

La diffidenza dei giovani verso il realismo non riguar- da soltanto l'arte contemporanea; è anche retrospettiva. Fra due artisti del passato, entrambi senza talento, que- sta gioventù preferisce decisamente il meno realistico, il più «primitivo». Consolo viene ammirato più del suo equivalente del diciassettesimo secolo, semplicemente perché le sue immagini non ricordano niente che sia pia- cevole in natura, perché non sa nulla di luce e ombra, perché la sua composizione è rigidamente simmetrica e perché il contenuto sentimentale della sua pittura arden- temente religiosa è per noi del tutto svanito, senza lascia- re nulla che possa suscitare nei nostri cuori il benché mi- nimo sentimento di qualsiasi genere; unica eccezione, quelle famose emozioni estetiche così zelantemente colti- vate dai giovani.

Certo, le regole alle quali si conformavano i pittori ita-

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liani dei diciassettesimo secolo erano di un genere insop- portabile. I1 gesticolare scomposto con il quale riempiva- no i loro dipinti nella speranza di creare artificialmente un'atmosfera di violente passioni è semplicemente ridico- lo. Lo stile barocco e lo stile romantico affine sono i più adatti per loro natura alla rappresentazione del comico. Aristofane, Rabelais, Nashe, Balzac, Dickens, Rowland- son, Goya, Doré, Daumier e gli innominati creatori di personaggi grotteschi in tutto il mondo e in ogni epoca - tutti i professionisti del comico puro, sia in letteratura che in arte - hanno usato uno stile stravagante, barocco, romantico. È naturale, perché il comico puro è essenzial- mente stravagante ed eccessivo. Salvo che nelle mani di qualche genio eccezionale (come Marlowe e Shakespeare, Michelangelo e Rembrandt) questo stile, se usato per sco- pi seri, è ridicolo. Quasi tutta l'arte barocca e quasi tutta l'arte romantica venuta dopo sono grottesche perché gli artisti (non di prim'ordine) tentano di esprimere qualcosa di tragico in uno stile essenzialmente comico. Sotto que- sto aspetto le opere dei primitivi - anche di quelli minori - sono davvero preferibili alle opere dei loro discendenti del Seicento. Questo perché nelle loro pitture non c'è nes- suna contraddizione fondamentale fra lo stile e il sogget- to. Ma questa è una qualità negativa; i primitivi minori sono decorosi ma del tutto insignificanti. L'opera succes- siva dei realisti può essere volgare e assurda nell'insieme, ma spesso è riscattata dal fascino dei particolari. Nei di- pinti di artisti minori del diciassettesimo secolo si posso- no trovare deliziosi paesaggi, fisionomie interessanti, stu- di di curiosi effetti di luce e ombra - cose che, è vero, non salvano dalla bruttezza l'insieme di ciascuna di que- ste opere ma che sono gradevoli in se stesse. Nei vari Consolo di un'epoca più remota l'opera nel suo insieme è

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degna di stima; ma il suo grigiore non è ravvivato da nes- sun particolare curioso o piacevole. Con la loro assurda avversione ascetica per l'ovviamente piacevole, i giovani si sono privati di un autentico godimento. Si annoiano nella contemplazione di scadenti Consolo quando po- trebbero divertirsi guardando altrettanto scadenti Feti, Caravaggio, Rosa da Tivoli, Guercino e Luca Giordano e tutti gli altri. Se si devono guardare i quadri scadenti - ed è inevitabile, poiché i buoni quadri sono così rari - è certamente più ragionevole guardare quelli che ci danno qualcosa (anche se le perle sono incastonate in una corni- ce di orrori) che quelli che non ci danno assolutamente nulla.

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I1 più bel dipinto del mondo

Borgo San Sepolcro non è molto facile da raggiungere. C'è un trenino un po' da burla che arriva da Arezzo at- traverso le colline. Oppure si può risalire la valle del Te- vere venendo da Perugia. Se invece si è a Urbino, c'è un autobus che porta a San Sepolcro, su e giù per gli Appen- nini, in sette ore e più. Un viaggio che non è uno scherzo, come so per esperienza. Ma vale la pena di farlo, sia pure con un altro mezzo che l'autobus, per vedere Bocca Tra- baria, il più bel passo degli Appennini, fra la valle del Te- vere e quella superiore del Metauro. Lo attraversammo all'inizio della primavera. I1 nostro torpedone sferraglia- va e ansimava su per il bruilo pendio a nord, fra rocce nude, erba secca e alberi ancora senza gemme. Attraver- sò il valico e all'improwiso, come per miracolo, il terre- no si coprì del giallo di innumerevoli primule, simboli del sole che le aveva chiamate in vita.

E quando infine si arriva a San Sepolcro, che cosa c'è da vedere? Una cittadina circondata da mura, in un'am- pia valle pianeggiante fra le colline; alcuni dei palazzi ri-

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nascimentali con graziosi balconi in ferro battuto; una chiesa non particolarmente interessante e, infine, il più bel dipinto del mondo.

Il più bel dipinto del mondo è un affresco sulla parete di una sala del municipio. Un vandalo involontariamente benefico lo fece ricoprire, un po' di tempo dopo la sua esecuzione, di uno spesso strato di gesso, sotto il quale ri- mase nascosto per un secolo o due, per essere infine sco- perto in uno stato di conservazione quasi perfetto per un affresco di quell'età. Grazie ai vandali, il visitatore che oggi entra nel Palazzo dei Conservatori di Borgo San Se- polcro trova questa stupenda Resurrezione quasi come la dipinse Piero della Francesca. I suoi colori chiari, ma sa- pientemente sobrii, splendono sulla parete con una fre- schezza appena attenuata dal tempo. L'umidità non ha confuso l'immagine, lo sporco non l'ha scurita. Non dobbiamo ricorrere all'immaginazione per figurarcene la bellezza; è lì di fronte a noi nel suo reale splendore, il più bel dipinto del mondo.

I1 più bel dipinto del mondo.. . Voi sorridete. L'espres- sione è ridicola, certo. Non c'è niente di più futile del la- voro di quegli esperti che passano il loro tempo a stabilire graduatorie fra i migliori pittori, musicisti, poeti, archi- tetti e così via. La futilità è dovuta al fatto che ci sono in- finiti generi di merito e un'infinita varietà di esseri uma- ni. I1 Beato Angelico è un pittore migliore di Rubens? Ta- li domande, voi insistete, sono senza senso. È questione di gusti personali. E fino a un certo punto è vero. Tutta- via non c'è dubbio che esista uno standard assoluto di merito artistico. E in ultima analisi si tratta di uno stan- dard di natura morale. La bellezza o la bruttezza di un'o- pera d'arte dipende interamente dalla personalità che si esprime nell'opera. Non si può dire che tutti gli uomini

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virtuosi siano buoni artisti né che tutti gli artisti siano ne- cessariamente virtuosi. Longfellow era un cattivo poeta, mentre i rapporti di Beethoven con i suoi editori erano francamente vergognosi. Ma ci si può comportare vergo- gnosamente con i propri editori e conservare tuttavia il genere di virtù necessario per essere un buon artista. È la virtù della rettitudine, dell'onestà verso se stessi. La catti- va arte può essere di due tipi: quella che è semplicemente banale, insulsa e maldestra, che si può definire negativa- mente cattiva; e queila positivamente cattiva, che è una menzogna e una mistificazione. Spesso la menzogna è raccontata così bene che quasi tutti ci cascano - almeno per un certo tempo. Ma alla fine le bugie sono sempre scoperte. La moda cambia, il pubblico impara a guardare da un punto di vista diverso e, mentre un attimo prima vedeva un'opera ammirevole che suscitava in lui una rea- le emozione, ora vede un'impostura. Nella storia delle ar- ti troviamo innumerevoli impostori, un tempo ritenuti sinceri, oggi riconosciuti tali. I loro nomi sono quasi tutti dimenticati. Tuttavia si coglie ancora una debole eco del- l'interesse per i canti di Ossian, per le doti di romanziere di Bulwer e le qualità poetiche di Bailey. Oggi i loro suc- cessori si affannano a conquistare lodi e denaro. Mi chie- do spesso se non sono anch'io uno di loro. Impossibile saperlo. Perché si può essere un impostore in arte anche senza l'intenzione di imbrogliare e malgrado il più arden- te desiderio di essere onesto.

Talvolta il ciarlatano è anche un uomo di genio di pri- m'ordine, e allora si hanno quegli artisti singolari, come Wagner e Bernini, che possono trasformare ciò che è fal- so e affettato in qualcosa di quasi sublime.

Che sia difficile distinguere il genuino dal falso è di- mostrato dal fatto che un numero enorme di persone ha

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commesso degli errori e continua a commetterli. La ge- nuinità, come ho detto, alla lunga trionfa sempre. Ma in qualsiasi momento la maggioranza della gente, pur non preferendo il falso al vero, li apprezza entrambi allo stesso modo, facendoli oggetto di omaggio indiscrimina- to.

E ora, dopo questa piccola digressione, possiamo ri- tornare a San Sepolcro e al più grande dipinto del mon- do. La sua grandezza dipende dal fatto che l'uomo che l'ha eseguito era genuinamente nobile oltre che pieno di talento. E per me personalmente è anche il dipinto più commovente, perché il suo autore possedeva forse più di ogni altro pittore quelle qualità di carattere che più am- miro e perché le sue preoccupazioni estetiche erano del genere che io sono per natura portato a capire. Una gran- dezza naturale, spontanea, senza ostentazione - questa è la qualità dominante di tutta l'opera di Piero. È mae- stoso senza essere forzato, teatrale o isterico - com'è maestoso Haendel, non Wagner. Raggiunge una naturale grandiosità in ogni gesto, senza nessuno sforzo cosciente. Come Alberti, con l'architettura del quale, spero di di- mostrare, la sua pittura ha certe affinità, Piero pare es- sersi ispirato a quella che chiamerei la religione delle Vite di Plutarco - che non è il cristianesimo, ma il culto di quello che c'è di mirabile nell'uomo. Anche i suoi dipinti strettamente religiosi sono inni di lode alla dignità uma- na. Ed è in ogni momento profondamente razionale.

Il lato drammatico della vita e della religione lo interes- sa ben poco. I suoi quadri di battaglia ad Arezzo non so- no composizioni drammatiche nonostante i molti parti- colari di questo genere che contengono. Tutto il tumulto, tutte le emozioni di queste scene sono stati filtrati dalla mente in un insieme fortemente razionale. È come se

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Bach avesse composto l'ouverture 1812. Neppure i due superbi dipinti della National Gallery - la Natività e il Battesimo di Cristo - si distinguono per una speciale partecipazione al significato religioso o emotivo degli eventi rappresentati. Nella straordinaria Flagellazione di Cristo di Urbino il soggetto che dà il nome al dipinto è re- legato nello sfondo a sinistra, dove serve a bilanciare le tre figure misteriose che stanno in disparte in primo pia- no a destra. Qui pare non esserci altro che un esperimen- to di composizione, ma un esperimento così strano e così eccezionalmente riuscito che non rimpiangiamo l'assenza di senso drammatico e il nostro occhio è pienamente sod- disfatto. La Resurrezione di Borgo San Sepolcro è più drammatica. Piero ha usato la composizione triangolare come simbolo del soggetto. La base del triangolo è for- mata dal sepolcro; e i soldati che dormono intorno a esso segnano con la loro collocazione lo slancio verso l'alto dei due lati, che si incontrano al vertice nel volto del Cri- sto risorto, il quale, con una bandiera nella mano destra, il piede sinistro già alzato e posato sull'orlo del sepolcro, si prepara a rientrare nel mondo. Nessun'altra composi- zione geometrica avrebbe potuto avere maggiore sempli- cità o efficacia. Ma l'essere che sorge dalla tomba davan- ti ai nostri occhi è più simile a un eroe plutarchiano che al Cristo della religione tradizionale. I1 corpo è perfetta- mente sviluppato, come quello di un atleta greco, di un tale vigore che la ferita nel fianco muscoloso sembra in un certo modo irrilevante. I1 volto è severo e pensoso, gli occhi freddi. L'intera figura esprime forza fisica e intel- lettuale. È la risurrezione dell'ideale classico - infinita- mente più grandioso e più bello della realtà classica - dalla tomba in cui aveva dormito per centinaia di anni.

Dal lato estetico, l'opera di Piero ha questa somiglian-

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za con quella di Alberti: anch'essa è essenzialmente una questione di volumi. Ciò che Alberti è a Brunelleschi, Piero della Francesca è al suo contemporaneo Botticelli. Botticelli era fondamentalmente un disegnatore, un crea- tore di linee agili e flessuose, che pensava in termini di arabeschi su superfici piatte. Piero invece ha la passione della solidità come tale. C'è qualcosa nelle sue opere che ci ricorda continuamente la scultura egizia. Piero ha lo stesso amore per la superficie liscia e arrotondata che è il simbolo esterno e l'espressione di un volume. Le facce dei suoi personaggi sembrano scolpite in una roccia mol- to dura nella quale è stato impossibile incidere i partico- lari di una fisionomia umana - le cavità, le linee e le ru- ghe della vita reale. Sono facce ideali, come quelle degli dèi e dei sovrani egizi, i loro piani si incontrano e si con- giungono con altre superfici curve e uniformi in maniera quasi geometrica. Guardate per esempio i volti delle don- ne nell'affresco di Piero ad Arezzo: «La Regina di Saba riconosce l'Albero Sacro)). Sono tutti di un unico stam- po: fronte alta, liscia e arrotondata; collo come un cilin- dro di avorio levigato; dal centro delle occhiaia concave le palpebre sporgono in un'unica curva convessa, le guance sono uniformemente lisce e la lieve curvatura del- le loro superfici è indicata da un chiaroscuro molto deli- cato che suggerisce la solidità e il volume della carne mol- to più efficacemente di come potrebbe fare il più spetta- colare contrasto di luce e ombra di un Caravaggio.

La passione di Piero per la solidità non è meno eviden- te nella sua trattazione di vestiti e panneggi. È significati- vo, ad esempio, che, quando il soggetto lo consente, fa apparire i suoi personaggi con curiose acconciature, che per il loro solido aspetto geometrico ricordano gli strani cappelli da cerimonia o tiare portati dalle statue dei re

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egizi. Alcuni degli affreschi di Arezzo illustrano questa particolarità. In quello che rappresenta Eraclio che resti- tuisce la Vera Croce a Gerusalemme tutti i dignitari ec- clesiastici hanno enormi copricapi conici, o a forma di tromba, o rettangolari. Sono dipinti in modo uniforme e, naturalmente, con un profondo gusto della solidità. Altri copricapi simili, insieme a una grande varietà di el- mi meravigliosamente tondeggianti, sono rappresentati con amorosa cura nelle scene di battaglia sempre ad Arezzo. I1 Duca di Urbino, nel famoso ritratto agli Uffi- zi, ha un copricapo di panno rosso la cui forma ricorda quella del «Brodrick» del soldato inglese moderno, ma senza la visiera - un cilindro aderente alla testa, coro- nato da un disco sporgente. La pittura ne mette in risalto la levigatezza e la rotondità delle superfici. Inoltre Piero non trascura i veli delle sue figure femminili. Sebbene di batista trasparente, essi avvolgono il capo delle sue don- ne in pieghe rigide, come fossero fatti di acciaio. Fra gli abiti, ha una passione speciale per le tuniche e i bustini pieghettati. Le sporgenze e le rientranze della stoffa a pieghe lo affascinano, e gli piace far vedere come la pie- ghettatura segue le curve del corpo. Ai panneggi dà, co- me ci si può aspettare, particolare peso e ricchezza. For- se la più squisita trattazione del drappeggio la si può am- mirare nella pala d'altare della Madonna della Miseri- cordia, che ora è appesa accanto alla Resurrezione nel municipio di Borgo San Sepolcro. La figura centrale di questo dipinto, una delle prime opere esistenti di Piero, rappresenta la Vergine in piedi, che allarga le braccia a coprire su ogni lato i due gruppi di fedeli con le pieghe del suo pesante manto azzurro. I1 manto e la tunica della Vergine cadono in semplici pieghe perpendicolari, come quelle dell'auriga arcaico di bronzo al Louvre. Piero ha

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dipinto con amore speciale queste superfici concave e convesse alternate.

Non è mia intenzione scrivere un trattato su Piero della Francesca; questo è già stato fatto abbastanza spesso e abbastanza male perché mi sembri inutile seppellire que- sto grande artista sotto ulteriori strati di commenti con- fusi. Qui ho semplicemente voluto esporre le ragioni per cui lo ammiro e che mi fanno ritenere la Resurrezione il più bel dipinto del mondo. Quello che in lui mi attrae è la sua forza intellettuale; la sua capacità di rendere con na- turalezza il grandioso e il nobile; il suo compiacersi di tutto quanto c'è di meraviglioso nell'umanità. Nell'arti- sta mi piace particolarmente il gusto per la solidità, per le lisce superfici curve, per la costruzione a grandi volumi. Personalmente lo preferisco a Botticelli, tanto che se fos- se necessario sacrificare tutte le opere di Botticelli per sal- vare la Resurrezione, la Natività, la Madonna della Mise-

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ricordia e gli affreschi di Arezzo, non esiterei a dare alle fiamme la Primavera e tutto il resto. È un peccato per la fama di Piero che le sue opere siano relativamente poche e in molti casi di difficile accesso. Ad eccezione della Na- tività e del Battesimo di Cristo alla National Gallery, tut- te le sue opere veramente importanti sono ad Arezzo, San Sepolcro e Urbino. I ritratti del Duca e della Duchessa di Urbino con i loro rispettivi trionfi, conservate agli Uffizi, sono piacevoli ed estremamente «divertenti»; ma non rappresentano il Piero migliore. La pala d'altare a Peru- gia e la Madonna con santi e donatore a Milano non sono di prima qualità. I1 San Girolamo a Venezia è abbastanza buono, come pure l'affresco danneggiato dei Malatesta a Rimini. Al Louvre non c'è nulla e la Germania può van- tare unicamente uno studio di architettura, inferiore a quello di Urbino. Chiunque voglia conoscere Piero deve

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dunque andare da Londra ad Arezzo, San Sepolcro e Ur- bino. Ora, Arezzo è una città noiosa e così ingrata verso i suoi figli illustri che entro le sue mura non c'è nessun mo- numento al divino Aretino. Ma, nonostante tutto, è qui che dovete andare per vedere le opere più importanti di Piero. Da Arezzo dovete spingervi fino a San Sepolcro, dove l'albergo locale è appena decente, e i mezzi per arri- varvi sono così scadenti che, se non andate con la vostra automobile, siete costretti a passarvi la notte. E da San Sepolcro dovete fare sette ore di autobus attraverso gli Appennini fino a Urbino. Tuttavia qui non ci sono sol- tanto due mirabili Piero (la Flagellazione e una scena di architettura), ma il più bel palazzo d'Italia e un albergo quasi buono. Anche per il turista più restio a muoversi la visita a Urbino è d'obbligo; non ci si pub sottrarre, biso- gna vederla. Ma nel caso di Arezzo e San Sepolcro non esiste un simile obbligo morale. Di conseguenza sono po- chi i turisti che si danno la pena di visitarle.

Se le opere principali di Piero si potessero vedere a Fi- renze e quelle di Botticelli a San Sepolcro non dubito che la pubblica stima per questi due maestri sarebbe inverti- ta. Le zitelle inglesi amanti dell'arte starebbero in con- t emplazione statica davanti alla Leggenda della Croce in- vece che davanti alla Primavera. L'estasi dipende in larga parte dalle stelle del Baedeker, e queste sono assegnate più generosamente a opere d'arte nelle città facilmente accessibili che a quelle nelle città difficili da raggiungere. Se la cappella degli Scrovegni sorgesse nelle montagne della Calabria invece che a Padova, avremmo certo senti- to parlare molto meno di Giotto.

Ma basta così. L'ombra di Consolo si leva ad ammo- nirmi che sto cadendo nell'errore di coloro che giudicano il merito in base a una scala dell'inusuale e del raro.

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La fonte delle Muse

«Un sapere limitato)), ha detto Pope, «è pericoloso. » E chi, veramente, avrebbe conosciuto i suoi pericoli più intimamente dell'uomo che si era accinto a tradurre Omero senza conoscere in pratica neppure una parola di greco? «Bevete a fondo» - l'esortazione, è evidente, viene dal cuore stesso del traduttore - «oppure non av- vicinatevi alla fonte delle Muse.

Bevete a fondo. I1 consiglio è buono, purché la bevan- da sia salutare. Ma la fonte delle Muse è salutare? Questo è il problema. Non tutte le acque medicinali sono adatte a qualsiasi bevitore. Persone che traggono beneficio da grandi bevute a Carlsbad o a Montecatini possono mori- re di indigestione a Bath. Analogamente, la fonte delle Muse non è per tutti. I1 filosofo e lo scienziato possono abbeverarsene quanto vogliono e non farà loro che bene. Al poeta non può certo far male; il suo linguaggio natu- rale è arricchito da un po' di cultura. I1 politico farebbe bene a bere da questa fonte con maggior frequenza e ab- bondanza di quanto faccia in realtà. L'uomo d'affari

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può trarre profitto da qualche sorsata, mentre il dilettan- te bere per puro piacere. Ma c'è almeno una categoria di uomini ai quali la fonte delle Muse sembra essere quasi fatale. Per nessun motivo dovrebbe essere concesso al- l'artista di attingervi.

Sono passati due secoli da quando Pope ha messo in guardia i suoi lettori contro i pericoli di un sapere limita- to. La storia di questi due secoli, e specialmente degli ul- timi cinquant'anni, ha dimostrato che per quanto riguar- da l'artista una vasta cultura è altrettanto pericolosa quanto una scarsa. Anzi, in realtà lo è molto di più.

Posso meglio spiegare che cosa succede quando gli ar- tisti bevono copiosamente alla fonte delle Muse descri- vendo una certa esposizione di Arti e Mestieri che mi è capitato di visitare un paio di estati fa a Monaco. Era una cosa immensa. Mobili, gioielli, ceramiche, tessili - ogni genere di arte applicata era ampiamente rappresentato. E tutti gli oggetti esposti erano tedeschi. Tutti tedeschi - eppure tutte quelle batterie da cucina, quelle sedie e quei tavoli, quei tessuti, quelle pitture, sculture, ferri battuti, parlavano cento lingue diverse oltre il teutonico locale. Ariano, mongolo, semitico, bantu, polinesiano, maya - tutti i pezzi esposti a Monaco parlavano correntemente tutte le lingue. Qui, ad esempio, c'era un vaso messicano con decorazioni moresche; là una statuetta in puro stile greco del sesto secolo abilmente mescolato all'arte nera del Benin. Qui un tavolo rustico delia Foresta Nera soste- nuto da gambe egizie; là un crocifisso poteva essere opera di un artista T'ang che avesse passato un anno in Italia come allievo di Bernini. Capra, donna, leone e grifone - c'erano chimere a ogni passo. E nessuno dei pezzi (questo era il vero guaio, perché la buona riuscita giustifica ogni cosa) valeva qualcosa.

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La Germania, è vero, è il paese dove i pericoli di una troppo vasta erudizione si sono resi più evidenti. È il pae- se che ha attinto più abbondantemente alla fonte delle Muse. Negli ultimi cinquant'anni gli editori tedeschi han- no pubblicato sei monografie illustrate per ciascuna usci- ta in Francia, e almeno una dozzina per ogni pubblicazio- ne inglese. Con instancabile impegno e un entusiasmo che nulla - neppure la guerra, neppure la pace - ha po- tuto scoraggiare, i tedeschi hanno fotografato i residui artistici di ogni civiltà fiorita sulla terra. E hanno pubbli- cato queste fotografie, con dotte introduzioni, in libricci- ni venduti un tempo a un marco l'uno e anche oggi non costano di più, diciamo, di quindicimila o ventimila mi- lioni. I tedeschi sono al corrente degli stili artistici del passato più di ogni altro popolo al mondo - ma la loro arte attuale è così irrimediabilmente noiosa come può es- serlo qualsiasi altra arte nazionale. La sua cattiva qualità è, per dirla in termini matematici, in funzione della sua erudizione.

Quello che è accaduto in Germania è accaduto pure, sebbene in misura un po' ridotta, in tutti i paesi del mon- do. Ne sappiamo tutti troppo, e il nostro sapere ci impe- disce - a meno di essere artisti di eccezionale indipen- denza e talento - di fare un buon lavoro.

Fino a un tempo abbastanza recente nessun artista eu- ropeo conosceva, né gli pareva il caso di conoscere, al- cunché a proposito di forme d'arte che non fossero quelle fiorite nel suo continente. E anche di queste sapeva ben poco. Uno scultore del sedicesimo secolo, ad esempio, conosceva qualcosa della scultura greca - o comunque qualcosa delle copie romane di sculture appartenenti a un certo periodo dell'arte greca. Conosceva invece pochissi- mo le opere eseguite dagli scultori del periodo gotico, an-

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che nel suo paese; e quel poco che ne conosceva, era incli- ne a disprezzarlo come puramente barbaro. Allora non c'era la fotografia, e anche le stampe erano poche. Lo scultore del Rinascimento lavorava in un'ignoranza quasi totale di ciò che era stato fatto da altri scultori, in altre epoche e in paesi diversi dal suo. I1 risultato era che pote- va concentrarsi sull'unica tradizione che gli pareva valida - quella classica - e lavorarci sopra indisturbato, fino a svilupparne tutte le potenziali risorse.

I1 caso dell'architettura è ancora più interessante. Per trecento anni gli ordini classici regnarono sovrani in Euro- pa. I1 gotico fu dimenticato e disprezzato. Non si conosce- va niente di altri stili. Una generazione dopo l'altra di ar- chitetti lavorò ininterrottamente basandosi su quest'unica tradizione. E quale stupefacente varietà di realizzazioni seppero trarne! Usando gli stessi elementi classici di base, generazioni successive produssero tutta una serie di opere originali e nettamente diverse fra loro. Brunelleschi, Al- berti, Michelangelo, Palladio, Bernini, Pietro da Cortona, Christopher Wren, Adam, Nash - tutti questi architetti

(lavorarono secondo gli stessi schemi classici, ricavandone una serie di capolavori assolutamente differenziati.

Questi furono tutti artisti geniali che avrebbero com- piuto grandi cose in qualsiasi circostanza. Si rimane an- cora più colpiti dalle realizzazioni degli artisti minori. In tutto questo lungo periodo perfino il lavoro di un ap- prendista aveva delle qualità che invano cerchiamo fra gli artisti minori del nostro tempo. Era l'assenza di nozioni frastornanti che rendeva possibile questo alto livello di ri- sultati anche fra i meno dotati. Per loro c'era un'unica tradizione cui ispirarsi. Concentravano i loro sforzi nel trarne il meglio che potevano.

Com'è diverso lo stato di cose attuale! L'artista di oggi

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conosce, e gli è stato insegnato ad apprezzare, le tradizio- ni artistiche di ogni popolo di tutti i tempi. Per lui non esiste un'unica tradizione corretta; ce ne sono migliaia, tutte degne del suo rispetto perché si sono prodotte buo- ne opere nell'ambito di ognuna di esse. È finita la beata ignoranza, svanito il sano disprezzo per tutto quello che non rientra in quell'unica tradizione. Ora non ne esiste più nessuna, oppure ce ne sono a centinaia - il che equi- vale alla stessa cosa. Le conoscenze dell'artista tendono a sviarlo, a disperdere le sue energie. Invece di dedicare la sua vita a sfruttare sistematicamente un'unica tradizione, si muove inquieto fra tutti gli stili conosciuti, indeciso su quale adottare, prendendo spunti da ciascuno.

Ma in arte non ci sono scorciatoie per una buona riu- scita. Non è possibile impadronirsi in mezz'ora dei segre- ti di uno stile che ha richiesto il lavoro di generazioni per raggiungere la perfezione. In mezz'ora, certo, si può im- parare quali sono le caratteristiche superficiali più vistose di quello stile; si pub imparare a scimmiottarlo. Questo è tutto. Per capire uno stile occorre dedicarglisi completa- mente, viverci, per così dire, dentro; occorre concentra- zione e lavoro indefesso.

Ma la concentrazione è proprio la cosa che il sapere ec- cessivo tende a rendere impossibile, per tutti tranne che per gli artisti individualmente più dotati e più risoluti. Questi, è vero, sanno badare a se stessi. Qualunque sia il loro ambiente mentale e fisico, non perderanno la loro originalità. La conoscenza ha avuto gli effetti più disa- strosi sulle personalità minori, sulla truppa. In un altro secolo questi avrebbero seguitato a lavorare imperturba- bili, cercando di trarre il meglio da una tradizione, in ge- nere riuscendoci fino al limite estremo delle loro capacità naturali. I loro discendenti stanno cercando di ricavare il

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meglio da cinquanta tradizioni diverse nello stesso tem- po. Con quali risultati, lo dimostra l'orribile esposizione di Monaco. E non si tratta soltanto di Monaco, ma di Pa- rigi, di Londra, di New York, dell'intero mondo domina- to dalla conoscenza.

Tuttavia il sapere esiste ed è facilmente accessibile. Non c'è verso di distruggerlo o nasconderlo. Non può es- serci riconquista dell'antica ignoranza che permetteva agli artisti del passato di continuare a lavorare in uno sti- le per anni, magari per secoli. I1 sapere ha portato con sé irrequietezza, instabilità e la possibilità di rapidi e conti- nui cambiamenti negli stili artistici. Quanti ne sono nati e svaniti durante gli ultimi settant'anni! I1 preraffaellismo, l'impressionismo, l'art nouveau, il futurismo, il postim- pressionismo, il cubismo, l'espressionismo. Agli Egizi sa- rebbero occorsi cento secoli per smaltire una simile varie- tà di stili. Oggi noi ne inventiamo uno nuovo - o più so- vente risuscitiamo vecchi stili del passato in nuove combi- nazioni - lo utilizziamo e lo gettiamo via, il tutto nello spazio di cinque anni. La stabilità delle vecchie tradizio- ni, la ferma educazione del gusto dovuta all'ignoranza e alla meticolosità intransigente, non esistono più. Ritor- neranno mai? Col tempo, certamente, gli artisti si saran- no assuefatti al veleno della fonte delle Muse. L'immenso volume di conoscenza che nelle nostre menti è ancora allo stato grezzo verrà gradualmente assimilato. Quando que- sto processo sarà compiuto, si arriverà a una certa stabili- tà, o meglio a un moto lento e costante, perché nella vita non c'è immobilità. Intanto, dobbiamo accontentarci di vivere in un'epoca di energie disperse, di esperimenti e di accozzaglie di stili, di inquietitudine e di desolante incer- tezza.

I1 grande aumento della nostra conoscenza della storia

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dell'arte ha inciso non solo sugli artisti ma su tutti coloro che si interessano di arte. Poiché tout savoir est tout par- donner, abbiamo imparato ad apprezzare e scoprire il meglio di ogni stile. A Voltaire e al dottor Johnson perfi- no l'arte gotica appariva barbara. Che cosa avrebbero detto se avessimo chiesto loro di ammirare la bellezza plastica di una statua polinesiana o una pittura di animali di un artista vissuto millenni prima dell'alba della storia? I1 sapere ci ha messi in grado di condividere punti di vista insoliti, di apprezzare forme d'arte create da gente pro- fondamente diversa da noi. Tutto questo indubbiamente è un'ottima cosa. Ma la nostra comprensione è così am- pia e abbiamo una tale paura di mostrarci intolleranti verso le cose che dovrebbero piacerci, che abbiamo co- minciato ad amare in modo indiscriminato non soltanto le espressioni più alte di ogni stile, ma anche le più sca- denti.

Non ci accontentiamo di apprezzare certe cose valide che i nostri antenati condannavano. L'appetito cresce a mano a mano che lo si soddisfa. I1 bello non è sufficiente ad appagare il nostro famelico desiderio di apprezzamen- to; dobbiamo inghiottire pure il brutto. Per giustificarci di apprezzare ciò che è brutto abbiamo creato tutta una serie di nuovi valori estetici. I1 processo iniziato qualche tempo fa è proseguito con velocità e ampiezza crescenti, tanto che non c'è più niente, per quanto brutto sia, che non ci procuri piacere.

Credo che storicamente il momento di rottura con i vecchi standard del gusto sia stato l'invenzione del «pit- toresco)). Un oggetto pittoresco può essere definito qual- cosa che possiede certe qualità in eccesso rispetto al nor- male. La natura di queste qualità in eccesso è una que- stione irrilevante. Così, perfino un eccesso di sudiciume è

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sufficiente a rendere pittoresco un oggetto. L'oggetto o la scena pittoresca ideale è ricco di qualità eccessiva in violento contrasto fra loro - per esempio l'eccesso di ombra in contrasto con l'eccesso di luce, l'eccesso di ma- gnificenza con l'eccesso di squallore.

Il bizzarro può essere definito un pittoresco attenuato e tinto di comico. Quelle piccole vecchie case che Dickens si divertiva a descrivere - tutte nascondigli e angoli bui e particolarità curiose - sono tipici esempi del bizzarro. In esso c'è sempre qualcosa di familiare e rassicurante, e perfino, di vagamente virtuoso e comicamente buono, come Tom Pinch in Martin Chuzzlewit. Furono le classi medie dell'epoca vittoriana a fare del bizzarro uno stan- dard di eccellenza estetica. La loro predilezione per esso, unita all'amore per il pittoresco, permise loro di ammira- re una quantità di cose che in pratica non hanno niente a che vedere con l'arte. Ciò che potrei chiamare «falso arti- gianato)) o «mito del rustico)) è una derivazione tolstoja- na dal bizzarro.

La grande invenzione di anni più recenti è stata il «di- vertente~. In origine è uno standard di valore molto sofi- sticato e aristocratico. Tutta la cattiva arte la cui bruttez- za sia una qualità positiva e non quella puramente negati- va della banalità rispettabile può essere definita diverten- te. Per esempio Wordsworth, quando scrive male, non è affatto divertente. Moore invece lo è; perché la cattiva qualità di Moore è quella della sua epoca, molto colorita, affettata e leziosa. Le cose brutte di Wordsworth, come le buone, sono di ogni tempo. I suoi Sonetti ecclesiastici sono di un'assoluta scipitaggine, mentre i più bei passi di Preludio e L 'escursione sono autentica poesia.

Una percezione molto sviluppata del divertente nell'ar- te è oggi estremamente comune. Pochi di coloro che han-

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no un interesse reale per l'arte ne sono privi. I1 divertente perfino arrivato ad avere un valore commerciale; i mer-

canti hanno scoperto che possono vendere a prezzi note- voli il mobilio di papier mâché degli anni 1850, i fiori di cera e le statuette dell'epoca di Luigi Filippo. La gente che colleziona questi oggetti pare derivarne altrettanto piacere - almeno per un certo tempo - quanto dal più sobrio e armonioso mobile Hepplewhite o dai più raffi- nati avori del quattordicesimo secolo. E non c'è ragione, naturalmente, che non sia così, purché si continui a rico- noscere che il mobile Hepplewhite è superiore al papier mâché vittoriano e che gli avori medievali sono più belli dei fiori di cera. Ma il guaio è che questo riconoscimento non è mai così pronto e completo come dovrebbe essere. Questo è il grande pericolo che si accompagna al culto per il divertente; esso fa dimenticare ai suoi seguaci che esistono cose come il bello e il sublime. Si finisce per pre- ferire Erasmus Darwin a Wordsworth, Longhi a Giotto. Indirettamente ne è responsabile la fonte delle Muse.

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PARTE QUARTA

Altri appuntamenti

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Una notte a Pietramala

«Quello che amo di più al mondo», dice Browning in De Gustibus, «è un castello circondato dal precipizio in una gola dell'Appennino martoriato dal vento. » De gu- stibus, davvero. Accetto la cosa senza discuterla. Mi limi- to a dire che, anche se mi piace questa poesia, non condi- vido i gusti del poeta. Un castello nell'Appennino verreb- be per ultimo nell'elenco delle cose che amo. Un palazzo a Roma, una villa alle porte di Siena, perfino una roulot- te avrebbero la precedenza. La caratteristica che Brow- ning attribuisce all'Appennino è la più appropriata. Non dubito che a lui piacesse essere «martoriato dal vento». Posso immaginarmelo, a testa china, farsi strada attra- verso una di quelle raffiche infernali che in primavera e d'inverno vengono giù nelle gole fra le alture. Sarebbe ec- citato dallo sforzo; la sua lotta contro gli elementi lo ren- derebbe euforico e ritornerebbe nel suo castello a scrivere un inno di lode più che mai caloroso alla passione e alla forza - una passione fine a se stessa, una forza ammire- vole, non tanto per il suo obiettivo quanto per la sua enti-

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tà. Sono sicuro che era questo l'effetto del vento su Browning; lo confermava nel suo travolgente ottimismo. A me invece il vento degli Appennini non causa altro che nevralgie e la più profonda depressione. Nel castello cir- condato dal precipizio non scriverei Prospice, ma qualco- sa nello stile di La città della notte tremenda.

Che io non stia esagerando gli orrori del vento negli Appennini è dimostrato dal fatto che si è giudicato neces- sario, per la comodità e anche per la sicurezza dei viag- giatori, proteggere i punti più esposti dei passi principali con alti muraglioni. Ricordo in particolare un tratto della strada maestra fra Firenze e Bologna fiancheggiato per alcune miglia da un immenso parapetto, come la Grande Muraglia cinese. In questo punto la strada, tra i settecen- to e gli ottocento metri sul livello del mare, attraversa un fondovalle stretto e scosceso, nel quale si infila un vento perpetuo. Anche d'estate, nelle giornate serene, quando si passa al riparo del muro, si sente il malinconico lamen- to dei venti che soffiano sopra. Ma nelle brutte giornate d'inverno, primavera e autunno, l'aria è piena di spaven- tosi rumori, come se le porte dell'inferno si fossero spa- lancate e le anime dannate facessero festa. Rabbrividisco ai pensiero dei viaggiatori di circa cent'anni fa, prima che un benefico governo granducale costruisse il muro. Spes- so dovevano essere letteralmente soffiati via dalla strada.

Passammo di là una volta nel mese di marzo. La pri- mavera italiana, che non è molto diversa da quella di altri paesi, quell'anno era gelida e inclemente. A Firenze il so- le brillava saltuariamente fra enormi nuvole. Sul Monte Morello c'era ancora la neve a chiazze. L'aria era pun- gente. « I passi sono liberi dalla neve? » chiedemmo al ga- rage dove ci fermammo a fare il pieno di benzina. Ani- mato dal tipico desiderio italiano di dare una risposta che

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soddisfi chi interroga, l'uomo del garage ci assicurò che la strada era perfettamente sgombra. E lo disse con tale con- vinzione che credemmo, come farebbe qualsiasi nordico, che fosse ben informato. Nulla è più simpatico della cor- tesia meridionale, della cordialità meridionale, del deside- rio meridionale di far piacere. I1 cuore si commuove per l'affettuoso interesse che gli italiani dimostrano per le vo- stre faccende; li amate per la loro amichevole curiosità; vi fanno sentire immediatamente a vostro agio, vi trattano subito da esseri umani e fanno del loro meglio per accon- tentarvi. Sono deliziosi. Ma a volte sono perfino troppo gentili: per non contraddirvi o per non darvi un piccolo di- spiacere discutendo la bontà dei vostri progetti, vi diranno le cose che volete sentire invece di quelle che vi sarebbe uti- le sapere. Inoltre l'orgoglio non permette loro di confessa- re una totale ignoranza; così preferiscono dirvi la cosa sbagliata piuttosto che non dirvi niente del tutto. Dunque, quando l'uomo del garage ci disse che sulla strada da Fi- renze a Bologna non c'era neve, lo disse anzitutto perché vide che volevamo andare a Bologna e che saremmo rima- sti delusi se la cosa si fosse rivelata impossibile, e in secon- do luogo perché trovava più simpatico dire «Niente neve» con tono convinto che ammettere la verità, e cioè che non aveva la più pallida idea se ci fosse neve o no.

Gli credemmo e partimmo. La strada sale ripida da Firenze, si arrampica fino a trecento o quattrocento me- tri, poi scende di nuovo nella lunga valle a fondo piatto racchiusa fra le montagne, il Mugello. Quando la rag- giungemmo il sole era completamente scomparso e il cie- lo sopra di noi era un'unica nube di un bianco-gialla- stro, foriera di neve. Guardando i vari castelli lungo il Percorso, i gusti di Browning mi parvero più che mai in- comprensibili.

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Fra Firenze e Bologna ci sono due passi: la Futa e, otto o nove chilometri più avanti, il passo di Raticosa. Pro- prio in cima alla Futa i granduchi costruirono il baluardo contro il vento. Sotto e sopra, i pendii erano coperti di neve. In mezzo a tutto quel candore la strada in salita si snodava come un serpente color fango.

Al riparo del muraglione ci fermammo a fotografare questo panorama italiano. In quel punto l'aria era calma, e nella sua immobilità pareva quasi tiepida. Ma sopra le nostre teste, alla sommità del muro, soffiava il vento. I fiocchi di neve che esso trasportava davano l'idea della sua velocità. Riempiva le orecchie del suo frastuono. Mentre stavo lì mi venne in mente una versione abbastan- za ridicola e scadente del David Copperfield, che Beer- bohm Tree metteva in scena a volte nel teatro His Maje- sty. Tree sosteneva due parti, Micawber e Peggotty; la prima, aggiungo tra parentesi, con bravura (era un otti- mo attore comico), la seconda, nella sua recitazione più patetica, con minor successo. Ma lasciamo andare. Nelle vesti di Peggotty, Tree non entrava mai in scena senza l'accompagnamento del vento: faceva parte della finzio- ne marinara. Ogni volta che lui apriva la porta della sua casetta sulla spiaggia di Yarmouth, dall'oscurità circo- stante si levava un baccano come un sabba di streghe. In tutto il corso di quel David Copperfield non c'era mai tregua nella burrasca. Uuuh.. . uuuh.. . - crescendo e de- crescendo. Le signore in platea si rimettevano la pelliccia, gli uomini tiravano su il bavero della giacca. Era orribile. Durante questo spettacolo avevo sperato di non dover mai affrontare un vento simile a quello che soffiava nel teatro His Majesty. E così fu fino a quel gelido giorno di marzo quando ci fermammo sotto il muro granducale sulla strada da Firenze a Bologna. Là sentii per la prima

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volta la natura emulare l'arte di Sir Herbert. Un luogo perfetto, riflettei, per il castello di Browning.

A Pietramala, un paesino sotto il passo di Raticosa, ci fermammo a far colazione in una piccola locanda. Gli sfaccendati che si radunarono immediatamente, come per magia, intorno alla nostra automobile - perché an- che a Pietramala, anche nella neve, c'erano appassionati di automobili per i quali l'arrivo di una Citroen dieci ca- valli era un avvenimento - non esitarono a dirci che la strada sull'altro lato del passo era bloccata dalla neve portata dal vento. Entrammo a mangiare un po' depres- si, e anche un po' seccati con l'uomo del garage di Firen- ze. Il locandiere, tuttavia, ci rassicurò; squadre di spala- tori, ci disse, sarebbero arrivati prima della fine del no- stro pasto da Pietramala e dal villaggio sull'altro lato del passo. Per le quattro la strada sarebbe stata sgombra; sa- remmo arrivati a Bologna prima del buio. Quando gli chiedemmo se la strada per Firenzuola e Imola era libera, scosse la testa. Per la seconda volta della giornata gli cre- demmo.

Le ragioni del locandiere per non dire la verita erano diverse da quelle dell'uomo del garage. Quest'ultimo ave- va mentito per malinteso orgoglio e cortesia; invece i1 lo- candiere menti per puro interesse personale. Voleva farci restare per la notte. Ci riuscì perfettamente. Alle quattro ci mettemmo in moto. In cima al passo la neve si era ac- cumulata sulla strada, e non c'era nessuno spalatore in vista. Tornammo indietro. I1 locandiere cadde dalle nu- vole: come, niente spalatori? Non poteva crederci. Ma l'indomani mattina la strada sarebbe stata infallibilmente sgombra. Decidemmo di rimanere per la notte.

I Avevo portato con me in questo viaggio il secondo vo-

lume dell'Enciclopedia Britannica - And . -Aus . È un vo-

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lume di importanza capitale, dal quale si possono trarre utili conoscenze sull'Angiosperma, 1' Afasia, l'Anglicane- simo, l'Antrace, l'Asia, l'Aurora Boreale e l'Australia, per non nominare l'Antropologia, l'Archeologia, 1'Ar- chitettura, l'Arte, l'Astrologia e l'Astronomia. Iniziai fi- ducioso con «Animali (culto degli.. .) ». «L'orso», lessi, «gode di enorme rispetto da parte di tutte le razze selvag- ge che vengono in contatto con lui. »

A me quella sera ispirò soltanto un'enorme invidia. Pensai ai versi di Belloc:

L'Orso Polare P incurante Del freddo che mi tortura.

Lui, beato, possiede una pelliccia. Come vorrei averla io pure!

Perché, nonostante il fuoco e i cappotti pesanti, faceva un freddo spaventoso. « I prodotti della mucca», prose- guii nella lettura, e apprezzai l'eufemismo riassuntivo, «sono importanti nella magia. » Ma non andai oltre; fa- ceva troppo freddo anche per leggere. Sono tuttora nell'i- gnoranza dei sentimenti degli Indiani Thlinkit per il cor- vo, dei Kalanghi per il cane e dei Siamesi per l'elefante bianco. E se sono invece al corrente del fatto che il dio degli Ottentotti, Cagn, è incarnato nella mantide religio- sa, Ngo, è perché mi sono portato lo stesso volume in un altro viaggio compiuto d'estate, quando le serate erano meno inclementi e la mente era libera di dedicarsi a que- stioni più nobili del problema della semplice sopravviven- za.

Faceva già abbastanza freddo nel soggiorno; ma la ve- ra tragedia ebbe inizio quando andammo a letto. Le stan- ze da letto della locanda non avevano stufa; non c'era la

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possibilità di riscaldarle. In quelle stanze si sarebbe potu- to conservare all'infinito la carne di montone. Vestiti di tutti gli indumenti di lana in nostro possesso, ci infilam- mo nei letti duri come pietra. Fuori il vento continuava a ululare fra i monti. Fra lenzuola che non volevano scon- gelarsi, inutile sperare di prendere sonno. Rimasi sveglio ad ascoltare il rumore del vento, chiedendomi quale ef- fetto potesse avere la bufera su quei getti violenti di gas naturale che fanno la fama di Pietramala. Quei gigante- schi fuochi fatui sarebbero stati spenti dal vento? Oppure avrebbero continuato ad ardere nonostante la sua furia? I1 pensiero delle fiamme era confortante; vi indugiai con un certo compiacimento.

Questi getti di fuoco non sono rari fra gli Appennini settentrionali. Per esempio Salsomaggiore deve il suo stemma, una salamandra fra le fiamme, ai suoi zampilli di gas naturale. È in questa forma gassosa che gli idrocar- buri degli Appennini fanno la loro comparsa al centro della catena montuosa. Nelle alture laterali li si può tro- vare sotto la forma commercialmente più utile di petro- lio, che è ora estratto in piccole quantità nelle colline in- torno a Piacenza, Reggio e Modena. Chissà se non vivre- mo ancora abbastanza per vedere le torri di Canossa emulate dai castelli di legno delle torri di trivellazione sui pendii sottostanti.

Le persiane sbattevano, il vento ululava. Decisamente, nessuna fiamma poteva ardere nei vortici di un simile ura- gano. Poveri ignes fatui! Come li avremmo accolti con gioia in questa casa di ghiaccio! Con quale amore di vesta- li avremmo alimentato qualsiasi fuoco, anche se fatuo!

Dal pensiero di quelle fiamme e dal desiderio di averle con me nella stanza, passai a chiedermi perché mai i getti di gas di Pietramala mi fossero così stranamente familia-

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ri. Ne avevo letto qualcosa? Li avevo sentiti nominare re- centemente in qualche conversazione? Mi lambiccavo il cervello. E ail'improvviso ricordai: avevo letto su Pietra- mala in Life and Letters of Faraday di Bence Jones.

In una giornata piovosa dell'autunno 1814 due turisti inglesi piuttosto insoliti scesero dal loro calesse nello squallido paesino di Pietramala. Uno di essi era vicino al- la mezz'età, l'altro era ancora molto giovane. Si chiama- vano Sir Humphry Davy e Michael Faraday. Erano lon- tani dall'Inghilterra da circa un anno. Infatti erano sbar- cati in Francia nell'anno 1813, poco prima che giungesse a Parigi la notizia della battaglia di Lipsia. A noi pare nell'ordine naturale delle cose che la scienza e la religione siano questioni di interesse nazionale, che gli ecclesiastici gridino «Urrà e Alleluja» e i chimici si entusiasmino per la bandiera e per HzS04, Ma non fu sempre così. Dio e le opere di Dio erano un tempo considerate faccende inter- nazionali. Dio fu il primo a essere nazionalizzato; dopo la Riforma ridivenne ancora una volta strettamente tribale. Ma la scienza e anche l'arte erano ancora al di sopra del patriottismo. Nel diciottesimo secolo Francia e Inghilterra si scambiavano le idee quasi nella stessa misura che le can- nonate. Le spedizioni scientifiche francesi potevano pas- sare indisturbate fra le squadre navali inglesi; Sterne era accolto calorosamente dai nemici del suo paese. La con- suetudine si protrasse ancora nell'Ottocento. Napoleone conferì onorificenze a uomini di scienza inglesi; e quan- do, nel 1813, Sir Humphry Davy chiese l'autorizzazione a viaggiare sul continente, gli fu subito concessa. Fu ri- cevuto a Parigi con sommi onori, fu fatto membro dell'I- stituto di Francia, e nonostante la durezza e l'arroganza insopportabili di cui dava abitualmente prova, durante tutto il suo soggiorno in Francia fu trattato con la massi-

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ma cortesia. Nel nostro più illuminato ventesimo secolo sarebbe stato fucilato come spia o internato.

Irrequieto ed eccentrico, Davy corse attraverso 1'Euro- pa alla ricerca della verità scientifica. Tutto era pane per i

denti. A Genova fece esperimenti elettrici sulle tor- pedini. A Firenze si fece prestare il grande specchio usto- rio dei Granduchi e con questo diede fuoco a un diaman- te. A Roma analizzò i pigmenti usati dai pittori dell'anti- chità. A Napoli fece esperimenti sullo iodio ed escursioni sul Vesuvio. Lo accompagnava ovunque Michael Fara- day in qualità di ((assistente in esperimenti e scrittura)). Lady Davy, invece, tentò di usarlo come messaggero e anche come servitore di fiducia. I1 giovane Faraday tro- vava un po' pesante questa posizione; solo la coscienza di avere un'opportunità senza pari per completare la sua istruzione lo decise a conservare il suo posto. La persona- lità di Sir Humphry poteva avere dei lati negativi (è noto che più tardi Faraday dichiarò che «il più grande fra tutti i grandi vantaggi da lui goduti era l'avere avuto in Davy un modello per insegnargli quello che doveva evitare»); ma egli fu senza dubbio una miniera di conoscenze scien- tifiche. Essergli costantemente vicino, come Faraday du- rante quei diciotto mesi di viaggio, fu per lui un'educa- zione classica. I1 giovane Faraday lo sapeva e si rassegnb alla tirannia di Lady D.

A Pietramala, dunque, si fermarono sotto la pioggia scrosciante - e certamente nella furia del vento - per osservare i fuochi d'artificio naturali. Campioni di gas furono messi in bottiglia e portati a Firenze per analizzar- li. Sir Humphry arrivò alla corretta conclusione che si trattava di un idrocarburo leggero praticamente puro.

A questo desolato villaggio in cresta agli Appennini Faraday dedica un paio di pagine del suo diario. A Firen-

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ze, salvo nominarla come città dove si trovavano le at- trezzature adatte per gli esperimenti, non dedica invece alcuno spazio. Faraday non mostrava interesse per le opere dell'uomo, nonostante la loro bellezza. Era interes- sato unicamente alle opere di Dio. In lui c'è una straordi- naria coerenza. Tutto ciò che scrive nel diario e nelle let- tere è perfettamente conseguente. È sempre il filosofo na- to. Scoprire la verità è il suo unico fine e interesse. La sua strada è inalterabilmente fissata. Non si concede mai di esserne sviato - non dall'arte, che ignora quasi del tutto; non dalla politica, che nelle tremende scene finali del dramma napoleonico nomina casualmente una o due vol- te; non dal piacere di occasionali rapporti sociali, anche se trovò sempre il tempo per coltivare l'amicizia - ma su quella strada procede con fermezza, perseveranza, mode- stia, disinteresse, e infine trionfalmente, da uomo di ge- nio vittorioso.

Oltre la scienza il suo grande interesse fu la religione. La battaglia fra la scienza e la teologia dogmatica, che in- furiò nella seconda metà del diciannovesimo secolo, die- de l'impressione, che ancora sussiste, che ci sia una netta incompatibilità fra la religione e la scienza. La storia di- mostra che in realtà questa incompatibilità non esiste. Se leggiamo le biografie dei tre uomini di scienza più geniali (nel significato francese) che abbia dato l'Inghilterra - Isaac Newton, Faraday e James Clerk Maxwell - scopri- remo che tutti e tre furono profondamente religiosi. Newton dedicò la maggior parte della sua lunga esistenza d'interpretazione delle profezie bibliche. Faraday fu un convinto e ardente cristiano della setta Sandemaniana. Maxwell fu un grande mistico oltre che un grande scien- ziato; ci sono lettere sue che testimoniano la sua apparte- nenza alla corrente di Boehme e Swedenborg (anche que-

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st'ultimo, per inciso, fu un eminente uomo di scienza). Tutto questo non dovrebbe sorprenderci. «Un astrono- mo miscredente è un folle)): attenuandola, questa affer- mazione retorica contiene una certa verità. Infatti è im- possibile studiare da vicino la natura senza convincersi della singolarità e del mistero di un mondo familiare nel quale la maggioranza degli esseri umani passano la loro vita senza porsi alcuna domanda. Più si allarga la nostra conoscenza e più ci rendiamo conto delle sue implicazio- ni, più misterioso ci appare questo universo. Certi uomi- ni devono essere stupidi e privi di fantasia se studiano gli oscuri processi della vita, i movimenti delle stelle, l'inti- ma struttura della materia senza provare ogni tanto un senso di timore e di sgomento. Nelle file degli scienziati di professione tali uomini trovano indubbiamente il loro posto; ci sono persone prive di fantasia in tutti i mestieri, da quello di fantino a quello di vescovo. Ma in genere non eccellono nel loro lavoro. Senza immaginazione e senza sensibilità è impossibile essere un bravo uomo di scienza. È difficile trovare un grande scienziato che non sia stato colto da questo senso di meraviglia di fronte al mistero delle cose. Essa si rivela in modi diversi secondo la formazione e il temperamento di chi la prova. Per qualcuno, in una religiosità tranquilla e ortodossa; per altri, restii a pronunciarsi decisamente circa la natura del mistero che li circonda, nell'agnosticismo; in certi casi (Maxwell e Swedenborg ne sono degli esempi) lo scienzia- to è dotato delle particolari qualità mentali del mistico; in altri casi infine troviamo uomini in possesso di queste stesse doti mistiche ma allo stato grezzo, in certo modo grossolane (perché ci sono mistici elevati e mistici medio- cri, proprio come ci sono artisti buoni e altri scadenti), allora abbiamo non un Maxwell con il suo misticismo

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raffinato, ma un Newton interprete di libri profetici. Per Faraday il corollario e il complemento della scienza era il cristianesimo protestante. La sua meraviglia e il suo ti- more di fronte al mistero affascinante del mondo si espri- meva nei suoi incontri Sandemaniani e nella lettura della Bibbia. Nella scala dei mistici egli si colloca circa a metà strada fra Maxwell e Newton, senza doti eccelse ma nep- pure ordinarie, una specie di Andrea del Sarto fra Giotto da una parte e Caravaggio dall'altra. Un Cherubini fra Mozart e Strauss.

Quel re che nella favola di Anatole France poteva gua- rire dalla sua malinconia solo indossando la camicia di un uomo felice, avrebbe potuto saggiamente rivolgersi a Faraday. Una sua camicia sarebbe stata un rimedio speci- fico contro la malattia del re. Perché, se mai vi fu un uo- mo felice, lui certamente lo fu. Per tutta la sua vita fece per mestiere le cose che desiderava fare. Conoscere, sco- prire la verità - questo era il suo desiderio. Un desiderio il cui appagamento non causa delusione o noia, come ac- cade per quasi tutti i desideri umani. Poiché non ci sono limiti alla verità, ogni aspetto di essa, una volta scoperto, ne rivela altri ancora da scoprire. L'uomo che aspira alla conoscenza non prova mai sazietà, perché il conoscibile è perpetuamente nuovo. Potrebbe vivere innumerevoli vite e non annoiarsi mai. Certo, il mondo conoscibile non è tutto. C'è anche il mondo dei sentimenti; c'è anche quel- lo inconoscibile all'uomo. Nel nostro rapporto con questi due mondi c'è grande spazio per l'infelicità. Ma Faraday fu felice anche sul piano sentimentale. I1 suo matrimonio fu un completo successo; ebbe ottimi amici; ebbe un te- nore di vita normale e non desiderò più di quello che ave- va. Fu altrettanto fortunato nel suo rapporto con l'inco- noscibile. I problemi della vita, come vengono chiamati,

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non lo tormentarono mai. Una loro soluzione anticipata gli fu offerta dalla religione nella quale era cresciuto: non passò attraverso nessuna crisi come quella che portò Tolstoj sull'orlo del suicidio. È interessante osservare come abbia separato nettamente il campo della scienza da quello della religione, il conoscibile dall'inconoscibi- le. «L'arcano consiste non in come è il mondo, ma nel fatto che esso è», ha detto Wittgenstein. E ancora: «Per una risposta che non pub essere formulata neppure la domanda può essere formulata. L'enigma non si pone ... La soluzione del problema della vita è da vedere nella sparizione del problema stesso. (Non è questa la ragione per cui certi uomini, ai quali dopo lunghe incertezze si è chiarito il significato della vita, non saprebbero dire in che cosa consistesse quel significato?)» Faraday fu un uomo felice in quanto non ebbe mai dubbi, non tentò mai di porre domande non formulabili alle quali non c'è risposta possibile. Com'è il mondo, questo si propose di scoprire, con maggior successo di quello che arrise a molti ricercatori. Non si torturò la mente chiedendosi perché o che cosa esso è. La sua religione gli offrì la spiegazione del perché; o per essere più esatti (poiché non c'è nessuna spiegazione) lo aiutò a «contemplare il mondo sub specie aeterni, come un tutto limitato ». « I1 sentimento dei mondo come un tutto limitato è il senti- mento mistico. » Faraday possedeva questo sentimento; forse non nella sua forma più raffinata, ma in maniera genuina. Le sue relazioni con l'inconoscibile erano dun- que altrettanto soddisfacenti quanto quelle con ciò che può essere conosciuto.

Fra i filosofi nati Faraday non fu certo l'unico a essere felice. Veramente, come classe, direi che gli uomini di scienza sono più felici di altri uomini. A priori, e quasi

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per definizione, dovrebbero esserlo. E quando si leggono le loro vite si scopre che in realtà generalmente lo furono. Com'è sempre ammirevole la vita degli scienziati nati! C'è in loro un'onestà, un'unità di propositi che appare invidiabile e meravigliosa a noi poveri mortali preoccu- pati di tante cose diverse.

Se potessi nascere un'altra volta e scegliere che cosa es- sere nella mia successiva esistenza, vorrei essere uno scienziato - non per caso ma per natura, ineluttabilmen- te. I1 destino potrebbe offrirmi altre alternative - avere potere o ricchezza, essere re o uomo di stato. Non avrei difficoltà a respingere queste lusinghiere tentazioni; in- fatti la mia avversione per l'irritante trambusto della vita pratica è perfino più forte del mio amore per il denaro e il potere, e poiché questi non si ottengono senza immerger- si nella vita pratica, posso rinunciarvi a cuor leggero. È facile eleggere a virtù una necessità psicologica. L'unica cosa che potrebbe rendermi esitante sarebbe l'offerta di ingegno artistico da parte del destino. Ma anche se potes- si essere Shakespeare, credo che sceglierei comunque di essere Faraday. Certo, la gloria postuma di Shakespeare è maggiore di quella di Faraday; gli uomini leggono an- cora Macbeth, non più (anche se sono elettrotecnici) le Ricerche sperimentali in elettricità. I1 lavoro di uno scien- ziato è una creazione sulla quale altri costruiscono; offre spunti per ulteriori sviluppi. Se vogliamo studiare l'elet- tricità, leggiamo quello che ne dicono i moderni successo- ri e discepoli di Faraday. Macbeth invece è una cosa com- piuta, non una scoperta che altri uomini possono perfe- zionare. In arte non esiste quella cosa che si chiama pro- gresso. Ogni artista ricomincia da capo. L'uomo di scien- za, al contrario, comincia dal punto in cui si sono inter- rotti i suoi predecessori. Da un'epoca all'altra cambiano

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le opinioni e i concetti, sotto il peso dell'esperienza accu- mulata. Il lato umano degli istinti e dei sentimenti, essen- do ereditario, rimane lo stesso. Lo scienziato fornisce l'e- sperienza che cambia le idee della razza; con il passare del tempo le sue scoperte sono superate. L'artista non è mai superato, perché lavora su una materia che non cambia. Le liriche composte da un poeta dell'età paleolitica ci commuoverebbero ancora. Ma le idee di un astronomo di quella stessa epoca avrebbero per noi un interesse pura- mente storico e accademico.

Eppure, nonostante tutto, preferirei ancora essere Fa- raday invece che Shakespeare. La fama postuma non procura a nessuno molte soddisfazioni da questa parte della tomba; e sebbene la coscienza di possedere un gran- de talento artistico debba essere di profonda soddisfazio- ne, e il suo libero esercizio fonte di felicità, mi pare che il possesso e l'esercizio del talento scientifico sia ancora più soddisfacente. Infatti l'artista, la cui funzione è esprime- re adeguatamente e trasmettere agli altri le comuni emo- zioni umane, deve fatalmente passare gran parte della sua vita nel mondo affettivo dei contatti umani. Le sue riflessioni sul mondo, le sue reazioni personali ai contatti - questo forma la materia della sua arte. I1 mondo nel quale lo scienziato passa la parte della sua vita dedicata al lavoro non è quello umano, non ha nulla a che vedere con i contatti personali e le reazioni affettive. Siamo tutti assoggettati al lavoro che facciamo; personalmente, io preferirei essere assoggettato alla contemplazione intel- lettuale che al sentimento, preferirei usare il mio spirito nell'impegno di conoscere più che di sentire.

Uno dei piccoli svantaggi di essere un grande artista è il notevole prestigio sociale di cui gode. L'arte è oggetto di snobismo in misura molto maggiore della scienza. Si pen-

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sa che la presenza di un rinomato poeta o pittore dia un tono speciale a un pranzo importante. È raro che una pa- drona di casa vi inviti alla sua tavola per conoscere un biochimico, sia pure insigne. La ragione è semplicemen- te: tutti pensano di poter apprezzare le arti - e fino a un certo punto è vero - mentre sono ben pochi quelli che possono capire gli aspetti tecnici della scienza. (Vana- mente, ahimè, vorrei appartenere a quella minoranza.) A ciò è dovuta l'invidiabile immunità degli scienziati dal- l'intrusione di frivoli seccatori. L'artista, invece, è una delle prede preferite del ricco sfaccendato; un buon esem- plare vale almeno quanto un ambasciatore, quasi come un principe indiano. Se l'artista è un uomo di carattere troverà che le attenzioni di questi cacciatori di celebrità non sono pericolose ma profondamente irritanti. Sono pericolose soltanto per quelli che si lasciano catturare. È piacevole essere adulati; e se si ha voglia di sprecare il proprio tempo, il modo più facile è dedicarsi alle relazio- ni sociali superficiali. L'artista che cede alle tentazioni sociali perde tutto: il suo tempo, la sua onesta, il suo sen- so delle proporzioni, perfino la speranza di realizzare qualcosa di importante. È una disgrazia esporsi a queste tentazioni.

Verso il mattino, quando, come una braciola di mon- tone su un piatto freddo, avevo un po' scongelato il mio letto, i fantasmi di Michael Faraday e di Sir Humphry Davy si allontanarono, lasciandomi solo con i miei desi- deri repressi. Di quale natura fossero, non so esattamen- te. Ad ogni modo sfociarono, idealmente e simbolica- mente, in un incubo confuso di automobili e mucchi di neve.

Quando ci alzammo soffiava ancora il vento. Passam- mo la mattinata tremando nella saletta della locanda-

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Ogni qualche minuto veniva il padrone con le notizie cir- ca la situazione sul passo. Messaggi telefonici erano arri- vati da Firenze e Bologna; era stata mobilitata una squa- dra di spalatori, che ora era in azione; un uomo appena arrivato dal passo li aveva visti al lavoro; per le due la strada sarebbe stata certamente libera. Dopo ogni elenco di notizie, faceva un inchino, sorrideva, si fregava le ma- ni e tornava in cucina a inventare il successivo. Aveva una fertile immaginazione.

Mi dedicai a una lettura intermittente della voce: Chie- sa Armena. Ma il mio interesse era fiacco. Avevo troppo freddo per provare entusiasmo alla scoperta che «i vecchi inni sacrificali erano probabilmente osceni e certamente senza senso)). Ricordando quella frase in successive esta- ti, mi ha divertito considerare come essa descriva bene, in modo conciso, non soltanto gli inni sacrificali dell'Arme- nia precristiana, ma una grande quantità di arte moderna e di cosiddetta scienza - per esempio la maggior parte della letteratura psicoanalitica, la musica di Schreker, molta pittura espressionista, l'Ulisse e così via. Quanto alla meno «moderna» pseudoscienza e pseudoarte, dallo spiritualismo al cinema commerciale, non hanno neppure il pregio dell'oscenità a salvarle; sono semplicemente sen- za senso.

La mattinata passò; venne l'ora di colazione. Dopo un pasto a base di spaghetti e capretto arrosto, ci sentimmo un po' più forti e meno gelati. «Come vanno le cose sul passo?» chiedemmo. Ma il nostro locandiere parve im- provvisamente aver perduto la sua onniscienza e con essa il suo ottimismo. Non sapeva che cosa stesse succedendo e ci consigliò di aspettare ancora un po'. Ad ogni modo per le cinque tutto sarebbe stato a posto. E la strada per Firenzuola? Quella era impraticabile, ne era sicuro. Ci la-

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sciò nel dubbio sul da farsi; se aspettare o ritornare a Fi- renze. Eravamo ancora in uno stato di penosa incertezza quando un messaggero mandato dal cielo sotto forma di un uomo con calesse e cavallo si fermò alla porta della lo- canda. Ci rivolgemmo a lui per aiuto. Miracolo! Non sol- tanto conosceva la verità; ce la rivelb nuda e cruda. Nes- suno spalatore, ci assicurò, era al lavoro sul passo; e non ne avrebbero mandati finché non cambiava il vento (poi- ché quando il vento soffiava in quella direzione la neve, appena spalata, era risospinta sulla strada). Il vento pote- va cambiare in serata, certo; d'altra parte poteva anche cambiare la prossima settimana. Ma se volevamo andare a Bologna, perché non avevamo preso la strada di Firen- zuola? Sì, perché? disse il locandiere, che si era unito a noi e ascoltava la conversazione. Perché non prendere la strada di Firenzuola? Si rendeva conto che i giochi erano fatti e che non restava nessuna speranza di farci fermare per un'altra notte. Perché no? Lo guardammo in modo significativo, in silenzio. Ci sorrise in risposta, con inalte- rabile buonumore, e rientrb a compilare il conto.

Partimmo. Il cielo era biancastro e pieno di nubi in movimento. Qua e là le bianche montagne erano spennel- late di nero, dove le pareti erano troppo a strapiombo per permettere alla neve di fermarsi. Da La Casetta infilam- mo la strada che scende a rotta di collo e tutta curve nella valle del Santerno. Fra le sue mura Firenzuola era cupa, antica, triste. Di là la strada segue il Santerno. Il fiume si e scavato un corso tortuoso fra le montagne. La valle è stretta e profonda; qua a là il fiume e la strada corrono fra pareti rocciose perpendicolari, formate da fasce obli- que di stratificazioni sovrapposte. Poi lentamente la valle si allarga, le montagne si trasformano in brulle colline. Ai piedi di queste c'è la pianura, racchiusa qui tra le

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montagne e il mare, ma in continua espansione a mano a mano che si va verso nord e si raggiunge l'ininterrotta piattezza della pianura padana.

A Imola imboccammo la grande Via Emilia che corre in costante linea retta da Rimini a Piacenza. E quali città si sgranano lungo quel teso filo bianco! Cesena, Forlì, Faenza, Imola, Bologna, Reggio, Modena, Parma - perla dopo perla.

Quando entrammo a Bologna era buio e le vie erano piene di persone in maschera. Era l'ultimo giorno di car- nevale. Ci facemmo strada attraverso la gente, suonando il clacson. «Maschere! »* ci gridavano mentre passava- mo: e con i nostri berretti a visiera e le nostre sciarpe sem- bravamo anche noi vestiti da carnevale. Non era un gran- de spettacolo; qualche ragazza in domino, qualche stu- dente chiassoso in costume - tutto qui. Pensai alle bril- lanti esibizioni e mascherate del passato. Divertenti, cer- to; ma non si dovrebbe rimpiangerle. Perché le esibizioni e le mascherate sono sintomi di cattivo governo. I tiranni passano la loro vita al centro di uno sfarzoso balletto. I1 popolo oppresso, troppo povero per pagarsi i propri di- vertimenti, è tenuto allegro da queste messinscene regali, completamente gratuite. E nel corso di periodici Saturna- li gli schiavi possono sublimare i loro istinti ribelli in gio- chi sfrenati. Se il carnevale è decaduto, lo stesso è stato dell'oppressione. E dove il popolo ha le monetine per an- dare al cinema, non è necessario ai re e ai papi organizza- re i loro balletti. Comunque lo spettacolo valeva ben po- co; trovai che avrebbero potuto festeggiare il nostro arri- vo a Bologna in modo piu degno.

I I

* In italiano nel testo.

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Lavoro e tempo libero

I riformatori guardano a un futuro in cui un'efficiente organizzazione sociale e macchinari perfezionati aboli- ranno la necessità del lavoro duro e prolungato, renden- do possibile a tutti gli uomini e donne una quantità di tempo libero quale ne godono oggi unicamente pochi pri- vilegiati. In quell'età dell'oro nessuno avrà bisogno di la- vorare più di quattro o cinque ore al giorno. Ognuno po- trà disporre del tempo restante come meglio gli piacerà.

Una persona sensibile non pub non essere d'accordo con questa aspirazione. Si deve essere prepotentemente sicuri della propria qualità di superuomini per poter ac- cettare di buon grado la schiavitu sulla quale si basa la possibilità di essere superuomini. I1 povero Nietzsche finì per firmare le sue lettere «Nietzsche Caesar» e morì in manicomio. Forse è questo il prezzo che occorre pagare - comunque dalle persone intelligenti, poiché gli stupidi non pagano mai nulla, come pure non ricevono nulla - per un'incrollabile convinzione di superiorità.

Ma essere d'accordo su un progetto ideale non signifi-

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ca necessariamente non criticarlo; si può essere fortemen- te coinvolti in un problema, ma non per questo si deve smettere di pensare. La maggior parte degli esseri umani sono oppressi dal lavoro eccessivo del genere più insulso. Questo fatto pub e dovrebbe comunque suscitare la no- stra indignazione e la nostra pietà. Ma questi sentimenti non devono impedirci di criticare il progetto di coloro che vogliono cambiare il presente stato di cose. I riforma- tori sociali auspicano un'organizzazione che consenta a tutti gli uomini di godere dello stesso tempo libero, o quasi, di cui godono oggi le classi privilegiate. Nonostan- te tutta la nostra comprensione, ci sia concesso di dubita- re che la realizzazione di quel progetto sia davvero così auspicabile.

Cominciamo con una semplice domanda: come si sug- gerisce che gli esseri umani impieghino il tempo libero che la riorganizzazione sociale e i macchinari perfezionati offriranno loro?

I profeti del futuro danno generalmente la stessa rispo- sta a questa domanda, con lievi varianti a seconda dei lo- ro gusti diversi. Henri Poincaré, ad esempio, immaginò che gli uomini del futuro avrebbero riempito le loro lun- ghe parentesi di tempo libero ((contemplando le leggi del- la natura)). George Bernard Shaw è all'incirca della stes- sa opinione. Avendo smesso, giunti all'età di quattro an- ni, di trovare qualsiasi interesse in cose puerili come l'a- more, l'arte e la compagnia degli altri esseri umani, i ve- gliardi di Torniamo a Matusalemme dedicano le loro vite prolungate all'infinito a meditare sulla misteriosa e mira- colosa bellezza del cosmo. H.G. Wells, in Men like Gods, descrive una razza di chimici e fisici atletici che vanno in giro nudi e, a differenza degli austeri vegliardi di Shaw, praticano il libero amore in modo razionale fra un esperi-

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mento e l'altro. Si interessano pure di arte e non disde- gnano di darsi al gioco.

Queste tre risposte alla nostra domanda sono tipiche. Profeti diversi possono valutare diversamente il grado di importanza delle varie attività che costituiscono quello che viene chiamato «più alto livello di vita»; ma tutti so- no d'accordo sul fatto che la vita dei nostri posteri, libe- rati dalla fatica, sarà di alto livello. Essi saranno avidi di conoscere «il meglio che è stato detto e pensato)) su ogni cosa; ascolteranno concerti della musica più raffinata; si dedicheranno all'arte e all'artigianato (almeno fino al giorno in cui anche queste occupazioni sembreranno pue- rili); studieranno le scienze, la filosofia, la matematica e mediteranno sull'affascinante mistero del mondo nel quale vivranno.

In breve, queste masse privilegiate di un futuro che non c'è motivo di credere infinitamente lontano - vera- mente, i nostri nipoti possono arrivare a vedere l'istitu- zione della giornata lavorativa di quattro ore - faranno tutte le cose che le classi agiate attuali sono così manife- stamente incapaci di fare.

Quante sono oggi le persone ricche e libere dai lavoro che passano il loro tempo a contemplare le leggi delia na- tura? Non potrei dire; so soltanto che ne incontro molto raramente. Molte di loro, è vero, si dedicano ai mecenati- smo e perfino all'esercizio dilettantesco dell'arte. Ma chiunque abbia frequentato la gente ricca e «artistica» sa quanto questo gusto per le arti sia dovuto a snobismo, quanto siano in gran parte superficiali e insinceri quegli entusiasmi tanto strombazzati. Le classi privilegiate si de- dicano all'arte per le stesse ragioni per cui si dedicano al bridge - per sfuggire alla noia. Insieme allo sport e all'a- more, l'arte li aiuta a riempire il vuoto della loro esistenza.

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A Montecarlo e Nizza si incontrano questi ricchi i cui interessi dominanti sono il gioco e l'amore. Secondo la mia guida di viaggio sono due milioni le persone che ogni anno visitano la sola Montecarlo. Sette ottavi dell'intera popolazione agiata d'Europa si concentrano annualmen- te su quel tratto di costa. Cinquemila complessi jazzistici suonano giornalmente per il loro diletto. Centomila vei- coli a motore li trasportano velocemente da un luogo al- l'altro. Enormi società per azioni offrono loro ogni gene- re di svaghi, dalla roulette al golf. Legioni di prostitute si radunano qui da tutte le parti del globo, e abbondano gli entusiasti seguaci dell'amor cortese. Per quattro mesi al- l'anno la Riviera francese è un paradiso terrestre. Passati i quattro mesi, i ricchi sfaccendati ritornano alle loro nordiche case, dove trovano ad aspettarli meno splendide ma autentiche «succursali » del paradiso appena lasciato.

I ricchi sfaccendati di Montecarlo sono coloro, ho det- to, le cui principali risorse contro la noia o i pensieri seri sono l'amore e il gioco. Molti di loro sono anche ((artisti- ci». Ma non credo sia a Montecarlo che si trovano i mi- gliori esemplari di ricchi artistici. Per vederne il meglio si deve andare a Firenze. Firenze è la sede di coloro che col- tivano con pari ardore la passione per il mah-jong e per il Beato Angelico. Sulla loro tazza di tè con pasticcini di- scorrono, se sono troppo vecchi per fare loro stessi l'a- more, dei loro lascivi conoscenti più giovani; ma fanno anche schizzi all'acquerello e leggono i Fioretti di San Francesco.

Per equità verso i ricchi sfaccendati non posso omette- re di menzionare quella rispettabile minoranza che si oc- cupa di opere di carità (per non dire tirannia), di politica, di amministrazione locale e saltuariamente di studi erudi-

ti o scientifici. Esito a usare la parola «servizio»; perché

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è stata sbandierata così spesso come un ideale da una tale marmaglia di proprietari di giornali, rudi uomini d'affari e moralisti di mestiere appartenenti all'YMCA, che ha perduto ogni significato reale. L'«ideale del servizio» è realizzato, secondo i nostri moderni messia, da quelii che fanno un lavoro efficiente e proficuo con quel tanto di onestà che li salva dalla galera. Così una banale attività commerciale è esaltata come un'ammirevole virtù. L'i- deale del servizio che anima buona parte della classe agia- ta inglese non ha niente a che vedere con gli ideali del ser- vizio così spesso nominati nella pubblicità delle riviste americane. Se non avessi chiarito questo punto, il mio elogio avrebbe potuto essere giudicato, se non proprio offensivo, almeno odiosamente vago.

Esiste, infine, una minoranza ammirevole. Ma, anche quando questa minoranza e le sue occupazioni siano te- nute nel dovuto conto, onestamente non si può dire che le classi agiate del nostro tempo, o di qualsiasi periodo sto- rico che conosciamo, siano un'ottima pubblicità per i1 tempo libero. L'osservazione della vita sfaccendata di Montecarlo o anche dell'artistica Firenze non è affatto incoraggiante o edificante.

Né ci rassicura molto osservare le occupazioni dei po- veri lavoratori durante le brevi ore di riposo concesse lo- ro fra il lavoro e il sonno. Guardare gli altri che giocano, andare al cinema, leggere il giornale e qualche romanzo scadente, ascoltare concerti alla radio e dischi sul gram- mofono, spostarsi su treni e autobus - queste, immagi- no, sono le occupazioni principali del tempo libero del- l'operaio. Il loro basso costo è quello che le distingue da- gli svaghi dei ricchi. Prolunghiamo il tempo libero e che cosa accadrà? Dovranno esserci più cinema, più giornali, più cattivi romanzi, più radio e più automobili a basso

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prezzo. Se la ricchezza e l'istruzione aumentano con il tempo libero, allora ci dovranno essere più Balletti Russi e più film, più Times e più Daily Mail, più casinb, più corse di cavalli e più partite di calcio, più costosi spetta- coli d'opera e piu dischi grammofonici, piu Hugh Wal- pole e più Nat Gould. Ci si può aspettare che, agendo su- gli stessi organismi, le stesse cause producano gli stessi ef- fetti. E in linea generale, considerando il corso della sto- ria, la natura umana è praticamente immutabile; l'orga- nismo rimane lo stesso. Argal, come avrebbe detto Lan- cillotto Gobbo.. .

Stando così le cose, dobbiamo ancora supporre che l'aumento del tempo libero sarà accompagnato da un'e- quivalente maggiore incidenza di quelle malattie dello spirito - noia, irrequietezza, malinconia e generica stan- chezza del mondo - che affliggono le classi agiate e le hanno sempre afflitte anche in passato.

Un altro risultato dell'aurnento del tempo libero, am- messo che sia accompagnato da un livello di vita abba- stanza alto, sarà un notevole aumento dell'interesse per tutte le questioni di natura amorosa da parte di quella che è ora la classe lavoratrice. L'amore, nei suoi aspetti più ricchi e complessi, può fiorire soltanto in una società composta di persone ben nutrite e libere da impegni. Esa- minate la letteratura che e stata scritta da e per membri delle classi agiate e paragonatela con la letteratura popo- lare e operaia. Confrontate La Principessa di C l è v e s con Il viaggio del pellegrino, Proust con Charles Garvice, il Troilo e Criseide di Chaucer con le sue ballate. È subito abbastanza evidente che le classi agiate hanno e sempre hanno avuto nei confronti dell'arnore un interesse più vi- vo e, potrei dire, più professionale di quello dei lavorato- ri. Un uomo non puo lavorare sodo e nello stesso tempo

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coltivare complicate relazioni amorose. L'amore, almeno nel modo in cui lo intendono le donne libere da impegni, è un'occupazione a tempo pieno. Richiede sia energie che tempo libero. E queste sono esattamente le cose che man- cano a chi lavora sodo. Riducete le sue ore di lavoro e ot- terrà l'una e l'altra cosa.

Se domani o fra un paio di generazioni fosse reso pos- sibile a tutti gli esseri umani condurre la vita libera che oggi è privilegio di pochi, i risultati, per quanto posso im- maginare, sarebbero i seguenti: ci sarebbe un enorme au- mento della domanda di quegli svaghi e surrogati del pensiero che sono i giornali, i film, i romanzi, i mezzi di comunicazione a buon mercato e i radiotelefoni; detto in termini più generici, un aumento della domanda di diver- timenti e di arte. L'interesse per la bella arte dell'amore crescerebbe enormemente. E innumerevoli persone, im- muni fino a quel momento da queste malattie mentali e morali, sarebbero invece afflitte dalla noia, dalla depres- sione e da una insoddisfazione universale.

I1 fatto è che la maggioranza degli esseri umani, educa- ti come sono attualmente, non saprebbero rinunciare a dedicare il loro tempo libero a occupazioni che, pur non essendo riprovevoli in sé, sono però insulse e futili e, quel che è peggio, sentite segretamente come tali.

A Tolstoj l'idea di benessere universale sembrava as- surda e anche peccaminosa. Considerava dei folli quei ri- formatori sociali che proponevano l'ideale di realizzare il benessere universale. Essi aspiravano a rendere tutti gli uomini simili a quella gente cittadina ricca e oziosa in mezzo alla quale lui aveva passato la sua gioventù e che disprezzava così profondamente. Secondo lui non erano altro che cospiratori contro il bene della razza.

Per Tolstoj la cosa importante non era che i lavoratori

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P ottenessero più tempo libero, ma che i privilegiati lavo- rassero. 11 suo ideale sociale era il lavoro per tutti in un ambiente naturale. Voleva vedere tutti gli uomini e le donne vivere in campagna e sostentarsi con i prodotti dei campi che loro stessi coltivavano. I creatori di utopie amano profetizzare che verrà un tempo in cui gli uomini abbandoneranno l'agricoltura e vivranno di cibi sintetici; per Tolstoj l'idea era semplicemente ripugnante. Ma, benché avesse certo ragione di provarne orrore, i profeti dei cibi sintetici sono probabilmente più lungimiranti di lui. È più verosimile pensare a un'umanità urbanizzata piuttosto che completamente dedita alla vita rurale. Ma queste ipotesi non ci interessano qui. Ci interessa invece l'opinione di Tolstoj sul tempo libero.

La sua awersione per la vita comoda era dovuta alla sua esperienza di giovane inoperoso e alla sua osservazio- ne di un ambiente di ricchi e sfaccendati. Arrivò alla con- clusione che, come stanno le cose, la vita comoda è in ge- nere più una maledizione che una fortuna. È difficile non essere d'accordo con lui quando si visita Montecarlo o qualcuno degli altri paradisi terrestri dei ricchi. Molti cer- velli riescono a essere attivi soltanto se forzati. La vita comoda è un vantaggio unicamente per coloro che desi- derano, anche non costretti, fare un lavoro mentale. In una società composta interamente di menti attive il tem- po libero sarebbe una vera benedizione. Una simile socie- tà non è mai esistita e non esiste neppure oggi. Potrà mai essere realizzata?

Una risposta affermativa verrà da chi crede che si pos- sa porre rimedio a tutte le deficienze della natura con un'educazione adeguata. E in realtà è abbastanza chiaro che la scienza dell'educazione è ancora in uno stadio mol- to rudimentale. Possediamo sufficienti conoscenze di fi-

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siologia per inventare degli esercizi ginnastici che svilup- pino il corpo fino al più alto grado di efficienza. Ma la nostra conoscenza della mente, e soprattutto delle sue possibilità di crescita, è molto meno completa; e anche quella poca che possediamo non è applicata sistematica- mente né universalmente ai problemi dell'educazione. Le nostre menti sono come i corpi fiacchi degli abitanti se- dentari delle città - inefficienti e imperfettamente svi- luppate. Per un gran numero di persone lo sviluppo intel- lettuale cessa quasi del tutto nell'infanzia; affronta la vi- ta con le facoltà intellettuali dei ragazzini di quindici an- ni. Un corso appropriato di ginnastica mentale, basata su reali cognizioni psicologiche, permetterebbe a tutte le menti di raggiungere il loro massimo sviluppo. Splendida prospettiva! Ma il nostro entusiasmo per l'educazione si raffredda un po' se consideriamo qual è realmente il mas- simo sviluppo che può essere raggiunto dalla maggior parte degli esseri umani. Riguardo a queste particolari fa- coltà, gli uomini dotati di talento sono, rispetto a quelli che ne sono privi, come gli esseri umani rispetto ai cani. i n fatto di matematica, io sono un cane in confronto a Newton; in fatto di musica, un cane in confronto a Bee- thoven; ancora un cane in fatto di arte in confronto a Giotto. Per non parlare del fatto che sono un cane come funambolo in confronto a Blondin; un cane come gioca- tore di biliardo in confronto a Newman; un cane nella boxe in confronto a Dempsey; un cane come assaggiatore di vini in confronto al padre di Ruskin. E così via. Anche se fossi perfettamente istruito in matematica, musica, pittura, funambolismo, gioco del biliardo, boxe e degu- stazione di vini, diverrei soltanto un cane ammaestrato invece che un cane allo stato naturale. L'eventualità mi dà una soddisfazione molto moderata.

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L'educazione può assicurare a ogni uomo il massimo dello sviluppo mentale. Ma quel massimo è abbastanza elevato nella maggioranza dei casi per consentire a un'in-

tera società di vivere negli agi senza incrementare quelle deplorevoli qualità che hanno sempre caratterizzato le classi agiate? Conosco un'infinità di persone che hanno ricevuto la migliore educazione possibile nella nostra epoca e impiegano il loro tempo libero come se non l'a- vessero mai ricevuta. Ma allora la nostra educazione è di- chiaratamente cattiva (anche se sufficientemente buona per tutti gli uomini di talento e d'ingegno che sono fra noi); forse quando sarà perfezionata queste persone pas- seranno il loro tempo libero a contemplare le leggi della natura. Forse. Mi permetto di dubitarne.

H.G. Wells, che crede nell'educazione, colloca la sua Utopia tremila anni avanti nel futuro; George Bernard

i Shaw, con una fiducia meno ottimistica nella natura e nel processo di evoluzione cosciente, sposta la sua addirittu- ra fino all'anno 30.000 d.C. Geologicamente parlando, questi tempi si equivalgono a tutti gli effetti nella loro brevità. Disgraziatamente, però, non siamo fossili ma

uomini. Anche tremila anni appaiono ai nostri occhi un tempo straordinariamente lungo. I1 pensiero che fra tre- mila o trentamila anni gli esseri umani possano eventual-

5 mente condurre una vita piacevole e razionale ci conforta e ci sostiene fino a un certo punto. Gli uomini hanno l'a-

bitudine di pensare solo a se stessi, ai loro figli e ai figli dei loro figli. E hanno perfettamente ragione. Fra trenta- mila anni tutto pub essere perfetto. Ma nel frattempo quel brutto quarto d'ora geologico che separa il presente da quel roseo futuro deve essere vissuto. E prevedo che uno fra i più piccoli, oppure fra i maggiori problemi di quel quarto d'ora sarà il problema del tempo libero. Nel

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Duemila le sei ore lavorative giornaliere saranno ovun- que la norma, e i cento anni successivi vedranno forse quel massimo ridotto a cinque ore o anche meno. Per al- lora la natura non avrà avuto il tempo di cambiare le abi- tudini mentali della razza; e l'educazione, pur migliorata, avrà semplicemente trasformato i cani in cani ammae- strati. Come riempiranno il loro sempre crescente tempo libero gli esseri umani? Contemplando le leggi della natu- ra, come Henri Poincaré? O leggendo le News of the World? Me lo chiedo.

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La musica popolare

C'è un motivetto allegro, animato, saltellante, familia- re a tutti coloro che hanno passato qualche settimana in Germania o che nell'infanzia sono stati affidati alle cure di una governante tedesca. I1 suo titolo è Ach, du lieber Augustin. È una cosetta vivace nel tempo di tre quarti; con un ritmo e una melodia così semplici che perfino l'i- diota del villaggio potrebbe cantarla dopo averla sentita la prima volta; di un sentimento così innocente che il cuo- re della fanciulla più sensibile non accelererebbe il suo battito di un solo colpo ascoltandola. Questa canzonetta è così genuinamente e allegramente insulsa che disarma ogni critica.

Qualche parola sulla sua storia. Ach, du lieber Augu- stin fu composta nel 1770 e fu il primo valzer. I1 primo valzer! Devo chiedere al lettore di canterellare il motivo fra sé, poi di pensare a un qualsiasi valzer moderno che gli sia familiare. Nella differenza fra le due melodie tro- verà un ricco spunto per interessanti riflessioni.

La differenza fra Ach, du lieber Augustin e qualsiasi

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altra aria di valzer composta in qualunque momento dal- la metà dell'Ottocento in poi è la stessa che c'è fra un pezzo musicale quasi completamente vuoto di contenuto sentimentale e un altro saturo di passione amorosa, di voluttà e languore. La fanciulla sensibile che ascoltando Ach, du lieber Augustin non prova altro che un generico senso di euforia e di buonumore sente il suo cuore palpi- tare ai carezzevoli motivi del valzer moderno. La sua ani- ma cade quasi in deliquio in un mare di sdolcinatezza; le pare di respirare un'atmosfera carica di effluvi d'ambra e di muschio. Dalla cosetta deliziosa che era alla nascita, il valzer è diventato quella faccenda voluttuosa, tale da mettere il cuore in subbuglio, che oggi conosciamo.

E lo stesso destino del valzer ha avuto tutta la musica popolare. Un tempo era ingenua, oggi è provocatoria; un tempo trasparente, oggi densa e impastata, un tempo ele- gante, oggi deliberatamente barbara. Confrontate la mu- sica dell'Opera del mendicante con quella di uno spetta- colo di varietà attuale. Sono diverse come la vita nel giar- dino dell'Eden era diversa dalla vita nel quartiere artisti- co di Gomorra. L'una è di un'eterea dolcezza da prima della caduta, l'altra è ricca, ridondante e chiassosa, volu- tamente selvaggia.

L'evoluzione della musica popolare è andata in paral- lelo, a un livello più basso, con quella della musica seria. I compositori di canzoni popolari non sono abbastanza musicisti per saper inventare nuove forme di espressione. Si limitano ad adattare le scoperte dei geni originali al gu- sto del volgo. Alla lunga e indirettamente, Beethoven è responsabile di tutte le languide arie di valzer, di tutto il jazz selvaggio, di quanto c'è di sdolcinato o violento nel- la nostra musica popolare. Ne è responsabile perché è stato il primo che ha ideato metodi musicali efficaci per

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l'espressione diretta dei sentimenti. I1 caso volle che i sen- timenti di Beethoven fossero nobili; inoltre era un musi- cista troppo intellettuale per trascurare il lato formale e strutturale della musica. Ma sfortunatamente ha reso possibile a compositori di intelletto e personalità inferiori esprimere in musica le loro passioni meno elevate e i loro sentimenti più banali. Ha reso possibili i fiacchi senti- mentalismi di Schumann, le barocche grandiosità di Wa- gner, gli isterismi di Skrjabin; e inoltre, i valzer di tutti gli Strauss, dal Danubio blu al valzer di Salomé. Infine ha reso possibile, a un livello ancora più basso, certi capola- vori dell'arte popolare come «Mi sono innamorato di te» o «La mia mammina nero-carbone ».

Per l'introduzione nella musica di una certa vibrante sessualità, Beethoven è forse meno direttamente respon- sabile che gli italiani dell'Ottocento. Un tempo mi chie- devo spesso perché le opere di Mozart fossero meno po- polari di quelle di Verdi, Leoncavallo e Puccini. Non si poteva desiderare niente di più contagiosamente «orec- chiabile» di certe arie delle Nozze di Figaro o del Don Giovanni. Anche se «classica», la musica di queste opere non è oscura né eccessivamente complessa. Al contrario è limpida, semplice, di quella semplicità in apparenza faci- le che solo un grandissimo genio può raggiungere, e asso- lutamente affascinante. Eppure per ogni rappresentazio- ne del Don Giovanni se ne hanno cento della Bohème. Tosca è almeno cinquanta volte più popolare delle Nozze di Figaro. E se si sfoglia un catalogo di dischi grammofo- nici, si scopre che mentre si può acquistare il Rigoletto completo in trenta dischi, non ne esistono più di tre del Flauto magico. A prima vista la cosa lascia perplessi. Ma il motivo non è difficile da scoprire. Dopo Mozart i com- positori hanno imparato l'arte di mettere nella musica

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una sessualità tutta palpiti e grida gutturali. Le arie di Mozart sono di una limpida purezza che le fa parere insi- pide al confronto con le melodie singhiozzanti e strozzate degli italiani del diciannovesimo secolo. I1 pubblico, abi- tuato ormai a questi liquori più forti e più torbidi, non trova più nessun aroma nel canto cristallino di Mozart.

Un saggio sulla musica popolare moderna non sarebbe completo senza un grato riferimento a Rossini, il quale, per quanto ne so, fu il primo compositore a dimostrare quale incanto possa esserci nella melodia popolare. Pri- ma dei tempi di Rossini le arie erano spesso estremamen- te banali e scadenti; ma quasi mai esse avevano quell'in- definibile qualità volgarmente popolaresca che possiede invece qualcuna delle arie più riuscite di Rossini e nella quale riconosciamo in certo modo un carattere moderno e contemporaneo. I metodi usati da Rossini per la realiz- zazione di questo genere popolaresco non sono facilmen- te analizzabili. I1 suo grande segreto, mi pare, fu la fre- quente ripetizione in scale diverse di una breve frase facil- mente memorizzabile. Ma è più facile spiegare con esem- pi. Pensate alla prima aria di Mosè nel Mosè in Egitto. È un melodia essenzialmente popolare, molto dissimile da quelle di epoche precedenti. Ha invece qualche affinità con il canto popolare moderno. Fu alla sua invenzione di questo genere che Rossini dovette il suo enorme successo fra i contemporanei. La gente comune prima di lui dove- va accontentarsi delle delicate arie mozartiane. Rossini venne a offrirle una musica più congeniale ai suoi gusti. Non sorprende che il mondo si sia prostrato con ricono- scenza ai suoi piedi. Se la sua popolarità è finita da molto tempo è perché i successori, approfittando delle sue lezio- ni, hanno realizzato su quella base certi trionfi che lui non avrebbe mai immaginato.

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I barbarismi sono entrati nella musica popolare da due fonti - dalla musica di popoli barbari come i neri e dal- la musica seria che ha attinto la sua ispirazione dalla cul- tura barbarica. La tecnica di questa musica è venuta in realtà dalla musica seria. Nell'elaborazione di questa tec- nica nessun musicista ha fatto di più dei russi. Se Rimskij Korsakov non fosse mai esistito, la musica da ballo mo- derna non sarebbe quella che è.

Dopo esserci assuefatti agli stimoli violenti e puramen- te fisiologici della musica jazzistica moderna con i suoi suoni fragorosi e tambureggianti, le vibrazioni ritmiche e i lamentosi glissando, è difficile prevedere se il mondo ri- tornerà mai a qualcosa di meno rozzo e primitivo. Perfi- no i musicisti seri hanno difficoltà a fare a meno dei bar- barismi. Nonostante la monotonia e la singolare mancan- za di finezza che caratterizza questo genere, essi insistono nelle violente sonorità alla vecchia maniera russa, come se non si potesse inventare niente di più interessante o ec- citante. Quando da ragazzo udii per la prima volta un pezzo di musica russa mi sentii letteralmente trascinato dalle sue selvagge melodie, dai suoi ritmi insistenti e os- sessivi. Ma a ogni audizione la mia eccitazione scemava. Oggi nessuna musica è per me più noiosa. L'unica musica che possa procurare un inesauribile piacere a un uomo ci- vile è la musica civile. Se foste costretti ad ascoltare ogni giorno della vostra vita un unico pezzo di musica, sceglie- reste l' Uccello di fuoco di Stravinskij o la Grande fuga di Beethoven? Ovviamente scegliereste la Fuga, non foss'al- tro che per la sua complessità e perché impegna il nostro intelletto molto più dei ritmi troppo semplici del musici- sta russo. I compositori sembrano dimenticare che noi siamo, nonostante tutto e anche se le apparenze sono contro di noi, abbastanza civilizzati. Ci subissano non

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soltanto di sonorità russe e negroidi, ma anche di miago-

lii celtici sui tasti neri, di cupi gemiti spagnoli punteggiati dal crepitio delle nacchere e dalle martellanti armonie della chitarra. Quando i compositori seri saranno tornati alla musica civilizzata - e già alcuni di loro stanno ab- bandonando i barbarismi - ci sarà probabilmente un cambiamento corrispondente 'verso una maggiore raffi- natezza nella musica popolare. Ma finché i musicisti seri non indicheranno loro la strada, sarebbe assurdo aspet- tarsi che i volgarizzatori cambino il loro stile.

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I1 mistero del teatro

Ci fu un tempo, nel corso di una vita male spesa, in cui la mia sorte mi portava a teatro circa duecentocinquanta volte all'anno. Non ho bisogno di aggiungere che ci an- davo per lavoro; è difficile che si faccia questo tipo di co- se per puro piacere. Ero pagato per farlo.

Alla fine di quell'anno - anzi, per essere esatti, molto prima che il nostro pianeta avesse completato la sua orbi- ta intorno al sole - giunsi alla conclusione che non ero pagato abbastanza; che in realtà non sarei mai stato pa- gato abbastanza per questo particolare lavoro. Lo la- sciai; e niente potrebbe ora indurmi a riprenderlo.

Da allora le mie presenze a teatro sono state in media forse tre all'anno.

Eppure ci sono persone che vanno a ogni prima rap- presentazione, non per obbligo, non per soddisfare le esi- genze di uno stomaco vorace, ma perché a loro piace co- sì. Non sono pagati per andarci; pagano, come per un privilegio. Le vie degli uomini sono davvero misteriose.

Riguardo a questo mistero mi abbandonavo spesso a

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congetture - astraendomi come potevo dagli orrori che I

mi circondavano - durante i passi più strazianti delle commedie cui dovevo assistere. Nelle poltrone intorno a me - così riflettevo - ci sono diverse centinaia di perso- ne ricche e, se così si può dire, istruite, che hanno pagato per vedere questa sciocca commedia (poiché suppongo che si tratti di una delle diciannove commedie sciocche e non dalla rara ventesima Casa cuore infranto o La signo- ra Beam). È il genere di persone che nell'intimità delle lo- ro case leggono romanzi della migliore qualità, o comun- que non della peggiore. Sarebbero indignati se offriste lo- ro un romanzetto da quattro soldi.

Eppure questi lettori di storie rispettabili vanno a tea- tro (non per obbligo, ricordiamolo) a vedere lavori che, quanto a letteratura, sono allo stesso livello dei roman- zetti che giustamente disdegnano di leggere.

Ai loro romanzi chiedono un minimo di verosimiglian- za, di aderenza alla vita, di credibilità dei personaggi e di scrittura decorosa. Una storia impossibile, nella quale i personaggi sono altrettanti fantocci che si muovono se- condo le leggi di assurde e logore convenzioni e si espri- mono in un inglese grottesco, ridondante e sgrammatica- to, li riempirebbe di disgusto. Ma a un lavoro teatrale che corrisponde esattamente a questa descrizione accorrono a migliaia. Si commuovono fino alle lacrime e si entusia- smano per situazioni che in un romanzo troverebbero semplicemente ridicole. Tollerano, e addirittura ammira- no calorosamente, un linguaggio che chiunque abbia un minimo di sensibilità per l'uso delle parole fremerebbe a vedere stampato.

È su questa strana anomalia che ero solito meditare durante quelle orrende serate a teatro. Perché il roman- zetto da quattro soldi disgusta, sotto forma di libro, que-

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gli stessi che se ne deliziano quando è rappresentato in palcoscenico? Esposto succintamente, era questo il pro- blema che non smetteva di interessarmi.

Shaw ha detto che è più facile scrivere un romanzo che una commedia; e per dimostrare con quale spaventosa facilità un romanziere può raccontare in pagine di fitta descrizione ciò che il drammaturgo deve condensare in poche battute di dialogo, riscrisse in forma narrativa mo- derna una scena del Macbeth. Dichiaratamente, Shake- speare resse benissimo il confronto. Infatti è certamente più facile scrivere un cattivo romanzo che un buon dram- ma. Ma d'altra parte è molto più facile scrivere un brutto dramma destinato al successo - anche con un pubblico intelligente e di gusti raffinati - che un brutto romanzo che avrà lettori dello stesso tipo. Un cornmediografo può «cavarsela» con un lavoro in cui la caratterizzazione è a livello di caricatura, il linguaggio che vuole essere elevato non supera mai la più banale retorica, la verosimiglianza è inesistente - ma che presenta soltanto una situazione interessante. Il romanziere non può.

Questo fatto mi ha colpito recentemente una volta di più in un teatro di Parma - purtroppo non i1 grande tea- tro Estense ma una piccola sala dozzinale moderna - dove andai a vedere la versione italiana di una commedia di Arthur Pinero - se ben ricordo il titolo era La casa in ordine. Confesso di aver goduto a fondo questo spettaco- lo. La vita dell'alta società inglese, vista attraverso gli oc- chi di una compagnia itinerante italiana, meritava un viaggio - anche dalla lontana Inghilterra - per essere studiata. E gli attori erano bravissimi. Ma mentre ascol- tavo mi meravigliavo che una commedia di una tale vuo- taggine - poiché a Parma l'involontario umorismo e la buona recitazione erano aggiunte puramente casuali al-

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l'insignificante originale - avesse avuto, e potesse ancora avere, un tale successo. E con la mia dura esperienza di ro- manziere, invidiavo i fortunati commediografi che riesco- no a produrre lavori popolari e anche altamente apprezza- ti nei quali i personaggi sono fantocci senz'anima o cari- cature, il linguaggio pomposo, la trama una successione di epigrammi dozzinali di circostanza noti come «situa- zioni)). Se mi fosse concesso di fabbricare un romanzo con questi soli ingredienti, mi rallegrerei con me stesso per essermela cavata eccezionalmente a buon mercato.

Ciò che rende possibile al drammaturgo mettere così poco nei suoi lavori e tuttavia cavarsela con successo è, naturalmente, l'intervento degli interpreti. Se conosce il trucco - e lo si impara con la pratica - il drammaturgo può scaricare sull'attore gran parte delle sue responsabili- tà. L'unica cosa che deve fare, se è un pigro, è inventare situazioni brillanti e lasciare agli attori il compito di rica- varne il meglio. Lo studio dei personaggi, la fedeltà alla vita, le idee, la scrittura decorosa e il resto, tutte queste co- se può lasciarle agli scrittori per i loro libri, con la confor- tante certezza che il pubblico sarà troppo preso dalle acro- bazie degli attori per notare l'assenza di quelle quisquilie puramente letterarie.

Sono gli interpreti, naturalmente, che riconciliano un pubblico per altri versi esigente con la robaccia che riesce ad arrivare sul palcoscenico. È solo per merito degli attori che gli occupanti delle poltrone, i quali potrebbero legge- re, vicino ai loro caminetti, per esempio Wells o Conrad o D.H. Lawrence, o addirittura Dostoievskij, si rassegnano volentieri all'equivalente teatrale del romanzetto e della storia a puntate di un rotocalco; per merito degli attori, vivi e sorridenti, del tocco personale, della palpitante nota umana.

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Se la recitazione fosse sempre di prim'ordine, potrei capire che si diventasse incalliti frequentatori di prime teatrali - o si dovrebbe forse dire «rammolliti » poiché il teatro contemporaneo è più rilassante che tonico, più emolliente che rinvigorente? - diciamo dunque rammol- liti frequentatori di prime teatrali. Una bella prova di re- citazione merita di essere vista come una bella esecuzione in qualsiasi altro campo artistico.

Ma i buoni attori sono altrettanto rari quanto i buoni pittori e i buoni scrittori. Di ottimi non ne appaiono piu di due o tre per ogni generazione. Ne ho visto qualcuno. I1 vecchio Guitry, per esempio. E Marie Lloyd, la meravi- gliosa, intensa, shakespeariana Marie, morta ahimè trop- po presto; car elle était du monde où les plus belles choses on t le pire destin. E Little Tich. E Raquel Meller, straor- dinaria sia come dicitrice che come attrice di cinema, la più perfetta e più nobile interprete della passione che io abbia mai visto; une âme bien née se mai ve ne furono. E Charlie Chaplin. Tutti uomini e donne di genio.

Interpretazioni perfette come le loro meritano certo di essere viste. E c'è un gran numero di talenti minori tut- t'altro che disprezzabili. Sono altrettanto disposto a pa- gare per vedere questi attori recitare delle sciocchezze quanto a pagare per assistere a una buona commedia mal recitata (ed è straordinario come una commedia vera- mente buona sia a prova di attori). Ma che si debba paga- re per vedere un pezzo di recitazione scadente, o magari abile ma completamente senz'anima, unitamente a una brutta commedia - questo supera davvero le mie capaci- ta di comprensione.

Gli incalliti - chiedo scusa - rammolliti frequentato- ri di prime teatrali ai quali ho posto la domanda non mi hanno mai saputo dare risposte soddisfacenti. Posso sol-

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tanto supporre che questo fedele delle «prime» sia nato con la passione per il teatro; che lo ami comunque, per se stesso, ciecamente (perché l'amore è cieco), senza giudi- carlo. Paga il suo biglietto al botteghino, lascia il suo sen- so critico al guardaroba insieme al soprabito, al cappello e al bastone, e si mette in poltrona, sicuro di divertirsi qualunque cosa succeda sul palcoscenico. L'aria soffo- cante e la folla, il momento di silenzio e di attesa nell'o- scurità, poi l'apocalittico levarsi del sipario, lo scintillio delle luci, l'irrealtà colorata - tutte queste cose sono in sé sufficienti a farlo felice. Non chiede di più. Lo invidio per la sua facilità ad accontentarsi.