Lungo i vicoli di Perasanta

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Giuseppe De Nittis, mainstream Nel paese di Perasanta lo scorrere del tempo si è arrestato il giorno in cui le sabbie hanno sommerso il suo naturale sbocco al mare. Da allora i suoi abitanti conservano immutate abitudini e mentalità, con tutto ciò che questo comporta di positivo e di negativo. Sullo sfondo di questo paese immaginario - distante da tutto e perso nel tempo - coesistono i rappresentanti di una minuscola società discreta: un ereditiere oramai anziano; la sua domestica anch’essa vicina alla terza età; il figlio illegittimo della stessa; un imprenditore edile in disgrazia e molti altri personaggi minori utili tuttavia per conferire una precisa personalità all’abitato. Le cose cambieranno un mattino di primavera, quando un vagabondo deciderà di accamparsi in prossimità del paese. È lui il motore di questa storia. La sua sola presenza sarà all’origine di una serie di sospetti e suggestioni sufficienti a dare al volano dell’esistenza la spinta necessaria per ripartire...

Transcript of Lungo i vicoli di Perasanta

In uscita il 25/11/2014 (15,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2014 e inizio gennaio

2015 (4,99 euro)

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GIUSEPPE DE NITTIS

LUNGO I VICOLI DI PERASANTA

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LUNGO I VICOLI DI PERASANTA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-813-8 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

a Laura

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Prologo Ma come ha fatto? Per decenni è stata questa la domanda più frequente a Perasanta, formu-lata innumerevoli volte da ciascuno degli ottocentoventi abitanti del pa-ese. Come ha fatto l’anima bella della signora Marta a resistere mezzo seco-lo a servizio di quell’insopportabile Professore? Basta uno sguardo per intuirne il carattere: sempre impettito nelle sue giacche demodé, con quello sguardo di disapprovazione e i movimenti misurati, in qualunque situazione in ostentazione di se stesso, incapace di abbandonarsi a un vezzo, a un indizio di debolezza o a un cenno di cordialità. Alto, magro, pallido. Assomiglia a un beccamorto e se apre bocca non lo fa mai con il proposito di esprimere un parere bensì per sentenziare; con un’incongrua vocina petulante e autoritaria. Sì, indiscutibilmente un essere odioso. Dunque, come ha potuto Donna Marta (in tal modo lui la qualificò, con un titolo nobiliare nato per burla quand’era ancora bambina e divenuto nel tempo abituale) sopportarlo per così tanti anni? E quando dico mezzo secolo non è mica un’esagerazione in quanto Marta nacque in quella splendida dimora ottocentesca esattamente cin-quant’anni, due mesi e ventidue giorni fa, e lì ha dormito tutte le notti della sua esistenza, nessuna esclusa, nello stesso letto, beatamente. Il padre e la madre erano a servizio dei genitori del Professore da una decina d’anni quando lei venne al mondo; i quattro trascorsero insieme l’ultima parte della loro vita confondendo, a un dato momento, l’affetto con i ruoli. Poi, come natura vuole, per un motivo o per un altro, uno alla volta se ne sono andati; lei ha ereditato il ruolo della domestica e lui quello del padrone. La vita, in effetti, è semplice. Per questa sua dedizione molti in paese hanno maturato la non del tutto segreta convinzione che Marta, per un verso tanto cara, per altro verso non debba essere granché intelligente: «è priva di fantasia; è incapace

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di immaginarsi una vita diversa; è una meschinella!». Questo dicono di lei le altre donne anche se, in fondo, con affetto. Ma basta per giustificare un simile sacrificio? No? Ma allora per quale altro motivo sarebbe rimasta tutti quegli anni a ser-vizio di quell’uomo! Perché? E questa, per altrettanti anni, è stata l’altra domanda ricorrente nel pae-se: «perché!». E poiché Perasanta è un paese affatto diverso da tutti gli altri paesi della terra, a domanda doveva necessariamente seguire rispo-sta e questa, puntualmente, fu data. Ancora oggi la si può incontrare mentre ciondola per i vicoli del paese o sorprendere a parlottare con le bottegaie o, ancora, seduta al bar in compagnia degli amici. La risposta a questo perché ha un nome: si chiama Paolo, ma tutti a Pe-rasanta lo chiamano Paolino per via del suo carattere mite e gioviale. È alto un metro e novantun centimetri ed è piuttosto in sovrappeso; fanno quasi cento dieci chili di buon umore e indolenza e rappresenta la prova certa dell’unico peccato commesso da Marta non già più in giovane età. Proprio vero. Lei, che mai aveva concesso minimo appiglio al pettego-lezzo, «bella forza. Ci riesce perché è una persona bella, ma solo den-tro. A guardarla invece: con quel viso buffo e le gambotte corte…», si divertivano a bisbigliare tra loro le altre donne; ebbene proprio lei, di-cevamo, da un giorno all’altro divenne l’unico argomento di conversa-zione del paese non fosse altro, ma altro c’era, per il mistero che avvol-se il fatto, in quanto con chi e dove potesse essere stato commesso l’atto fu un rovello che appassionò l’intera popolazione di Perasanta per moltissimi anni e sul quale i suoi genitori in particolare consumarono tutti i loro pensieri fino all’ultimo giorno di vita, guastandoli. Tanta fu la pena eppure mai un cenno di confessione uscì dalle sue lab-bra. E allora furono i paesani, fin dal primo accenno di pancino, ad as-segnare d’ufficio un padre al nascituro e una risposta alla futura do-manda: “come ha potuto quella donna resistere cinquant’anni insieme a quell’uomo orribile?”, decretando una sordida relazione tra i due; lui più anziano di lei di ben ventiquattro anni e già suo padrone. Ma questa fu una cattiveria bella e buona! Una menzogna. E allora voglio riparare io a tanta meschinità e subito. Ebbene: Marta non è così priva di fantasia da non potersi immaginare un’esistenza più gradevole né, tantomeno, quei due hanno mai vissuto una qualsiasi relazione.

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Semplicemente lei gli ha sempre voluto bene come a un fratello mag-giore, per vicinanza di nascita, e per questo motivo lo ha accolto come un dono del Signore benché lui mai, in vita sua, le avesse concesso un gesto affettuoso o un atteggiamento men che da padrone. Ebbene sì. Per quanto possa sembrare incredibile lei gli ha sempre do-nato affetto perdonandogli, al tempo stesso, tutta la malignità e l’acredine che riversa sul mondo, e su lei in particolare, in quanto ne comprese fin da principio l’origine: l’infelicità. Perciò, se il Professore è infelice, e posso assicurarlo, lei deve aiutarlo, stargli vicino, trasmet-tergli calore, sebbene tante volte lui si sia reso insopportabile o l’abbia ferita o addirittura umiliata. Tutto questo non le è mai importato. Lei deve amarlo perché lui soffre. Punto! E se adesso, caro lettore, ti ritrovi a pensare che questa non possa essere una spiegazione verosimile in quanto nessuno sacrifica la propria esi-stenza per amore di qualcun altro, tra l’altro un egoista borioso che non merita alcuna comprensione, allora è forse giunto il momento di farti un piccolo esame di coscienza; perché è proprio per cose come questa che vengono considerate ‘anime belle’.

*** Sia detto per inciso: nemmeno io sono mai arrivato a capire chi possa essere il padre di Paolino.

--- prima parte ---

Sospetti e suggestioni

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Capitolo -1-

Il vecchio Professore, per l’ennesima volta, aveva passato la gran parte del tempo a rigirarsi tra le lenzuola. A quanto gli era dato ricordare erano oramai decenni che, in piena not-te, gli accadeva di aprire improvvisamente gli occhi e restare perfetta-mente vigile per quel che a lui sembrava un’infinità di tempo. Eppure, nonostante avesse a lungo rimuginato su tale questione, non era ancora riuscito a dare una spiegazione a questa puntualissima seccatura. Ogni volta che ciò accadeva, cioè tutte le notti nessuna esclusa, per sfi-duciata abitudine si sistemava nella sua posizione propiziatoria, quindi adagiava il torace sul materasso, abbracciava il cuscino, divaricava leg-germente le gambe e, fintanto che ci riusciva, teneva cocciutamente gli occhi serrati… ma non c’era nulla da fare. In quelle ore disgraziate l’anelato oblio gli restava inaccessibile e que-sto era dovuto al fatto che, a dispetto dell’immobilità del corpo, la men-te si intestardiva a macinare pensieri su pensieri, tutti ugualmente tetri. Durante quelle interminabili veglie aveva finito con il maturare la sen-sazione che tutto il suo sapere - la sua vera ricchezza faticosamente ac-cumulata in tanti anni di studio - rappresentava al tempo stesso la sua croce; una creatura ingrata sempre pronta a rivoltarglisi contro. In quei momenti gli accadeva di provare invidia per quelle menti mode-ste che nelle ore diurne disprezzava ma che, proprio grazie alla loro semplicità, certamente riuscivano senza sforzo nel naturale compito di concedersi alla stanchezza. Non era per questo motivo se tanto serenamente Donna Marta ogni not-te dormiva? E non era la sua una mente semplice? Immerso nel buio mille e più volte volentieri avrebbe scambiato la sua brillante intelligenza con quella risibile dell’ultimo dei suoi ex allievi. «Ideo quasi de somno suscitatus sum et vidi et somnus meus dulcis mih» recitò a bassa voce il Professore. «A questo punto mi sono sve-gliato e ho guardato; il mio sonno mi parve soave. Una frase che mi calza come un guanto!».

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Anche quella notte la forzata immobilità era durata poco tempo. Presto la sua natura ansiosa aveva avuto il sopravvento e l’inquietudine lo a-veva spinto a rigirarsi più e più volte tra le lenzuola, borbottando im-properi e inducendolo a piccoli scatti di frustrazione finché l’alba non era sopraggiunta insinuandosi tra le persiane chiuse. In passato, più di qualche volta, l’aurora gli aveva concesso un poco di serenità e ancora qualche minuto di sonno, ma allora era stato il rumore dabbasso, provocato delle faccende domestiche di Donna Marta, a ride-starlo definitivamente. Pochi preziosi scatti di lancetta insufficienti ep-pur bramati e, purtroppo, quella mattina non concessi. Snervato, il Professore decise quindi di alzarsi dal letto, pur sentendosi infinitamente più stanco di quanto non fosse stato la sera prima, per re-carsi con urgenza in bagno a espletare le sue, sempre più frequenti, minzioni. Con gli occhi socchiusi e più di una lacrima, stillò qualche goccia di li-quido incandescente quindi, dopo essersi sciacquato il volto, tornò nella sua camera e si predispose al quotidiano esercizio fisico. Nella mente del Professore tutto era rigore e prova di forza morale, ogni atto rappresentava una dimostrazione, a se stesso e agli altri, e la ginna-stica mattutina non faceva eccezione. Odiava quegli esercizi ai quali si sottoponeva a ogni risveglio, gli co-stavano fatica e dolore, soprattutto quelli che coinvolgevano gli arti in-feriori. Le gambe... Dio, le gambe. Quanto gli dolevano! Quei medici buoni a nulla non erano riusciti a trovare una causa né tan-tomeno una cura, eppure un qualche male sconosciuto lo stava certa-mente consumando dall’interno. Sì, qualcosa stritolava i muscoli delle sue povere gambe come fossero serrate in una morsa, e questo male an-dava aggravandosi. Ogni giorno si sentiva un poco peggio, ogni giorno un qualche demone si abbandonava al gusto sadico di dare alla macchi-na torturatrice un altro giro di vite. Ben quattro ne aveva chiamati a consulto. Dolore psicosomatico avevano sentenziato uno dopo l’altro alla fine di ogni visita, pescando dal cilindro un termine pseudoscientifico da sosti-tuire alla parola ignoro, che chissà quanta gente finiva col morire senza aver dato un nome alle proprie sofferenze. In ogni caso, qualsiasi cosa gli stesse capitando, il Professore non era tipo da lasciarsi scoraggiare. Magari negli anni poteva aver diminuito il

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numero dei piegamenti o l’estensione dei movimenti, “in fondo i pros-simi sono settantacinque, non sei più un giovincello” si diceva ramma-ricandosi, tuttavia i suoi esercizi li faceva ogni giorno e anche quella mattina li avrebbe assolti. Per questo, come da abitudine, spalancò i ve-tri e le persiane dell’ampia finestra della camera da letto permettendo all’ossigeno e alla fresca brezza marina di irrompere nella stanza, che poco distante era il mare, e insieme alla brezza la soffice luce delle sei e quarantacinque di un limpido mattino di fine marzo. Che spettacolo. La primavera vibrava nel parco della grande casa. Il Professore avvertì distrattamente un incantevole odore: un misto di ma-re, di terra tiepida e di rugiada e si accorse appena di molte piante in-torno già in germoglio. Gli uccelli, quegli stupidi, facevano un baccano d’inferno felici che an-che quel giorno il sole si fosse sollevato sull’orizzonte. Al di sopra dell’abitazione il cielo era quasi del tutto nascosto dalle fronde dei platani secolari e lo sguardo ne restava come imprigionato. Tuttavia in fondo al parco, al di là del muro di cinta della proprietà e delle siepi di lavanda e gelsomino, rimaneva abbastanza spazio per po-ter ammirare una splendida campagna di pianura coltivata ad alberi da frutto e ne restava ancora dell’altro perché la vista potesse finalmente librarsi in un tratto di cielo aperto. Di tutto questo splendore il Professore già da decenni non si accorgeva più e se qualcuno gli avesse chiesto cosa egli vedesse dalla sua camera da letto con tutta probabilità avrebbe risposto: nulla. Sistematosi di fronte alla finestra per meglio ossigenare i polmoni, ben piantato sulle sue gambette magre e contenuto all’interno dei suoi mu-tandoni azzurri e alla canottiera bianca, prese coraggio e si concentrò sulla fatica che stava per affrontare, quindi sciolse un poco le spalle e il collo, respirò a fondo, mise le mani sui fianchi infine, attento a mante-nere i piedi paralleli e a non sollevare i talloni da terra, cominciò a pie-garsi sulle ginocchia: «E uno, mmm». «E due, mmm». L’obiettivo era sempre lo stesso, arrivare a quaranta piegamenti, e vo-glio proprio vedere in quanti sarete in grado di farlo a settantaquattro anni suonati. Con quel dolore alle gambe poi. «E cinque, oooh». «E sei, aaahg».

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«E…». E il Professore si bloccò sul piegamento numero sette, senza quasi ac-corgersene, in quanto si incantò a osservare una scena inconsueta: ridi-cola e tragica al tempo stesso. Sullo stradino che collega Portosecco con Perasanta e arriva fin quasi al muro di cinta della proprietà per poi sterzare a gomito e correre paralle-lo allo stesso muro al di là del piccolo corso d’acqua a nome Auro, ap-parve un carretto spinto a braccia, di quelli che non se ne vedono più da almeno vent’anni, talmente strabordante di miserie legate alla meno peggio da nascondere alla vista l’uomo che dietro di esso doveva neces-sariamente trovarsi. A occhio e croce saranno stati due metri e mezzo di cianfrusaglie che a ogni avvallamento del terreno si inclinavano perico-losamente da una parte e dall’altra rischiando ogni volta di rovesciare a terra carico e carretto. Una malinconica carnevalata nondimeno “l’uomo capace di smuovere un simile peso su un sentiero sconnesso come quello deve essere incre-dibilmente forte: una specie di Maciste” pensò il Professore. Perciò, ancora più incuriosito, attese immobile che questi svoltasse la curva e finisse col trovarsi di profilo, finalmente visibile, e mentre aspettava pensò ancora che Portosecco, paese abbandonato oramai da cinque an-ni, distava quasi quindici chilometri e che lì il sentiero terminava e ave-va inizio il mare. Dunque: o quell’uomo era approdato dal mare, ma non sembrava questa un’ipotesi verosimile, oppure doveva necessariamente essere già passa-to in precedenza da Perasanta senza essere scorto da nessuno, che al-trimenti Donna Marta l’avrebbe saputo e, di conseguenza, anche lui ne sarebbe stato informato; ma com’era possibile che nessuno in paese si fosse accorto della grottesca parata di quel circo miserabile? Inoltre, per giungere in paese a quell’ora del mattino, doveva aver camminato almeno il tempo di una notte intera spingendo avanti a sé quell’enorme trabiccolo. Al buio... Un’impresa impossibile! Al Professore non piacevano gli enigmi senza risposta e aggrottò le so-pracciglia infastidito. Quando il carretto terminò la curva e venne a trovarsi di profilo fu fi-nalmente in grado di scorgere un omino poco più alto delle stanghe e paffutello, curvo per lo sforzo, vestito con un vecchio giaccone blu da

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marinaio e un berrettaccio di lana color verde muffa, calzato fin sulle sopracciglia. Quello proseguì ancora per qualche metro, infine si sedette a riposare su una grossa pietra in uno spiazzo che si trovava a metà tra il sentiero e il fiume; proprio di fronte alla finestra del Professore.

*** «Adesso me lo spieghi il motivo di questa levataccia?» domandò Paoli-no strascicando le parole prima di infilarsi in bocca un grosso pezzo di pane inzuppato nel latte caldo. Seduto al tavolo della cucina aveva la faccia stropicciata: esattamente quella che hanno tutti i giovani quando vengono buttati giù dal letto al mattino presto, controvoglia. «Ma certo, core mio, mò t’o spiego. Pecché chesta matina aia’ì a’ faticà (trad.: devi andare a lavorare) a’ bottega. Da Geremia. M’ha promisso ca’ t’impara o mistiere. Ca’o’ signore o’ benedica!» rispose Marta amo-revolmente, senza tuttavia tralasciare una lieve sfumatura di rimprovero nella voce. La donna conservava una forte intonazione napoletana; se l’era imposta quale suo preciso dovere, dal momento che senza tale determinazione, forse, nel tempo un poco l’avrebbe persa. Pur non essendo mai stata a Napoli aveva ereditato la lingua dai suoi genitori, loro sì Napoletani Veri e, rievocandola, riteneva di meglio o-norarne la memoria. “E poi, o’ napulitano, è a’ lingua dell’ammore” questo pure pensava Marta. «Da Geremia?» domandò Paolino dubbioso. «Eh!» annuì la donna. Il ragazzo piegò in basso gli angoli della bocca mostrando i palmi delle mani. «E tu solo adesso me lo dici? Mi svegli in questo modo, all’alba, e mi butti a lavorare? Ma che maniere sono queste?» protestò. «E’ chi t’ha vist’a’ tè ajer? (trad.: ieri?) Cumm’ facev a’ dditelo? A proposito, addò si stato tutt’o’ juorno? (trad.: dove sei stato tutto il giorno?)». Paolino si grattò la nuca. «Ma… Geremia il falegname?» domandò glissando la domanda della madre. La donna interruppe le faccende per voltarsi a fissare il figlio con un sorriso torvo. «Sìne. Geremia. O’ Falegame. Propeto da isso! Pecché, nun va buono?».

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«Ma... Sì! Insomma… Cioè, scusa mamma. Ma hai provato a contare quante dita gli sono rimaste a Geremia?». «None; nun l’agge cuntate e’ ddeta (trad.: dita) a Geremia, pecché: è nù problema pè tè quante’ddeta tene isso?». «No. È che non vorrei trovarmi tra qualche anno con due chele al posto delle mani» e fece il gesto di provare ad afferrare le posate con due sole dita a dimostrazione di quanto poco pratico, in effetti, sarebbe. «Ah ecco. Aie paura ca’ Geremia t’attacca chellu male ca’ fa cadè e’ ddeta?». «Ma che dici, mamma. È che quello è un mestiere pericoloso! Non lo sai che prima o poi tutti i falegnami finiscono per perdere qualche dito? Dico, ti sembra il modo giusto di guadagnarsi il pane quello? Io alle mie dita ci tengo. Mica storie. A tutte e dieci!» e afferrò il cucchiaio per ripescare, da dentro la tazza, un tocco di pane staccatosi dal pezzo che teneva in mano in quanto, dimenticato per distrazione, si era troppo in-fradiciato e aveva ceduto alla gravità. «E tu nun pensà ‘e fesserie quanno fatichi. Te stai attiento a chello che fai e puorti a casa ‘e ddeta». «A mà. Ma ti sembra che Geremia dopo aver perso il primo dito nun si sia messo paura? Ma pure se stai attento lo stesso capita. Quelle sono e’ macchine a essere pericolose!» si era messo allora a piagnucolare Pao-lino al quale pure, quando si agitava, scappava qualche accenno di na-poletano nonostante l’impegno profuso, chissà per quale fissazione, per evitare strascichi ereditari di quella nobile parlata. «E va buono. Cà te credi, che nun o’ sapèvo? E chella fatica è pè bestie, da quell’altro ce sta n’addore ca’ fa venì o’ voltastomàco, chisti mò se perdono e’ ddeta. Guagliò, (trad.: ragazzo) te fussi mise’ncapa (trad.: non ti sarai messo in testa) che te ne stevi tutt’a vita in vacanza? E’ mò basta! Te staje zitto, te bevì o’ latte, te vesti e te ne vai a faticà. ‘E capi-to mò?». E a significare che il capitolo era definitivamente chiuso, gli voltò la schiena e ricominciò a occuparsi delle sue faccende. Paolino, in silenzio, a testa bassa, riprese a mangiare. «E lievete chilli pili da’ faccia (trad.: togliti quei peli dalla faccia): sò viecchi e duje juorni. Si te vede o’ Professore!». «Ma che c’entra adesso il Professore con la mia barba?». «O’ssaje che isso ne fa nà questione e’ rispetto. E fallo sta’ sereno. Ma a tè che te costa?».

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«Non mi costa niente ma non capisco che c’entra questa cosa con il ri-spetto. Io a quello l’ho sempre rispettato, vero o no? Vuole che gli sia dato del Voi, è incredibile a pensare dato che siamo quasi nel duemi-la… e io gli do del Voi. Contraddirlo, non l’ho mai contraddetto. Ri-spostacce: non sia mai. Quello che mi chiede faccio. E allora quando mai gli avrei mancato di rispetto, io, al Professore?». E a quel punto Paolino si mise a roteare la mano in aria a sottolineare, con ancor più efficacia della sola intonazione della voce, quanto in cuor suo ritenesse quell’uomo insopportabilmente spocchioso. Marta si voltò di nuovo verso il figlio, con gli occhi talmente pieni di delusione che al ragazzo si girò il cuore. «Mò!» disse. «Tesoro mio, tu manco te ne accuorge. Mò, per esempio, gli e’ mancato e’ rispetto».

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Capitolo -2-

“I vagabondi sono tutti pazzi: sudici, pericolosi, e pazzi!”. Questo pensava il Professore mentre osservava l’uomo del carretto e il Professore non dubitava mai delle proprie convinzioni anche se, essen-do uomo di pensiero, sapeva che la realtà è mutevole, cioè cambia a se-conda dell’angolazione dalla quale la si osserva, e sapeva che i punti di osservazione sono teoricamente infiniti e che tutto ciò si traduce nell’apparente impossibilità dell’esistenza di una verità assoluta. Nondimeno sapeva anche che tutto questo vale per le menti semplici, destinate a confondersi al solo mostrargli il rovescio di una questione, e non per le menti elevate; queste infatti sono in grado di condensare l’infinito e di restituire ordine al caos, anzi, tanto più minuti sono i frammenti di realtà a disposizione tanto più nitida e precisa sarà l’immagine ultima ricomposta. In pratica equivale alla capacità di un artista di creare un mosaico. Più minute sono le tessere utilizzate più completo di dettagli sarà il risultato ultimo dell’opera. Ma questo è vero se sei un artista, se non lo sei te ne resterai immobile a osservare il tuo mucchio di tessere colorate senza mai arrivare a in-tuirne un possibile utilizzo. Ecco: da quel punto di vista, neanche a dirlo, il Professore si considera-va un grande mosaicista. Era convinto di aver così abilmente allenato la mente al ragionamento scomposto da aver acquisito oramai una specie di pilota automatico e, perciò, che ogni sua opinione fosse il risultato istantaneo di una complessa analisi inconscia; aveva cioè la presunzio-ne di compiere articolate elaborazioni mentali senza nemmeno più ac-corgersene. Certamente non escludeva la possibilità che un comune sempliciotto, che questo era ritenuto dal Professore il peggiore degli epiteti, potesse giungere fortuitamente alle stesse conclusioni alle quale approda infine una mente elevata dopo complicati giri di pensiero; ma questi sarebbero

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comunque casi involontari. Il genio resta pur sempre un genio e il sem-pliciotto un sempliciotto però fortunato. Ma ti prego di scusarmi la divagazione; dov’eravamo arrivati? Ah già: “i vagabondi sono tutti pazzi: sudici, pericolosi, e pazzi!”, pensava il Professore. Tuttavia questo vagabondo in particolare, a osservarlo da quella distanza, non sembrava del tutto privo di senno. Qualche minuto prima, nemmeno fosse stato un abile prestigiatore, sen-za spostare o slegare o strattonare, aveva estratto da quell’assurdo cari-co un fornelletto da campeggio, un pentolino e alcuni sacchetti conte-nenti un qualcosa di commestibile e si era messo a cucinare. Sembrava tranquillo, i movimenti precisi e composti restituivano al Professore un idea di equilibrio e quasi di serenità… però pazzo doveva esserlo per trovarsi in quella condizione di vita e quindi anche sudicio e anche pericoloso, tanto più pericoloso in quanto capace di nascondere agli altri la sua follia. E sereno poi non poteva affatto esserlo. Se perfino lui, il Professore, era inquieto - con tutto il suo sapere, la sua eredità morale, la sua dignità, la rispettabilità, lo status sociale e anche, perché no, la sua posizione economica, i possedimenti, insomma tutto ciò che egli era e aveva e rappresentava - figuriamoci quel misero esse-re privo di un tetto sulla testa e di un pasto certo. A meno che non fosse pazzo; perché se uno è pazzo può sentirsi sereno perfino in bocca a un coccodrillo. Il pazzo non sa dare una spiegazione a ciò che accade né tantomeno riconosce i propri istinti. Per questo è pazzo. Perciò, se quell’essere buttato in mezzo alla strada fosse stato realmente sereno, ebbene: proprio quella sarebbe stata la prova certa della sua fol-lia.

*** Terminato che ebbe il suo pasto l’uomo raccolse i resti, mise tutto in un sacchetto e si incamminò. Una trentina di metri più avanti la strada bi-forcava a destra in direzione del ponte il quale, superato il corso d’acqua, portava all’interno del paese mentre a sinistra conduceva al camposanto. Sull’incrocio era stato posizionato un cestino. L’uomo vi introdusse il suo sacchetto con i resti del pasto quindi tornò indietro, scese all’acqua,

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risciacquò con cura il pentolino, si lavò mani e denti infine, tornato sull’argine, infilò nuovamente ogni cosa con destrezza all’interno del carico. In ultimo si fece il segno della croce e si coricò su una stuoia, a riposa-re. Il Professore provò un forte senso di fastidio verso quel miserabile esse-re insolente che osava contraddire il suo pensiero.

*** Quando il Professore entrò in cucina non si avvide della barba lunga di Paolino né degli occhi tristi di Donna Marta. Salutò entrambi con di-staccata cortesia e si diresse distrattamente alla finestra anch’essa rivol-ta in direzione del fiume Auro così come lo era quella della sua camera da letto al piano superiore. «Buongiorno Professore» risposero quasi all’unisono madre e figlio. «Avete dormito bene stanotte?» aggiunse lei premurosa. Al Professore, per rispetto, Marta usava il riguardo di limitare al solo accento la parlata napoletana, tuttavia, nonostante l’attenzione, qualche termine un poco più verace ogni tanto comunque le sfuggiva. «Mmm» annuì il Professore fissando il parco oltre la finestra. «E le gambe? Come vanno le gambe? Le fanno male stamattina?». «Mmm» mugugnò di nuovo il Professore il quale, assorto com’era in tutt’altri pensieri, non si curava di dare ascolto alle domande di Donna Marta né di nasconderle il proprio disinteresse. «Ha visto che jurnata meravigliosa? L’aria è fina fina e la temperatura è nà carèzza. Proprio bella assaie. Oggi è veramente arrivata a’ primma-vera…». «Mmm» solo questo si degnava di rispondere il Professore alle gentili parole della donna. “Ma tu guarda che razza di modi” pensò Paolino ruotando gli occhi al cielo, ma subito fece spallucce e si infilò in bocca un altro pezzo di pa-ne zuppo. «Mò, con le jurnate che si mettono al bello vi passeranno pure i dulori e’ ggambe. ‘O sole guarisce a’ tutti i mali…». «Non si vede. Da quaggiù non si vede» disse il Professore scuotendo la testa disorientando gli altri due per l’assenza di consequenzialità nel di-

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alogo. Poi senza concedere tempo a eventuali domande si rivolse al ra-gazzo: «ascoltatemi con attenzione Paolo, oggi…». «Dite a me, Professore, dite a me!» si intromise Marta. «Il mio Paolo stamane non è disponibile. Mio figlio oggi va’ a faticà» proferì con ma-nifesto orgoglio di mamma. «A lavorare?» chiese il Professore recitando un ironico stupore, «E do-ve?» «Da Geremia. Il falegname» rispose Paolino con il tono di un uomo che da pochi minuti è venuto a conoscenza della propria condanna. Il Professore tentennò il capo. «Bene» esclamò, «era ora! Però state attento che non avete manualità e una persona maldestra come voi in un laboratorio di quel tipo rischia di farsi male». Al Professore non sempre riusciva di comprendere quel singolare gio-vane. Ora, per esempio, non gli aveva esplicitamente dato dell’inetto? E allora come mai questi aveva accolto la frase con tanto entusiasmo da voltarsi a guardare la madre visibilmente soddisfatto? Il vecchio non credeva tanto nelle incomprensioni quanto nella stupidità e questa, quando manifesta, lo seccava. «Non dar retta» sdrammatizzò Marta rivolta al figlio, «il Professore sta scherzando. Non è vero Professò?». «Re!» corresse il Professore. «Come? Non ho capito bene. Re? Mo è così che vi devo chiamare? Scusate se ve lo dico però ’sta novità un poco mi preoccupa…». Il Professore chiuse gli occhi e sospirò rassegnato, abbassò il capo e si portò una mano alla fronte in apparenza per un attacco di emicrania. «Professore, non Professò. ProfessoRE! Per piacere, Donna Marta, già ve l’ho detto altre volte». «Uuh, avite raggione, ma che ci volete fare, quelli siamo noi Napoletani che, per affettuosità, ci prendiamo e’ confidenze. Scusate. Scusate tanto Professore». «E non è bene prendersi certe confidenze. E neanche quando dite noi Napoletani va bene. Non è quello il modo giusto di esprimersi in quan-to voi, Donna Marta, a Napoli né ci siete nata né tantomeno ci siete mai stata; nemmeno per una gita in giornata, a quanto mi risulta». «Sì sì, c’avite raggione pure mò, Professore. Però, scusate se vi correg-go, essere Napoletani non è una cosa di luogo ma di cuore… beh la-

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sciamo stare. Io non sono brava cumm’ a’ vvuie a esprimere certi pen-sieri complicati». «La prego Donna Marta, continuate, mi interessa» la sollecitò il Profes-sore il quale sempre si divertiva ad assistere a certe difficoltà. «E va buono, se ci tenete, mò tento di spiegare. La napoletanità non è che uno è nato là. La napoletanità, come dire, è un modo di sentire, ee-eh… non saprei spiegare bene... eeeehm». Il vecchio la fissava immobile mantenendo teatralmente una maschera imperturbabile. «Ecco, pe fa’ n‘esempio… no niente, niente…». «Ma come niente, Donna Marta, sono sicuro che un pensiero vi sia pas-sato per la mente: vi invito a esporcelo, ve lo chiedo per piacere». «Vabbuò, Come comandate; me so’ venuti in mente i girasoli!». «I girasoli donna Marta? E cosa c’entrano i girasoli?». «Cioè, è come per i girasoli, che quelli mica ce li hanno gli occhi; giu-sto? Però lo sanno sempre dove addò sta o’ sole, è vero o no? Pure se piove!». Il Professore abbozzò un’esitante concessione. «Mi cogliete impreparato sull’argomento, non ho mai fatto caso a que-sta cosa dei girasoli; onestamente non ci giurerei e, ci scommetto, nemmeno voi lo fareste. Però accetto la metafora. E quindi?». «Come: “quindi”. Nun è chiaro? Cioè, napoletanità significa sapè addò guardà. Significa mettere tutt’e ccose al posto giusto, ‘ncoppa a tutto l’ammore. Sempre! E riconoscere addò stà o’ bbene e addo’ si nascon-de o’ mmale. Fare ‘u pizzo a risu (trad.: sorridere) n’faccia ai torti e tirare innanzi senza lasciarsi amareggiare o’ core… See, ma vuje v’arridete sott’e’ baffi, vi veco, me state a sfruculià (trad.: prendere in giro). Ma sì, c’avite raggione. Ve l’avevo detto. Io non le so spiegare certe cose». «Ma non è vero Donna Marta, non mi permetterei mai di ridere di voi» mentì il Professore. «È che a sentire le vostre parole questa napoletanità sembrerebbe proprio una bella filosofia. Stando a ciò che dite la città di Napoli dovrebbe essere un paradiso in terra eppure non si direbbe; al-meno, non a giudicare da ciò che si legge sui giornali». «Ma ve l’ho detto. La napoletanità è n‘ata cosa. La Napoletanetà è nu’ virus che uno se lo piglia e manco sape comme e nun guarisce cchiù. Purtroppo proprio a Napoli molta gente ss’è fatta gli anticorpi e chistu virus su ‘lloro non attacca cchiù. I camorristi, i corrotti; chella brutta

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razza che se ne fotte da’ povera gente. Huu, Gesù mio che ho detto. Scusate la brutta parola Professore» trasalì la donna portandosi una ma-no davanti alla bocca. Ma il Professore, una volta tanto, non si sdegnò e, anzi, si concesse una contenuta risata. «Ma cosa intendete dire con ciò Donna Marta? Così mi spaventate. Mi state per caso avvisando che anche io, un domani, potrei prendermi la napoletanetà senza nemmeno rendermene conto?». E lì per lì anche Marta si accompagnò al riso felice di aver divertito, sia pure involontariamente, il Professore, così poco avvezzo alle esterna-zioni. «Vulesse o’ cielo Professore. Purtroppo, come vi ho detto, la napoleta-nità è nu’ virus, bisogna esserci predisposti, e temo che vuje non o’ sia-te manco nu’ poco». «E lavorare?» la provocò il vecchio per puro dispetto, «nell’evolversi di questa affezione è prevista l’ipotesi di poter impiegare un po’ del pro-prio tempo lavorando?». Donna Marta scosse la testa a occhi bassi a significare quanta poca con-siderazione concedeva a una simile meschinità. Il Professore fece allora cenno con il pollice indicando alle sue spalle: «Sapete chi credo si sia gravemente ammalato? Ho paura che questo di napoletanità ci possa perfino morire». Paolino, improvvisamente chiamato in causa, ebbe un sussulto, fece le mani a conchiglietta e guardò la madre chiedendole con gli occhi cosa diavolo volesse sempre da lui ’sto cavolo di Professore, infine, scara-manticamente, scongiurò le previsioni di morte facendo le corna con entrambe le mani, approfittando del fatto che aveva ancora tutte le dita al loro posto. «Bene; basta così. Potete servire la colazione in sala da pranzo, Donna Marta!» dispose il Professore tornando tutto a un tratto al suo usuale atteggiamento altero e, l’istante dopo, uscì dalla stanza.

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Capitolo -3- Il Professore non abbisognava di nulla. I genitori, in aggiunta alla splendida dimora, gli avevano lasciato molti denari e un gran numero di proprietà tutte regolarmente affittate. Rimasto solo, in un primo momento, si occupò personalmente della ge-stione dei suoi possedimenti: esaminò le carte, studiò le tematiche fisca-li, prese visione dei beni, parlò con gli affittuari, affrontò uno a uno i problemi che via via gli capitò di incontrare e infine, addirittura, guidò gli artigiani nei lavori di mantenimento e sistemazione. Ci mise impegno, tuttavia, in breve, sentì crescere un senso di ripulsa per questa attività che considerava volgarmente materiale nonché fame-lica del suo tempo e dei suoi pensieri, destinati a ben più nobili scopi. E poi c’era dell’altro. Innanzitutto per sua natura aborriva qualsiasi forma di discussione ma con gli inquilini era impossibile discorrere civilmente, gente rozza e sotto acculturata, capaci magari di puntargli il dito sotto il naso. Per non parlare degli artigiani. Dio, gli artigiani. Tutti incompetenti e approfitta-tori, e impudenti anche; sì! Impudenti. Perfino con lui, proprietario di mezza Perasanta e figlio di cotanta stirpe. “Com’era potuto cambiare a questo modo il mondo?” si chiedeva intendendo “così in peggio!”, ov-viamente. Solo cinquant’anni prima, il Professore se lo ricordava bene, in paese suo padre era rispettato da tutti. Si scappellavano quando gli si rivolge-vano, parlavano a bassa voce, umilmente e nessuno si prendeva mai l’ardire di contraddirlo. Ognuno sapeva qual’era il proprio posto. A quel tempo non c’erano artigiani arroganti e maleducati. A tutto pen-sava Duilio, un grosso omone taciturno con spalle curve, forti gambe a ferro di cavallo e occhi grigi che aveva sorpreso a sorridere forse una volta o forse mai. Una brava persona quel Duilio. Accettava qualunque mansione ed era capace di riparare qualsiasi cosa. Saldava tubi, impastava la calce, sostituiva le travi dei tetti, verniciava,

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e mai una volta che si fosse sognato di fissare direttamente negli occhi suo padre. Aspettava il suo compenso senza chiedere, e ringraziava a testa bassa. Tempi migliori. Ma a parte il dover discutere con inquilini e artigiani - che già questo sarebbe stato comunque un ostacolo di per sé sufficiente - un'altra diffi-coltà incontrò il Professore nell’amministrare i suoi beni. Faticava a prendere decisioni! Proprio così. Ogni volta, il più semplice dei grattacapi diventava per lui un rovello e, in breve, si tramutava in ansia. Considerandosi indubitabilmente una persona di intelligenza superiore giustificava con se stesso questa sua difficoltà considerandola, per pa-radosso, la prova delle sue maggiori capacità intellettive. “Ma certo” si diceva, “una mente semplice quando si imbatte in un problema cerca una soluzione che, alla bene e meglio, ci dovrà pur es-sere e insomma, un qualche rimedio lo troverà comunque. Fine del problema”. La sua mente, invece, abituata all’iperanaliticità, quando si accorge di un problema lo scompone in un’infinità di risvolti, quindi trova un’infinità di soluzioni possibili per ognuno degli infiniti risvolti del problema e… “le grandi menti non sono adatte alle piccole imprese. ‘aquila non capit muscas’ cioè l’aquila non prende le mosche”. Il passo successivo, più che naturale, fu quello di trasferire tutte le in-combenze inerenti l’amministrazione dei beni a Donna Marta, in ag-giunta a quelle domestiche, ovviamente, la quale si dimostrò estrema-mente pratica e capace. Per questo motivo al Professore, pensionato oramai da un decennio, non restava proprio più nulla da fare. Le sue giornate si ripetevano tutte identiche ed erano tutte terribilmente monotone. Soffriva di solitudine, della mancanza di uno scopo e di un vago senso di inutilità. Sentiva di aver sprecato la vita anche se non avrebbe saputo precisare in che modo. Di certo non aveva concretizzato il suo genio, non aveva viaggiato, non aveva sperimentato, non aveva provato forti emozioni e nemmeno amato appassionatamente, tuttavia faticava a mettere a fuoco quale di questi “non” si rimproverasse esattamente e comunque, si di-ceva, non avrebbe potuto fare diversamente. Aveva rispettato il codice famigliare. L’onorabilità impone rinunce.

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Non di meno il Professore si sentiva fallito e depresso e di tale senti-mento, sintomo manifesto di debolezza, si vergognava. Da anni non metteva più un piede fuori dal cancello del parco se non per motivi straordinari, in modo da evitare qualsivoglia incontro; che non c’è nulla di peggio del sentirsi addosso il giudizio di chi si disprez-za. Oramai tutto percepiva inutile e insignificante. Al Professore non restava altro da fare, quindi, se non occuparsi di se stesso e mantenersi in buona salute allo scopo di rimandare il più possi-bile la propria dipartita poiché questa, a conti fatti, lo terrorizzava più di quanto non lo nauseasse la vita. E allora, due volte al giorno, al mattino presto e al pomeriggio dopo il riposino, con qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, intraprendeva di buon passo il giro del parco percorrendo per intero il sentiero realizzato da suo nonno lungo ben settecento metri. Uno strazio per le sue povere gambe, ma era necessario farlo allo scopo di mantenersi in salute. Terminate queste sue marce, per le quali era previsto l’utilizzo di una tuta ginnica, tornava in camera sua, si lavava e si vestiva di tutto punto, come dovesse recarsi a scuola per una lezione, quindi passava a ispe-zionare la casa, trovava un oggetto fuori posto o un grano di polvere e ordinava a Marta di provvedere. Spesso finiva con il chiudersi nel suo studio dove fingeva di portare avanti misteriosi progetti. Là dentro, solo, passava il tempo sospirando di noia. E già, povero Professore, in questo modo oramai trascorreva le sue giornate.

*** Così come avevano fatto per decenni i suoi genitori in vita, il Professo-re era uso mangiare da solo nel salone principale. Marta lo serviva e abitualmente, mentre lui mangiava, lei lo aggiornava sulle novità del paese imparate nel corso della mattinata tra una com-missione e l’altra. Negli ultimi anni le era stato tacitamente concesso di sedersi al tavolo durante questi racconti, ma solo in assenza di Paolo. Quella volta Paolo non c’era, era al suo primo giorno di lavoro da Ge-remia, eppure la donna non si era seduta di fianco al Professore a parla-

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re e neppure la si era udita cantare i suoi melodrammi napoletani attra-verso la porta della cucina. Marta era inquieta. Pensava alle mobili, bellissime dita del figlio e si immaginava le peggio cose. Gesù, quanto le amava quelle dita! Sì, an-che lei le amava. Tutte e dieci. Il Professore intuiva e sbuffava di insofferenza Finito il pranzo si alzò per recarsi nelle sue stanze, al piano superiore, per riposare un’oretta. Quando fece per chiudere le persiane si accorse che il vagabondo, ina-spettatamente, era ancora lì; fermo immobile, nel punto preciso nel qua-le l’aveva lasciato al mattino.

*** Nemmeno quel pomeriggio gli riuscì di riposare. La gambe, Dio, le gambe… e un brutto presentimento. Si alzò dal letto di cattivo umore e immediatamente spalancò la finestra per controllare. L’uomo non si vedeva nei paraggi ma il carretto era an-cora nello stesso posto. “Cosa starà facendo quel balordo in questo momento?” pensò. Non-dimeno una cosa era evidente: non se n’era andato. Indossò la sua tuta da marcia, che nulla avrebbe potuto cambiare le sue abitudini, ma, prima di scendere al piano inferiore, volle assecondare un pensiero incoerente e per fare questo passò in rassegna tutte le finestre che affacciavano sul retro della casa. Effettivamente poté verificare come lo spiazzo, abusivamente occupato da quell’uomo, fosse visibile soltanto dalla finestra della sua camera da letto e da nessun’altra in quanto, da qualsiasi diversa angolazione si provasse a guardare, puntualmente si frapponeva un qualche impedi-mento vegetale. Era forse un caso? Oppure quello strano uomo era emerso dalle acque di Portosecco con il suo carico di sventure e si era sistemato lì, in quel punto preciso del mondo, per essere visto da lui soltanto? Ma no! Era senz’altro un caso. Che assurde fantasie gli venivano alla mente certe volte. «Vecchio stolto» sussurrò e indirizzò a se stesso un sorrisino di compa-timento.

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“Sia quel che sia prima se ne andrà e tanto meglio sarà!” concluse. Sì, quell’uomo non aveva alcun diritto di accamparsi nei pressi di casa sua, nemmeno il tempo di riposare. Gli dava ai nervi quella vista degradan-te. Si fosse fermato tre metri prima o tre metri dopo con ogni probabilità non avrebbe mai notato quell’essere quindi nemmeno saputo della sua esistenza: pur essendoci stato non ne avrebbe subìto alcun fastidio. “Quanti pericoli si assiepano dietro le certezze di un uomo senza che se ne avveda?” meditò. Ma stavolta questo delinquente era stato scoperto pertanto il Professore non sarebbe stato colto di sorpresa.

*** «Grazie tante Marta. Stai tranquilla che ce li dico a mia moglie i tuoi consigli, ma perché non passi a salutarla qualche volta? Non lo sai a lei che piacere ci farebbe!». «Ma certo che passo, figurete se nun vengo a’ bberè (trad.: vedere) a’ criatura vostra; me devono tenè a’ fforza. Che’ felicità m’hai dato Italo, nun te puo’ immaginà. Veramente…». «Beh, ora devo andare. Allora ci vediamo presto eh? Ci conto! Porgici i miei saluti al Professore». I due prolungarono ancora di un altro poco i convenevoli, infine, chiusa la porta alle spalle di Italo, Marta fece per tornare in cucina. Strada fa-cendo si imbatté nel vecchio che se ne stava acquattato nell’andito in attesa di avere finalmente campo libero. «Chi era?» domandò fingendo di essere arrivato giusto in quel momen-to poiché, nel frattempo, si era reso conto di quanto poco dignitoso fos-se nascondersi in casa propria a origliare. La donna non lo mortificava mai, per nessuna ragione al mondo e in certe situazioni le veniva naturale credere quel che lui voleva darle a intendere. «Era Italo» rispose sorridendo, «pensi, proprio l’altro juorno è nata a’ loro terza criatura, un maschietto. L’avesse visto, teneva a’ fe-licità n’faccia. L’hanno chiamato Samuele; è un bel nome nun è o’vero? A’ grazia do’ signore è scesa n’ata vota su chella bella fami-glia. Gesù! Dice che Nedda, a’ mugliera, ha sofferto assai; tante ore e’ travaglio. Però è strano pecché di solito o’ cchiu’ difficile è o’ primmo figlio; chill’ ati che’ arrivano doppo…».

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«Ah. Italo. Il muratore. Ed è venuto fin qui per dirvi questo?» la inter-ruppe il Professore che aveva la tendenza a stancarsi in fretta delle chiacchiere di Donna Marta. «Veramente mò è proprietario di azienda. O’ sapite megli’ è me. Tiene quattro dipendenti!». «Italo era l’ultimo della classe, un vero somaro! Non soltanto non stu-diava ma era poco intelligente e non sapeva parlare e da quanto ho po-tuto sentire non ha mai imparato…» e si interruppe rosso in viso essen-dosi accorto di aver sbadatamente tradito il suo origliare. Marta non ci fece caso. «Però è tanto na’ bella persona. Io e’ voglio propeto bene assai, e pure a’ mugliera e alle loro criature, Eva, Abele e Samuele; che o’ signore li benedica e tutti». «Sì sì certamente!» sospirò il vecchio. «Ma si può sapere che cosa vo-leva?». «Ma niente, s’è formata na’ crepa dint ‘o muro da’ tenuta Poggiorustico e mò adda essere riparata…». «E già, per voi è niente perché è con i soldi miei che deve essere ripara-ta» l’accusò ingiustamente il Professore, il quale ben sapeva come la donna curasse i suoi interessi con maggior attenzione che se fossero sta-ti i propri e senza alcun guadagno aggiunto alla paga, piuttosto magra, che riceveva per la sua mansione di domestica. Il Professore non diede tempo alle pur legittime recriminazioni. «Non vi siete accorta» chiese come a imputarle una qualche mancanza, «che un vagabondo già da stamattina si è sistemato dietro casa mia?». «Nu’ vagabondo? Dietro casa? No che nun me ne sono accorta. Ma, scusate, pure si me ne fossi accorta, quale sarebbe il problema?». «Mi sembra di capire, Donna Marta, che voi non sappiate cosa si inten-da con il termine vagabondo. Allora ve lo spiego io. Un vagabondo è una persona che rifiuta le regole del vivere sociale. Uno che non vuole lavorare né sente il bisogno di avere un tetto sopra la testa. Un indivi-duo sporco e maleodorante. Ebbene, come lo definireste voi un essere siffatto? Vi rispondo io: un pazzo! Uno così è pazzo. Ed essendo pazzo è anche pericoloso. Ma provate a ragionare: come pensate possa riusci-re a sopravvivere un vagabondo? No, non vi sforzate, vi spiego anche questo. I vagabondi rubano e, se serve, ammazzano. E dove pensate an-drà a rubare e a uccidere stanotte questo particolare vagabondo? Vi do l’ultimo aiuto. Davanti a lui ci siamo solo noi…».

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La donna ascoltò tutto il discorso con un’espressione di sbigottimento dipinta sul viso, turbata più dal trasporto che dalle parole. Nel suo cuore registrò con gioia questa inusuale dimostrazione di vitali-tà del Professore, perciò le salì in gola un risolino, ma subito si morse il labbro inferiore che per nulla al mondo avrebbe voluto essere fraintesa e con ciò risultare in qualche modo offensiva. «Scusate tanto Professore» sorrise imbarazzata. «A me’ pare ca’ nu’ poco esaggeriate. Io nun credo che i vagabondi so’ pazzi; sono esseri umani, proprio comm a’vvoi e a’me, solo cchiù sfortunati. Vulite sapè chè penso? Qua vagabondi nun se nè mai visti, nun c’è stà motivo e’ venì ’cca. Si dev’ essere perso. A’ da essere stanco e affamato e pure spaventato. Dovremmo i’ (trad.: dovremmo andare) da chillo pove-ruomo a offrirgli nu’ poco e’ aiuto, del cibo e dei vestiti e magari tro-vargli nu’ posto pa’notte…». Com’era buona Donna Marta, pensava nel frattempo il vecchio. Fasti-diosamente buona: sempre e con chiunque. E com’era semplice. Risul-tava vano ogni tentativo di farle comprendere il reale, perverso, funzio-namento dell’animo umano e il Professore odiava sprecare tempo. «Basta così, Donna Marta, con voi è inutile parlare. Non importa che vi sforziate di capire. Fate come dico. Nessuno deve avvicinarsi a quel pezzente! Cibo e vestiti… che idea! State con gli occhi bene aperti piut-tosto e andate immediatamente a chiudere tutte le finestre e le porte a doppia mandata. Stanotte Paolo dormirà in soggiorno in modo da sor-vegliare quest’ala della casa. Preparate una branda» concluse e, borbot-tando, si avviò nel parco per la sua passeggiata pomeridiana.

*** La cena fu servita distrattamente da Marta, la quale appariva con le por-tate al tavolo del Professore e subitamente si eclissava per tornare in cucina laddove Paolo stava cenando a sua volta. Tutta la sua attenzione, quella sera, fu riservata ai racconti del figlio inerenti un mondo a lei sconosciuto, fatto di personaggi nuovi e affascinanti, macchine rotanti, materiali vivi, odori caldi. Inevitabilmente la donna, travolta dall’entusiasmo, traduceva a suo mo-do le parole del figlio, non accorgendosi di raddrizzare involontaria-mente ogni sillaba pronunciata storta e durante tutta la serata, senza far-

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si notare, gli contò mentalmente le dita esultando silenziosamente alla parola dieci.

*** Il dolore alle gambe, quella notte, fu straziante, tale da non potersi ad-dormentare. Il Professore, a luci spente, aveva a lungo osservato quell’individuo. La luna era immensa e talmente luminosa da permettergli una visuale perfetta, spettrale e magnifica, della parte di campagna compresa tra il muro di cinta e le fronde degli alberi, mentre al contrario la sua abita-zione, interamente coperta dalla vegetazione e perciò immersa nel buio più fitto, doveva risultare certamente invisibile all’uomo e a maggior ragione lui, nascosto dietro alla finestra. Era stata quella una serata dolcissima. La primavera era decisamente arrivata portandosi appresso i suoi effetti speciali appena percettibili ai sensi eppure straordinariamente ridondanti nell’intimo umano. L’uomo non aveva dato alcun segno di squilibrio, appariva metodico e tranquillo, tuttavia, ne era certo, era solo questione di tempo: presto o tardi avrebbe tradito la sua follia. Al Professore, da quella distanza, non fu possibile decifrare ogni suo gesto; aveva mangiato qualcosa, pulito, fumato… queste azioni le ave-va riconosciute, ma altre non era stato in grado di identificarle. A un dato momento la stanchezza aveva avuto il sopravvento e il Pro-fessore si era disteso nel letto, pure non gli era riuscito di prendere son-no - quelle dannate gambe… - e aspettava, quando d’improvviso gli parve di udire qualcosa nell’aria: un suono, forse. Era sceso dal letto e aveva aperto di nuovo la finestra. Sì, era una musica, ora la sentiva bene, probabilmente un oboe o uno strumento simile per timbro e intonazione. Lui stava suonando. Non era un musicista esperto, questo no, tuttavia era bravo. Le note giungevano pulite e ben sostenute alle sue orecchie. La melodia non ri-cordava di averla mai udita, tuttavia riusciva ad appoggiarsi a essa e questa a insinuarsi dentro di lui. Chiuse gli occhi e si abbandonò senza opporre resistenza, dolcemente. Respirò profondamente sentendo il proprio respirare. C’era tutto un racconto racchiuso in quella melodia,

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parlava di terre lontane e di pace, era una storia irragionevole di verità assolute; parlava di amore. Era bellissima. Il Professore smarrì il senso del tempo e si lasciò trasportare altrove, lontano, senza paure, dimentico di sé, per un momento - o forse per un tempo infinito - felice. Finché, d’improvviso, l’uomo interruppe quel suo suonare. Precipitato di colpo nel silenzio spalancò gli occhi e rivide la campagna livida e immobile dinanzi a sé e la figura di quello seduto al centro dell’immagine. Lo guardò ruotare la testa cauto, apparente-mente in cerca di qualcosa, quindi sollevarsi in piedi e, adagio, girarsi nella sua direzione; da tale distanza era impossibile scorgerne i linea-menti. Rimase per un po’ immobile, anzi, ondeggiava appena. Teneva le braccia basse e lo strumento nella mano sinistra e pareva indifferente al passare del tempo. D’un tratto fece per sollevare l’altro braccio ma interruppe a metà il gesto, come dubitando. Restò così, con l’arto a mezz’aria un paio di secondi poi, timidamente, si riscosse e finalmente alzò la mano; infine l’aprì e la richiuse appena, in un impercettibile cenno di saluto. Il Professore sgranò gli occhi in un sussulto di sgomento, arretrò di un passo, quindi richiuse con impeto la finestra come per frapporre una barriera tra sé e quell’uomo. Si infilò rapidamente dentro al letto mentre nella sua testa ancora risuo-navano le note di quella musica stregata. Il cuore gli batteva forte nel petto. Tremava. “Era un saluto quello?” si domandò. “Non può avermi visto, è impos-sibile. La casa è immersa nel buio… No, non era un saluto. Forse un insetto. Sì certo. Ha fatto per scacciare un insetto. Non poteva essere un saluto! Però che strana melodia, così magica. Straordinaria! È un incantatore, anzi no, un pazzo. Nondimeno è emerso dalle acque di Portosecco con tutto il carretto quindi non può essere solo un pazzo… deve essere un demone. Ecco sì! Un demone, venuto a prendermi per portarmi con sé in fondo al mare; per punirmi, sì, per punirmi; ma di cosa? Eppure quella musica era soave, benevola, celestiale. Doveva essere un oboe… Basta scempiaggini, è soltanto un uomo e deve an-darsene. Devo liberarmene, sì; devo! Però non capisco, quello era pro-prio un saluto, inequivocabilmente un saluto, è riuscito a vedermi; ma come ha potuto? O forse un insetto…” e il Professore, lentamente, si addormentò.

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Capitolo -4- La situazione era complessa e decisamente pericolosa. Il Professore si trovava in quel momento in un vicolo cieco e per quanto si sforzasse non riusciva a trovare una via d’uscita. Inginocchiato sulla parte superiore di un grosso tronco reciso non tro-vava né la coordinazione né il coraggio per alzarsi in piedi, com’era nel suo progetto iniziale, né tantomeno un modo per ridiscendere a terra in-colume. Era bloccato, spaventato, e gli facevano terribilmente male le ginocchia nel punto in cui poggiavano sul duro legno. Davvero una situazione incresciosa. Tutto era nato dal bisogno quasi fisico che provava di osservare più da vicino quell’orribile vagabondo, di scorgerne i lineamenti e le espres-sioni, e smascherare, attraverso essi, tutta la sua malignità. Per poter fare questo aveva cercato un oggetto qualsiasi sul quale ar-rampicarsi, in modo da innalzarsi di quel tanto che bastava a superare con lo sguardo il muro di cinta della proprietà. Non trovando di meglio aveva in ultimo deciso di salire su quel ceppo. Una volta in piedi si sa-rebbe afferrato al ramo dell’albero vicino per tenersi in equilibrio. Perciò aveva agguantato con decisione il bordo del tronco con entrambe le mani, appoggiato il piede destro dentro una fessura, poi il sinistro poco più in alto in quello che era stato un tempo il punto di partenza di un ramo, aveva issato il ginocchio destro sulla parte superiore del ceppo e, in ultimo, aveva accomodato l’altro ginocchio di fianco al primo. Poiché tutte le mattine gli capitava di trovarsi in posizione genuflessa per fare le sue dieci flessioni, e da quella ogni volta si alzava agevol-mente, non riteneva tale operazione impossibile da effettuarsi anche in cima a un grosso ceppo. Capì, lì per lì, che rimettersi in piedi potendo contare su un ampio pa-vimento era una questione, mentre farlo su una superficie ristretta ed elevata - molto elevata, in quel momento se ne accorgeva bene - era tutt’altra faccenda.

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Tentare un simile equilibrismo avrebbe comportato una caduta certa e la conseguente rottura di qualche osso fondamentale. Scendere così com’era salito, a rovescio, non poteva. A quella maniera posizionato non gli riusciva di scorgere gli appoggi già utilizzati per sa-lire e in più, a muoversi appena, temeva di perdere quel poco di equili-brio che ancora gli restava. Pure a rimanere lì, in quella posa, fermo immobile, capiva che da un momento all’altro sarebbe comunque cadu-to, in avanti o di lato, e, in aggiunta, non avrebbe sopportato a lungo il dolore alle ginocchia. Eh, già. Nulla da dire. Proprio una situazione incresciosa.

*** «Gesù, Professore, ma che state facenne? (trad.: facendo?)». L’urlo lo sorprese alle spalle ed ebbe l’effetto di una piccola spinta. Per lo spavento sobbalzò e si sentì precipitare, pure non cadde. Il battito del cuore comunque accelerò a ritmi pressoché insostenibili. Il destino ancora una volta aveva accordato al Professore una grande fortuna, infatti Marta, da dietro la finestra della cucina, non si era persa un solo movimento dal momento in cui, casualmente, l’aveva scorto in-tento a guardarsi intorno con curiosità. Le novità sempre l’allarmavano. Marta per sua natura amava il calmo ripetersi degli eventi. Quando l’aveva visto armeggiare intorno a quel grosso ceppo aveva immediatamente intuito il pericolo e si era precipitata in suo soccorso. «Ma che vi è saltato in mente, Professore? Venite, appoggiatevi alle mie spalle, sì, così, mò vi tengo io. Ecco, mettete giù sto piede. No! Più in qua, a destra… bene accussì. Bravo! Mò l’altra gamba. Oh, ecco fat-to. State bene Professore?». Il Professore si lasciò guidare docilmente finché non si ritrovò, treman-te, con i piedi ben saldi sulla sicura madre terra. All’istante si piegò a massaggiarsi le ginocchia doloranti. In certe situazione era abituato ad affidarsi a Donna Marta alla quale, entro certo limiti, era perfino consentito muovergli qualche cauto rim-provero. «È pe chello che l’avete fatto, vero? Ma si può sapere pecché vi state incaponendo su quel pover’uomo? È tutta a’ mattina che ve veco (trad.: vi vedo). Fate na’ cosa, e subito salite in camera vostra a spiarlo, ne fate

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n’ata, e ve ne ritornate. Io nun capisco. Ma che ve ne’mporta e chell la’?». «Voi Donna Marta non capite mai niente!» l’apostrofò sgarbato il Pro-fessore per qualche assurda ragione risentito. Lei per tutta risposta fece spallucce accompagnando il gesto con una faccetta condiscendente quindi gli infilò affettuosamente la mano sotto il braccio spingendolo leggermente in modo da indurlo a dirigersi verso casa. Lui si lasciò guidare. «Ve l’ho già spiegato» continuò il Professore mentre riprendeva il con-trollo dei propri nervi e si incamminavano uno di fianco all’altro. «Quello è il maligno!». L’aria era sottile e profumata e la temperatura incantevole. Quanta luce e quanta vita intorno. Giornate a tal punto piacevoli se ne hanno poche in una vita intera. Questo pensava Marta dispiaciuta che lui, testardo e ottuso, non riuscisse a goderne. «Uh Gesù, il maligno, ché devo sentire. E quando mai voi avete creduto nel diavolo?». Il Professore sentiva di dover riacquistare prestigio e una piccola dimo-strazione di sapienza capitava a proposito. «La parola maligno» spiegò, «deriva dal latino malignus ed è composta dai termini malum cioè male e gen-o che significa generare. Quindi con la parola maligno si intende colui che genera il male, ossia colui che ha naturale disposizione al male o meglio ancora colui che si com-piace del male. Non c’è alcun bisogno di scomodare Dio e angeli. Ce n’è a sufficienza di malignità nell’animo umano da terrorizzare genera-zioni intere!» . «Beh vabbuò. Ma voi pecchè dovete pensare ’sta brutta cosa di quel poveretto?». «L’ho già detto. Un vagabondo non può che essere pazzo e quindi an-che pericoloso. Ma queste sono parole al vento. Voi siete troppo buona. Non sforzatevi di capire. Lasciate che me ne occupi io di certi proble-mi». «Ma io mi preoccupo pe voi. Mi sembra che da due journi a ’sta parte abbiate perso a’ tranquillità». «E avete ragione Donna Marta. Se sapeste che strano sogno ho fatto stanotte». «Ma che sarà mai un sogno Professò… ProfessoRE» si corresse imme-diatamente, «mi meraviglio assai. Voi mai avete creduto a ’sti ccose!».

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«Voi straparlate Donna Marta! Certo che non credo ai sogni. Non nel senso che intendete voi. Io non credo ai sogni premonitori, certo che no, ma ai sogni rivelatori. Vedete, capita, a volte, che l’inconscio elabori concetti che per qualche oscuro motivo sfuggono alla ragione nei mo-menti di veglia. Attraverso i sogni, a volte, il nostro io più profondo ci rivela verità nascoste e propone soluzioni e…». «Professore, sicuramente c’avete raggione pure mò a spiegarmi ’sti ccose. Però non mi sembra questo il caso. Mica c’è stato bisogno dell’inconscio per giudicare a quell’infelice. Voi subbito, come l’avete visto…». «Basta così!» ordinò l’uomo mostrando una mano imperativa, «voi non sapete interloquire civilmente; parlate a sproposito e interrompete. Scu-sate ma io non permetto a nessuno certe confidenze. Ascoltate. Mi ritiro un paio d’ore nello studio a lavorare. Non voglio essere disturbato per nessuna ragione!». E il Professore, giunti che furono di fronte all’ingresso dell’abitazione, congedò Donna Marta ritenendo a buon di-ritto di aver riacquistato tutta la dignità perduta nell’avventata impresa di poco prima.

*** La conversazione avuta con Donna Marta non aveva virato di un solo grado la rotta dei pensieri del Professore. Non era capace di distrarsi e nemmeno lo voleva. La sua mente tornava sempre là, a quel pericoloso vagabondo, e molte volte ancora, durante il corso della giornata, era salito in camera sua a controllare che cosa mai quello stesse macchinando. Nonostante l’atteggiamento dell’uomo apparisse puntualmente pacifico e inspiegabilmente rispettoso di ciò che lo circondava, i suoi ragiona-menti giungevano ogni volta alla medesima conclusione. “È pazzo! È pericoloso! Deve andarsene!” Donna Marta, tra le altre assurdità, gli aveva suggerito di provare a co-noscerlo che chissà cosa avrebbe scoperto; magari sarebbero potuti per-fino andare d’accordo. Cosa Pensare. Probabilmente anche Donna Marta era pazza! Tuttavia questo consiglio gli diede lo spunto per una buona idea. Qual-cun altro sarebbe andato a parlare con quel vagabondo. Sì, ci sarebbe andato Paolo.

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Paolo era giovane e robusto e ci sapeva fare con la gente. Paolo era senza dubbio la persona adatta a una tale impresa e di certo avrebbe persuaso quel vagabondo ad andarsene senza rischiare magari di offen-derlo, che non era conveniente far arrabbiare un pazzo. Di quale terribi-le rivalsa sarebbe stato capace un uomo senza senno? Così tra sé e sé aveva stabilito: quello stesso pomeriggio, al rientro dal lavoro - “mah, chissà quanto sarebbe durato stavolta quest’altro lavo-ro” - Paolo sarebbe andato da quel losco individuo a parlargli e questo pensiero, in qualche modo, lo aveva tranquillizzato.

*** FINE ANTEPRIMA.Continua...