L'ultimo graffio di Erna Marioni Baldan

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Storia di Livia, donna forte e fragile allo stesso tempo, e dei suoi rapporti combattuti, con una serie di uomini sbagliati, dopo una sofferta separazione dal marito: Andrea, un ragazzo più giovane che le rimarrà vicino per un lungo periodo, Marco che le chiederà del denaro in prestito, Maurizio proprietario di un pub, Marcello che la coinvolgerà in una passione malata e distruttiva. Accanto alla protagonista, emerge la figura di Aurora Zorzetto, amica con capacità sensitive e con un piccolo sesto dito nella mano. Eros e Thanatos sono elementi costanti all'interno del racconto, onnipresenti fili conduttori che accompagneranno il lettore sino all’epilogo del romanzo.

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ERNA MARIONI BALDAN

L’ultimo graffio

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Copyright © 2010 CIESSE Edizioni

Design di copertina © 2010 CIESSE Edizioni

L’ultimo graffio

di Erna Marioni Baldan Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 978897277361 Collana GREEN Versione eBook http://www.ciessedizioni.it

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NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun

contributo economico all’Autore.

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BIOGRAFIA DELL’AUTRICE

ERNA MARIONI BALDAN è docente di ruolo, insegna presso l’Istituto P. F. Calvi di Padova nel triennio letteratura e storia. Ha conseguito un diploma di durata triennale in filologia moderna post laurea. Ha frequentato un anno di scuola di giornalismo presso l’Istituto Rezzara di Vicenza. Ha fatto volontariato presso l’istituto psichiatrico di Sarmeola di Rubano.

Si interessa di letture di psicanalisi e terapie psichiatriche.

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Un particolare ringraziamento a:

Prof. Giuseppe Iori

Dott.ssa e poetessa Teresa Ponti

Dott. Alfredo Baldan

Dott.ssa Lucia Beghin

Prof. Maurizio Salvadego

Dott. Renzo Rizzardo

Dott.ssa Gabriella Tornaboni

Dott.ssa e Scrittrice Irina Turcanu

E a tutti coloro che aiutano chi soffre,

sia un essere umano,

sia un animale.

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Claudio

Livia, quel pomeriggio di giovedì, dopo il funerale di Claudio era tornata a casa e si era messa a pregare per lui. Una preghiera laica: “Non voglio giudicare la tua scelta, non riesco ad entrare in pieno nel tuo vissuto, posso solo fissare la parte di te che mi hai permesso di leggere, di capire.

Va ora nel mondo che ti appartiene, oggi all’obitorio mi sembravi vivo, bellissimo. Come sempre.

Non so dove sei, spero solo che tu riesca a trovare lontano da questa dimensione terrena, la serenità che qui non hai mai del tutto posseduto, vai dolce amico dove volevi da tempo, anche se io non l’avevo mai capito. Eppure credevo di conoscerti bene

Ritrova la luce. Il buio è per me.

Ho un grande rispetto della tua volontà, ricorderò di te quella parte intima che mi hai permesso di leggere e di capire, non dirò mai a nessuno i tuoi segreti che sono sepolti, assieme al tuo corpo, nella cappella di famiglia. Te ne sei andato, ti ho perso per sempre. Forse starai assieme a coloro che ti hanno preceduto, forse ritroverai tuo nonno

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a cui volevi tanto bene. Chissà se ci sono anche i miei cari, che aspetto di rivedere.

Perdona la mia incapacità introspettiva che non mi ha permesso di capirti, di sorreggerti ed io perdono questa scelta che hai fatto e per la quale non ero assolutamente preparata.

Domani verrò ancora da te, ma in un altro posto, non più nella tua casa, ma in cimitero e lì rivivrò nel silenzio i momenti più belli della nostra empatia.

Da ora inizierà il monologo interiore

Il nostro quotidiano dialogo che mi riempì tante serate con la tua vivacità e voglia di stupirmi è finito per sempre.

Faccio un grande sforzo per capirti. Avevi la vita da percorrere, l’amore di tante persone.

Tu hai, invece preferito andartene, mi hai lasciata sola, anche se mi vedevi sempre contenta di stare con te. Ora ho solo voglia di piangere, da quattro giorni non sei più qui.

Non parlo solo per me, ma per tutti coloro che ti hanno voluto bene e la chiesa oggi profumava e si mescolavano all’incenso l’affetto dei tuoi amici, la stima dei tuoi colleghi. C’era persino mio padre. Non

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sapeva niente della nostra amicizia, ma per caso si trovava a casa mia e mi ha visto disperata un’ora dopo che avevo saputo del tuo suicidio. Eppure non piangevo davanti a lui, non ha mai sopportato vedermi in lacrime.

Ma è venuto in chiesa e non sai quanto abbia apprezzato il suo gesto.

Nei prossimi giorni dovrò cercare il supporto del tuo amico più caro, ma nessuno riuscirà a farmi rassegnare che ti ho perso. Accetta almeno il mio dolore come un gesto d’amore, che in passato avevi cercato in tante persone, più di quanto io avessi capito.” Il suicidio succede quasi sempre quando meno siamo preparati alla dimensione del nulla.

Livia aveva un grande rispetto per lui, ma quel colpo di pistola a trent’anni glielo aveva portato via e l’avrebbe segnata per sempre.

Claudio era stato e rimase per tutta la sua breve vita, l’amico più caro. Tra loro non era mai sorta una storia d’amore.

Esisteva una sottilissima alchimia che li legava moltissimo.

Lui la chiamava quando lei si sentiva sola.

La portava al mare, a passeggiare lungo la spiaggia nel cuore della notte, le telefonava

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all’improvviso quasi riuscisse ad avvertire il bisogno che lei aveva di sentirlo, specie quando il marito era dalla madre; le parlava per ore, la sapeva rasserenare nei momenti di malinconia.

Sapeva tutto di lei, l’ascoltava, la consolava, la capiva. Come lei, amava tantissimo gli animali: aveva un gatto e un cane.

Un giorno, tornando dal mare avevano raccolto due cagnolini in mezzo alla strada piena di macchine.

Lei si era messa in mezzo alle auto in corsa, incurante del pericolo, cercando di fermare il traffico, mentre lui correva dietro ai cani che però non volevano farsi prendere. Poi finalmente dopo le più svariate e colorite imprecazioni degli automobilisti ci era riuscito e se li era caricati sul sedile posteriore. Dopo un paio di chilometri, al primo bar, si erano fermati, e avevano alzato i bicchieri “alle due vite salvate e a noi due che siamo due pazzi.”

Era un uomo bellissimo, dotato di un’intelligenza sottile, che aveva davanti a sé una brillante carriera di medico ortopedico, corteggiato, stimato, amato.

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Livia non era innamorata di lui, ma lo amava, perché lo avvertiva parte della sua vita.

Credeva di conoscerlo. Frequentava i suoi amici più cari, sapeva le sue storie d’amore, anche l’ultima che, finita da tempo, era ancora viva nel suo cuore, perché lui non aveva ancora del tutto superato il dolore del distacco, anche se talvolta fingeva di essere forte per una sorta di orgoglio impercettibile.

Claudio ascoltava con lei le sue canzoni preferite del suo cantautore: Francesco de Gregori del quale per ore sentivano assieme i testi ritenendoli pezzi di poesia della vita quotidiana.

Poi, una sera di Settembre, si era ucciso, lasciando un biglietto: Non è questa la vita che desidero.

Quella mattina, finiti il funerale e la cerimonia in cimitero, Livia fu l’ultima ad andarsene, girò a lungo con la macchina. Non aveva pace.

Quando riuscì ad aprire la porta di casa, trovò Andrea, il marito che l’aspettava.

Gli preparò in fretta la cena, poi gli chiese di rimanere da sola. Andrea uscì, Livia prese in braccio il suo gatto, Michel, iniziò non ad

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accarezzarlo, ma a cullarlo come fosse un bambino, quel bambino che né lei, né suo marito, avevano voluto mettere al mondo e finalmente tra le lacrime riuscì a dire “Claudio… Claudio… Non ti sento più… non ce la faccio a sopportare la tua perdita. La morte di una persona cara mi distrugge, ma sento che non verrà ancora a prendermi. Fin da bambina la sto aspettando. Non l’ho mai temuta, anzi qualche volta l’ho corteggiata. Non dovevi andartene via. Eri in questo periodo la mia parte vitale.

Lo sapevi che ho sempre avuto bisogno di una stampella.

Perché non hai per un momento pensato a noi tutti senza di te?

Perché non mi hai telefonato prima di fare l’ultima scelta?

Poi, iniziò un pianto disperato, convulsivo. Si illudeva che lui le fosse ancora vicino: sapeva dalla nonna che i defunti, specie quelli di morte violenta, non si allontanano subito. Sperava che egli fosse ancora lì e per questo aveva voluto rimanere sola. Voleva per un attimo rivederlo, abbracciarlo, stringerlo forte al suo corpo.

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Ma ciò non avvenne. Le porte dell’aldilà rimangono chiuse.

Andò a letto, sotto l’effetto dei tranquillanti e ripercorse alcune tappe della sua vita, ma non riuscì a prendere sonno immediatamente.

Ripensava alla sua infanzia, ai nonni che ora non c’erano più, a suo padre che aveva trovato in chiesa: lui ateo da sempre, troppo spesso lontano dai problemi della figlia, quella sera, trovandosi per caso a casa di Livia aveva capito in un attimo la sua disperazione, anche se davanti a lui non era riuscita ad aprire il canale del pianto.

Suo padre non sapeva neppure dell’esistenza di questo amico, ma quando aveva visto lo sguardo di Livia era stata la voce del sangue a mettergli di fronte un’epifania dell’angoscia.

Lei, inaspettatamente, il giorno della cerimonia funebre lo aveva notato in un angolo, gli si era avvicinata appena finita la messa e mentre il feretro usciva gli aveva detto solo due parole: “Grazie papà.”

Solo dopo circa mezzora riuscì a prendere sonno, sognò dei momenti della sua prima infanzia. Il dolore fortissimo o le

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benzodiazepine la portarono indietro negli anni. I sogni non sono quasi mai consequenziali al presente. Talvolta non hanno una loro razionale spiegazione con il resto della giornata vissuta, o sono magari proiezioni di un nostro ricordo lontano. Magari era Claudio che riuscì a farle riemergere i momenti di quando era ancora bambina, o forse fu il subconscio che le fece ritornare a galla i primi ricordi sereni vissuti a casa dei nonni con i gatti che aveva avuto. Visto che con lui condivideva l’affetto per tutti i piccoli animali domestici: cani, gatti, conigli e tanti altri.

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Messalina e Miù

A sei anni aveva tentato tantissime volte di portare a casa un gatto. Le piacevano non quelli di razza, ma i classici gattini che una volta, in primavera, era facile trovare per strada. Escogitava le storie più tristi per convincere i genitori a tenerlo. Aveva una fantasia molto fervida, raccontava ad esempio di averlo dovuto tirare fuori dal ciglio di un fiume, rischiando di cadere in acqua, o di averlo salvato da una banda di teppisti che volevano bruciarlo vivo, o di aver rischiato di essere investita da una macchina per strappare alla morte il gattino che si trovava in mezzo alla strada.

Storie sempre drammatiche, ma il micetto veniva sopportato solo per qualche giorno, il tempo necessario finché suo padre non trovava qualche suo dipendente disposto a portarselo via.

Durante l’infanzia, aveva avuto solo due gatti per un lungo periodo a casa dei nonni, dai quali aveva passato i suoi più bei momenti; i due gatti si chiamavano Miù e Messalina.

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Messalina era veramente speciale: quando Livia piangeva, da qualunque parte dell’enorme casa si trovasse, veniva a consolarla, leccandole il viso o la mano.

Il fatto un po’ strano attirava l’attenzione e la curiosità di tutta la famiglia, degli amici, tanto che, quando c’erano ospiti e lei si sentiva un po’ messa in disparte, fingeva il pianto per attirare la gatta e così attirava l’attenzione di tutti i presenti. Poi passarono alcuni anni e Messalina un giorno morì, la nonna le disse che se l’era portata via una persona per farla vivere in campagna, dove avrebbe potuto cercare i topolini che a casa non trovava mai.

“Perché Messalina vuole i topetti?” le chiese. “Io le ho raccontato tante volte la storia del topetto di marina, non può adesso volere i topetti, lei sa che io piango se uccide un topetto e poi non riesce a venire qua dalla campagna.” La nonna l’abbracciò forte e le rispose: “Forse non li uccide, vuole solo andare via da qui, piccola mia.” Fu quella volta che lei capì il vero significato della favola che tanto amava sentire leggere.

Quel piccolo libro che si faceva sempre leggere prima di dormire, aveva una

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copertina di un azzurro intensissimo, rappresentava il mare, sopra un cielo blu senza nuvole, che si confondeva con esso, nel mezzo una barca con la nera bandiera dei pirati e sulla prua due topolini, uno totalmente bendato e uno con una fascia nera sull’occhio e un’espressione cattiva.

Dentro, in rima, veniva raccontata una storia di un piccolo topo che era fuggito via dalla mamma per andare a vedere il mare, ma era stato catturato da una nave di pirati.

Lui però non voleva diventare un pirata, così l’equipaggio, tutto formato da topi, aveva deciso di condannarlo a morte.

La favola finiva con l’addio alla vita del piccolo prigioniero che prima di essere gettato nel mare chiedeva scusa alla mamma di averle disubbidito, di essersi allontanato da lei.

Solo l’ultima riga era scritta in prosa e si narrava come le onde del mare si chiudessero sopra il topolino.

“Nonna, Messalina non è in campagna. Nonna, Messalina è morta.” Fu quella la prima volta che avvertì dentro di sé il concetto della morte, di non vedere mai più

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Messalina, e quel “mai più” fu il primo graffio dell’anima.

Poi venne Miù, meno interessato alle coccole e molto più cacciatore e aggressivo con le lucertole o gli uccellini del giardino di casa. Lei lo paragonava sempre a Messalina, anche se la nonna continuava a dirle che anche i gatti hanno il loro carattere e bisognava comprenderli, come si cerca di capire le persone adulte, tutte differenti tra loro.

Ogni anno durante le feste di Natale, ai primi di dicembre a casa dai nonni veniva preparato un pino altissimo che arrivava con la punta fino al soffitto.

Quell’anno Miù giocava continuamente con le palle più basse e lei iniziò a giocare con lui muovendo le palline poste più in alto, per vederlo saltare. A un tratto Miù si girò e le graffiò un braccio. Il sangue usciva, Livia non si spaventò, ma ebbe paura che il gatto venisse punito e regalato a qualche fittavolo in campagna.

Per prima cosa cercò di tamponare le ferite, prendendo le strisce di cotone più basse, poi ebbe l’idea di salire su una sedia per prendere dell’altro cotone posto più in alto,

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ma, ad un tratto, rovesciò tutto l’albero e lo fece cadere per terra.

Scese immediatamente dalla seggiola e quando accorsero i nonni per il rumore, raccontò che cercando di raddrizzare la punta, aveva fatto cadere tutto il grande pino e si era fatta male con i rami e i vetri delle palle rotte sul pavimento.

Venne creduta.

Era, infatti, una bambina molto quieta che non combinava mai guai, era da sempre abituata a stare nel mondo degli adulti. L’albero fu raddrizzato, vennero cambiate le palle, ma soprattutto Miù fu salvato e tenuto a casa.

Rimase nella casa dei nonni col grande giardino.

Poi, il nonno decise di cambiare abitazione, fece costruire un piccolo condominio di tre appartamenti e andò lì ad abitare.

Nella nuova casa a Miù mancava il giardino e divenne ancora più irrequieto; per questo, dopo graffi e pipì in ogni angolo dell’abitazione, venne regalato alle due sorelle che avevano acquistato la villa di via Miranese che era la felicità di Miù, perché in quella enorme casa c’erano un giardino con

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tanti alberi e una vasca con un piccolo rospo e lì lui era il re.

Ogni settimana, Livia e i nonni andavano a trovarlo, portando paste o crostate alle due sorelle. Fu proprio nel giro di qualche mese che il micio mutò carattere, divenne dolce, simile a Messalina. Certo non correva se Livia si metteva a piangere, ma si faceva coccolare tantissimo, faceva le fusa e mai si staccava da lei. Proprio adesso che non era più suo, si strofinava sulle gambe, ogni volta che la vedeva. Aveva imparato a farsi accarezzare, non tirava più fuori le unghie e quando andavano via pareva dicesse con gli occhi: “Portatemi con voi.” Passarono gli anni, le case non erano lontane e lei così poteva andarlo a trovare ogni giorno senza le solite pastine o crostate, anzi erano le due sorelle che le offrivano le caramelle di liquirizia tenera che tanto le piacevano.

Il tempo passava, Livia lo vedeva cambiare riempirsi di peli bianchi intorno alla bocca dalla quale talvolta usciva un po’ di bava che lei subito asciugava.

Negli ultimi tempi lo trovava sempre addormentato, le due sorelle non volevano che andasse a svegliarlo, le dicevano: “Livia,

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lascialo dormire, guardalo, lui sente lo stesso che ci sei, ma non vuole più essere accarezzato, si sente tanto stanco e non ha voglia di giocare con te.”

Lei le ascoltava e si limitava a stargli vicino.

Un giorno le signorine non la fecero entrare, dissero che dovevano andare dal medico, che erano in ritardo e che poi Miù era sparito, di non andare più là, perché di sicuro non sarebbe ritornato.

Livia non capì che cosa fosse successo e appena le signorine andarono via da casa, cominciò a chiamarlo e ritornò lì per molti giorni, suonando il campanello senza vedere nessuna delle due sorelle aprirle la porta.

Fu la tata Clementina che le disse la verità. Miù era morto, come era morta Messalina, perché era ammalato e non voleva più vivere.

Non le fu facile rivivere il concetto del “non lo rivedrò per sempre, mai più.” Poi chiese: “Clementina, perché si muore? Perché le favole finiscono con “vissero per sempre felici e contenti” e per me il per sempre si dice solo quando sono morti Messalina e Miù? Non voglio più sentire dire per sempre.” Clementina le rispose: “Livia, il per sempre, appartiene sia alle favole che alla

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vita. Ma adesso è troppo difficile da spiegartelo, capirai più avanti, quando sarai più grande, ora pensa che Miù giochi con Messalina e che non facciano male al topetto di marina, anzi anche lui è contento di stare con loro.”

“Dove stanno Clementina?”

“Nella luna, dove vanno tutti gli animali buoni, sia delle favole, sia i tuoi, e da lì ti vedono, ti osservano, ti vogliono sempre bene, ma non riescono a saltare fin qui sulla terra, perché la luna è troppo distante da noi.”

E questo fu per Livia il secondo graffio, non quello che Miù le aveva dato qualche Natale prima.

Erano passati tanti anni da quel graffio e ce ne erano stati tanti altri, quando all’improvviso anche Claudio se n’era andato per sempre. Per mesi non riuscì a convivere con il dolore. Cadde in depressione. Venne curata con psicofarmaci. Se ne stava per ore seduta sul letto a piangere, aveva smesso di lavorare, di fare la moglie.”

Ne aveva già vissuti di lutti: prima il nonno, poi la dolce tata Clementina che per settant’anni era vissuta nella casa dei nonni

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materni, e poi la nonna. Ogni lutto, un graffio che rimaneva nell’anima.

Le erano rimasti una zia, una cugina, i due genitori e la nonna quando si era sposata. Lei adorava sua zia che da piccola assieme alla nonna aveva sostituito la figura materna, tanto rigida e tanto fredda. Poi, morta la nonna, le tre figure della famiglia d’origine andarono in causa civile per l’importante eredità. Così si ruppero i già esili legami affettivi. Il padre e la madre contro la zia. Tanto astio, tanto odio… Poi un giorno all’improvviso perse anche il padre, una figura che era rimasta assente durante l’infanzia e l’adolescenza, ma che le era stato più vicino negli anni della maturità e che era stato il primo, forse ancora prima di lei, ad accorgersi che il suo matrimonio stava finendo.

Sentì di nuovo il dolore angosciante del lutto, quello di sempre, così intenso. Quel padre che lei aveva più volte contestato e dal quale non si sentiva amata, se n’era andato in soli quindici giorni senza averla preparata alla perdita.

Lui, il padre, che da piccola le metteva paura, non c’era ora “mai più”, e quel mai più

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la fece di nuovo ricadere in depressione, ma rimase sempre seguita dall’analista, lo stesso che l’aveva seguita dopo la fine del matrimonio.

Anni di analisi, di revisioni, di ricordi.

Ricordava suo padre come un uomo dal carattere troppo forte per lei, una bambina che viveva nel mondo degli adulti, che non aveva amichette, una bambina che piangeva tanto, che era timida, che aveva sofferto di bulimia, prima ancora che si conoscesse questa malattia.

Suo padre voleva che lei fosse brava a scuola, lei, invece incontrava dei blocchi in alcune materie, specie in matematica e in educazione fisica; non riusciva, infatti, a saltare

Suo padre voleva che facesse nuoto agonistico, ma lei arrivava sempre per ultima.

Era per lui una delusione continua e lei si sentiva non accettata, non voluta. Aveva saputo che la mamma aveva scoperto di essere incinta e in fretta c’era stato il matrimonio riparatore. Con Adele, sua madre, c’erano altri problemi: l’Adele la vedeva troppo immatura per la sua età e

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continuava a dirglielo o a raccontarlo, preoccupata, alle amiche al telefono. Livia sentiva tutto e si sentiva diversa da come i suoi genitori avrebbero voluto che fosse, ma non sapeva come migliorarsi. Giorno per giorno, cadeva la sua autostima.

Solo quando tornava dai nonni e ci stava per lunghi periodi, avvertiva il piacere di essere stimata e amata per quello che era.

Col nonno in montagna faceva lunghe passeggiate e con le figlie della padrona di casa aveva imparato a mungere le mucche e portarle al pascolo.

Quando, invece, per pochi giorni ricomparivano di ritorno da qualche viaggio lontano i genitori, sentiva di nuovo un equilibrio spezzato.

Erano i nonni, i suoi genitori, non le due “A” che arrivavano con l’Alfa Romeo che pareva sputasse fuori le valigie dal bagagliaio, perché Adele si portava via tutto il guardaroba per delle vacanze che duravano anche due mesi.

Eppure col tempo, quando ormai era donna, capì che suo padre l’amava più di sua madre. Alfredo avrebbe voluto un maschio e non la bimba fragile che si trovava tra i piedi.