La grande famiglia feudale della Maremma toscana · il crollo di un mito (secc. XIII-XV) p. 173...

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Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma toscana a cura di Mario Ascheri Lucio Niccolai

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Gli Aldobrandeschi.La grande famiglia feudale

della Maremma toscana

a cura di

Mario AscheriLucio Niccolai

Redazione: ConsultaculturaViale Marconi 93, Santa Fiora e-mail: [email protected] e battitura testi: Maria Angela Iannelli

Edizioni: C&P Adver effigi Via Roma, 14 - Arcidosso

Stampa: Tipografia Ceccarelli, Gennaio 2002

Atti del convegno “Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma toscana”, promossoda The international of Lions Club Distretto 108 “La Toscana” e realizzato a Santa Fiora il 26 maggio 2001,Organizzato dai Clubs Lions di:Alta Maremma, Amiata, Chianti, Chiusi, Grosseto Aldobrandeschi, Grosseto Host Orbello-I Presidi, Siena.In collaborazione e con il patrocinio di:Amministrazione provinciale di Grosseto, Comunità Montana Zona I1, Area grossetana, Azienda dipromozione turistica (APT) Amiata, Comuni di Santa Fiora e di Arcidosso, Associazione Pro Loco diSanta Fiora, Associazione “Consultacultura” di Santa Fiora.

Pubblicato dai Clubs Lions di:- Alta Maremma- Amiata- Chianti- Chiusi- Grosseto Aldobrandeschi- Grosseto Host- Orbetello I Presidi- Siena

Collaborazione e patrocinio:Amministrazione Provinciale GrossetoComunità Montana Amiata OvestAzienda Promozione Turistica AmiataComune di Santa FioraComune di ArcidossoAssociazione Pro Loco di Santa FioraAssociazione Consultacultura di Santa Fiora

In collaborazione con la Cassa di Risparmio di Firenze

Realizzato grazie al contributo dell’azienda Tosti di Castel del Piano

Immagini tratte da: G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, Roma 1934 eI. CORRIDORI, Gli Aldobrandeschi nella storia maremmana, Grosseto 1977.

S t o r i a e c u l t u r a l o c a l e

G e n i u s L o c i

Rodolfo Fazzi, Presentazione p. 7

Saluti e interventi autorità p. 9

Lorenzo Maccari, L’importanza di questo convegno p. 11

Mario Ascheri, Introduzione ai temi del convegno p. 15

Simone M. Collavini, I conti Aldobrandeschi nel contesto storico generale e locale p. 21

Riccardo Francovich e Carlo Citter, Le grandi fasi dell’incastellamento. Selvena e gli altri castelli dell’Amiata grossetana a confronto p. 37

Floriano Cavanna, Teresa Cavallo, Stella Menci, Anna Caprasecca,Schede p. 47

Odile Redon, Le Comunità di castello sull’Amiata e nei dominialdobrandeschi nel Duecento p. 65

Roberto Rocchigiani, Un’altra grande famiglia del Senese: gli Ardengheschi p. 77

Carla Benocci, La trasformazione urbanistica di Santa Fiora p. 87

Michele Nucciotti, Guido Vannini, Santa Fiora: strutture materiali di una capitale rurale nella Toscana meridionale del Medioevo p. 111

Lucio Niccolai, Gli Aldobrandeschi di Santa Fiora nella letteratura p. 151

Aude Cirier, La fine dei conti Aldobrandeschi: il crollo di un mito (secc. XIII-XV) p. 173

Fernando Marioni, La vera storia di Margherita Aldobrandeschi, ultima contessa palatina di Sovana p. 169

Mario Ascheri, Conclusioni p. 213

Appendice p. 218

5GLI ALDOBRANDESCHI

Indice

GLI ALDOBRANDESCHI

“Creare e stimolare uno spirito di comprensione fra i popoli del mondo.Promuovere i principi del buon governo e di buona cittadinanza. Prendereattivo interesse al bene civico, culturale, sociale e morale della comunità.

Unire i Clubs con i vincoli dell’amicizia e della reciproca comprensione.Stabilire una sede per la libera ed aperta discussione di tutti gli argomenti di interessepubblico, con la sola eccezione della politica di parte e del settarismo confessionale.Incoraggiare le persone che si dedicano al servizio per migliorare la loro comunitàsenza scopo di lucro ed a promuovere un costante elevamento del livello di efficienzae di serenità morale negli affari, nelle professioni, negli incarichi pubblici e nelcomportamento privato”. Quelli sopra elencati sono gli scopi del Lionismo, che sintetizzano in maniera puntualee completa come si muove ed agisce nella società civile la più grande associazionevolontaristica di servizio del mondo. Promuovere, quindi, anche tutta una serie diiniziative che servano a far conoscere ed apprezzare quelle zone geografiche dove iLions svolgono la loro attività. Senza sostituirsi alle istituzioni, ma affiancandole consuggerimenti, proposte ed iniziative per stimolarle a riscoprire e valorizzare specificiaspetti della loro storia e della loro cultura. Ed è proprio in questo contesto che laquasi totalità dei Clubs Lions della V circoscrizione del Distretto 108 “La Toscana”hanno organizzato nel maggio 2001 un Convegno a Santa Fiora per ripresentareall’attenzione della pubblica opinione la famiglia degli Aldobrandeschi,rappresentanti di una delle più importanti dinastie feudali del Medio Evo in Toscana.Il Convegno ha messo opportunamente in risalto l’importanza degli Aldobrandeschinella storia, nella cultura e nella vita sociale delle popolazioni di tutta quella vastaarea toscana identificabile nelle province di Grosseto e di Siena. Un’operazioneculturale perfettamente riuscita, grazie alla professionalità ed alle specifichecompetenze dei relatori ed alla collaborazione di enti pubblici, di associazioni e diistituzioni a livello locale e provinciale.La pubblicazione degli atti del Convegno, realizzata in concreto con questovolumetto, vuol essere appunto un riconoscimento di ciò che è stato fatto ed unostimolo affinché in un futuro non troppo remoto possano essere compiuti ulterioriapprofondimenti su un importante periodo della nostra storia.

Rodolfo Fazzi Presidente Lions club Amiata

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Presentazione

9GLI ALDOBRANDESCHI

Salut i e intervent i del le autori tà

L’Amiata è una zona che fa parte della terra di Toscana e, come tutta la Toscana,questa meravigliosa regione, è ricca di beni artistici e architettonici, di beniculturali e, ambientali. Voglio sottolinearlo perché l’aria che si respira, i boschi,

l’acqua che c’è nel nostro sottosuolo sono ricchezze immense ed incommensurabilie sono state messe in evidenza in tantissimi convegni proprio qui a Santa Fiora. Maanche i nostri borghi, con i loro centri storici e le piazzette, testimoniano di un grandepatrimonio culturale, oserei dire che anche le pietre dei nostri centri sono ricche distoria e di cultura. È una cosa importante, e noi abbiamo cercato di mettere inevidenza, in tutte le occasioni, questo patrimonio. Il convegno di oggi, è per noi un momento fondamentale perché permetterà dimettere ancora di più in rilievo il valore di queste terre. Il significato e l’importanzadegli Aldobrandeschi, in generale, per noi può essere un valore aggiunto, qualchecosa di più rispetto a tutto quello che in questi anni abbiamo fatto e stiamo facendo. Quindi ringrazio gli organizzatori e i Lions club, per avere scelto come zona l’Amiata,e Santa Fiora in particolare per lo svolgimento del convegno. Come Amministrazionecomunale di Santa Fiora, ringrazio i Lions anche a nome dei cittadini che ho il piaceree l’onore, in questo momento, di rappresentare.Saluto tutti i presenti e auguro buon lavoro. Grazie.

Luigi Vencia, Sindaco di Santa Fiora

Non sto a ripetere quello che ha già detto il sindaco di Santa Fiora. Voglio solo porrel’accento sul rapporto che già da anni c’è tra i Lions e l’amministrazione comunaledi Arcidosso e che si è dimostrato estremamente positivo. Anche il convegno di oggiè una cosa importante per i nostri comuni, sia per Santa Fiora che per Arcidossoper tutto il territorio. Mi limito quindi a ringraziare i Lions e il maestro Fazzi per la sua opera. Grazie atutti.

Attilio Marino, Sindaco di Arcidosso

Buon giorno a tutti, ben arrivati sulla nostra Amiata. Molti di voi la conoscono giàbenissimo, perché più o meno venite dal circondario e, grazie ai Lions, avete avuto

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già altre occasioni ed altri appuntamenti per scoprirla. Questo convegno di oggi è un appuntamento importante per tutti noi perché si vannoa riscoprire le nostre origini. Il percorso storico che verrà fatto, ciò che stamani“scoprirete” sono dei punti cardini di quella storia, delle ricchezze e dei beni culturaliche abbiamo e che dobbiamo valorizzare. Il lavoro che è stato fatto nel passato, ed anche adesso dai Lions club, è un grandelavoro, quindi ringrazio il Lions club Amiata, che si è impegnato moltissimo perorganizzare il convegno e sta portando avanti idee ed iniziative alle quali stiamocollaborando. Tra poco partirà un grosso progetto per il nostro territorio, a cui sietetutti invitati come ospiti, che è “Amiata a tavola”, dal 10 al 17 giugno, e sarà un grossoappuntamento di carattere eno-gastronomico ma anche di promozione del territorio. Auguro a tutti una buona giornata e sono certa che in questo percorso tra rocche ecastelli sicuramente troverete delle cose che ancora non avevate visto, perché ognivolta che si arriva qui, si scopre qualcosa di nuovo, di bello. E poi gli illustri relatoriche sono presenti, e che ringrazio per averci onorato della loro presenza, vi darannodegli elementi in più per apprezzare maggiormente le nostre bellezze. Grazie e buona giornata.

Laura FontaniDirettrice APT Amiata

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Prima di tutto, a nome del Lions Club Siena, un cordiale, caloroso saluto a quanti,Autorità istituzionali e Lionistiche, amici Lions, gentili ospiti, signore e signori,hanno voluto essere oggi presenti a questa importante iniziativa culturale, che

riunisce nel nome e sul tema degli Aldobrandeschi una scelta rappresentanza distudiosi e specialisti, ai più autorevoli livelli italiani e stranieri. Studiosi e specialisti, cui va pertanto il più sincero ringraziamento per avere accettatodi portare il prezioso contributo del frutto delle loro ricerche a questo appuntamento,e tra i quali mi sia consentito ricordare particolarmente il Prof. Mario Ascheri, chedella impostazione e attuazione di questo incontro è stato più che magna maxima pars.Una iniziativa, va detto, nata sotto l’egida e a opera di una nutrita e qualificatarappresentanza dei Club Lions di questa nostra parte meridionale del Distretto 108“La Toscana”. E sotto il patrocinio, giova sottolinearlo, del Comune di Santa Fiorache oggi cortesemente ci ospita nel suo Palazzo e dell’Amministrazione Provincialedi Grosseto. Mentre hanno collaborato alla sua realizzazione, oltre all’AmministrazioneProvinciale grossetana e al Comune ora citati, altri benemeriti Enti della zona. Aessi, e ai loro Rappresentanti qui presenti, va il nostro più riconoscente saluto. È una iniziativa, l’avere promosso l’odierno Convegno, che si iscrive a buon dirittotra le più significative assunte negli ultimi anni dal Lionismo toscano, nel solcoperaltro di una tradizione da tempo consolidata di interventi a favore della culturae della vita sociale dei territori che hanno espresso i nostri Club. Una tradizione,che annovera la casistica più ampia di interessamenti, dalla promozione, appunto,di incontri e pubblicazioni di studio sui multiformi aspetti della storia e della realtàsociale e culturale delle nostre zone, alle campagne di restauri delle nostre opered’arte, alla valorizzazione dei prodotti intellettuali di una civiltà vitalissima nei secoli,fino alla costante generale sollecitudine per i più disparati aspetti delle quotidianeoccorrenze dei settori specie più deboli delle nostre popolazioni. Una tradizione diintervento, in cui, in estrema sintesi, si condensa e riassume l’imperativo morale delmotto fondante del Lionismo, espresso dalla concisa, ma eloquente, affermazione,a un tempo orgogliosa e modesta, “We serve”. Nostro compito, nostro imperativo,infatti, è il servizio, reso al nostro prossimo in genere, ma in particolare, in primoluogo, ovviamente diretto verso le società dalle quali siamo nati e nel cui ambito

L’ importanza di questo convegno

Lorenzo Maccari,Lions Club Siena

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operiamo. Bene si colloca, in questo quadro, la odierna iniziativa di studio. Perchéessa ha per oggetto il ripensamento, l’aggiornamento sugli ultimi apporti della ricercascientifica, circa una delle principali radici della nostra storia, della storia della nostraregione, e non solo di questa. Gli Aldobrandeschi… un nome fascinoso, che riassume in sé, nel prestigioso riverberodella citazione Dantesca, secoli e secoli di avvenimenti e di vicissitudini, che, in unasingolarmente segnaletica evoluzione di giuridici istituti e di istituzioni pubbliche eprivate, ricapitolano la storia (sono, anzi, essi stessi la storia) di questa terra,strategicamente situata a cavallo e assieme a cesura di due mondi, destinati nel lentotrascorrere del tempo a sorti profondamente diverse. Gli Aldobrandeschi... una delle più gloriose e attive famiglie dell’età di mezzo, in unaItalia autentico crogiolo delle principali esperienze a livello europeo nel delinearsidi nuovi assetti di potere e nell’affacciarsi a esistenza sociale e politica e istituzionaledi nuovi soggetti, individuali e collettivi. Senza volere in niente sottrarre alla competente disamina degli studiosi che tra pocoprenderanno la parola su questo specialistico argomento (valga anche per me l’anticaammonizione “ne sutor ultra crepidam”!), non posso sottrarmi al sottolineare,anch’io, quanto l’approfondirlo sia di importanza ai fini di una aggiornata e compiutariflessione storica di ampio respiro, e non si debba comunque circoscrivere all’ambitodi una ristretta, ancorché raffinata, indagine particolaristica. Gli Aldobrandeschi appartengono, infatti, al novero delle non molte famigliedell’aristocrazia italiana di cui è possibile seguire (mi permetto citare l’operarecentissima del Prof. Collavini, la cui relazione sarà la prima dell’odierno convegno),di cui è possibile seguire (ripeto) dal IX al XIII secolo storia e vicissitudini: un periodosingolarmente lungo, quindi, nel quale la stirpe, dopo una rapida crescita iniziale,rimase sempre ai vertici della società toscana per ricchezza, potenza e prestigio.Ricostruirne le vicende genealogiche, patrimoniali e politiche è perciò occasionepreziosa per verificare i mutamenti conosciuti dall’aristocrazia rurale toscana nei suoirapporti con il potere centrale, con il mondo urbano e con la popolazione contadinache essa dominava e sfruttava. E per seguirne in tutte le fasi il processo ditrasformazione in senso signorile dei poteri familiari, sino alla creazione di un veroe proprio principato territoriale: attraverso lo svolgimento di una vicenda storicacomplessa e lineare, che consente di individuare efficaci modelli di riaggregazionepolitico-territoriale diversi da quelli cittadini e a essi paralleli in piena età comunale. Una vicenda quindi, quella degli Aldobrandeschi, per vari versi esemplare. Ma chedà anche occasione, proprio per la sua stretta prolungata connessione con l’ambitoterritoriale di riferimento, a indagini e collegamenti con tematiche ulteriori a questoriferibili, di cui varie relazioni oggi in agenda costituiscono un importantesvolgimento. Non posso, pertanto, che chiudere questo breve intervento (al di là di una inevitabilepunta di autocompiacimento Lionistico, che spero mi sarà perdonato) con il non

L’ importanza di ques to convegno

GLI ALDOBRANDESCHI

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retorico auspicio che il confronto odierno di ricerche di qualità, anche estese adiscipline complementari alla stretta analisi storiografica, possa contribuire a unulteriore approfondimento circa l’affascinante storia della nostra terra, e suscitare aun tempo nuovi significativi interventi e nuovi lavori ad ampliamento del patrimoniodi conoscenze in questo campo così fondamentale per la stessa identità civile eculturale delle nostre popolazioni.

L’ importanza di ques to convegno

GLI ALDOBRANDESCHI

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Questo convegno lo credo molto opportuno, perché colma una lacuna. Tuttosommato, per molto tempo fino alla recente apparizione del libro di SimoneCollavini, il problema storico degli Aldobrandeschi era rimasto in ombra.

Invece essi sono stati importanti, perché nel loro nome si può sintetizzare in un certosenso la storia della Maremma e della ‘Montagna’ (l’Amiata tale era, semplicemente,per antonomasia) nel cuore del Medioevo e quindi anche per i secoli a venire. È merito storico degli Aldobrandeschi infatti aver dato unità a quest’area cosìvariegata, la Maritima, e averla in qualche modo, sia pure molto indirettamente,preservata per noi con i suoi caratteri di grande originalità che ha oggi. Però, si parladi Maremma grossetana e non di Maremma aldobrandesca. Ebbene, questo non è unproblema terminologico, ma un problema storico. Maremma, ancora oggi, come tantisecoli fa, vuol dire grandi spazi aperti, campi e praterie, acque e boschi, insommanatura, un mondo scarsamente antropizzato, in gran parte vergine, conservato integroper il futuro. Il fascino di queste terre può derivare dal loro abbandono in tempi relativamenterecenti, dovuto come fu a fattori sanitari che influirono ovviamente sull’andamentodemografico: ossia dall’età tardomedievale fino al Settecento, quando con l’etàleopoldina si ebbe la prima grande ripresa della Maremma. Ma quella situazione dispazio aperto della Maremma e della sua Montagna, da cui anche, oltre ad altri fattoripoi, derivò la degenerazione sanitaria ben nota in età moderna, ebbe la sua origineproprio con gli Aldobrandeschi. Loro, innanzitutto e soprattutto, furono all’origine di questa terra di città storicamentedeboli, almeno fino al passato più vicino a noi, per quanto possano avere avutomomenti importanti al tempo degli Aldobrandeschi. Pensiamo soltanto a Grossetoe a quello che è emerso da recenti convegni come quello per la cattedrale1, o a MassaMarittima, col suo passato minerario, artistico e architettoniche, ma anche a centricome Abbadia San Salvatore (di cui si va riscoprendo la notevolissima bibliotecaabbaziale antica2), Santa Fiora, Arcidosso e così via. Centri che non sono mai riuscitiad emergere stabilmente come città-stato, come centri indipendenti, e quindi anchea svolgere un ruolo aggressivo nei confronti del territorio circostante. Anzi,probabilmente Massa e Grosseto con la loro vicinanza hanno finito per danneggiarsi

Introduzione a i temi del convegno

a vicenda, perché hanno consolidato due debolezze, anziché dar vita ad un’unicarealtà urbana importante. Massa e Grosseto sono rimaste come due aree ad un certopunto e per qualche tempo senz’altro di rilievo urbano, ma affogate in un marefeudale, un po’ come le città d’Oltralpe e del Mezzogiorno d’Italia e a differenza dellecittà comunali del centro-nord, che sono riuscite ad organizzarsi stabilmente comecittà-stato3. Insomma, la potenza degli Aldobrandeschi, e qui emerge bene la loro funzione storica,è a un tempo contrassegno e causa del limitato sviluppo urbano della Maremma edella Montagna. Essi sono stati vittime della loro stessa potenza. Non hanno dovuto,come tante altre famiglie nobili, patteggiare con una città ed entrare a far parte delsuo ceto dirigente. In questo modo però si sono anche preclusi una stabile base urbanada cui amplificare il loro potere. Si sono dispersi nel territorio, anziché crescere in modo sinergico con la città chene era l’ovvio contraltare: Grosseto. Fu un errore politico di più generazioni, ma chetrova una giustificazione robusta in un fatto culturale, o in vari fatti convergenti oconnessi da un grande fatto culturale. La tradizione secolare di comando di questa grande nobiltà, abituata al governo didecine di castelli e di monasteri con le loro migliaia di abitanti, portava a ragionaresui grandi spazi, sui raccordi con i poteri più elevati. Questa è la nobiltà checolloquiava con l’Impero e con il Papato e che in questo modo si è impedita diconcentrarsi su un singolo potere emergente nel proprio territorio. La vastità degliinteressi politici ed economici portava questi signori a disperdersi sul territorio,anziché a concentrarsi su un centro urbano e farne perno di una politicaespansionistica. La stessa presenza attiva di Pisa, Siena e Orvieto nello spazio degli Aldobrandeschifu di nuovo causa e conseguenza dell’assenza di una città veramente forte, e quindicausa di nuovo delle due debolezze già segnalate di Grosseto e di Massa. Se questoè vero, sono appunto gli Aldobrandeschi all’origine di questa situazione, e quindisono loro che vanno da un lato ricordati in negativo, potremmo dire, perché nonhanno consentito l’emergere di un capoluogo maremmano-montano fulcro di unriordino politico-amministrativo dell’intera area, ma anche in positivo perché hannoindirettamente impedito lo sfruttamento intenso del territorio e lo hanno preservatoquasi intatto per il futuro. Ed è questo lo stesso merito storico che almeno per i secoli più recenti, per l’età tardo-medievale e quella moderna, va riconosciuto – guardando sui tempi lunghi –, a Siena.L’indolente Siena, a un certo punto più tesa ai valori politici che a quelli economici,dopo aver favorito lo sviluppo della Maremma nei primi tempi (grosso modo nel1100-1200), ha poi sfruttato moderatamente questo territorio, succedendo nei dirittidi pascolo esercitati dai vari signori che con gli Aldobrandeschi dominaronoMaremma ad Amiata4. Certo, si può forse sostenere che Siena ha per secoli impedito all’Aldobrandesca di

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Introduzione

GLI ALDOBRANDESCHI

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Introduzione

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crescere politicamente e demograficamente, ma non può dimenticarsi che l’haimmessa con la sua dominazione entro un’area di eccellenza per i tempi; quel grandespazio non ha dato tutto quello che avrebbe potuto nel passato, ma la dominazionesenese ha anche tolto poco al futuro. Questa è solo un’ipotesi di contesto in cui situarela grande vicenda aldobrandesca che rimane per tanti aspetti da studiare e discutere.Questa che fu una delle più grandi famiglie aristocratiche italiane nei primi secoli enel cuore del Medioevo ha goduto solo di studi intermittenti, senza continuità. Imotivi sono vari, ma tra i primi potremo indicare il fatto che si tratta di una famigliache, come vedremo, scomparve nel corso del Quattrocento. Poi, andrà ricordatoanche una sorta di pregiudizio storiografico che ha pesato per molto tempo nellanostra cultura, che ha privilegiato, anche giustamente in un primo tempo, lo studiodelle classi subalterne, e quindi dei ceti contadini per la nostra area, trascurando lanobiltà quando non si trattasse di dinastie che s’identificassero con uno Stato. Lanobiltà è stata perciò studiata più come ceto che non nei singoli lignaggi che hannocostruito centri di potere nei vari territori. Questo pregiudizio storiografico ha pesatosenz’altro ai danni degli Aldobrandeschi, che se non avessero avuto alcuni personaggidanteschi probabilmente sarebbero anche più sconosciuti. Fortunatamente, il granderilievo di alcuni di loro nella Divina Commedia, ha sollecitato alcune ricerche, a partireda quella di Gaspero Ciacci del 19345, che è veramente l’opera chiave sulla famiglia. L’autore era un aristocratico (marchese) di formazione liberale-giolittiana (tra l’altroall’origine della Cassa rurale di Saturnia6) che non poteva non interrogarsi con la suacultura sugli Aldobrandeschi e la loro eredità. Perciò si dedicò meritoriamente allaraccolta della documentazione che li riguardava in quel lavoro che fu certamente atiratura limitatissima e la cui ristampa dobbiamo ad Alfio Cavoli, il noto studioso,attivissimo scrittore di cose maremmane e amiatine, che ne promosse la ristampaquando era assessore al Comune di Manciano. Ebbene, la sua ristampa è dell’80 non a caso, perché è proprio da quegli anni cherivive il problema degli Aldobrandeschi in una storiografia finalmente più attentache non in passato all’intrico dei poteri operanti sul territorio. Pochi anni prima, infatti, gli atti di un convegno del Centro italiano di studi sull’AltoMedioevo di Spoleto accoglievano una relazione importante di Gabriella Rossetti,dell’Università di Pisa, che investiva tra l’altro la diocesi altomedievale di Populoniae doveva quindi affrontare di petto gli Aldobrandeschi7; ne fu sollecitata tutta unaserie di lavori che sono il presupposto del libro di Simone Collavini uscito nel ’98,ossia la monografia attualmente più aggiornata e completa sugli Aldobrandeschi,l’opera dalla quale bisogna partire per ogni ulteriore ricerca. Tra i due estremi cronologici, tra la Rossetti e il Collavini non c’è stato il vuoto, perchésono comparsi contributi importanti di Odile Redon, dell’Università di Parigi, cheha studiato l’Amiata lavorando sullo spazio storico di Siena, nonché di Wilhelm Kurzedell’Istituto Storico Germanico di Roma8, che ha curato l’edizione del CodiceDiplomatico Amiatino9, ossia delle più antiche pergamene preservate attraverso i

secoli dall’abbazia di San Salvatore del monte Amiata, un complesso documentariodel tutto eccezionale anche a livello nazionale per la sua ricchezza e comunque peril nostro tema assolutamente indispensabile visto che della famiglia degliAldobrandeschi, per vari motivi storici (divisioni di rami familiari, débacle di alcunirami, scomparsa finale) non c’è pervenuto l’archivio privato. Gli Aldobrandeschi li conosciamo essenzialmente attraverso il filtro degli enti chehanno avuto rapporti con loro: l’abbazia di San Salvatore in primis, per esser statain qualche modo inglobata nell’area degli Aldobrandeschi, il Comune di Siena, diOrvieto e così via. Questa famiglia si conosce indirettamente, quindi, pur avendo avuto una grandestoria, perché alcuni rami sono entrati nella grande storia europea, come in alcunimomenti del Duecento, col Monfort e gli altri grandi personaggi che hanno avutoun rilievo europeo. Perciò le tracce, le testimonianze dell’operatività di questafamiglia, sono rimaste molto diffuse, fortunatamente, in altri archivi e sono state inparte recuperate nella bibliografia recente, ad esempio negli atti del convegno diAbbadia San Salvatore di pochi anni fa, curati da Wilhelm Kurze e dal sottoscritto10,e il lavoro di Paolo Cammarosano, che oggi avremmo voluto presente perché conl’assistenza tecnica di Vincenzo Passeri è stato il primo a fare una ricognizionepuntuale dei castelli del territorio storico senese11 per quello che poteva ritrovarsiattraverso i documenti e attraverso le prime rilevazioni bibliografiche. Era un’operapionieristica (e siamo di nuovo alla fine degli anni ’70), che stimolò lo stessoCammarosano a fare le prime ricognizioni sulle famiglie nobili del territorio senese12,e più tardi a dare una prima caratterizzazione della funzione storica degliAldobrandeschi nel quadro più ampio delle aristocrazie italiane nei secoli centralidel Medioevo quando, recentemente, ha scritto un brillante lavoro di sintesi sullanobiltà più antica italiana13. L’Amiata e gli Aldobrandeschi ritornavano, poi, adesempio, in un convegno americano che era dedicato (in garbata polemica) alla ‘altra’Toscana, cioè a tutta la Toscana esclusa Firenze, oggetto anche troppo privilegiatodi studi. In quella sede varie relazioni si occuparono, naturalmente, di Lucca, di Pisae poi di Siena e perciò anche dell’Amiata14. Molti altri contributi più recenti sarebbero da ricordare, ma si è già data qualchechiave bibliografica per arrivarci. Offrendo una messa a punto della situazione dellericerche in corso, questo convegno indicherà ai futuri ricercatori in quali direzioniprocedere soprattutto. Già da ora, però, si può essere confortati dal numero e dalla qualità dei giovani chelavorano in questo settore di studi. Se solo ci guardiamo indietro di pochi anni, civiene incontro un quadro ben diverso, di sparuti studiosi, per di più isolati e operantinell’indifferenza delle pubbliche istituzioni.Oggi molto è cambiato nella sensibilità collettiva. Non sempre si rispetta il grandepatrimonio che il passato ci ha tramandato – anzi, c’è chi sbuffa anche da posizionidi potere pubblico per i vincoli che il Medioevo pone alla cementificazione rampante

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Introduzione

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che non ha colore politico purtroppo –, ma nel complesso c’è un’attenzioneincomparabilmente maggiore per figure, istituzioni e testimonianze del passato –come dimostra ad esempio il periodico di Santa Fiora, le Tracce che vengonomeritoriamente curate da operatori locali. Poi ci sono naturalmente da tener contole grandi possibilità rappresentate dalle novità che prospetteranno le ricognizioniestremamente analitiche che stanno facendo gli archeologi. A partire da quanto sifa nel quadro della cartografia regionale e con il progetto speciale sponsorizzato dallaFondazione Montepaschi con cui si sta monitorando tutto il territorio toscano. Èfacile prevedere che una luce nuovissima verrà gettata su un intero periodo di storia– quello dei primi secoli del Medioevo – assai povero di documenti.Si pensi soltanto che sono già venute fuori circa 4000 emergenze15 ed è facileimmaginare, dato che la centrale di queste operazioni è a Siena e che alcuni di questioperatori sono molto legati al nostro territorio, che ci sarà un occhio di riguardoper la Maremma e per l’Amiata. Senza trascurare le altre realtà, si terranno presenticome si deve le emergenze amiatine e quindi anche gli Aldobrandeschi, che in unmodo o nell’altro sono ad esse collegati. Ma intanto, con le relazioni dei nostri relatori, entriamo nel vivo del nostro incontrodando la parola a Simone Collavini, già ricordato per il suo libro recente, che ciparlerà della Presenza nel territorio e funzione storica e sociale degli Aldobrandeschi:come dire, che riferirà in modo serio su quello che io ho soltanto abbozzato perintrodurre.

Mario AscheriUniversità di Siena

Note:1 Gli atti sono stati curati da V. Burattini sotto il titolo La cattedrale di Grosseto e il suo popolo 1295-1995, Grosseto 1996; del precedente, importante convegno grossetano sulla traslazione della cattedraepiscopale da Roselle a Grosseto gli atti non sono stati sfortunatamente pubblicati; alcune corpose enotevoli relazioni sono però state recuperate nel volume da me curato Siena e Maremma nel Medioevo,in corso di stampa. Per uno sguardo rapido, senza pretesa di completezza, alla più recente bibliografiasul territorio amiatino e maremmano mi si consenta di rinviare al mio Lo spazio storico di Siena, CiniselloBalsamo 2001; anche le pagine che seguono danno preziose indicazioni..2 Grazie al lavoro di Michael Gorman, che mi ha gentilmente partecipato alcune primizie della sua ricercapluridecennale, che dobbiamo augurarci venga presto resa pubblica: sarà un grande evento per tuttal’Amiata e la Maremma, se solo si pensa a quello che significa già, di per sé, la celebre Bibbia amiatina(oggi alla Laurenziana di Firenze; ne ho riprodotto una grande miniatura in Lo spazio storico cit., fig.32). 3 E che hanno dato vita a un dibattito complesso tutt’altro che conchiuso per la loro importanza nella storia d’Italia; cenni nel mio Città-Stato e Comuni: qualche problema storiografico, in “Le carte & lastoria”, 5 (1999), pp. 16-28. 4 Il caso degbli Ardengheschi risalta chiaramente dal recente volume d’assieme di P. Angelucci,L’Ardenghesca tra potere signorile e dominio senese (secoli XI-XIV), Napoli 2000; l’Autrice, invitata, non

ha purtroppo potuto partecipare a questo convegno.5 Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, I-II, Roma 1934, rist. Roma 1980.6 Si v. G. Celata, Saturnia dal Medioevo alla Cassa rurale, Pisa 1991.7 Si v. infatti prima il suo Società e istituzioni nei secoli IX e X: Pisa, Volterra e Populonia, in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo, Spoleto 1973, pp. 209-338; lo stessa A. affrontava poi la nostrafamiglia in Gli Aldobrandeschi, in I ceti dirigenti in toscana nell’età precomunale, Pisa 1981, pp.151-163.8 Invitato e presente nel programma di questo incontro, non ha potuto intervenire per altri impegni.9 Codex Diplomaticus Amiatinus. Urkundenbuch der Abtei S. Salvatore am Monte Amiata, I-III, Tübingen1974-1998.10 L’Amiata nel Medioevo, Roma 1989.11 Dapprima pubblicata in un meritorio volume miscellaneo promosso dal Monte dei Paschi di Siena (Icastelli del Senese, Milano 1976), del loro lavoro promossi una ristampa con indici analitici come assessorepresso l’Amministrazione provinciale di Siena (poi finalmente apparsa come Siena 1984) sotto il titolo:Città, borghi e castelli dell’area senese-grossetana.12 Dopo il suo lavoro fondamentale sui Berardenghi (Spoleto 1974), pubblicava infatti La nobiltà delSenese dal secolo VIII agli inizi del secolo XII, in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Pisa1981, pp. 223-256 (già tempestivamente anticipato in “Bullettino senese di storia patria” 86 (1979), pp.7-48).13 Nobili e re. L’Italia politica dell’alto medioevo, Roma-Bari 1998.14 Si v. The Other Tuscany, eds. Th. W. Blomquist, M. F. Mazzaoui, Kalamazoo Michigan 1994.15 Si v. la pubblicazione Castelli, I, a cura di R. Francovich e M. Ginatempo, Firenze 2000.

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Introduzione

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Tornare a scrivere sugli Aldobrandeschi a tre anni dall’uscita di un mio libro sullafamiglia è a un tempo facile e difficile. Facile, perché mi si chiede di ripercorreresinteticamente le linee principali di un tema cui ho dedicato vari anni di studio;

difficile, perché la distanza di tempo non è né abbastanza breve da consentirmi diribadire tutto quello che scrissi allora, né sufficientemente ampia da farmi guardareal libro in una prospettiva, diciamo così, storica. Perciò ho accettato non senzaimbarazzo l’invito degli organizzatori a trattare un tema tanto generale, piuttosto cheapprofondire un singolo punto trascurato in precedenza.Intendo soffermarmi su tre aspetti, fra i molti possibili; vorrei innanzituttoripercorrere rapidamente le vicende principali e le linee evolutive fondamentali dellastoria degli Aldobrandeschi, fornendo così le informazioni necessarie a chi ha menofamiliarità con il tema, ma suggerendo anche, nell’atto stesso della narrazione, unalinea interpretativa che non è scontata. In secondo luogo vorrei provare, giusto iltitolo inizialmente propostomi dagli organizzatori, a riflettere sul “significato storicodella famiglia Aldobrandeschi”, e cioè sulle considerazioni sul complesso della societàtoscana (o più ampiamente italica) che si possono trarre a partire dal caso degliAldobrandeschi. Vorrei infine soffermarmi, un po’ più ampiamente, sul rapporto trala famiglia e la Maremma: un rapporto complesso e di basilare importanza, visto chela storia plurisecolare dei conti è impensabile (nei suoi termini fondamentali) fuoridell’ambiente maremmano, così come il formarsi della Maremma, come regionestorica, deve molto alla loro presenza e alla loro peculiare esperienza di dominiopolitico, sociale ed economico.

1. I conti Aldobrandeschi: linee generali della loro storiaGli Aldobrandeschi affondano le proprie radici nella media aristocrazia lucchesedi ceppo longobardo. Le prime notizie su personaggi loro riportabili con certezza

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Simone M. CollaviniUniversità di Pisa

* Ho mantenuto nella versione scritta le linee generali del discorso tenuto al convegno e, in parte, anchela forma. L’apparato di note è ridotto al minimo. In assenza di indicazioni più precise si rimanda a S. M.Collavini, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” a “principiterritoriali” (secoli IX-XIII), Pisa, ETS, 1998 (Studi medievali, 6), delle cui conclusioni questo testocostituisce una parziale rielaborazione e un leggero ampliamento.

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risalgono agli anni a cavallo dell’800, quando la società lucchese aveva ormai assorbitoe metabolizzato il primo impatto con la dinastia franca, ma alcuni indizi rimandanoa una loro posizione di un rilievo locale già nell’ultima età longobarda. Le primegenerazioni della famiglia, non diversamente dal resto dell’élite lucchese del tempo,erano legate all’ambiente vescovile: i loro esponenti erano per lo più chierici moltoattivi nel mercato della terra e nella fondazione nel patronato e nello scambio di chieseprivate. Il loro patrimonio, e neanche questo è eccezionale, era diffuso nel territoriodiocesano / comitale di Lucca, comprese le sue appendici civili in Toscanameridionale nelle diocesi di Populonia, Roselle e Sovana. I suoi nuclei principalierano però in Val di Serchio a nord di Lucca (in crescita) e nella Valdera lucchese (indeclino); né mancavano legami con il territorio di Pisa. Nel primo quarto del IXsecolo, dunque, gli Aldobrandeschi erano una famiglia di un certo rilievo locale,ma non diversa da molte altre che la straordinaria ricchezza delle fonti lucchesipermette di conoscere; erano però nettamente meno ricchi e potenti dalle stirpi dallequali furono reclutati i vescovi lucchesi, come quella di Walprando (737-54) o quelladi Peredeo (755-79) e, ancor più, quella dei due successivi vescovi Giovanni (779-801) e Iacopo (801-18).Solo nel secondo quarto del IX secolo la famiglia fece un decisivo salto di qualitàquanto al proprio profilo sociale: l’esatta sequenza delle vicende che condussero allasvolta, a mio avviso la più decisiva nella lunga storia degli Aldobrandeschi, si possonoricostruire solo congetturalmente, ma il loro senso complessivo è chiaro: EriprandoI (v. 826-61) esponente laico della media aristocrazia lucchese divenne vassallo regio,in un momento in cui l’intervento locale dei Carolingi (con Lotario e poi LudovicoII) fu pesante come non mai prima, a causa delle vicende generali dell’impero. Il suoinserimento nella vassallità regia seguì percorsi analoghi a quelli di altri aristocraticilucchesi, ma, per ragioni non del tutto chiare (precocità? particolari doti personali?),fu ben più efficace, portandolo a svolgere funzioni di primo piano negli assetti politiciregionali: egli ebbe un ruolo importante nell’organizzazione dell’esercito che dovevaallontanare la minaccia saracena dopo il sacco di S. Pietro dell’846; e nell’858 fuaddirittura missus partibus Tuscie1.I legami di Eriprando con il potere imperiale ebbero un’evidente ricaduta sullacarriera dei figli: i due minori furono anch’essi vassalli regi, mentre i due maggioridivennero rispettivamente vescovo di Lucca e conte di un complesso aggregatoterritoriale comprendente probabilmente i territori (non ancora elevati a comitati)di Populonia, Roselle e Sovana, a cavallo dei confini con i domini papali. La caricavescovile di Geremia non ebbe seguito per il mutare degli equilibri politici localinegli anni 870, mentre la carica comitale di Ildebrando II fu la base della potenzafamigliare nei secoli successivi. La protezione imperiale e la presenza del fratellosul seggio episcopale lucchese permisero a Ildebrando II di unire ai beni fiscalicontrollati come conte gran parte dei possessi che il vescovado di Lucca aveva inToscana meridionale, allargando a dismisura il già consistente patrimonio famigliare

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nella zona. L’ascesa degli Aldobrandeschi dalla media aristocrazia lucchese ai verticidell’élite toscana (e italica) era ormai compiuta, come confermano le fonti narrativedi fine secolo, che li mostrano muoversi su un piano di quasi parità con i marchesidi Tuscia, i duchi di Spoleto e il fior fiore dell’aristocrazia dell’Italia centrale.La famiglia, grazie alla posizione appartata del suo dominio e alla minore importanzarispetto ai duchi di Tuscia e di Spoleto, seppe mantenere la carica comitale (e ilconnesso patrimonio fiscale) nei convulsi anni dei re italici fino all’affermazione delladinastia sassone. L’ascesa di Ottone I segnò una fase di stallo, se non di arretramento,dei conti, che sotto Berengario II avevano addirittura ricoperto, con due successiviesponenti, le cariche di “comes sacri palatii” e di marchese, rimaste vacanti per l’esiliodi Oberto I Obertenghi. Grazie a una politica volutamente di basso profilo e a unripiegamento sugli interessi patrimoniali locali, gli Aldobrandeschi riuscironocomunque a superare indenni gli anni poco favorevoli della casa di Sassonia,ritornando in auge grazie alla scelta di appoggiare Enrico II contro Arduino d’Ivreaalla morte di Ottone III. Nel frattempo gli Aldobrandeschi erano stati fra le stirpiche più precocemente e sistematicamente avevano condotto una politica diincastellamento dei propri centri curtensi e, più in generale, dei propri nucleipatrimoniali; una scelta che li avvantaggiò nettamente nelle lotte locali checaratterizzarono la regione nell’XI secolo.Ancora al tempo di Ildebrandino IV (v. 988-1038) l’azione della famiglia aveva respiroregionale; così come regionale era la diffusione del suo patrimonio che, purconcentrandosi ormai in Toscana meridionale, si estendeva a nord fino allaGarfagnana ed era particolarmente rilevante nel territorio di Populonia e subito anord di Lucca. Tra 950 e 1050 un simile insieme di beni, che poteva essere tutelatosolo da un potere centrale relativamente forte e efficace, rese la famiglia assai sensibileagli incerti della grande politica dovuti ai cambiamenti di dinastia (e ai mutamentid’orientamento degli imperatori) e al succedersi di personaggi molto diversi fraloro alla guida della marca di Tuscia, una struttura istituzionale che nella sua gradualeevoluzione in potere intermedio tra il regno e i poteri comitali aveva inglobato anchela Toscana meridionale, in un primo momento da essa autonoma.Alla metà dell’XI secolo, però, gli assetti patrimoniali e di potere della famiglia visserouna trasformazione radicale e relativamente rapida in senso signorile. La svolta èdirettamente collegata alla figura del successore di Ildebrando IV, il figlio omonimo.Dapprima costui e poi i suoi figli, Ranieri e Ugo, incominciarono a usarespregiudicatamente il titolo e i poteri comitali, esercitandoli dovunque riuscissero afarlo, grazie al possesso fondiario alla disponibilità di ampie clientele militari e allafitta rete di castelli (in via di crescita), indipendentemente dai confini dei comitatidi tradizione carolingia. Il titolo comitale, però, con il suo prestigio e la sua valenzapubblicistica rese fin dall’inizio la loro azione diversa da quella dei grandi proprietariche negli stessi anni presero a esercitare poteri di banno nei propri grandi possessifondiari. Gli Aldobrandeschi, infatti, mirarono a mantenere una valenza territoriale

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e politica al proprio dominato; perciò il grande possesso fondiario fornì sì un supportodecisivo allo sviluppo signorile, ma non limitò l’azione dei conti, delle loro clientelearmate e dei loro primi nuclei di officiali dipendenti. La logica stessa dello svilupposignorile – insieme alla pressione di altri soggetti concorrenti – portò dal 1050 inpoi al graduale abbandono dei nuclei patrimoniali periferici: l’area d’azione dei contisi restrinse così alla Toscana centro meridionale (con Colle Val d’Elsa come estremolimite settentrionale) e in particolare all’attuale Maremma grossetana: anche ilterritorio di Populonia, nonostante alcuni importanti punti di radicamento, divennedalla fine dell’XI secolo un’area marginale per i loro interessi.La crisi del potere marchionale, connessa allo scatenarsi della lotta per le investiture,e il suo definitivo tramonto alla morte di Matilde di Canossa consentirono il pienodispiegarsi del fenomeno signorile a tutti i livelli dell’aristocrazia. Gran parte dellaToscana centro meridionale vide allora un pullulare di poteri signorili di vario generee intensità, di cui è specchio abbastanza fedele l’infittirsi dei castelli, spesso destinatia modesta fortuna e rapida morte. Anche la Maremma, a quanto consentono di capirele poche fonti scritte disponibili e i più rilevanti dati apportati dalla ricercaarcheologica, conobbe uno sviluppo simile, anche se il numero più ridotto dei sitiincastellati, le loro maggiori dimensioni e il più basso indice di abbandono dei castellifarebbero pensare a una minore dispersione dei poteri e quindi a un tessutoaristocratico più rado e coeso2.Quando alla metà del XII secolo, dopo una fase di estrema povertà delle fonti, sipossono riprendere le fila delle vicende famigliari, i conti risultano intenti a gettarele basi della terza grande svolta negli assetti del loro potere sugli uomini e sulterritorio: la costruzione di un principato territoriale. Questa nuova struttura politico-istituzionale giunse a maturità solo nell’ultimo quarto del XII secolo, ma la suacostruzione durò oltre mezzo secolo. Il punto di partenza era costituito dall’obiettivastrapotenza degli Aldobrandeschi rispetto all’aristocrazia signorile maremmana edalla tradizione pubblicistica dei loro poteri, derivante dall’esercizio ininterrottodella funzione comitale per tre secoli. La loro aspirazione a dar vita a un potereterritoriale ampio e pubblicistico si risolse nella sottomissione dell’aristocraziasignorile, in primo luogo attraverso lo strumento feudo-vassallatico e, in particolare,il “feudo di signoria”. Il riconoscimento delle signorie locali e il loro inserimentonello spazio politico della contea fu infatti la chiave di volta della struttura politicadella contea nel tardo XII e nel XIII secolo. Un ruolo altrettanto importante ebbelo sviluppo di un corpo di officiali al servizio dei conti – processo continuamentein fieri e in via di precisazione fino alla crisi definitiva della contea. Gli officiali comitalierano fondamentali nelle signorie dirette dei conti, che costituivano, almenonell’assetto duecentesco, circa la metà dei castelli della contea. Un terzo importanteaspetto della formazione della contea fu il tentativo di monopolizzare alcuni dirittipubblicistici a scapito delle comunità e dei signori locali vassalli dei conti. Oltre aidiritti più direttamente connessi alla sfera del governo politico – come la convocazione

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dell’esercito, particolari bandi e divieti, la dichiarazione dello stato di guerra – sembraaver avuto notevole rilievo il tentativo (mai pienamente riuscito) di controllaredirettamente ed esclusivamente lo sfruttamento di tre risorse naturali di primariaimportanza per l’economia maremmana: la produzione e vendita del sale; l’estrazionedei metalli nobili; e la gestione di pascoli e incolti nel quadro del crescente pesoassunto nell’economia toscana dalla transumanza ovina. Quest’ultima non fu sfruttatasolo attraverso l’affitto dei pascoli, ma anche con l’imposizione di pedaggi locali ogenerali (questi ultimi giustificati dalla protezione nei confronti di pastori e bestiameall’interno della contea).Gran parte delle informazioni sulle strutture e sulle forme di governo della conteanella seconda metà del XII secolo vengono dalla lite che, nel primo quarto del secolosuccessivo, contrappose i figli dei due matrimoni di Ildebrandino VIII per la suaeredità. Consentono però di riferire, seppur con le cautele del caso, determinatesituazioni già alla seconda metà del XII secolo sia riferimenti interni alla lite, sia singolidocumenti sparsi, sia infine l’evoluzione della titolatura dei conti (con l’assunzionedel titolo di comites palatini) e la trasformazione della terminologia impiegata perdescriverne il dominato. Fu proprio in questo campo che, per successiveapprossimazioni e non senza incertezze, si affermò l’idea di una contea aldobrandesca(comitatus Ildibrandescus), come spazio politico e territoriale omogeneo e autonomodai contadi comunali in formazione3.Non è possibile descrivere in dettaglio né gli assetti istituzionali della conteaduecentesca, né, tantomeno, le complesse vicende politiche che videro coinvolti iconti. La questione cruciale di questo periodo fu comunque costituita, a mio avviso,dalla tensione strutturale tra l’ambizione della dinastia di rendere sempre più efficacie pervasive le forme di governo e gli ostacoli che a tale progetto vennero da vari fattoriinterni ed esterni. I più importanti fra i primi furono senz’altro la rottura dell’unitàfamigliare, con la nascita di due rami concorrenti (conti di Pitigliano / Sovana e contidi Santa Fiora), e le ambizioni autonomistiche delle maggiori stirpi aristocratichevassalle dei conti e delle più rilevanti comunità locali. Fra i secondi primeggia l’azionedi Siena (soprattutto) e Orvieto (in minor misura) volta a sottomettere politicamentee/o erodere territorialmente la contea; ma ebbero un ruolo importante anche gliinterventi delle supreme autorità politiche, come l’occupazione di larga parte dellacontea da parte di Federico II negli anni 1240 e l’azione di Bonifacio VIII nellacrisi definitiva della famiglia a cavallo del 1300.Di fronte alla tensione costante tra il tentativo di mantenere in vita la contea (epossibilmente di incrementarne l’efficacia di governo) e gli ostacoli che dall’internoe dall’esterno venivano a questo progetto, i due rami della famiglia (distaccatisigradualmente verso la metà del XIII secolo) risposero diversamente. I conti di SantaFiora, politicamente legati a Siena e, quindi tendenzialmente ghibellini, tentarono digarantire la sopravvivenza propria e della propria parte di contea, accettando un suoinserimento nello spazio politico senese. I conti di Pitigliano, invece, si opposero

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sempre frontalmente a Siena e, a partire dallo scontro tra Guglielmo e Federico II,si collegarono allo schieramento papale (e poi angioino), cercando in questa tutelaesterna una garanzia della sopravvivenza della contea come entità autonoma. Questascelta si dimostrò a lungo vincente, permettendo oltre alla tenuta della contea ancheun affinamento dei suoi metodi di governo e lo sviluppo di legami con le élites piùattive sullo scacchiere politico italiano, come mostrano i successivi matrimoni diMargherita, erede di Ildebrandino XII, con Guido di Montfort, Orso Orsini eRoffredo Caetani. Il sempre più forte schiacciamento sulla posizione guelfa causòperò un’eccessiva dipendenza dei conti di Pitigliano dagli Angiò, cosicché la crisi delVespro e le incerte sorti della guerra successiva si ripercossero sulla famiglia. Questadebolezza politica, insieme alla crisi dinastica dovuta all’assenza di eredi maschi indue generazioni successive e alla pervicacia con cui Bonifacio VIII cercò di sfruttarequesta situazione per impadronirsi della contea a vantaggio dei propri parenti,determinò una crisi profondissima e irreversibile della contea di Pitigliano. Pursopravvivendo alla bufera grazie al duplice legame matrimoniale tra Aldobrandeschie Orsini, la Contea si ridusse enormemente di dimensione e di ambizioni, vedendosidecurtata di tutti i domini indiretti (i cui signori si resero autonomi) e di gran partedi quelli diretti.Nello stesso giro di anni, anche la contea di Santa Fiora entrò in crisi – e per motiviparadossalmente opposti. Qualche tempo dopo la morte di Ildebrandino XI i suoinumerosi figli divisero in quote reali la contea: nacquero così più dominati personalidi dimensioni tanto modeste da non differenziarsi abbastanza nettamente da quellidell’aristocrazia maremmana. La debolezza dei conti di Santa Fiora, le rivalità interneche non mancarono e l’ormai indiscutibile subordinazione politica a Sienaaccelerarono il processo di spostamento delle fedeltà dell’aristocrazia maremmanadai conti verso Siena (un processo già attivatosi dalla metà del secolo, seppur confasi alterne). Anche in questo caso, nonostante le vicende dinastiche successivefavorissero una ricomposizione dell’unità famigliare, la crisi delle fedeltà vassallatiche(con la conseguente obliterazione dei domini indiretti) e il netto ridimensionamentodei domini diretti consegnò al Trecento una contea di Santa Fiora che era solo unalontana parente e una pallida immagine della grande contea aldobrandesca.

2. I conti Aldobrandeschi nel contesto dell’aristocrazia rurale italicaDopo aver cercato di tracciare le linee fondamentali della storia della famiglia e averneripercorso alcuni fondamentali momenti di snodo, vorrei passare al secondo punto,riflettendo sugli elementi che si possono trarre da questa vicenda per la storia generaledella regione e più latamente del regno italico. Vanno in primo luogo considerateconvergenze e discrasie rispetto alle linee evolutive dell’aristocrazia italica nel suoinsieme. Il primo elemento che balza agli occhi è una differenza: la lunghissima duratadella storia degli Aldobrandeschi, specialmente se si considera la precocità della loroascesa. Una caratteristica fondamentale dell’aristocrazia italica (se non più

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ampiamente di quella europea) è la sua stabilizzazione solo verso la fine del X secolo,mentre in precedenza i gruppi nobiliari, seppur potentissimi, avevano faticato a darsicontinuità dinastica in assenza dei punti di radicamento costituiti dai castelli e dalleincipienti forme di signoria locale. Ebbene, come sottolineato da Paolo Cammarosanonel suo recente Nobili e re (che ha riproposto e affinato un modello interpretativogià piuttosto risalente), il caso degli Aldobrandeschi, con la loro continuità che risaleall’inizio del IX secolo e con la loro ascesa che si pone alla metà dell’epoca carolingia,anziché un secolo dopo, è difficilmente inquadrabile in questa linea evolutiva4. Lapeculiarità della vicenda degli Aldobrandeschi è però in parte legata ai particolari“contesti documentari” in cui essa agì (dapprima Lucca, poi l’area amiatina) e perciòrisulterebbe forse meno inusuale, se conoscessimo meglio gli ambienti in cui mosseroi primi passi altre grandi stirpi aristocratiche italiche5. Comunque, anche se pazientiricerche mostrassero più risalenti origini di alcune famiglie aristocratiche e anchese i vuoti documentari permettessero di presupporre vicende analoghe per altre, nonsi potrebbe contestare la profonda novità intervenuta negli assetti aristocratici acavallo del Mille. Tale trasformazione del resto è evidente, come si è sottolineato,anche per gli Aldobrandeschi che allora ridefinirono completamente le fondamentadella propria eminenza locale. Anzi la possibilità di seguire la famiglia lungo un arcocronologico tanto ampio permette di riconoscere, di momento in momento, le novitàdegli assetti aristocratici attraverso l’analisi di un caso esemplare: fu, del resto, lacapacità – direi quasi camaleontica – di reinventarsi e di ridisegnare il proprio ruoloin base alle convenienze e alle esigenze dei tempi a garantire continuità alla fortunadella famiglia. Gli Aldobrandeschi, pur senza essere tipici, possono dunque essereusati come un efficace indicatore degli assetti e degli equilibri raggiuntidall’aristocrazia rurale italica a varie altezze cronologiche: elementi come l’originelongobarda, l’ascesa attraverso legami con il mondo ecclesiastico e soprattutto conle autorità pubbliche, la dinastizzazione e patrimonializzazione di funzioni e benipubblici, l’affermazione di poteri signorili e l’esercizio del patronato su chiese emonasteri sono tutte caratteristiche comuni all’aristocrazia italica, anche se per tempie dimensioni dei fenomeni gli Aldobrandeschi non sono sempre in linea con il restodel mondo nobiliare.Via via che ci si inoltra nel XII secolo, però, la vicenda della famiglia, pur senzamancare di riscontri, si fa sempre meno indicativa di quella complessivadell’aristocrazia italica e men che meno di quella toscana. I conti infatti nonemigrarono in città, ma neppure scomparvero o entrarono in una crisi irreversibile(le due principali alternative per l’aristocrazia rurale del periodo); al contrario essiconobbero un periodo d’intensa crescita, coronata dalla formazione del principatoe dal suo consistente potenziamento, non solo per intensità di governo e capacitàdi controllo dei poteri locali, ma anche quanto alla stessa estensione territoriale.L’evoluzione in senso principesco, pur non mancando di paralleli più o meno calzantiin Toscana (Guidi, Marchiones) e fuori di essa (Monferrato, Vasto, Estensi,

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Montefeltro) ha la sua più adeguata collocazione nel contesto europeo, nel quale,data la minor incidenza dei governi urbani, furono le dinastie aristocratiche a operareil processo di riorganizzazione degli ambiti di potere, che superò la frammentazionesignorile caratteristica del periodo fra X e XI secolo, riprendendone lo slancio epiegandolo a nuove esigenze. Nel contesto italiano è invece il parallelo con il processodi comitatinanza il più adatto a comprendere significato e caratteristiche della nascitadella contea aldobrandesca; lo mostrano sia la prossimità di certe dinamiche e dellaterminologia impiegata nelle fonti per definirle, sia il fatto che, se ci si collocaall’altezza di un momento fondamentale di trasformazione come quello della nascitadella Lega di Tuscia alla morte dell’imperatore Enrico VI, si vede che accanto aiterritori comunali, l’assetto geopolitico toscano del tempo prevedeva alcuni aggregatiterritoriali aristocratici fra cui, in primo luogo, la contea aldobrandesca6.Se gli esiti raggiunti dagli Aldobrandeschi sono certo eccezionali rispetto al panoramacircostante, lo sono meno le dinamiche che a tali esiti portarono. Infatti durante ilXII secolo, anche in Toscana, ci furono vari tentativi di trasformare i disgregatipatrimoni signorili delle maggiori famiglie dell’aristocrazia rurale in dominati compattie organici dotati di ambizioni politiche. Il grado di evoluzione verso forme principeschevaria molto da caso a caso e il tentativo per lo più non ebbe successo duraturo, se nonper breve tempo per Guidi, Alberti e Marchiones; ma furono molte le famiglie che,seppur a livello più modesto, tentarono di creare dominati signorili politicamenteautonomi e dotati di un’articolazione istituzionale interna (reti di officiali, famigliedi vassalli a loro volta dotati di poteri signorili). Queste esperienze istituzionali piùcomplesse si situano nel generale processo di riorganizzazione e selezione dei nucleidi potere autonomo germinati dallo sviluppo signorile. In campagna, come del restoanche in città, nel XII secolo si assistette a un processo di precisazione, concentrazionee gerarchizzazione dei poteri, in cui l’aristocrazia rurale ebbe un ruolo fondamentale,anche se minoritario e alla lunga perdente rispetto a quella urbana (e a quella inurbatao in via di inurbamento). Se per questi ultimi gruppi lo strumento di affermazione econtrollo delle istanze di potere autonomo fu l’istituto comunale, l’aristocrazia ruralericorse piuttosto a forme di governo di tipo principesco per tentare di disciplinarel’effervescenza dei poteri signorili, irregimentandoli in forme di esercizio del governopiù saldamente strutturate e gerarchizzate. All’inizio del XIII secolo, comunque,l’opzione principesca era ormai soccombente, se non del tutto tramontata, in Toscana,salvo che per gli Aldobrandeschi. Si è soliti considerare questa peculiarità come fruttodel contesto ambientale storico e politico in cui la famiglia si mosse. La Toscanameridionale fin dalla tarda età romana, infatti, aveva vissuto una drammatica crisi dellecittà, crisi accentuatasi durante l’alto medio evo, quando, con cronologie e per causediverse da caso a caso, entrarono in gravissima crisi (fino alla completa scomparsa)anche i centri più floridi nella tarda antichità e che perciò erano divenuti sediepiscopali. Anche quando, a partire dall’età carolingia, si avviò in tutta la Penisola unacrescita economica fattasi travolgente dall’XI secolo, in Maremma non nacquero grandi

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nuclei urbani, sebbene non mancassero centri economicamente vivaci, spesso di nuovafondazione (come Grosseto o Massa Marittima). Perciò gli Aldobrandeschi nondovettero confrontarsi con città importanti, finché in Maremma non intervennero legrandi città dell’interno e del nord, dapprima Pisa e Siena, poi anche Orvieto e Firenze.La debolezza del tessuto urbano è perciò generalmente ritenuta la causa principaledella fortuna della dinastia aldobrandesca e del suo dominato tra XII e XIII secolo.In questo c’è molto di vero e non solo perché i conti, al momento della creazione delprincipato, non dovettero scontrarsi con le ambizioni di centri urbani dai contadiin via di formazione, ma anche perché l’assenza di un’alternativa urbana li indussea percorrere la propria strada con maggiore coerenza, così come spinse l’aristocraziadel territorio ad accettare più facilmente la sottomissione. Non si deve però pensareche questa sia l’unica ragione del successo dei conti: vanno infatti valorizzati anchealcuni elementi interni alla famiglia stessa. Il primo è la forte dinastizzazione chelimitò molto (anche attraverso le scelte di politica matrimoniale) la frammentazionein rami ed anzi mantenne per gran parte del XII secolo la guida della famiglia a unasola persona per generazione. Questa caratteristica, che gli Aldobrandeschicondividono con i Guidi proprio per il periodo in cui costoro tentarono di costruireun proprio dominato principesco, non pare dovuta solo a fattori casuali, ma sembrafrutto di una strategia finalizzata a salvaguardare l’unità dei beni e dei poteri famigliari,garantendo il predominio dei figli maschi primogeniti. Del resto la tendenza adifendere l’unità della contea attraverso espedienti politici e giuridici è ancoraevidente nel corso della lotta che contrappose i figli dei due matrimoni diIldebrandino VIII: nei lodi prodotti per risolvere la questione ci sono infatti normeche cercano di proteggere l’unità – almeno politica – della contea anche contro ildettato del diritto ereditario di matrice longobarda allora in vigore.La forte struttura dinastica e la solidarietà interna alla famiglia, che permise direcuperare l’eredità del ramo secondario sviluppatosi tra X e XI secolo e quella dicollaterali morti senza eredi diretti (anche in presenza di testamenti di tenoreopposto), furono senz’altro fondamentali per la fortuna dei conti, come confermail rilevantissimo peso della divisione in due rami e delle rivalità fra loro nella lungacrisi della seconda metà del XIII secolo. La capacità di far prevalere gli interessidel gruppo famigliare su quelli dei singoli individui fu importante e del tuttofunzionale alla costruzione di un principato, ma non era priva di prezzi per chi eraescluso dal potere e questo condusse a reazioni violente e potenzialmente distruttiveper la famiglia. La difficoltà di portarla avanti con coerenza emerge bene dagli eventi di inizio XIIIsecolo, quando Ildebrandino IX, figlio di primo letto di Ildebrandino VIII, rifiutòdi accettare il nuovo testamento del padre che nel 1208 lo escluse dall’eredità a favoredei fratellastri; allo stesso modo i fratelli minori di Bonifacio, il nuovo primogenito,non si accontentarono di una quota ideale dell’eredità, ma nel 1216 ottennero (almenomomentaneamente) una quota reale della contea costituita da una certa quantità di

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beni e di castelli precisamente identificati. Prevalevano così le ragioni e gli interessidei singoli a lungo compressi nel secolo precedente.

3. I conti Aldobrandeschi e la Maremma7

Si è già detto del ruolo correttamente, anche se forse univocamente, attribuito dallastoriografia alle condizioni ambientali e storiche della Toscana meridionale nelsuccesso della dinastia aldobrandesca. D’altro canto, però, si può anche sostenereil contrario, e cioè che la presenza così ingombrante della famiglia e del suo dominatoabbia influenzato in modo decisivo le caratteristiche della regione, contribuendo afissarle nei termini in cui le conosciamo nel pieno e tardo medioevo.Riguardo al primo aspetto ci si è già soffermati sul peso fondamentale della debolezzadel tessuto urbano subregionale e del conseguente ritardo con cui gli Aldobrandeschivennero a contatto con le città. Andrà aggiunto il fatto che la proprietà fondiariaaveva in Toscana meridionale caratteristiche diverse dal resto della regione: lo scarsopopolamento, l’assenza di città, l’essere stata a lungo area di confine tra regnolongobardo e ducato romano e la conquista in fasi successive alla prima espansionelongobarda furono tutte concause – intrecciate in maniera complessa – della moltopiù accentuata presenza della grande proprietà (spesso anche di enti e persone radicatialtrove) rispetto all’area settentrionale. La tenuità della rete di medi e piccoliproprietari e il predominio del grande latifondo (specialmente fiscale ed ecclesiastico)favorirono sicuramente la fortuna degli Aldobrandeschi (eredi sia dei beni fiscali chedel grande patrimonio della chiesa lucchese) e orientarono precocemente in sensosignorile la società maremmana.Mi pare, infine, che il ruolo particolarmente consistente giocato nell’economiamaremmana dallo sfruttamento di alcune risorse naturali, come l’estrazione dei metallipreziosi, la produzione e la vendita del sale marino e lo sfruttamento sistematico dipascoli e aree incolte nel quadro dell’allevamento transumante, abbia anch’essofavorito la nascita e la sopravvivenza della contea. Certo, non si può intendere questonesso in maniera univoca o necessitante, dato che non mancano casi, anche vicinicome Massa Marittima e Montieri, nei quali lo sfruttamento delle risorse minerarienon avvenne nel quadro di un forte dominio signorile, ma al contrario favorìl’affermazione di più soggetti concorrenti e di forti comunità autonome. Sembra peròevidente che il carattere pubblicistico del potere famigliare, in virtù della caricacomitale ricoperta fin dall’età carolingia, abbia favorito un controllo, almeno in unaprima fase, su queste attività, che potrebbe aver garantito ai conti quel surplus dirisorse che, insieme alle cause di ordine sociale e politico già delineate, può spiegarneil successo nel tentativo di sottomettere l’aristocrazia signorile maremmana tra XI eXII secolo. In seguito, inoltre, e questa ipotesi è meno congetturale, il carattere“statuale” della contea tra XII e XIII secolo consentì alla famiglia un forte controllo– e dunque una consistente tassazione – di queste attività e del flusso crescente dellatransumanza (pedaggi generali affiancati a quelli locali, all’affitto dei pascoli e

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all’allevamento in proprio da parte di collaterali della dinastia). Di qui vennero risorsenotevoli, fondamentali per la sopravvivenza della contea di fronte alla crescentepressione delle forze disgreganti interne ed esterne e per la fissazione degli equilibriinterni alla dinastia stessa.

Se spostiamo la nostra attenzione verso l’altro aspetto del problema, e cioè il modoe la misura in cui gli Aldobrandeschi contribuirono a plasmare i caratteri dellaMaremma, dobbiamo concentrarci sul XII e XIII secolo. Non che il periodoprecedente non sia stato importante, ma fu la nascita della contea a segnare piùprofondamente la storia maremmana, facendola divergere sempre più nettamenteda quella del resto della regione. L’esistenza di una struttura politica e istituzionalecome la contea ebbe infatti notevoli ricadute anche in campo sociale ed economico.Un primo nucleo tematico importante riguarda i rapporti di forza e i flussi di ricchezzaall’interno del territorio maremmano determinati dalla presenza di questa strutturapolitica. Se è vero che lo sviluppo della contea fu reso possibile dalla debolezza deltessuto urbano della Toscana meridionale, è altrettanto vero che essa, data la suapeculiare forma istituzionale, impedì il decollo di nuovi centri urbani, limitandonel’espansione politica ed economica e in particolare impedendo la costruzione diterritori soggetti. È il caso di Grosseto, la cui crescita socio-economica non si risolsenella creazione di un sia pur modesto contado nel primo ’200 per il perdurantedominio comitale (sia sul centro stesso che sui castelli limitrofi).Il mancato sviluppo di centri schiettamente urbani fu dovuto anche al fatto che, finoalla crisi di inizio ’300 e al ridimensionamento delle due contee, non giunse mai acompimento il processo di fissazione di una residenza comitale stabile: continuaronoa esistere invece più castelli che, per posizione strategica e/o per decoro delleresidenze, erano i luoghi preferiti di dimora dei conti, senza che nessuno di essiassurgesse a una posizione di esclusività. Lo consentiva del resto la tenuità degliapparati di governo centrale, che continuavano a muoversi al seguito dei conti. Ènoto invece che la fissazione di capitali fu uno degli elementi che favorirono la crescitadi alcuni centri urbani nella gerarchia demica o la nascita ex novo di città in zone finoad allora poco urbanizzate8.L’assenza di un centro urbano dominante – politicamente ed economicamente – eil mancato emergere di un castello / capitale esaltarono il carattere decentrato dellacontea, formata da un’ottantina di castelli (con i dipendenti territori signorili) senzaalcuna subordinazione degli uni agli altri. Se da un lato, quindi, l’intero territorio era un “contado”, per la pervasiva presenzadei poteri signorili e per la netta caratterizzazione agraria dell’economia, d’altro cantoera assente un centro urbano, economicamente altrimenti caratterizzato egiuridicamente privilegiato, con cui confrontarsi. Insomma mancavano un centro euna periferia, e ciò rendeva meno ineguale la distribuzione delle risorse a livellospaziale (anche se non, ovviamente, a livello sociale). Questa peculiarità sembra inoltre aver limitato, rispetto ad altre aree, l’emigrazione

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delle élites locali e, ancor più, dei ceti inferiori, come sembra suggerire il mancatosviluppo di espliciti oneri di residenza coatta per i contadini maremmani9.L’itineranza dei conti, l’assenza di un centro e di una periferia e l’autonomia politicadella contea rispetto alle città comunali limitarono anche il drenaggio delle risorselocali verso l’esterno (e in particolare verso le città). Gran parte di quel che venivaprelevato attraverso lo sfruttamento economico del lavoro contadino e attraversola leva fiscale fu speso nella contea: per il mantenimento della famiglia e del suoseguito, per l’edificazione di castelli e palazzi, per la remunerazione di gruppiaristocratici più o meno cospicui dipendenti dai conti, per le spese militari in difesadell’integrità della contea, per la magnificenza e la carità a vantaggio di enti e soggettimaremmani. La mobilità dei conti e del loro seguito attivava così in molti castellicircuiti di spesa e di crescita dell’economia locale di un certo rilievo (analoghi, anchese ovviamente infinitamente inferiori, a quelli messi in moto dalla corte papale inalcuni centri dell’Italia centrale); lo stesso può dirsi, seppur in misura più modesta,anche per quei signori locali che rimasero radicati nei castelli maremmani, anzichéinurbarsi (e spendere quindi in città quanto prodotto dalle campagne) come eraavvenuto nel resto della Toscana e come avvenne in Maremma alla fine del XIII esoprattutto nel corso del XIV secolo. Anzi, gli Aldobrandeschi, grazie alla loronotevole importanza politica e ai loro stretti legami con i vertici politici del tempo,seppero attirare in Maremma risorse economiche (grazie a condotte militari e doti)e immateriali (conoscenze giuridiche, competenze tecniche, committenza artistica,circoli poetici) che nel XIII secolo ridussero la marginalità della Maremma rispettoad altre fasi della sua storia precedente e successiva.L’affermazione della contea fu molto importante anche per gli equilibri sociali, e inparticolare per quelli interni al mondo aristocratico. In tal senso la vicenda degliAldobrandeschi è in linea con quanto riscontrato per altre aree della penisola (comeil Trentino e il Friuli)10. La costruzione della contea nel XII secolo comportò infattiun completo ridisegnamento del profilo dell’aristocrazia maremmana, favorendo unsostanziale ricambio dei gruppi famigliari, incrementandone significativamente lamobilità (spesso anche ad ampio raggio) e alterandone notevolmente gli equilibriinterni relativi. Il primo e più cospicuo effetto fu il ridimensionamento di alcunefamiglie, i cui patrimoni comprendevano nel XII secolo più di una decina di castellie che, per la pressione della concorrenza aldobrandesca (e di quella cittadina), nonriuscirono a mantenere inalterate le proprie fortune dopo il 1200. Alcune, come lafamiglia che dominava la Guiniccesca, furono condannate all’estinzione e i loro benifurono incamerati nella contea; altre, come Tignosi e Vicecomites (poi Visconti diCampagnatico e Visconti di Campiglia), vissero gravi crisi, accentuate dal proliferaredi rami ed eredi che si spartirono quanto restava dell’antico dominato, legandosialternativamente ai conti o ai governi urbani di Siena o di Orvieto.Questa crisi, analoga a quella che travolse gli Ardengheschi e i rami rurali deiGherardeschi, non colpì alcune famiglie di più recente ascesa, radicate ai margini

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della contea, le quali grazie ai legami politici allacciati con i conti, alla propriamarginalità e ad un intelligente gioco di equilibrio con le potenze limitrofe furonoprotagoniste di una vigorosissima crescita duecentesca che le portò a proporsi comesignificative potenze e come eredi del dominio aldobrandesco al momento dellasua crisi. È il caso, per esempio, di Farnese e Baschi (non per caso localizzati nelsud della contea, l’area meno interessata dalla pressione cittadina) e, forse, deiPannocchieschi. L’aristocrazia signorile che dominò la contea tra XII e XIII secolo,però, era costituita soprattutto da famiglie con orizzonti molto più limitati e localizzati,che non controllavano più di due o tre castelli (e spesso in forma consortile).L’impressione, derivante da un documentazione insufficiente, è che si tratti per lopiù di famiglie che dovevano la propria fortuna al legame con i conti, un legamespesso sviluppatosi in tempi relativamente recenti nel corso del processo disottomissione e disciplinamento dei poteri locali, che gli Aldobrandeschi intrapreserotra XI e XII secolo. È possibile però che alcune stirpi signorili duecentescheaffondassero le proprie radici in una più remota tradizione di dominio locale a basefondiaria. Comunque l’intervento aldobrandesco operò un forte ricambio,positivamente attestato persino da fonti povere come quelle maremmane.La contea impedì inoltre casi di rapida ascesa di singole famiglie: fenomeni del generesi ebbero, non per caso, solo ai suoi margini, mentre là dove il potere comitale fuefficace, esso agì da deterrente, garantendo l’equilibrio all’interno dell’aristocraziasignorile. Perciò se la contea fu a lungo la principale garanzia della tenuta del cetosignorile maremmano nel suo complesso, non lo fu invece per le singole famiglie chefurono colpite, oltre che dal naturale fenomeno delle estinzioni e delle implosionidovute all’eccessiva proliferazione della discendenza, anche dall’azione di controlloda parte del potere comitale e dalla continua minaccia di interventi drastici in casodi infedeltà politica. Per quanto modesto e discontinuo, infine, non andrà neppuredimenticato il prelievo di risorse operato dai conti nei confronti dell’aristocraziadel territorio che, se anche inferiore a quello dei successivi governi urbani, ebbeuna sua consistenza.Vanno infine rammentate, fra gli effetti collaterali dello sviluppo della contea, leconseguenze del passaggio da un dominio semplicemente signorile a uno di tipoprincipesco nei domini diretti dei conti, fatto che favorì la crescita e l’affermazionedi nuove élites locali. Il fenomeno è evidente nei maggiori fra questi castelli: prelievie diritti signorili assunsero sempre più carattere fiscale, lasciando spazioall’intraprendenza di nuovi soggetti economici; le reti di consumo e di scambio attivatedai conti favorirono la diversificazione delle attività produttive; la nascita di istituzionicomunitarie (ampiamente incoraggiata dai conti) garantì alle élites locali la possibilitàdi sfruttare le risorse economiche comunitarie (beni comuni, fiscalità, stipendi pergli uffici); il servizio ai conti (in campo militare o nel notariato) garantì sbocchi piùampi e nuove fonti d’entrata. Tutto ciò, accanto a più generali processi didifferenziazione interni al mondo di villaggio, attivi allora in tutta la regione, favorì

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l’emergere di nuovi e solidi notabilati, in vigorosa crescita socio-economica.A quanto si può capire da fonti piuttosto desolanti, i conti ebbero un ruolo di rilievonel garantire l’equilibrio tra questo gruppo in ascesa e le antiche aristocrazie militaripresenti in molti castelli. Consente di ipotizzarlo l’unico caso in cui siano note tensionisociali all’interno di un castello aldobrandesco nel ’200: si tratta di Suvereto in Valdi Cornia, dove per tutto il secolo si fronteggiarono in una lunga lite populares(esponenti del gruppo testé delineato) e nobiles (membri della consorteria deiVicedomini di Massa Marittima e aristocratici locali) riguardo a certi oneri personalie contribuzioni fiscali. Ebbene, le parti si appellarono a più istanze diverse, ma furonogli Aldobrandeschi a trovare, a quanto pare, la soluzione definitiva. Dunque i conti,a differenza di altri poteri meno attenti agli equilibri locali (come il comune di Pisa),seguirono con attenzione e favore l’emergere di nuove élites locali, andando anchecontro i privilegi della vecchia aristocrazia signorile e militare11.Nel riflettere sugli effetti dell’esperienza della contea aldobrandesca, vorrei infinesuggerire la possibilità che l’esistenza di una struttura politica unitaria in Maremmaa partire dalla seconda metà del XII secolo abbia favorito lo sviluppo dellatransumanza, determinandone in parte le caratteristiche tipiche. Alla base dellosviluppo di questa forma di allevamento stava certamente la sempre crescente richiestadi materia prima da parte di una manifattura laniera in enorme espansione, ma allacentralità assunta in questo contesto generale dal percorso verso la Maremma nonfu estranea la garanzia di protezione su di un territorio ampio e articolato, che soloi conti potevano garantire. Credo che questa peculiarità politica, unita alladisponibilità di ampi spazi incolti, abbia decisamente favorito la Maremma rispettoad altre aree costiere in precedenza più importanti per la transumanza, anche perchépiù vicine ai pascoli estivi appenninici (Garfagnana, Lunigiana, montagne delPistoiese), quali la Versilia e la Maremma pisana (ed anzi la centralità assunta daipascoli invernali maremmani potrebbe aver favorito il decollo di pascoli estivi vicini,come quelli amiatini). Potrebbero confermare questa ipotesi interpretativa la presenzadi un pedaggio generale (detto non per caso delle “pecore garfagnine”) connesso altransito per la contea e alla protezione accordata al suo interno fin dai primi anni delXIII secolo (come minimo) e un episodio rammentato dal cronista BernardoMaragone. Nel 1172 Ildebrandino VII, insieme al comune di Pisa suo alleato,organizzò una spedizione militare (culminata in un assedio) contro il suo vassalloBernardino di Cinigiano, reo di aver catturato le pecore provenienti dalla Garfagnana.Già a questa data (e si tratta di una delle più antiche testimonianze di spostamentifra Garfagnana e Maremma meridionale) il rilievo economico dell’allevamento eratale da indurre a muovere guerra e da meritare il ricordo in una cronaca pisana12.Ritengo che la capacità degli Aldobrandeschi di impedire il ripetersi di episodi delgenere o quanto meno la possibilità di reprimerli adeguatamente non sia stata estraneaalla crescente importanza della Maremma come meta del bestiame ovino nei mesiinvernali. D’altro canto, in un gioco di specchi ormai famigliare, la fortuna della

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transumanza accentuò il carattere accentrato degli insediamenti, il largo spazio lasciatoall’incolto fra un castello e l’altro e l’equilibrio fra i vari centri demici, rafforzandocosì i caratteri già in precedenza tipici della contea e di tutta la Maremma.

La presenza aldobrandesca si configura dunque come elemento fondante nella storiamaremmana: se da un lato la dinastia e il suo dominio politico furono il naturale esitodella storia e della società di questo territorio, d’altro canto l’esperienza politica dellafamiglia Aldobrandeschi segnò profondamente e irreversibilmente la regione. Lacontea infatti non solo fece sì che le strutture politiche della Maremma fosserocompletamente diverse da quelle del resto della Toscana, ma direttamente oindirettamente influenzò anche molti altri aspetti della società e dell’economia:dall’assetto del tessuto insediativo (città e castelli) ai flussi delle risorse ricavate dallosfruttamento del lavoro di contadini minatori e pastori, dalle strutture e dagli equilibridel mondo aristocratico, ai rapporti di questo con le nuove élites di villaggio, finoallo stesso sviluppo della transumanza: la forma economica più globalizzante nellaMaremma bassomedievale e moderna. L’esperienza di dominio degli Aldobrandeschisi rivela dunque anche per il ’200 assai significativa per lo storico generale, anche sein termini in parte diversi rispetto ai secoli precedenti. Per la parte più antica dellasua storia essa era importante e interessante soprattutto come modello cui confrontaregli assetti aristocratici regionali, per cogliere appieno convergenze e discrasie; nellafase duecentesca l’interesse peculiare della storia di questa famiglia sta invece nellacosì piena interconnessione tra dinastia e regione, nella profonda commistione fravicende e destini dell’una e dell’altra. L’esperienza del principato si propone cosìcome elemento globalizzante di interpretazione della storia della Maremmaduecentesca non solo in campo politico e istituzionale, ma anche in tutti gli altrisettori. Anche in questo caso un’indagine sulle vicinanze e differenze tra questavicenda e quelle di altre dinastie (italiane e, soprattutto, europee) sarebbe di notevoleinteresse e ammaestramento per lo storico generale che si interroghi sul fenomenodei principati (e delle monarchie) e sulla loro capacità di forgiare non solo nuoverealtà politiche, ma anche spazi istituzionali sociali ed economici omogenei.

Note:1 S.M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” aprincipi territoriali (secoli IX-XIII), Pisa, ETS, 1998 (Studi medievali 6), pp. 45-46.2 Per una messa a punto delle fonti scritte e archeologiche sull’incastellamento per i territori di Populoniae Roselle, vd. R. FARINELLI, I castelli nei territori diocesani di Populonia - Massa e Roselle - Grosseto(secc. X-XIV), in Castelli: storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, I, (a c.) R. FRANCOVICH,M. GINATEMPO, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2000, pp. 141-203.3 Segnalo qui un’occorrenza dell’espressione “contea aldobrandesca” che mi era sfuggita: è la data topicadi una donazione a S. Salvatore di Fontebona (Il Cartulario della Berardenga, [a c.] E. CASANOVA, Siena,1927, n. 488, a. 1166 ott.), compiuta da Magliano, che recita: “Actum in comitatu Ildibrandessco, in

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castello de Mallano”. Il notaio è Placidus iudex, non altrimenti connesso alla famiglia. L’atto anticipa disette anni la prima comparsa dell’espressione (vd. COLLAVINI, “Honorabilis domus”, p. 232).4 P. CAMMAROSANO, Nobili e re. L’Italia politica nell’alto medioevo, Roma -Bari, Laterza, 1998, passime spec. p. 290.5 Le possibili origini romagnole (un’altra area favorita dalla densità documentaria) di due stirpi comitalitoscane (di solito ritenute di X secolo) peremetterebbero di retrodatarne le prime attestazioni, vd. R.RINALDI, Le origini dei Guidi nelle terre di Romagna (secoli IX-X), in Formazione e strutture dei cetidominanti nel medioevo: marchesi conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII). (Atti del secondo convegnodi Pisa: 3-4 dicembre 1993 [ma 1992]), Roma, Isime, 1996 [ma 1997] (Nuovi studi storici, 39), pp. 211-240 e T. LAZZARI, I conti Alberti in Emilia, ibid., pp. 161-177 (le cui conclusioni sono però contestate daM. L. CECCARELLI LEMUT, I conti Alberti in Toscana fino all’inizio del XIII secolo, ibid., pp. 179-210).6 P. SANTINI, Capitoli del comune di Firenze dall’anno 1138 all’anno 1250, in Id., Documenti dell’anticacostituzione del comune di Firenze, Firenze, Viesseux, 1895 (Documenti di storia italiana, X), pp. 1-220:n. XXI, pp. 34-39, a. 1197 nov. 11 - 1198 feb. 7.7 Questo paragrafo, oltre che dalle conclusioni del volume già citato, deriva da un seminario dal titoloCostruzione dello stato e mutamento economico: le peculiarità delle formazioni principesche, tenuto il 6giugno 2000 nel quadro del programma di ricerca su Costruzione dello stato e mutamento economico neisecoli XII-XIV coordinato dal prof. Paolo Cammarosano (Univ. di Trieste). Ringrazio i partecipanti alseminario, e in particolare Maria Ginatempo (Univ. di Siena), per le loro osservazioni. Questa primaversione, priva di note se non per l’essenziale, anticipa una stesura più ampia prevista per un volumemiscellaneo in corso di realizzazione da parte del gruppo di ricerca.8 Cfr. L. PROVERO, L’invenzione di una città: Saluzzo da castello a capoluogo del marchesato (XI-XIIIsecolo), “Nuova rivista storica”, 79, 1995, pp. 1-26.9 L’affermazione di obblighi di residenza e di vincoli alla terra tra XII e XIII secolo non va infatti vistacome una sopravvivenza di pratiche altomedievali, ma come una reazione alla crisi della signoria teritorialee alla forte mobilità dei contadini, cfr. S. M. COLLAVINI, Il “servaggio” in Toscana nel XII e XIII secolo:alcuni sondaggi nella documentazione diplomatica, “Melanges de l’École française de Rome. Moyen Age- Temps Modernes”, 112, 2000, pp. 775-801: 797.10 Cfr. P. CAMMAROSANO, L’organizzazione dei poteri territoriali nell’arco alpino, in L’organizzazionedel territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, (a c.) G. CHITTOLINI, D. WILLOWEIT (Atti dellaXXXV settimana di studio. 7-12 settembre 1992), Il Mulino, Bologna 1994 (“Annali dell’Istituto storicoitalo-germanico”. Quaderno, 37), pp. 71-80 e M. BETTOTTI, Famiglie e territorio nella Valle dell’Adigetra XII e XIV secolo, “Geschichte und Region / Storia e regione”, IV, 1995, pp. 129-153; fenomeni analoghiper il Saluzzese in L. PROVERO, Dai marchesi del Vasto ai primi marchesi di Saluzzo. Sviluppi signorilientro quadri pubblici (secoli XI-XII), Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1992 (Bibliotecastorica subalpina, 209).11 Vd. COLLAVINI, “Honorabilis domus”, pp. 474-476.12 Ibid., pp. 550-551.

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Un progetto di ricerca sui castelli amiatini nel quadro della valutazione del potenzialearcheologico

Le ricerche sui siti fortificati sono uno dei punti di forza dell’archeologia medievaleitaliana, ma negli ultimi anni l’attivazione da parte dell’Università di Siena di un vastocensimento che coinvolge tutta la Toscana ha mutato il fattore di scala dell’interventoanche in quelle zone dove già l’indagine era ad uno stadio avanzato come la Val diCornia, il Massetano e il Rosellano. Il lavoro è partito da una schedatura sistematica della letteratura storico-archeologicasenza trascurare affondi sull’inedito e indagini sul terreno in questi stessi comprensori.In particolare per quello amiatino è già stata pubblicata la carta archeologica delcomune di Abbadia S. Salvatore (a cura di Franco Cambi), mentre sono in corso lerimanenti del versante senese (Radicofani, Piancastagnaio, Castiglione d’Orcia) egrossetano (Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora, Roccalbegna,Castell’Azzara). Una distinzione fra i due versanti della montagna trova peraltroconforto per il Medioevo in una differente dinamica insediativa pur in un quadrounitario costituito dalla proprietà laica, gli Aldobrandeschi, che interagì con l’abbaziadi S. Salvatore. Solo nel caso di Castell’Azzara la ricognizione è parte integrante diun progetto di valorizzazione che trae origine dallo scavo del castello di Selvena graziead un rapporto consolidato con l’amministrazione comunale. La ricerca sarebbecertamente più facilitata se questa esperienza fosse estesa anche alle altreamministrazioni e alle comunità montane. Riesce difficile infatti pensare che laprogettazione di un parco archeominerario, la valorizzazione dell’ambiente e delterritorio nel suo complesso siano destinati al successo se non partono da domandestoriografiche forti. E certamente lo studio dell’interazione fra insediamento, centridel potere e risorse è un punto di forza solo se visto in una prospettiva storica di lungadurata in cui l’incastellamento gioca un ruolo di primo piano.

Dopo due decenni di vivace dibattito corriamo il rischio che l’interesse generale suquesto tema centrale per la storia toscana si assopisca. Abbiamo compreso l’importanza dell’insediamento accentrato di sommità in un

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Le grandi fas i del l ’ incaste l lamento. Selvena e g l i a l tr i caste l l i del l ’Amiata

grossetana a confronto

Riccardo Francovich e Carlo Citter, Univeristà di Siena

con schede di Floriano Cavanna, Teresa Cavallo, Stella Menci, Anna Caprasecca.

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quadro di rinascita della grande proprietà fondiaria, pur se ad un livello nonparagonabile a quella tardoantica. Abbiamo visto il formarsi dei villaggi comunitarinel corso del VII e dell’VIII secolo, che già avevano assunto una forma accentrata,sebbene non possiamo escludere realtà particolari dove l’accentramento potesseessere meno evidente. Abbiamo registrato l’affermarsi dei segni tangibili di unagerarchia sociale, per la prima volta dalla fine dell’antico, non nel senso che legerarchie fossero scomparse, ma nel senso che dalla metà del VI alla metà dell’VIIIsecolo esse non erano in grado o non avevano l’interesse ad incidere sul paesaggioagrario. Abbiamo anche visto che, accanto a zone dove il castello si sovrapposefisicamente al villaggio altomedievale, ve ne sono altre, come l’Amiata, dove ci fu unospostamento. Sfumano comunque i rigori del dibattito degli anni ’80. È evidente,infatti, che in entrambi i casi il castello stabilì strette relazioni con i precedenti assettidella proprietà e della maglia insediativa. Rimane comunque un fatto chel’insediamento sparso in pianura dopo la metà del VII secolo non ha lasciato tracciaarcheologica: decenni di ricognizioni in quadri ambientali diversi non hanno prodottorisultati apprezzabili in termini statistici. Trovare qualche capanna o piccola fattoria,magari nei pressi di nuclei accentrati, in oltre 100.000 ettari di campi ricogniti nellaToscana meridionale non può bastare per dire che l’insediamento sparso era ancorauna caratteristica saliente del paesaggio di VIII-X secolo. Tuttavia studiare l’incastellamento non significa studiarne solamente le fasi iniziali.Esso non ci appare più, alla luce sia della documentazione scritta che archeologica,come un fenomeno monolitico, ma come un complesso e articolato intreccio diprocessi di trasformazione e selezione della maglia insediativa i cui contorni sonoancora un po’ troppo vaghi. Studiare l’incastellamento significa oggi cercare dicomprenderne allo stesso tempo i processi formativi e le trasformazioni successive.Si aprono pertanto nuovi scenari sulle dinamiche insediative anche del periodosuccessivo alla comparsa dei primi recinti fortificati in pietra: fra la metà del XII etutto il XIII secolo vi fu un’opera di selezione dell’insediamento e in questo casol’Amiata è un comprensorio ideale dove storici e archeologi possono confrontarsi. Gli stimoli di questa nuova frontiera della ricerca sono molteplici. Un primocensimento dei siti fortificati d’altura dell’Amiata grossetano ha fornito un numerosuperiore a quello dei castelli noti dalle fonti. È presto per dire al termine del lavoroquanto i due numeri saranno distanti. Ma è comunque un dato su cui riflettere. Inquesta disparità potrebbe nascondersi una realtà molto variegata. Potremmo trovarcidi fronte a castelli di prima fase che non riuscirono a imporsi nel nuovo quadro delpopolamento che si stava delineando sul finire del XII secolo. Castelli forse soloprogettati o frutto di progetti sommari, non radicati in una realtà sociale e insediativa,i cui promotori potevano essere anche soggetti “minori” che seguirono una “moda”,senza avere i mezzi per portare a termine queste imprese. Oppure siti preromani chenon furono rioccupati nell’altomedioevo come accadde a Scarlino, Donoratico, Casteldi Pietra (e sull’Amiata grossetano viene di pensare a Seggiano e a Penna).

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L’incastellamento è comunque un processo che gli archeologi devono studiare a livellodi comprensorio se vogliono cogliere le linee di tendenza.Per questo abbiamo attivato un progetto di ricerca che procede su piani paralleli:la ricognizione di superficie per individuare le linee generali delle dinamicheinsediative dalla preistoria all’età moderna, e una più specifica mirata alla formazionee alle trasformazioni dei paesaggi medievali in cui il tema castelli occupa un postodi primo piano. Questo è a sua volta parte integrante di un più ampio e sistematicocensimento dei castelli in tutta la provincia di Grosseto che procederà con misurazionidelle estensioni, analisi degli elevati, raccolta di superficie per quelli abbandonati e,dove possibile, anche saggi di valutazione. Stiamo cioè passando da un fattore discala iniziale in cui i castelli sono punti equipollenti su una carta geografica ad unfattore più avanzato in cui ogni castello occuperà un gradino all’interno diun’articolata gerarchia dell’insediamento che muove da precise osservazioni sulcampo. Nell’Amiata ai temi sopra esposti non può mancare quello della risorsa mineraria edel rapporto con la signoria territoriale, quindi con i castelli che ne furonol’espressione. Se è vero che la documentazione scritta sulla signoria territorialecompare solo a partire dal momento in cui altri soggetti, fra cui le città, cominciavanoa metterne in discussione il ruolo, è altrettanto vero che l’esiguità di documentazionescritta sulle attività minerarie e metallurgiche fino almeno all’XI secolo potrebbeavere la stessa motivazione: nessuno fino a quel momento aveva messo in discussionela natura pubblica delle miniere.In questo quadro il cantiere di Selvena, peraltro a ridosso di uno dei maggiorigiacimenti di mercurio del mondo, può essere un punto di partenza. E non solo.Selvena fu uno di quegli insediamenti vincenti sia della prima grande selezione delX e XI secolo, sia di quelle successive. È un sito dove il secondo e forse un “terzo”incastellamento sono immediatamente percepibili dalla grande cinta muraria checinge due borghi ampliando di sei volte l’area del sito romanico. L’abbandono deivicini castelli di Penna e Grossetello, prima della fine del XIII potrebbe essereun’ulteriore conferma in questa direzione. E l’estensione delle indagini nei comunidi Semproniano e Sorano potrebbe incrementarne il numero.Ma Selvena sopravvisse anche alla grande selezione del tardo Medioevo. Gli ultimidati a disposizione consentono di vedere attività costruttive e frequentazioni stabilifino a tutto il XVIII secolo. La prosecuzione degli scavi e, in parallelo, l’indaginepuntuale con rilievi degli elevati e saggi di valutazione sugli altri siti fortificaticonsentirà di comprendere se e in che misura Selvena, con la sua monumentalità ela sua estensione, sia, nel contesto amiatino, un caso o piuttosto un modello.

Riccardo Francovich

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Misurando i castelli dell’Amiata grossetano: alcuni dati su cui discutere.

Al termine delle ricognizioni mirate che sono state progettate per tutta la provinciadi Grosseto disporremo di dati certo più consistenti e precisi di quelli che presentiamoin questa sede. Anche l’indagine sulle anomalie visibili da foto aerea, utilizzandodiversi tipi di volo e ripresa fotografica, potrà riservare sorprese soprattutto su queicomprensori, come l’Amiata, dove la tradizionale indagine di superficie non èpraticabile. Al momento ciò che più interessa sottolineare è che non possiamocontinuare a parlare di castelli in astratto, ma in concreto di siti archeologici chehanno un’estensione, magari variabile nel corso della loro vita che potrebbe esseremolto lunga o all’opposto incredibilmente breve. La presenza di un sito etrusco, oaddirittura più antico, conferisce a quella sommità dove appare oggi il castellomedievale una valenza, in termini di dinamiche insediative e di costanti dei paesaggiantropici, molto maggiore rispetto a quelle su cui furono edificati castelliprecocemente abbandonati. Le stesse strutture materiali, l’articolazione interna deglispazi, le tecnologie impiegate, il grado di specializzazione delle maestranze cheedificarono torri, casseri, abitazioni e muri di cinta, sono elementi concreti,quantificabili in una scala di valori. Se due castelli non possono essere equipollentiindipendentemente dalla loro estensione e durata, anche in carte sincroniche delledinamiche insediative la qualità della cultura materiale produce una differenza che

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Tav 1: l’area oggetto di interesse delimitata dal cerchio dei 17 Km. di raggio.

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dobbiamo marcare. Allo stesso modo abbiamo cominciato da alcuni anni a sostituirenelle ricognizioni di superficie i “pallini” posizionati un po’ a occhio sulle vecchiecarte dell’IGM con perimetrazioni delle unità topografiche effettivamente riscontratesulle carte digitali in scala al 5.000 o sulle ortofotocarte al 10.000, georeferenziandocon precisione i ritrovamenti e valutando grado di visibilità archeologica,concentrazioni di reperti, e in genere altri fattori di disturbo. Questo modo diprocedere ha aperto nuove prospettive per la ricerca e crediamo che se loapplicheremo in modo sistematico anche ai castelli e più in generale ai siti fortificatid’altura avremo un quadro decisamente più articolato.Passiamo quindi ai dati disponibili cercando di cogliere alcuni spunti di riflessione.In particolare, come si è detto, è interessante capire se il castello di Selvena costituisceun caso o un modello nel più ampio contesto amiatino in relazione a tre ordini difattori: estensione, tipo di espansione, lunga durata dell’insediamento.Per cominciare abbiamo cercato di delimitare un’area. È ovvio che gli attuali confinicomunali non servono ai fini della ricerca storica e infatti li usiamo solo per comoditàdi rapporti istituzionali. L’unica distinzione plausibile è quella fra versante orientalee occidentale del monte, ma in questo caso è la divisione amministrativa a seguireconfini naturali. Quindi abbiamo tracciato un raggio di circa 17 Km. dalla sommitàdell’Amiata (più o meno l’area indicata a suo tempo da Chris Wickham conun’estensione a sud per comprendere il territorio di Selvena - tav. 1) limitandoci alsolo versante grossetano. In termini amministrativi significa comprendere i comunidi Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora e Castell’Azzara e parti di quellidi Cinigiano, Roccalbegna e Semproniano.Un primo censimento dei siti fortificati d’altura entro quest’area condotto da MarcelloCosci nell’ambito del più ampio progetto A.S.F.A.T. ha prodotto 37 anomalie dicui 18 riferibili a castelli ubicabili con precisione (Montenero, Seggiano, Potentino,Montegiovi, Castel del Piano, Monticello, Montepinzutolo, Montelaterone, Arcidosso,Castiglioncello Bandini, Stribugliano, Santa Fiora, Triana, Roccalbegna, Monte Penna,Castell’Azzara, La Roccaccia di Selvena, Grossetello), ai quali vanno aggiunti altri tresiti che le fonti menzionano in vario modo ma che verosimilmente furono per uncerto tempo dei castelli (La Castellina - districtus Podere Morella e Torricella - fortilizi).Altre 4 segnalazioni potrebbero riferirsi a castelli che non possiamo ancora ubicarecon precisione e dovremo qui intensificare le indagini infrasito (il Poggio - forseCastellaccio, Ripa di Cellena, Podere Becchini - forse Vaiolo, Poggio Colle - forseBelmonte). Non furono invece mai castelli Monte Labro, La Sforzesca, Gravilona ePoggio Sala. Furono siti etruschi sicuramente Monte Civitella e Poggio Antischioni.Per quest’ultimo il toponimo (cui aggiungiamo i vicini fattoria Ansitonia e PoderePian di Bando) suggerisce un’eventuale rioccupazione bizantina durante la guerragotica, ma non abbiamo altri indizi in questa direzione.Delle ultime sei anomalie non abbiamo dati più precisi (Castellonchio, PodereBisorgno, Podere Banditella, Poggio Volturaie, Podere Montegiove, Poggio Piantuma),

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ma una ricognizione sul primo di questi non ha prodotto alcun risultato. A questogià nutrito gruppo si sono aggiunte 93 anomalie (di cui 3 sicuramente riferibili asiti fortificati) da un’ulteriore indagine, oggetto di una una tesi di laurea ancora incorso su otto comuni (Abbadia S. Salvatore, Piancastagnaio, Radicofani, Seggiano,Castel del Piano, Arcidosso, Santa Fiora e Castell’Azzara – lavoro curato da AnnaCaprasecca).Pertanto un primo dato è che il numero potenziale di siti fortificati medievali èsuperiore a quello dei centri che le fonti menzionano come castello. Di quanto èpresto dirlo, perché le ricerche non sono ultimate, sia sul versante dellafotointerpretazione che della verifica sul campo. Sappiamo già che Monte Civitellaa Castell’Azzara è un sito etrusco mai più rioccupato, mentre il vicino Penna fu anchecastello. In alcuni casi una tradizionale ricognizione è stata sufficiente per constatarela presenza di un sito fortificato (come a Monte Penna, Grossetello, PoggioAntischioni), mentre in altri casi, per quanto la toponomastica sia suggestiva(Castellina, Castellonchio), la vegetazione non ha consentito di rinvenire strutturechiaramente riferibili ad un insediamento fortificato. Dobbiamo pertanto applicaremetodi di indagine infrasito più accurati che vanno dalla pulizia della vegetazioneinfestante, a carotaggi e showel tests, ma anche foto zenitali ed oblique a bassa quota.Per il momento quindi è preferibile fare alcune considerazioni sui soli 18 castellisicuri, con la consapevolezza che potrebbero essere arricchite in un prossimo futuro.Merita forse annotare per inciso che a fronte di una grande mole di nuove anomalieda verificare (che vanno da terrazzamenti a villaggi aperti, da edifici non meglioidentificabili a viabilità) il numero dei siti fortificati d’altura è aumentato di sole 3unità. Seppure in via preliminare non sembra irragionevole stimare che il numerocomplessivo di questo tipo di insediamenti nell’area selezionata (di cui si è mantenutatraccia archeologica) non debba crescere di molto in futuro. Ovvero se stimiamo inmeno di una trentina il potenziale dei castelli dell’Amiata grossetano non dovremmoandare lontano dal vero. Ma la stessa nuova indagine sulle foto aeree ha prodotto11 anomalie che potrebbero essere relative ad abitati accentrati non fortificati. Questonuovo dato, una volta effettuate le opportune verifiche sul campo (la fortificazionenon necessariamente deve essere uno spesso muro di pietra), potrebbe incrementarele nostre conoscenze sul popolamento altomedievale centrato su curtes (come la ormainota Gravilona e la appena individuata Monticclu) e casales (almeno quelli che nondettero origine ad un castello).Un tentativo di misurazione dei castelli fatto alcuni anni fa per l’area rosellanaprocedeva su una base molto meno indefinita, perché la scarsa incidenza del boscopermetteva un confronto immediato dei dati documentari, aerofotografici etopografici.Qui riportiamo in sintesi il dato forse più interessante per l’analisi che vogliamofare in questa sede. Ovvero la superficie dei castelli, presa al momento dellapresumibile massima espansione. Il 41% si colloca su valori superiori all’ettaro e di

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questi la metà ha avuto un’espansione ad anelli. Il fattore medio di crescita fra primoe secondo anello è di poco superiore a 4, cioè molto consistente.Vediamo ora che cosa possiamo dire dei castelli amiatini del versante grossetano.Un primo sostanziale dato su cui riflettere è che la maggior parte dei siti continuaad essere un centro abitato. Dei 18 castelli sicuri solo 4 sono stati abbandonati (cioèil 22%). Il rapporto diventerebbe 25 contro 11 (cioè il 44%) se considerassimo anchequelli per i quali l’individuazione è incerta o una prima ricognizione non ha fornitorisultati. Prendendo per buona questa seconda cifra dobbiamo comunque segnalareche nella maggior parte dei casi dovette trattarsi di siti minori come Grossetello,Penna, La Castellina, se non addirittura semplici fortilizi. Dunque una prima tendenzasembra essere quella di una maggiore resistenza dei grandi castelli di popolamento.

La posizione di questi castelli è piuttosto compattata su quote che variano dai 300agli 800 m con preferenza sulla fascia 600-800, come si evince dal grafico Tav. 2 incui i dati sono espressi in percentuale.

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Tav. 2: disposizione dei castelli amiatini per fasce altimetriche.

Per quanto riguarda invece le misurazionidelle superfici preferiamo riferirci ai soli18 castelli sicuri. Dal grafico Tav. 3 èevidente che 6 non superano il mezzoettaro, 4 sono compresi fra mezzo e unettaro, 8 superano l’ettaro anche di molto. Tutti castelli importanti questi appartenentialla categoria maggiore, tutti siti ancoraabitati ad eccezione di Selvena. All’oppostoquelli della prima categoria, i più piccoli,o sono stati abbandonati o sono ridotti apoco più che residenze di lusso. In particolare osserviamo che la massimaespansione di Selvena, Santa Fiora, Castel

del Piano, Seggiano, Montelaterone si colloca fra i 2,5 e i 3 ettari, rimanendo Arcidossola vera eccezione con i suoi 37400 mq. Se dunque volessimo trarre alcune deduzionisu Selvena potremmo dire che si colloca nella fascia alta di quei siti vincenti e casomaiviene da chiedersi i motivi del suo abbandono così tardo, del tutto avulso dalle logichedel decastellamento amiatino e legato a problemi che speriamo lo scavo possarisolvere. Ma abbiamo anche una chiave interpretativa in più per capire da un punto di vistastrutturale i castelli amiatini. Se torniamo al caso rosellano vediamo che solo 8 su58 superano i 2 ettari, cioè meno del 14%, mentre sull’Amiata sono 7 su 18, cioè il39% (tav.4). È un tema da approfondire anche con gli storici, e dobbiamo ribadire

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le cautele perché il censimento non è concluso. In ogni caso dalla prima crisi emerseun sistema insediativo caratterizzato da maglie più o meno larghe con nodiestremamente grossi rispetto all’area rosellana. C’è da chiedersi in che misura gliassetti della proprietà, le componenti geografiche, o altri fattori abbiano determinatoquesta particolare struttura dell’incastellamento nell’Amiata.Un ultimo aspetto riguarda la presenza di un’espansione da un nucleo originario perinserimento in una nuova cinta di borghi esterni o a nuclei concentrici. Questo tipo

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Tav. 4: rapporto fra castelli che superano i 2 ettari e castelli con superficie inferiore nell’area rosellana enell’Amiata grossetano.

Tav. 3: estensione dei castelli presi in esame espressa in mq.

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di osservazione fatta in base alla presenza di murature superstiti e andamento degliedifici è da considerarsi sempre con molta cautela in assenza di scavi accurati checomprovino le deduzioni. Ma si tratta comunque di indicazioni utili.Nel rosellano 13 castelli su 58 sono chiaramente riconducibili al modellodell’espansione ad anelli concentrici. Nel caso amiatino (tav. 5) solo Montelateroneè sicuro, mentre per altri castelli come Santa Fiora, Selvena, forse Arcidosso, possiamopensare ad un’espansione a borghi. Allo stesso modo, sebbene rifondata come terranuova, vi includiamo Roccalbegna. Molti sono poi quelli che sembrano frutto di unimpianto unitario già dell’estensione massima, in genere posti a ridosso di una ripascoscesa, dalla forma a ventaglio come Penna, Castell’Azzara, Castel del Piano,Seggiano. Ma impianti regolari sono visibili per Monticello e Montegiovi. Non ebberoespansione Montenero, Montepinzutolo, Grossetello, ma forse anche Triana,Castiglioncello Bandini, Potentino e Stribugliano rientrano in questa categoria.Un ulteriore argomento di approfondimento potrebbe essere il rapporto siti-miniere.Tutto il comprensorio amiatino è particolarmente ricco di mineralizzazioni anchesuperficiali da cui si possono estrarre ferro, rame e mercurio, ma anche vetriolo.Questo tema è stato trattato dagli storici a più riprese e francamente ci convince l’ideache la disposizione dei castelli abbia, fra gli altri motivi, tenuto presente la possibilitàdi sfruttare al meglio le risorse minerarie. Tuttavia dobbiamo sottolineare, per onestàintellettuale, di non avere ancora rinvenuto evidenze archeologiche per sostanziarequesta che rimane ad oggi un’ ipotesi di ricerca da approfondire.Infine risulta particolarmente interessante effettuare una valutazione dell’ediliziasuperstite leggibile come strumento che può affiancare le indagini intensive.Il lavoro è cominciato con un censimento di ciò che è possibile vedere in facciata,

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Tav. 5: modelli di impianto urbanistico dei castelli dell’Amiata grossetano.

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segnando sulle ortofotocarte i tratti di murature riferibili a porte, muri di cinta, edificidi pregio (sia pubblici che privati), torri e casseri. Dobbiamo subito segnalare cheil grado di conservazione è piuttosto variegato. Mentre alcuni castelli hanno ancoranumerose tracce dell’edilizia medievale come Montelaterone (22 punti), Santa Fiora(23) e Arcidosso (25), altri castelli pure importanti come Seggiano hanno restituitosolo 1 punto.La ricerca andrà estesa anche agli interni, alle foto d’epoca e alla cartografia storicaper avere una mappatura completa su cui poter effettuare analisi più precise.Dovremo valutare anche l’incidenza sulla tecnica costruttiva dell’uso di litotipifacilmente lavorabili. La presenza di conci squadrati non è indice di per sé di muraturaromanica, cioè inquadrabile fra la fine dell’XI e la metà del XIII. Studi condotti suSovana e Tuscania dove viene utilizzato il tufo vulcanico facilmente lavorabile, hannomostrato che non è la squadratura, ma piuttosto le dimensioni dei conci a fornireun discrimine cronologico.Il lavoro proseguirà pertanto con il rilievo sistematico delle emergenze censite, conannotazioni puntuali sui litotipi, sulla lavorazione dei conci, sulle malte, su eventualielementi decorativi, epigrafi e rapporti stratigrafici.Per tentare infine di rispondere alle domande iniziali su Selvena, ci sembra di poterdire che questo castello, una vera anomalia paragonato ai casi studiati nel rosellano,sembra invece essere un modello per il contesto amiatino e questo può servire daulteriore base di partenza per nuove ricerche.

Carlo Citter

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modificato e distrutto parte delle struttureprecedenti. Il castello di Selvena presenta unaurbanistica chiara con tre nuclei, l’area sommitale,un borgo a sud ovest e uno ad est. L’area sommitale,allo stato attuale delle conoscenze, in età romanicasembra l’unica occupata da insediamento stabile,successivamente alla fine del XIII il sito fu ampliatoe dotato di due borghi. Per una descrizione più ampia si rimanda allabibliografia in fondo al testo.

Fig. 1: vista del palazzo trecentesco dalla torre pentagonale.

Tavv. 6-8: i periodi dello scavo: in ordine dall’alto i periodi VII, VI e V.

PRIMA SCHEDATURA DELLE EMERGENZE MEDIEVALIDi seguito proponiamo una serie di schede frutto diuna prima lettura dell'edilizia superstite conparticolare riferimento al periodo romanico(seconda metà XI - seconda metà XIII secolo).L'analisi sarà approfondita in un prossimo futurocome parte di due tesi di laurea assegnate dallacattedra di Archeologia Medievale dell'Universitàdi Siena.ROCCACCIA DI SELVENAQuota: 575 s.l.m.Superficie totale: 27400 mq. Superficie area sommitale: circa 3500 mq.

Descrizione generale: Il castello di Selvena è situato su uno sperone dicalcare molto acuminato che non lascia molto spazioper l’insediamento, infatti parte di questo èlocalizzato anche sulle pendici. A differenza degli altricastelli indagati e attualmente abitati, Selvena subìprobabilmente un graduale abbandono a partire dalXVII-XVIII, che non ha compromesso fortunatamentela lettura delle emergenze medievali. Molto spessonegli attuali borghi dell’Amiata le fasi diristrutturazioni degli ultimi due secoli hanno

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Descrizione delle emergenze:Il primo periodo: collocabile tra la fine dell’XI e iprimi decenni del successivo, momento in cui fucostruita la torre est, con tecnica di particolarepregio. La torre ovest ha una tecnica romanica macon minori rifiniture. Sempre di questo periodo è un recinto costituito conmuratura a secco che probabilmente recingeva ledue torri.Il secondo periodo: databile tra i primi decenni delXII e la prima metà del successivo.Momento di notevole ridefinizione ed ampliamento,del sito caratterizzato da un recinto che si colloca trale due torri.Sono di questo periodo delle strutture abitative efunzionali che si collocano all’interno di un circuitomurario che definisce tutta l’area sommitale. Letecniche costruttive sono sempre di tipo romanicoma non curate come nel precedente periodo e lapezzatura dei conci è di minore dimensione.Il terzo periodo: collocabile tra la metà del XIII e iprimi decenni del XIV.Momento costruttivo e di grande espansione delcastello. L’area occupata dal precedente insediamentofu trasformata esclusivamente in area signorile, edinoltre furono creati due borghi cinti da mura, allependici della sommità. Di particolare rilievoevidenziamo la costruzione di un grande palazzoprobabilmente ad opera del conte Giacomo di SantaFiora che la scelse come residenza, e della torrepentagonale.La torre pentagonale ha una muratura ancora bencurata e di tipo romanico, mentre nel palazzo latecnica ha caratteristiche di minor pregio.

Floriano Cavanna

LA ROCCACCIA DI MONTEVITOZZOQuota: 926 s.l.m.Superficie totale: 5200 mq.

Descrizione generale:La Roccacia di Montevitozzo è localizzata su di uncostone calcareo che si estende da est ad ovestparticolarmente scosceso sul fianco settentrionale.Il nucleo fortificato ha una forma semicircolare conal centro l’area più elevata che è occupata da unatorre con cassero. Del borgo restano tracce dei lottiche appaiono ben definiti e pianificati.Breve descrizione delle murature censite:Molto interessante e ben conservata è la struttura

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sommitale che ha due ben distinte fasi costruttive. La prima fase costruttiva individuabile sul marginemeridionale del grande edificio(fine XI - metà XII)è caratterizzata dalla presenza di una torrequadrangolare con il lato di circa 4,50 m. Lamuratura è di tipo romanico e di pregevole fattura,le bozze di pietra di medie dimensioni sonoabbastanza squadrate ma non rifinite, disposte aformare corsi paralleli e legate con tenace malta.La seconda fase (metà XII-inizi XIII) vede lacostruzione di una grande edificio a piantatrapezoidale composto da una torre ed articolatoin vari ambienti. La nuova torre di dimensionimaggiori (6,50 m di lato circa) incorpora laprecedente struttura (19 x 11 x 16 x 23 m). Lemurature sono sempre di tipo romanico, ma sidistinguono nettamente dalla precedente,soprattutto per l’utilizzo di bozze di pietra diminore pezzatura e per una sommaria lavorazione.Probabilmente è di questa fase o di poco successivala fondazione del borgo.

Floriano Cavanna

CASTELL’AZZARAQuota: 809 s.l.m.Superficie totale: 8100 mq.

Descrizione generale:Castell’Azzara è collocata su un crinale di calcare chesi estende da nord-est a sud-ovest particolarmentescosceso sul fianco nord. La morfologia deve averdettato le forme e invogliato l’insediamento in questoluogo, che sovrasta la Val di Paglia. Dalla foto aereas’intuisce l’esistenza di un primo nucleo fortificatoa forma di semicerchio che si colloca con il

Fig. 2: la torre della Roccaccia di Montevitozzo.

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diametro a ridosso del dirupo. L’area sommitale èoccupata dalla chiesa, da una piazzetta e da ungrande edificio; da quest’ultimo si diramano araggiera i lotti abitativi.La cinta muraria proteggeva principalmente laporzione meridionale, visto che a nord era giànaturalmente difesa. Se ne intuisce l’andamentosemicircolare mantenuto dalle abitazioni.

Breve descrizione delle murature censite:Una prima verifica delle strutture presenti hapermesso di individuare alcune murature medievali,e di dare una prima valutazione generale sulmantenimento di queste. Il litotipo che costituiscequasi interamente le strutture è il calcarenummulitico, materiale che si rinviene in lastre e cheinfluenza particolarmente le tecniche costruttive. Latecnica romanica che s’identifica generalmente concorsi paralleli e le bozze squadrate, in quest’areadeve trovare anche altre discriminanti, dadeterminare con una lettura della muratura piùapprofondita. Le murature che possiamo ascriveread ora al periodo romanico, sono molto scarse;consolante è una piccola porzione individuatanell’area sommitale inglobata in un grande edificioche presenta molti rifacimenti e materiale diriutilizzo. Questo grande edificio ad una prima letturaevidenzia almeno tre grandi momenti costruttivi.

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Le porzioni romaniche che probabilmentecostituivano il primo nucleo, forse una torre o uncassero, furono ridefinite e trasformate in unsecondo momento con la costruzione di un grandeedificio dotato di scarpa. Successivamente dobbiamoregistrare degli ampliamenti e dei restauri.La fase centrale è di rilevante utilità per capire lamorfologia su cui si impostava la costruzione, infattil’edificio fu dotato di un grande muro a scarpa neilati sud ed ovest che oggi risulta quasi interamenteinterrato e inglobato nelle attuali strutture. Lamuratura a scarpa e il dislivello, forse artificiale, chec’è tra questa e il borgo moderno ad ovest, indicanoche l’edificio era collocato su un’area rilevata,questo indizio è forse utile per comprendere leprecedenti fasi dell’insediamento.1 - Struttura turriforme individuata sul marginenord, la muratura è composta da bozze di pietra didimensioni varie non molto squadrate, e dispostein corsi paralleli. 2 - Facciata del grande edificio antistante allachiesa. Su questo paramento sono presenti varieaperture, e porzioni di muratura di varia tecnica.Nella porzione inferiore possiamo notare unamuratura che apparentemente ha una tessitura ditipo romanico, non possiamo né valutare la suaestensione né i caratteri costruttivi dato che l’area èparzialmente ricoperta da intonaco. Particolarmenteevidenti sono due aperture, una di queste è con arcoa tutto sesto costituito da bozze di pietra ben rifinite.Quest’ultima riutilizza parzialmente una più anticaapertura, di questa si conservano solamente glistipiti.3 - La muratura più interessante e forse la più antica,è localizzata sul margine sud del grande edificio; ècostituita da bozze sommariamente squadrate dimedie dimensioni disposte a seguire corsi paralleli,non presenta finiture. Questa porzione di muraturasi interrompe a circa 3 m ed è restaurata dallamuratura che definisce il grande edificio.4 - Questa muratura definisce il grande edificio edè ben visibile su tutta la facciata ovest e sud. È edificata con bozze di pietra scarsamentesquadrate disposte a formare corsi paralleli dialtezza variabile, inoltre possiamo notare che nellaporzione inferiore era disposta a scarpa. Sulmargine superiore del prospetto ovest sono benvisibili quattro finestre ad arco, parzialmenteoccluse da interventi moderni.5 - In quest’area dove potenzialmente doveva

Fig.3: foto aerea di Castell’Azzara, con le muratureindividuate.

MONTE PENNAQuota: 1086 s.l.m.Superficie totale: 3850 mq.

Descrizione generale: Abitato fortificato individuato sulla sommità delmonte Penna durante la ricognizione archeologica,promossa dall’Amministrazione Comunale diCastell’Azzara.Il muro di cinta descrive intorno alla sommità delpoggio una elle, il fianco che rimane scoperto nonha bisogno di difesa visto che un baratro di circa80-100 mt di dislivello crea un ostacolo invalicabile.La tecnica costruttiva del muro di cinta è assairozza; per la sua costruzione sono stati utilizzatiblocchi di pietra locale di grosse dimensioni nonsquadrati e disposti in modo disordinato, senzal’uso di malta. Non è da escludere che si tratti diun intervento premedievale. Del borgo sonorimaste scarse tracce murarie, quasi fosse costituitoin gran parte da capanne. La parte sommitale èoccupata da murature scarsamente visibili,costituite da bozze di pietra sommariamente

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trovarsi la cinta muraria, sono individuabili lacertidi murature che sporgono leggermente dallefacciate degli attuali edifici. È possibile che gliattuali edifici si siano adeguati alle preesistentistrutture difensive.

Floriano Cavanna

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Fig. 5: particolare delle aperture sul lato sud delgrande edificio (n°2).

Fig.4: particolare del grande edificio (n°4). Fig. 6: la muratura individuata sul margine sud delgrande edificio (n°3).

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squadrate, e da un cumulo di macerie composto,da calce, scarsissimi frammenti di laterizi e bozzedi pietra; probabilmente era un edificio turriformedi modeste dimensioni.

Floriano Cavanna

MONTICELLOQuota: 734 s.l.mSuperficie totale: 12600 mq

Descrizione generale:L’attuale abitato è collocato su una collinaabbastanza ripida d’arenaria.Sull’area sommitale è collocata la chiesa, attornoalla quale, dalla foto aerea, possiamo intuire l’esistenzadi un nucleo circolare.Ben evidente è la forma ovale del borgo, i lottiabitativi sono disposti ad ellissi concentriche diviselongitudinalmente da una via centrale cheattraversa tutto l’abitato.Alle estremità della via centrale sono collocate dueporte d’accesso, che comprovano i limiti della cintamuraria.Tracce ulteriori di questa cinta muraria sonoriscontrabili sul margine nord dell’abitato.

Breve descrizione delle murature censite:L’osservazione delle murature è stata ostacolatafortemente dalla presenza d’intonaco sulle facciatedegli edifici.Anche se non sono state riscontrate murature ditipo romanico, l’attuale abitato conserva intatto ilreticolo urbano medievale.1 - Porta localizzata a nord, costituita da bozze dipietre squadrate e disposte a formare un arco asesto acuto.2 - Negli edifici situati nell’area nord del borgo èscarsamente visibile la fondazione della probabilecinta muraria.3 - Grossa cisterna individuata nella piazza centraledel paese, costituita da mattoni disposti a formareuna volta a cupola; recentemente è stata restauratae valorizzata.4 - Porta di accesso al borgo localizzata sul marginesud, costituita da pietra locale e da frammenti dilaterizio.

Floriano Cavanna

SEGGIANOQuota: 491 s.l.m.Superficie totale: 26200 mq

Descrizione generale:L’attuale abitato di Seggiano sorge su una collinadi arenaria. La forma semicircolare è dettataessenzialmente da fattori morfologici, infatti ilmargine settentrionale del borgo si imposta su unoscoscendimento abbastanza accentuato.La scarsa conservazione e la massiccia presenza diintonaco non hanno permesso di evidenziaremurature medievali di particolare rilievo.Dalla foto aerea è possibile evidenziare nell’areanord del poggio un nucleo circolare di edificiattorno al quale le strutture si dispongono araggiera. L’unica evidenza è una porta di accessocostituita da blocchi di grandi dimensioni.

Teresa Cavallo

MONTEGIOVIQuota:335 s.l.m.Superficie totale:9000 mq

Descrizione generale:L’abitato attuale di Montegiovi è localizzato su unpromontorio di arenaria i cui versanti sonoabbastanza erti.Dell’antico castello si conserva essenzialmente il

Fig.7: foto aerea di Montegiovi, con le muratureindividuate.

all’interno dell’edificio, costituita da blocchi di mediedimensioni disposti su filari orizzontali. Potrebbetrattarsi di una porzione del muro di cinta.

Teresa Cavallo

MONTENEROQuota: 388 s.l.m.Superficie totale: 7396 mq

Descrizione generale:Il borgo di Montenero, di forma circolare, è ubicatosu un’altura che domina la Valdorcia.L’abitato è attraversato da una via principale che lodivide in due porzioni simmetriche; sul marginesud di questa via si trova la porta di accesso conarco a tutto sesto. Probabilmente la cinta muraria,della quale resta una piccola parte non ben visibilea nord-est, ha influito fortemente sulle strutture chein seguito vi si impiantarono.

Breve descrizione delle murature censite:1 - Porta di accesso al paese costituita da blocchidi trachite ben lavorati. Gli interventi di restaurorendono difficile la lettura della muratura chesembrerebbe romanica. Lo stipite destro dell’arcosembra più antico a giudicare dai conci di trachitefortemente usurati e di dimensioni maggiori,potrebbe trattarsi dell’antica cinta muraria.2 - Dell’ originaria chiesa del XII secolo rimane solo

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circuito murario e le strutture difensive, ben visibili nellazona est del paese dove è ubicata una torre poligonale.Altre porzioni della cinta muraria sono visibili sulversante nord dove si trova anche una grande portadi accesso. Delle strutture interne al borgo non restanoapparentemente tracce ben evidenti.

Breve descrizione delle murature censite:1 - Facciata della chiesa con arco a tutto sesto. Lamuratura è costituita da blocchi di trachite bensquadrati e disposti a formare corsi paralleli. Nellaporzione superiore sono presenti vari interventidi restauro.2 - Stipiti con battenti di una porta individuati nellaparte nord del paese.3 - Grande porta di accesso con arco a tutto sestocostituita da blocchi di trachite squadrati; presentamolti restauri.4 - Porzione di cinta muraria costituita da blocchidi arenaria ben squadrati disposti su corsi paralleli.5 - L’edificio nella parte alta conserva qualche filarecostituito da blocchi di arenaria di mediedimensioni.6 - L’intonaco abbondante su tutta la facciata nonpermette di affermare con sicurezza che si tratta diuna muratura romanica. L’angolo è costituito dablocchi di trachite di grandi dimensioni. In fase conla muratura sembrerebbe l’arco della facciata norddell’edificio.7 - Torre poligonale costituita da blocchi di arenariadisposti su filari orizzontali e da blocchi di trachiteche ne delimitano gli angoli. All’interno sonoancora visibili le tre feritoie e la volta.8 - Porzione di muratura romanica individuata

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Fig. 9: foto aerea di Montenero, con le murature individuate.

Fig. 8: particolare del Cassero di Montegiovi (n°7).

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un arco a tutto sesto in blocchi di trachite e qualchefilare costituito da conci squadrati di mediedimensioni.3 - Nella parte alta della facciata ovest dell’edificiosono stati individuati sette archi a tutto sesto inlaterizi disposti su filari paralleli.4 - Elemento architettonico in travertino condecorazione a foglie, inserito come davanzale di unafinestra in una muratura costituita da blocchi diarenaria di medie e piccole dimensioni. I corsi nonsono paralleli, l’apparecchiatura sommaria e la maltaabbondante. Non sembra che la lastra sia in fase conla muratura, ma piuttosto materiale di riutilizzo.

Teresa Cavallo

CASTELDELPIANOQuota: 637 s.l.m.Superficie totale: 30000 mq

Descrizione generale:Casteldelpiano, posto a 637 m. s.l.m., sorge su uncostone di trachite che degrada dolcemente danord, dove è a strapiombo sulla valle, verso sud.La roccia di base non sembrerebbe affiorare inalcun punto all’interno del centro storico.La struttura ad anelli lascerebbe ipotizzare unaspecifica pianificazione urbanistica attorno ad un

nucleo centrale situato a nord; probabilmente sitratta dell’antico cassero del quale però non rimanenessuna evidenza nelle strutture murarie.Non è visibile l’antica cinta muraria che a sudpotrebbe essere stata inglobata in una fila di edifici.

Breve descrizione delle murature censite:1 - L’edificio completamente ristrutturato, presentain qualche punto una muratura romanica. Nella partenord della facciata è visibile l’angolo dell’edificio. Iconci non presentano un’accurata lavorazione e sonodisposti su filari regolari e paralleli.2 - I blocchi di trachite che costituiscono l’arcopresentano una scalpellatura superficiale. Non è visibilel’originaria muratura nella quale l’arco era inserito.3 - L’edificio presenta tracce di muratura romanicain più punti su tre lati. Nella parte alta della facciata ovest sono presentidue archi a tutto sesto, uno scarsamente conservatoa pian terreno, probabilmente si tratta della portad’accesso, e un altro, ben conservato e tamponato,al piano superiore. Un altro arco in blocchi ditrachite si trova sul lato sud dell’edificio. Lamuratura è però ben visibile soprattutto nella partealta della facciata est: i corsi sono regolari e i concidi medie e grandi dimensioni. Sono presenti zeppe

Fig. 11: foto aerea di Castel del Piano con le murature individuate.

Fig. 10: arco della porta sud di Montenero (n°1).

zeppe sono più numerose e i conci di piccole e mediegrandezze. È visibile nella parte più a nord dellafacciata, soprattutto nella parte alta, uno spigolocostituito da grandi conci di trachite.9 - La muratura romanica è stata individuata sui latiest e nord dell’edificio; solo in qualche punto è benconservata: i corsi sono paralleli e i conci, ben lavorati,hanno dimensioni simili (dai 30 ai 40 cm); anche lealtezze sono costanti (23/27 cm).10 - L’angolo est dell’edificio è costituito da blocchi digrandi e medie dimensioni; il restauro e le successivericostruzioni rendono difficile la lettura. Tra i giunti inmezzo a tanta malta ci sono zeppe di laterizi.

Teresa Cavallo

ARCIDOSSOQuota: 687 s.l.m.Superficie totale: 37350 mq

Descrizione generale:Il centro storico si sviluppa a semicerchio attornoalla rocca aldobrandesca, sulla pendice occidentaledella collina. È forse possibile individuare duecinte murarie, visibili soltanto in alcuni punti acausa delle successive trasformazioni; solo quellapiù esterna conserva due porte ad arco a tutto sesto.La rocca, recentemente restaurata, è composta daun edificio a complessa pianta quadrangolare conun’alta base a scarpa ed in alto finestre ad arcoribassato; verso nord vi è addossata un’altissimatorre quadrangolare con coronamento merlato.Sono ancora visibili molte delle murature e deglielementi architettonici medievali soprattutto nellaparte a valle, in corrispondenza dell’antico terziere

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di laterizi soprattutto in punti in cui il restauro èpiù evidente.4 - Si tratta della porta di accesso al paese. L’arcoa tutto sesto è inserito in una muratura romanicaben conservata. I corsi sono regolari e paralleli e iconci di trachite squadrati e lisciati.5 - La muratura romanica si conserva nella partealta della facciata ovest dell’edificio. Zeppe diarenaria e trachite e abbondante calce rendonoparalleli i corsi costituiti da conci di svariatedimensioni. Su tutta la facciata sono presentitamponamenti con laterizi.6 - Porzione di muratura costituita da conci ditrachite di medie dimensioni; la facciatadell’edificio è completamente intonacata dunque èdifficile l’identificazione della muratura chesembrerebbe romanica.7 - Porzione di muro sporgente dal lato norddell’edificio. Non sono visibili i corsi, i conci ditrachite sono di grandi dimensioni e sono presentigrandi zeppe di laterizi.8 - Sono visibili blocchi di trachite di mediedimensioni disposti su filari orizzontali e paralleli; laparte alta della muratura cambia completamente: le

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Fig. 12: particolare di una muratura romanica nelborgo (n° 1).

Fig. 13: particolare di alcune aperture in un edificio (n°3).

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di Talassosa, uno dei tre borghi in cui era suddivisal’antica popolazione di Arcidosso.Il materiale prevalentemente usato per la messa inopera di queste strutture è la trachite.

Breve descrizione delle murature censite:1 - Due archi a tutto sesto in trachite, inseriti in unamuratura romanica in larga parte ristrutturata.2 - Tamponamento di una porta di cui rimangonogli stipiti in trachite e l’architrave decorato.3 - Arco a tutto sesto in trachite; il resto dell’edificioè completamente stuccato.4 - Porzione nord/est della facciata della chiesa diSan Leonardo; probabilmente solo questa partedell’edificio conserva il paramento originario.5 - Paramento romanico; corsi poco regolari conuna forte presenza di zeppe in laterizio e arenaria.6 - Edificio romanico con arco a tutto sesto intrachite tamponato da un restauro moderno.7 - Edificio romanico. I corsi sono di altezzavariabile e presentano alcune zeppe in laterizio e

arenaria soprattutto nella parte inferiore.8 - Lacerto di muratura romanica (2 mq circa) acorsi regolari e paralleli; il resto dell’edificio èristrutturato.9 - Porzione sud/est della facciata di un edificio.Corsi regolari, conci non molto lisciati, presenza dizeppe nella parte nord interessata da un successivorestauro.10 - Tre porte ad arco a sesto acuto; numerosiinterventi di restauro hanno quasi completamentecoperto il resto della facciata.11 - Edificio neoromanico, la parte superioreconserva probabilmente resti del paramentooriginario del quale rimangono alcuni corsi intrachite molto regolari e paralleli.12 - Tre archi in trachite a tutto sesto, probabilmenteassociabili a una porta.13 - Paramento romanico a corsi regolari e paralleli;i conci sono poco lisciati.14 - Resti di un paramento murario nella partesuperiore di un edificio; i corsi sono abbastanzaregolari, i conci poco lisciati; la parte superiore ècoperta da malta e intonaco.15 - Porta con arco a tutto sesto; gli stipiti conservano

Fig. 14: foto aerea di Arcidosso, con le muratureindividuate.

Fig. 15: il cassero (n°24).

base a scarpa ed in alto finestre ad arco ribassato;verso nord vi è addossata un’altissima torrequadrangolare con coronamento merlato.

Stella Menci

MONTELATERONEQuota: 685 s.l.m.Superficie totale: 28800 mq

Descrizione generale:È il primo castello documentato nell’Amiataoccidentale (1004). Il borgo si estende sulla pendiceorientale della collina sulla quale sorgeva il casserodel quale rimangono gli imponenti ruderi. Lacostruzione di due successive cinte murarie èprovata dalle due porte ad arco a tutto sesto postein serie sulla via centrale, una perpendicolareall’altra. Molto numerose le evidenze di edifici edelementi architettonici.

Breve descrizione delle murature censite:1 - Cassero. Campione di 2 mq circa: corsi regolari,paralleli; conci in trachite, abbastanza lisciati.2 - Cinque angolari in trachite, riferiti ad un edificiocompletamente ristrutturato.3 - Antico Palazzo Pretorio: muratura romanica acorsi regolari e paralleli; i conci in trachite sono benlisciati. Non sono visibili zeppe.4 - Resti di una muratura di cui rimangono pochiconci in trachite ben lisciati e squadrati.5 - Porta (probabilmente riferibile alla prima cintamuraria); si conservano ancora alcuni corsiabbastanza regolari; presenza di zeppe in arenaria.6 - Paramento in opera romanica, al cui interno èinserito un arco in trachite. I corsi sono regolari eparalleli.7 - Arco in laterizio con stipiti in trachite.8 - Arco in trachite; presenza di zeppe in arenariae laterizi nella parte sommitale dell’arco.9 - Arco in trachite inserito in una muraturaromanica a corsi regolari e paralleli.10 - Porta in trachite riferibile probabilmente allaseconda cinta muraria; i corsi sono regolari e i conciben lisciati.11 - Paramento in trachite e arenaria con zeppe inlaterizio e arenaria.12 - Porta in trachite a corsi regolari e paralleli; nonsono visibili zeppe o altri interventi di restauro.13 - Paramento in trachite a corsi regolari, paralleli.14 - Porzione superiore della facciata di un edificio;

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ancora conci in trachite ben lisciati.16 - Resti di un paramento romanico. I corsi sonoregolari e paralleli; zeppe in arenaria.17 - Porzione inferiore della facciata di un edificio;si conservano ancora alcuni filari romanici dispostia corsi regolari e paralleli. Malta e zeppe in arenarianella parte superiore.18 - Arco a tutto sesto, riferibile a una portasuccessivamente tamponata. Incerta la muratura incui è inserito.19 - Porzione superiore della facciata di un edificio;si conservano ancora circa 3 mq dell’antico paramentoa corsi regolari e paralleli. Piccole zeppe in arenaria.20 - Porzione est della facciata di S. Niccolò costituitada conci regolari e paralleli; solo questa parte non èstata interessata dal restauro moderno.21 - Porzione superiore della facciata di un edificio;si conservano ancora alcuni filari a corsi regolari eparalleli.22 - Porzione inferiore della facciata di un edificio;si conservano ancora alcuni filari a corsi regolari econci abbastanza lisciati.23 - Angolari in trachite di un edificio completamenteristrutturato.24 - Rocca, recentemente restaurata, composta daun edificio a complessa pianta quadrata con un’alta

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Fig. 16: arco a tutto sesto inserito in una muratura romanica (n°6).

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Fig. 20: foto aerea di Santafiora, con le muratureindividuate.

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i corsi sono regolari e paralleli; la parte inferiore èristrutturata con zeppe di arenaria e laterizio.15 - Elemento decorativo architettonico riferibileal periodo romanico (rosetta).16 - Paramento a corsi regolari e paralleli; non sonovisibili zeppe.17 - Due archi a tutto sesto in trachite; uno stipite,anch’esso in trachite, è in comune.18 - Arco a tutto sesto in trachite; nella partecentrale della volta sono visibili zeppe in arenariae laterizio.19 - Intera facciata di un edificio, a tratti interrottada vari interventi di restauro. Al suo interno sonoinseriti archi a tutto sesto in trachite.20 - Tre colonne in trachite con capitelli diversamentedecorati, probabilmente non in fase con l’edificio.21 - Chiesa di S. Martino. La facciata originariacorrispondeva all’odierno fianco destro, dove sinotano tracce dell’antico rosone e del tetto aspioventi e nel quale rimangono ancora il portalecon arco ogivale ed elementi decorativi romanici.22 - Architrave di un arco in trachite decorato da trerosette inserite nella parte centrale; nel resto dellafacciata dell’edificio, altri esempi di muratura romanica.

Stella Menci

SANTA FIORAQuota: 687 s.l.m.Superficie totale: 23750 mqSuperficie borgo: 16800 mq

Descrizione generale:Arroccato su una rupe di trachite, il paese di SantaFiora domina la valle dell’omonimo fiume. Fuoridalle mura del centro storico, il paese moderno sisviluppa verso monte, quasi congiungendosi conl’abitato di Marroneto. Si compone di due partidistinte: il castello, a forma semiellittica, in alto eil borgo verso sud-ovest, al quale si accede per unaporta ad arco ribassato ancora quasi interamentevisibile. Vista la posizione del castello, già difesonaturalmente, non era necessaria una cinta muraria.Abbastanza numerose le evidenze di murature edelementi architettonici romanici.Breve descrizione delle murature censite:1 - Paramento a corsi abbastanza regolari; i concisono poco lisciati; presenza di malta nei giunti.2 - Due archi a tutto sesto in trachite.

Fig. 19: cassero di Montelaterone (n°1).

Fig. 22: la torre degli Aldobrandeschi (n°22).

regolari, paralleli; presenza di molte zeppe inlaterizio.12 - Chiesa di Santa Flora e Lucilla; dell’anticoassetto conserva solo il rosone romanico.13 - Porzione superiore della facciata di un edificio(2 mq circa); paramento a corsi regolari e paralleli.14 - Interno di una porta; nella parte inferiore sonovisibili probabili murature romaniche a corsiregolari.15 - Porta di accesso al borgo che conserva traccedell’antico paramento a corsi regolari e paralleli; iconci sono abbastanza lisciati.16 - Chiesa romanica di S. Agostino; forse solo illato sinistro conserva in basso l’antico paramentoromanico costituito da filari orizzontali e paralleli.17 - Porzione superiore della facciata di un edificio(3 mq circa), realizzata a corsi paralleli, presentapoche zeppe in laterizio. 18 - Arco a tutto sesto in trachite inserito in unamuratura romanica a corsi regolari e paralleli; iconci sono poco lisciati.19 - Arco a tutto sesto in trachite inserito in una

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3 - Arco a tutto sesto in trachite inserito in unamuratura romanica a corsi regolari e paralleli; nonsono presenti zeppe.4 - Stipiti e architrave di una porta; si conservanoancora alcuni blocchi in trachite ben lisciati.5 - Paramento in opera romanica; i corsi sono pocoregolari; forte presenza di zeppe in laterizio e maltasoprattutto nella porzione inferiore.6 - Porzione superiore della facciata di un edificio(2 mq circa); paramento in opera romanica a corsie paralleli, poche le zeppe in arenaria e laterizio. 7 - Porzione inferiore della facciata di un edificio(1 mq circa); paramento in opera romanica a corsiregolari e paralleli. I conci sono ben lisciati.8 - Paramento in opera romanica a corsi regolari eparalleli; i conci in trachite sono ben lisciati.9 - Arco in trachite inserito in una muratura romanicaa corsi regolari e paralleli; i conci non sono lisciati. 10 - Porzione superiore della facciata di un edificio;si conservano solo alcuni blocchi in trachite, benlisciati e squadrati.11 - Paramento disposto a corsi abbastanza

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Fig. 21: porta di accesso al borgo (n°23).

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muratura romanica; i corsi sono regolari e paralleli;zeppe in laterizio e arenaria tra i giunti.20 - Porzione superiore della facciata di un edificio(4 mq circa); paramento a corsi paralleli.21 - Porta in trachite ad arco a tutto sesto; i filariche ancora si conservano sono paralleli e regolari.22 - Rocca Aldobrandesca; a causa dei continui interventidi restauro, non rimane nulla dell’antico assetto.23 - Dall’antico borgo è visibile la porta al di sottodell’antica pieve di Santa Lucilla e Flora. Sembrache conservi in parte l’antico paramento romanico.

Stella Menci

L’aerofotointerpretazione archeologica del comprensorio amiatino.La ricerca effettuata nell’ambito della tesi di laureadella scrivente si propone di valutare il potenzialeinformativo che l’analisi della foto aerea può fornireall’archeologia dei paesaggi, in una situazioneparticolare come il comprensorio amiatino, chepresenta una grande complessità di situazioni (inprevalenza zone boscose, pascoli dove gli interventiagricoli hanno alterato solo parzialmente lastratificazione sottostante, ma anche zone coltivatein modo più intensivo). L’individuazione delleanomalie ha tenuto presenti vari fattori che possonoinfluire aprioristicamente su questo tipo di ricerca.Si fa riferimento, in primo luogo, alla qualità deivoli, che presentano caratteristiche tecniche diverseda quelle richieste da una ricerca archeologica laquale può essere condizionata nei risultati, poichéaumenta il numero dei ritrovamenti di sitiimponenti, come ad esempio fortificazioni ecastelli, ma diminuisce la possibilità di localizzarestrutture di ben più modesta entità. Altri fattori,condizionanti soprattutto il grado di visibilità,possono essere: il tipo di copertura del suolo e ilgrado di conservazione del sito sepolto. Questo inconveniente è stato in parte risolto conuna lettura molto meticolosa del materialefotografico attraverso l’utilizzo di uno stereoscopioAviopret a 15 ingrandimenti che permette diindividuare anomalie con modeste estensioni(intorno ai 100 mq). L’analisi del materialeaerofotografico ha interessato fino ad ora laconsultazione del volo Eira 1976-77 che presentauna copertura totale della zona con un totale dicirca 800 fotogrammi per la zona del comprensorioamiatino. Si prevede di procedere alla lettura ditutti i voli anche a copertura parziale degli anni

successivi al 1976, che presentino una quota diripresa simile a quella dell’Eira che non essendomolto alta permette una buona visione complessivae dei dettagli. Dopo aver effettuato la verificapuntuale di tutte le anomalie, ci si propone, attraversouna comparazione dei vari voli esaminati, di valutarele variazioni delle tracce individuate nel volo 1976-77 e il loro eventuale stato di conservazione e visibilitàper ricreare una possibile storia dei siti. Per questomotivo l’analisi delle foto aeree sarà eseguitaprendendo in considerazione il maggior numeropossibile di voli, effettuati anche a distanza di annie cercando di realizzare un confronto e unavalutazione della potenzialità informativa che tengaconto anche delle diverse caratteristiche tecnichedi ognuno di loro.Per ciò che riguarda i risultati ottenuti fino ad orasi può elencare una serie di punti che sono statiaffrontati.Redazione di un archivio relazionale per poterclassificare le anomalie in base ad una serie ditipologie che si distinguono per tipi di tracceindividuabili sul terreno come ad esempio: Alterazione nella composizione del terreno Crescita anomala di piante ad alto fusto Crescita anomala della vegetazioneConservazione dell’umidità nel sottosuolo Di sopravvivenza(occorre precisare che si tratta di una classificazioneprovvisoria, poiché la scheda definitiva è in corsodi definizione) Redazione di una scheda di verifica che sia in gradodi integrare le esigenze della tradizionalericognizione archeologica, con quelle del riscontropuntuale delle tracce individuate da foto aerea.Questo ha permesso di fare alcune primeconsiderazioni, tenendo ovviamente presente chesi tratta di risultati parziali poiché necessitano diuna verifica sul campo.Sono state individuate un totale di 150 anomalieper tutti i comuni facenti parte del comprensorioamiatino: Arcidosso, Santafiora, Castel del Piano,Abbadia S. Salvatore, Piancastagnaio, Vivod’Orcia, Castell’Azzara, Seggiano.

Processamento immaginiLe immagini sono state ottenute rifotografando ilnegativo originale con una normale reflex con tubiaddizionali per foto macro, montata su unfotoriproduttore. In seguito sono state trasferite,

strutture edilizie molto regolari. Quelle più evidentimisurano rispettivamente 22 m di lunghezza e 17,5m di larghezza, sono disposte in senso ortogonalein modo da formare una struttura a quadrilateroripartita in quattro ambienti simili. Si trovano sudi un’area avente forma irregolare con unasuperficie approssimativa di 4183 mq. Il poggio èinoltre interessato da una serie di terrazzamentidegradanti verso valle, alle cui pendici, spostata adest, è presente un’area interessata da unacoltivazione arborea, dove sono appena visibili altretracce di edifici molto più confuse. Tra queste sinota in particolare una molto netta di forma ellitticae altre orientate in senso NO-SE che si incontranoortogonalmente tra loro e fanno pensare allapresenza di un edificio molto complesso.CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE:rilievo collinareVOLI ANALIZZATI: Eira 1976-7; Strisciata: 81b N°346-7 SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760

SCHEDA: 35LOCALITÀ: Monte CivitellaCOORDINATE: 1719777 4738908COMUNE: Castell’AzzaraQUOTA: 1107 mCARTOGRAFIA: IGM 1: 25000; REGIONALE 1: 5000POSIZIONE: sommitàTIPO DI VEGETAZIONE: bosco radoTIPO DI TRACCIA: di sopravvivenzaFORMA DELL’ ANOMALIA: ellitticaSUPERFICIE TOTALE: 1134 mqDESCRIZIONE: La zona è interessata da unacopertura a bosco rado. La caratteristica delle roccecalcaree che in questo punto tendono a fessurarsi,favorisce la formazione di questo tipo divegetazione. Ad ogni modo l’area sembra delimitatada un lungo muro che percorre la zona in direzioneest-ovest. Inoltre nella parte più bassa si nota unandamento circolare della vegetazione e altre traccedi muri, la superficie totale è pari a 354,3 mq.Appena sopra la vegetazione si dispone di nuovocon un andamento circolare. In corrispondenza diquesta zona si notano tracce di due edificirettangolari aventi le dimensioni di 6,8 m dilunghezza per 5,5 m di larghezza. La superficietotale di questa seconda area è pari a 1134 mq.

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su un Mac Power PC G3 con processore a 400Mhz, HD da 9,2 GB, 256 MB di RAM e monitora 21” a colori, scanner Polaroid per diapositive adalta risoluzione (2400 d.p.i. ed un ingrandimentodel 600%) e poi rielaborate tramite Photoshop 5.5,seguendo una serie di procedimenti al fine direndere il lavoro più leggibile.

Alcuni esempi di schede.SCHEDA: 3LOCALITÀ: ad est del podere Sala, a sud di casale MonteccluoCOMUNE: ArcidossoCOORDINATE: 1704273 4752473 QUOTA: 585 mCARTOGRAFIA: IGM 1: 25000; REGIONALE 1: 5000POSIZIONE: sommitàTIPO DI VEGETAZIONE: coltivazione arboreaTIPO DI TRACCIA: crescita anomala di piante adalto fusto spontanee o coltivateFORMA DELL’ ANOMALIA: poligonale complessaSUPERFICIE TOTALE: 1040,5 mqDESCRIZIONE: Si tratta di un’altura che degradaleggermente verso la valle delle Piagge, si trova adovest rispetto a poggio Sala e non molto distante dauna serie di piccoli rilievi impervi che si innalzanoanch’essi verso ovest, fino ad incontrare l’imponentealtura sulla quale sorge Monte Laterone. Sullasommità si nota la presenza di tracce riferibili a

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Fig. 23: Podere Sala.

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REGIONALE 1: 5000POSIZIONE: sommitàTIPO DI VEGETAZIONE: bosco fittoTIPO DI TRACCIA: Crescita anomala di piantead alto fusto spontanee o coltivateFORMA DELL’ ANOMALIA: semiellitticaSUPERFICIE TOTALE: 117 mqDESCRIZIONE: Sul poggio, completamentericoperto da bosco fitto, si nota una traccia di formasemiellittica che sembra essere originata da unacrescita anomala delle piante. La superficie totaleè pari a 117,7 mq e nella parte sommitale siindividua un piccolo rudere, di cui, a causa dellaforte luminosità della foto in corrispondenza diquesto preciso punto, non è possibile definirne néla forma né i contorni precisi.CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE:rilievo con versanti poco accentuatiVOLI ANALIZZATI: Eira 86A N° 951 - 52SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760

Anna Caprasecca

Fig. 24: Monte Civitella. Fig. 25: Podere Fusaio.

CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE: rilievo impervioVOLI ANALIZZATI: Eira 86A N° 951 - 52SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760

SCHEDA: 135LOCALITÀ: podere Fusaio, vicino al torrenteBugnoneCOORDINATE: 1.708.783.61; 4.754.467.39COMUNE: Castel del PianoQUOTA: 410 mCARTOGRAFIA: IGM 1: 25000; REGIONALE1: 5000POSIZIONE: sommitàTIPO DI VEGETAZIONE: coltivazione erbaceaTIPO DI TRACCIA: di sopravvivenzaFORMA DELL’ ANOMALIA: di sopravvivenzaSUPERFICIE TOTALE: 484 mqDESCRIZIONE: Sembrerebbe trattarsi di unatorre ancora in elevato, delimitata a nord, da unmuretto poligonale.CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE:rilievo con versanti poco accentuatiVOLI ANALIZZATI: Eira 86A N° 951 - 52SCALA FOTOGRAMMA: 1:13760

SCHEDA: 13LOCALITÀ: MontotoCOORDINATE: 1707241 4750474COMUNE: ArcidossoQUOTA: 810 mCARTOGRAFIA: IGM 1: 25000;

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Nel Duecento, sull’Amiata, nella Maremma e sulle Colline Metallifere, chesono le zone aldobrandesche, la stragrande maggioranza delle popolazioniviveva in abitati concentrati e fortificati, cioè in castelli (castra); se ora

osserviamo il paesaggio delle stesse zone, possiamo quindi immaginare che il disegnodelle presenze umane in questo periodo fosse grosso modo paragonabile a quelloattuale. Era invece essenzialmente diverso da quello che parzialmente si puòricostruire per i secoli VIII-X, un “paesaggio sepolto”, scriveva Chris Wickham, talefu il cambiamento (o i cambiamenti), designato con il termine di “incastellamento”,che tra X e XIII secolo portò le popolazioni rurali a raggrupparsi all’interno degliinsediamenti fortificati detti “castelli”1. Gli abitanti di un castello, che vivevano per lo più dello sfruttamento del territoriocircostante (ossia la “curia” o distretto) dove avevano le loro terre, si associaronoin una Comunità o Comune (Comune, Comunitas, universitas) fortemente identificatacon il luogo stesso; quindi il medievale Comune di castello non corrisponde allacircoscrizione introdotta nell’Italia moderna con lo stesso nome di Comune, che oraunisce, sulla carta amministrativa della provincia, più abitati o castelli. Per inquadrare la storia di queste unità insediative, politiche, economiche, sociali,abbiamo localmente un punto di riferimento storiografico con gli atti del convegnodi Abbadia San Salvatore del 1986, pubblicati nel 1989 a cura di Mario Ascheri eWilhelm Kurze

2. Ho avuto il piacere di partecipare a questo convegno, che resta per

molti di noi un felice ricordo ed è diventato un punto fermo delle conoscenze storichesulla zona; dopo una quindicina d’anni, m’interessa cogliere l’occasione di questonuovo incontro per riprendere appunto l’argomento dei Comuni – che avevo studiatonegli anni precedenti al convegno di Abbadia – ora, con l’arricchimento dei moltistudi fatti negli ultimi decenni. Sono studi, quelli – locali o no – che non semprehanno avuto come mira essenziale l’argomento comunale ma che in un certo modolo hanno rilanciato: indagini archeologiche, rinnovamento degli studi sulla signoria– cioè l’esercizio del potere sui coltivatori della terra –, studi paralleli sulla servitù egenericamente sui gradi vari di dipendenza dei sudditi, indagini complessive sullefamiglie che esercitavano il potere, studi demografico-territoriali fondati sultrattamento informatico dei dati seriali (essenzialmente fiscali).

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Le Comunità di castello sull’Amiata e neidomini aldobrandeschi nel Duecento

Odile Redon Università di Parigi VIII

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I castelli di cui osserveremo le Comunità, risalivano o a una prima fasedell’incastellamento _ i primi, sull’Amiata, furono Montelaterone e Radicofani (secoliX- XI) _, o alla seconda fase, dall’inizio del Duecento, secolo durante il quale furonoeretti (come Radicondoli, Belforte nei domini aldobrandeschi delle CollineMetallifere, Castel di Badia/Abbadia San Salvatore sulla terra dell’abate) oprofondamente ristrutturati (Castiglione d’Orcia). È certamente importante capirese le Comunità abbiano avuto un ruolo in queste creazioni e ristrutturazioni. Maprima è necessario ricordare alcuni elementi di definizione, e, più precisamente,spiegare il modo in cui lo storico entra in contatto con le Comunità: una presentazionedocumentaria, che nello stesso tempo riassume le conoscenze precedenti.

Conoscenza delle Comunità

S’intende per Comunità, o Comune, l’associazione delle persone che abitavano – nelnostro caso – un castello. Di queste associazioni abbiamo una conoscenza direttaquando sono sopravvissuti elementi dei loro archivi; si sa che questi archivi sonoesistiti perché ne rimangono tracce3, ma non esistono più in quanto tali per i Comunidell’Amiata e della Maremma nei secoli che ora consideriamo e, alla meglio, glielementi superstiti si ritrovano in altre sedi: archivi notarili, archivi degli Stati(Comune sovrano di Siena, Pisa o Orvieto, Regno/Impero), archivi signorili: nellazona considerata, il bacino documentario più ricco è certamente il Diplomatico diSan Salvatore del Monte Amiata – ora all’Archivio di Stato di Siena4 – che eral’archivio del monastero. La cancelleria abbaziale vi raccoglieva le carte cheriguardavano la gestione ecclesiastica e l’amministrazione dei castelli di cui ilmonastero era signore. Nei casi più favorevoli disponiamo di alcuni documenti emanati dal Comune. Quellipiù organici sono gli statuti, che regolavano la propria vita della Comunità, dei suoimembri e dei suoi luoghi. Altri, di portata più limitata, sono i contratti a fineeconomico (acquisti, vendite, mutui) rogati da un notaio. Gli atti di procura concui la Comunità delegava ad uno o più uomini l’incarico di rappresentarla al momentodi attivare una decisione testimoniano l’esistenza della detta Comunità come personagiuridica. Sono essenziali i documenti che definivano i rapporti del Comune con ilsignore del castello, le cosiddette ‘carte di franchigia’. Gli statuti più antichi che conosciamo nella zona sono quelli di Radicofani (solo unframmento, del 1255)5, di Monticello-Amiata/Montepinzutolo (del 1261)6, diTintinnano/Rocca d’Orcia (del 1297)7. Ma alla metà del Duecento, e probabilmenteanche prima, ogni Comunità di castello aveva il proprio statuto; si trovano peresempio allusioni a statuti di Belforte e di Radicondoli nel 1221, di Abbadia nel 12368.Lo statuto era un testo evolutivo, periodicamente aggiornato, a seconda delle necessitàdella vita pubblica, da una commissione nominata concordemente (se possibile)

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dal Comune e dal suo signore. Per motivi legati al modo di conservazione e ditrasmissione dei testi ci è pervenuta la redazione di un momento piuttosto che diun altro. La carta di franchigia invece segna un momento preciso della storia del Comune. Eraconcessa dal signore e quindi non emanava direttamente dal Comune, maevidentemente rispondeva alle richieste dei sudditi, normalmente in seguito ad unconflitto, al minimo dopo una contrattazione, che sarà stata per lo più orale e chespesso, quindi, non è testimoniata direttamente. Regolava i prelievi signorili e i servizidovuti dai dipendenti, definiva la condizione delle persone relativamente alla libertàdi movimento e alla trasmissione dei beni, riconosceva alcune prerogative al Comune– o università – personificato dai consoli o da un sindaco designato attraverso un attodi procura. Sono conosciute le franchigie di Suvereto, concesse dai contiAldobrandeschi nel 1201, e quelle di Tintinnano (Rocca d’Orcia) del 1207, in cui isignori Tignosi si richiamavano ai principi di “equità, giustizia, libertà”. I successiviabati di San Salvatore del Monte Abbadia, al ritmo vario delle rivendicazioni neicastelli, emanarono in nome del monastero delle carte di franchigia: nel 1212 perCastel di Badia, nel 1289 per Montelaterone, nel 1311 per Monticello. Torniellaottenne franchigie dal signore Ranieri nel 1233. Grosseto dal conte Ildibrandino VIIIAldobrandeschi nel 1222, ma in quanto città rappresenta un caso particolare.Molti Comuni sono conosciuti solo indirettamente per lungo tempo, quandosicuramente esistevano già da più anni. La circostanza è spesso creata dal giuramentoche il signore richiedeva agli abitanti di un castello o per ottenere conferma dellaloro fedeltà o per impegnarli al rispetto di un patto che aveva contrattato per se stessoe per i suoi castelli. Al momento del giuramento sono nominati per primi i consolio altri ufficiali comunali, prima delle singole persone, senza altra considerazione alComune. Spesso è la segnalazione dei consoli che attesta l’esistenza di una Comunitàorganizzata, così per molti castelli del dominio aldobrandesco all’inizio del Duecento:Magliano e Montemassi nel 1203; Radicondoli 1210; Sovana, 1213, 1221 equest’ultimo anno Belforte, Pitigliano, Saturnia; 1223, Castiglione d’Orcia9. Le carte di franchigia dell’inizio del Duecento definiscono la posizione dei consoli,la cui designazione è più o meno controllata dal signore secondo il rapporto di forzatra lui e il Comune: a Tintinnano un console comunale appare come “pendant” diun console dei signori (ma non si conosce la procedura di elezione), ad Abbadia, ilprimo articolo della carta emanata dall’abate conferma il consolato come un usoantico (“che avete avuto da molto tempo fino ai nostri giorni con il permesso deinostri predecessori e il nostro nei nostri giorni”, questo nel 1212), consentito daiprecedenti abati e la carta è indirizzata ai due consoli del Comune. Il signore diTorniella nel 1233, oltre a riconoscere il consolato, ammette che la scelta del Comunesia completamente libera: “come vorrete, senza di me”10.Tra gli anni 1230 e 1260, la figura del console (o dei consoli) tende ad essere sostituitada quella di un rettore o podestà (come era successo cinquant’anni prima nelle città).

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I due termini “rettore” e “podestà” sono usati indifferentemente. Il podestà, comein città, non appartiene alla Comunità ma è scelto fuori tra giuristi o nobili della zona(ad esempio ad Abbadia: il giudice Graziano di Siena nel 1249 o BonifacioAldobrandeschi di Santa Fiora nel 1289). Questo passaggio dal console al podestàsignifica spesso una riduzione dell’autonomia comunale in quanto il rettorerappresenti sia il signore che il Comune: sarà un elemento di ulteriore esposizione.La carica podestarile è annuale com’era quella consolare.La similitudine nell’evoluzione istituzionale dei vari Comuni – che non escludeimportanti differenze, tra l’altro nel grado di autonomia – è sicuramente legata allapratica notarile, che, diffusa nell’intero territorio, dà forma agli atti comunali einevitabilmente introduce nelle comunità, con la necessaria formulazione, unariflessione sull’esercizio del potere: dall’assemblea di tutti gli uomini, forma di“democrazia diretta” associata all’espressione orale (che per forza ci sfugge), alladelega del potere collettivo a favore di consigli ristretti e di ufficiali: consoli o rettori,camarlenghi, “massari”, garantita pubblicamente per mezzo degli atti scritti dal notaiodel Comune. All’attività dei notai siamo debitori di quasi tutta la nostra conoscenzadelle comunità medievali.

Comune e incastellamento

La comunità però si riconosce anche nel luogo della sua esistenza, il castello. La formaattuale del castello testimonia certo per il passato, ma dopo almeno sette secoli dioccupazione umana non sempre dà un’immagine chiara del luogo di vita medievale.La cinta muraria spesso è crollata; le case si sono sparse intorno... ad esempio lastruttura medievale si legge male a Monticello Amiata, piuttosto bene aMontelaterone. Sono stati quindi decisivi gli studi condotti sul momento stessodell’incastellamento attraverso i reperti archeologici e i testi, sviluppati per questazona ormai da due o tre decenni11. Il problema che qui ci interessa è capire se leComunità abbiano avuto un ruolo nella realizzazione del processo di incastellamento;questo problema si pone in modo più chiaro per i castelli detti dagli studiosi di questoprocesso “castelli di seconda generazione” (cioè secoli XII-XIII). Infatti, al momentodella loro edificazione, i modelli di funzionamento degli abitati raggruppati efortificati erano già in atto; d’altra parte, la diffusione per tutto il territorio dellascrittura notarile dà allo storico gli strumenti per studiare questi modi difunzionamento, se non di creazione. I casi noti sono eterogenei ed è piuttosto rarotrovare tracce di un progetto di “incastellamento” che sarebbe stato portato avantida persone non precedentemente costituite in associazione e non legate ad un precisoluogo. Presentiamo tre casi.Il castello di Montepinzutolo sul fiume Zancona, nella signoria di San Salvatore, furicostruito nel 1240 nel luogo e con il nome di Monticello, dopo un contratto passato

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tra il signor abate e la Comunità degli abitanti: una quarantina di uomini sononominati ed i loro portavoce sono un console e sette consiglieri. In questo caso ilComune preesiste, ha chiesto all’abate il permesso di trasferire il castello perché unincendio ha reso disagevole il precedente luogo, ma l’organizzazione del “terroir”rimane come era prima. Gli uomini edificheranno il castello: all’interno farannouna chiesa per il monastero e delle case di abitazione per le loro famiglie, all’esternoprovvederanno alla cinta muraria, con porte alte e forti. Questa cinta è statacompletata nei decenni successivi, come viene testimoniato dalle revisioni dello statuto(rubr. 76). Il contratto prevede discretamente l’arrivo di nuovi residenti (“altri cheavessero voluto venire ad abitare nel medesimo luogo”12) e soprattutto rinnova lasottomissione degli uomini al signore, compresi il pagamento delle redevances, ilservizio militare e la guaita, l’obbligo di giurare fedeltà e il riconoscimento globaledella signoria e giurisdizione dell’abate. Esplicitamente i residenti, sudditi delmonastero di San Salvatore, conservano i poderi che tenevano dal signore e, a partel’esenzione dei dazi per 6 anni e dei terratici per 3, non vedono cambiare la lorocondizione. Il “reincastellamento” pare effettuato d’accordo tra Comune e signore.A Radicondoli, nel dominio aldobrandesco, il Comune è attestato già al momentodella fondazione del castello nel secondo decennio del Duecento. Il tessutourbanistico, ricostituito com’era all’inizio del Trecento, rivela una struttura allungatada est ad ovest, predisposta all’abitazione delle famiglie più che alla difesa13. Lecase erano disposte a schiera, lungo vie parallele dirette est-ovest come l’asseprincipale. All’incrocio di quest’ultimo con l’asse perpendicolare si sviluppava unagrande piazza. Quattro chiese erano ubicate all’interno della cinta muraria ma versol’esterno del castello; “riproducevano” con le stesse intitolazioni le cappelle che sitrovavano prima nelle zone rurali. La loro posizione entro le mura rispecchiava quelladegli insediamenti anteriori – mi riferisco agli studi di Roberto Farinelli e AndreaGiorgi14 e di Chiara Cucini. Farinelli e Giorgi mostrano che il processo che hacondotto alla nascita del castello di Radicondoli si è svolto tra il 1172 e il 1210; hasignificato la concentrazione in una nuova sede, vicina ad un piccolo castello (chediventò il Castelvecchio), di una popolazione che prima era sparsa in piccoli centrirurali. I nuovi “castellani” in un certo modo integrarono al castello le primitivecappelle e si può ipotizzare che i gruppi di fedeli legati alle chiese “rifondate”all’interno siano stati i primi nuclei del Comune di castello, forse addirittura anteriorial castello stesso. L’iniziativa dell’incastellamento a Radicondoli è venuta dai signori locali,probabilmente fedeli degli Aldobrandeschi, che chiesero (nel 1172) ai canonici dellacattedrale di Volterra il permesso di trasferire i loro uomini e le cappelle rurali versoil nuovo insediamento. L’attività comunale è attestata contemporaneamente allacostruzione del castello che è datata agli anni 1210-1213. Nei primi anni il Comunefu governato alternativamente da rettori (1212, 1217, 1220) o da consoli (1210-1211,1213, 1221): così è stato registrato nella memoria dei testimoni interrogati negli anni

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1240 e si può ipotizzare che tale alternanza rimandi ad un dibattito interno sullagestione della Comunità. Nel 1221, la popolazione era già importante poiché 320uomini adulti, dietro ai loro consoli, confermarono con giuramento il patto dei contiAldobrandeschi con Siena. I conflitti con il vicino Comune di Mensano nel 1222evidenziano la forza espansiva e l’organizzazione adeguata del Comune. Sembra quindi legittimo concludere che il Comune di Radicondoli abbia aderitoimmediatamente al progetto signorile di incastellamento e lo abbia fatto suo,partecipando attivamente alla sua realizzazione. Il vicino castello di Belforte presentaun caso analogo a scala un po’ più modesta: 260 uomini giurarono il patto del 1221.Il castello di Castiglione d’Orcia fu completamente ristrutturato tra il XII secolo ela prima metà del Duecento, inglobando il Castelvecchio preesistente; l’ampliamento,associato alla concentrazione del popolamento e al cambiamento delle strutturedifensive, fu promosso dai conti Aldobrandeschi, dal monastero di San Salvatore edall’eremo di San Benedetto del Vivo – tutti e tre possedevano dei diritti signorili aCastiglione – e dalla Comunità15. I nuovi abitanti venivano per lo più da abitati vicinie il raggruppamento fu realizzato in forma di borghi – con case costruite a schiera– disposti intorno al Castelvecchio. La parte più alta dell’abitato mantenne il caratteredifensivo. Nella prima metà del Duecento Castiglione d’Orcia conobbe un rapidodecollo demografico (200 capifamiglia giurano obbedienza a Siena nel 1251)16 edeconomico, che agevolò ulteriormente il processo di organizzazione comunale; neiprimi decenni del Duecento la Comunità è governata da un castellano e da unamagistratura consolare (come si legge in una vertenza di confine del 123317).L’organizzazione del territorio risale molto probabilmente a questo momento diespansione. Infatti, nella struttura che si legge ancora all’inizio del Trecento, sembrail risultato di una pianificazione, che potrebbe aver accompagnato quella dellacostruzione dei borghi. È da manuale: aree concentriche a partire dal castello: orti,vigneti, campi dedicati alla cerealicoltura e prati di fondovalle, infine boschi e pascolisulle pendici dell’Amiata. Le terre dei “castellani” erano dislocate nei diversi“quartieri” e i beni comunali erano particolarmente estesi nell’area montana18. Gli abitanti e il Comune hanno evidentemente collaborato allo sviluppo del castelloe del suo territorio e ne hanno approfittato; è quindi possibile ipotizzare – anche senon accertare – che fossero stati partecipi del progetto iniziale.

Governo dei Comuni

Nel Duecento i Comuni castrensi, a differenza dei Comuni cittadini (ad. es., nellazona, Siena o Orvieto), non godono una piena autonomia. Il potere nei castelli èquindi sempre diviso, più o meno pacificamente, tra un signore (o più signori) e illocale Comune. Scegliamo alcuni punti di osservazione. Un castello è oggetto di contesa tra due signori: tale conflitto è scoppiato a Montepinzutolo

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e il caso viene esposto nel luglio 1240 davanti al giudice della magna curia imperialeTaddeo d’Adria. Il dissenso porta sul prelievo signorile. L’abate di San Salvatorerivendicava il suo diritto di “ricevere dal castello le prestazioni che voleva”mentreaccusava il conte Guglielmo Aldobrandeschi di aver preteso indebitamente dallostesso castello, come il defunto padre Ildibrandino (VIII), e riscosso con violenzafisica varie prestazioni in natura: biade e capi di bestiame o animali da cortile. Gliuomini si presentano per testimoniare in quanto individui soggetti al prelievo e inquesto caso alle violenze; il Comune non è nemmeno citato, evidentemente perchéin questo caso il conflitto supera le sue prerogative. Siamo fuori di un contesto dicivile convivenza, e infatti la pacificazione con la giustizia è richiesta all’imperatore19.Se in certi momenti della storia di un castello sono riconosciute reciprocamente, eal livello più alto dei poteri pubblici, la legittimità del signore e la rappresentativitàdel Comune – un riconoscimento esplicito all’atto di scrivere una carta di franchigia– le competenze si trovano divise. Il signore (o i signori) riscuote le prestazioni ed iservizi consueti, e i dazi pubblici se detiene il banno, decide in materia di “politicaestera”, cioè la pace o la guerra e la scelta dei nemici. Il Comune è responsabilerispetto al signore dell’ordine interno, cioè della polizia, garantisce la vita economica(produzione e scambi), tiene le finanze; gestisce la vita collettiva secondo le regoleesplicitate nello statuto: culto del santo patrono, rispetto della convivenza civile,protezione dei beni privati – case, campi, alberi e raccolti –, impianto e manutenzionedelle strutture pubbliche: strade, piazze, fonti, mulini, fortificazioni. La giustizia èesercitata a secondo dei casi dal Comune o dal signore; in genere i crimini sonogiudicati dal signore, che riceve anche gli appelli, i casi minori dal Comune. Il Comunedel castello di Abbadia San Salvatore elabora nel 1299 con il monastero una divisioneparticolarmente precisa – direi esemplare – delle competenze, affinata in lunghi annidi contese. In tutte le varie funzioni, il Comune, per sua natura collettiva, deve essererappresentato; il problema della rappresentanza è complesso e qui si deve provarea chiarirlo. In senso stretto, il Comune sarebbe stato l’insieme degli abitanti delcastello; si realizzava più precisamente nell’assemblea di tutti gli uomini adulti odei capifamiglia, detta anche “parlamento” o contio. Di queste assemblee le traccesono rare perché il loro procedimento era per definizione orale; invece lo storicoconosce bene la rappresentanza (o procura o delega) perché implica l’uso dello scritto(e il lavoro notarile). Il parlamento può ancora essere convocato nei Comuni castrensi quando l’uso si èpraticamente perso in città, per evidenti motivi demografici. L’abate di San Salvatorelo riunisce sulla piazza di un suo castello quando vuole entrare in relazione con tuttii sudditi del detto posto: ad esempio, il 5 febbraio 1262, a Montepinzutolo (Monticello)ha fatto chiamare dal banditore tutti gli uomini per ricevere il loro giuramento difedeltà e infatti sono 117 a dichiarare concordemente che sono “uomini delmonastero”, sottoposti “sia personalmente che per i beni”20. Qui l’assemblea sembraavere l’unica funzione di far accettare alle singole persone la loro dipendenza, ma

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non è completamente vero perché in un’assemblea dello stesso tipo, lo stesso anno,ad Abbadia San Salvatore, una minoranza relativamente importante (41 contro 197)si assumeva il rischio di rifiutare all’abate il giuramento di fedeltà21.Piuttosto che riunire un’assemblea per forza pesante, s’istituisce per le banaliconsultazioni il consiglio. I consiglieri sono in numero molto ridotto rispetto alparlamento e il modo di sceglierli fra gli uomini adulti è raramente precisato22. Se si deve trattare un singolo caso, la Comunità usa un modo diverso di farsirappresentare: dà la procura a un sindaco, designato dall’assemblea o dal consiglio;gli esempi sarebbero numerosissimi: cito Bovacciano, sindaco del popolo di Tintinnanoche s’impegna per il detto popolo a rispettare la carta di franchigia del 1207. Perl’ordinaria amministrazione il Comune delegava le sue prerogative a vari ufficialiper un anno o per un semestre: il camerario, responsabile delle finanze, era sempreil secondo personaggio del Comune, dopo il rettore, di cui normalmente faceva le vecicon il titolo di vicario quando il primo magistrato era assente. Ogni anno un notaioaveva l’incarico delle scritture del Comune, insieme ad una funzione di consiglieregiuridico; anche lui poteva fungere da vicario del podestà. Vari incarichi riguardavanola polizia nel castello, la sorveglianza delle strade e dei campi: balitori, camparii, viarii;i nunzi o i “massari” avevano delle mansioni generiche, qualche volta semplicementeoccasionali. Torniamo al rettore o podestà, che abbiamo già presentato sopra. È un personaggio chiave per capire l’istituzione comunale a partire dalla metà delDuecento nei domini ampi come la signoria del monastero di San Salvatore o nellacontea aldobrandesca (o nel contado senese23). Il rettore, in funzione per un anno,giura di “reggere, governare, difendere e mantenere [il] castello con il suo distrettoe i suoi abitanti... di fare giustizia a tutte le persone che lo chiederanno”24, esercitala giustizia ed esegue le decisioni prese dal consiglio: in qualche modo personificail potere nel Comune, contemporaneamente quello del Comune stesso e quello delsignore. A Castel di Badia, la figura del podestà (associata a quella dei principaliufficiali) è stata motivo di contesa tra l’abate di San Salvatore e il Comune. Nel 1251,l’abate affermava di poter “ritenere tra le sue mani il governo del castello” (retinereregimen in dicto castro ad manus suas) ma ammetteva la nomina di un podestà,incaricato particolarmente della giustizia. In un documento in cui l’abate elencavatutti i suoi diritti sul castello, ricordava che il podestà rendeva giustizia in nome suoe divideva con lui i redditi dei placiti; ma era il Comune a pagarlo. L’abate avrebbeavuto la capacità di scegliere il podestà ma consentiva, “per la malignità dei tempi”,dice in altro documento (del 1258), a farlo eleggere in parlamento; manteneva peròun controllo sulla designazione e esigeva il giuramento dell’eletto. I podestà ricordatinel 1251 sono tutti forestieri, cavalieri o giudici, di Siena, Orvieto o Acquapendente25,come quelli che conosciamo con ulteriori documenti, così il visconte di Campiglianel 128826, il conte Bonifazio di Santa Fiora nel 1289. La loro funzione li conducead arbitrare tra il signore e il Comune o qualche persona appartenente al Comune:così nel 1249, il giudice Graziano di Siena dà ragione al monastero contro un tale

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Pietro Ingilese, notorio oppositore alla signoria abaziale, e lo condanna a restituirela terza parte di un mulino che possedeva indebitamente. Il conte Bonifazio (II) diSanta Fiora, podestà di Abbadia San Salvatore nel 1289, è confermato come arbitrodal Comune e dall’abate, che erano in conflitto a proposito di una gualchieracomunale (abusiva, diceva l’abate) e di alcuni diritti esercitati (abusivamente?) dalComune27; rende una sentenza motivata ed equilibrata. La procedura si è svolta “nelpalazzo del cassero di Santa Fiora, dove lo stesso signore dimorava”. Si osserva quindiche il conte-podestà non risiedeva ad Abbadia; ma non è un caso particolare: irettori/podestà, comunemente, non risiedevano nel “loro” castello: Graziano è spessopresente a Siena nel 1249, mentre esercita la funzione podestarile ad Abbadia28.Le norme senesi prevedevano e regolavano la presenza e l’assenza dei rettori nellaloro sede. Le funzioni governative erano delegate, come abbiamo già detto, ad unvicario: camerario o notaio del Comune; il conte Bonifazio manda un notaio delproprio “entourage”, Alessio da Suvereto. A Monticello la norma dell’elezione podestarile è analoga a quella di Abbadia manel contesto più pacifico di una signoria accettata. Montelaterone, invece,precocemente attratta nell’orbita del Comune di Siena, s’impegna dalla metà delDuecento, nonostante la sua appartenenza alla signoria degli abati, ad eleggere ognianno un rettore senese; il problema non è affrontato nella carta di franchigia“concessa” dall’abate al Comune, l’8 gennaio 1289. Il governo dei castelli restageneralmente regolato con accordi bilaterali Comune/signore. Non sembra che cisia stata nel Duecento una uniformazione dell’istituzione comunale nei domini delmonastero di San Salvatore, come avveniva nello stesso periodo (fino ad un certopunto) all’interno del contado senese. Nella contea aldobrandesca Simone Collaviniipotizza un disegno di uniformazione più avanzato29; certo i conti dovevano ormaitener conto delle Comunità, ma l’incertezza della terminologia, particolarmente l’usoindifferenziato del termine “vicario”, non permette di andare molto più avanti.

Per concludere: villani e cittadini

Abbiamo finora considerato la vita pubblica, ma la Comunità è composta di individuio piuttosto di famiglie: la famiglia è l’unità di vita e di lavoro, associata al possessodi una casa nel castello e di terre nel distretto castrense; dietro gli uomini presential parlamento, ci sono le donne e i bambini. Gli uomini delle Comunità hanno lottatoper ottenere la libertà del matrimonio, la libera disposizione dei beni e la lorotrasmissione ai figli; le carte di franchigia testimoniano il successo, più o meno tardo,di queste lotte. Gli abitanti del Castel di Badia avevano fatto riconoscere nella cartadel 1212 il loro diritto a trasmettere i beni tra padre e figlio, zio e nipote e la libertàdi vendere, dare, impegnare le terre che tenevano dal monastero. Quelli di Monticellodevono aspettare il 1311 per avere conferma degli stessi diritti, addirittura con certe

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riserve. “Tenere le terre dal signore” significava che i lavoratori, impegnati anche nelladifesa del castello, non avevano la piena proprietà delle terre che coltivavano, anchese avevano ottenuto ampie garanzie di possesso. Le terre e le case appartenevano inultima istanza al signore e i “manenti” pagavano per conservarne l’uso30. La lorolibertà di movimento era limitata dalla necessità di conservare i beni che erano ancheil loro mezzo di lavoro. La carta di Tintinnano esordiva con una famosa invocazioneall’equità, alla giustizia e alla libertà. L’attività dei Comuni testimonia una vitacollettiva ordinata, attenta alla convivenza civile, alla qualità della vita privata,all’equilibrio della vita economica. Ma gli uomini che collettivamente agivano comecittadini responsabili, in altri contesti erano minorati: i “liberi” di Tintinnano, quandofurono venduti al Comune di Siena, poi ai nobili banchieri Salimbeni, riconobberoindividualmente la loro condizione di dipendenza – erano “villani” _, purrivendicando sempre l’applicazione della carta di franchigia. Gli uomini del Casteldi Badia lottavano a viso aperto contro il signor abate per gestire a loro favore ilterritorio del castello; quelli di Monticello venivano a patti... In tutti i castelli, conrapporti di forza diversi, gli artigiani e i lavoratori della terra vivevanocontemporaneamente come “cittadini” nella vita comunale e “villani” nel rapportosignorile.

Note: 1 A Tintinnano non è usato il termine latino castrum o castellum, ma il termine arx o rocca; infatti ladesignazione attuale è Rocca d’Orcia. Si veda comunque CH. WICKHAM, Comunità e clientele nellaToscana del XII secolo. Le origini del Comune rurale nella Piana di Lucca, Roma 1995. 2 L’Amiata nel Medioevo, a cura di MARIO ASCHERI, WILHELM KURZE, atti del Convegno maggio-giugno 1986, Roma 1989.3 A Montauto d’Ardenghesca le carte, i libri, tutte le scritture del Comune erano tenute in una “ cassetta ”,Statuto di Montagutolo dell’Ardenghesca, a cura di L. POLIDORI, in Statuti senesi scritti in volgare Bologna,1863, rubr. 48, p. 16, 88, p. 26.4 Un’altra parte si trova nell’Archivio di Stato di Firenze.5 R. PIATTOLI, Lo Statuto del Comune de Radicofani dell’anno 1255 (frammento), “Bullettino senese distoria patria” (da ora in avanti BSSP), 42, 1935, pp. 48-65. 6 I. IMBERCIADORI, Constitutum Montis Pinzutuli (Monticello Amiata, secolo XIII), “BSSP”, 44, 1937,pp. 3-34; traduzione italiana in N. MECHINI e O. REDON, Un Comune medievale e le sue scritture.Da Montepinzutolo a Monticello Amiata, Cinigiano, 1997, pp. 29-35.7 Inedito, all’Archivio di Stato di Siena (da ora in avanti ASS), Statuti dello stato 114. Commentato conmolte citazioni in L. ZDEKAUER, La carta libertatis e gli statuti della Rocca di Tintinnano (1207-1297),“BSSP”, 3, 1896, pp. 327-376. 8 Invece i primi statuti che conosciamo per queste Comunità sono del 1382 per Belforte, 1412 perRadicondoli, 1434 per Abbadia San Salvatore.9 Vedi S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti”

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a “principi territoriai” (secoli IX-XIII), Pisa 1998, p. 451 s. I titoli abbreviati rimandano alla Bibliografiain fondo all’articolo, che contiene le opere più spesso citate.10 Il testo delle carte di Tintinnano, Abbadia San Salvatore, Torniella è in O. Redon, Uomini e Comunitàdel contado di Siena nel Duecento, Siena 1982, pp. 136-175. 11 Si veda il volume Castelli. Storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, I, a cura di R.FRANCOVICH e M. GINATEMPO, Firenze 2000.12 Testimonianze medioevali per la storia dei Comuni del Monte Amiata, a cura di N. BARBIERI e O.REDON, Roma 1989, p. 45.13 La struttura è stata ricostituita da R. Farinelli e A. Giorgi, in Radicondoli. Storia e archeologia di unComune senese, a cura di C. CUCINI, Roma 1990. Questa integrazione delle chiese all’interno della nuovastruttura fortificata ricorda il processo analogo nella fondazione della città de L’Aquila.14 Ibid. e in Castelli..., pp. 245-249.15 Sono ancora qui dipendente dalla documentazione presentata da R. FARINELLI e A. GIORGI,“Castellum reficere vel aedificare” il secondo incastellamento in area senese. Fenomeni di accentramentoinsediativo tra la metà del XII e i primi decenni del XIII secolo, in Fortilizzi e campi di battaglia nel Medioevoattorno a Siena, a cura di M. MAROCCHI, Siena, 1998, p. 157-263.16 ASS, Diplomatico Archivio delle Riformagioni (D. Rif.), 5 marzo 1251.17 La quale venne trascritta in un atto di confinazione del 1335: ASS, D. Rif., 8 agosto 1335.18 Sorgevano conflitti di confine (particolarmente con Seggiano e il monastero del Vivo), legati per granparte all’uso del bosco, conteso tra pascolo/legnatico e attività siderurgiche.19 Un lungo estratto del documento in Testimonianze…, pp. 29-39.20 Verbale e traduzione italiana in N. MECHINI e O. REDON, Un Comune medievale e le sue scritture…,p. 40 s. Vedi anche il verbale del parlamento di Montepinzutolo del 2 marzo 1276 in Testimonianze…, pp.59-65. 21 O. REDON, Uomini e Comunità..., p. 104.22 Con l’eccezione di Tintinnano, vedi Statuto citato sopra a nota 5, I-43, c. 4v. La designazione deiconsiglieri come degli altri ufficiali combina cooptazione ed estrazione a sorte.23 Vedi O. REDON, Uomini e Comunità..., pp. 181-185.24 Testo del giuramento del rettore nello statuto di Montepinzutolo, in N. MECHINI e O. REDON,Un Comune medievale e le sue scritture…, p. 30.25 Doc. 5 in Testimonianze…, p. 55 s.; vedi anche O. REDON, Uomini e Comunità..., particolarmente p. 133.26 ASS, Diplomatico San Salvatore del Monte Amiata (D. SSMA), 28 aprile 1288.27 ASS, D. SSMA, 25 e 28 marzo, 3, 6 e 10 settembre 1289 e Testimonianze…, pp. 77-88. La funzionedel podestà è normalmente annuale e affidata come abbiamo detto prima ad un miles o iudex forestieroeletto dal Comune e dal signore. Non mi sembra indispensabile immaginare un’azione di forza del conteAldobrandeschi (S. M. Collavini, “Honorabilis domus...”, p. 453, n. 72).28 Vedi O. REDON, Un citoyen au XIIIe siècle, le juge Graziano de Sienne, in La Toscane et les Toscansautour de la Renaissance. Cadres de vie, société, croyances. Mélanges offerts à Charles-M. de La Roncière,Aix-en-Provence, 1999, p. 55-75. Comunque le norme senesi prevedevano e regolavano la presenza el’assenza dei rettori nella loro sede.29 S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus...”, p. 451 ss.30 “Mélanges de l’Ecole française de Rome, Moyen Âge”, “La servitude dans les pays de la Méditerranéeoccidentale chrétienne au XIIe siècle et au-delà: déclinante ou renouvelée?” Actes de la table ronde deRome, 8 et 9 octobre 1999, 112-2, 2000, pp. 633-1055.

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La casata aldobrandesca rappresenta un’anomalia nel quadro della Toscanacarolingia. Di origine longobarda e lucchese, la famiglia finì con l’affermare ilsuo potere in vasti tratti della sezione centro-meridionale della regione, per

restringersi infine attorno al Monte Amiata e a Pitigliano, persistendo qui fino all’etàmoderna attraverso rami imparentati con gli Sforza e gli Orsini.La Marca di Toscana e lo “speziosissimo comitato” degli Aldobrandeschi costituironodue entità in certo senso contrapposte, ed è significativo che la ben maggiore duratadel potere degli Aldobrandeschi rispetto a quello dei Marchesi di Toscana – che siarrestò in pratica alla morte di Matilde di Canossa (1115) – fu la conseguenza delloscarso peso delle città nell’area maremmana, che rese poco efficienti i tentativi diqueste piccole città di estendere la propria giurisdizione nel contado, mantenendosianzi a lungo i poteri ormai signorili di vescovi e famiglie con ampia presenza degliAldobrandeschi, dinastia egemone nei 3 comitati-diocesi maremmani (Populonia-Massa, Roselle-Grosseto, Sovana-Pitigliano), nonché nella porzione meridionale delChiusino, appunto intorno all’Amiata.Ma non è qui il luogo per trattare delle vicende politiche e istituzionali della famigliaAldobrandesca e dei suoi rapporti con le città e i loro episcopati, con le grandiistituzioni monastiche della zona (in primis con l’Abbazia di San Salvatore), con altrestirpi signorili – quasi tutte legate da patti di colleganza che, nei secoli successivi l’XI,assunsero anche veste di dipendenza feudale – con i comuni rurali dei pochi e grandicastelli. Mi limiterò a parlare di una famiglia che, pur avendo il proprio epicentroal di fuori dell’area dove gli Aldobrandeschi avevano maggiore presenza, ebbe peròcon la casata rapporti di un certo rilievo.Per trattare degli Ardengheschi occorre brevemente inquadrare la loro azionenell’area senese. Siena, come è noto, nel periodo della massima estensione geograficadel suo Comune, raggiunta nel XV secolo, finì per assoggettare in vario modo _riduzione a contado, patti con i “signori naturali” _ la gran parte della Maremma edell’Amiata, già egemonizzate dagli Aldobrandeschi. Questa espansione in una terrapriva di grandi centri cittadini si caratterizzò con una alternanza di contrasti militarie di accordi con gli Aldobrandeschi e con stirpi signorili ad essi collegate, ma noncoinvolse direttamente gli Ardengheschi, salvo in un episodio del 1179, cui

Un’al tra grande famigl ia del senese: g l i Ardengheschi

Roberto RocchigianiAccademia degli Intronati di Siena

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accenneremo in appresso. Ma torniamo in breve alle vicende senesi.Nel comitato di Siena, che ricalcava nei suoi confini l’antico gastaldato longobardo,molto più vasto della diocesi, si ha memoria, per il IX secolo, solo di due conti,certamente non legati da parentela, a conferma della non ancora affermata ereditarietàdella carica: Adelrat e Winigis. Più incerta è la successione a Winigis del figlio Berardo:non sappiamo peraltro se l’attributo comitale da lui esibito si riferisse a unapreposizione al comitato senese1.Quello che è certo è la piena evoluzione signorile della famiglia dei discendenti delconte Winigis, che perse l’attributo comitale e si ritagliò una propria area di influenzasul margine nord-orientale del comitato senese _ dove evidentemente si concentravanoi suoi interessi fondiari _ venendo in piena luce a partire dagli inizi dell’XI secolo, conla rifondazione del monastero di famiglia, già istituito come femminile nell’867 eora fatto rivivere come monastero maschile, destinato, con la sua riccadocumentazione, a farci conoscere anche le vicende della famiglia fondatrice, cheandava assumendo il predicato di Berardenghi2.Alla fine del IX secolo, il tendenziale declino delle famiglie comitali di origine franca,evidenziato dalla moderna storiografia (Fumagalli, Wickham) trova così, nel casosenese, insieme una conferma e una smentita. I discendenti di Winigis persero sì iltitolo comitale, ma si affermarono come importante stirpe signorile in una ampiasezione del comitato senese.Per ritrovare traccia di un conte che porti l’attributo “senese” occorre attendere unsecolo: cosa era avvenuto nel frattempo dell’istituto comitale? I vecchi conti-governatori carolingi _ legati spesso da un rapporto di fedeltà vassallatica con ilsovrano, di stampo ancora prefeudale _ furono sostituiti, a opera di re Ugo e poi degliOttoni, da personaggi appartenenti per lo più a famiglie di legge longobarda cheavevano acquisito veste “signorile”, basando il loro potere sul possesso di vasti, sepure incoerenti, appezzamenti di terreni, frammenti di curtes, spesso incastellati. Èquesta l’opinione dominante della più aggiornata storiografia, che ammette comealternativa minoritaria la presenza di famiglie oltramontane, per lo più attratte alseguito di re Ugo. Le vicende del potere pubblico nel comitato senese, dopo lapreminenza dei primi esponenti di quella che sarà poi la famiglia Berardenga, sonodel tutto oscure, per mancanza di documentazione in proposito. È pertanto possibilearguire solo indirettamente l’evoluzione dalla struttura relativamente controllatadall’alto, tipica degli inizi dell’Impero carolingio _ che in Italia ebbe una sorta diprolungamento a seguito dell’attiva presenza di Lodovico II _ a quella disgregata,basata su ordinamenti signorili scarsamente soggetti al lontano potere regio.A differenza che per i Berardenghi, la documentazione non consente di ricollegarela famiglia ardenghesca ai tempi dell’Impero carolingio. Per i Berardenghi – dopouna secolare parentesi – la documentazione inizia con continuità alle soglie del secoloXI: per la vecchia famiglia comitale senese, la perdita del titolo è l’esatta spia di unaprecoce evoluzione che – appunto nell’arco di un secolo – ha trasformato i discendenti

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dei conti-governatori carolingi in signori di uomini, terre e castelli in un’areadeterminata. Per gli Ardengheschi tutto è certamente iniziato più tardi. Non sappiamoquale fosse la condizione della famiglia nel IX secolo e nella prima metà del X: laprima documentazione della presenza di componenti questo lignaggio – fregiatidel titolo comitale – è ancora degli inizi del secolo XI (o al più della fine del X), coeva,quindi, alla rifondazione del monastero di famiglia dei Berardenghi: e ciò vale amettere in chiaro risalto le profonde differenze di status giuridico che in quegli anniseparavano le due stirpi.Secondo l’ultima ricostruzione del Cammarosano3, il capostipite della famigliaArdenghesca avrebbe avuto per antenato un personaggio i cui discendenti avrebberodato origine a 3 stirpi che avrebbero dato alternativamente conti a Siena. Il primopersonaggio con l’appellativo di conte senese sarebbe stato, nel 983, Ranieri che puòconsiderarsi capostipite diretto di quelli che si diranno conti Guiglieschi (da Willa,una donna appartenente alla famiglia Carolingia, che entrò _ evidentemente congrande prestigio – per via matrimoniale tra i discendenti di Ranieri). Un ramocollaterale a quello dei Guiglieschi è appunto quello degli ardengheschi.Per alcuni particolari vicende della famiglia ardenghesca nei secoli XI-XII rinvio aquanto da me esposto anni addietro4. In questa sede mi limito ad accennare agliaspetti connessi con la natura dei poteri che i membri della famiglia andaronoesercitando sul territorio e ai rapporti con altri potentati dell’area toscana centro-meridionale. Il primo conte certamente appartenente alla famiglia ardenghesca,Ardingo, documentato per gli anni 1007-1037 e qualificato come “comes senensis”,era certo titolare della carica pubblica sul comitato senese.Resta invero da considerare la sia pur subordinata ipotesi del Tabacco, secondo laquale Ardingo avrebbe potuto portare il titolo solo in quanto appartenente a famigliaun cui antenato sarebbe stato titolare del comitato senese5: per le considerazionisopra esposte, questo è certo vero per i suoi discendenti, mentre la presenza a placitimarchionali e imperiali di Ardingo col predicato di conte “senensis” mi fa propendereper una sua effettiva titolarità della carica pubblica.Esaminiamo ora partitamente l’area nella quale la “vera” famiglia ardenghesca esercitòi suoi poteri signorili. Pur dovendosi sempre avere ben presente l’impossibilità dipoter delineare gli esatti confini di un feudo o di una signoria per il massicciointersecarsi dei diritti, possiamo tentare una ricostruzione sia pure approssimativadell’ambito della signoria Ardenghesca nei secoli XII-XIII, attraverso l’esame deivari atti di progressiva sottomissione a Siena6. Per l’epoca precedente, fin quiconsiderata, si può dedurre una assoluta impossibilità a una precisazione territoriale.I beni dei tre rami della ricostruzione del Cammarosano sono sparsi in tutti i puntidel comitato di Siena, con frequenti puntate ad ovest in quello di Volterra, a sud inquello di Roselle e a sud-est in quello di Chiusi. Nessuna “concentrazione” sembradelinearsi per nessuno dei tre rami. È solo a partire dagli inizi del XII secolo che unsimile processo si va manifestando con chiarezza, anche se mi sembra che una attenta

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lettura dei documenti possa fare anticipare, per il terzo ramo, alla seconda metàdell’XI secolo l’inizio di uno spiccato addensamento.Infatti ai primi del XII secolo (1109) troviamo il conte Bernardo di Bernardo,certamente da inserire nella discendenza di Ardingo, che agisce da tempo in modochiaro nell’area di Civitella, investendo di questo castello e di altri beni l’abate deiSS. Salvatore e Lorenzo: e il fu conte Ranieri della fu Gualdrada, che è detto averecompiuto in passato un analogo atto, doveva essere certo attivo da tempo, quindiben dentro l’XI secolo7. Di più non è possibile affermare: però ritengo che se lafondazione dell’Abbazia dei SS. Salvatore e Lorenzo risalisse al 1070 circa, comeammette il Cammarosano8, la fondazione e la dotazione di beni dovrebbero essereriferite a qualcuno di questi personaggi, dunque già chiaramente “Ardengheschi”per localizzazione dei propri interessi territoriali.Per i decenni successivi, avanti cioè che i rapporti con il Comune senese assumesseroun rilievo preminente per la storia del territorio e della stirpe signorile, si può notarecome la documentazione rimasta sulla famiglia ci indichi una varia attività nell’areaormai chiaramente determinata (l’Ardenghesca appunto) in presenza di un incipienteorientamento a ulteriori, più minute ripartizioni.Dobbiamo comunque confermare una cesura cronologica, da porsi alla metà del XIIsecolo, che permetta di distinguere le vicende precedenti l’intervento diretto delComune di Siena da quelle successive che, introducendo un nuovo, decisivo soggetto,devono essere esaminate, almeno in parte, con differente ottica.Ma quali erano gli effettivi poteri dei conti negli ambiti territoriali nei quali li vediamopresenti? Abbiamo ipotizzato che la famiglia dei “conti di Siena” traesse origine daun ceppo longobardo prescelto all’epoca degli Ottoni (961-1001) a ricoprire la caricacomitale senese. Possiamo ipotizzare _ ma si tratta pur sempre di ipotesi _ che ilpersonaggio prescelto _ nel caso Ranieri, conte nel 983 _ avesse già interessipatrimoniali nell’area senese. Di quale natura?Anche se manchiamo di una documentazione specifica in proposito, possiamoipotizzare che la famiglia fosse titolare di possessi terrieri organizzati in curtes e, comeconseguenza pressoché inevitabile, esercitasse da tempo su queste terre _ e sugliuomini che le coltivavano _ i poteri propri della signoria fondiaria che si andavanoormai evolvendo in quelli più ampi della signoria territoriale, estesi anche sui minoripossessori delle terre vicine e incentrati sull’organizzazione in castelli: si evidenziavacosì, con il tendenziale superamento della struttura agraria della curtis, latrasformazione dei titolari da grandi possessori terrieri in signori. La famiglia si andavacioè aristocratizzando: ed è a questo punto che si aggiunse al potere di fatto quellodi diritto, con l’attribuzione della carica pubblica di conte, che sanzionava la definitivapromozione sociale della famiglia9.È proprio la rilevanza assunta dai castelli che determinerà il progressivo concentrarsidel potere della famiglia ardenghesca in aree ben definite, indipendentemente dallemutevoli vicende relative all’effettiva titolarità della carica comitale di qualche

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esponente della famiglia stessa. La famiglia signorile ardenghesca, titolare del possessodi numerosi castelli e delle terre dei relativi distretti10, non risultava inserita nel quadrofeudale. A partire dal XII secolo, quando la documentazione, ancora scarsa, si fatuttavia meno episodica, non troviamo esplicitamente gli Ardengheschi né vassallidi altri potentati, né a loro volta seniores di minori milites. Una significativa eccezione,di cui diremo in appresso, riguardava i rapporti con gli Aldobrandeschi: ma a metàdel secolo XII occorre esaminare più da vicino la reale natura che l’istituto feudaleaveva in terra di Toscana.Come ho accennato in un breve saggio11, nel Senese e nella Maremma notiamo unuso assai contenuto della tipica terminologia di cui troviamo larghissima traccia inLombardia (vassalli, valvassori, capitani, ecc.) specie nei secoli dal X al XII: validoindizio per ritenere che nella nostra regione non si ebbe la diffusione della feudalità,intesa nel senso di serie di rapporti di un senior concedente benefici contro laprestazione di servigi, caratteristica dell’evoluzione feudale dell’area lombarda,regione a precoce cultura urbana, dove ancora nell’alto Medioevo il centro deirapporti e della vita sociale era appunto nelle città.In Toscana, e specie nella sua sezione meridionale, anche la scarsa importanza dellecittà contribuì in questi secoli a una maggiore semplicità di rapporti, con esclusionedelle complesse strutture lombarde.Particolarmente in Toscana l’assenza per tutto il Medioevo post-ottoniano di uneffettivo e continuo potere regio, ha impedito, o comunque notevolmente rarefatto,la creazione di una nuova nobiltà di stampo “feudale”, come avveniva in larga misuraspecie nelle monarchie dell’Europa occidentale e settentrionale e anche in quellanapoletana e, fino a una certa epoca, in Lombardia.In Toscana ancora in piena età comunale, quando ormai un nuovo patriziato cittadinosi era andato costituendo, si distinguevano nettamente le famiglie dei grandi dicontado, discendenti dai vecchi casati di origine soprattutto longobarda e franca che,con l’acquisizione di allodi immuni (o di benefici usurpati, anch’essi immuni) avevanopotuto costituire più o meno estese aree signorili che perdureranno spesso fino alXIV secolo e oltre. L’istituto del feudo quale ius in re aliena, tipico dell’evoluzionegiuridica lombarda12 non figura nei trattati tra casato ardenghesco e Comune di Siena.Con tutta evidenza in Toscana (e in particolare nella sezione centro-meridionale) nonera attecchito il vero legame feudale di tipo lombardo per regolare i rapporti tranascenti Comuni e potentati di contado. La “nobiltà” toscana (e i veri e propriArdengheschi ne erano classici rappresentanti), anche dopo le più o meno fugacicomparse alla testa dei comitati, aveva – e accentuava – una tipica presenza extra-cittadina, non aveva mai avuto legami con i vescovi, aveva interessi e mentalità“signorili” e “rurali”. La città aveva avuto, sino a questi anni, uno scarso dinamismo:non si erano instaurati precoci rapporti tra curia vescovile e signori di contado13, dimodo che, quando sull’onda dell’espansione urbana che si propagò, alla metà delXII secolo, anche alla parte interna della Toscana, la città iniziò la sua decisa

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penetrazione nel proprio contado, questi rapporti furono più difficili: il rapportofeudale lombardo vi si manifestò in minor misura che nelle zone di più precocicontatti, si profilò subito una più marcata antitesi e una tendenza da parte delComune, almeno con i signori di contado più caratterizzati, a imporre vincoli dipiù chiara subordinazione politica.Il tipico rapporto feudale, quindi, elaborato in precisi canoni giuridici quale apparenei “Libri feudorum” non fu adottato – ora e poi – nei rapporti che si andavanoinstaurando tra città e signori di contado nell’area di nostro interesse. Ma in questirapporti, solennemente stilati dai notai che riportavano il “verbale” di altrettantosolenni assemblee, si respira pur sempre un’atmosfera feudale, un feudalesimo cheevidentemente permeava il mondo giuridico-sociale che esprimeva quelle relazioni.A ben guardare, la classica terminologia feudale non compare: non si parla divassallaggio e vassalli, seniores e capitanei e tanto meno di feudo. Rapporti di questanatura correvano certo – e ne avremo un tipico esempio proprio in una pattuizionetra conti Ardengheschi e Comune di Siena – ma solo tra personaggi del mondo rurale.Un tentativo di rivitalizzare le ormai inconsistenti strutture istituzionali del RegnumItaliae su basi feudali fu, come è noto, compiuto dall’imperatore Federico I, manon sappiamo se e come questa volontà imperiale si attuasse nei rapporti con lafamiglia Ardenghesca.Possiamo fare qualche tentativo esaminando i complessi atti di alleanza _sottomissione stipulati tra Ardengheschi e Comune di Siena tra XII e XIII secolo,pochi decenni dopo gli interventi “istituzionali” italiani di Federico I14.Nei “patti” scambiati tra conti Ardengheschi e Comune di Siena in data 6 ottobre1179, le due parti si giurarono reciprocamente amicizia e aiuto su di un piano formaledi parità15. In particolare l’aiuto “contra omnes homines” che le parti si promettono,soffre numerose eccezioni. Così gli Ardengheschi non “aiuteranno” i senesi control’Imperatore, l’arcivescovo Cristiano di Magonza, i Pannocchieschi, Ranieri diSticciano, i Burianesi, l’abate di S. Antimo, Ranieri Beringeri, i Tignosi, i figli diMelluzzo, Ugo di Valcortese (un Berardengo). Seguono poi esclusioni limitate a singolirami della casata, esclusioni comprendenti, tra gli altri, il vescovo di Volterra. Tuttiquesti personaggi avevano evidentemente rapporti con la casata ardenghesca, manon scorgiamo bene di quale natura (a parte l’ovvia dipendenza dall’Imperatore: mail titolo di dominus che l’accompagna appare un titolo di onore piuttosto che disuperiorità feudale). Tra i personaggi per i quali tutta la famiglia si impegnava anon aiutare i senesi in caso di loro ostilità, troviamo il conte Ildebrandino, “tamquamdominum”. Trattasi di Ildebrandino VII Novello conte palatino (1152-1179, qd.1193), padre di Ildebrandino VIII e nonno di Bonifacio, primo conte della linea diS. Fiora. Con tutta evidenza esisteva una subordinazione feudale, certo dovuta aqualche terra tenuta a tale titolo dagli Ardengheschi, non sappiamo se per averlaavuta in concessione dalla potente casata maremmana o per averla a questa sottomessaper ottenerne la protezione feudale.

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La subordinazione feudale degli Ardengheschi – o almeno di alcuni rami dellafamiglia – agli Aldobrandeschi, trova conferma in un diploma di Federico II. Gliimperatori erano, fin dal Barbarossa, sostenitori dell’organizzazione feudale dei lorodomini. Nel 1221, Federico II confermò a Ildebrandino IX i diritti feudali su moltivassalli, tra cui Bonifacio, conte di Civitella e la sua “domus”16.L’ambito territoriale della signoria Ardenghesca, suddivisa in numerosi rami, è beneevidenziata in due atti del giugno 120217. Nel primo un gruppo di personaggi (tra cui lo stesso abate dell’Abbazia di S. Lorenzo)eletti arbitri (con evidenza dal Comune di Siena), pronuncia un lodo per comporreuna pacificazione tra i conti Ardengheschi e il Comune senese. “Pro bono pacis etconcordie”, i conti dovranno versare ogni anno 26 denari per ogni massaritia deicastelli e ville su cui hanno giurisdizione. In effetti il censo deve essere corrispostoda chi detiene le singole massaritie; i conti svolgono il ruolo di esattori: come è notole casate signorili non avevano il “dominio utile” che su di una ben piccola partedei terreni che insistevano nell’ambito della loro signoria; per i rimanenti ne eranoappunto signori e come tali titolari di censi. Evidentemente il nuovo censo dovutoa Siena avrà “alleggerito” la quota di spettanza comitale. Esclusi dall’obbligo di pagareil censo a Siena, oltre agli ecclesiastici, erano i milites, i servi, e (con molte eccezioni)i titolari di minori funzioni, come i portonari.Per dare un’idea della consistenza demografica dei castelli e ville dell’Ardenghesca,indichiamo di seguito il numero di uomini (e talvolta anche donne, evidentementecapofamiglia) che giurarono il patto. Civitella (già Ardenghesca, che ha perincomprensibili ragioni mutato il predicativo in “Marittima”), 167; corte diSant’Anastasio, Terzinate e Litiano, 82; Fornoli, 75; San Lorenzo, 46; Monteverdi,10; Monte Codano, 6; Montagutolo, 91; Pari, 94; Casenovole, 24; Castiglione, 68;Tocchi, 27; Petriolo, 24; Montepescini, 52; Valerano, 28; Gonfienti, 42; Montecapraia,94; Abbazia San Lorenzo e Stigliano, 25. In totale 955 persone; è da osservare chegli uomini che non prestarono il giuramento di pagare i 26 denari furonorelativamente pochi, 52 in tutto. A differenza di altre realtà dell’area senese dove ladissidenza appare maggiore, è questo un segno della notevole autorità tuttora godutadalla casata signorile nella zona. Diverse migliaia di abitanti popolavano il territorio ardenghesco che a nord non sispingeva ormai oltre Rosia, Stigliano e Orgia, scendeva poi lungo le due rive dellaMerse a Montecapraia, Foiano (S. Lorenzo a Merse), Tocchi, Valerano, Montepescini,Gonfienti (località che, come indica il nome segnava la confluenza della Mersenell’Ombrone), oltrepassava a ovest la Farma, comprendendo Castiglione e Petriolo,e proseguiva a sud lungo la riva destra dell’Ombrone, con Pari, Montagutolo,Casenovole, Monte Codano (Monte Antico). Il limite della signoria Ardenghescaabbandonava poi la direttrice sud e seguendo l’Ombrone nella sua ansa piegava versoovest, comprendendo l’Abbazia dei SS. Salvatore e Lorenzo, Civitella e Monteverdi.Il confine volgeva poi a nord-ovest, includendo Litiano e Fornoli (località ad est di

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Roccastrada) e poi verso nord, Tersinate e Belagaio. Scavalcando i rilievi a nord dellaFarma, la linea di confine passava a est di Monticiano riguadagnando la piana di Rosia. Il territorio Ardenghesco aveva una figura piuttosto stretta, dal formato irregolare,lungo da nord a sud al massimo circa 35 km. e largo, tra ovest ed est, intorno agli 8-15 km. Era posto al limite occidentale del comitato-diocesi di Siena in zona oggi boscosae poco popolata e presentava frequenti sconfinamenti in area volterrana e grossetana.Ben più vasta era stata l’area sulla quale esponenti delle tre stirpi della ricostruzionedel Cammarosano avevano avuto interessi: ma ora può finalmente parlarsi a pienaragion di signoria territoriale con tendenza alla completezza dei poteri pubblicisticientro i suoi confini e ciò proprio quando questi poteri cominciarono a esserefortemente limitati dall’ingerenza senese.

Note:1 Cfr. per questa problematica la mia Nota sui conti a Siena fino alla prima metà dell’XI secolo, in “Studisenesi”, LXXXIX, 1977, pp. 430-433.2 Per queste vicende cfr. P. CAMMAROSANO, La famiglia dei Berardenghi, contributo alla storia dellasocietà senese nei secoli XI-XIII, Spoleto, 1974.3 P. CAMMAROSANO, Le famiglie comitali senesi, in “Formazione e struttura dei ceti dominanti nel MedioEvo: marchesi, conti e visconti nel Regno italico (s. IX-XII)”. Atti del II Convegno (Pisa, 3-4 dicembre1993). Nuovi studi storici n. 39, Roma, 1996, p. 287 ss..4 Dal conte Ardingo ai conti dell’Ardenghesca. Una famiglia e un territorio dell’area senese tra XI e XIIsecolo in “Bullettino senese di storia patria”, XC, 1983, pp. 7-49.5 G. TABACCO, Arezzo, Siena, Chiusi, nell’alto Medioevo, in “Atti del Congresso internazionale di studisull’alto Medioevo”, Lucca, 3-7 ottobre 1971, Spoleto, 1973, p. 176, nota 48.6 Cfr. P. ANGELUCCI, Gli Ardengheschi nella dinamica dei rapporti con il Comune di Siena, in “I cetidirigenti dell’età comunate nei secoli XII e XIII” Comitato di studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana,Atti del II Convegno, Firenze 14-15 dicembre 1979, Pisa, 1982, e ora della stessa Autrice, L’Ardenghescatra potere signorile e dominio senese (Secoli XI-XIV), Napoli, 2000.7 L’atto, molto importante per la nostra narrazione, conservato in copia del XIII secolo, si trova nel fondodi S. Maria degli Angeli del Diplomatico dell’A.S.S. (F. SCHNEIDER, Regestum senense, I, 713-1235,Roma, 1911, n. 150, p. 56). Cfr. P. ANGELUCCI, Gli Ardengheschi, cit., p. 121 s., che anticipa al 1108la datazione del documento (nota 8).8 La nobiltà del Senese dal secolo VIII agli inizi del secolo XII, in “Bullettino senese di storia patria”, LXXXVI,1979. Secondo W. KURZE, (Monasteri e nobiltà nella Tuscia altomedioevale, traduz. di L. Piu, in “Atti delV Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo”, Lucca, 3-7 ottobre 1971, Spoleto, 1973, p. 347 s.,nota 32) l’abbazia Ardenghesca risulterebbe tra quelle fondate tra il 978 e il 1010 (cfr. P.F. KEHR, ItaliaPontificia, sive Repertorium privilegiorum et letterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIIIItaliae ecclesiis, civitatibus singulisque personis concessorum, III, Berolini 1908, p. 2, nota 64). 9 Per queste tematiche, cfr. la bibliografia relativa ai vari capitoli di Castelli. Storia e archeologia del poterenella Toscana medioevale. Vol. I, a cura di R. FRANCOVICH e M. GINATEMPO, Firenze, 2000.10 Cfr. G. VISMARA, La disciplina giuridica del castello medioevale (secc. VI-XII), in “Studia et documentahistoriae et iuris, 38” (1972), pp. 1-122, ripubblicato in “Scritti di storia giuridica”, 4, Milano, 1988, pp. 1-133.11 Qualche osservazione sulla diversità tra il feudo della Toscana centro-meridionale e quello lombardo, in

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“Studi Senesi”, LXXXIX, 1977, pp. 155-165.12 Cfr. P. BRANCOLI BUSDRAGHI, La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale,Milano,1965, specie p. 127 s. 13 I rapporti instauratisi fin dalla seconda metà dell’XI secolo tra la Canonica di Siena e taluni rami diconti Ardengheschi non smentiscono queste affermazioni. Le relazioni tra Canonica e città erano moltomeno dirette di quelle tra vescovo e città e, comunque, vi furono solo con quei rami della famiglia cheavevano beni e residenza in più immediato contatto con la statica città precomunale.14 Sulle relazioni tra gli Ardengheschi e il Comune di Siena, cfr. il mio saggio “Dal conte Ardingo ai contidell’Ardenghesca”, cit., p. 32 s.15 Cfr. i due documenti in Caleffo vecchio del Comune di Siena, I, a cura di G. Cecchini, Siena, 1931, n.27, p. 39 s. e n. 28, p. 41 s.16 Cfr. S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi da “conti”a “principi territoriali” (secoli IX-XIII), Pisa, 1998, p. 414 s.17 Cfr. Caleffo vecchio, I, cit., n. 78, p. 110 s. e n. 79, p. 112 s.

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Santa Fiora costituisce un esempio di città fondata di particolare interesse,derivato dalla coincidenza tra il potere familiare degli Aldobrandeschi, il piùampio tessuto cittadino ed il nucleo religioso: coincidenza che conduce a scelte

originali sul piano urbanistico, coesistenti con soluzioni più diffuse soprattutto nelXIII e nel XIV secolo, che meritano un approfondimento, al quale la nuovadocumentazione emersa e trattata in questo convegno non può che portare nuovisignificativi elementi di conoscenza. Sono già note le linee fondamentali dell’insediamento e dello sviluppo tra IX e XIVsecolo della città, ad opera della grande famiglia degli Aldobrandeschi e di altri gruppiad essa collegati. Riassumo i termini della questione, rinviando a quanto finorapubblicato1. Nel nono secolo compare il toponimo di Santa Fiora, attestato indocumenti citati in diverse fonti, come la pergamena del 27 giugno 833 riportatada P. Presutti nel suo inventario del 1876 dei documenti dell’Archivio Sforza Cesarini,pergamena ora non più rintracciata, in cui viene stabilita una “enfiteusi pel monasterodel Monte Amiata nello stato di S. Fiora”, mentre un altro documento dell’890 – dicontroversa interpretazione – registra lo stesso toponimo (“terra Sancte Flore”) tra iconfini di alcuni possedimenti dell’abbazia di San Salvatore. La comparsa di questotoponimo coincide con la fase di affermazione della famiglia degli Aldobrandeschi,iniziata già dalla fine dell’ottavo secolo; ben collocata come chierici lucchesi dal primoquarto del IX secolo fino alle più alte cariche della gerarchia ecclesiastica lucchese,con Eriprando la famiglia si lega strettamente al potere imperiale, soprattutto diLudovico II, esercitando cariche pubbliche ed assumendo un ruolo di protagonistanell’ambito regionale; consolida il proprio patrimonio territoriale, indirizzandolo edestendendolo soprattutto verso Roselle e Sovana ed in generale nella Tusciameridionale. La scelta del luogo dell’attuale Santa Fiora non è casuale: dal momento che si vannodefinendo le principali risorse economiche della zona, connesse con lo sfruttamentodei minerali amiatini, sia dell’argento sia soprattutto del ferro, che, unito a quelloelbano, dà luogo alla produzione di strumenti da taglio con lame di adeguata durezza,di fondamentale importanza risulta avere a disposizione notevoli risorse idriche edil collegamento con punti di approvvigionamento e di commercio, elementi tutti

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La trasformazione urbanist ica di Santa Fiora

Carla BenocciResponsabile ville e parchi della Sovraintentenza del Comune di Roma

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presenti nel luogo dell’attuale città. Essi rispondono singolarmente ai canoni stabilitiin un trattato bizantino dell’età di Giustiniano – momento cronologico fondamentaleper la nascita dell’urbanistica altomedioevale – per una città strategicamente ideale:“chiunque intenda fondare una città deve per prima cosa esaminare il sito perverificare se è appropriato, in modo che le mura che saranno costruite saranno capacidi resistere ad un assedio. Subito dopo occorre esaminare l’acqua per appurare se èbuona da bere e se è bastante per la popolazione della città e anche per tutti coloroche potrebbero trovarvi rifugio in tempo di pericolo. Se la sorgente d’acqua è situatafuori dalle mura, la costruzione della città deve essere abbandonata, oppure si devetrovare il modo per consentire ai portatori d’acqua di uscire dalla città anche inpresenza dei nemici. Terzo, si deve scoprire se c’è a disposizione della pietra, giàtagliata o facilmente estraibile, in modo che non sia necessario trasportarla da unalunga distanza a grande rischio. Si deve anche scoprire se il legname deve essertrasportato da molto lontano o attraversando terreno difficile, così che sia pressochéimpossibile averlo a portata di mano per la costruzione. Quarto, si deve scoprire sela zona produce abbastanza cibo oppure può esservi trasportato da altre zone.Similmente, possono i cittadini trovarvi le altre fonti di sussistenza? Se a tutte queste cose si può rispondere affermativamente, si proceda con lacostruzione; ma se non è così, è meglio abbandonare il progetto… I luoghi adatti percostruire una città, specialmente se ciò deve verificarsi piuttosto vicino alla frontiera,sono quelli su terreno elevato (Fig. 1), con pendii scoscesi tutto intorno, in modo chel’accesso sia reso difficile. Sono anche adatti luoghi con larghi fiumi che vi scorronointorno, o che possono essere adattati a questo scopo, e che, a causa della naturadel terreno, non possono essere facilmente deviati”2. L’insediamento degliAldobrandeschi alle sorgenti del Fiora somma tutti i dati sinora messi in evidenza,

oltre alla particolare posizionegeografica e geomorfologica delsito, luogo strategico del versantemeridionale dell’Amiata, protettonaturalmente da alte ripe e dotatodi una straordinaria risorsa idrica. Il toponimo del nono secolo indicaquindi un primo insediamento,probabilmente a carattere difensivo,cui è unito anche un nucleo religioso,connesso con il culto delle sante Florae Lucilla (San Pier Damiani, in unracconto della traslazione dellereliquie delle sante scritto nel 1050,riferisce che il vescovo di ArezzoGiovanni aveva ottenuto nel 900 da

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Fig. 1. “Prospetto delle acque in controversia tra i signoriduca Sforza Cesarini e Filippo Luciani”, Veduta di SantaFiora, 1765, Roma, Archivio di Stato

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papa Benedetto III il permesso di poter trasferire i corpi delle martiri sul MonteAmiata, in una basilica a loro dedicata; il Pecci ed il Battisti datano all’860 la primaedificazione della pieve santafiorese, dedicata alle due sante); gli stessi Aldobrandeschiedificano nell’XI secolo nei pressi di Castel del Piano una chiesa dedicata a S. Fiora. Il nucleo difensivo e quello religioso dovevano essere stati costruiti rispettivamentein un primo insediamento nell’area del successivo castello, sulla parte sommitaledel ripiano collegato con la montagna (Fig. 2), e nell’area dell’attuale chiesa dedicataalle sante Flora e Lucilla, posta più in basso. Anche il castello era comunqueprobabilmente dotato di un altro nucleo religioso, dedicato a San Giovanni, secondoquanto ritengono il Pecci e il Battisti. Dalla metà dell’XI secolo il potere degli Aldobrandeschi va aumentando e la famigliaassume un ruolo di patronato del monastero di San Salvatore, limitativo dell’autoritàdei monaci e non sempre bene accolto; il 31 marzo 1084 i monaci scrivono infattiall’imperatore Enrico IV lamentando le prepotenze dei fratelli Ranieri II Malabrancae Ugo II Aldobrandeschi: Ranieri possiede Santa Fiora, arbitrariamente usurpata(“villam ex toto retinebat, que Sancta Flora dicitur, que amplius quam fere centum masasextenditur”). Il monastero costruisce il “castrum abbatiae”, documentato a partire dal1094 nell’area sudorientale del territorio abbaziale, favorito anche dagli Aldobrandeschi,che, sicuri del loro dominio, favoriscono l’incastellamento del territorio; nell’agosto

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Fig. 2. Veduta aerea dell’insediamento di Santa Fiora sulla parte sommitale dell’altura, Fotocielo, circa1950, collezione Lucio Sisi.

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del 1094 i nipoti di Ranieri e Willa, figli di Ugo I, donano al monastero la loro quotadi Castiglione d’Orcia, atto stipulato nella “fracta de Sancta Flora”. Il secolo successivo vede il consolidarsi del potere familiare degli Aldobrandeschi,che dividono le sfere d’influenza dei due rami familiari, uno orientato verso laLucchesia e Populonia e l’altro verso l’Amiata e la Maremma; il monastero di SanSalvatore individua una propria signoria territoriale autonoma più ristretta, confinantecon le aree di Santa Fiora e di Arcidosso. Santa Fiora assume quindi i connotati diuna capitale, espressione di un potere aristocratico, la cui configurazione urbanistica

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Fig. 3. Santa Fiora: il centro urbano con gli edifici anteriori al 1825, elaborazione di Paolo Maccari

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presenta non poche singolarità: in un documento del 1142, relativo a due donazioniall’eremo della SS.Trinità, esse vengono stipulate l’una “in via publica iuxta plebem,alia ante ecclesiam de castello S. Flore”. La “plebem Sanctae Florae” comparenell’elenco delle chiese battesimali riconosciute dal papa Celestino III al vescovo diChiusi nel 1191; negli elenchi delle decime del 1275-76 e del 1276-77 è ricordata la“plebs S. Flore de Sancta Flora”3; la sua ubicazione coincide con il luogo della pieveattuale, rinnovata nel XII secolo (rinnovamento cui appartengono la facciata attuale,la navata centrale, la scarsella e la base del campanile) e probabilmente connessaanche con altri culti presenti nello stesso territorio, sempre promossi e sostenuti dagliAldobrandeschi; ad esempio, nel 1146 le fonti ricordano la fondazione, ad opera diMartino vescovo di Chiusi, su commissione degli Aldobrandeschi, di una chiesadedicata a S. Michele, costruita ai piedi del Castello. La dicitura “via publica” non è casuale nei documenti medioevali di contenutotopografico ed urbanistico: “la qualifica di publica connota ogni tipo di via principale,in relazione con la sua comodità, la sua larghezza, la sua pavimentazione (via publica,aequalis, lithostratum)”4. Quindi dalla pieve parte una via principale, collegata conil nucleo castellare (Fig. 3), a sua volta dotato di un’altra strada, di pari valore,

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Fig. 4. Pianta di Castel del Piano, Archivio di Stato, Grosseto, Catasto Leopoldino, c. 1823

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assimilabile altresì all’attuale “platea”,che in questo periodo non vienedistinta da una via ampia. Quest’ultimaha un andamento ortogonale allaprima, seguendo le linee dell’altura, edall’innesto della prima con la secondasi stabilisce uno schema a T, variazionepiuttosto comune dello schema acroce, modello urbanistico innovativosperimentato nel mondo tedesco ediffuso in tutta l’Europa centrale e nelNord Italia. Il tracciato dell’attuale ViaCarolina coincide con questo primo asse,seppure rinnovato alla fine del Duecentoe probabilmente anche successivamente:esso può essere inteso, comunque, inconsiderazione della particolare posizionedella facciata della Pieve e del fronte dellastruttura castellare, come asse cerimonialecon fondale, non ancora strada rettilineaperfetta ma certamente tracciata per laveduta prevalente biunivoca del castellodalla pieve e viceversa. Non si osserva in questo tessuto ediliziola forma insediativa altomedioevale a

goccia o ellittica, presente ad esempio a Castel del Piano (Fig. 4), a Radicofani, a Proceno(Fig. 5) e ad Abbadia San Salvatore: solo intorno alla Pieve è da ritenersi sia statacostruita una cinta difensiva con due porte, inglobate in quelle duecentesche della città,formando un “borghicciolo”, così denominato ancora nel Catasto leopoldino: dovevatrattarsi, comunque, di una struttura posta soprattutto a difesa della chiesa piuttostoche un vero e proprio insediamento residenziale. L’assenza di questa forma circolare,ormai, secondo gli studi recenti di urbanistica medioevale, ispirata agli insediamentiislamici, diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo (con una struttura labirinticacaratterizzata dallo shari, strada di attraversamento che collega le porte principali,dal darb, via secondaria che serve le residenze e ne distribuisce il peso nei diversiquartieri, e l’azucak, il vicolo cieco che costituisce il percorso terminale verso la casa)5,rimanda al carattere aristocratico della fondazione della città e non comunale, laddovel’impianto curvilineo rivela viceversa “l’abbandono, da parte dell’autorità cittadina ostatuale, del controllo sulla rete viaria, che di fatto è affidato alla iniziativa stessa degliabitanti”6. Non solo: in questo caso, i due nuclei – laico e religioso – non vengono separatie contrapposti, come nei casi emblematici di Pontremoli e soprattutto di San Qurico

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Fig. 5. Pianta di Proceno, elaborazione di Paola Mancini.

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d’Orcia, dove tra le due parti dell’insediamento – quella pievana definita come Osennae quella imperiale coincidente con il cassero ed il borgo – viene eretto un muro di confine,ma vengono entrambi promossi o quantomeno direttamente controllati dall’unicaautorità aristocratica familiare, di stampo feudale o poi pre-signorile. Il potere degli Aldobrandeschi si estende nel XIII secolo ma iniziano le divisioni familiari,che si svilupperanno, con alterne vicende, per tutto il Duecento: come risulta da un lododel 1216, che segna una prima separazione tra i due rami degli Aldobrandeschi, quellodei conti di S. Fiora e quello dei conti di Sovana e Pitigliano, poi ricomposta, il “castriSancte Flore”, citato anche in un documento del 1204, costituisce il centro del potere“curie et districtus” del ramo appunto di S. Fiora. Il 7 ottobre 1259 viene composto unaltro tentativo di separazione dei due rami degli Aldobrandeschi, dei quali si vannodefinendo gli schieramenti politici: i conti di S. Fiora aderiscono al partito ghibellinosenese ed i conti di Sovana e Pitigliano a quello guelfo fiorentino e romano; la separazionediviene dichiarata ed effettiva nel 1274 tra i due cugini, ambedue denominatiIldebrandino; la contea Aldobrandesca viene divisa in due parti equivalenti, ciascunadelle quali assume metà degli oneri stabiliti nei patti del 1221 e del 1237 con Siena.Nel 1284 la parte santafiorese viene divisa in cinque piccoli domini, assegnati ai cinquefigli di Ildebrandino XI: Santa Fiora diviene di proprietà di Enrico II, insieme aRoccalbegna, Pietra d’Albegna ed il complesso della SS. Trinità di Montecalvo.Questa divisione viene confermata ed ulteriormente definita nell’istrumento del 2agosto 1297 di divisione della eredità tra i conti di S. Fiora figli di Ildibrandino e diGiovanna8.Questa serie di divisioni porta alla dissoluzione della contea Aldobrandesca, che, perquanto concerne la parte santafiorese, viene caratterizzata da un centralismo di potere,organizzato sul polo di S. Fiora, che si appoggia a Siena contro l’altro ramo e controle potenze confinanti. Questa impostazione porta gli Aldobrandeschi di Santa Fioraa sottoscrivere nel corso del Duecento diversi atti di concordia con Siena, semprepiù favorevoli a quest’ultima, ripresi poi nel Trecento, che assicurano ai conti un largomargine effettivo di autonomia, sempre ostacolato con alterni esiti da Siena, e percontro vincolano gli Aldobrandeschi a stringere legami matrimoniali con importantifamiglie senesi, come i Cacciaconti, i Salimbeni ed i Buonsignori, a possedere unpalazzo in città ed a osservare obblighi di “cittadinanza”. In sostanza, la politicasenese di estensione del proprio contado alla contea aldobrandesca non trovacompimento nel corso del Duecento, anche se obbliga gli Aldobrandeschi adosservare una qualche forma di dipendenza. Ancora maggiore è il fallimentodell’analoga politica perseguita da Orvieto, nonostante che ottenga vittorie militarisul ramo dei conti di S. Fiora, giungendo alla fine del Duecento al riconoscimentodi una sostanziale autonomia reciproca.Analoga pacificazione si raggiunge tra i due rami familiari nel corso dello stesso secolo,concludendosi con la pace del 6 agosto 1286 stretta tra i conti di S. Fiora e la celebreMargherita Aldobrandeschi.

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Queste vicende politiche efamiliari ottengono un risultatopreciso nell’ambito dellosviluppo urbanistico del centroabitato di Santa Fiora: citata neidocumenti anteriori al 1250una sola volta, tra il 1256 ed il1297 rinnova con maggioreforza il suo ruolo di capitale,come residenza di IldebrandinoXI e dei suoi figli, capostipitidel nuovo ramo comitaleautonomo.L’insediamento nobiliare ècostituito dal cassero, strutturacomplessa, di cui fa parte il“palatium” e diverse torri(secondo una tradizionesettecentesca, tramandata dalBattisti e da altri storicisuccessivi, erano presenticinque torri): un documentodel 19 giugno 1285 vienestipulato “in castro SancteFloris, in curia palactii cassarihuius castri”9, così come unaltro documento del settembre1289 (“in palatio cassari SancteFlore”)10: d’altra parte, anche Orbetello era dotato di un cassero con palazzo e“platea” e nella divisione della contea di Santa Fiora del 1284 molte località sonoricordate “cum cassero et castro, hominibus et districtu et iurisdictione”. Nella seconda metà del Duecento si riempiono le maglie urbanistiche del tessutopreesistente, in un generale rinnovamento che coinvolge anche la residenza signorile:nel 1292 viene infatti trasformato il palatium, ricordato come Palazzo Nuovo in undocumento del 15 agosto di quell’anno11, probabilmente adeguato alla nuovafunzione che è chiamato a svolgere a seguito della suddivisione delle proprietà edei rami familiari del 1284. Sull’area sommitale è anche collocata la chiesa di S.Leonardo. Il nuovo tessuto, regolare nella spina centrale, con tracciati collegati “abaionetta” all’asse preesistente tra la Pieve ed il palatium, viene dotato di assicurvilinei, vere e proprie strade per cavalieri (Fig. 6), probabilmente derivate con unprocesso di regolarizzazione da una maglia viaria preesistente: quello verso la cinta

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Fig. 6. Pianta di Santa Fiora, Grosseto, Archivio di Stato, CatastoLeopoldino, 1825.

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muraria orientale e quello ad esso quasi parallelo (la Via del Poggio del CatastoLeopoldino, l’attuale Via Sforza), quello che fiancheggia la parte nord-orientale dellemura (l’attuale Via delle Mura), mentre permangono anche tracciati preesistentipiù frazionati, come quello che segue il culmine delle Ripe a sud-ovest (l’attualeVia della Ripa). È probabile che venga anche rinnovata la “via publica” preesistentecon andamento nord-ovest/sud-est, congiungente la Pieve con il Palazzo, definita indocumenti più tardi Corso del Ricco (l’attuale Via Carolina), caratterizzata da unandamento spezzato in due tratti, di cui quello maggiore, rettilineo, piega nel trattofinale verso la pieve. Questo andamento rettilineo introduce una profondainnovazione nell’urbanistica cittadina e la allinea alle trasformazioni duecenteschedelle città italiane. Se infatti la grande strada curvilinea “corrisponde, nella suafunzione strategica, alla «strada dei cavalieri», in quanto ne favorisce l’azioneconsentendo la percorrenza ad alta velocità limitando al massimo l’esposizione, inlinea retta, ai colpi di arcieri e balestrieri”12, quando questi ultimi si avviano a divenirel’espressione forte di un nuovo potere, di stampo mercantile, viene adottata sempremaggiormente la strada rettilinea “che consente di colpire i cavalieri a distanza”, adopera dei pedoni armati prima di balestre e poi di armi da fuoco. Si può pensare, inquesta fase di passaggio, ad un uso “parziale dell’allineamento, limitato all’asse dellastrada, senza interferenza con i fronti delle case. Si avrebbe così un controllo precisodella direzione, dell’andamento complessivo e dell’ampiezza minima della viabilità,lasciando però ad una esecuzione tradizionale e strumentale la definizionedell’andamento e della larghezza stradale”13.L’altra grande innovazione duecentesca del tessuto cittadino sono le nuove muraperimetrali, che inglobano le mura circostanti la pieve. Le porte aperte in questaprima cinta muraria verranno in parte ridefinite nel corso del Trecento, a conclusionedello sviluppo dell’abitato verso le pendici occidentali con il nuovo terziere di Borgoe con la ricostruzione del Castello. Tuttavia, è plausibile ritenere che a conclusionedell’opera sistematica di definizione del tessuto cittadino e dell’anello difensivo sianostati fissati gli accessi più importanti, salvo quelli introdotti nella nuova cintatrecentesca. Il complesso fortificato è aperto da cinque porte: la prima coincidecon il passaggio dal palatium al pendio della montagna sul lato nord-occidentale,oltrepassando con un ponte levatoio il fossato (definita dal Battisti Porta del Palazzo),la seconda è posta all’estremità settentrionale (definita nei documenti trecenteschiPorta del Soccorso e dal Battisti Porta del Cassero), verso le sorgenti d’acqua a valledelle rupi, e la terza all’estremità occidentale, all’inizio dell’attuale Via della Ripa(denominata nei documenti trecenteschi e dal Battisti Porta Postierla); la quarta èidentificata dal Battisti, seguito da altre fonti settecentesche, con quella “nominatadi S. Giovanni perché da questa si andava alla Pieve. Ch’era fuori del paese, comevedremo: adesso è murata od è situata oltre il Molino”14: si tratta probabilmente diquella posta in prossimità del fianco orientale della Pieve. La quinta porta è posta inprossimità del fianco occidentale della pieve, con antiporta e manufatti difensivi sovrastanti,

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rimaneggiati successivamente. Le definizione delle cinque portecostituisce indubbiamente unelemento innovativo: come è statorecentemente dimostrato nell’esamedegli insediamenti dell’area seneselegati alla Via Francigena15, le murarinnovate nel corso del Duecentovengono caratterizzate costantementeda tre porte principali, in generalecollegate secondo uno schematriangolare (si vedano ad esempio SanQuirico d’Orcia e, nella formaperfetta, Radicofani (Fig. 7), dove larazionalizzazione del sistemadifensivo si basa sulla triangolazione,documentata nel perfetto triangoloequilatero collegante il centro dellarocca con le due principali torrirotonde a rinforzo degli angoli piùesposti delle mura), sviluppo delloschema precedente fondato su dueporte principali, legate alle duedirettrici verso i centri di potere dimaggiore rilievo, Siena, Firenze,Roma o altri centri ad essi legati, e

ad un tempo sviluppo dell’urbanistica cittadina, con un’attenzione alle vedute nonsolo verso o dai centri di potere esterni ma anche da vari terzieri cittadini. In questocaso, il triangolo viene sviluppato in un trapezio: sono evidenti i vincoli legati allepreesistenze ed alle particolarità del terreno, come le due porte preesistenti intornoalla Pieve ed il passaggio dal palatium al fianco della montagna tramite il pontelevatoio, ma non di meno la figura che ne deriva comporta una maggiore complessitàprogettuale, che desume capacità tecniche dalla pratica agrimensoria, vale a dire adun “arte di calcolare l’area delle figure piane [basata] essenzialmente sull’uso diuna suddivisione in triangoli (suggerita, ad esempio, in alcune figure di Villard deHonnecourt), applicata sia in campo territoriale che in campo urbano. Ma il triangoloè, a sua volta, una figura carica di implicazioni simboliche (come, del resto, la figuraquadrata), e, per questa via, la tecnica di misurazione viene a confluire, ancora unavolta, nella tecnica di progettazione”16. La forma trapezoidale delle mura costituiscecosì un anticipo di quella tensione verso un canone di bellezza basato sulla geometriae sulla rettilineità, che troverà sviluppo nelle innovazioni trecentesche.

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Fig. 7. Pianta di Radicofani, elaborazione di Paolo Maccari.

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In relazione alla nuova definizione degli assi viari centrali e del nuovo palazzo, assumeuna fisionomia compiuta anche la piazza su cui affaccia il prospetto del palazzoopposto alla montagna e da cui partono appunto gli assi principali del paese; la piazzasvolge così una funzione nuova, da bordo aperto della struttura fortificata verso iltessuto urbano a luogo su cui affaccia la dimora signorile, che troverà nei secolisuccessivi ulteriori sviluppi. Nonostante le rivalità con le città confinanti, si affermano anche nella città di SantaFiora i modelli urbanistici realizzati nel corso del Duecento a Siena e ad Abbadia S.Salvatore (Fig. 8); quest’ultima rappresenta quasi un modello ideale di città constrade curvilinee, tracciate in un tessuto molto ricco organizzato dalla fine del XIIsecolo tra il Castello e la pieve di S. Croce, posti su due estremità del ripiano17.I conti Aldobrandeschi completano a conclusione del Duecento la definizione dellaloro area di potere e della struttura abitativa del paese e, con una volontàespansionistica di notevole portata, pongono le premesse per un allargamento delloro possesso territoriale, a scapito di Siena, utilizzando l’ordine agostiniano perl’espansione di un nuovo polo urbano.Come documentano le pergamene della chiesa di S. Michele e le fonti settecentescheed ottocentesche, come il Brigidi, nel 1309 viene spostata per volere dei contiIldebrandino e Arrigo la chiesa di S. Barbara, dell’Ordine degli Agostiniani, daBagnolo nella chiesa di S. Michele, posta sul lato occidentale ai piedi del castellosantafiorese, al di fuori della mura, consacrata, come ricordano i documenti dellachiesa ed il Brigidi, il 17 settembre 1146 da Martino vescovo di Chiusi18.La chiesa primitiva, fondata come romitorio nel 1251 da Angelo, dell’Ordine di S.Agostino, con il consenso di Pietro vescovo di Chiusi, documentato in un diplomadel 2 agosto di quell’anno che accordava anche un’indulgenza per i benefattori,sorgeva nella località Bagnolo (“S. Barbara de fracta”); il conte Ildobrandino, figliodel conte Bonifazio, aveva concesso il sito e aveva lasciato alla chiesa il 22 agosto 1254il podere di S. Barbara; morto nello stesso anno, era stato seppellito nella chiesa stessa.La chiesa era stata consacrata il 25 giugno 1273 da Pietro vescovo di Chiusi e daDavid vescovo di Sovana. I figli del primo benefattore Ildobrandino, Enrico, Guglielmo, Bonifazio e Guido,avevano lasciato al convento nel 1291 e nel 1292 staia 12 di grano all’anno ed altridoni, tratti dai guadagni dei loro mulini di Castello. Nel 1291 il fabbro Matteo avevaofferto vari doni a S. Barbara e vi era stato sepolto: si trattava quindi di un nucleoreligioso strettamente connesso con le principali risorse della comunità di Santa Fiora.Dopo il trasferimento di S. Barbara, i frati agostiniani del convento di S. Michele diS. Fiora avevano posto nella loro chiesa un’iscrizione, riportata dal Brigidi ed ancoraesistente, che ricorda la sepoltura ed i benefici del conte Ildobrandino (“D.O.M.D.Ildinus Palatinus postquam ab anni MCCLIV non parva in heremum jam sanctaeBarberae beneficia, contulerit vita cum morte commutavit; ibidemq. terrena ipsius spoliaaddicavit”). Le ragioni di questo trasferimento sono state individuate dalle fonti

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più tarde nella insalubrità dellaprimitiva collocazione della chiesa,nel suo stato rovinoso e nellapericolosità della posizione; ma, purse si tratta di motivazioni plausibili,l’obiettivo principale dell’ampliamentodell’ordine agostiniano a Santa Fiora,commissionato dagli Aldobrandeschi,si inquadra nel ruolo svolto dagliordini mendicanti o altri ordini adessi avvicinabili a sostegno dellenuove municipalità, anche rette dapotenti oligarchie; la valorizzazionedi zone fino ad allora marginali, chevengono così inserite in un nuovocircuito produttivo, attribuisce lorouna funzione fondamentale dialleati della classe dominantenell’accumulo di ricchezza e potere,alleanza pienamente programmatae realizzata nella contea di SantaFiora. Non casuale sembra essere il fattoche a partire dal 1300 sia Siena, i cuimeccanismi di potere avevano avutoconsistenti trasformazioni, sia i contidi S. Fiora mettono in atto azioni diguerriglia (le “cavalcate”) per tentaredi estendere i loro possessi, azionisistematiche, di volta in volta respinte da entrambi i contendenti. Proprio all’inizio diqueste imprese, i conti di S. Fiora avviano un processo di alleanza con l’ordineagostiniano nel loro centro di potere, garantendosi un appoggio religioso e popolarei cui effetti risulteranno di grande rilievo a fine secolo. A riprova di un possesso stabilegià assunto dagli Aldobrandeschi del centro cittadino è il fatto che la nuova chiesanon viene collocata in un’area centrale di quest’ultimo ma al di fuori delle mura: aLucignano in Val di Chiana e soprattutto a S. Quirico d’Orcia (Fig. 9), invece, lachiesa francescana è collocata in una posizione baricentrica rispetto ai due circuiticontrapposti, quello del potere laico e quello religioso, corrispondendo perfettamenteal baricentro del triangolo formato dalle tre porte principali19.L’espansione avviata nella trasformazione del tessuto urbanistico del secoloprecedente acquista caratteri di innovazione e sviluppo: attorno al rinnovato

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Fig. 8. Pianta di Abbadia S. Salvatore, elaborazione di PaolaMancini.

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complesso religioso agostiniano viene edificato un nuovo terziere (Fig. 10), definitoBorgo, circondato da mura e dotato di una Via Lunga centrale, fiancheggiata daassi minori più irregolari; la strada centrale presenta la stessa direzione del confinesud-occidentale della cinta muraria precedente ma con un andamento rettilineo, inlinea con il mutamento del gusto riscontrabile nelle fonti italiane a partire dalla finedel Duecento, secondo il quale le strade curve “vengono definite brutte, quelle drittebelle”20. Questo nuovo tracciato sviluppa la trasformazione della antica stradacongiungente la Pieve con il castello ed afferma un modo nuovo di progettare: “lastrada rettilinea è [infatti] una strada che richiede di essere accuratamente progettata

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Fig. 9. Pianta di S. Quirico d’Orcia, elaborazione di Paolo Maccari.

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Fig. 10. Pianta di Santa Fiora, elaborazione di Paolo Maccari.

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e realizzata. Essa viene delimitata con picchetti e corde ed eseguita a sezione costante,sia che si tratti di un impianto su terreno non urbanizzato, sia che si tratti di unosventramento”21. Non solo: in questo modo si può agire direttamente “sul confinetra pubblico e privato, cioè sulle pareti stradali, intervenendo sia in fase progettuale(fissando una larghezza costante della sede viaria e imponendo che la via sia definitarecta linea) che in fase di rettifica, ampliamento, regolarizzazione”22. I ceti meno abbienti o di nuova immissione si insediano nel terziere di Borgo, conun’attenzione volta più al sito che ai caratteri architettonici qualificati delle abitazioni.Come risulta dai documenti dell’Archivio di Stato di Siena, il convento di S. Agostino(o di S. Michele Arcangelo in Borgo) acquista e vende diverse case in Borgo nel corsodel Trecento (nel 1354, 1359, 1389), tra cui “un casalino con palchi” nel 1394 e diverseabitazioni in prossimità del “forno vecchio” e del “forno nuovo”, nello stesso terziere(nel 1374 e 1389), senza particolari elementi architettonici, un numero minore dicase di pari valore nel terziere di Castello (nel 1327 “in contrada detta il Corso”,nel 1374 “in contrada detta il Poggio” e nel 1362 “in contrada detta la Porta dellaPostierla”) e diverse case “in contrada detta la Piscina” o Peschiera (1318, 1361,1376)23. In prossimità dell’inizio della Via Lunga verso il confine orientale viene aperta unaporta, definita dal Battisti Porta Gobbacci, poi inglobata nel convento secentescodelle Cappuccine; sull’estremità occidentale del nuovo terziere viene costruita un’altraporta, definita dal Battisti Porta S. Michele dal titolo più antico della vicina chiesa,aperta sull’area della Peschiera, sottostante le Ripe. L’assialità tra la prima porta ela Via Lunga introduce un nuovo elemento urbanistico: quello della strada confondale, nel quale si assume come elemento qualificante il fondale stesso la portapresumibilmente con torre, con un evidente significato di controllo strategico,analogamente a quanto avviene nella nuova progettazione urbanistica di Firenze.Ancora una volta, il modello di questa espansione ed il ruolo svolto dall’ordineagostiniano rimanda alle espansioni urbanistiche dei comuni dell’Italia Centrale, main particolare è la città di Siena (con altri esempi toscani come Cortona) a costituirel’esempio più vicino cronologicamente e territorialmente, oggetto di emulazione oltreche di rivalità per i conti Aldobrandeschi.Anche il tessuto cittadino già formato presenta notevoli variazioni rispetto allasituazione duecentesca; il terziere di Castello viene infatti configurandosi come sededi “palatia” o residenze dei vari membri della casata Aldobrandesca, che modificanoparzialmente il tessuto qualificandolo come costituito da isolati e non più solo dastrade o piazze. In quel terziere vengono ricordati infatti il palazzo del conte Enrico,citato per la prima volta nel 133124, quello del conte Stefano, ricordato nel 1366 come“domus et sala domus”25, e quello del conte Senese, menzionato dal 136126. Unatraccia di almeno uno di questi insediamenti di rilievo può ritrovarsi nel complessodi maglia irregolare e diversa rispetto al tessuto centrale posto ad occidente all’iniziodella Via Carolina, verso Via della Ripa.

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Si estende l’abitato anche ai margini del paese, come attestano diverse case delconvento di S. Agostino poste “in contrada detta S. Biagio”, probabilmente inprossimità della chiesa dedicata a quel santo inglobata successivamente nel cimitero:si tratta di documenti del 1303 e del 139027. Non mancano anche legati per arredipregiati, come la statua di S. Caterina nello stesso convento, ricordata nel 1348. Il “Palatium Comitorum” e la “Domus Curiae”, probabilmente due unità dello stessoinsediamento posto sull’area sommitale, affacciato sulla piazza principale, svolgonouna funzione pubblica, propria dell’amministrazione comitale e di gestione dell’areadel distretto dipendente dal castello. Santa Fiora assume una configurazioneplanimetrica, sotto il dominio aldobrandesco, di cui è motivo di stimolo e disuggestivo approfondimento studiare anche altre valenze: come nel caso di Staggia(Fig. 11), dove la riedificazione della cinta muraria fortificata, attuata sotto il dominiodi Firenze, conferisce alla città anche una forma simbolica, legata al leone accovacciatoemblema di Firenze, con la cinta circostante il cassero intesa come testa e quellaintorno all’abitato delineata come corpo, definito secondo un preciso orientamentoche afferma il potere politico e strategico della città28, sarebbe non sorprendenteindividuare una forma simbolica attribuita dagli Aldobrandeschi anche alla lorocapitale, tenendo presente quanto sia comune, nell’analisi delle piante di città due-trecentesche rilevare la forma del leone (come nel caso di Roma), o dell’aquilaimperiale, come nella cinta muraria di Poggio Imperiale o della croce, come per lacroce guelfa di Fiorenzuola, fondata da Firenze: solo un’analisi più approfondita

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Fig. 11. Pianta di Staggia, elaborazione di Paolo Maccari.

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dell’araldica aldobrandesca e degli emblemi individuati nei centri da loro fondati –oltre che sulla monetazione, esaminata in parte dal Collavini29, e sui sigilli – puòaiutare nella comprensione della pianta cittadina. La struttura familiare, sociale e politica sempre più ricca e complessa, espressa inun tessuto urbano policentrico, mantiene mire espansionistiche a danno di Siena,anche se quest’ultima città riesce ad impadronirsi temporaneamente dei possedimentialdobrandeschi ed a mettere a sacco anche il paese, come avviene ad esempio il 30aprile del 1330. Gli Aldobrandeschi stringono diverse alleanze con la città toscana,sempre più favorevoli a quest’ultima, rimaste però inattuate, come quella del 136830;tuttavia, l’inadeguatezza di alcuni membri della casata, come Ildebrandino e Guido,il favore per i progetti senesi del conte Guidarello, nonché una forte determinazionenell’ottenere il possesso di Santa Fiora da parte di Siena, sostenuta da forze militaried economiche consistenti, porta il 15 settembre 1381 alla conquista del centro dipotere aldobrandesco, Santa Fiora, riconosciuta, come affermano Agnolo di Guidoe Spinello de’ Tolomei Capitano di Montagna in una lettera del 16 settembre direttaalla Repubblica di Siena, “con riverentia… la migliore terra de questo paese etpertanto provedete che non v’escha de le mani che se n’escisse anco disertarebbe elvostro contado come fue facto altra volta”31.Con un procedimento tipico delle imprese signorili, la Repubblica senese decidel’abbattimento delle strutture simbolo del potere aldobrandesco: viene disposta ladistruzione della casa del conte Guidarello, del palazzo del conte Francesco, delpalazzo del conte Aldobrandino, del palazzo del conte Giovanni, “chon uno giardinoe uno chonfesso”, posto alla fine del Corso del Ricco; anche la chiesa di S. Leonardosubisce danni ed è oggetto di interventi dopo il ritorno del conte Guido di SeneseAldobrandeschi. Sulla piazza maggiore viene edificata una loggia per ospitare laguarnigione destinata a controllare le diverse operazioni di polizia e di demolizione.L’opera maggiore è comunque il rinnovamento del cassero, struttura destinata arappresentare il nuovo potere senese nella città e nel contado. Il direttore delleoperazioni e responsabile amministrativo è Biagio di Simone, “Operaio del Cassaro”,che invia una copiosa corrispondenza alla Repubblica senese, descrivendo le vicendecostruttive, assai complesse, e richiedendo continui finanziamenti. Vengono utilizzatemaestranze senesi e lombarde, dirette dal capomastro lombardo “Aghustino”, cuisi deve in sostanza la costruzione dell’opera e che viene pagato in modo rilevante. LaRepubblica si era quindi affidata ad un personaggio esterno, proveniente da unaregione celebre per le maestranze edili e per le notevoli capacità nell’arte del costruire,al fine di assicurare il migliore esito al nuovo simbolo di potere sulla città. I lavori procedono con grande alacrità; in una lettera di Biagio di Simone del 18maggio 1382 si dice che “el chonfesso è fatto intorno al palazzo e [sono] volti gliarchi ala prima porta del Chassaro e la torre che viene in su la piazza tosto saràcompita. La torre ch’è a capo ala porta del Soccorso è aguegliata col palazzo, tostosi mura il palazzo, ci è alzallo dietro se avaremo denari”32.

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È stata formata una nuova cinta muraria intorno al palazzo, con la torre sulla piazzaancora esistente ed un’altra posta sull’estremità settentrionale vicino alla portapreesistente, che risulta denominata in questo documento “del Soccorso”; traccedi questa seconda torre sono venute in luce in recenti scavi. Il palazzo doveva essererialzato e dotato di una porta maestra, con antiporta, aperta su di un ponte levatoio,posto sul fossato sul confine nord-occidentale dell’abitato. Le nuove fondazionipoggiavano però su di un terreno non solido ed il 10 ottobre dello stesso anno eranosprofondati parte delle nuove mura perimetrali, il muro del fossato, il ponte levatoio,le nuove fondazioni del palazzo e l’arco dell’antiporta, a seguito delle forti pioggedel 29 settembre, come annota Biagio di Simone nelle lettere alla Repubblica (“nonso ch’io possa avere maggior dolore che ’l vostro lavorio, cioè del muro del fosso cheviene verso la terra a ppettorale ene chaduto e sprofondato co’ le fondamenta de’palazi de’ Conti che avavamo fatti disfare; e del terreno profondato inverso la piazzacioè rincontro alla porta maestra del chassaro più di sedici braccia per lunghezza eper larghezza dodici o più; e del muro cioè el chonfesso da trenta braccia co ‘l pontech’avavamo fatto per lo ponte levatoio e l’archo ch’avavamo fatto per farel’anziporto”33). Le strutture crollate vengono riedificate ma con grande sforzo, ancheper mancanza di soldi e per problemi legati ai materiali costruttivi; i nuclei principaliespressione della famiglia aldobrandesca, il palazzo e la piazza, assumono quindiun’immagine nuova, espressione della Repubblica senese.Nello stesso anno il Capitano di Montagna si sposta a Santa Fiora da Arcidosso perseguire le operazioni ma si va potenziando l’ostilità all’interno ed all’esterno dellacittà contro la dominazione senese. L’aumento dei flussi commerciali dalla Maremmaa Siena, sulla via doganale che passava da Santa Fiora, aveva favorito la conquistaed il primo anno di dominio; tuttavia, gli Aldobrandeschi in esilio ed il convento diS. Agostino si erano mossi con grande abilità, favorendo le razzie di bestiame e lealtre ruberie nel contado, mosse dai partigiani aldobrandeschi, non ostacolate nérisolte dalle guarnigioni senesi, e promuovendo una resistenza all’interno del centrocittadino, appoggiata da un ceto i cui affari investivano tutta la regione ed eraautonomamente dotato di risorse finanziarie. La stessa posizione del convento diAgostino e di Borgo, fuori delle mura di Castello, si prestava ad una grande libertàdi accesso e di frequentazione, come denuncia in una lettera inviata da Santa Fiorail 7 novembre 1382 il Vicario di Santa Fiora per conto del Comune di Siena, Pietrodi Ser Bindotto: “il luogo è in Borgo el quale è sciolto, ché possono entrare e escirecome è di loro piacere, e nel luogo none à serratura niuna ch’l priore possa guardare,che non ne stanno come è di loro volere”34. Biagio di Simone ordina il ripristino dellacinta difensiva con il rinnovamento della porta d’accesso al Borgo35, in modo dagarantire un controllo più efficace al nuovo governo. A partire dal 21 agosto 1382 compare nei documenti senesi un edificio civile destinatoalla municipalità36, che costituisce una trasformazione dell’immagine dell’abitato,con l’introduzione di un palazzo civico paragonabile a quelli di altri insediamenti

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senesi. Le nuove costruzioni o riedificazioni della Repubblica di Siena, però, nonintaccano la struttura urbanistica preesistente, che mantiene il suo centro nel nucleocastellare e nella piazza antistante, posti su un lato del tessuto cittadino e non inposizione centrale, come invece a Buonconvento, dove la torre del palazzo civicocostituisce il punto di irradiazione delle torri delle mura (Fig. 12) e il centrodell’abitato si trova ai piedi della torre civica, dove si incontrano le diagonali deltrapezio nel quale è iscritto il perimetro murario37. Si tratta, quindi, di un’operaparziale di omologazione della città operata dai senesi, che nel 1383 definisconoanche per la prima volta i confini tra la Comunità di Santa Fiora e quella di Arcidosso,entrambi ormai sotto il dominio di Siena. La Repubblica vuole così risolvere le antiche vertenze per assicurare la pace nelproprio territorio, ma questo intendimento contrasta con la crescente ascesa del conteGuido di Senese degli Aldobrandeschi38, destinatario proprio nel 1383 di un legatotestamentario di Coluzio di Castellazzara. Sostenuto dalla rivolta popolare, oltre chedall’appoggio del monastero agostiniano, quest’ultimo riconquista il potere e il centrocittadino di Santa Fiora nel marzo del 1385.Le innovazioni introdotte dai senesi non erano però passate invano: oltre alladefinizione dei confini verso Arcidosso, con la successione dei termini posti lungocorsi d’acqua e di elementi particolari nell’andamento del terreno, ancora oggiriscontrabili, vengono conservati nell’ultimo assetto anche il castello con la nuovacinta muraria, con torri e porta, a maggior gloria della casata. Tuttavia, il dominio di Siena sulla contea non era concluso ma solo trasformato inuna forma indiretta: il conte Guido di Senese Aldobrandeschi si sottomette allaRepubblica di Siena con capitolazioni del 25 giugno 1386, nelle quali vengonominutamente precisati i suoi obblighi economici e militari, a fronte di un sostegnomilitare senese in caso di bisogno, nonché l’obbligo di nominare come Podestà oVicario ogni sei mesi un cittadino senese, con compiti stabiliti negli statuti santafioresi,ricordati per la prima volta ma non ancora rintracciati. Il conte Guido mantiene incambio il possesso della contea, con i distretti di Santa Fiora, Castell’Azzara,Scansano, ed ottiene un appoggio consistente per riprendere i beni sottratti dagliOrsini, in tutta la valle mediana del Fiora con Selvena e Montebuono, e nella vallesuperiore dell’Albegna, sopra Saturnia, con Semproniano e Calligiano.Nel 1388 Guido si unisce in matrimonio con Elisabetta di Niccolò dei Salimbeni,importante famiglia senese, secondo una politica di reciproca alleanza con vincolimatrimoniali che avrà un significativo seguito. Nel 1431 il conte Guido riesce arecuperare la rocca di Selvena, con l’approvazione di Siena39; nel 1438, però muoreper la pestilenza diffusa in tutta la regione e nello stesso anno muore anche l’unicofiglio maschio, Federico. Iniziano quindi le pressioni della Repubblica per esercitareun controllo sulle tre sorelle, Cecilia, Giovanna e Gabriella, al fine di assicurare ilpieno possesso della Contea. Viene dunque redatto un atto il 16 ottobre 1438,secondo lo stile senese, in cui le Comunità di Santa Fiora, Scansano e Castellazzara

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si impegnano a fare in modo che le tre contesse non contraggano matrimoni senzal’approvazione della Repubblica, pena la consegna delle terre alla città di Siena. Letre donne, con l’aiuto del loro parente Pietro Paolo Monaldeschi, riescono però adinserire nei progetti matrimoniali Francesco Sforza, figlio del celebre condottieroMuzio Attendolo, che impone a Siena i matrimoni di due suoi fratelli, Bosio e Rinaldo,con Cecilia e Giovanna Aldobrandeschi, che avvengono nel 1439; solo Gabriella

Fig.12. Pianta di Buonconvento, elaborazione di Paolo Maccari.

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Aldobrandeschi, la minore delle sorelle, obbedisce ai patti del 1438, sposandoBartolomeo del conte senese Tommaso Pecci, dopo aver rinunciato, in cambio diuna cospicua dote, il 28 giugno 1451 alla sua quota di eredità paterna in favore dellasorella Giovanna e dei nipoti figli di Cecilia, Guido ed Anastasia.È a Guido Sforza, figlio di Cecilia Aldobrandeschi e di Bosio, che si deve l’ultimaaddizione urbanistica di Santa Fiora prima delle innovazioni ottocentesche enovecentesche: quella del terziere di Montecatino (Fig. 13), realizzata a partire dal1462, in relazione alla venuta nella città del pontefice Pio II. Il nuovo impianto,all’avanguardia rispetto alle progettazioni urbanistiche rinascimentali, è frutto dellanuova casata, espressione di un colto ed avveduto potere signorile: ma questa èun’altra storia.

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Fig. 13. Santa Fiora. Pianta del terziere di Montecatino, elaborazione di Paolo Maccari.

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Note:1 Per la storia dell’urbanistica della città cfr. C. BENOCCI, Atlante Storico delle città italiane. Toscana.7. Santa Fiora, Roma 1999.2 Cit. in E. GUIDONI, Storia dell’Urbanistica. Il Medioevo. Secoli VI-XII, Bari 1991, p. 332.3 Cfr. C. PREZZOLINI, La Pieve di Santa Fiora, in B. SANTI, C. PREZZOLINI, Le robbiane diRadicofani e Santa Fiora, Siena 1993, pp. 47-61.4 E. GUIDONI, 1991, p. 41.5 E. GUIDONI, 1991, p. 102 ; per la forma dell’impianto di Castel del Piano cfr. C. PREZZOLINI, Icentri storici del Monte Amiata, Arcidosso 1981, p. 46.6 E. GUIDONI, 1991, p. 35.8 Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASR), Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 837, n°34.9 Archivio di Stato di Orvieto, Instr. n. 870 ( cod. Savello I), cc. 174v-175v, 19 giugno 1285, reg. CDO,n. 536.10 N. BARBIERI, O. REDON, (a cura di), Testimonianze medioevali per la storia dei comuni del MonteAmiata, Roma 1989, n. 8, pp. 76-88, anno 1289, settembre 6-9.11 M. NUCIOTTI, La formazione del centro storico: indagini preliminari sull’edilizia a Santafiora nelMedioevo, “Tracce…Percorsi storici culturali e ambientali per Santa Fiora”, annuario 1997, SantaFiora 1997, p. 9.12 E. GUIDONI, Storia dell’Urbanistica. Il Duecento, Bari 1989, p. 197.13 E. GUIDONI, 1989, p. 210.14 Cfr. il testo del Battisti in L. NICCOLAI (a cura di), Paolo Agostino Battisti, Annali della terra diSanta Fiora, in “Amiata Storia e Territorio”, n. 2, luglio 1988, pp. 19-24; P. BARTOLACCI (a cura di),Paolo Agostino Battisti, Annali della terra di Santa Fiora, “Amiata Storia e Territorio”, n. 3, novembre1988, pp. 16-21.15 E. GUIDONI, P. MACCARI, Atlante storico delle città italiane. Toscana. 8. Siena e i centri senesi sullaVia Francigena, Roma 2000.16 E. GUIDONI, 1989, p. 210.17 P. MANCINI, Sette centri della valle del Paglia, in “Storia della città”, 17, Roma 1987, pp. 95-118.18 F. BRIGIDI, Descrizione della contea di Santa Fiora, c. 1868, ASR, Archivio Sforza Cesarini, II parte,serie VIII, b. 228; cfr. anche Archivio di Stato di Siena (d’ora in poi ASS), Patrimonio Resti Ecclesiastici,3541, S. Michele Arcangelo di Santa. Fiora. Cfr. anche S. SERAVALLE, M. NUCCIOTTI, Il conventoagostiniano di S.Michele in Borgo, “Tracce… Percorsi storici, culturali e ambientali per Santa Fiora”,annuario Consultacultura 1998, Santa Fiora 1998, pp. 19-32.19 E. GUIDONI, P. MACCARI, 2000, p. 15.20 E. GUIDONI, 1989, p. 198.21 E. GUIDONI, ibidem.22 E. GUIDONI, 1989, p. 210.23 ASS, Patrimonio Resti Ecclesiastici, 3541.24 ASS, Capitoli 2, Caleffo dell’Assunta, cc. 360v-361; per le vicende della conquista senese cfr. G.B.VICARELLI, Castell’Azzara e il suo territorio. Memorie storiche, vol. II, Siena 1991; M. NUCCIOTTI,Note sulla politica urbanistica del governo senese di Santa Fiora, “Tracce…”, 1998, pp. 19-32.25 ASS, Notarile Anticosimiano 156, cc. 39v-40.26 ASS, Capitoli 3, Caleffo Nero, c. 235rv. 27 ASS, Patrimonio Resti Ecclesiastici, 3541.28 P. MACCARI, 2000, p. 17; cfr. anche per le forme simboliche delle città medioevali E. GUIDONI,

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Arte e Urbanistica in Toscana 1000-1315, Roma 1970; E. GUIDONI, A. MARINO, Territorio e cittàdella Valdichiana, Roma 1972; E. GUIDONI ( a cura di), Città contado e feudi nell’urbanistica medioevale,Roma 1974; ID., Atlante Storico delle città italiane. Toscana 6, San Gimignano, Roma 1997; per la piantadi Roma cfr. E. GUIDONI, L’urbanistica di Roma tra miti e progetti, Roma-Bari 199029 S. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitaus”. Gli Aldobrandeschi da “conti” a “principiterritoriali” (secoli IX-XIII), Pisa 1998, pp. 506-508.30 ASR, Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 838, n.41.31 ASS, Concistoro, 1802, 81, n. 300.32 ASS, Concistoro, 1804, 60.33 ASS, Concistoro, 1807, 27a.34 ASS, Concistoro, 1807, 60.35 ASS, Concistoro, 1805, 92.36 ASS, Concistoro1806, 41, 21 agosto 1382.37 P. MACCARI, 2000, pp. 31-33.38 ASR, Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 839, n. 12; cfr. anche gli altri atti del conte Guido in ASS,Capitoli 2, Caleffo dell’Assunta, e Capitoli 3, Caleffo Nero, cc. 205-209.39 ASR, Archivio Sforza Cesarini, I parte, b. 841, n. 7.

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Santa Fiora: strutture material i di una capitalerurale nella Toscana meridionale del Medioevo

Michele Nucciotti, Guido VanniniUniversità di Firenze

1. Introduzione

Un progetto archeologico per l’Amiata medievale

1. Lo studio di un fenomeno storico di ampia portata _ ampia nel tempo, estesa nellospazio, articolata nelle forme _ e capace di esprimere concretamente caratteri di fondoed aspetti specifici e rappresentativi su larga scala di una società, per definirla,comprenderla e spiegarla, può essere affrontato in vario modo. Uno è certamentequello di mettersi sulla strada di un’analisi a tappeto di tale fenomeno perdocumentarne ed interpretarne i connotati fondamentali e le forme comuni, magariselezionando più o meno strettamente il proprio punto di osservazione (per tipologiadi fonti, approccio di metodo, gerarchia di obbiettivi sia materiali che concettuali,ambiti cronologici e altro); un altro può essere quello di considerare aree culturali‘campione’ rispetto ad una tematica storica generale ed analizzarne i caratteri originariattraverso la ricostruzione di una serie di concrete esperienze di fondazione,evoluzione, crisi e passaggio di civiltà. Un approccio archeologico, utilizzando risorsee metodologie disponibili e collaudate soprattutto nell’ambito della recentearcheologia storica, consente di delineare quadri interpretati su base territoriale dinotevole precisione e, di più, di produrre vere e proprie nuove basi documentarie,nuove fonti, utilizzabili pienamente in sede anche più strettamente storica.Naturalmente ciò a patto _ non solo di adottare impostazioni metodologicheaggiornate ed in grado di interloquire con la ricerca scientifica di settore nel suocomplesso _ ma di farlo avendo cura di cercare, in una storia pure territorialmenteradicata, echi ed aspetti concreti di fenomeni più ampi che, appunto nel tempo enello spazio (ed ancora, nella cultura), abbiano caratterizzato un’epoca ed una società. Nel nostro caso, lo studio delle vicende dell’Amiata e della Contea Aldobrandesca(di cui fa parte il presente contributo su Santa Fiora), attraverso specifiche chiavidi lettura archeologiche, rientra nell’indagine di un preciso fenomeno storico nellesue concrete strutture materiali di radicamento territoriale e di cui rappresenta unprecisa peculiarità (ad esempio per i suoi tenaci connotati conservativi): la società

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feudale ed il mondo rurale, il Contado, nella sua dialettica con i poteri centraliemergenti, le nuove realtà politiche _ le città mercantili, altrove le monarchie nazionali_ che si venivano affermando con crescente invadenza, come elementi d’originedell’Europa moderna1. Un progetto, questo amiatino, che si colloca quindi comeparte di un programma di analisi archeologico _ territoriali che l’Insegnamento diArcheologia Medievale dell’Università di Firenze sta da tempo conducendo sulleforme di insediamento di età feudale in aree campione diversamente connotate,toscane e mediterranee: Pratomagno2, Val di Nievole3, Valle del Golo (Corsica ‘pisano_ genovese’)4, Calabria tirrenica5, Transgiordania crociata6). Si tratta certo di situazioni politico _ istituzionali e anche di ambienti assai differenziatima tutti scelti, in alcuni casi concreti, a rappresentare la parabola di una societàfortemente omogenea al suo interno, nei suo valori culturali come nelle sue formemateriali, quale quella feudale (e in particolare di quella definita “mediterranea”7);una società letta attraverso le sue modalità di organizzazione territoriale _ dai caratteridel popolamento alle interrelazioni con lo stesso paesaggio ‘naturale’ _ fino al suodefinitivo collasso storico. Quanto alle opzioni di metodo, esse muovono dall’analisi di una scelta di obbiettiviselettivi e da un approccio _ che abbiamo preso a definire ‘archeologia leggera’8, unaprocedura di rilevamenti archeologici che integra a sistema le diverse archeologienon invasive (paesaggio, ambiente, elevati, archeoinformatica; saggi mirati) _ cheva nella direzione di consentire o almeno facilitare un uso direttamente storico delledocumentazioni e della stessa analisi archeologica delle ‘strutture’ del passato.Strumenti ne sono quindi la costituzione di una banca dati interattiva della basedocumentaria intesa ed organizzata come un unico complesso e con una possibilitàdi gestione di questa sia in direzione di un suo incremento (struttura aperta), sia inquella di un suo uso scientifico (interpretazione dei dati), sia in quella di diffusionea più livelli (fra uso civile e finalità economiche); ma anche per un aggiornamentodella documentazione e degli stessi indirizzi della ricerca in tempo reale e percontribuire ad aspetti peculiari come quelli della conservazione dei siti e delle areeindagate o della valorizzazione dei risultati conseguiti _ anche concretamente materiali:manufatti, strutture, assetti topografici _ dalla ricerca stessa.

2. Gli obbiettivi strategici del programma di ‘lettura’ archeologica sull’insediamentonell’Amiata medievale riguarderanno i seguenti punti:- ricostruzione, dal punto di vista delle modificazioni dell’ambiente, di origini,sviluppo, forme relativi alla formazione e caratterizzazione degli insediamentibassomedievali di tipo urbano (secoli XI-XIV);- analisi dei sistemi produttivi legati all’edilizia in trachite (produzione di calce,cava e lavorazione del materiale da costruzione, circolazione delle maestranze, ruolodella committenza);- messa a punto di una chiave d’interpretazione del rapporto tra gestione del potere,

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urbanistica, produzione edilizia medievale: interpretazione basata sulla costruzionedi una vera fonte storica materiale;- ‘produzione’ di atlanti di tipologie murarie come banche dati organizzatecriticamente in cui fare confluire le documentazioni registrate e strumenti di analisiarcheologica a base territoriale e/o strutturale valido per l’area culturale considerata,utilizzabile anche per indagini ulteriori e diversamente indirizzate.In sintesi si tratta di un sistema integrato di analisi territoriale, selezione tematizzatae gestione dei dati (GIS), non generalista ma strutturato per rispondere esattamentealle necessità scientifico _ documentarie della ricerca. Esso sarà cioè principalmenteindirizzato all’archiviazione e rappresentazione di dati relativi alle letturearcheologiche del patrimonio edilizio medievale amiatino; un’archeologia deglielevati, attualmente in fase di ulteriore elaborazione dopo la costituzione di una verae propria nuova fonte documentaria, intesa come lettura di insediamenti articolatio sistemi territoriali omogenei. Così, la produzione di atlanti tematici di tecnologiemurarie o edilizie, organizzati per cronotipologie appoggiate ad analisi stratigrafichecondotte a sistema entro ricognizioni archeologiche di superficie mirate, puòcostituire l’esito di una ricerca territoriale (lettura di singole emergenze architettonicheo di insediamenti) e nel contempo, uno strumento per documentare/interpretare fasiinsediative o culturali di un territorio, contribuendo a determinarne confini (sulterreno) o a valutarne, ad esempio, permeabilità o meno ad influenze, rapporti oscambi di cognizioni e modelli tecnologici o più generalmente culturali. In altritermini, una ricerca che, nel suo complesso, si proponga per un verso di contribuirealla determinazione dei caratteri specifici di una vicenda storica che ha connotatoin modo determinante l’immagine e una componente essenziale della propriatradizione storica e della stessa individualità, per un altro di metterne in luce, sullabase di una documentazione materiale (in realtà integrata ‘globalmente’ con le altrefonti disponibili) assolutamente originale, rapporti e legami con processi ed ambientistorici più generalmente attinenti alla civiltà medievale toscana e generale. Nellapiù squisita tradizione archeologica quindi, da luoghi e oggetti concreti ed ‘episodici’a fenomeni e problemi storici di riferimento. E tuttavia un’analisi territoriale selettivae mirata, non sistematica a spettro totale: suscettibile ad esempio di essere integrataentro programmi di rilevamento archeologico totale (magari per carte o parchiarcheologici)9.Su di un altro piano può essere interessante accennare anche alle modalità diimpostazione, per così dire, accademica del progetto qui presentato. Le premesse,che hanno portato già fin qui alla messa a punto delle linee di fondo del progetto,alla sua sperimentazione sul campo, a conseguire alcuni primi consistenti risultatie, infine, all’attuale seconda fase in atto, sono state poste negli ultimi anni.Progressivamente dal 1997 e con maggiore intensità a partire dal 1999 sono infattistate condotte una serie di attività specificamente accademiche, fra ricerca sul campoe formazione avanzata di competenze specifiche; non solo tesi di laurea10 o attività

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del Dottorato di ricerca in Archeologia Medievale, ma campagne di studio condottenell’ambito dei programmi del seminario laureandi della disciplina11. A questo punto,con l’inserimento a pieno titolo nei programmi scientifici dell’Insegnamento12, leattività di ricerca programmate potranno valersi anche della convenzioneappositamente stipulata dal nostro Dipartimento13 per sostenere tali progetti, conil CNR (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali di Montelibretti).Un’attività che, in collaborazione con lo staff dell’Università di Firenze, è in particolareindirizzata al rilevamento dei caratteri fisici delle emergenze (rilievoplanimetrico/altimetrico), alla rappresentazione spaziale del territorio (DTM con D-GPS in modalità statica e/o cinematica), all’identificazione e georeferenziazione dellestrutture interrate (prospezioni geofisiche e in particolare geoelettriche), alla gestionedella piattaforma GIS (fino alla integrazione di scenari 3D) per una lettura integratadelle forme e dei volumi di una selezione di siti e delle strutture che li caratterizzanoe per la determinazione di mappe che ne riproducano in maniera precisa i parametriessenziali della rappresentazione morfologica. Tutte procedure che rendono‘economici’ percorsi di ricerca soprattutto sul fronte del rilevamento e gestione deidati, con una diretta influenza quindi sulla stessa qualità delle letture storicheterritoriali prodotte. Un percorso che, già entro l’anno, vedrà avviate indaginiindirizzate verso nuovi obbiettivi, fra quelli selezionati, sempre coniugando attivitàdi ricerca -_ con ricorso anche a indagini stratigrafiche mirate di contesti rilevantiper il progetto _ con stages di formazione specialistica14; un programma che, inprospettiva, punta a favorire una integrazione con i progetti di riqualificazioneurbanistica dei centri storici degli EE. LL. e con i piani di sviluppo delle ComunitàMontane amiatine15. Una prospettiva e un programma che, è doveroso riconoscere,fin dai primi momenti ha visto un interesse ed una partecipazione di molteamministrazioni locali, in primo luogo di Santa Fiora, le quali hanno appoggiato invario modo le attività dei ricercatori e degli studenti che hanno a più riprese lavoratointensamente sul campo16. Volendo fare un punto dello stato attuale delle ricerche17,è stato fino a questo punto completato il programma di analisi stratigrafica delcostruito sull’intero tessuto urbano di Santa Fiora, di tutto l’impianto murario delcastello di Arcidosso, della pieve di Lamula e della rocca di Monte Laterone; inoltreè stata compiuta una sistematica ricognizione sulle murature medievali dei centristorici di Arcidosso e Montelaterone. Gli impegni prossimi, previsti per il programma2002, saranno costituiti dal completamento delle analisi stratigrafiche delle struttureemergenti medievali localizzate nei comuni di Arcidosso e Castel del Piano (campagneinverno 2001 e estate 2002); mentre alle campagne inverno 2002 ed estate 2003 saràriservata l’analisi dei siti scelti a rappresentare il versante senese.

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3. L’intervento presentato si riferisce quindi a letture critiche ed interpretazioni percerti versi anche conclusive circa il ‘caso’ considerato, la ‘capitale rurale’19 di S. Fiora,ma può proporsi anche come modello di alcune operazioni di rilevamento e di utilizzodelle procedure di analisi stratigrafiche del costruito _ in verticale, sugli elementistrutturali degli edifici ed in orizzontale, sul tessuto topografico dell’abitato _ colte,contestualizzate ed interpretate per una ricostruzione di precisi processi storiciattraversati dalle comunità dell’area campione amiatina considerata. Si tratta diprocessi relativi non solo alle modalità insediative ma anche ricostruiti come chiavedi lettura dei rapporti sociali di un’intera comunità bassomedievale nel lungo periodo;una lettura che investa sia la sfera dei rapporti di produzione e fra questa e le diversecommittenze sia anche quella più strettamente politico-istituzionale. La basedocumentaria materiale così ‘costruita’ ed in strumenti criticamente organizzaticostituisce già una vera fonte storica autonoma in riferimento alla quale altri tipi didocumenti acquistano un nuovo e specifico valore informativo; in questo senso, adesempio, i sondaggi compiuti (come quelli preventivati) in vari fondi archivistici siconnotano come capaci non solo (e non tanto) di una semplice estensione delleinformazioni disponibili ma soprattutto di rendere possibile incrociare le fonti equindi letture ed interpretazioni più autentiche e profonde anche delle stessedocumentazioni scritte20. In concreto, si intende far luce su quelle strutture materiali che caratterizzarono dallametà del XIII secolo fino alla fine del Medioevo Santa Fiora come un centro politicodi primo piano nell’entroterra della Toscana centromeridionale, facendone una dellepiù rilevanti capitali rurali _ anche come fortuna storica21 _ e peculiari fra quelle checaratterizzarono così ampia parte dei Contadi della Toscana medievale.L’indagine può quindi seguire il consolidarsi ed il mantenersi di un ruolo strategicodi questo castrum amiatino, anche quando il territorio dipendente dalla consorteriadei conti di Santa Fiora subisce un drastico ridimensionamento tra gli anni ’30 e glianni ’80 del XIV secolo. Un ruolo che, sul proprio territorio di riferimento, viene

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Figura 1: Area di studio e avanzamentodella ricerca18

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anzi enfatizzato nel periodo della conquista senese degli anni 1381-1385 dal progettodi trasferire la sede del capitano di Montagna da Arcidosso a Santa Fiora;un’intenzione mai portata definitivamente a termine per la riconquista da parte degliAldobrandeschi della piazzaforte montana nell’ultimo quarto del XIV secolo.È in questa prospettiva che si è quindi preferito presentare l’analisi archeologicaselezionando prioritariamente quelle strutture che ospitarono le istituzioni delgoverno centrale della contea (essenzialmente il cassero e i palatia comitali) e chequindi contribuirono a differenziare parzialmente Santa Fiora dagli altri grandi centricomitali aldobrandeschi, costituendo così un concreto e visibile connotato peculiaredell’insediamento non solo nel contesto amiatino. Così, le quattro fasi storicheindividuate nella edificazione del cassero, marcano e riflettono con sorprendenteprecisione le tappe più significative dei mutamenti nel controllo comitale sul territorioamiatino tra XII e XIV secolo. Ad una prima fase (secolo XII-prima metà del XIII)si riferisce il primo articolarsi dello sviluppo del cassero _ che denuncia al propriointerno un’area ancora priva di strutture significative, fra la torre centrale ed il circuitomurario22 - e lo stabilirsi della signoria aldobrandesca, a cui segue l’emergere dellesue strutture principali, con il palazzo e l’edificazione del ‘palazzo nuovo’ (metà XIII-prima metà del XIV) ed il parallelo affermarsi del primato di Santa Fiora nella conteaaldobrandesca, dove compaiono i primi caratteristici insediamenti militari (fortilitie);negli anni Sessanta del ’300 si ha la prima eclissi politica nel controllo comitale diSanta Fiora, relativa ad una poco documentata occupazione senese del castello, cuifa riscontro un ampliamento del palazzo vecchio del cassero, mentre con la faserelativa all’avvento del governo senese (1381-1385), il cassero diviene il centro di unaintensa attività edilizia che ne amplia l’estensione e ne sviluppa i dispositivi tattici.A proposito poi degli ‘oggetti’ materiali oggetto primario di queste indagini, in questocaso anche monumentali (oltre al tessuto civile medievale conservato) e parlandod’altro (ma non tanto), credo che solo una comprensione reale della cultura di tali‘emergenze’ (come si usa definirle, con involontaria ma ben indicativa ambiguitàsemantica ...) _ non solo nei loro connotati tecnici e materiali, ma anche nel lorosignificato in rapporto all’ambiente (storico come fisico) che li ha prodotti ed allasocietà che ce li ha trasmessi _ possa metterci nelle condizioni migliori per effettuarescelte consapevoli per usi o destinazioni funzionali; e, magari, di rendere accettabili,almeno sul piano del metodo, anche eventuali ‘errori’.

Santa Fiora nel medioevo: economia e popolamento

Gli studi condotti sugli insediamenti bassomedievali amiatini hanno principalmentepreso le mosse dallo spoglio del fondo diplomatico di San Salvatore al monte Amiata23

e per il basso Medioevo da quello degli archivi delle magistrature comunali di Siena24

e in misura minore di Orvieto25. In entrambi i casi quindi Santa Fiora (che non ha

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fatto parte della dominazione abbaziale e che solo per poco tempo è stata inglobatanel contado senese) sebbene sia stato uno dei maggiori centri montani ha potutobeneficiare solo marginalmente di queste ricerche. Grazie alla scoperta di un cospicuocarteggio tra gli ufficiali senesi a Santa Fiora e il Concistoro datato dal 1381 al 138526

la situazione è stata tuttavia parzialmente riequilibrata e almeno per quel periodo èstato possibile approfondire l’analisi su alcuni aspetti socio-economici della storia diquesto centro. La documentazione prodotta dagli ufficiali senesi tra 1381 e 1385permette inoltre di stimare per la prima volta la consistenza demograficadell’insediamento, sia grazie a puntuali informazioni contenute nel carteggio, sia sullabase delle sottoscrizioni in calce alla carta di sottomissione della comunità a Siena27

stipulata il 27 ottobre 1381. I 195 sottoscrittori, indicati come i due terzi “personarumet hominum terre”, rappresenterebbero infatti una popolazione totale stimabile tra i1025 e i 1120 abitanti 28. Pur considerando il sostanziale calo demografico dai livellidi inizio Trecento Santa Fiora pare quindi in questo momento di gran lunga il maggiorcentro amiatino e con più di mille abitanti supera i 700 di Castel di Badia e i forse 5-600 di Arcidosso nella stessa epoca29. La fine del XIV secolo si segnala inoltre anchein Maremma come un periodo di gravissima crisi demografica che vede sensibilmenteridimensionata la consistenza dei maggiori centri della pianura30, tutti con livelli dipopolamento inferiori ai grandi castelli amiatini (100 uomini a Grosseto, 40 a Maglianoe addirittura 8 per Talamone, contro rispettivamente 1200, 400 e 50 di qualche annoprima. Il raccolto del grano scende da 40.000 a 5000 moggia)31. Non vanno infineignorati gli indizi che indicano, anche a Santa Fiora, come la fine del XIV secolo siacaratterizzata da una generale e consistente contrazione demografica rispetto ai livellidi popolamento del cinquantennio precedente. In questo senso è forse sintomaticadel trend demografico la diminuzione del numero di mulini da granaglie. Mentre infattialla fine del XIII secolo risultano attivi nel castello almeno tre mulini che lavorano ilfrumento32 solo uno di essi sopravvive fino al 138133 e a detta degli ufficiali senesi,con una scarsa capacità di macinazione34. Il consistente calo demografico non si arrestacomunque a Santa Fiora ai livelli dell’epoca della sottomissione, ma proseguedrammaticamente a causa di una ulteriore epidemia che scoppia durante il luglio138335 e costringe anche i contingenti senesi a prendere la via del bosco come avevaprobabilmente già fatto la maggior parte della popolazione. All’inizio di ottobrerisultano decedute più di cinquecento persone tra senesi e santafioresi36 e alla finedell’epidemia, un mese dopo, Santa Fiora non conta più di quattrocento uomini37,forse 900 persone in tutto. A distanza di un altro anno poi, e in seguito ad un’altraondata di pestilenze, la popolazione è ulteriormente diminuita a 240 uomini, compresiun buon numero di pastori forestieri38. Nell’arco di un biennio la popolazione delcastello amiatino si riduce quindi ulteriormente di circa il 60%.

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Il Cassero di Santa Fiora

Le vicende costruttive di un manufatto architettonico medievale sono spessoestremamente evanescenti nelle registrazioni documentarie coeve, in particolarequando non si tratti di un edificio ecclesiastico oppure di un’opera situata all’internodi quelle (rare) aree geografiche più densamente documentate, frequentementeimperniate su un grosso centro urbano. Nel caso specifico il cassero di Santa Fiora‘gode’ quindi di tutte le condizioni necessarie al naufragio della propria storia: siaper il suo essere un manufatto architettonico militare, sia a causa dell’esiguità delladocumentazione di archivio riguardante Santa Fiora per il XII e XIII secolo e ingenerale prima del 138139. A rendere ancora più squilibrata la disponibilità di fontiscritte va inoltre considerato che, mentre per il periodo che va dagli anni ’70 del XIIIsecolo agli anni ’80 del secolo seguente le menzioni del cassero sono poco più cheattestazioni incidentali dell’esistenza della struttura inserite nelle date topiche di varidocumenti; per gli anni 1381-1385 sono disponibili rapporti quasi giornalieri sullo

stato di avanzamento del cantieredella nuova fortezza trasmessi alConcistoro di Siena dagli ufficialidi stanza a Santa Fiora. In tale situazione diventa quindidifficile relativizzare l’epoca delladominazione senese nel contestodella long durée della storia diquesta rocca amiatina. La riconquista aldobrandesca diSanta Fiora del 1385 segna inoltrel’inizio di una nuova lacunadocumentaria che si concludedefinitivamente solo (ma mancanoricerche accurate sui fondi cinque-seicenteschi) con le ristrutturazionitardo settecentesche dei ruderi delcomplesso fortificato medievale.

A partire dalla documentazioneillustrata nella Tabella 1, sipossono distinguere almeno treredazioni del cassero precedenti aquella senese del 1381-1385, chemarcano le tappe più significativedelle mutazioni nel controllo

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Figura 2: Pianta di Santa Fiora con indicazione del cassero

Tabella 1: schema sintetico delle fonti documentarie sul cassero

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comitale sul territorio amiatino tra XII e XIV secolo. In primo luogo sebbene per ilsecolo che intercorre tra il 1142 ed il 1254 siano disponibili tre soli documenti e sisia quindi tendenzialmente esposti al rischio di sottostimare la portata degli interventidi XII e primo XIII secolo, si può comunque ricordare che il ruolo di preminenzaraggiunto da Santa Fiora nella contea di Ildebrandino di Bonifacio (I) era aquell’epoca molto di là da venire (resta inoltre al momento impossibile chiarirel’influenza su Santa Fiora della dominazione imperiale del 1241-1251).

D’altro canto, anche dalpunto di vista delle strutturesopravvissute fino ad oggi, ilXII secolo48 è rappresentatopressoché esclusivamentedalla torre B, un edificiodalla muratura così bencaratterizzata da sopire quasiogni dubbio di attribuzionedi altre strutture della roccaallo stesso cantiere49.

L’analisi archeologico-stratigrafica tenderebbe quindi in questo caso a rafforzare leconclusioni tratte sul piano documentario, con la notazione aggiuntiva della materialeassenza di strutture analoghe alla torre maggiore50, per tecnologia muraria, nel complessoedilizio della Roccaccia.

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1144 prima menzione del castrum Sancte Flore40.1205 menzione del castellano di Santa Fiora41. 1251 - 1256 probabile epoca di costruzione del Palatium42.1274 prima menzione della Fortilitia di Santa Fiora43. 1285 menzione del Palatium Casseri di Santa Fiora44. 1292 ultimazione del Palatium Novum45. 1362 prima dominazione senese46. 1365 rifortificazione del cassero a opera del conte Senese di Stefano47.1381 - 1385 seconda dominazione senese.

Figura 3: planimetria cassero con indicazione degli ambienti

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2. Secolo XII-p.m. XIII

Fase I.1La fase I.1 ha come unico testimone la torre B51 stessa, vista nel suo ‘isolamentostratigrafico’ come struttura unica sopravvissuta di questa prima fase di fortificazione.

La USM 9852 sembrerebbeindicare un cambiamento diprogetto a circa metà degliattuali 32 m. di altezza, conl’arretramento dell’ampiezzadi un concio dell’angolataNW. Benché in questo singolareraddoppio di angolata, chenon si ripete negli altrispigoli della torre, potrebbeanche ricercarsi il segno diuna interruzione delcantiere, forse addiritturauna cesura ‘stagionale’ tra

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Figura 4: assonometria della torre

Figura 5: planimetria sec. XII

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inverno e primavera ricollegabile eventualmente anche all’indicazione del lavoroeseguito dalle maestranze in vista del pagamento53. Alla stessa fase appartengonole aperture USM 52 e 61, oltre alla porta vera e propria USM 85, ubicata a circa 8metri di altezza e servita probabilmente da una scala lignea esterna54. Un’altraapertura si trovava probabilmente nella zona in cui fu aperta, nel corso del Trecento,la porta USM 66. Il prospetto N (vedi Figura 14) pare sia stato il solo su cui si aprivano porta di accessoe finestre, pur non potendo essere certi che il restauro settecentesco dell’intera facciatanon abbia obliterato aperture analoghe sul prospetto ovest, su cui attualmente siaprono le finestre delle celle delle ex carceri comunali (USM 4, 9, 17, 22, 29).

Fase I.2Con il primo articolarsi dello sviluppo del cassero l’interpretazione dei dati si fapiù incerta, particolarmente per l’epoca più vicina al XII secolo e per gli inizi delsecolo seguente. In primo luogo è necessario distinguere i due ordini di ipotesi checoncorrono a delineare il profilo di questa fase: i dati desumibili dai prospetti dellatorre e quelli desumibili dall’analisi planimetrica del complesso nello stato attuale.

Dal punto di vista delle attuali sopravvivenze evidenziabili in pianta si deve distinguereil caso del setto murario che divide gli ambienti A e C, appoggiato alla torre B, chemostra in un’angolata segni di lavorazione simili a quelli del paramento di B (USM47 e 49); da quello del muro che delimita verso ovest gli ambienti H e I, per il quale,essendo totalmente intonacato, l’ipotesi di attribuzione a questa fase è basataesclusivamente sul dato topografico. Il muro ovest degli ambienti H ed I infatti,per dimensioni e posizione, potrebbe essere considerato parte del circuito murariodel castrum o piuttosto, in relazione a quanto è stato osservato a Selvena55, un ridottofortificato della rocca di XII e primo XIII secolo.A questa stessa fase (anche se non è possibile dire in quale relazione con la torre)appartiene inoltre un lacerto alla base della muratura della facciata della strutturaC/E verso la piazza (vedi pianta).Per quanto riguarda i dati stratigrafici relativi alla torre B, si è invece ipotizzato cheil più antico edificio appoggiato a essa sul lato est fosse quello testimoniato dal segnodi tetto USM 50, forse in relazione con il solaio USM 58. Alla base di questa sceltala motivazione che un simile edificio, avrebbe rispettato la funzionalità degli elementistrutturali della torre non impedendo l’uso della porta USM 85, né quello delleaperture USM 52 e 61. Si tratterebbe quindi di un intervento che considera ancorala torre B come il fulcro del sistema difensivo del complesso.

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Fase I.3A una fase successiva, dacollocarsi probabilmentenell’ambito della primametà del XIII secolo, risalela realizzazione dellafacciata est (quella verso lapiazza) del palazzetto C/E euna recinzione in muraturadi cui sono state individuatecospicue porzioni inoccasione del piccolo scavostratigrafico che ha precedutoil ripristino della scarpa norddell’ambiente A56. Questo setto murario, indicatoin tratteggio nella tavola,

potrebbe aver costituito il limite dell’area fortificata duecentesca in questo punto. Perquanto riguarda invece il prospetto est di C/E, pur nella difficoltà di leggere la stratificazionedelle diverse murature a causa della estesa presenza di intonaco residuale sulla facciata(che adesso è totalmente intonacata), si è potuto comunque cogliere con certezzal’avvicendamento tra la muratura realizzata con grande cura a piano terra (USM 202)e una seconda più grossolana visibile dall’interno circa 2 m più in alto (USM 283).Su questo prospetto si trovavano inoltre almeno 2 aperture al primo piano (USM221 e 284), delle quali la seconda, visibile dall’interno, sembrerebbe per le dimensioniassimilabile a una porta (forse un ingresso a un piano rialzato accessibile dall’areadella piazza).

Conclusioni fase IPer il periodo che va dal XII secolo (probabilmente la metà) agli anni ’50 del secoloseguente la rocca sembra quindi focalizzata sulla torre B che forse delimitava in unprimo momento anche il perimetro sul versante nord occidentale del complessosignorile (fino all’appoggio della struttura sulla metà del lato nord). Come accade adArcidosso e probabilmente anche a rocca Silvana, in questa prima fase il limite dellemura castrensi e quello degli apprestamenti militari signorili non coincidono.

3. Seconda metà secolo XIII-p.m. XIVA un certo dinamismo pare essere improntata la fase successiva della vita di questocomplesso, dalla seconda metà del XIII secolo agli anni ’60 del secolo seguente,che vede l’avvicendarsi anche serrato di interventi sulla struttura della Roccaccia.

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Figura 6: planimetria sec XIII

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Si tratta di un’epoca in cui il primato di Santa Fiora nella contea aldobrandesca siafferma a causa della scelta del castello amiatino quale sede preferita della famigliacomitale del ramo di Bonifacio I, che tratta da qui la stragrande maggioranza degli‘affari di stato’. Nella perdurante carenza documentaria l’impronta di fondo di questascelta si manifesta nell’emergere delle strutture del cassero con il suo palazzo e, apartire dal 1292, dall’edificazione del palazzo nuovo. Si tratta di un periodo per ilquale le fonti sopravvissute consentono di legare lo sviluppo delle strutture difensivea un nuovo modello di governo fondato sul controllo di un numero limitato di grandibasi militari, le fortilitie, con capacità di intervento in ambito zonale (sovradistrettuale)

e d’altra parte, la creazionedi un centro politico inSanta Fiora.Sul versante materiale siassiste quindi a Santa Fioraalla predisposizione distrutture atte a perseguiregli scopi di controllomilitare, con l’edificazionedel cassero (fosse questodistinto o meno dallafortilitia) e quelli di governopolitico-amministrativoregionale: il palazzo e ilpalazzo nuovo.

Fase II. 1La prima sostanziale innovazione rispetto alla fase precedente sta nel cambiamentodel ruolo rivestito dalla torre B che vede ridimensionata la sua valenza strategica infavore di un sempre maggiore avvicinamento a una funzione par- residenziale.Il dato più rilevante di questa fase databile alla seconda metà del XIII secolo è infatticostituito dalla fine dell’isolamento della torre maestra che fino ad allora avevaconservato in funzione i principali dispositivi di XII secolo, in particolarerelativamente agli accessi ed alle altre aperture. Si tratta di una fase estremamenteimportante e complessa che culminerà con la trasformazione di una rocca di mediedimensioni in uno dei maggiori complessi palaziali-militari della contea.L’assetto generale di questo periodo è caratterizzato dalla creazione di una corteparzialmente addossata al lato N della torre B e delimitata verso est dal muro ovestdell’ambiente A. Una traccia di questo ricetto è ancora riconoscibile sul prospettoovest dell’ambiente A nella USM 304, linea in cui il muro del palazzo curvava di90° per disporsi parallelo al lato N della torre B.

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Figura 7: planimetria 1256 - p.m. sec. XIV

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Allo stesso modo sulla torre maggiore resta il segno di un tetto a due pendenze (USM65 e 71) perfettamente allineato al muro ovest dell’ambiente A, a ulteriore confermadell’esistenza del cortile.L’accesso alla torre maestra continua a essere praticato dalla porta USM 85, benchéla preesistente struttura lignea sia stata a questo punto sostituita da un corpo difabbrica in muratura, forse non diversamente da quanto ancora oggi osservabilenel castello di Arcidosso.Per quanto riguarda invece il limite settentrionale del palatium (A) non è possibilestabilire esattamente come si comportasse la struttura duecentesca in corrispondenzadelle attuali USM 311 e 312 (v. Figura 16), se cioè essa raggiungesse il limite attualedell’ambiente A o si fermasse prima di questo.Poiché tuttavia il prospetto nord del palazzo per i caratteri delle murature è databileal pieno XIV secolo sembra probabile che il palazzo di metà XIII secolo si fermasseprima del muro di cinta dell’area fortificata duecentesca.Non è inoltre facile stabilire se l’attuale ambiente A conservi strutture del palazzovecchio (a. 1256 circa) oppure di quello nuovo (a. 1292). Dall’analisi dei paramentimurari sembrerebbe comunque probabile che sia l’ambiente A che gli ambienti Ced E rappresentino fasi diverse del palatium più antico (o di parte di esso). Entrambele strutture sono infatti collocabili nell’ambito della fase mensiocronologica M1, chepare concludersi poco dopo la metà del Duecento. Se si accetta questa ipotesil’edificazione del palatium di Santa Fiora tra 1251 e 1256 sembrerebbe quindi esserestata un cospicuo ampliamento dell’area residenziale della fortezza giàprecedentemente esistente e costituita dagli ambienti E e C (ma non limitata ad essi). Un altro elemento chiave negli sviluppi urbanistici di questa fase è costituito dallacostruzione della torre G e dalla prima redazione della torre F (USM 204), la cuimuratura si appoggia al muro orientale dell’edificio E/C, occludendo parzialmentela finestra USM 221. Essendo questa muratura tipologicamente identica a USM301 dell’edificio A (prospetto nord) è ipotizzabile che l’edificazione del palazzocomitale comportò la contestuale fortificazione del prospetto est delle precedentistrutture residenziali. Dall’ampliamento del nucleo palaziale più anticamenteconnesso con la rocca (C, E), con l’accostamento di un grande edificio (A), e di unalinea fortificata (F, G) si originò quindi il complesso architettonico del palazzo del1251-56, che sarà detto vecchio all’indomani dell’edificazione dell’altro palazzo del1292. In particolare la presenza delle torri F e G, connessa alla definizione di unrecinto fortificato farebbe ipotizzare una contemporaneità tra l’edificazione delpalazzo e la definizione dello spazio del cassero, per cui si chiarirebbe l’occorrenzadocumentaria di un “palatium casseri” nel 128557, da identificare con il complessoottenuto dalla risistemazione dell’antico edificio C/E più l’edificio A, il cui ingressosarebbe stato a quell’epoca consentito solo dall’interno della cittadella.Per quanto riguarda il palazzo nuovo (a. 1292) invece, alla localizzazione di questosecondo complesso di fine XIII secolo sono forse riferibili le tracce del cospicuo

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edificio di 4 piani addossato sul lato ovest della torre maestra (Figura 13) e di cuiha lasciato traccia nelle USM 8 (tetto), 1358, 21, 23 e 32-33-3459 (solai).

Conclusioni Fase IILa seconda metà del Duecento segna nella contea aldobrandesca un’epoca di intensaattività edilizia nei maggiori castra a causa dell’edificazione di grandi fortezze urbanedette casseri. La costruzione di queste piazzeforti avviene congiuntamente allariorganizzazione del governo del principato dopo la dominazione federiciana epotrebbe indicare un parziale accoglimento, in quell’ambito, di istanze emersedurante gli anni di governo imperiale. Ciò nonostante, la comparsa generalizzatadelle fortezze urbane, era stata anticipata nella prima metà del secolo almeno da unodei castra dell’area sovanese, Pitigliano, il cui cassero è attestato già dal 122360. Acirca trenta anni di distanza si situano invece le fortificazioni di Santa Fiora,Castiglione Valdorcia61 e Orbetello62, mentre per gli altri grandi centri militarialdobrandeschi si hanno attestazioni solo a partire dagli anni ’70, e nella maggioranzadei casi non prima della menzione nella lista della fortilitie del 127463. Questa cronologia delle attestazioni potrebbe forse rispecchiare l’effettivoavvicendamento di due ondate nel processo di costruzione degli impianti strategicidella contea, con una prima fase databile agli anni ’50 ed una seconda agli anni ’70del Duecento, anche se va precisato che non si sono compiute verifiche sulle datetopiche di documenti inediti rogati nei centri provvisti di cassero nel 1274. In ognicaso, sul versante urbanistico, la portata degli interventi del secondo XIII secolo èenorme, e trova a Santa Fiora un paragone adeguato solo nell’attività dei cantierisenesi del 1381-85. Come è stato evidenziato dalla lettura stratigrafica del complesso fortificato di SantaFiora, l’edificazione del palazzo vecchio e del cassero comportò una complessa operadi ristrutturazione della rocca più antica e dei primi edifici residenziali. In particolareil nucleo di costruzioni sorto ai primi del Duecento attorno alla torre maestra,caratterizzato forse da un accesso al primo piano (USM 284) raggiungibile attraversoun ballatoio o un profferio e legato all’attività degli ufficiali locali, vede a metà delXIII secolo il prospetto sulla piazza inglobato nella cinta muraria della cittadella,un cambiamento che prelude a una radicale svolta nell’urbanistica di questa area.Fin dalla metà del XII secolo l’area a sud della torre B era stata infatti occupata dallapiazza del castello, prospiciente la chiesa di S. Leonardo e i più antichi presidi militarialdobrandeschi. L’edificazione del primo complesso di palazzi signorili, portato atermine in due fasi distinte (USM 202 e 283), con l’accesso in direzione della piazza,mostra come lo spazio urbano fosse focalizzato su un’area ‘aperta’, delimitata daifronti di accesso degli edifici che vi si affacciavano. La situazione che si determinò alla chiusura dei cantieri del cassero del 1251-1256non doveva invece discostarsi molto da quella osservabile ancora oggi nelle piazzedi castello di Arcidosso e Piancastagnaio, con le fortificazioni delle rispettive rocche

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a ridosso di spazi angusti nelle cui immediate adiacenze si trova la chiesa e la portamaggiore del castello. A Santa Fiora l’ingresso principale era costituito dallascomparsa ‘Porta del cassero’ (che si apriva sul tracciato di via Cesarini Sforza) chedava accesso alle fonti di Castello poste lungo la via pubblica che conduceva aPitigliano e Sovana. All’interno del recinto fortificato del cassero si levava il palatiumcomitale, il cui accesso era consentito esclusivamente dalla cittadella e che, a differenzadi quanto era forse avvenuto per la residenza dei primi ufficiali comitali64, noncomunicava direttamente con il resto del castello.

4. Prima metà secolo XIVPer quanto riguarda il cassero propriamente detto non ci sono evidenze documentarieche attestino un’attività edilizia su larga scala all’indomani dei primi anni del XIVsecolo ed è quindi ipotizzabile che le strutture realizzate tra gli anni ’50 e gli anni’90 del XIII secolo siano state usate con poche modifiche fino agli anni ’60 del secoloseguente. La prima metà del XIV secolo pare infatti delinearsi come un’epoca incui le lacerazioni interne alla famiglia comitale avrebbero fatto optare i singoli membridella consorteria per soluzioni particolaristiche anche nell’ambito delle strutturemilitari di Santa Fiora. Il portato più evidente di questa situazione sarebbe daindividuare nell’emergere di strutture palaziali di proprietà dei singoli esponentispesso dotate di dispositivi fortificati di ascendenza prettamente militare, cui potrebbeaver fatto da contraltare una minore attenzione verso le strutture di interesse comunedell’intero gruppo parentale (quale doveva apparire appunto il cassero65).

Strategie famigliari dei conti di Santa Fiora nel XIV secolo

Alla fine del XIII secolo la consorteria aldobrandesca di Santa Fiora inaugura strategiefamiliari nuove, con l’abbandono del modello della famiglia ‘stretta’ e l’allargamentodella base ereditaria. La ventesima generazione di Aldobrandeschi si contraddistingueinfatti per l’elevato numero di discendenti legittimi (sei) di Ildebrandino XI. L’impresapaterna è inoltre ripetuta, nella generazione 21, da Ildebrandino XIII e dal fratelloEnrico II il vecchio. La generazione 22 mostrerà invece gli esiti radicalmente oppostidi un comportamento matrimoniale apparentemente analogo, allorché il ramo diIldebrandino XIII conterà un solo erede e quello di Enrico II 12 (tra legittimi edillegittimi).Il vertiginoso aumento dei membri della consorteria comitale è spesso enfatizzatodalla cospicua presenza di figli illegittimi, con diritti ereditari limitati. Inoltre nontutti i discendenti legittimi sembrano aver partecipato paritariamente al governo delprincipato, né aver condiviso costumi matrimoniali analoghi. Dei 10 figli diIldebrandino XIII solo il conte Stefano si riproduce e anche nella discendenza di

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Enrico II, dei 5 figli legittimi, solo Pietro e Binduccio trasmettono alla prole i propribeni, che successivamente confluiranno nelle mani di Ildebrandino XV (generazione22) e da questi a Guido III di Senese, unico discendente del ramo di IldebrandinoXIII66 (generazione 23). Nonostante la generalizzazione del titolo comitale tra tutti i membri della famiglia,la guida del gruppo parentale è affidata dalla fine del Duecento a Ildebrandino XIIIe a Enrico II il vecchio, che operano spesso congiuntamente negli atti di interessecollettivo. La prevalenza di questi due conti, almeno fino agli anni ’30 del Trecento,è continuata dai discendenti diretti, che eserciteranno le prerogative dei propri aviin seno alla consorteria anche qualora esponenti più anziani siano tuttora in vita.Lo status dominante di Ildebrandino XIII ed Enrico II si manifesta anche nellasimilarità dei costumi matrimoniali dei due conti, la cui prolificità (rispettivamente10 e 5 figli) contrasta con la sterilità o la bassa fertilità (uno o due figli al massimo)dei fratelli (v. Figura 7). È quindi probabile che la numerosa prole di alcuni contifosse indice del ruolo ricoperto nel governo della contea e trovasse una sorta diarchetipo nel comportamento matrimoniale di Ildebrandino XI, capostipite delladinastia amiatina.Nonostante la divisione della contea di Santa Fiora del 1297, almeno fino agli anni’60 del Trecento, la famiglia comitale viene congiuntamente rappresentata pressoterzi, sia nella consegna di castelli67, che nei confronti della sede apostolica68, che perla stipulazione dei reiterati atti di pacificazione con Siena69. E anche se le ciclichesottomissioni dei castra avvengono per mano dei titolari legittimi, tutti i membri dellaconsorteria procedono contestualmente alla nomina dei procuratori70.Purtroppo non è sempre facile districarsi tra le molte attestazioni dell’attività deiconti di Santa Fiora nel Trecento (soprattutto di matrice senese) e quindi chiarirecompletamente gli indirizzi e i risultati della loro politica. All’inizio del XIV secolosembra effettivamente che essi abbiano continuato a mantenere il primato politicoe militare in area amiatina, e che lo abbiano anzi rafforzato con l’acquisizione di beniappartenenti ai conti di Sovana (Casteldelpiano71) e all’abbazia di San Salvatore(Monticello, Lamulas, Gravilona e Castel di Badia72). Anche in Maremma si registranoacquisizioni sostanziali come la fortilizia di Marsiliana, il castello di Morrano (daiconti di Sovana), Pereta (dal Patrimonio di San Pietro) e Scerpena73.La pressione di Siena fu invece inizialmente avvertita nella parte settentrionale dellacontea dove il comune urbano acquisì precocemente la fortilitia di Roccastrada74 ei castelli di Belforte, Radicondoli e Monteguidi75. La crisi pare invece accentuarsinegli anni ’30 quando gli Aldobrandeschi perdono in seguito a una guerral’importantissimo castello amiatino di Arcidosso76. In quello stesso periodo lasottomissione a Siena dei castelli dei conti di Santa Fiora mostra inoltre gli sviluppidella divisione del 1297. All’atto sono presenti gli eredi di Ildebrandino XIII (GuidoII e Stefano), quelli di Bonifacio II (Pietro e Giacomo) e Conticino di Guido77. Spiccal’assenza del ramo di Enrico II che era stato fino ad allora una delle componenti

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più attive della famiglia e la leadership famigliare sembra essere passata nelle manidel ramo di Bonifacio II. La conferma dell’esistenza di tensioni tra i diversi lignaggicomitali viene nel 1343, quando il conte Giacomo fa redigere il proprio testamentoa favore del comune di Siena78. Poco tempo dopo la crisi sembra però ricomporsivisto che i discendenti di Enrico II e Ildebrandino XIII testimoniano congiuntamentealla vendita di metà di Selvena compiuta da Pietro in favore del fratello Giacomo(eredi di Bonifacio II). Infine nel 1348 anche gli eredi di Enrico II ratificano lapacificazione generale con Siena79.I contrasti interni alla consorteria comitale degli anni ’30 e ’40 sembrano strettamentecollegati all’atteggiamento di alcuni dei lignaggi nei confronti della città ‘dominante’.L’ostilità dei discendenti di Enrico II verso Siena potrebbe aver giocato un ruoloimportante nella momentanea perdita di potere di questo ramo all’interno dellacompagine familiare. Estintosi alla soglia degli anni ’50 il ramo di Bonifacio II e prematuramente scomparsoStefano80 di Ildebrandino XIII, gli eredi di Enrico II si trovano per un decennio aessere gli unici titolari della contea di Santa Fiora. Questo lignaggio aldobrandescoè perfettamente conforme al modello famigliare introdotto da Ildebrandino XI, alsuo interno spicca infatti un erede principale (Pietro II) molto prolifico, accanto aifratelli con discendenza limitata. A sua volta Pietro II battezza il primogenito con ilnome eponimo (Ildebrandino XV) che identifica tendenzialmente a ogni generazioneil leader della consorteria. È quindi probabile che il ramo di Enrico II rivendica anchesul piano simbolico, attraverso i costumi matrimoniali, il governo della contea.Al pari della discendenza di Ildebrandino XI anche quella di Enrico II non è peròimmune dalle tensioni tra erede principale e ‘cadetti’. In particolare il conte Andreaconcede dapprima a Siena l’enfiteusi sull’importante centro maremmano diMagliano81 e designa infine il comune erede universale nel proprio testamento82.Negli anni ’60 inoltre anche il conte Senese, ultimo erede del ramo di IldebrandinoXIII, lotta contro la fazione di Enrico II per affermare i propri diritti. Il primo attoche lo vede protagonista riguarda infatti la cessione in affitto a Siena dei possedimenti(ancora una volta) di Magliano83, forse un espediente usato dal giovane conte pergarantirsi la protezione del comune urbano contro i consorti (secondo una consolidatatradizione familiare inaugurata da Bonifacio I agli inizi del XIII secolo). A ulterioreconferma il conte Senese scrive nel 1365 agli ufficiali della città per informarli chegli eredi di Enrico II, con l’appoggio di Bonconte Monaldeschi di Orvieto, stavanoradunando gente armata per un attacco di sorpresa a suo danno84. Garantendo ilproprio appoggio al conte Siena riesce a quel punto a intervenire promuovendo nelfebbraio 136685 la pacificazione tra Senese e i biscugini Ildebrandino XV e Francesco,che avevano con tutta probabilità tentato di diseredarlo.Gli anni ’70 del Trecento sono un periodo in cui prevale nuovamente la solidarietàall’interno della famiglia comitale, composta dagli ultimi eredi dei lignaggi ‘principali’della discendenza di Ildebrandino XI. In questo periodo si assiste addirittura a una

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certa ripresa dell’iniziativa dei conti nei confronti della repubblica di Siena con iltentativo di recuperare i castelli di Arcidosso86, Selvena e l’effettiva riconquista diMarsiliana87.A distanza di cinque generazioni si può quindi tentare un bilancio della strategiafamiliare inaugurata da Ildebrandino XI. Nei circa ottanta anni dopo la sua morte,nonostante le defezioni di alcuni membri dei rami cadetti88, l’impianto generale reggee consente la trasmissione unitaria dei centri di Santa Fiora, Triana, Castellazzara,Magliano e Scansano (Selvena verrà reintegrata solo nel ’400), a Guido III di Senese,adottato nel testamento da Ildebrandino XV ultimo erede del ramo di Enrico II89.

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I conti di Santa Fiora 1 - ramo di Ildebrando XIII1208-1438 ca. (generazioni 18-24)

Ildebrandino XIII

Bonifacio

Ildebrandino XI di Santa Fiora

Umberto II Bonifacio II Guglielmo II Enrico II Guido Nicola Mezzocontef.n.

Cinof. n. Gualterio f. n.

- Ildebrando XIV- Enrico III- Guglielmo III- Guido II- Giovannni- Cino f. n.- Gultiero f.n.- Baldiruccio f.n.- Arriguccio f.n.- Orlando f.n.

Stefano

Senese

Guido II

Federico Cecilia=

Bosio Sforza

Giovanna Gabriella

Pietro Giacomo

Niccola=

GiovannnniNerucci

da Casole

Andrea=

Bindo delTolomei

Conti di Santa Fiora 2 Conticino f.n. Guido f.n.

Guidarello

Conti Sforzadi

Santa Fiora

Figura 8: albero genealogico dei conti di Santa Fiora

L’edilizia monumentale

La divisione di beni e rendite della famiglia comitale di Santa Fiora aveva prodottoa partire dal 1297 sei lignaggi virtualmente indipendenti legati dalla gestione politicacomune del principato. Tra i vari rami due erano stati più direttamente interessatidalle responsabilità di governo: quelli di Ildebrandino XIII e di Enrico II il vecchio.Così come sul versante documentario la prevalenza di tali lignaggi è testimoniata dalruolo di rappresentanza semi permanente del Comitatus Ildibrandischus che

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congiuntamente avevano esercitato; sul piano (per così dire) della documentazionemateriale, la loro posizione dominante nella famiglia si incarna nell’edificazione deipalazzi urbani. La prima comparsa di questo nuovo tipo edilizio avviene nel 1331,quando il “palatium domini comitis Henrici”90 è menzionato nella data topica diun atto. Si trattava di fatto del primo cambiamento significativo da quasi un secolonella rogatio delle carte aldobrandesche, fino ad allora redatte quasi esclusivamentenel palazzo del cassero (da ora in poi indicato prevalentemente come “palatiumDominorum Comitum de Sancta Flora”91).Le ragioni che indussero Enrico II a edificare un palazzo ‘privato’ e distinto da quellodella cittadella furono probabilmente di ordine politico. Come capo riconosciuto(assieme al fratello Ildebrandino XIII) della consorteria si era probabilmente resanecessaria la materializzazione del suo status di prevalenza, ma non reale dominio,all’interno del principato. D’altro canto si è già visto come Enrico II avessemanifestato anche attraverso i costumi matrimoniali le proprie ambizioni egemonicheall’interno della consorteria. Egli sembra quindi agire di conseguenza mantenendoda un lato lo status super partes del palazzo del cassero, e promuovendocontemporaneamente la costruzione di un palazzo che, sebbene non investito daalcuna qualificazione pubblica, testimoniasse il suo ruolo politico nella famiglia. Al1344 risale inoltre un atto rogato in “domo et sala domus” del conte Stefano diIldebrandino XIII92, probabilmente un edificio simile al palatium di Enrico II vistoche nel 136793 il conte Senese, discendente di Stefano, possedeva un palazzo a SantaFiora. Questo secondo edificio potrebbe esser stato forse costruito già daIldebrandino XIII contemporaneamente al palazzo di Enrico II e probabilmente conlo stesso scopo. Dopo circa un decennio dalla sua costruzione, il palatium di Enrico II viene fortificato,come dimostra la presenza del confesso che lo circonda nel 134594. A una fase piùtarda di qualche decennio dovrebbero inoltre appartenere altri due95 palazzi urbanifortificati96, commissionati probabilmente dai figli di Enrico II (Giovanni III eBinduccio) o dai suoi nipoti97. Questa seconda generazione di fortilizi sembrerebbedatabile agli anni ’60 del Trecento, l’epoca segnata dal tentativo del lignaggio diEnrico II di diseredare il conte Senese98 e dai primi tentativi di Siena (parzialmenteriusciti) di esercitare su Santa Fiora i diritti ereditati dal conte Andrea (v. nota 85).La costruzione di piccole fortezze urbane a Santa Fiora segnala quindi il clima diaperta violenza tra il lignaggio di Enrico II e quello di Ildebrandino XIII intorno al1360. In quel periodo i vari esponenti Aldobrandeschi sembrano infatti dotarsi di‘basi militari’ adatte alla guerriglia urbana tentando di sostenere i propri diritti conla forza. La costruzione delle fortificazioni dei palazzi potrebbe inoltre segnare lacomparsa di una distrettualizzazione interna all’insediamento che, forse nata pergestire i proventi signorili, serve adesso a organizzare le fazioni che appoggiano l’unoo l’altro conte. A testimonianza di ciò il cronista senese Paolo di Tommaso Montauriricorda come Ildebrandino XV abbia incendiato 30 case di Santa Fiora per ritorsione

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contro Guidarello di Conticino, un membro collaterale della famiglia che diventaverso la fine del Trecento il capo del partito aldobrandesco più vicino ai senesi99.

Il palazzo del conte Giovanni

I resti materiali dei palazzi aldobrandeschi di metà Trecento sono purtroppo moltoesigui, tanto da non consentire alcuna ricostruzione (nemmeno planimetrica) dellestrutture100. L’assoluta maggioranza dei dati su di essi proviene infatti dalle fontiscritte che spesso consentono però di individuare solo la localizzazione degli edifici.In particolare i palazzi dei conti Francesco101 e Ildebrandino XV (già di Enrico II)erano situati nell’area dell’insediamento dove fin dal XIII secolo si era concentratala maggioranza dei beni comitali: sulla piazza di castello. Dei due edifici non èsopravvissuto niente di rilevante dopo l’ampliamento del cassero all’epoca delladominazione senese e la successiva costruzione del palazzo Sforza Cesarini nelCinquecento. L’unico lacerto di muratura attribuibile alle strutture dei palazzi ècostituito forse dalla USM 271 del cassero, utilizzata nel 138-85 come basedell’antiporto della fortezza. Sia tipologicamente che per i caratteri mensiocronologiciil campione presenta infatti qualche analogia con le murature del palazzo del conteGiovanni e dovrebbe essere appartenuto al palazzo del conte Francesco102.Nell’impossibilità di apprezzare pienamente la portata dell’inserimento dei ‘palazziforti’ sulla piazza maggiore, un’idea della consistenza di questo tipo di strutturepuò essere cercata unicamente in ciò che resta del palazzo del conte Giovanni; uncomplesso architettonico piuttosto consistente provvisto di un’area residenziale(palatium) e di uno spazio aperto fortificato, menzionato per la prima volta nella cartainventario del 1381(?)103.

Questo palazzo sembra esser stato l’unico (dei quattro attestati) localizzato al di fuoridell’area sommitale dell’insediamento e in prossimità della porticciola di accesso alBorgo. L’edificio ormai in rovina si presentava alla fine del Trecento come una casafortificata urbana prospiciente una piazza, situata presso le mura castrensi e dotatadi un ‘giardino’ ricavato probabilmente nell’antica ‘zona di rispetto’ interna alla cintadi Castello104. Più ancora che la casa “a la Ripa” di Ildebrandino XV però il palazzodel conte Giovanni riesce a influenzare il tessuto urbano circostante, sia per ledimensioni del complesso, sia soprattutto perché esso oblitera le strutture preesistentidi una porta del circuito murario di XII secolo che venne così a scomparire.Nel 1382 il palazzo del conte Giovanni venne infine smembrato e raso al suolo daisenesi, a un’altezza di 3 braccia105, più o meno corrispondente al livello a cui sonotagliate le USM 2 e 5 (della Pieve attuale106). Le murature attribuibili con maggiorsicurezza alla redazione degli anni ’60 sono però quelle delle USM 36, 50 e 56 (dellaPieve), tutte provenienti dalla cinta fortificata del ‘confesso’, che circoscrivono un’area

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di circa 800 mq107 (pari quasi alla metà di quella occupata dal cassero). Per le suedimensioni è quindi probabile che il palazzo del conte Giovanni sia stato il più grandedei quattro, è infatti poco verosimile che gli altri ‘palazzi forti’ ubicati presso la piazzadi castello abbiano potuto raggiungere analoga estensione.

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Figura 9: area occupata dal palazzodel conte Giovanni

5. Il tardo Trecento (1360 - 1381)Verso gli anni ’60 delTrecento si colloca unaprima cesura politica nelcontrollo comitale di SantaFiora relativa a una pocodocumentata occupazionesenese del castello. A tale proposito i cronistisenesi si dimostrano piuttostoimprecisi, confondendo glieventi di questa primaoccupazione con quelli dellaconquista senese degli anni1381- 1385. Sussistono comunque provesufficienti a sostenere che

questa prima occupazione ebbe effettivamente luogo, anche se sulla base ditestimonianze indirette e non propriamente documentarie108. Si dovette comunquetrattare di un’operazione politico-militare di portata di gran lunga inferiore a quellache avrebbe condotto Santa Fiora sotto il governo del Comune di Siena da lì ad unventennio. Alcuni fattori depongono infatti a favore di questa ipotesi: in primo luogoper gli anni ’60 si ha notizia di membri della famiglia comitale residenti in Santa Fioradurante la dominazione, in secondo luogo i cronisti senesi non hanno conservato cheun confuso ricordo di questo evento di grande rilevanza politica, in terzo luogo nonc’è segno di questa occupazione in alcune fonti senesi che avrebbero dovuto di norma

Figura 10: planimetria anni ‘60 sec. XIV

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registrarla (Biccherna e carteggio del Concistoro). In sottordine si potrebbecomunque ipotizzare che, all’epoca della prima occupazione, Siena non volle o nonpoté raggiungere il grado di dominazione che riuscì invece ad imporre ai santafioresitra 1381 e 1385, epoca durante la quale il governo senese spese ingenti quantità didenaro e di energie umane per integrare a pieno titolo il castello amiatino nel sistemadi potere (ma anche in quello amministrativo) del proprio contado.Per l’epoca immediatamente successiva a questa prima occupazione si ha invecenotizia, benché piuttosto laconicamente, di una rinnovata attività edilizia nelcomplesso della Roccaccia. Nel 1365 infatti, in una lettera al Concistoro, il conteSenese di Stefano I annuncia al Comune di Siena la conclusione dei lavori difortificazione della rocca di Santa Fiora da lui intrapresi; e in questa occasione lasporadicità dell’attestazione documentaria potrebbe forse nascondere una faseabbastanza importante nella storia di questo manufatto architettonico109.I dati materiali relativi a questa terza fase farebbero ipotizzare una ripresa dei lavorinell’area del palazzo A, concernenti un suo probabile ampliamento sul latooccidentale e l’aggiunta di un ulteriore piano. In questo senso sarebbero da leggereinfatti le USM 59 e 60 che ne segnano sul prospetto N della torre maestra i livelli dicopertura ad una quota di circa 3 metri più in alto rispetto a quelli del punto massimodel tetto USM 65 relativo a un secolo prima. Mentre sul versante ovest della torreB i livelli corrispondenti sembrano ancora coincidere con le tracce del tetto USM8, benché non sia chiara la relazione tra questo tetto e quello con pendenza diversaUSM 10110.Il dato principale sembra comunque quello di un ampliamento del palazzo vecchiodel cassero, sia per la soprelevazione di un piano che per l’avanzamento del muroovest quantomeno fino al filo della torre B, con la riduzione dello spazio del cortileinterno così come era stato delineato nella sua prima redazione. Sebbene taleampliamento potrebbe in realtà essersi limitato alla realizzazione di una loggia apertaa tre livelli, dal piano terra al secondo piano, così da permettere l’utilizzazione delleaperture USM 287 e 275, oltre a garantire la praticabilità dell’accesso USM 297 chefin dalla costruzione del palazzo A pare caratterizzarsi come ingresso principale delcomplesso. Un ulteriore ampliamento è comunque realizzato anche verso nord, dovela nuova facciata (v. Figura 16) fornita di almeno quattro ampie finestre sestiacute(USM 247, 248, 268 e 269) si imposta più o meno sul filo interno dell’antico murodi cinta111. Alla stessa fase pare inoltre risalire l’apertura (o la sostituzione) della portadi accesso al cassero sul lato sud112, in corrispondenza del lato meridionaledell’ambiente D. Attualmente il soffitto di questo ambiente non consente di osservarenella sua completezza questo vano di accesso provvisto di un grande portale,l’architrave del quale si apre al livello del non visitabile primo piano, affiancatosulla sinistra da una feritoia per l’avvistamento e l’estrema difesa della porta. Sia laporta che la finestra sono state inserite con un taglio nella muratura del ridottofortificato delimitato su questo fianco del cassero dalle torri F e G.

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6. L’epoca della dominazione senese del 1381 - 1385

Con l’avvento del governosenese degli anni 1381-1385il cassero diviene il centro diuna intensa attività ediliziache ne amplia l’estensione ene sviluppa i dispositivitattici.

Fase IV. 1Il primo intervento delnuovo regime consistenell’ampliamento del fossatodifensivo che si snodavaalmeno sui lati Sud ed estdella cinta della cittadella113

e parte del quale è tuttora identificabile nel vano seminterrato H. Contestualmente siprocede alla costruzione di un antiporto fortificato114, un barbacane, che ospitaval’entrata principale del cassero e attraverso il quale, con un ponte levatoio gettato sulfossato, si aveva accesso alla porta vecchia del cassero, ubicata nell’ambiente D.Questo barbacane è ancora oggi conservato nell’ambiente I, con il grande portalesenese (USM 273) affiancato in basso dalla feritoia USM 284 (un’altra è andataprobabilmente perduta nell’apertura della finestra quadrata USM 276), mentre ilponte levatoio di accesso al corpo della rocca è stato sostituito con una volta a botteche costituisce l’attuale copertura del vano H.Nel frattempo si fortifica anche la porta detta “del soccorso”, con la costruzione diuna torre congiunta al palazzo, forse dal muro di cinta115. Queste strutture si trovavano probabilmente nell’area attualmente occupata da viadella Roccaccia, in vicinanza della porta urbica che dava accesso alle fonti di castelloe non ne resta traccia116, così come del resto delle fortificazioni poste sul latooccidentale della cittadella. Nel corso della laboriosa estate del 1382 si procede anche all’innalzamento della torreF (USM 208) che viene dotata di un piano interno provvisto di feritoie su tutti i lati117,e viene più tardi coronata da un ballatoio merlato (USM 206)118. Questa torre vienerealizzata aperta verso l’interno, con l’intento di impedirne l’utilizzo in offesa da partedi un eventuale assalitore, e provvista di un passaggio aereo (corritoio) che lacongiungesse alle nuove fortificazioni della porta D ed al palazzo119. Purtropponon è possibile osservare la struttura originaria della torre F (USM 204) sul latointerno al cassero per chiarire se la soluzione adottata dai senesi fosse innovativaoppure in continuità rispetto a quella messa in opera alla metà del Duecento. Con

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Figura 11: planimetria 1381-1385

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tutta probabilità si rialza contestualmente anche la torre G, se è lecito identificarecon essa “la torre sul muro che arriva a la porta maestra”120.Per quanto riguarda l’area del palazzo esso viene ulteriormente rialzato, raggiungendola quota delle coperture USM 53, 1 e 2, e viene messo in comunicazione con la torreall’altezza del secondo piano (USM 13, 14, 15 e 16) mediante l’apertura della portaUSM 66121. Dopo i lavori al palazzo si torna nuovamente a fortificare la linea difensiva più esternamediante una cintura di merli che arriva probabilmente a perimetrare l’intera areafortificata, in particolare il lato delle mura esposto verso la piazza (USM 220, 281)122,dove nel frattempo era stato selciato il fossato. Contemporaneamente si procede a fortificare la porta maestra (I) e a realizzare unacisterna per dare maggiore autonomia alla cittadella all’interno dell’ambiente E123.Con la fine di luglio del 1382 il cantiere pare avviarsi alla conclusione dei lavori el’attenzione dei governanti si concentra soprattutto nell’approvvigionamento di armie vettovaglie.124

Fase IV. 2La fase IV. 2 è caratterizzata da una intensa ripresa dei lavori attorno al cassero inseguito al crollo di parte delle strutture realizzate nella prima metà del 1382 a causadi uno smottamento del terreno su cui il complesso era stato fondato125. A questaseconda fase si riferiscono propriamente le murature evidenziate nella planimetriacon un retino ‘a mattoni’ a 45°, a eccezione del perimetro del barbacane I che venneforse costruito immediatamente all’indomani della conquista senese ma fu seriamentedanneggiato (per questo motivo si è ritenuto opportuno utilizzare la stessaretinatura)126.Il nuovo cantiere che, quasi senza soluzione di continuità, resta operativo fino al 1385si occupa principalmente della messa in sicurezza delle strutture restaurate, senzaintraprendere la fondazione di corpi di fabbrica del tutto nuovi. L’esito più evidentedi questo secondo periodo di attività fu quello di costruire attorno a tutto il perimetrodella fortezza dei muri a scarpa (nelle fonti “muri taglienti”) per assorbire le spintedelle strutture sollecitate dallo smottamento del suolo.Dalle testimonianze sopravvissute pare di capire che i lavori ebbero inizio sul fiancosettentrionale127, in corrispondenza delle attuali USM 256 e 260, mentre per la scarpanord-est (USM 250) fu probabilmente necessario un intervento di ripristino in seguitoad un ulteriore crollo, come mostra chiaramente la relazione stratigrafica di questomuro con USM 259, oltre alla tessitura muraria caratterizzata da una cospicuapresenza di laterizi, non altrimenti attestata nelle scarpate del cassero. Al pari diquesto lato fu anche “barbacanato” il fossato con l’edificazione della scarpa lungotutto il lato N dell’ambiente H, che si collega alla scarpa della torre F (USM 203), asua volta continuata in una scarpa oggi scomparsa appoggiata al muro est degliambienti C - E, di cui resta unico testimone il cordone in pietra USM 231.

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7. Tavole della stratigrafia

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Figura 12: schematizzazzione degli apprestamenti del cassero di Santa Fiora alla fine del XIV secolo

Figura 16: eidotipo stratigrafico prospetto ovest palazzo

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Figura 13: eidotipo stratigraficoprospetto ovest torre B

Figura 14: eidotipostratigrafico prospettonord torre B

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Figura 15: eidotipo stratigrafico prospetto est cassero

Figura 17: eidotipo stratigrafico prospetto nord palazzo

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8. Bibliografia(abbreviazioni delle fonti scritte inedite)ASS = Archivio di Stato di Siena;ASS, C = Archivio di Stato di Siena, Lettere al Concistoro;ASS, DPRSM= Archivio di Stato di Siena, Diplomatico, Patrimonio Resti Ecclesiastici, San Michele diSanta Fiora;BCS, MS A III= Biblioteca Comunale di Siena degli Intronati, ms. A III 21, c.224v-225v, sec. XVIII;

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Note:1 Può essere magari discutibile, ma è ‘storicamente’ significativo, ad esempio, che il solo IstitutoUniversitario Europeo _ quello di Fiesole _ abbia scelto di centrare il suo interesse alla scienza storica apartire appunto dalla fine del medioevo, non prima.2 È da anni oggetto di un progetto archeologico che affronta lo studio della feudalità di montagna, fraincastellamento e decastellamento, attraverso analisi territoriale e scavo di siti campione (Poggio dellaregina e Roccaricciarda). Cfr. VANNINI (a c.) 2001.3 Indagini sono in corso sui caratteri dell’incastellamento in alta Val di Nievole, con l’area archeologicadi Monsummano Alto come ‘osservatorio’ stratigrafico (nell’ambito delle attività promosse dal localeMuseo Civico). 4 Obbiettivo specifico del gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, nell’ambito del Progettointernazionale promosso dal CNRS francese e coordinato da Philippe Pergola (‘Mariana et la basse valléedu Golo de l’Age du Fer à la fin du Moyen Age’), è lo studio archeologico del sistema di incastellamentoe della rete delle pievi attraverso analisi stratigrafica delle emergenze strutturali e del territorio considerato. 5 Analisi archeologica ‘globale’ del castello di Amantea e del suo territorio nel lungo periodo (fra le fasiaraba ed aragonese (cfr. TONGHINI et al. 1997). 6 Oggetto d’indagini archeologiche è da tempo il sistema di insediamento e di incastellamento che, daparte dell’aristocrazia feudale europea, in particolare ha caratterizzato il sec. XII nella regione, con pernoche è stato possibile riconoscere nella valle di Petra (cfr. VANNINI 1997). 7 TOUBERT 1980.8 Riprendendo un’acuta definizione riferita ad uno dei caratteri propri dell’archeologia medievale recenteda DELOGU 1994 (pp. 248-250). 9 Come ad esempio quelli condotti da tempo in altre parte della Toscana centromeridionale, con risultatiscientifici esemplari, e programmati per aree contigue e in parte coincidenti, da parte della Cattedra diArcheologia Medievale dell’Università di Siena, tenuta da Riccardo Francovich. 10 Uno dei modi possibili - a volte dei migliori - di fare storia (e l’archeologia storica pretende proprioquesto) può consistere anche nello studiare, come dire, casa propria: e questo è in fondo il motivo per cuiabitualmente l’insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze incoraggia, ad esempio,tesi di ricerca, di Specializzazione o Dottorati dedicate dagli allievi alla loro terra; fra l’altro con opportunitàdi inserimento in loco di professionalità aggiornate in settori specifici e di potenziale collegamento direaltà locali con centri di ricerca avanzata le cui ricadute possono trovare spazio ed offrire occasioni siaa programmi di gestione e valorizzazione territoriale di beni culturali che di formazione di personalespecializzato in primo luogo, appunto, per la gioventù locale.11 La ricerca interessa i centri incastellati del monte Amiata in cui sono localizzate le maggiori testimonianzedell’architettura medievale in trachite locale (Arcidosso, Casteldelpiano, Montelaterone, Montegiovi,Santa Fiora, Pian Castagnaio, Abbadia San Salvatore e Vivo d’Orcia) e consentirà una comparazione trai modelli di sviluppo urbanistico dei castra maggiori e tra i vari tipi edilizi attestati. In questo ambitosarà possibile valutare gli insediamenti amiatini non solo e non tanto come centri demici isolati ma piuttostocome rete insediativa inserita in (e gestita da) una stessa dominazione territoriale (prima la conteaaldobrandesca e poi il contado senese) in grado di mobilitare e movimentare per i propri fini (strategici,insediativi o simbolici) gruppi di maestranze edili più o meno specializzate. Il progetto si propone quindidi documentare attraverso l’analisi archeologica dei resti murari di epoca medievale la dialettica socialetra i “domini” e i loro interlocutori locali (comunità castrensi e organizzazioni di mestiere) sottesa allosviluppo urbanistico dei maggiori centri demici e di potere dell’area propriamente montana. 12 Il programma si colloca nel quadro della stessa ricerca cui si riferiscono le indagini citate sopra e condotto

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dall’Insegnamento di Archeologia Medievale dell’Università di Firenze quale ‘Progetto strategico d’Ateneo’(‘La società feudale mediterranea. Profili archeologici’). 13 Dipartimento di Studi Storici e Geografici dell’Università di Firenze.14 Attività promosse e dirette dall’Università di Firenze (tesi di ricerca, di specializzazione, dottorato,programmi finanziati per ‘giovani ricercatori’, etc.) anche in collaborazione con il CNR (ITABC di Romae Centro Opere d’Arte di Firenze), ad esempio con l’inserimento del progetto ‘Produzione edilizia egestione del potere nell’Amiata bassomedievale’ nei programmi previsti per ‘Agenzia 2001’. 15 Cfr. in particolare quello della Comunità Montana Amiata I 1 (versante grossetano), con cui è stataavviata ormai da più di un anno una stretta collaborazione.16 Relativamente a Santa Fiora si può menzionare anche lo scavo stratigrafico della chiesa dellaMadonna delle Nevi, realizzato da un’équipe dell’Università di Firenze in collaborazione conl’Amministrazione comunale di Santa Fiora e di concerto con la Soprintendenza ArcheologicaToscana e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Ambientali delle province di Siena e Grosseto,nell’ambito della realizzazione delle strutture per il progetto ‘Museo dell’acqua’ (la comunicazione deirisultati dello scavo è prevista a breve termine).17 Una presentazione e una prima discussione dei risultati raggiunti dalle indagini svolte fra il 1999 e laprimavera del 2001 è stata oggetto del seminario Archeologia dell’edilizia medievale come fonte storica(Santa Fiora - Palazzo Sforza Cesarini - luglio 2001), coordinato da Guido Vannini nell’ambito delle attivitàdel Dottorato in Archeologia Medievale (diretto dai proff. Fabio Redi - Università dell’Aquila; Paolo Peduto- Università di Salerno; Silvia Lusuardi Siena - Università ‘Cattolica’ di Milano; Guido Vannini - Universitàdi Firenze; Gabriella Maetzke - Università della Tuscia), nell’intervento di Michele Nucciotti (‘Il modellomensiocronologico delle murature medievali di S. Fiora’) e nel corso dell’intero stage.18 Per quanto riguarda il versante senese sono state attualmente compiute ricognizioni con schedatureparziali a Vivo D’Orcia (Eremo del Vivo ed Ermicciolo), Abbadia San Salvatore (completamentodell’analisi delle chiese di San Leonardo e Santa Croce e ricognizione completa del centro storico) ePian Castagnaio (ricognizione completa del centro storico).19 Una definizione proposta, sia pure per un’altra area ed in condizioni peculiari, in SETTIA 1984. 20 Si vedano, ad esempio, gli esiti sull’interpretazione delle condizioni e delle vicende dell’occupazionesenese di S. Fiora, in seguito alla scoperta (NUCCIOTTI 1998) di un cospicuo carteggio tra gli ufficialisenesi a Santa Fiora e il Concistoro datato dal 1381 al 1385, effettuata nel fondo Lettere al Concistorodell’Archivio di Stato di Siena (cfr. infra). Si tratta di una fonte scritta straordinariamente dettagliata eautorevole che, unitamente alle notevoli potenzialità dimostrate dalla documentazione materiale, puòrendere il caso di S. Fiora bassomedievale un vero modello metodologico (NUCCIOTTI 2001). Si vedainfatti ad esempio il caso della torre F in cui la comparazione tra la fonte scritta e l’analisi mensiocronologicadei paramenti murari ha permesso di datare con precisione l’edificio raso al suolo per riutilizzarne ilpietrame nell’innalzamento di epoca senese (USM 208) di questo bastione angolare del cassero tardomedievale. 21 Sarà interessante anche confrontare le condizioni materiali e le circostanze storiche con il quadro chesta emergendo da un’altra ricerca condotta sempre nell’ambito dello stesso programma di letturearcheologiche sulla società rurale bassomedievale, il caso del Castiglione della Corte (Poggio della Regina)e del suo territorio di riferimento, la Curia del Castiglione (cfr. VANNINI a c. 2001). 22 Notevole è, in questo caso, la ricostruzione, ‘in negativo’ delle condizioni di quello che è destinato, dilì a non molti decenni, a diventare un vero e proprio spazio urbano, infine con caratteri anche monumentali;una ricostruzione che - significativa anche da un punto di vista di verifica di una metodologia che tendea risolvere in categorie storiche la lettura archeologica della documentazione ‘del costruito’ (e non quindi

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fine a se stessa, come spesso accade per certe analisi risolte in letture ‘tecniche’, magari anche sofisticate)- trova precisi riscontri con quanto archeologicamente già osservato in scavi condotti in questi anni (es.CABOANA et al. 1982 e 1984 su Filattiera): una forma d’origine d’incastellamento basato proprio su diun sistema costituito da una torre centrale o eccentrica, reale appoggio difensivo, circondato da un ampiomuro di limite con interposto uno spazio aperto utilizzabile per ricetto in emergenza. 23 KURZE 1974, Id. 1982, BARBIERI REDON 1989, MECHINI REDON 1994.24 CIACCI 1934, GINATEMPO 1988, VICARELLI 1991, REDON 1994.25 FUMI 1884.26 Da me effettuata durante le ricerche per la tesi di laurea nel fondo “Lettere al Concistoro”dell’Archivio di Stato di Siena (cfr. NUCCIOTTI 1998).27 ASS, Diplomatico, Riformagioni a. 1381 ott. 27.28 Per il calcolo dei coefficienti di conversione si veda: GINATEMPO 1989, pp. 218 n7; in cui siipotizza come “in relazione alla vitalità demografica dell’Amiata (risulti opportuno adottare, per gli“uomini di guardia”) saggi di conversione relativamente alti; 3,5 (è da considerare come unminimum)”. 1025 -1120 individui sono un numero ragguardevole, specialmente in un’epoca che avevavisto da quasi mezzo secolo la comparsa delle micidiali epidemie di peste. Una diretta conferma diquesta stima viene inoltre anche da una lettera del vicario senese (ASS, C, 1804, 52, a. 1382 Mag. 14)dove, in risposta a chi lo accusava di permettere che i soldati di stanza al cassero molestassero le donnedel luogo, egli replica che “egli a qui forse 700 femine”, confermando (e anzi innalzando) il numero diabitanti stimabili per il castello. Lo stesso capitano senese Angelo di Guido appena entrato a SantaFiora nel 1381 la definisce inoltre “la migliore terra di questo paese” (ASS, C. 1802, 81, a. 1381 set.16), riferendosi con tutta probabilità ai livelli di popolamento del castello confrontati con il restodell’Amiata.29 GINATEMPO 1989, pp. 235-237.30 Risale probabilmente alla stessa epoca anche il decastellamento e/o l’abbandono di molti castraricordati nella divisione della contea aldobrandesca del 1274. 31 CIACCI, II, p. 316, a. 1370 ott. 12.32 Nel 1292 il conte Bonifacio di Ildebrandino (XI) dona al convento agostiniano di S. Barbara 15 staiadi frumento da ricavare ex moliture nostrorum molendinorum posti lungo il corso del fosso Spigone,presso il mulino della pieve. ASS, DPRSM a. 1292 ago. 15. 33 Così si arguisce dall’inventario dei beni confiscati ai conti all’indomani della conquista senese: BCS,A III, c. 225r (a. 1381?). 34 ASS, C. 1809, 109 (1383 Lug. 29). In cui si scrive a proposito dell’unico mulino della terra di SantaFiora “e la maggiore soma che vi vada al mulino si ene uno staio di grano per volta”, idem. Lo staio senesecorrisponde a 22,7849 litri (REDON 1994, p. 7). Non è in realtà sicuro se si tratti della stessa misura inuso a Siena oppure di una misura diversa. 35 La notizia proviene da una lettera del vicario di Santa Fiora, che chiede per questo motivo al governosenese di far ritornare l’agostiniano frate Tomè per dar conforto agli ammalati. In ASS, C. 1809, 105 a.1383 lug. 27.36 ASS, C. 1810, 88.37 ASS, C. 1811, 72 a. 1383 nov. 8.38 Allo stesso periodo risale il tentativo del comune di Santa Fiora di riformare gli statuti comunaliriducendo la consistenza dei consigli (da 6 a 4 i Difensori e da 30 a 16 il consiglio generale) “[…] perche sonno meno homini che non si crede e perché sonno molto minuiti per la mortalità” (ASS, C. 1814,56 a. 1384 set. 15).

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39 Basti pensare che mentre si dispone di una decina di attestazioni del cassero lungo tutto il XIII secolo,nei quattro anni di governo senese si possono annoverare più di duecento testimonianze relative allasola fortezza.40 ASS. Diplomatico, Bichi Borghesi, a. 1144 (?) giu. 8. Edito in GHIGNOLI 1992 pp. 70- 72, n. 32.41 In COLLAVINI 1998, p. 242.42 La prima data è da considerarsi come un terminus post quem e si riferisce al giuramento di cittadinaticodegli Aldobrandeschi di Santa Fiora al Comune di Orvieto del 24 mar. a. 1251 (FUMI 1884, n.297, p.193), in cui le parti convengono nella chiesa di S. Leonardo, senza la menzione del palazzo. L’anno 1256indica invece la prima attestazione di questa struttura, per cui si veda COLLAVINI 1998, p. 454.43 ASS, Diplomatico, Riformagioni, a. 1274 dic. 11.44 Sezione di Archivio di Stato di Orvieto, Instrumentari n. 870, cc. 174v- 175v, a. 1285 giu. 19, citato inCOLLAVINI 1998, p. 513n. 45 La prima menzione in ASS, DPRSM, a. 1292 ago. 15.46 Si deduce che la dominazione doveva ancora essere in atto a quella data poiché nell’escatocollo diuna lettera della contessa Giovanna, moglie del conte Pietro, si legge: “[…] in Santafiore vostra, data adì II di marzo”, in ASS, C. 1774, 20 a. 1361/2 mar. 12.47 Ciò si deduce dal tenore di una lettera del conte Francesco in cui si legge: “[…] tanto ve dicho padrimiei (i Signori del Concistoro) ch’io ho facta si fatta fortezza in Sancta Fiora che de legiero (Guidarello)non poria né per me né per voi averne beffa […]” in ASS, C: 1775, 11, a. 1365 dic. 11.48 La collocazione della torre nel XII secolo è naturalmente da considerarsi ipotetica a causadell’assenza di dati di scavo, essa tuttavia sembrerebbe trovare maggiori giustificazioni sia sul pianodocumentario (Santa Fiora non è infatti menzionata come castrum prima del 1144), sia sul pianopolitico con lo sviluppo delle infrastrutture necessarie al governo della contea (opinione condivisaanche da Simone Collavini). D’altra parte l’unico manufatto analogo oggetto di uno scavo archeologico(torre Est del periodo A della Roccaccia di Selvena - cfr. BIANCHI G. et al. 1999) non ha restituitolivelli databili associati all’epoca di fondazione (comunicazione di Carlo Citter).49 Per una discussione approfondita dei tipi murari medievali di Santa Fiora vedi NUCCIOTTI 2000a.50 La particolare stratigrafia di questa struttura (B) rende difficile una piena comprensione della successionedei vari interventi. Seppure infatti sussistano pochi dubbi sulla sua posizione alla base della stratigrafiadel complesso architettonico, è invece difficile stabilire quale fu nelle varie epoche il ruolo specifico diquesta torre nell’avvicendarsi dei rifacimenti della rocca di Santa Fiora tra XII e XIV secolo. È cioèvirtualmente impossibile mettere in sequenza le varie unità stratigrafiche murarie (da ora: “USM”)esclusivamente per via stratigrafica, trattandosi nella maggioranza dei casi di tagli, quindi di USM negative,spesso senza relazione fisica diretta tra l’una e l’altra. È in particolare di difficile comprensione la sequenzadei numerosi piani pavimentali e la loro relazione con le tracce di copertura delle strutture palaziali acui la torre ha fatto da sostegno nel corso dei secoli. Nel complesso quindi per l’analisi di questa struttura e delle sue relazioni con il resto dell’area fortificatasi è dove possibile fatto affidamento sulla sequenza stratigrafica dei tagli; in secondo luogo si sono valutatele possibili relazioni intrinseche tra serie distinte di tagli e in ultima analisi ci si è valsi delle fonti scritte,nei casi in cui queste lo permettevano (cioè quasi esclusivamente per l’epoca della dominazione senesedegli anni 1381 - 1385). Nonostante questa prudente esegesi del manufatto architettonico non è statocomunque possibile chiarire tutti i dubbi sulla sequenza complessiva delle USM.51 Si è preferito distinguere il complesso architettonico del Cassero in ambienti (identificabili soprattuttodalle planimetrie del piano terra) piuttosto che in corpi di fabbrica poiché le vicende costruttive di questocomplesso rendono poco significativa la stratigrafia dei CF attuali.

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52 Tutti i riferimenti alle USM rinviano alle figure Figura 13-16.53 In questo caso tenderei ad escludere la ‘casualità’ di tale soluzione, che avrebbe comportato un erroreestremamente grossolano da parte delle maestranze. Vice versa la possibilità che si tratti di un segno legatoalle necessità del cantiere stesso mi pare più giustificabile anche alla luce di quanto accadevacontemporaneamente in altre aree della Toscana, dove sono stati rilevate tracce di “codici” dicomunicazione interni ai cantieri edili dei maggiori edifici religiosi. Per cui si veda in generale BIANCHI1997. Alcune similitudini possono inoltre essere riscontrate con edifici romanici pisani nell’alta Corsica(VANNINI G. DONATO E. NUCCIOTTI M. 2000).54 La localizzazione e (per quanto si può vedere) il tipo di accesso, concorrono ad avvicinare questatorre alla torre maestra del castello di Arcidosso. Dai risultati dell’analisi stratigrafica di quelcomplesso (luglio 2001) emergono infatti interessanti analogie riguardo a pianta, sviluppo elavorazione delle pietre tra le due torri che, considerate contestualmente alle differenze (dimensionedei conci, diversa realizzazione degli appoggi per i solai interni), sembrano individuare l’opera dimaestranze simili in entrambe i cantieri (impiantati forse a qualche anno di distanza l’uno dall’altro). 55 Periodo “B” (BIANCHI et al. 1999, p. 140).56 Realizzato per conto della Soprintendenza Archeologica Toscana da Michele Nucciotti nel 1998.57 Sezione di Archivio di Stato di Orvieto, Instrumentari n. 870, cc. 174v- 175v, a. 1285 giu. 19, citato inCOLLAVINI 1998, p. 513n.58 Si è considerato questo allineamento di buche pontaie più antico di USM 16 in quanto presenta glialloggiamenti per le travature del solaio tamponati, e quindi si suppone che USM 16 (che presenta invecebuche prive di tamponamento) sia la serie più tarda che abbia sostituito USM 13.59 Si è preferito relazionare questa serie alla stessa fase di USM 13, 21 e 23, perché la serie inferiore (USM35) taglia USM 45, che aveva tamponato USM 85, e si ha la sensazione che preventivamente allarealizzazione di questo solaio si resero necessarie operazioni di restauro che sono più in linea con l’azionedel cantiere senese di fase 4. D’altro canto non esistendo alcun punto di contatto tra le due seriel’attribuzione di una specifica fase a USM 35 non può che essere ipotetica.60 a. 1223, cfr. COLLAVINI 1998, p. 513n.61 ASS, Diplomatico, Riformagioni a. 1258 giu. 30, cit. in COLLAVINI 1998, p. 512n.62 a. 1262, cit. COLLAVINI 1998, p. 512n.63 ASS, Diplomatico, Riformagioni, a. 1274 dic. 11.64 Ma non si può escludere la presenza di una linea difensiva verso la piazza, demolita durante la fase II.65 Anche se la menzione nel XVII secolo di un’incisione della data 1332 “in una pietra posta vicinoalla porta del cassero dalla parte sinistra quando si esce” (BATTISTI f. 48v.), potrebbe testimoniareun’attività edilizia di un certo rilievo in un’ala non sopravvissuta della fortezza.66 VICARELLI 1991, p. 290. In particolare il Vicarelli fa confusione tra Senese e Guido III, probabilmentesulla scorta dei commentatori senesi Sigismondo Tizio e Paolo di Tommaso Montauri che sono piuttostoimprecisi sulle vicende aldobrandesche di fine Trecento.67 Roccastrada nel 1301, in ASS, Capitoli 2, f. 427v e ss..68 ASS, Diplomatico S. Salvatore, a. 1305 ott. 1.69 ASS, Capitoli 2, ff. 358- 358v (a. 1317 apr. 9); Capitoli 2, ff. 360v e ss. (1331 ott. 3); CIACCI, II, p.315 (a. 1360 ott. 12).70 ASS, Capitoli 3, ff. 124v- 125 (a. 1339 ott. 11); ibid. ff. 129- 129v (a. 1339 ott. 11).71 Nella divisione del 1274 il castello era stato assegnato a Ildebrandino XII ma tra il 1330 e il 1331viene sottomesso a Siena dai conti di Santa Fiora (ASS, Capitoli, 2, cc. 873-876v, a. 1330, set. 7; idem,cc. 436v- 437, a. 1331 ott. 30).

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72 Siena promette aiuto all’Abbazia di San Salvatore per difendere Monticello, Gravilona e Lamulas controi conti di Santa Fiora (ASS, Capitoli, 3 cc. 386- 387, a. 1303 set. 12). Nel 1347 i discendenti di Enrico IIvendono a Siena la loro parte del castello di Abbadia (ASS, Capitoli 3, cc. 240- 241, a. 1347 feb. 21).73 Marsiliana, Morrano e Scerpena sono citati nelle sottomissioni dei castelli dei conti a Siena nel 1339(ASS, Capitoli, 3, cc. 115- 129v, a. 1339 ott. 11- 17). A Pereta i conti di Santa Fiora sono invece attestatinel 1319- 1320 (ANTONELLI 1895 pp. 458).74 ASS, Capitoli, 2, cc. 427v- 432, a. 1301 ago. 4).75 REDON 1994, p. 147, a. 1304.76 REDON 1994, p. 149- 150, a. 1332.77 ASS, Capitoli, 3, cc. 115- 129v, a. 1339 ott. 11- 17.78 ASS, Capitoli, 3, cc. 234- 235, a. 1343 nov. 14.79 ASS, Capitoli, 3, cc. 240- 241, a. 1347/8 feb. 21.80 Il conte Stefano aveva sposato Francesca di Salomone Piccolomini e era stato nominato capitano diguerra della Repubblica di Siena. Dal matrimonio era nato il conte Senese rimasto orfano all’età di unanno per la morte del padre avvenuta il 3 dicembre 1346 (VICARELLI 1991, pp. 227- 228).81 CIACCI p. 315, a. 1358 apr. 6.82 Il comune di Siena rivendica un ottavo di Santa Fiora come erede del conte Andrea (ASS, Capitoli, 3,417- 417v, a. 1360 dic. 1).83 CIACCI p. 316, a. 1363 mag. 16.84 ASS, C. 1775, 11, a. 1365 dic. 12.85 ASS, Notarile Anticosimiano, 156, cc. 39v- 40, a. 1265/6 feb. 23.86 CIACCI p. 316, a. 1369.87 CIACCI p. 316, a. 1371- 1372.88 In primo luogo i discendenti di Bonifacio II di Ildebrandino XI (i conti Pietro e Giacomo), sembranoassumere atteggiamenti autonomi rispetto alla politica comitale aldobrandesca verso gli anni ‘30 delTrecento. Essi procedono infatti alla stipula di una pace separata con Siena a conclusione delle spedizioniamiatine di Guido Riccio da Fogliano (CIACCI, II, p. 312, a. 1332 apr. 10), e il conte Giacomo istituisceaddirittura il comune di Siena erede universale nel suo testamento del 1343 (ASS, Capitoli 3, cc. 234- 236,a. 1343 nov. 14). Prima della effettiva morte di questo conte la portata del lascito dovrebbe esser statacomunque leggermente ridotta, visto la continuità con cui i conti sono attestati nei decenni successivi,in alcuni dei castelli menzionati nel testamento. In ogni caso il comune senese diede formale corso allapratica di esecuzione del testamento per la devoluzione all’erario comunale delle rendite e dei beni ereditatidal conte Giacomo (CIACCI, II, p. 315, a. 1348 ott. 21). Un’analoga defezione si ripete da parte del conteAndrea di Enrico II il vecchio che, testando a favore del comune di Siena in data imprecisata, pone inessere le cause della prima occupazione senese di Santa Fiora verso il 1360, allorché la Repubblica pretesedi inviare gente armata nel castello in quanto erede per parte del conte Andrea dell’ottava parte di esso(CIACCI, II, p. 315, a. 1360 ott. 12). 89 VICARELLI 1991, pp. 289- 290. a. 1384- 1385.90 ASS, Capitoli 2, “Caleffo dell’Assunta”, ff. 360v-361, a. 1331 ott. 3.91 ASS, Diplomatico, Riformagioni, a. 1320 ago 20, e ancora almeno: ibid. a. 1330 ago. 20 e ibid. a.1330 ago. 21.92 ASS, Capitoli 3 “Caleffo Nero”, ff. 235 – 235 v, a. 1344 ott. 27.93 ASS, Notarile Antecosimiano, 156, cc. 39v- 40, a. 1366/7 feb. 23.94 ASS, DPRSM, a. 1345 ago. 15. L’atto è rogato “in platea ante confessum domus habitationis ipsorumdominorum comitum (Pietro I e Binduccio di Enrico II)”.

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95 Presupponendo che il palazzo di Enrico II sia stato ereditato dal suo primogenito Ildebrandino XV epossa quindi essere identificato con quello che quest’ultimo possedeva in piazza fino alla dominazionesenese (ASS, C. 1811, 66, a. 1383 ott. 20). 96 Come doveva essere anche il palazzo edificato da Enrico II. cfr. ASS, Capitoli 3, cc. 211v- 212v, a. 1345ago. 15, rogato “In castro Sancte Flore in platea ante confessus domus habitationis ipsorum dominorumcomitum (Binduccio ed Enrico IV)”. 97 Poiché le due strutture vengono identificate con i nomi degli ultimi possessori (Giovanni di GiovanniIII di Enrico II e Francesco di Binduccio di Enrico II) non è chiaro se la loro costruzione debba risalireall’epoca della generazione 21 o della 22.98 Di questo fatto è testimone la nomina di un procuratore da parte del conte Senese per trattare laconcordia con i nipoti di Enrico II, Ildebrandino XV e Francesco. ASS, Notarile Antecosimiano 156,cc. 39v.-40r. a. 1366/7 feb. 23.99 citato in VICARELLI 1991, p. 288n.100 Nuovi dati saranno però disponibili dopo la campagna di prospezioni geoelettriche sull’areadell’attuale piazza Garibaldi, progettata dall’Università di Firenze e dall’Istituto per le TecnologieApplicate ai Beni Culturali del CNR e prevista entro la fine del 2002.101 ASS, C. 1811, 72, a. 1383 nov. 8.102 Il vicario e capitano senese di Santa Fiora chiese infatti nel 1383 che l’Operaio del cassero “non facciaguastare più el palazo che fu del Conte Franceso infino che ‘l cassaro non è rifondato”103, perchè per lasua vicinanza era stato utilizzato come magazzino della foresteria dopo lo smottamento dell’ottobre1382 che aveva reso inutilizzabile buona parte del cassero: “per ciò che era ricetto di tutta la vostraforestaria, et quando ane rifondato el cassaro el può poi guastare [...]”, in: ASS, C. 1811, 72 n°241, a. 1383nov. 7.103 “[…] uno palazzo scharicho senza tetto o palcho el quale fu del chonte Giovanni chon uno giardinoe uno chonfesso posto nel chastello ne la contrada de la Porticciola dinanzi a la Piazza […]” (BCS, MSA III 21, f. 224v, a. 1381(?)).104 Prima della edificazione del Borgo negli anni ‘20 del Trecento tutta l’area immediatamente aridosso delle mura di castello (via della Ripa e via delle Mura) era libera da costruzioni. In seguito allacostruzione dell’ultimo Terzo di Santa Fiora invece si assiste a una ‘smilitarizzazione’ del tratto di muraprospicienti il Borgo, la cui area di rispetto viene utilizzata per la costruzione di case dotate di giardinodi proprietà dei conti.105 ASS, C. 1807, 56, a. 1382 nov. 2.106 NUCCIOTTI 2000, II, pp. 37 - 46.107 Considerando l’aula della pieve prima degli ampliamenti settecenteschi e lo spazio compreso all’internodel “confesso”.108 Due testimonianze provenienti dal carteggio del Concistoro concorrono ad avallare la conquista diSanta Fiora verso il 1360. La prima è coeva all’epoca della occupazione (o di poco posteriore), e si trattadella data topica di una lettera inviata dalla contessa Giovanna, moglie di Pietro di Enrico il vecchio, alConcistoro nel cui escatocollo si legge “Giovanna contessa del conte Pietro, in Santa Fiora vostra, dataa dì 2 di marzo (1362)”, in ASS, C. 1774, 20; la seconda è invece coeva alla seconda occupazione e si trattadi un apprezzamento del Capitano senese di Santa Fiora posto in appendice ad una sua lettera del 16settembre 1381 (ASS, C. 1802, 81 n. 300) in cui rivolgendosi ai Signori scrive: “Ricordiamvi con reverentiache Santa Fiore ene la migliore terra di questo paese et pertanto provedete che non v’esca de le maniche, se n’escisse, anco disertarebbe el vostro contado come fue facto altra volta”.109 Il tono della lettera lascia poco spazio a dubbi, specialmente per le parole che usa il conte: “[... ]Tanto

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ve dico Padri (i Signori del Concistoro) ch’io ho fatta sì facta fortezza in Santa Fiora che de legiero nonporia (Guidarello) per voi né per me averne beffa.” (ASS, C. 1775, 11). Un’affermazione di tale generesi giustifica solo a fronte di una consistente opera di fortificazione che probabilmente comprendeva anchezone di Santa Fiora all’esterno del cassero.110 L’unico indizio di cronologia relativa è dato dal fatto che i livelli superiori di questo “palazzo”mostrano segni di tetto (USM 1, 2 e forse USM 5) con andamento analogo a USM 10, ed essendo statiquesti ultimi edificati negli anni ‘80 del Trecento è probabile che ricalchino una situazione più tarda diquella del tetto USM 8 a due spioventi.111 Sulle motivazioni della realizzazione di una facciata non fortificata su questo fianco della cittadellanon ci sono elementi sufficienti per discutere. Stratigraficamente la situazione non presenta alcunmargine di dubbio con l’arco della finestra USM 248 coperto dalla cordonatura dello sperone USM256 pertinente alla fase senese degli anni ’80 del Trecento. La maggior sicurezza di questo lato rispettoa quello esposto ad est, verso la piazza, che era stato pesantemente fortificato già un secolo prima, eraprobabilmente dovuta ad una serie di altre strutture difensive oggi scomparse poste in vicinanza dellaporta urbica che dava accesso alle fonti pubbliche, localizzata grossomodo lungo il tracciatodell’attuale via Cesarini Sforza. Anche se in ogni caso bisogna considerare che il piano stradale attualedi via Roccaccia è di almeno 2- 3 metri più in alto rispetto al tracciato in uso anche solo fino ai primidel XX secolo113, e quindi le finestre più basse di questo prospetto si trovavano nel XIV secolo allaragguardevole quota di circa 10- 11 metri da terra.112 La diversa cronologia di questa porta rispetto alle altre di epoca aldobrandesca relative al cassero èdovuta sia ai segni di taglio della muratura per operarne l’inserimento, che all’assenza di finitura a bugnatorustico degli stipiti di questa, e anche di quelli della feritoia ad essa connessa, che ne spingerebbero ladatazione in seno al Trecento.113 ASS, C. 1802, 94, a. 1381 ott. 18.114 ASS; C. 1804, 18, a. 1382 apr. 23.115 ASS, C. 1804, 29, a. 1382 mag. 4.116 “[…]il detto luogo (la Rocca) aveva due entrate, una della parte di mezzogiorno e l’altra verso lescale che scendevano alla fonte” in BATTISTI, c. 47v.117 Quella relativa al prospetto E è stata utilizzata per alloggiare l’albero delle lancette dell’orologiopubblico (USM 205).118 ASS, C. 1804, 65, a. 1382 mag. 23.119 ASS, C. 1804, 65, a. 1382 mag. 23.120 ASS, C. 1805, 11, a. 1382 lug. 2.121 ASS, C. 1804, 63, a. 1382 mag. 28; 1805, 80 a. 1382 lug. 8.122 ASS, C. 1805, 11, a. 1382 lug. 2.123 ASS, C. 1805, 113, a. 1382 lug. 26.124 ASS, C. 1806, 27, a. 1382 ago. 11.125 ASS, C. 1807, 27a, a. 1382 ott. 10; v. anche NUCCIOTTI 1998 pp. 25 e ss.126 ASS, C. 1807, 52, a. 1382 ott. 31.127ASS, C. 1808, 9, a. 1382 dic. 9.

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Premessa

Pur rappresentando in questa sede delle “istituzioni” culturali santafioresei, mi fapiacere richiamare le mie origini mancianesi. Non posso infatti che sentirmiidealmente onorato dei richiami che in questa sede sono stati fatti alla pubblicazionedel Ciacci, mio compaesano, e alla ristampa cha anni fa, di quello studio, realizzòl’Amministrazione Comunale di Manciano, il cui assessore alla cultura era AlfioCavoli, mio insegnante delle scuole medie, di cui ho il piacere e l’onore di vantarel’amicizia nonché uno scambio reciproco di stima e di affetto. Fatta questa doverosatestimonianza, passo al tema assegnatomi, sottolineando subito che, parlando di“Aldobrandeschi e letteratura”, si rischi di ricordare in maniera quasi scontata, i versidanteschi. Ma questo sarebbe un approccio limitato, per quanto lusinghiero. In realtà,negli anni di lavoro culturale dedicato a Santa Fiora, in collaborazione con laConsultacultura e attraverso l’annuario Tracce…, abbiamo potuto constatare come iriferimenti letterari agli Aldobrandeschi siano abbastanza vari, seppure nonnumerosissimi (ma sicuramente c’è anche un difetto nostro di ricerca). L’idea, allora,è quella di riproporre alcune di queste fonti letterarie per indicare le coordinate diun possibile percorso in grado di mostrare come l’importanza e il ruolo degliAldobrandeschi di Santa Fiora possano essere attestati anche attraverso unasignificativa serie di citazioni letterarie.

La leggenda delle Sante Flora e Lucilla attribuita a san Pier Damiani

Una delle prime attestazioni letterarie di Santa Fiora sarebbe di San Pier Damiani acui è attribuita della Passio Sanctarum Virginum Flora et Lucilla1. San Pier Damiani,originario di Ravenna, nacque, da umile famiglia nel 1007 e fu discepolo di sanRomualdo (non dimentichiamo la frequentazione amiatina del santo fondatoredell’ordine Camaldolese, cui fu proposta la direzione dell’abbazia di San Salvatore)di cui scrisse l’agiografia. Nel 1035 si ritirò nel convento camaldolese di FonteAvellana per praticare una vita eremitica, ma nel 1057 papa Stefano IX lo nominò

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Lucio NiccolaiCoordinatore redazionale di Tracce….

Consultacultura di Santa Fiora

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cardinale e vescovo di Ostia. Fu quindi collaboratore di Gregorio VII (Ildebrandodi Soana) che lo utilizzò per mediare e risolvere i problemi delle chiese locali,specialmente in relazione alla lotta contro la simonia: compì, a questo scopo, numerosiviaggi a Milano (1059), a Cluny, Firenze (1063), Francoforte (1069), Montecassinoe Ravenna. Potrebbe essere stato ospite dell’Amiata durante questi viaggi e, secondoCorridori, il santo potrebbe aver conosciuto personalmente alcuni esponenti dellafamiglia Aldobrandeschi2. Già in vita godette della fama di Litteratus; è ritenuto uomo di grande cultura, buonpoeta e scrittore. Per questo stupisce un po’ (e pone legittimi dubbi e interrogativi)che la Passio delle sante Flora e Lucilla, databile intorno al 1050 (ma Pier Damianifu vescovo di Ostia, dove in origine si sarebbero trovati i corpi delle sante, dal 1057),sia scritta con “grande semplicità e rudezza”3. Nel Terzo capitolo, in ogni caso, si racconta la traslazione delle reliquie delle santesul Monte Amiata:

Per certo i loro corpi furono raccolti dai fedeli e sepolti con cristiana pietà alla periferiadella città di Ostia, dove riposarono per anni settecento ed oltre, certamente fino all’anno901.In quel tempo il religioso padre Giovanni, vescovo di Arezzo, cancelliere palatino, chiesee ricevette dal pontefice romano Benedetto III i corpi sacri delle sante Flora e Lucilla edel re Eugenio. Egli stesso curandosi di trasferire tramite la sua famiglia religiosamentequesti verso Arezzo, per non sopportare alcun impedimento da parte dei romani, ritornòper un’altra via. Ma volendo Dio divulgare i nomi e i meriti delle vergini per la sua e laloro gloria, ottenne che i familiari del vescovo fossero ospitati, con i santi corpi, in un certogiorno, fra il lago, di nome Disortium e la palude aretina4. Ma gli abitanti del luogo, anzi prima di tutto i padroni riconoscenti, e per la reverenzadel luogo e la religiosità della famiglia, chiesero ad essi, con insistenza le sacre reliquie,una certa parte, per volere di Dio.Per essere grati ai tanto grandi benefici di Dio, secondo i moniti apostolici, in onore diDio, della B.a Maria e delle SS. Flora e Lucilla, edificarono una basilica e la dedicaronoalle sante reliquie.Comandarono che anche il nome del castello (oppidum) e del suo principato fossedenominato dal nome della santa Flora, chiamandosi dapprima oppidum Amia, la terra,e Amiatae gli stessi conti. Pertanto i religiosi, allontanandosi da oppido sanctae Florae,proseguirono il viaggio iniziato e già si avvicinavano alla pianura di Arezzo quando ecco,per volere di Dio, la giumenta che trasportava i sacri corpi si rifiutava di proseguire oltrecon le esortazioni e con le sferzate5.

Abbiamo cercato di dimostrare, con altre ricerche e lavori pubblicati su Tracce…(ricordo in particolare l’intervento del Prof. Fatucchi), come in realtà tutta la storiadella traslazione contenga elementi dubbi e sia stata costruita probabilmente percristianizzare un precedente culto pagano e collegare il culto santafiorese a quelloaretino (dove già esisteva un cenobio benedettino, sede del vescovo-conte, dedicato

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alle sante). Lo stile, per altro, mal si concilierebbe con la fama di “letterato” di SanPier Diamiani, e fa sospettare, addirittura dell’autenticità del documento,settecentesco forse scritto a posteriori, caso mai su sollecitazione degli Sforza, cheeffettivamente ripresero e rilanciarono la devozione santafiorese, come ci attesta lostorico locale settecentesco, l’annalista padre Agostino Battisti.D’altra parte la leggenda della traslazione vuole giustificare un improbabile eindimostrabile trasformazione del nome del paese e della montagna che non èattestata da nessun documento storico.

La scuola siculo-toscana e Guittone d’Arezzo

Eppure la leggenda ha, tra le altre cose, il merito di richiamare i legami che, in uncerto periodo, devono esserci stati tra l’Amiata e Arezzo, di cui ci offre un’interessantetestimonianza Guittone, maestro indiscusso della scuola siculo-toscana. L’influenzadella letteratura siciliana, di cui il principale fulcro e fucina fu la corte dell’imperatoreFederico II, ebbe modo di diffondersi in Toscana, grazie alla frequentazione e airapporti che, intorno alla metà del Duecento, furono intrattenuti dai funzionariimperiali con questo territorio6. Federico II stesso si sarebbe intrattenuto ripetutamente in Maremma, a Grosseto,ospite del conte Guglielmo Aldobrandeschi tra il 1239 e il 1246,

sia perché amatissimo della caccia, ivi trovava di che saziare la sua passione venatoria, siaperché la fedele ospitalità del gran Tosco accresceva l’opportunità di quella temporaneasede, che era a metà strada tra la turbolenta e ribelle Lombardia e il sicuro rifugio delRegno e a poca distanza da Roma, dove il suo formidabile nemico tramava ai suoi danni.[...] All’avvicinarsi dell’inverno 1245-46, eccolo di nuovo scegliere Grosseto conl’intenzione di fermarvisi a lungo per godervi il mite clima, nella tranquillità chel’Aldobrandesco poteva garantirgli, mentre di lì meglio avrebbe potuto vigilare le mossedel Papa. Così per mano del suo segretario Pier della Vigna avverte del suo disegno il conteGuglielmo, inviandogli una lettera. [...] All’arrivo della lettera tutta la città si mette inmoto per i preparativi; il conte appronta il suo palazzo e Federico II, poco dopo, giunge.I giorni gli fuggono tra le cacce e i più svariati divertimenti, compreso lo svago della poesia,che rimatori d’ogni parte d’Italia convenuti alla sua corte liberale, coltivavano con amore7.

Ma, nello stesso tempo, le truppe imperiali, al comando di Pandoldo da Fasanella,si accampavano nella zona di Rocca Silvana per l’assedio di Sovana, che verràespugnata nel 1241. I rapporti tra Guittone e gli Aldobrandeschi di Santa Fiora sonotestimoniati esplicitamente da una canzone (si tratta della XVII).

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Ad Aldobrandino conte di Santa Fiore 8

Altra gioi non m’è gentened altr’amo de core,che ‘l pregio e lo valorede l’amorosa gente.Così coralementem’ha di lei preso amore,che non porea far fiorever me cosa spiacente;per che m’è più piacentelo mal, se mal me face,che lo ben non me piacede gente, ch’è nodritaen desorrata vitae vive al dispiacere d’onne valente.

Sor tutto amor, m’è gentede gioioso savorequello del meo segnore;ed è ciò giustamente,però ch’è veramented’alta bieltate fiore:per ch’eo n’ho tal dolzore,ca men obrio sovente,quando li tegno mente,ch’elli ha tutto verace,quanto a baron conface:tanto è dobla fornital’opera sua, compitade tutto ciò che vol pregio valente.

Perch’eo son lui sì gente,che me po ben tuttorefar parer l’amarored’assai dolze parvente;ma lo dolze neentepo far di tal sentore,ch’eo bon conoscidorenon sia d’el certamente.Tant’è dolce e piacente,ched en core ed en facesta sì che non se sfacegià mai, ni fa partita,la gioi, ch’aggio sentita

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de lui; sì fall’a me dolze e valente.

Conte di Santa Fiore,de voi parlo, signore,ché vo’ son maggiormente,ch’eo non dico, servente;e servir pur me piacese già merto non face; ma credo che la mia vitaserà anco grazitaper voi, Aldobrandin, conte valente9.

Secondo Massimo Seriacopi, la canzone ha una “chiara valenza morale” ed esalta lanobiltà d’animo “oltre che di stirpe, che, com’è nella natura del nome della sua casata,con il suo esempio spinge al fiorire delle virtù sociali, morali e civili”.Ciò che Guittone vuole mettere in evidenza, è il suo apprezzamento per il pregio eil valore delle persone in grado di sentire e trasmettere amore: termini chiave, questi,utilizzati, per la fede d’èlite della civiltà cortese. Ogni azione di chi porta il fiore divirtù sarà da preferirsi, dunque, a quella di chi viva in desorrata vita, in una condizioneesistenziale priva d’onore, contraria alla valentia e alla rectitudo cordis.Non c’è dubbio: il fiore in questione è veramente/ d’alta bieltate, vera pietra diparagone rispetto a “tutto ciò che vòl pregio valente”10.D’altra parte sembra che lo stesso conte di Santa Fiora fosse sensibile alla poesia eamasse dilettarsi nella scrittura. All’interno del codice della Biblioteca MediceaLaurenziana di Firenze segnato Rediano 911, che raccoglie materiali provenienti daGuittone d’Arezzo, si trova, alla c. 143 v, un sonetto introdotto dalla rubrica: “LoConte da S(an)c(t)a Fiore” dove il conte stesso si esercita in una composizione “siculo-toscana” (di matrice provenzale) di tema amoroso e di modulo guittoniano, inomaggio ed aemulatio con la produzione coeva di Guittone. Questo, tra l’altro,sembra dirimere i dubbi rispetto alla attribuzione, da parte di un codice Vaticano,ad un certo Ugo di Massa dello stesso sonetto.

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Lo Conte da S(an)c(t)a Fiore

In ogne membro un [i]spirito m’è nato,e in celato inamorato core;e sentome d’amor tutto infiamatoche un punto <sol> di carne no è fiore.

E lo sospiro meo quando lo fiatoeo sento ben ch’e’ va piangendo amore; amore me n’è tanto devisatopiù fra me che no è lo colore.

Amore è i(n) me tanto co(n)venutoch’ello ha fatto un[o] spero là und’è natoch’è sì stretto no(n) può partir sol[o] stando:

A poco a poco fuor va p(er) aiutogietando ne l’anghoscie che dentr’hae; così di morte campo argumentando.12

La lezione riportata dal Fatini, nel suo saggio sulla letteratura maremmana delleorigini, è un po’ diversa:

In ogni membro un spirito m’è natoIn ogni membro un spirito m’è nato,ed intelletto in ’namorato core,e sentome d’amor tutto inflamato,che un punto sol di carne non è fore;

e d’ogni parte Amor più divisiatointrao me, ca non fo lo color:ché lo spirito meo, quando lo fiato,eo sento ben che va piangendo amore.

Amore è in meve tanto combenuto,ched à fatto uno spero und’elio vae,ch’è sì stretto non pò partire stando:

a parte a parte for va per aiutoe gittando l’angoscia che dentr’àe:così di morte campo argumentando.

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Non sappiamo per quanto possa essersi protratta la corrispondenza “d’amorosi sensi”tra Ildebrandino degli Aldobrandeschi e lo scrittore aretino. Certo è che la battagliadi Monteaperti del 1260 implicò, per ambedue, una precisa e opposta, scelta dicampo. Il conte di Santa Fiora, come è noto, partecipò attivamente alla battaglia conle truppe ghibelline. La notte che precedette la battaglia, secondo il racconto di unantico cronista, ripreso da Misciattelli, verso mezzanotte, “gli uomini in armeaccampati fuori delle mura, videro un chiarore sopra Siena per modo che parevagiorno e che tutta la copriva a guisa di padiglione”13: era il manto luminoso dellaVergine che si disponeva a protezione della città. Così confortati i senesi, “il domani,alla prima luce dell’alba, fu gridato il bando «Ognuno s’armi col nome di Dio et dellavergine Maria, et ognuno si appresenti al suo Gonfaloniere». E per la Porta di SanViene uscirono gli uomini del Terzo di San Martino vestiti di rosso, e quelli del Terzodi città vestiti di verde, e quelli del Terzo di Camollia vestiti di bianco, e poi i cavalieritedeschi del conte Giordano, Farinata degli Uberti e Provenzano Salvani erano trai cavalieri senesi al comando del conte Aldobrandino. Per ultimo scese in campo ilCarroccio col gonfalone bianco, che ben dava conforto che pareva il manto diMaria”14.Da parte sua Guittone celebra tutta la sua delusione per la vittoria ghibellina nellafamosa canzone (la XIX) Ahi lasso, or è stagion de doler tanto, dove, tra gli altrisconfitti, cita il Conte Rosso, cugino di Ildebrandino e signore della Conteaaldobrandesca di Sovana:

Monete mante e gran gioi’ presentateai Conti a li Uberti e alli altri tutti,ch’a tanto grande onor v’hano condutti, che miso v’hano Sèna in potestate.

Pistoia e Colle e Volterra fanno oraguardar vostre castella a loro spese;e ’l conte Rosso ha Maremma e ’l paiese,Montalcin sta sigur senza le mura:

de Ripafratta temor ha e ’l pisano,e ’l perogin che ’l lago no li togliate;e Roma vol con voi far compagnia.Onor e segnoriaadunque par e che ben tutto abbiate: ciò che disiavate potete far, cioè re del toscano.

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… e vedrai Santafior com’è oscura… (Purgatorio, VI, 111).

Come è noto, le vicende politiche dell’Italia volsero rapidamente a sfavore deighibellini. In questo nuovo contesto gli Aldobrandeschi di Santa Fiora rimasero unodei principali centri di resistenza ghibellina in Toscana, mentre Siena si è normalizzataal nuovo corso e, da alleata, si trasforma in invadente nemico. La seconda metà delDuecento corrisponde, pertanto, ad una fase di decadenza e di declino territorialedella nobile casata (e più in generale dei “gentili”) di cui Dante ci offre un’autorevoletestimonianza:

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:color già tristi, e questi con sospetti!

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressurade’ tuoi gentili, e cura lor magagne;e vedrai Santafior com’è oscura!

Vieni a veder la tua Roma che piagne …

Come nota Seriacopi, nel VI canto, “dal v. 97 al v. 114 […] c’è tutta una successionedi esortazioni ad Alberto tedesco, uom sanza cura e crudel, perché venga a vedere inquali condizioni versi ‘l giardin de lo ‘mperio lasciato diserto. Ne vuole qualcheesempio? venga allora a vedere la pressura delle nobili casate che a lui afferisconocome imperatore, e curi le loro magagne: potrà così rendersi conto di come è diventataoscura15, cioè «trista, afflitta, piena di tribolazioni»16 la già fiorente contea, ora amal partito come universale conseguenza dei contrasti fraticidi che, per sete di unillecito potere, hanno frammentato il suolo italico in una serie di irresponsabili piccolidomini improntati al particolarismo e comunque insicuri”17.È interessante, tra l’altro, notare come Santa Fiora sia citata tra realtà-simbolo cosìdiversamente importanti come Verona, Orvieto e Roma. Nel canto XI del Purgatorio,ai vv. 49-72, viene invece presentata “una figura di primo piano che si offre comevalido spunto, con il valore esemplare suo e della sua famiglia tacciata di rovinosasuperbia”. Non cambia il contesto di decadenza che coinvolge gli Aldobrandeschi.

Io fui latino e nato d’un gran Tòsco:Gugliemo Aldobrandesco fu mio padre;non so se ‘l nome suo già mai fu vosco.

L’antico sangue e l’opere leggiadrede’ miei maggior mi fer sì arroganteche non pensando alla comune madre18

ogn’uom ebbi in dispetto tanta avantech’io ne morì’; come i Sanesi sanno,e sallo in Campagnatico ogne fante.

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Io sono Omberto; e non pur a me dannosuperbia fa, ché tutt’ i miei consortiha ella tratti seco nel malanno.

Commenta ancora Seriacopi: “impossibile per un uomo vissuto nel XIII secolo inToscana, non aver sentito parlare degli Aldobrandeschi, la fama dei quali era taleda aver fatto diventare detto popolare che possedevano “tante castella quanti dì hane l’anno”; e rinomate erano anche le antiche, nobili origini, e le opere leggiadre,cavalleresche, che qui vengono attribuite alla casata”19.

Ghino di Tacco “nimico de’ conti di Santafiore”

Non di meno la fama dei Conti di Santafiore si mantiene anche negli anni successivi,tanto e vero che, nella Novella II della Decima giornata, Boccaccio li richiamaesplicitamente: Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assaifamoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofanialla Chiesa di Roma, e in quel dimostrando, chiunque per le circustanti parti passavarubar faceva a’ suoi masnadieri. Ma il riferimento finisce qui e il contesto storico dellanovella rimanda comunque a circa un secolo prima, mentre sia Ghino di Tacco cheSanta Fiora sono già presenti nella Divina Commedia di cui, come è noto, Boccaccioè avido lettore, studioso e commentatore. Con Boccaccio si perdono i riferimentiletterari illustri, ma conviene comunque ripercorrere tre storie minori che hannoun sapore leggendario e ci rimandano ad un clima storico che, evidentemente,conservava un alone di fascino e di avventura quasi epici che, giustamente,costituiscono il substrato di un leggendario ancora fortemente radicato, comedimostra la storia di Giovagnolo sicario degli Aldobrandeschi, scritta, ormai agli inizidel Quattrocento, da Filippo Degli Agazzari. Ognuna di queste storie, ambientatenel corso del XIV secolo, ci narra di situazioni di violenza e di scontri estremi,testimoniando una fase di accanita difesa che vide protagonisti gli Aldobrandeschidi Santa Fiora.

Tre storie della storia di Santa Fiora20

Ghinozzo di Sassoforte21

La prima storia è tramandata da Muratori, Rerum italicarum scriptores. Tomo XV,pagg. 87-8 e riproposta da Gino Galletti, uno scrittore che pubblicò nel 1913 unlibro sulle tradizioni e le leggende di Santa Fiora e del Monte Amiata.

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Nel 1329 i Conti di Santa Fiora erano in guerra coi signori di Sassoforte, a capo dei qualiera Ghinozzo. Il pro’ guerriero cavalcò con sue genti nelle terre dei Conti, e il suo cavalloera un prodigio di destrezza e di intelligenza, ma non gli valse per vincere nella grancavalcata; ei fu preso dal capitano degli avversari e rinchiuso in una rocca, della quale nonsi conosce il nome, e con lui fu fatto prigione il cavallo. Or accadde che il capitano delPatrimonio dei Conti vide nella spianata della rocca il prodigioso cavallo ed ebbe vaghezzadi montarlo; ma per quanto lo tenesse imbrigliato forte e lo stringesse con le cosce e lopungesse con gli speroni, non riuscì a farlo obbedire e a renderlo docile nella corsa.Ghinozzo, che pure era ben sorvegliato, disse al capitano: _ Volete che io cavalchi?Mostrerovvi il modo del suo andare. _ Il capitano rispose: _ Tolle, et sàlivi. _ Così feceGhinozzo, in apparenza dimesso e volenteroso di assecondare il desiderio del capitano; e,prima di passo, poi di trotto, poi di galoppo, spinse il cavallo per la spianata della roccacon molto stupore del capitano, che credeva di vedersi dinanzi un altro Alessandro e unaltro Bucefalo. Senonché nella mente e nel cuore di Ghinozzo tumultuavano un pensieroarditissimo e un’ardente ansietà; e nel correre ei meditava che forse era venuto il momentodi cimentarsi per la propria salvezza, e con l’occhio vivido e penetrante spiava di qua edi là, come per osservare il punto adatto alla fuga. All’improvviso gridò: _ Chi mi vuolevenga a Sassoforte. _ E il cavallo, al tocco sapiente degli speroni, spiccò un salto dal rivellinodella rocca, fu sul barbacane, fu a terra, illesi cavallo e cavaliere. Questi ripunse con glisperoni i fianchi del corsiero, e via verso Sassoforte. Stupiti, attoniti, e ancora alquantosconvolti per essere stati giuocati dal furbo signore, il capitano e gli altri della rocca viderociò che parve loro impossibile meraviglia per la prodezza del cavallo e per l’animo diGhinozzo, che, con la sua rara bestia, aveva spiccato il salto all’altezza di venti braccia. Econtinuò, poi, la guerra fra il signore di Sassoforte e i Conti di Santa Fiora. Ghinozzo,co’ suoi, cavalcò sulle terre dei Conti a Magliano e Monteano, e v’ebbe battaglia e fu vinto.Tutti i suoi rimasero prigioni, egli col suo cavallo scampò; ma questa volta la rincorsa deiConti fu affannosa e implacabile a traverso vallate, pianori, erte montane e boschi e torrentie fiumi.Così fuggendo e scorrendo come una visione fantastica, Ghinozzo fu in quel di Siena,scorse la fortezza chiamata l’Accesa, che apparteneva al vescovo di Massa, la credette asilosicuro, e v’entrò. Ma i Conti presero tutti i passi intorno la fortezza e questa cinsero estrinsero d’assedio. Trascorsi più dì, Ghinozzo comprese che non poteva chiedere soccorsiné tentar fughe, e si diede ai Conti, che lo menarono con buona scorta a Santa Fiora, dovelo chiusero nelle prigioni. Quindi essi andarono a Sassoforte, ma gli abitanti di quella Terra,saputo prigioniero il loro signore, si arresero senza combattere, salve le persone e gli averi.Ignoriamo qual sorte sia toccata al cavallo prodigioso e fedele; di Ghinozzo sappiamo che,dopo breve tempo, morì in prigione di poco mangiare _ come scrive il cronista _ e noipossiamo ben dire che morisse di fame.

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Come i santafioresi ripresero il cassero e il castello22

La seconda storia, già nota e riferita anche da Pio II Piccolomini, è stata ricostruitada Giovan Battista Vicarelli sulla base di cronache d’epoca di Sigismondo Tizio, Paolodi Tommaso Montauri, Donato di Neri, Tommasi e Malavolti.

All’inizio del 1377, ci avvertono i cronisti, “le popolazioni dipendenti da Santa Fioraincominciarono a disgregarsi: alcuni propendevano per il conte Aldobrandino, altri invecevolevano un padrone senese”.Le diatribe ben presto si propagarono per la contea, gettando lo scompiglio nei casali,nel vicino centro di Castell’Azzara ed in quello di Scanzano, anche per l’incitamento e laspinta del conte Ildebrandino.Il fatto è che, conosciute a Siena le confusioni e le agitazioni popolari, fu dato ordine aBindo Certo, che presidiava con un ragguardevole contingente di truppe la rocca diContignano, di trasferirsi immediatamente a Santa Fiora, dove con lusinghe e blandizieriuscì a calmare gli animi alterati, e rinsaldare nel castello il nome di Siena. Non mancaronoperò aspri scontri ed urti tra la folla. L’abortita insurrezione, e specialmente il rapportoinviato al riguardo, persuasero il governo senese a dotare anche Santa Fiora di una buonae valida fortezza.“Allo scopo furono abbattute le abitazioni del conte di Santa Fiora, e sulle fondamentafu iniziata la costruzione di una nuova rocca”.Lo smacco subito dalla popolazione, Ildebrandino lo sentì come fatto a se stesso. Non siparla mai di lui nelle cronache, ma è facile comprendere che il popolo agiva dietro suoincitamento. Ora aveva un unico pensiero, quello di rifarsi dell’affronto sofferto.Incominciò subito a capeggiar scorribande in Maremma, a combinar guai dappertutto,depredando borghi e poderi, asportando bestiame e tutto ciò che capitava sotto mano.“El conte di Santa Fiore cavalcò la Maremma di Siena e menonne (ne trasportò) ottomila pecore, e questo fu a dì 24 gennaio passato”.Non ancora soddisfatto, attirò a fargli visita, come amico, un tedesco, messer Piero delVerde, che presidiava Colle Val d’Elsa. Quando arrivò presso di lui con tuttol’accompagnamento, lo fece spogliare di ogni suo avere e gettare in prigione, imponendouna taglia di cinquecento fiorini d’oro per il suo riscatto.Le molestie e i danni perpetrati con tanta insolenza infastidirono i senesi, già disgustatiper le pieghe che andavano prendendo alcuni affari.Ma la misura fu colma quando Ildebrandino, approfittando delle difficoltà cheopprimevano la Repubblica per l’avvento della Compagnia dei Brettoni, pensò disvincolarsi dal commissario senese residente in Santa Fiora. Non doveva essere affattoopprimente la presenza dell’incaricato di Siena: un fusaio, cioè un artigiano facitore erivenditore di fusi, che non ostentava né faceva sentire nessuna superiorità o arroganza;un uomo semplice, che stava volentieri in conversazione, uno che preferiva l’amicizia deipaesani alla compagnia monotona ed uniforme dei pochi militari del presidio.Non fu difficile ai fautori di Ildebrandino studiare il modo di gabbare il fusaio bonaccione,allontanarlo e reintegrare nella intera podestà legittima chi ne aveva diritto e ragione. Unamattina si dettero convegno in una casa vicino all’abitazione del commissario senese.

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Quando la polenta dolce fu quasi al punto giusto, incominciarono a chiamare a gran voce,amichevolmente, il Tignoso, un nomignolo che il fusaio Pietro si era attirato addosso,non saprei se per l’incomodo della malattia al cuoio capelluto o se, in senso metaforico,per la spilorceria o testardaggine, secondo l’accezione odierna. L’uomo non poté resistereagli inviti cortesi di tanta buona gente.Mentre stavano mangiando spensieratamente al crepitio della fiamma nel focolare, il poverofusaio si trovò legato e cacciato fuori dalle mura insieme a tutti i militari di difesa; sembrache allo scacciamento abbiano preso parte anche due frati del locale convento deglieremitani di Sant’Agostino, oltre ai sei massari, cioè ai capi incaricati del buonfunzionamento della comunità santafiorese.I cronisti del tempo, come i giornalisti d’oggi, si appropriarono immediatamente dellanotizia e la trasferirono nei loro scritti, chi in un modo, chi in un altro, senza badare troppoper il sottile all’epoca in cui si verificò il fatto.In alcune cronache infatti viene registrato all’anno 1379, in altre nel 1381, in altreaddirittura nel 1384. Probabilmente la confusione è da ascriversi alla massa di notizieche si accumularono e si frammischiarono con la pressione delle compagnie di venturanelle cronache senesi.Del resto anche nella tradizione popolare la notizia, dopo appena ottanta anni, aveva giàacquistato il sapore di leggenda. Quando papa Pio II (Silvio Enea Piccolomini, senese),ascoltando le preghiere ardenti di Guido Sforza, il primo dei conti Sforzeschi nella nuovadinastia di Santa Fiora, accondiscese nel 1462 a visitare la sua residenza, gli fu narratocome “una volta il comandante senese della rocca, invitato da certi amici che avevanoammazzato il maiale, fu sequestrato mentre si stava avviando all’appuntamento e costrettoad abbandonare la fortezza”.Io sono persuaso che l’impresa fu compiuta verso la fine del 1379 o al massimo all’iniziodel 1380, oltre che per l’esposizione continuativa circostanziata che ne offre il Tizio,soprattutto per l’atto di sottomissione che tutti gli abitanti di Santa Fiora dovettero fare,per mezzo dei loro rappresentanti, i massari, il 27 ottobre 1381, con un documento stesodallo stesso vicario di Siena, inviato dopo l’avvenuta pacificazione.La cacciata del rappresentante senese fu promossa, preparata e sostenuta indubbiamentedal conte Ildebrandino, definito da uno dei cronisti “da Castell’Azara”, il quale si introdussesubito nella rocca, in compagnia del conte Sanese. Ma non poté impedire che le abitazionigià occupate dalle guardie senesi fossero messe a sacco dalla popolazione, spogliandole ditutto ciò che contenevano. Lo farebbe intendere il risarcimento dei danni richiesto dalComune di Siena, tre o quattro anni dopo, quando il figlio del conte Sanese fece atto disudditanza alla Repubblica. “Il detto conte Guido sia tenuto a restituire o far restituiretutto il sale, il grano e il biado, le balestre e qualsiasi altra arma, le suppellettili e tutte lealtre cose appartenenti al Comune di Siena, che erano nel cassero, nel castello e nella terradi Santa Fiora, quando la terra, il castello ed il cassero furono occupati dal conteIldebrandino. E se alcune delle cose o delle masserizie elencate non si ritrovassero, [ilconte Guido] sia obbligato a restituire o far restituire il giusto valore di esse”.Appena gli estromessi giunsero a Siena, senza porre tempo in mezzo, fu dato l’incarico aPietro di Salomone Piccolomini che, con un buon numero di soldati a piedi e a cavallo,partisse al ricupero del castello.Qualche giorno dopo, infatti, di prima mattina, quando si aprirono le porte, i senesi

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sorpresero il conte Ildebrandino, che scendeva dalla rocca per soprintendere ai lavori incorso per munire la fortezza. Riuscì facile catturarlo e trasferirlo nelle prigioni di Batignano,dove in poco tempo miseramente finì i suoi giorni.

D’un mal uomo che morì disperato, el quale essendo sepolto in chiesa venivano i diavolie menavano grandissima tempesta (Assempro XXXIV)23

Il terzo racconto è di Filippo Degli Agazzari, un monaco agostiniano natoprobabilmente intorno al 1339 e morto nel 1422, che fu priore del convento di S.Agostino di Lecceto in Siena. I suoi racconti “nella bella e semplice lingua popolanasenese” mirano a correggere i contemporanei dei loro vizi dominanti (come il giocoe l’usura negli uomini; la vanità nelle donne) e non possono essere pienamenteinterpretati al di fuori del preciso contesto culturale e religioso nel quale furonoscritti: la presenza di Satana come rappresentazione del maligno e il manifestarsi diavvenimenti miracolosi, per i quali l’autore non mostra alcuna meraviglia, facevanoparte dell’immaginario collettivo e del quotidiano, oltreché della morale e dellaretorica religiosa ed introducono, come nota Misciattelli “nel mondo curioso dellecredenze popolari senesi, di quelle superstizioni elevate al grado di verità domesticheche sopravvivono ancor oggi, tramandate dai vecchi ...”Agazzari dice di aver appreso la storia da un monaco agostiniano che avrebbe fattoil suo noviziato nel convento di Santa Fiora e sarebbe stato testimone dei fatti.

E’24 Conti da Santa Fiore ebbero un lor Caporale el quale ebbe nome Giovagnuolo di Valdi Sieve. Questo Giovagnuolo di Sieve fu molto ardito e gagliardo de la persona, e sopra’l modo fu malizioso e vizioso e senza neuna concienzia. Costui fu pessimo traditore edisleale e fu ispiatato e crudele sopra ogni immaginazione diabolica, intanto che più sidilettava di uccidere gli uomini che molti le fiere selvatiche.25

Et acciò che i miseri che invecchiano ne’ mali dì e ne le mali notti, e mai non si voglionocorreggiare né amendare de la lor mala vita, possono vedere per esempio del sopra dettomisero, che gli uomini che sempre vivono male e mai non s’amendano, a la perfine tantocresce in loro la iniquità e la crudeltà che diventano consimili a le dimonia.Questo maledetto Giovagnuolo presso che al fine de la sua maledetta vita crebbe tanto nela superbia e ne la diabolica crudeltà, che avendo una volta e’ Conti briga con certi lorvicini et avendo presi de’ lor nemici ben cento prigioni pe’ quali si speravano d’aver pacee concordia co’ lor nemici, questo iniquo uomo e diabolico crebbe in tanta crudeltà esuperbia, che acciò che pace non si facesse et anco per isfamarsi de le carni degli uomini26,andò a’ Conti e con molte pregarie e con molte false parole tanto fece, che i Conti glidettero in guardia e’ sopra detti prigioni, avenga che mal volontieri però, che temevanode la sua crudeltà; ma perché egli l’era molto utile a la guerra loro, el sopportavano econdiscendevagli a ciò che voleva. Sicché avendo ricevuti in guardia e’ sopra detti prigioni, una mattina per tempo andò a’sopra detti prigioni et avisò un vecchiarello da meno che nessuno. E chiamollo in dispartee disseli: prende qual partito tu vuoe, cioè o vuoe ch’io ammazzi te con questa scure o vuoli

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ammazzare tutti costoro e camparotti. Allora al misero vecchiarello gli entrò el diavoloaddosso, et elesse più tosto per campare la morte corporale dare l’anima al diavolo etammazzare tutti coloro.Allora quel maladetto Giovagnuolo a uno a uno co’ le mani legate dietro gli menava dinanzia questo diabolico vecchiarello in un’altra casa da lato. E così a uno a uno quel maladettovecchiarello tutti li ammazzò. E fatto questo, Giovagnuolo prese quella medesima scureet anco amazzò quel maladetto vecchiarello e così se ne andò a casa del Diavolo l’animasua. E questa crudeltà fu poi principio del distruggimento de’ Conti di Santa Fiore, chesi diceva che solevano avere più castella che non sono dì nell’anno.27

Or avvenne che ’l predetto Giovagnuolo enfermò e venne a morte, sicché fu mandato alluogo de’ frati di Santo Augustino per un confessore. E venendovi el Priore del luogoper confessarlo, disse che non si voleva confessare però che aveva fatti tanti peccati cheDio non gli perdonarebbe mai. Et anco molti peccati aveva fatti de’ quali non ne potrebbeavere mai pentimento, et anco ho in animo di fare parecchie vendette se io ci guarisco, ese io vi promettesse altro, non mel credete, però che io non ve l’atterrei.L’altra si è che io ho tanti nemici nell’altra vita che mi saranno contrari, che se Dio mivolesse perdonare quasi non potrebbe. Perché solamente e’ cappucci degli uomini cheio ho morti tre mugli28 non gli portarebbono, sicché pensate come io potrei avere concordiacon lui. Unde io so che egli non mi ricevarebbe mai a misericordia et io non mi voglio tantoavilire che io mi mostri a lui così timido. Sicché io so che egli non si fidarebbe mai di me etio molto peggio mi fidarei di lui.E così con queste e con altre parole simili disperate, si scusò che non si voleva confessareper nullo modo. Assai gli disse el confessore della ismisurata misericordia di Dio e de lagloria de’ beati e de le pene de’ dannati. Et eziandio la moglie et altri suoi amici che v’eranoassai lo ’nfestaro che si confessasse e s’acconciasse dell’anima sua, ma nol potero mutaredell’animo suo maledetto.Anco come ’l cuore di Farraone sempre più indurava, e difendendosi con parole disperateper le quali gli pareva convenciare ogni gente per ragione, che egli non si dovesse confessarené acconciare né con Dio né co’ Santi. Et anco gli era stato procacciato la ’dulgenzia dicolpa e di pena e poco gli valse. E così quell’anima misera passoe di questa vita. E mortoegli, volsero e’ Conti ch’egli fusse sepolto ne la chiesa de’ frati di Santo Augustino pressoa la loro sepoltura però che l’avevano molto amato. Assai si scusaro e’ frati per non sotterrarlo non tanto in chiesa ma in nessuna parte delluogo. Dicendo ch’egli era stato un diavolo in carne umana e che ’l corpo suo si dovevasotterrare al fosso co’ cani e non con gli uomini. Alla perfine e’ Conti ch’avevano fatto farequella chiesa da le fondamenta,29 per ogni modo volsero che ’l corpo suo fosse sepoltoin chiesa et e’ frati avendo maggior paura de’ Conti che di Dio acconsentiro a ciò che iConti volsero. Et essendo quel maladetto corpo sepolto ne la chiesa, tre notti seguenti fune la chiesa tanti bussi e tanta tempesta che non tanto e’ frati, ma eziandio e’ vicini, nullovi poté mai chiudere occhio per dormire però che pareva la chiesa piena di diavolicom’ell’era. E quando parevano cavalieri che gistrassero; e quando parevano uomini checombattessero co’ le spade in mano; e quando parevano animagli ferocissimi cherabbiosamente con mughi dolorosi s’accapegliassero insieme. E così tre notti30 continue quella tempesta non si ristette in quella chiesa, et eziandio dimeriggiana ma non tanto forte. E non tanto che nullo fusse stato ardito in quelle tre notti

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d’entrare in chiesa, ma eziandio ine a parecchi mesi nullo fu che avesse ardire d’entrarviche non fusse ben confesso e con buona compagnia.El terzo dì e’ frati con alquanti secolari confessi et acconci dell’anime loro, entraro ne lachiesa e scavaro quello maledetto corpo e sotterrarlo nell’orto allato a un fiume, e quellibussi cessaro e mai non vi fuoro più sentiti.Questo assempro udii l’anno del mio noviziato dal mio maestro che m’insegnò l’officio,el quale era uomo antichissimo e venerabile e di buona coscienzia, el quale in quel tempoera scolaio e conventuale nel detto convento et aitò a scavare quello maladetto corpo.

Note:1 S. P. DAMIANI, Passio Sanctarum Virginum Flora et Lucilla, (traduzione dal latino di GermanaDomenichini), “Tracce…”, annuario, Santa Fiora 1998Su nostra richiesta, essa ci è stata inviata, gentilmente, dalla Biblioteca Classense di Ravenna in copiafotostatica. La lettera d’accompagnamento, firmata dal dirigente Dott. Luigi Malkowski, conteneva leprecise indicazioni bibliografiche: “Le invio copia fotostatica dell’opera di S. Pier Damiani Passio SanctarumVirginum Florae et Lucillae contenuta in J. P. Migne, P.L. 144, col. 1025-1032.” Il testo a stampa, editonel 1853, è annotato da Guglielmo Cupero S. J. 2 I. CORRIDORI, Gregorio VII, ATLA, Pitigliano 1985, p. 30.3 A. MARONI, Prime comunità cristiane e strade romane nei territori di Arezzo-Siena-Chiusi, Cantagalli,Siena, 1990, p. 2254 È difficile definire la precisa collocazione geografica di riferimento perché non sappiamo a quale luogocorrisponda il toponimo Disortium. Tutta la parte è comunque abbastanza vaga in quanto a riferimentistorico-geografici.5 S.P. Damiani, Op. cit., “Tracce…” 19986 Tra gli altri ci sembra interessante ricordare, anche a testimonianza di queste frequentazioni, il BeatoAgostino Novello. Già giurista appartenente alla corte di re Manfredi, il beato Agostino Novello erascampato nel 1266 alla battaglia di Benevento. Ritornato in Sicilia aveva trovato rifugio presso un eremoagostiniano dove aveva conosciuto un frate originario di Siena che gli aveva raccomandato gli eremidella sua provincia: “luoghi situati lontano dall’abitazione degli uomini e propizi al servizio di Dio”. Partitodalla Sicilia trovò ospitalità presso l’eremo di Santa Barbara sul Monte Amiata, vicino a Santa Fiora, doveincontrò frate Bono di Siena che ne era il priore. In seguito Agostino, rappresentato dall’agiografia agostiniana del Trecento come il simbolo delcollegamento degli eremi agostiniani di tutta la Toscana meridionale, diverrà priore generale dell’Ordine. 7 G. FATINI, La letteratura maremmana delle origini, Firenze 1951.8 Il testo è ripreso da Letteratura italiana Zanichelli in cd rom (a cura di Pasquale Stoppelli ed EugenioPicchi), Vol. 1, Il Duecento e Dante, Ed. Zanichelli-L’Espresso, 1998. Struttura metrica: la canzone ècomposta da tre stanze (strofe) di 14 versi e un congedo (stanza ridotta) di 9 versi. I versi sono settenarisalvo l’ultimo di ogni stanza e del congedo che è un endecasillabo. Ogni stanza (escluso il congedo) ècomposta da due piedi di 4 versi l’uno, con rima incrociata (abba) e da un sirma di sei versi con strutturaaccddA.Il concedo ha una struttura metrica a coppie di rime baciate (bbaaccdd) con la ripresa dell’ultimo versoendecasillabo (A). Si notino le ripetizioni di alcune parole che hanno un significato particolare, strategico:“gente”, che sta per “gentile”, (ultima parola dei primi versi delle tre stanze), “fiore” (settimo verso della primastanza, settimo della seconda, primo del congedo) e “valente” ultima parola dell’endecasillabo di ogni strofa. 9 Parafrasi: Altra gioia non mi è così piacevole (gente=gentile) né altro amo di cuore, che il pregio e il

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valore della gente che prova amore. Così compiutamente verso di lei mi ha preso amore come il fioreche non potrebbe fare contro di me cosa spiacevole; per la qual cosa sopporto meglio il male contro dime (se anche male mi facesse) che il bene di gente che è avvezza ad una vita dissoluta che gode delledisgrazie delle persone “valenti”.Su tutto amore, mi è gentile (gente) di gioioso sapore quello del mio signore; e questo è giusto perché èveramente fiore di alta bellezza: per la qual cosa ne ho tale dolcezza da inebriarmene spesso quando lopenso, perché egli rappresenta fedelmente (“verace”) le doti che si convengono ad un signore (baron):tanto è adeguatamente fornita l’opera sua, completa di tutto ciò che è opportuno a definire il valore (pregio)di un uomo rispettabile e meritevole (“valente”).Poiché io sono a lui così sensibile (gente), che (ciò) mi può sempre (tuttore) far apparire l’amarezza(“amarore”) di assai dolce immagine (parvente); ma il dolce niente può fare di tale “sentore”, che io buonconoscitore non sia di lui certo. Tanto è dolce e piacente che nel cuore e nella faccia non scompare (sface)mai, né si dissolve la gioia che ho sentito di lui; così è stata per me dolce e degna di apprezzamento (valente).Conte di Santa Fiora, parlo di voi, signore, di cui sono più servitore (forma di omaggio) di quello che ionon dica; e servire mi fa piacere, anche se non produce (face) merito; ma credo che la mia vita saràimpreziosita (grazita) ulteriormente per merito vostro (cioè per il mio atto di fedeltà e di omaggio neivostri confronti), Aldobrandino, conte valente [Germana Domenichini]. 10 M. SERIACOPI, in “Tracce…” 1999.11 A partire dalle indicazioni contenute nel testo di Fatini, e su invito della redazione di Tracce…, MassimoSeriacopi ha condotto una ricerca apposita che ha portato all’individuazione del codice citato. Si trattadi un membranaceo di 144 carte che misura cm. 24x17, suddiviso in diciotto quaderni uguali e databile,per dati paleografici interni (scripta, ecc.), al XIII secolo. Sulla seconda delle guardie di membrana risultail nome di Giovanni di Simone Berti, accademico della Crusca, che fu possessore del codice nelCinquecento, e che segnò: “Nota de’ poeti antichi de’ quali in questo libro ci sono compositioni”; nel1670 fu Francesco Redi ad acquistarlo (da qui la segnatura “Rediano”), segnando il proprio nome sullaprima guardia e completando la nota del Berti sulla seconda con queste parole: “Queste lettere di fraGuitton d’Arezzo che sono in questo codice sono 35; in un altro codice che pure è appresso di meFrancesco Redi, sono molte più e arrivano al numero di 64”. Alla sua morte, il codice fu ereditato dalnipote mons. Gregorio Redi, passando poi alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, prima colnumero 63, poi come Rediano 9. Lo studio completo sul testo è stato pubblicato su Tracce…12 La trascrizione è di Massimo Seriacopi. Parafrasi: In ogni parte del mio corpo si è incarnato uno“spiritello” d’amore, e più che mai nell’intimità del cuore preso da Amore; mi sento perciò così infiammatoda ogni parte dall’amore al punto che nemmeno un pezzetto della mia carne sfugge a questo cocentetormento. Ogni volta che emetto un respiro, comprendo bene che questo formula un lamento amoroso;e Amore è tanto penetrato (=“devisato”) dentro di me di quanto più non possa farlo tale calore (=“colore”).A tal punto si è concentrato dentro il mio corpo che ha dovuto ricreare uno spiraglio (=“spero”) nelpertugio da cui era entrato (concezione classica del vulnus Amoris); ma tale pertugio è così stretto(sottinteso: che) non può uscire (la pressione amorosa) da lì solo concentrandosi tutta insieme verso ilvarco, e quindi fuoriesce poco a poco cercando scampo nel gettare fuori la sua oppressione di angosciaamorosa: solo in questo modo riesco a sopravvivere e posso parlare di questa situazione di gravità mortale.13 P. MISCIATTELLI, Misticismo senese, Vallecchi, Firenze 1966, p. 3514 Idem, p. 1515 Si è molto discusso sulla lezione da preferire come “originale” per il verso 111 dedicato a Santa Fiorasecondo le intenzioni dell’autore: sicura aggettivo, si cura verbo riflessivo, entrambi con connotazionesarcastica, o oscura? Masssimo Seriacopi, sulla scorta di un’accurata analisi filologica, sceglie senza dubbiooscura.

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16 Per questo valore dell’aggettivo, si confronti anche Jacopone da Todi, Donna de Paradiso, v. 101: “figliode mamma scura” [Massimo Seriacopi].17 M. SERIACOPI, “Tracce…” 1998.18 La terra, per il nostro commentatore, “della quale fu fatto l’uomo, e in terra rituorna” [MassimoSeriacopi].19 M. SERIACOPI, “Tracce…”1998.20 L. NICCOLAI, “Tracce…” 1999.21 G. GALLETTI, Nel Montamiata. Saggio di letteratura popolare, Città di Castello 1913, pp. 32-5, Nellanota Galletti cita la sua fonte: MURATORI, Rerum italicarum scriptores. Tomo XV, pagg. 87-8; nota di U.Bentivoglienti alla Cronica Sanese di Andrea Dei, continuata da Agnolo di Tura, dall’anno 1186 fino al1352. 22 G.B. VICARELLI, Castell’Azzara e il suo territorio. Memorie storiche. Vol. II, La lotta, Cantagalli, Siena1991, pagg. 286-289. 23 F. DEGLI AGAZZARI, Assempri, ed. Cantagalli, Siena 1973, pp.121-12424 L’autore usa e’ per i. Successivamente si troveranno delle et per e, e pero ché per perché.25 Il personaggio è introdotto con caratteristiche negative e viene subito fatto notare il sadico piacereche prova nell’uccidere gli uomini.26 Addirittura l’autore ipotizza pratiche di cannibalismo da parte di Giovagnuolo.27 Questo riferimento è abbastanza importante non solo per contestualizzare la storia (che credibilmentedovrebbe riferirsi al XIV secolo, come peraltro si può intendere anche ai riferimenti al narratore che sitrovano a conclusione del brano), ma anche per l’allusione all’antica potenza degli Aldobrandeschi cheavrebbero posseduto centinaia di castelli, uno per ogni giorno dell’anno. 28 Tre muli.29 Altro elemento utile alla contestualizzazione storica. Il convento agostiniano fu trasferito dal Bagnoloa Santa Fiora agli inizi del Trecento.30 I tre giorni che seguono la morte, essendo quelli in cui il corpo si decompone, hanno un valore simbolicomolto importante: Gesù risorse dopo tre giorni; anche Giona fu liberato sulla spiaggia dalla balena dopotre giorni. In questo caso però piuttosto che la resurrezione avviene la dissepoltura per destinare il corpoa luogo non consacrato più consono al personaggio.

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La vera stor ia di Margheri ta Aldobrandeschi ,ul t ima contessa palat ina di Sovana

Fernando Marioni

Nata intorno al 1255 da Ildebrandino e Tommasia, Margherita passerà allastoria come l’ultimo e più singolare personaggio della Casa Aldobrandescadel ramo di Sovana. Molti storici si sono interessati di questa donna,

avvenente e coraggiosa, e dai loro scritti la sua figura esce quasi sempre discussa estrapazzata.In ogni caso, per capire meglio la sua complessa personalità, oltre i cinque infelicimatrimoni, sono da considerare altre cause, tra cui la difficile situazione politicosociale della Contea, le forti pressioni politiche dei potenti Comuni vicini, come Sienae Orvieto, i contrasti e le rivalità provenienti dai Signori vicini e dal Papa BonifacioVIII. Ma veniamo alla storia.

a) Il 1° matrimonio (1270)Nel 1270 sposa a Sovana, prima con un contratto di nozze e poi con una grandecerimonia religiosa nella cattedrale sovanese, seguita da una festa alla quale partecipauna immensa folla di popolani e di signori, il conte Guido di Montfort, che stavaconducendo in Italia, e in particolare in Toscana, varie operazioni militari per contodi Carlo D’Angiò, re di Francia, contro le truppe di Corradino di Svevia e dei suoialleati ghibellini. Ma il consorte, che pure in quegli anni ottenne vari successi militari,nella battaglia navale del golfo di Napoli del 1287 contro gli Aragonesi, venne fattoprigioniero e rinchiuso in carcere in Sicilia. Due anni dopo, non si sa come, si diffusela notizia, poi rivelatasi falsa, che Guido era morto in carcere. Da quel matrimonioerano intanto nate due bambine, Tommasia, nel 1280 e Anastasia nel 1285.

b) Il 2° matrimonio (1289)Credutasi vedova, Margherita, anche per dare un appoggio alle sue bambine, oltreche una guida più sicura alla Contea, passa a seconde nozze con Nello Pannocchieschidella Pietra (secondo la tradizione già marito e assassino di Pia dei Tolomei, ricordatada Dante Alighieri nella Divina Commedia, ma questa è un’altra storia) ma non ottieneil consenso dei parenti che perseguitano i due sposi.Nell’estate del 1290, quando Margherita e Nello dimorano nel castello di Pereta, unadelle tante residenze aldobrandesche, si diffonde la notizia che Guido di Montfort

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è ancora vivo, anche se in carcere a Messina, per cui la convivenza dei due sposi, dallaquale era nato un bimbo, Binduccio, diventa illecita.È davvero un brutto colpo per la sfortunata contessa, tanto più che Nello, consideratala nullità del matrimonio, è costretto ad andarsene. Margherita, di nuovo sola purcon due mariti vivi, è sempre più triste mentre le sorti della Contea vacillano.

c) Il 3° matrimonio (1292)In quell’anno giunge di nuovo la notizia che Guido è morto in carcere e questavolta è vero. Margherita, che non sa cosa fare, chiede consiglio al Papa Niccolò IVil quale incarica il cardinale Napoleone Orsini di recarsi a Sovana dalla contessaper aiutarla. Costui, vista la situazione, non si lascia sfuggire l’occasione per metterele mani sul Feudo, ma da cardinale deve trovare un modo del tutto legale.È così che la contessa palatina Margherita Aldobrandeschi sposa Orso Orsini, fratellodel cardinale, mentre l’anno dopo sua figlia Anastasia, ancora bambina, avrebbesposato Romano Orsini.Il nuovo conte non fa in tempo ad assaporare le gioie del matrimonio che deveaffrontare una guerra con gli Orvietani, che non nascondevano le proprie mire sullaContea. Nel giugno del 1293, assediati nel castello di Saturnia, Margherita e Orsodevono accettare la resa e giurare, il giorno 13 in Orvieto, fedeltà a quel Comune.Intanto Orso Orsini, al comando di truppe orvietane, nel 1294 riesce a conquistare,togliendole al Patrimonio di San Pietro, Bolsena ed altre cittadine dell’alto Lazio,mentre Papa Celestino V neppure se ne accorge.Ma il nuovo Papa Bonifacio VIII, succeduto a Celestino che il 13 dicembre 1294aveva rinunciato al soglio pontificio (“il gran rifiuto” di cui parla DanteAlighieri),colpisce Orvieto con la scomunica mentre nello stesso anno 1295 OrsoOrsini muore a Pitigliano, nuova capitale della Contea. Margherita è ancora sola, macon un’altra figlia, Maria.

d) Il 4° matrimonio (1296)Avuta notizia della morte di Orso, Nello tenta, ma inutilmente, di ritornare daMargherita, che non si lascia commuovere neppure dalla improvvisa comparsa aSovana del figlio Binduccio accompagnato da 100 cavalieri.Del destino della contessa si interessa questa volta Sua Santità in persona, BonifacioVIII, il quale combina il suo nuovo matrimonio con il nipote Loffredo di PietroCaetani. Il rito è celebrato in pompa magna in Anagni, forse dallo stesso pontefice,il 19 settembre 1296.Da Orvieto, in festa per loro, gli sposi sono accompagnati a Sovana da 50 donzelli e12 cavalieri, che dopo aver dato spettacolo di giostre e giochi, lasciano i loro costumialle genti della Contea. Come ricompensa per tanta solidarietà Orvieto ottiene dalPapa la revoca della scomunica.Ma anche questo matrimonio, come gli altri, non doveva durare a lungo. Appena

Margher i ta Aldobrandeschi

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un anno dopo infatti, non sappiamo per quali motivi, il Papa stesso lo scioglie,dichiarandolo poi nullo per bigamia della contessa per via del suo secondomatrimonio, quello con Nello Pannocchieschi. Loffredo ritorna a Roma e Margheritarimane sempre più sola, questa volta con lo spettro della persecuzione papale chenon tarderà a manifestarsi. Ne furono effetti immediati il nuovo atteggiamento diostilità degli Orvietani, ai quali la contessa tentò, ma inutilmente, di imporre unatassa per usufruire delle acque termali di Saturnia, e dei Senesi, che l’accusarono dicomplicità per l’aggressione al loro ambasciatore.

e) Il 5° matrimonio (1299)Margherita, nel tentativo estremo di salvare il prestigio della sua Casata e la stessaContea, si rivolge allora ai cugini, conti di Santa Fiora, e trova la disponibilità diGuido, figlio di Ildebrandino, che aveva allora circa 40 anni, più o meno come lacontessa, oltre a due figli naturali già grandi.Questa volta sono i Senesi a scatenare una guerra ai Conti Aldobrandeschi, forsepreoccupati che le due contee, separatesi nel 1274, si riunificassero di nuovo,rappresentando per loro un ostacolo all’espansione in Maremma.Con un esercito di 2800 fanti e 700 cavalieri, i Senesi partono da Siena il 12 ottobre1299 ed occupano vari castelli della Contea. Ma il conte Guido si difende con onore,ottenendo anche una bella vittoria sulla Rocca di Radicofani il 19 luglio 1300.Intanto Papa Bonifacio invia anche sue milizie contro gli Aldobrandeschi, al comandodei conti Orso e Gentile Orsini, che più che servire il Papa, pensano a prendereper se la Contea sovanese. Da parte loro i Senesi, il 31 dicembre 1300 stipulano untrattato di pace in virtù del quale ottengono i due castelli di Montepescali eRoccastrada. Il 1° maggio 1302 il conte Guido è costretto ad arrendersi agli Orvietanie agli Orsini ma i guai per la contessa non sono finiti. Papa Bonifacio infatti, cheaveva delle mire sulla contea in favore dei propri nipoti, saputo della parentela fraMargherita e Guido, la dichiara colpevole di incesto e la priva di ogni diritto feudalecon la bolla del 10 marzo 1303.In quel periodo, forse sfinito da tanti patimenti, Guido di Santa Fiora conclude lasua esistenza terrena, condotta con la dignità dei suoi più illustri antenati. È cosìche Papa Bonifacio VIII fa crollare definitivamente la Contea aldobrandesca diSovana. E Margherita?

f) Il ritorno di Nello (1303)Costretta dal Papa ad abdicare e tenuta prigioniera a Piancastagnaio, le viene imposto,tramite il cardinale Ranieri, di riunirsi a Nello della Pietra, mentre la Contea vienaconcessa al pronipote del Papa, Benedetto Caetani.Ma ormai anche il Papa Bonifacio è giunto alla fine dei suoi giorni e dopo lo storico“schiaffo di Anagni” del 7 settembre 1303, muore a Roma il successivo 11 ottobre.Ne approfitta Margherita per liberarsi una volta per tutte di Nello Pannocchieschi,

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ottenendo con facilità lo scioglimento del vincolo che le era stato imposto contro lasua volontà.Ma lui, Nello, non si dà ancora per vinto e tenta di riconquistare almeno la Contea,ricorrendo anche a scorrerie e razzie di bestiame nelle terre della Maremma.

g) Gli anni del tramontoLa contessa Margherita intanto, con la protezione del cardinale Napoleone Orsini,lascia la Contea e si trasferisce a Roma con le sue due figlie, Anastasia, sposa diRomano Orsini, e Maria, nipote del cardinale.Dopo quasi un decennio trascorso a Roma, nel 1312 Margherita ritorna a Pitiglianoinsieme alla figlia Anastasia e al genero Romano. In quello stesso anno accettaun’offerta del Comune di Orvieto di un assegno di 2000 libbre quale frutto delleterre sottrattele e va ad abitare in quella città, nel palazzo di piazza S. Egidio.Ma il Comune di Orvieto non mantiene la promessa e così Margherita, il 24 febbraio1313, in compagnia del capitano Gentile Orsini, suo consuocero, ritorna a Pitigliano.Da quel momento non sappiamo più nulla di lei.Scompare così silenziosamente dalla storia e dalla vita l’ultima contessa palatina diSovana e Pitigliano, famosa per bellezza e potenza, quanto per le sue clamoroseavventure. E su di lei si piega definitivamente l’ala ormai stanca dell’aquilaaldobrandesca.

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“Magnificus dominus Bosius Sfortia et magnificus Guido vollentes cum comunitateSenarum veram et sinceram adherentiam et recomandationem habere”1. Il 30 aprile1461, il nuovo conte Guido di Santa Fiora e suo padre, il conte Bosio Sforza (figliodi Muzio degli Attendoli detto Sforza) chiesero al Comune di Siena di potersi metteresotto la sua protezione. Lo stesso giorno, Francesco Sforza, Duca di Milano, confermògli stessi capitoli di raccomandazione dei propri congiunti. Quale novità mise in lucel’associazione tra la famiglia Aldobrandeschi, casato fra i più potenti ed illustri dellaToscana, ma ormai in pieno declino, e la famiglia milanese degli Sforza, al contrarioin piena ascesa? Quali segni avevano preannunciato la decadenza aldobrandesca,potenza insediata nel territorio toscano da circa cinque secoli? Come tale potenza,avendo ottenuto titoli principeschi e cariche pontificali poté barcollare ed infinecrollare? La novità fu rappresentata dal matrimonio della contessa Cecilia di SantaFiora con Bosio, contratto nella prima metà del Quattrocento. L’alleanza fra le duefamiglie permise al nobile milanese d’ottenere la trasmissione del titolo comitale e,quindi, la sovranità sulle terre aldobrandesche. Per rispondere agli altri due quesiti,invece, il discorso si organizzerà intorno a due punti principali: in un primo tempo,si tratterà di capire come già durante i secoli precedenti all’irrimediabile declino, cifurono alcuni segnali annuncianti lo smembramento della potenza aldobrandesca;in un secondo tempo, sarà messa in rilievo proprio la progressiva decadenza dellafamiglia e la sua scomparsa in quanto entità autonoma.

1. Le prime impercettibili cause dello smembramento della potenza aldobrandesca(secc. XIII-XIV)

Il processo di declino si era avviato durante il tredicesimo secolo. Alcuni fattori“responsabili” della sparizione dei conti palatini più potenti della regione erano legatiall’organizzazione interna della contea, mentre altri erano direttamente connessi conil contesto sociale e politico della Toscana.

a) Il peso delle pratiche successorie e dell’inevitabile ramificazione

La f ine dei cont i Aldobrandeschi : i l crol lo di un mito

(secc. XIII-XV)

Aude CirierUniversité de Poitiers - Centre d’Etudes Supérieures de Civilisation Médiévale

Università degli Studi di Siena

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Sono questi i primi due elementi incriminati e identificabili come causa dellasparizione della famiglia degli Aldobrandeschi.

Sin dagli anni ’10 del secolo XIII, ebbe inizio la decadenza della potenza comitale.Nel 1208, il conte Ildibrandino VIII, con un primo testamento, divise la sua ereditàtra i suoi figli di secondo letto2. Egli escluse così il primogenito, Ildibrandino IX, ilquale rifiutò tale disegno di spartizione. Ne nacque una controversia3, risolta soltantootto anni dopo, nel 1216 (ben quattro anni dopo la morte del testatore), grazieall’intervento di numerose mediazioni esterne e di numerosi lodi pronunciati daalcune autorità toscane (nobiliari o cittadine)4. Il progetto del 1208 di spartizionefu corretto, riparando così il danno commesso contro Ildibrandino IX, e vennecomunemente accettato da tutti nel 12165. La rappresentazione cartografica, elaborata(cartografia 1) a partire da quella di Simone Maria Collavini6, indica chiaramente laprima divisione della contea in quattro porzioni equivalenti7. Tuttavia, aldilà dellasingola opposizione istituita tra il giovane diseredato e suo padre, il gioco dellepratiche successorie utilizzato dagli Aldobrandeschi non favorì la conservazione diun patrimonio ampio e ricco. Con l’ufficializzazione della quadripartizione nel 1216,fu provocata una prima rottura all’interno del lignaggio comitale. Ormai, da questomomento in poi, si configurò sempre di più ineluttabile la ramificazione8.

A questa quadripartizione, fece seguito un’ulteriore bipartizione nel 1274. Ne risultòuna dicotomia all’interno della famiglia comitale stessa9. L’11 dicembre 1274, ladivisione patrimoniale fra Ildibrandino XI di Santa Fiora, figlio di Bonifacio I, edIldibrandino XII di Sovana, figlio di Guglielmo I, rese ancora più netta la separazionedelle linee: il conte di Sovana e Pitigliano focalizzò il suo potentato sulla sede vescoviledi Sovana e sul castrum di Pitigliano, ricevendo un insieme di 43 fortezze, dominigiurisdizionali, baronie, affitti e censi. Un ugual numero di fortezze fu rilevato daIldibrandino XI ormai a capo delle fortezze di Santa Fiora, Roccastrada, CastiglioneValdorcia, Arcidosso..., un insieme sul quale entrambi poterono esercitare pienamenteil loro potentato10. La cartografia sintetica indica le zone sulle quali i due ramialdobrandeschi disposero di un intero potere; eccezion fatta per qualche dominiopeculiare come Silano, Scarlino, Monteguidi, Radicondoli, Belforte, Grosseto,Rocchette e Bagno di Saturnia sottomessi ancora all’indivisione oppure alla partizionecon altri potentati11. Ciascuna di queste due “topolinee” affermò un potere autonomonei rispettivi territori, e ciò avvenne al proprio interno e ancor di più verso l’esterno.Anzi, Sovana e Pitigliano da una parte, e Santa Fiora dall’altra, servirono di puntocristallizzatore di ogni ramo.

Dal Duecento, erano apparsi irreversibili i fenomeni di dislocazione della contea edi smembramento della famiglia comitale. Tuttavia le difficoltà interne collegatealla conservazione della potenza familiare, e basata essenzialmente sul patrimonio e

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le prerogative giurisdizionali, non furono l’unica causa di declino della famigliaaldobrandesca contribuendo però a condurle verso un meccanismo di decadenzadella sparizione.

b) Dall’emancipazione delle comunità all’erosione della conteaIl peso crescente dell’emancipazione comunale, che agitò l’ordinamento pubblicodella Toscana a partire dal tredicesimo secolo, costituisce il secondo elemento dismembramento della famiglia. Gli Aldobrandeschi non furono gli unici ad esserescossi dai movimenti comunali, poiché tale processo fu esteso all’insieme dei potentatisignorili e nobiliari insediati nella regione.Tutti dovettero confrontarsi con l’evoluzione politica e sociale dei comuni12.

In un primo tempo, le grandi città, veri Stati-Repubblica, come Siena ed Orvieto,svilupparono strategie espansionistiche del loro contado, mosse dall’idea disottomettere alla loro autorità tutti i signori insediati nei territori confinanti13. Usaronodunque diverse forme diplomatiche: pacifiche o bellicose. Dal 1202, il Comune diSiena si legò ai conti Aldobrandeschi. Con un atto di fedeltà prestato dai nobili neiconfronti della città, reiterato nel 1221, i Senesi fecero dei comites una potenza alservizio del Comune, impegnandoli a fornire aiuto militare, servizio e censo14. Daquesti due primi trattati del Duecento, Siena provò ad inserire le terre comitali nelsuo districtus (zona subordinata), localizzata ai confini delle terre orvietane. Leposizioni politiche furono decisive nel contesto tumultuoso delle opposizioni traGuelfi e Ghibellini. La scelta filo-imperiale senese, all’inizio del tredicesimo secolo,permise al conte Ildibrandino VIII (morto nel 1212) di contrarre una forte alleanzacon il detto Comune. Questa fu rimessa in discussione tra il 1229 e il 1235, quandopapa Gregorio IX concesse al conte Guglielmo Aldobrandeschi la sua protezionedurante la lunga guerra opponendo Siena ad Orvieto e a Firenze. Successivamente,tra il ’40 e il ’51, le truppe imperiali s’impegnarono contro l’Aldobrandesca, affinchéfosse legittimata la presenza senese in nome dell’Imperatore e del suo vicariogenerale15. Una nuova rottura venne a scuotere la casa comitale nella seconda metàdel Duecento: da una parte, Guglielmo ed i suoi discendenti, conti di Sovana e diPitigliano si posero sotto la protezione pontificia, si allearono con Firenze edentrarono nella sfera d’influenza di Orvieto. Dall’altra parte, invece, Bonifacio e suoifigli, conti di Santa Fiora optarono per l’obbedienza a Siena ed all’Impero. Ladicotomia interna al lignaggio aldobrandesco, per motivi politici, fu ufficializzatain un trattato del 17 maggio 1251, concluso tra il governo di Siena ed Ildibrandinodi Bonifacio, trattato nel quale il conte Guglielmo veniva designato come innimicus16.Alla fine, nell’ultimo Duecento, Siena, dopo la vittoria di Montaperti del settembre126017, cambiò di schieramento politico, ponendosi sotto l’egida pontificale, erimettendo in discussione la sua alleanza con i conti di Santa Fiora di cui cercavacostantemente di annettere le terre, soprattutto per evitare il loro asservimento

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all’ingerenza orvietana. Venne così organizzata una vera e propria campagna disottomissione contro i nobili rimasti fedeli alla causa imperiale. Di fronte alle lotteinveterate tra Guelfi e Ghibellini, le città approfittarono dell’occasione per inviarefrequentemente i propri eserciti contro i signori del contado. Una situazione che siconcretò per gli stessi Aldobrandeschi, che furono sconfitti in diverse occasioni.Gli esempi sono numerosi: nel gennaio 1301, una spedizione dell’esercito orvietano,organizzata per ordine di papa Bonifacio VIII, fu mandata contro i conti di SantaFiora18. Nel settembre 1303, con un’ordinanza, il comune d’Orvieto annunziò lapreparazione di una spedizione nel contado aldobrandesco, per la quale necessitavala somma di 500 fiorini19. L’invasione fu effettuata e le terre dei conti parzialmenteoccupate. In seguito fu decretata l’occupazione di Pitigliano, Sovana, Sorano,Piancastagnaio e di tutte le terre dell’Aldobrandesca non ancora sottomesse20. Inparallelo Siena procedeva ad una strategia similare di sottomissione e di annessionedella zona aldobrandesca di Santa Fiora21: nel 1331, l’esercito senese condotto dalfamoso capitano di guerra Guido Riccio da Fogliano attaccò e prese Scansano,riuscendo in seguito ad entrare in Arcidosso, dopo un lungo assedio22. Dal tredicesimo secolo, e per tutto il quattordicesimo, le relazioni dei conti con icomuni di Siena e Orvieto furono caratterizzate da rapporti caotici e poco stabili didipendenza finanziaria, d’aggressione o d’alleanza, economica o militare, di scambiod’ostaggi e di giuramenti.

In un secondo tempo, la potenza aldobrandesca non fu vittima solo delle ambizionidelle grandi città. Il movimento d’emancipazione comunale si espanse a numerosepiccole comunità rurali, originariamente sotto dominazione signorile e nobiliare.In effetti, attratte dai discorsi pieni di libertà e di speranza che ispiravano in loroSiena e Orvieto, queste piccole entità (che componevano la base delle grandi potenzesignorili) furono prese da un ampio movimento d’emancipazione23. La fine dellestrutture feudali era ormai prossima, e si erodeva progressivamente la base del poterecomitale, vale a dire il dominio di un’ampia rete di feudi. Il disimpegno delle comunitàdall’autorità signorile non permise loro di raggiungere uno stato di vera e totaleautonomia, facendo così il gioco dei comuni24. Numerose furono le antiche proprietàaldobrandesche a sottomettersi all’autorità del governo comunale senese od orvietano,sin dalla fine del tredicesimo secolo. I primi anni del Trecento marcarono lasottomissione delle terre della contea al Comune di Siena: terre e uomini di Tatti,Montepescali, Radicondoli, Montecurliano, Montiano, Scansano e tanti altri siunirono alla sfera comunale25. Infine, come se non bastasse un tale processod’erosione, con il fine di infliggere un ultimo colpo letale alla potenza comitale, ilConsiglio Generale di Siena conferì al Governo dei Nove pieni poteri per combatteregli Aldobrandeschi. Questa volta non si trattava più di affrontare uno dei rami dellafamiglia, ma la lotta si era estesa tanto ai conti di Santa Fiora quanto alla contessaMargherita di Sovana ed ai suoi fedeli26. Tuttavia nonostante l’unione di fronte ad

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un nemico comune, il riavvicinamento del casato non fu duraturo. Infatti già, nel1312, Margherita ricevette il sostegno del Comune d’Orvieto per la sua lotta controi propri cugini di Santa Fiora27.

c) Il comitato aldobrandesco tra Impero e Papato: l’incursione romanaCome terzo fattore rilevante dello smembramento relativo alla potenza aldobrandesca,dobbiamo tenere presente uno degli elementi più importanti del contesto politico inToscana durante il Due e Trecento, vale a dire le ambizioni pontificie ad estenderela propria influenza in terra filo-imperiale.

La situazione geografica del comitato aldobrandesco tra Toscana e Lazio nutrì unconfronto permanente tra l’Impero e il Patrimonio di San Pietro. La posizione politicaadottata da ognuno dei rami della famiglia comitale, all’una o all’altra delleobbedienze, trasformò la Maremma in un teatro di contestazioni, di guerre e dicupidigie. Andando contro i progetti di riorganizzazione politica dell’Imperatorein Toscana, il Papato aveva concepito l’intenzione di accrescere il suo patrimonio ela propria zona d’influenza a nord dell’Urbs, grazie ad un ampio movimentod’espansione. I progressi romani si incentrarono su due principi d’azione.Da una parte l’interesse portato dalla Chiesa per lo sviluppo del patrimonio di SanPietro in Tuscia s’iscriveva, in tale periodo d’agitazioni del Duecento, nell’ampioprogetto di resistenza e d’affermazione politica contro l’Impero. Essa doveva, perriuscirci, trattare con riguardo le relazioni con la nuova monarchia di Napoli,assegnata al fratello del Re di Francia, Carlo I d’Angiò. Gravitanti intorno al potereangioino, alcune famiglie romane reintegrarono l’obbedienza pontificale negli anni1270, per piazzarsi fra le famiglie curiali disposte a sostenere e sviluppare la politicanapoletana sull’Italia intera. Una delle vie di successo esplorata fu dunque l’adesionealla causa guelfa, ottenendo favori e incarichi dal Papa e dal Re, in quantocollaboratori talvolta mandati nell’Italia centrosettentrionale per condurre i progettiregi o pontificali. Inoltre, i legami di sangue con qualche membro del Sacro Collegiocardinalizio favorirono la promozione di queste élite romane molto ambiziose. Deglierrori diplomatici, da parte dei primi Orsini pretendenti alla Toscana28, e l’elezionealla Santa Sede del cardinale-diacono Giangaetano Orsini (sotto il nome di NiccolòIII), nel 1270, sospesero rapidamente la nuova collaborazione romano-napoletana.In effetti, il nuovo papa cercò di contenere l’influenza degli Angioini. L’attribuzionedefinitiva della Romagna alla Santa Sede dall’imperatore Rodolfo d’Asburgo el’esclusione del re di Napoli dal Senato Romano scartarono Carlo d’Angiò dalla zonasettentrionale tanto ambita. Le manovre pontificie tentarono così di assicurarel’inserirsi crescente dei membri della famiglia Orsini nella vita politica del Patrimoniodi San Pietro in Tuscia. Per esempio, nel 1278, Bertoldo di Gentile Orsini, ex-collaboratore del re Carlo I ricevette il titolo di rettore per gli affari temporali inRomagna, e fu tacitamente incaricato di portare avanti le ambizioni del pontefice

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in Toscana. Ugualmente gli Orsini moltiplicarono le alleanze matrimoniali con ipotentati locali (come per esempio la famiglia d’Este). Tuttavia le pretese di NiccolòIII svanirono con la sua morte: le donazioni di castelli presso Viterbo compiute afavore di suo nipote Orso furono contestate (ed Orso ne poté conservare soltantouna parte29). Il nepotismo e l’abitudine dei cardinali romani di favorire loro le famigliepromuovevano la ricerca d’occupazione dei posti cardinalizi, costituendo vere eproprie dinastie ecclesiastiche. In tal modo, nel 1288, gli Orsini poterono annoveraredue cardinali: Matteo Rosso di Gentile e Napoleone di Rinaldo30. Fu essenzialmentequest’ultimo ad aprire le porte della Toscana e del Patrimonio di San Pietro in Tusciaagli Orsini, mentre la successione del papa Giangaetano - Niccolò III Orsini sembravaaver compromesso per sempre la presenza della famiglia in Toscana. Buon conoscitoredei problemi inerenti il Patrimonio di San Pietro, Napoleone fu molto aiutato dalnuovo papa Niccolò IV, che lo avvicinò particolarmente alla zona, incaricandolo dicontrollare e di aiutare la contessa Margherita Aldobrandeschi di Sovana nel gestiresue terre ereditate dal padre31. Una delle prime conseguenze fu il matrimonio d’Orso,fratello di Napoleone, con la contessa nel 1292. Questo offrì agli Orsini una nuovachance di radicarsi in Toscana. Tuttavia, il cardinale dovette rinunciare presto allele sue pretese territoriali a causa della morte d’Orso, tre anni dopo, e delle fortipressioni del Papa Bonifacio VIII a sospendere le sue azioni. Bonifacio optò per ilritiro di Napoleone solo col fine di inserire nella contea aldobrandesca membri dellapropria famiglia32. Di conseguenza, il Papa condusse una guerra incessante controgli Aldobrandeschi e soprattutto contro la contessa Margherita di Sovana, perottenerne le terre. Scomunicò Margherita e suo cugino Guido di Santa Fiora in quantorefrattari e nemici della Chiesa33, ed il conflitto prese termine alla morte delpontefice34.

Dall’altra parte, il secondo elemento caratterizzante dell’azione romana ful’intervento, in Toscana di diversi Orsini, investiti dalle autorità pontificie ecardinalizie35. Mandato tra il 1300 e il 1301, in quanto deputato del Papa ed ex-capitano della Lega guelfa di Toscana, Gentile Orsini partecipò, con suo padreBertoldo, suo zio Orso e suo nipote Romano alla spedizione condotta dall’esercitoorvietano contro i castelli dei conti di Santa Fiora. Lo scopo era chiaramente disradicare tutto il nucleo potenzialmente suscettibile di far rinascere un dominopotente ai confini del territorio pontificale. L’opposizione tra i conti di Sovana e quelli di Santa Fiora aveva permesso ilriavvicinamento degli Orsini con il ramo guelfo degli Aldobrandeschi, avvenutocol matrimonio d’Orso Orsini con l’unica erede d’Ildebrandino XII il Rosso,Margherita36. La presenza degli Orsini fu rinforzata dopo il 1305, quando Margheritadonò al cardinale Napoleone Orsini il castello di Piancastagnaio, ai margini delPatrimonio di San Pietro37. Nel 1308, Anastasia, sua figlia, sposò Romano di GentileOrsini. In segno della loro alleanza Orsini-Aldobrandeschi, chiesero insieme aiuto

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agli Orvietani nella lotta contro i signori di Montemerano38. Sempre con l’aiuto diGentile Orsini, padre di Romano, Margherita, riprese, nel febbraio 1313, i castellidi Sovana, Sorano e Pitigliano, confiscati dal 1303 dalla stessa Orvieto, facendo nelcontempo ricorso al Senato di Roma39.

Un riavvicinamento matrimoniale, patrimoniale e politico fu dunque effettivo nelprimo Trecento tra le due famiglie Orsini ed Aldobrandeschi. Con la morte del conteIldibrandino XII detto “Il Rosso” di Sovana, l’eredità del ramo aldobrandesco guelfotoccò all’unica erede, Margherita, madre di tre figlie (e di un maschio mortoprecocemente40). Per la seconda volta consecutiva, data la mancanza di un eredemaschio, la successione del conte di Sovana fu quindi assicurata dalle femmine:Margherita trasmise il patrimonio aldobrandesco di Sovana e di Pitigliano a sua figliaAnastasia41. Nel primo Trecento, questa offrì a suo marito, Romano Orsini, ladetenzione del patrimonio materno, ed al figlio cadetto Guido, il titolo di conte42.

*La sparizione degli Aldobrandeschi non risultò quindi da un semplice incidenteaccaduto nel XV secolo. In effetti, nel corso dei due secoli precedenti, i segnipremonitori appena analizzati erano chiari: la potenza del casato stava già scivolandoverso un declino patrimoniale e politico irreversibile. Il quindicesimo secolo non fecealtro che confermare la decadenza della famiglia, a tutto vantaggio di altre dinastiein ascesa.

2. Il crollo della potenza aldobrandesca dal XIV al XV secolo.

a) La perdita dei territori e la lotta per la sopravvivenzaLa maggiore parte dei feudi degli Aldobrandeschi era passata sotto il dominiocomunale. I conti proseguivano le loro sottomissioni alle città di Siena e di Orvieto.L’esito di tale assoggettamento fu la consegna definitiva dei punti strategici e simbolicidella potenza aldobrandesca, in pratica Pitigliano, Sovana e per ultimo, Santa Fiora.

Dal lato dei conti di Sovana e Pitigliano, la detenzione del titolo e del patrimonioancestrale era passata nelle mani degli Orsini, con la designazione di Guido, figliodella contessa Anastasia, in qualità di conte di Sovana43. Non essendo in grado diresistere alle incessanti provocazioni orvietane e senesi, Guido Orsini di Sovanadovette piegarsi alle esigenze comunali, riconoscere la potenza del Comune, sottoporsialla sua autorità, e evitare così lo sradicamento totale. Di conseguenza, nel 1335,Guido, conte palatino del comitato aldobrandesco, riconobbe l’insieme dei suoi benipresso il fiume dell’Albegna44, sottomise al comune d’Orvieto la città di Sovana, icastelli di Pitigliano, Saturnia, Sorano e Tricosto, e restituì anche quelli di Manciano

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e Orbetello, e rinunciò a tutti i suoi diritti su Piancastagnaio e Montacuto. Il Comuneorvietano lo reinvestì sulle proprie terre in feudum et tamquam feudatarium.L’interesse portato dal Comune di Perugia alle terre aldobrandesche costrinse il nuovoconte di Sovana a sottomettersi ed a prendere la cittadinanza perugina45. Visibilmente,i detentori del titolo comitale di Sovana ebbero la vita salva in cambio di sottomissionifrequentemente rinnovellate alle città di Siena, Orvieto e Perugia. In tal modo, avevatermine il regno della contea aldobrandesca di Sovana e di Pitigliano46.

Dal lato dei conti di Santa Fiora, il conflitto con Siena si prolungò durante l’interoTrecento. Nel luglio 1316, il Consiglio Generale previde le spese future per la guerracontro i conti di Santa Fiora. Un anno dopo, esausti, i figli d’Ildibrandino XIconclusero un atto di pace perpetua con Siena47. A tale compromesso concluso trai conti di Santa Fiora e il Comune di Siena, seguì nel giugno 1331, la sottomissionead Orvieto fatta da sette conti di Santa Fiora, nipoti e bisnipoti d’Ildibrandino XI48,esprimendo lo stesso anno il desiderio di reiterare la pace perpetua con il governosenese. Quest’ultimo accettò, alla condizione che gli fossero restituiti i castellid’Arcidosso, di Castel del Piano e di Scansano, pagando la somma di 800 fiorini49.Negli anni successivi, per mettere un termine alle spinte comunali incessanti ed alfine di assicurarsi un eventuale avvenire politico e sociale, i conti di Santa Fiora furonocostretti a conferire al comune di Siena la maggiore parte dei loro castelli50. Doponumerose sottomissioni, spogliandosi di una gran parte dei loro beni, a volte riconcessia loro in feudum, i conti di Santa Fiora non disponevano più della loro potenza diun tempo51. La destituzione delle terre comitali, i capitoli di sottomissione, l’estinzionedi un primo ramo aldobrandesco e lo sbando dalla società toscana e cristiana avevanoobbligato i conti di Santa Fiora a tentare di difendere gli ultimi residui d’onore e dipotenza.

Nonostante le relazioni caotiche tra i conti e Siena, la consapevolezza del governodi quest’ultima di trovarsi di fronte ad un avversario stremato ma che rappresentavaancora un potenziale pericolo motivò la determinazione di proseguire nell’ottica diun pieno sradicamento di questi ultimi conti refrattari. Durante tutto lo XIV secolo,Siena continuò ad richiedere una sottomissione personale ai membri della famigliadi Santa Fiora, finché non gli venne consegnato, in pieno Quattrocento il dominiosulla contea omonima52.

b) L’ultima lotta dei conti di Santa Fiora: per una riabilitazione sociale e politicaAlla fine del Trecento, i conti Aldobrandeschi si trovavano in difficoltà nel tentativodi riconquistare il prestigio e l’immagine sociale che erano stati dei loro antenati.Decaduti dai loro possessi, gli ultimi conti di Santa Fiora poterono beneficiare di unaripresa di favori, intorno agli anni ’30 del Quattrocento, grazie ad alcune anticherelazioni di benificia. In effetti la moltiplicazione dei contratti di pace perpetua e

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d’alleanza, e la scelta politica di eleggere erede il Comune di Siena, come fece il conteJacomo di Bonifacio nel 134353, avevano incentivato un tentativo caotico, ma fortunato,di riavvicinamento tra le due parti. Nel contempo un ulteriore avvenimento non marcòinvece il miglioramento delle relazioni fra Siena e Santa Fiora, ma un accrescimentodella pressione senese sull’esercizio giurisdizionale inerente il potere aldobrandesco:nel 1409, furono ratificate dal conte Guido di Senese di Santa Fiora le convenzioni perregolamentare l’estrazione del sale a Grosseto54. Un fatto che significò un incrementodel peso giurisdizionale del comune a discapito del potere comitale.

I conti di Santa Fiora erano decaduti delle loro prerogative comitali. Tuttavia, graziea ciò che potrebbe sembrare un’abdicazione, i conti Aldobrandeschi si trovaronosulla strada della riabilitazione sociale ed onorifica. Questa si cristallizzò il 5 luglio1438, quando morì il conte Guido. Il Consiglio del Comune di Siena stanziò la sommadi 400 libre per rendere al defunto grandi onori funebri55. Viceversa, attuòprogressivamente un inserimento della propria autorità negli affari patrimoniali efamiliari di Santa Fiora. Infatti, soltanto dieci giorni dopo le esequie del conte, ilConcistoro elesse tre ambasciatori per aiutare Federico, figlio dell’ormai fu Guido, nelgestire alcuni affari familiari56. Le intenzioni dei Senesi non erano certo disinteressatee richiamavano quelle compiute da papa Niccolò IV e dagli Orsini nel primo Trecentocon la contessa Margherita e la sua ingombrante eredità: il 16 agosto 1438, morì ancheFederico, lasciando alle sue tre sorelle Giovanna, Cecilia e Gabriella l’insieme dei benifamiliari. Nelle ore seguenti, il Comune mandò tre nuovi commissari a cercare direcuperare le terre delle contesse e farle destinare loro “ad devotionem et gubernationemdicti comunis”. Per dare un’immagine meno aggressiva al progetto e sfruttando forsela vunerabilità delle tre orfane, il Comune di Siena organizzò delle esequie per il lorofratello, degne dei più nobili cittadini57. Le contesse Giovanna, Cecilia e Gabrielladovettero trattare dal primo settembre dello stesso anno con sei ambasciatori di Sienaper concludere l’adesione di Santa Fiora, Scanzano e Castell’Azzara all’obbedienzasenese58. Alle tre contesse, fu anche imposto l’obbligo di mantenere, di intrattenere,di custodire e salvaguardare queste terre, e di essere ubbidienti agli statuti e alle decisionidel Consiglio della Città, in conformità degli accordi presi dal padre.

L’apoteosi dell’intervento senese negli affari familiari fu raggiunta con la decisionedel Concistoro, il 16 settembre 1438, di concedere al podestà la facoltà di trattarecon le tre contesse: ormai non disponevano più del diritto di sposarsi liberamentesenza chiedere il consenso al Comune59, e inoltre una volta sposate, dovevanorisiedere in città come loro padre60. In seguito, tra l’autunno 1438 e la primavera1439, d’accordo con i rappresentanti delle comunità dei tre castelli di Santa Fiora,Scanzano e Castell’Azzara, le contesse di Santa Fiora accettarono le richieste dellacittà senese e si misero sotto la sua protezione.

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c) La fine degli Aldobrandeschi di Santa Fiora e l’incoronazione degli SforzaNel 1450, le due contesse Giovanna e Cecilia di Santa Fiora appariono nei documenti,associate ai loro rispettivi mariti (senza dubbio, scelti e riconosciuti dalle autoritàsenesi) Galeazzo conte d’Areo61, e Bosio degli Attendoli fratello dello Sforza diMilano62. I membri della famiglia Sforza erano già comparsi nel territorio toscano,marchese e umbro, in qualità di condottiero o di capitano di guerra, al servizio dipotenze civili o ecclesiastiche (italiane o europee), acquistando, per esempio, dallemani del Papa Eugenio IV la signoria delle Marche nel 143463. La presenza di Bosioin quanto coniugo di Cecilia di Santa Fiora integrava quindi perfettamente lesfumature generiche della politica d’ascesa sforzesca. Il 9 agosto 1450, Nicodemodi Pontemulo, cancelliere del Duca di Milano, rappresentava le due coppie comitalicon l’incarico di procuratore presso le autorità comunali senesi. Essi effettuaronouna concessione intorno alle terre di Santa Fiora, Scanzano e Castell’Azzara a favoredel governo di Siena. Le due coppie riaffermarono la loro lealtà e fedeltà al Comunedi Siena, al quale lasciarono il diritto e la facoltà di intervenire su dette terre. Inquest’atto, i due mariti venivano designati in quanto “domini Sancte Flore”, comese gli fosse stato conferito il titolo nobiliare comitale dal fatto della loro alleanzamatrimoniale con due delle tre ultime eredi legittime della casata aldobrandesca diSanta Fiora. Tuttavia, sarà soltanto Guido, figlio di Cecilia e di Bosio, a portare etrasmettere il nome e titolo di Santa Fiora, alla fine del XV secolo.

Ma, perché furono i discendenti di Bosio e di Cecilia a ricevere titolo onorifico econtea patrimoniale64? La presenza sul territorio toscano di Bosio e di suo fratelloFrancesco Sforza, duca di Milano dal 145065, fu sicuramente decisivo nellasuccessione al casato di Santa Fiora. Nel 1461, Bosio degli Sforza e suo figlio Guido,nuovo detentore del titolo di Santa Fiora, fecero intenzionalmente riferimento alconte Guido, deceduto ed onorato nel 1438. Chiesero alla città di Siena di accoglierli,richiamando il legame genero-suocero per legittimare le loro azioni66. La loro politicadi avvicinamento con il Comune di Siena s’iscriveva in una tradizione ben anterioreed avallata dalle istanze senesi, cioè una tradizione politica istituita dagli ultimiAldobrandeschi. Tuttavia non c’era motivo di presentare tale richiesta senza ilconsenso del membro più eminente e più potente della casa Sforza: il duca Francescodi Milano. Questi veniva presentato in qualità di “padre e benefattore della magnificacomunità senese”. Nel contesto della richiesta di un ufficiale riconoscimento delpotere comitale ex-aldobrandesco a Bosio e a suo figlio, venivano conferiti unsupplemento di prestigio ed un forte sostegno da parte di suo fratello, detentore diun amplissimo potere diplomatico, politico e economico in tutta l’Italia. Anzi, lostesso giorno, Francesco Sforza, duca di Milano, approvò e garantì i capitoli diraccomandazione del conte Bosio e di suo figlio, ormai unico detentore del titolodi conte di Santa Fiora67.

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Conclusione

L’autonomia dei conti di Santa Fiora se ne era andata un po’ alla volta, attenuatanel corso dei secoli, indebolita dalle pretese patrimoniali dei suoi membri stessi, dallepressioni comunali, dall’avidità pontificia, imperiale, reale, e dalle ambizioni di nuovefamiglie. La fine degli Aldobrandeschi nel XV secolo è stata quindi il risultato diun processo avviato nei due secoli precedenti. Gli Sforza, forse più fortunati degliOrsini, grazie al meccanismo delle alleanze e delle cariche politiche e militari,riuscirono a crearsi in Toscana una posizione sociale di alto rilievo, beneficiando diuna forte e diretta legittimazione degli Aldobrandeschi. Certo, ancora all’inizio delTrecento, la fortezza di Santa Fiora era apparsa a Dante Alighieri inespugnabile ela potenza della casa comitale inamovibile quando declamava “E vedrai Santa Fiora,com’è sicura!”68. Però, l’impegno inveterato degli eserciti (soprattutto senese) e gliassalti politici hanno avuto ragione degli ultimi Aldobrandeschi, ormai passati sottoil giogo dei Milanesi.

Note:1 Archivio di Stato di Siena (d’ora in poi A.S.S.) Capitoli 5, cc. 130t-132.2 La seconda sposa del conte Ildibrandino VIII fu Adalagia, vedere Tavola genealogica 1, in allegato.3 Per qualificare l’intensità del confronto, Simone Collavini evocava una similitudine con una guerra civiletanto l’opposizione fu rilevante. S. M. COLLAVINI, Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus. GliAldobrandeschi da ‘conti’ a ‘principi territoriali’ (secc.IX-XIII), Pisa, ETS, cap. 6, pp. 297-344.4 Uno degli interventi fu pronunciato da Ugerio della famiglia comitale Pannocchieschi: A.S.S. DiplomaticoRiformagioni, a.1215, luglio 2. Il documento spesso citato negli studi riguardanti la famiglia Aldobrandeschis’inserisce nel corpus documentario delle fonti riguardando la famiglia Pannocchieschi d’Elci che verràedito in seguito alla monografia familiare dedicata al detto gruppo nobiliare, che sto attualmente curandoper il doppio Dottorato di Ricerca, svolto nell’ambito della cotutela Francia-Italia, tra l’Université dePoitiers e l’Università degli Studi di Siena.5 Codice Diplomatico della città d’Orvieto. Documenti e regesti dal secolo XI al XV e Carta del Popolo,codice statuario del comune d’Orvieto, (da ora in poi: CDO) ed. L. FUMI, Firenze, Vieusseux, 1884,Documenti di Storia Italiana a cura della R. Deputazione sugli studi di Storia Patria per le provincie diToscana, dell’Umbria e delle Marche, t.VIII (ristampa 1997), n°107, a. 1216, ottobre 22-26, pp. 74-78.6 Simone Collavini ha identificato i castelli, le giurisdizioni della spartizione della contea Aldobrandescanel 1216. S. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”. Gli Aldobrandeschi, op. cit.,pp. 304-305; D. MARRARA, Storia istituzionale della Maremma senese. Principi e istituti del governo delterritorio grossetano dall’età carolingia all’unificazione d’Italia, Siena, Meini, 1961, pp. 53-54.7 Cartografia 1. I limiti indicati sono stati definiti seguendo i confini naturali, e presentano soltanto unavisione media della realtà.8 Il principio successorio seguito era quello della legge longobarda della spartizione equitativa tra tutti glieredi maschi senza favorire il primogenito maschile. S. CAROCCI, Genealogie nobiliari e storia demografica,in Demografia e società nell’Italia medievale (secoli IX-XIV), a cura di Rinaldo COMBA - Irma NASO,Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della provincia di Cuneo, atti del convegno (28-30aprile 1994), Cuneo, 1996, pp. 87-105, soprattutto pp. 90-91; P. CAMMAROSANO, Aspetti delle strutture

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familiari nelle città dell’Italia comunale (secoli XII-XIV), “Studi Medievali”, 1975, anno XVI, n.s., fasc.,pp. 417-435.9 La nuova spartizione del 1274 rese acuita la dicotomia all’interno del lignaggio già fortemente scossodalle scelte politiche divergenti dei conti Aldobrandeschi.10 L’atto di spartizione del 1274 è edito in G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella DivinaCommedia, Roma, 1934, ristamp. anal., Roma, 1980, Multigrafiche Editrice, Biblioteca Storica di fonti edocumenti, 2 vol., II, n. 580, pp. 246-247. La divisione fu corroborata nell’atto di 12 anni posteriore, il6 agosto 1286. G. CIACCI, op. cit., II, n. 621, p. 274.11 Vedere la cartografia 2 di S. M. COLLAVINI, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”., op.cit., pp. 368-369.12 Per sopravvivere alle mutazioni sociali e politici nei contadi toscani, alcune famiglie preferirono adottarealtra politica che quella di difendere il loro dominio : per esempio, i Gherardeschi s’inserirono nella societàdella città portuaria pisana, di cui presero il capo fino alla metà del Trecento, E. CRISTIANI, Nobiltà epopolo nel Comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico, Napoli, 1962, IstitutoItaliano per gli Studi Storici.13 O. REDON, L’espace d’une cité. Sienne et le pays siennois (XIII-XIV e s.), Roma, 1994, Collection del’Ecole française de Rome, 200, pp. 143-147.14 Il Caleffo Vecchio del Comune di Siena, (ad ora in poi, CV) ed. CECCHINI, Siena-Firenze, Olschki,1931-1991, 5 vol., I, n°62, a.1203, gennaio 21; I, n°172-173, a. 1221, ottobre 2.15 Il vicario generale era specificamente designato per la Maremma e l’Aldobrandesca.16 CV, II, n°531-532, a.1251, maggio 17. Il conte Guglielmo si era impegnato con Firenze e Orvieto controi suoi propri parenti e contro Siena. CDO, n°297, a.1251, marzo 20-29, pp. 192-194. La dicotomia internaal lignaggio aldobrandesco fu confermata ed istituzionalizzata nella redazione degli statuti comunali diSiena nel 1262, che specificò le ‘topolinee’: Il Costituto del Comune di Siena dell’anno 1262, ed. L.ZDEKAUER, Milano, Hoepli, 1897, Dist.III, art. 380, p. 191: “De tribus eligendis super redditibus etcensibus comunis Senarum: // et specialiter super redditibus et provenctibus, quos comune Senarumrecipere et habere debet a comite Ildibrandino de Sancta Flora et a comite Ildibrandino de Pitigliano //”.Appare ovvio che la distinzione tra i due parenti fatta dal Comune di Siena non era soltanto motivata dalleposizioni politiche, ma anche dalle pretese economiche senesi sull’ampio territorio dell’Amiata, ancorasotto il giogo aldobrandesco.17 Anche se, generalmente, è considerata la data della battaglia di Montaperti come punto di riferimentodel cambiamento d’orientamento politico di Siena, passando dal lato ghibellino al lato guelfo, lospostamento politico accadde negli anni successivi che possono essere estimati fino agli anni 1270.18 Gli abitanti ai confini senesi-orvietani furono chiesti di non favorire i ribelli (cioè i conti di Santa Fiora)e furono invitati a mettersi al servizio e alla disposizione del podestà orvietano : Archivio Comunaled’Orvieto, Riformanze, cc. 81, cc. 87-105, citato da G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia, op. cit.,II, p. 304, a.1301, gennaio 6 ; A. LISINI, La Margherita Aldobrandeschi e la dissoluzione della grande conteadi Santa Fiora e di Sovana, “B.S.S.P.”, n.s. anno 3, 1932, X, pp. 323-357, pp. 324-325.19 CDO, n°602, a. 1303, settembre 11.20 Nel gennaio 1304, undici comuni d’undici castelli del comitato Aldobrandesco si sottoposero al comuned’Orvieto: CDO, n°402, a. 1304.21 A.S.S Consiglio Generale, LXIII, c. 209, a.1303, dicembre 18.22 Già, nel settembre 1330, tre conti di Santa Fiora, Enrico, Guido et Jacopo, uno dopo l’altro,s’impegnarono a pagare ai Senesi per riscossione delle rapine e de danni effettuati da loro, e concesseroin segno d’accettazione del patto metà del castello di Castel del Piano: CV, t. 4, n°1073, 1074, 1075, a.

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1330, settembre 7. La presa di Scansano e d’Arcidosso dal capitano di guerra, Guido Riccio, fu raccontatada Agnolo di Tura del Grasso, Cronaca Senese, a. 1331, p. 503, in Cronache Senesi, a cura d’AlessandroLISINI e Fabio IACOMETTI, Bologna, Zanichelli, Rerum Italicarum Scriptores, t. XV, parte VI.23 D. MARRARA, Storia istituzionale della Maremma senese, op. cit., soprattutto il capitolo 3 “Ilfeudalesimo laico: Gli Aldobrandeschi”, e il capitolo 4 “L’espansione pisana, senese e orvietana: la crisidel feudalesimo e la nascita dei comuni”.24 Sono qui sotto intesi gli Stati-Repubblica, come Siena oppure Orvieto.25 L’ampio movimento di sottomissioni si estese dal 1300 al 1305. Qualche riferimento degli esempi deltesto: CV, t.4, n°1037, 1049, 1051, 1053, 1055.26 Dichiarazione comune di guerra da Siena contro Santa Fiora e Sovana: A.S.S. Consiglio Generale, LVII,c.83, a.1299, marzo 24. Ripetizione della dichiarazione ed organizzazione della spedizione: A.S.S. ConsiglioGenerale, LVIII, c. 32, c. 52, cc. 79-81, a. 1300. Il motivo nel 1300 (c.32): “cum audiveritis... quare ortaest guerra inter Comune Senensem et comites Ildibrandescos, et dictos comites occasione dicte guerreequitaverunt hostiliter in comitatu Senense et continue equitant et multam injuriam et dampnum etgravamen intulerant, et cotidie inferunt civibus et comitatinis Senensibus”; A. LISINI, La MargheritaAldobrandesca e la dissoluzione della grande contea, “B.S.S.P.” pp. 324-325.27 CDO, a.1312, settembre 15-26.28 Gli Orsini si riorganizzarono con l’arrivo del nuovo re a Napoli, Carlo I d’Angiò, spostandosi di nuovonell’obbedienza pontificia, dopo la battaglia di Tagliacozzo, e i membri della famiglia romana usarono ilpragmatismo politico e il forte sentimento della coesiva solidarietà familiare. Dopo il 1270, la riabilitazionedegli Orsini sembrava pienamente effettiva, e loro apparvero particolarmente decisi ad approfittaredell’alleanza tra il Pontefice e il Francese, piazzandosi fra le famiglie curiali sulle quali la nuova monarchianapoletana intendeva contare per sviluppare il suo influsso sul resto dell’Italia. Una delle strade utilizzatedagli Orsini fu l’adesione alla causa guelfa, facendo scegliere il re napoletano tre nipoti del cardinaleGiangaetano, cioè Bertoldo, Napoleone e Matteo, figli di Gentile Orsini, in carica di collaboratore delsovrano. Negli anni 1270, Bertoldo riuscì ad imporsi nei progetti toscani di Carlo I. Però, rapidamentesi creò una situazione conflittuale tra i due personaggi, soprattutto dopo l’episodio di Massa Marittima,dove Bertoldo, a fine di dimostrare la sua potenza, prese il podestariato di Massa, cacciando BernardinoPannocchieschi, considerato in quanto occupante abusivo del palazzo comunale. Bernardino era moltolegato al potere regio napoletano. Con l’elezione di Giangaetano Orsini alla Santa Sede, sotto il nome diNiccolò III, un disequilibrio fu succitato tra i nuovi progetti pontificali (ormai “orsiniani”) e regi,soprattutto da parte del nuovo papa che intendeva porre limiti all’influenza di Carlo. Anzi, Niccolò IIIcooptò Bertoldo durante il conclave di Viterbo del 1277, ponendolo al servizio diretto della Chiesa,chiudendo la collaborazione con Napoli. Nel 1278, Bertoldo fu designato rettore in temporalibus inRomagna e fu incaricato ufficialmente di calmare le turbe nelle città della Via Emilia. Ufficiosamentedoveva utilizzare la sua propria esperienza podestarile in Toscana per portare avanti le speranze pontificali.Tuttavia, l’incapacità diplomatica di Bertoldo non permise ai progetti pontificali e familiari di realizzarsi,non essendo pure in grado di ottenere successi parziali come legami nuziali con qualche famiglia nobiliarelocale. Per le vicende degli Orsini, vedere gli studi di F. ALLEGGREZZA, Organizzazione del potere edinamiche familiari. Gli Orsini da Duecento agli inizi del Quattrocento, Roma, 1998, Istituto Storico Italianoper il Medio Evo, nuovi studi storici 44.29 La sua vera e propria campagna d’espansione territoriale si svolse negli anni 1280-1300.30 Tavola genealogica II.31 Tuttavia, secondo un atto notarile dettato da Napoleone stesso, suo fratello Orso avrebbe incaricatola moglie Margherita e suo fratello cardinale, durante la redazione del testamento, di farsi gli esecutori

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testamentari e tutori dei loro figli e beni: Archivio Caetani, perg.n.1266, in G. CAETANI, MargheritaAldobrandesca e i Caetani, p.28, citato da G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., doc. DCXL, t. 2, p.289, a.1287, ottobre 13: “Verum qui Neapoleo tutele filiorum et executioni bonorum ipsius Ursi se noninmiscuit nec se intendat inmiscere ut heredibus Ursi possit alias utilius provideri, ipsis tutele et executionirenuntiavit... In Orvieto.”32 A. LISINI, La Margherita Aldobrandesca e la dissoluzione della grande contea, “B.S.S.P.”, pp. 326-327.33 Il 3 ottobre 1298, Bonifacio VIII aveva ordinato la dissoluzione del terzo matrimonio della contessaMargherita con Loffredo Caetani, imputando la contessa aldobrandesca di bigamia: Archivio Caetani,perd.1504, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella Divina Commedia, doc. DCXLII,pp.290-291. Poi, nel marzo 1304, Bonifacio VIII dichiarò la contessa decaduta dell’enfiteusi dei benidel monastero di San Anastasio, qualificandola di nemica della Chiesa: “adversus eamdem Ecclesiamrebellerat, adhaerendo quondam Guidoni de Sancta Flora ejusdem Ecclesiae publico inimico, cum eocopulando amicitias et confoederationi faciendo”. A.S.S. Archivio S. Anastasio, a. 1303, marzo 10.34 Alessandro Lisini ha forse esagerato le intenzioni del papa Bonifacio VIII, chi, secondo lui, sarebbestato pronto a qualsiasi tipo d’intervento per ottenere la parte della contea inerente alla contessa Margherita,sostenendo e spingendo Senesi e Orvietani nella loro impresa di sottomissione dei nobili, per rendere piùfacile il suo compito e limitare le sue spese. Dunque, il papa avrebbe sperato ricuperare le terre dellacontessa ereditate dal padre, provenienti di concessioni feudali dal Papato e dal monastero diSant’Anastasio, e sulle quali il pontefice stimava avere un diritto di prelazione. Però, richiedendo il sostegnodei Senesi, il papa temé che il comune di Siena si mise in possesso della zona ambita. Anzi, in una bollaposteriore al 15 ottobre 1300, notificò ai Senesi di non invadere le terre della contessa. Mandò in quantodi comandante delle truppe, il vescovo Teodorico di Civitapapale, la cui azione non fu molto soddisfacente.In effetti, Teodorico pervenne ad occupare senza gran difficoltà Saturnia e Mensano, però al momentodell’assedio di Pitigliano dove si erano spostati gli eserciti del conte Guido di Santa Fiora e della contessaMargherita, la sconfitta fu pesante per l’esercito pontificale, e l’onore del papa schernito. L’indegno diBonifacio VIII lo spinse a pronunciare la scomunica dei due cugini-amanti, in quanto refrattari e nemicidella Chiesa: A. LISINI, La Margherita Aldobrandesca e la dissoluzione della grande contea, “B.S.S.P.”, op.cit., pp. 325-327; G. BRUSCALUPI, Monografia storica della contea di Pitigliano, opera postuma, Firenze,1906, ristamp. Roma, Mutigrafiche, 1986, p.152. Bolle pontificali di Bonifacio VIII: A.S.S. DiplomaticoRiformagioni, a.1300, ottobre 15; A.S.S. Cap.2, c.356v (a.1300, dicembre 3).35 Il matrimonio di Margherita con Orso Orsini fu chiaramente annunciato in un atto del 1294, conservatopresso l’A.S.S. Diplomatico Riformagioni, a. 1294, marzo 5.36 A. LISINI, La contessa palatina Margherita Aldobrandeschi e il suo matrimonio con il conte Guido diMonforte, “B.S.S.P.”, 1932, X, n.s. 3, pp.1-48; ID., La Margherita Aldobrandesca e il cavaliere Nello daPetra, “B.S.S.P.”, 1932, X, n.s. 3, pp. 248-283. In prime nozze nel 1270, sposò Guido di Montfort, contepalatino, che morì nel 1287, lasciando due figlie Tommassa e Anastasia. Al secondo, sposò Orso Orsini,poi, al terzo, si legò a Roffredo Caetani, il cui matrimonio fu dissolto nel 1298. Ebbe due altri mariti : ilsuo cugino Guido di Santa Fiora e Nello dei Pannocchieschi da Petra, unione dalla quale nacque un figliomorto presto, Binduccio. Per la visione dal testimonio di Napoleone Orsini sulla molteplicità dei matrimonidella contessa: Archivio di Stato di Napoli, Registri Angioini, vol.161, ff.128v-129, cit. G. CIACCI, GliAldobrandeschi, op. cit, II, p. 296: “Neapoleo Sancti Adriani dyaconus cardinalis apostolice sedis legatus// de narratione premissa de matrimonio legitime jam dudum contracto inter Loffredum Gaietanum,felicis recordationis Bonifacii pape nepotem, et mulierem nobilem Margaritam comitissam palatinam,ac de secuto postea inter ipsos divorcio//”.37 Archivio Caetani, perg. 931, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 296.

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38 STANCHI, Descent.Orsini, p. 428, cit. G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 308.39 Nel febbraio 1313, Margherita di Sovana si ritirò d’Orvieto dove aveva ricevuto, un anno prima, ildiritto di risiedere liberamente nel suo palazzo della Piazza San Egidio, considerando che le promessefatte alle non erano state rispettate. CDO., a.1312, settembre 15; a.1313, febbraio 24, e a.1313, aprile 1et 2. Intanto, gli Orvietani presero tutte le disposizioni necessarie al ricupero dei castelli, nonostantel’ammonizione romana.40 Il 1° aprile 1313, Benedetto Caetano fu mandato come procuratore per trattare la concessione delcontado aldobrandesco con le autorità comunali. Il giorno dopo, 2 aprile, Gentile Orsini otteneva il dirittodi dare lasciapassare a chi voleva : CDO., a.1313, aprile 1; Archivio Comunale Orvieto, Riformanze XII,cc. 14t-15, cit. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 309.41 Margherita di Sovana e Nello Pannocchieschi da Petra ebbero un figlio maschio, Binduccio, la cuisepoltura si trova ancora oggi a Massa Marittima, presso la chiesa di San Francesco. L. PETROCCHI,Massa Marittima, Arte e Storia, Firenze, A. Venturi ed., 1900, p. 159: è stata edita la sua iscrizione sepolcrale“HIC JACET BINDOCCIUS FILIUS DNE MARGARITE COMITISSE PALATINE ET DNI NELLIDE PETRA PANNOCCHIENSIUM AN. DNI MCCC INDICTIONE XIII DIE KALENDARUM MAI.”42 Era una cosa eccezionale di trasmettere l’intero patrimonio ad una femmina, due generazioni di fila.Di solito, le figlie venivano meno considerate nella spartizione patrimoniale: vedere G. LUMIA, ‘Ut cippusmagis conservetur’. La successione a Siena tra statuti e testamenti (XII-XVII secc.)”, articolo in corso distampa presso “Ricerche Storiche”; A. CIRIER, Donne e patrimonio nella nobiltà senese del Trecento.Riflessioni intorno alle vicende matrimoniali e patrimoniali della contessa Costanza d’Elci (ca. 1306-1342),articolo in corso di stampa per la rivista “Ricerche Storiche”.43 F. ALLEGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari, op. cit., pp. 45-46.44 Al suo fratello, era stata assegnata la contea di Nola, vedere la tavola genealogica 2, in allegato.45 “Terras positas ad Albegna citra fuisse et esse comunis Urbeveteris jure veri dominii, proprietatis,possessionis et jurisdictionis”. MURATORI, Regesti Atti Comune Orvieto, pp.101-102, cit. CIACCI,Gli Aldobrandeschi, op. cit., II, p. 313.46 A.S.S. Dipl. Riformagioni Balzana, n. 52, 1341, febbraio 2: “Exponitur coram vobis dominis prioribusartium rectoribus et gubernatoribus civitatis Perusii propter magnifici viri Guidonis de filiis Ursi comitispallatini quod cum idem comes Guido de Soana intendat paternitatem excelsi et magnifici vostri comunisPerusine adhipissa supplicat. Idem comes magnitudini paternitatis vostre quatenus dignemini eumdemrecipere in filium recommandatum adoptionis titulo et in civem civitatis predicte pactis si placet vestrasempre reverentia observata et condictionibus infrascriptis. In primis quidem postulat. Idem comes essecivem dicte civitatis Perusii et alibrari pro alibratu competenti videlicet inquistatur XIIc libris denariorumperusinorum pro qua libra solvere se offert datas et collectas et alias facere factiones ut alii perusini faciuntpro comunis libra et catastro.Item nomine suo et fratrum suorum pro quibus de rato permictet submetitet submictere offert civitates castra terras et fortelitias suas quas juste habent tenent et possident et quasin futurum juste dusserint aquirendas se et dictos suos fratres et personas eorum et dictas terras maxime:civitatem Soane; castrum Pictigliani; castrum Sorani; castrum Castelucalli; castrum Serenum; castrumMontisboni; castrum Chatalbii; castrum Saturnie; castrum Urbetelli; et portus suos in meranii; ipsius castrividelicet; portum Herculis; portum sancti Stephani ; portum sancte Liparete; castrum Ansedonie et portumsuum qui vocatur; portum Ansedonie; castrum Altercosti; castrum Montis Aghuti; castrum Inlgliani etgeneraliter omnes alias suas terras in quabus jus pretendit et habet et specialiter in castro Morani; castroMontiani et castro Marsigliani.”47 Le relazioni tra gli Orsini, nuovi conti di Sovana e di Pitigliano, e gli Aldobrandeschi di Santa Fiora,non furono sempre concordanti: si associarono nel 1314, in un tentativo di vendetta nei confronti dei

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Senesi, bruciando Montelaterone, Roccalbagna, però vedendo bruciare il castello di Scansano e nonostanteil trattato di pace del 1317, nel gennaio 1318, una lite tra i conti di Pitigliano e quei di Santa Fiora conducele truppe dell’uno e dell’altro a confrontarsi presso Radicofani. Dopo la sconfitta dell’esercito di SantaFiora, l’abbazia di San Salvatore sul Monte Amiata fu presa e messa a saccheggio. G. BRUSCALUPI,Monografia storica della contea di Pitigliano, op. cit., pp. 158-159. Alcuni documenti fanno ancheriferimento alle concessioni fondiarie da parte dei conti di Santa Fiora a quei di Sovana e di Pitigliano :per esempio, nel luglio 1349, Pietro del fu Fazio di Santa Fiora vendé al conte Guido del fu Romano Orsinidi Sovana, il castello di Selvana con la sua rocca, la terza parte del castello di Samprugnano, la terzaparte di Magliano, e della Marsigliana... per la somma di 40 000 fiorini d’oro: A.S.S. Archivio Sant’Anastasio(inventario-regesto Ms.B.16, doc.13, a.1349, luglio 24); G. CELATA, Antologia storica della diocesi diSovana - Pitigliano, Pitigliano, s.d., pp. 60-61. L’A. descrive le ultime campagne condotte dai Senesi persradicare la contea di Sovana e di Pitigliano, ormai tra le mani degli Orsini: gli anni 1410-1420 marcaronola totale sottomissione della zona decaduta dell’Aldobrandesca al governo senese, anche se i membri dellafamiglia Orsini perpetuarono la detenzione del titolo di conte di Sovana; A. VERDIANI BANDI, I Castellidella Val d’Orcia e la Repubblica di Siena, Siena, ed. Turbanti, 1926, p. 95.48 A.S.S. Cap.2, cc. 358-360v, a. 1317, aprile 9-17. Il 26 aprile seguente, era corroborato il testo dellasottomissione facendo menzione di tutti i nomi dei conti Aldobrandeschi et dei loro seguenti: A.S.S. Dipl.Riformagioni, a. 1317, aprile 26.49 CDO, p.473. La sottomissione fu reiterata il 22 aprile 1332, dai conti Enrico, Guido e Stefano de SantaFiora, obligandosi alla restituzione delle terre occupate, rinunciando ai diritti di pedaggio e vietando diformulare tutti tipi d’atto di guerra e di pace senza il consenso del comune, eccetto la potenza pontificale,dell’Impero e del monastero di S. Anastasio: MURATORI, Arch. Orv. Com. Reg. Atti.Com., c. 701, cit.G. CIACCI, Gli Aldobrandeschi, II, p. 312.50 A.S.S. Cap. 2, cc. 360v-361. Il contratto di trattazioni fu scritto il 6 ottobre 1331: A.S.S. Cap. 2, cc. 361-362; e il 30 ottobre, il Consiglio Generale deliberò in favore della pace con i detti conti a condizione chevendessero a Siena i loro castelli d’Arcidosso, di Casteldelpiano e di Scansano per 800 florini: A.S.SCap. 2, cc. 436v-437; la concessione fu fatta il 22 febbraio 1332 : A.S.S Cap. 2, cc. 444-445v.51 A.S.S. Cap. 3, cc. 121v-124, cc. 124v-125v, c. 129, c. 129v, a. 1339, ottobre 11-17: I conti Jacomo ePietro del fu Bonifacio sottoposero al comune di Siena terre e castelli di Selvena, Capalbio, Margliana,Montebono, Magliano, la metà di Collecchio, Scansano, Samprugnano e l’isola del Giglio. I conti Guidoe Stefano del fu Ildebrando XIII detto Novello, sottoposero la metà di Santa Fiora, Capalbio, Magliano,Petreto, Collecchio e Scanzano, e il terzo dell’isola del Giglio ; infine, il conte Conticino di fu Guido ilcastello di Stacchilagi e la metà di Morrano.52 G. PINTO, La Toscana nel Tardo Medioevo. Ambiente, Economia rurale, Società, Firenze, Sansoni, 1982,p.85.53 Gli atti di sottomissione (od assimilati) dei diversi conti nella seconda metà del quattordicesimo secolofurono la ricondotta del patto di tregua tra Siena e i conti di Santa Fiora per un anno: A.S.S. ConsiglioGenerale, CLVIII, c. 54, a. 1356, dicembre 23; una sottomissione al comune di Siena da parte del conteFrancesco : Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena. ms. B.VI, 13, f. 449 ; Nomina degli ambasciatoriper contrattare accordi di pace con i conti di Santa Fiora: A.S.S. Concistoro, reg. LXIII, c. 24, a. 1372,marzo 16; Ratifica dei nuovi accordi tra i conti di Santa Fiora e il comune di Siena e capitoli di sottomissionefirmati dal conte Guido del fu Senese: A.S.S. Concistoro, reg. CXXXI, c. 14, a. 1386, giugno 20 - A.S.S.Cap.3, cc. 682-683v, a. 1386, giugno 25.54 A.S.S. Cap. 3, cc. 234-236, a. 1343, novembre 14. Edizione in allegato: documento 1.55 A.S.S. Dipl. Riformagioni, a. 1409, settembre 9.

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56 A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c.6v, c.15v.57 Una maggiore parte dei documenti è edita in annessa al testo della comunicazione.58 A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c. 33v, in edizione, doc. 2, n°3. Le trattative si proseguirono nell’estatee nell’autunno del 1438: A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXVI, c. 3; c.11, a. 1438, settembre 1-15: “Primonamque victum obtentum deliberatum et solempniter ordinatum fuit magnifichis domini capitaneus populiet vexillifer magister et illi cives electi super materia Sancte Flore habeant plena remissione et possintconcludere et capitolare cum comitissis de Sancta Flora predicta et comitatibus terrarum earumdem eomeliori modo quo poterant ad honorem et utilitatem comunis Senensis pacifice et concorditer et non alter”.59 A.S.S. Cap. 4, cc.257v-259, a. 1438, ottobre 16-23: “Item quod dicte comunitates et homines earumfacient et curabunt ita et taliter quod dicte comitisse aut aliqua earum non contrahent matrimonium neccontractum matrimonii facient cum aliquo sine expresso consensu et voluntate ipsarum comunitatum ethominum earumdem, et quod ipse comitates et homines nullo modo concludent nec promictant concludiaut contrahi ab ipsis comitissis aut aliqua vel altera earum aliquem contractum matrimonii cum aliquosine expresso consensu et voluntate magnifici comunis Senarum. Et in casu quo dicte comitisse aut aliquaearum se maritarent aut contractu aliquem matrimonii facerent vel contraherent secundum expressoconsensu comunis Senensis tunc et eo casu dicte comunitates et homines teneantur et debeant rochas etfortillitia dictarum terrarum et cujusque earum et Selvane dare tradere et consignare realiter et cum effectumandatariis dicti comunis Senarum uni vel pluribus”. Edizione nel documento 3. La richiesta del consensomatrimoniale non era soltanto da porre al Comune di Siena, ma anche alle comunità dei tre castelli diSanta Fiora, Castelazzaro e Scansano. La clausola nuziale valida per le contesse è richiamata il 23 ottobre1438, in una decisione del Concistoro di Siena : A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c. 35v (edizione inDoc.3, n°2). Tuttavia, era già stata accennata nel mese precedente: A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXVI,c. 11: “Et recipiant promissionem et obligationem quod dicte comitisse non maritabuntur sine licentiaet consensu comunis Senensis”.60 A.S.S. Cap. 4, cc. 257v-259, a. 1438, ottobre 16: “Pro prefatis comitissis et ad earum obedientiam etvoluntatem et ad honorem et statum dictorum magnificorum dominorum Senensium secundum quodin capitulis ut super olim factis inhitis et contractis inter dictos magnificos dominos Senenses et dictumolim comitem Guidonem continetur ” (vedere edizione, doc. 3, n°1).61 A.S.S. Cap. 4, cc. 257v-259; A.S.S. Concistoro, reg. CDXXXV, c.35v. Il governo senese iscriveva lareiterazione dell’alleanza delle contesse con il comune all’interno di un processo di definizione dei confinidei castelli e delle piccole signorie locali, soprattutto in Valdorcia. A VERDIANI-BANDI, I castelli della Vald’Orcia e la Repubblica di Siena, p.106; Vedere il repertorio di Paolo Cammarosano e di Vincenzo Passeri,in I Castelli del Senese. Strutture fortificate dell’area senese-grossetana, a cura di P. CAMMAROSANO, R.FRANCOVICH, V. PASSERO, C. PEROGALLI, G. PICCINNI, G. VISMARA, Siena, 1976, ElectaEditrice, Monte di Paschi di Siena, 2 vol., II, Rep. n°53.1, p. 378. Galeazzo d’Arco conferma le transazionicon il Comune di Siena, da solo, nel gennaio 1451, e poi “ sparì ” dagli affari riguardanti Santa Fiora: A.S.S.Cap. 5, cc. 89-89v, a. 1450, gennaio 6.62 Su Bozio Sforza, P. LITTA, Le famiglie celebri italiane, vol.1, tav.1-2. Bosio fu cresciuto nella scuolamilitare del suo padre e del suo fratello. Approfittando del sostegno del papa Martino V, ricevette la caricadi governatore d’Orvieto, poi quella di poscia generale della repubblica di Siena.63 G. PEYRONNET, “Un virtuose de la guerre et de la paix au Quattrocento: François Sforza”, inFifteenth-century Studies, vol. 19, ed. Medieval Institute Publications, Western Michigan University(Kalamazoo), 1992, e Atti del convegno sul Quattrocento, Perpignan, 1991, pp. 191-208, p. 196. FrancescoSforza combatté anche contro d’Andrea Fortebracci detto Braccio di Montone alleato degli Orsini (equindi dei conti di Sovana) e del Papa, nella lotta contro Perugia, in numerose occasioni. L’ultimo confronto

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tra i due uomini fu letale a Braccio di Montone nel 1424, durante la battaglia dell’Aquila in Abruzzo, dovelo Sforza lo sconfisse, lo ferì e lo fece prigioniero. Braccio di Montone morì tre giorni dopo, il 5 giugno1424. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, (1960-) 1997, t. 49,voce “Fortebracci Andrea”, pp. 117-127.64 A.S.S. Cap.5, cc. 85v-87v, a.1450, agosto 9 (Edito, doc. 4)65 G. PEYRONNET, “Un virtuose de la guerre et de la paix au Quattrocento : François Sforza”, p. 197.66 A.S.S. Cap.5, cc. 130v-132, a.1461, aprile 30: “volentes cum suprascripte comunitate Senarum veramet sinceram adherentiam et recomandationem habere” (Edizione parziale, doc. 5)67 A.S.S. Cap. 5, cc. 278-282, a. 1462, aprile 30.68 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Purgatorio, VI, III.

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EDIZIONE DI DOCUMENTI

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1343, novembre 14, ind. XIIAmpugnano,

in domo posita super podere Francisci Guiduccii Ruffaldi,in sala ipsius domus

Testamento del conte Jacomo di Bonifazio Aldobrandeschi da Santa Fiora, con il qualenomina erede il Comune di Siena.

A. B. Copia in A.S.S. Capitoli 3, c. 234.C. Copia in A.S.S. Capitoli 60, quaderno cartaceo, ff. 83-86v.

B.In nomine Domini nostri Jhesu Christi et individue trinitatis amen. Anno ejusdemmillesimo trecentesimo quadragesimo tertio, indictione duodecima die quartodecimomensis novembris secundum cursum et consuetudinem civitatis Senarum. Quoniamscriptum est quod humane nature condictio habet debitum mortis persolvere et apudeam non est differentia personarum. Et quisque censendus est nobilior qui quoddebet accelerat (sic) cum saltim retardare non valeat debiti iam contracti arogrosum(sic) cancellare predicta itaque considerans inclitus et magnificus vir dominus comesJacobus de Sancta Flora Dei gratia palatinus filius quondam bone memorie dominicomitis Bonifatii de Sancta Flora predicta eadem gratia palatini et attendens iuxtamandatum Ecclesie saluti sue anime providere et domui sue sapienter et diligenterdisponere sanus mente corpore et intellectu presens testamentum nuncupatium sinescriptis per modum instrumentum fecit et facere procuravit. In primis quidem devota mente se catholicum orthodosse fidei celationem profiteturet asserit, et se constanter et simper (sic)1 tenere et credere quod tenet et docet SanctaRomana mater Ecclesia in omnibus principaliter que ad forum anime pertinerenoscuntur et sub dicte fidei clipeo animam Deo reddens in ultimo vite spiritu, exnunc devote dixit et dicit "in manus tuas, Domine meum spiritum recommendo".Item in casu mortis ob reverentiam Creatoris judicavit et voluit corpus suum postmortem ejus secundum solempnitatem Ecclesie tradi et sepelliri ecclesiastice sepultureapud locum Beati Niccolai de Silvena. Item legavit jussit et mandavit per infrascriptossuos heredes et fideicommissarios suos restitui et solui omnibus recipere debentibuset quecumque legittime deberent et appererent restitui cuicumque persone lococollegio et universitati et maxime que ad eum pervenissent ex quacumque causaillicita et injusta et illicite et injuste de summa et quantitate infrascripta.

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Item considerans et attendens ad constantem fiduciam et solitam legalitatem etvirtutes comunis Senarum ad quod se et mentem suam constanter et confidenterelegit et direxit spem sue salutis et executionem presentis sue ultime voluntatis. Ipsumcomune Senarum sibi et in omnibus bonis suis mobilibus et immobilibus sesequemoventibus juribus et actionibus generaliter et universaliter sub et cum infrascriptismodis oneribus et condictionibus et substitutionibus sibi universalem heredeminstituit. Item ut circa jura sibi competentia in terris et fortilitiis suis clare pateant et subgeneralitate contra intentionem ipsius testatoris nullam per suum heredem predictumvel infrascriptum possit usurpatio vel super assumptio fieri declaravit per moduminfrascriptum, infrascriptas terras et fortilitias pro infrascriptis partibus ad eum utinfra distinguetur pertinere, videlicet terram et roccham de Silvena cum juribus etpertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum comite Petro fratre suo. Item castrumet fortilitiam de Scerpena cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indivisocum dicto comite Petro fratre suo. Item unum quantum et dimidium alterius quarti cassari et terre de Capalbio cummedietate ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiis suis pro medietate proindiviso cum dicto comite Pietro fratre suo. Item medietatem castri et terre deMagliano prout distincta apparet a parte aliorum comitum cum quarta parte ejuscurie et districtus prout distincta et terminata et confinata apparet cum juribus etpertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum dicto comite Pietro fratre suo. Item medietatem pro indiviso totius castri et cassari de Giglio et ejus curie et districtucum juribus et pertinentiis suis pro indiviso cum dicto comite Pietro fratre suo promedietate. Item undecim partes de viginti partibus castri et cassari de Colecchio et ejus curieet districtus cum juribus et pertinentiis suis pro indiviso cum comite Stefano et etiampro medietate pro indiviso cum dicto comite Petro fratre suo. Item tertiam partem que divisa apparet cum suis consortibus castri et fortilitie deScansano cum tertia parte divisa ejus curie et districtus cum juribus et pertinentiissuis pro indiviso pro medietate cum dicto conte (sic, invece di comite)2 Petro fratresuo. Item tertiam partem pro indiviso castri et cassari de Samprugnano et ejus curie etdistrictus cum juribus et pertinentiis suis pro medietate pro indiviso cum dicto comitePetro fratre suo. Item medietatem totius castri et fortilitie Montis Buoni et ejus curie et districtus cumjuribus et pertinentiis suis pro dimidia parte comune cum dicte comite Petro fratresuo. Item tertiam partem census et juris census quod habet et recipere debet a comuni deMonticello quod est in totum quadraginta libras denariorum comunem pro indivisocum dicto conte (sic)3 Petro fratre suo. Item fidelitatem et baroniam terre de Strabugliano cum ejus curia, territorio et

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districtu et omagium quod a possessionibus dicte terre tenetur habere comunem proindiviso cum dicto comite Petro fratre suo. Item voluit, jussit et mandavit quod prefatum comune Senarum et heredes suusteneatur et debeat solvere et erogare pro salute anime sue quantitatemquadragintaduorum milium florinorum auri per modum infrascriptum videlicet indecem annis sequentibus post obitum ejus videlicet pro quolibet anno ad minusquattuormilia ducentos florinos de auro quos expendere debeat per infrascriptummodum videlicet quod fiant et construantur de novo quattuor monasteria in quibushabitari et monachari debeant ad minus pro quolibet ipsorum quindecim monialesmaxime virgines pauperes et bone progeniei. Et in dictis monasteriis debeant propriodivina officia celebrari pro salute et remedio anime ipsius testatoris. Et quodlibetipsorum monasteriorum habeat et dotetur per infrascriptum heredem suum inquantitate quattuor milium florinorum de quantitate predicta quadraginta duorummilium florinorum pro constructione ipsius et aliis opportunis et pro substentationeet victus et aliis necessariis dictis monialibus et servientibus ibidem in possessionibusmobilibus emendis utilibus et fructuosis secundum dispositionem infrascriptorumfideicommissariorum ipsius testatoris que bona vendi vel alienari non possint necobligari silicet sunt et remaneant proprio cum eorum fructibus ad substentationempromissorum. Quorum monasteriorum primum fiat sub reverentia et vocabulo BeateMarie Virginis et Beate Anne matris ejus sub regula et gubernatione Beati FrancisciSenensis loci. Secundum vero sub regula et gubernatione Beati Francisci Senensisloci et sub vocabulo ejus. Tertium vero sub vocabulo et reverentia Beati DominiciSenensis locis. Quartum vero sub vocabulo et reverentia Beati Augustini Senensisloci in locis declarandis per comune Senarum vel bonos homines per comuneSenarum eligendos cum consensu et voluntate infrascriptorum fideicommissarium.Que monasteria proprio defendi debeant per comune Senarum et sint proprio subprotectione ipsius dictum que comune Senarum in dictis monasteriis et quolibeteorum jure patronatus plenissime assequatur. Item quod modo simili construatur et fiat quoddam hospitale sive domus adgubernationem et substentationem pauperum maxime trascuratium pro quoexpendantur pro constructione ipsius et substentatione predicta et pro fulcimentiset lectis tenendis proprio ibidem in numero triginta lectorum ad minus bene etsufficienter fulcitorum in quo debeant divina officia celebrari. Et pro predictis debeant investiri et expendi quattuormilia florinos auri secundumdispositionem bonorum hominum eligendorum per dictum comune Senarum cumconsensu infrascriptorum fideicommissariorum in illo loco de quo disposuerantpredicti boni homines eligendi per comune Senarum cum consensu infrascriptorumfideicommissariorum. Quod hospitale construatur sub vocabulo Beati Jacobi apostoliet reverentia ejus. Et etiam debeat per comune Senarum proprio eligi gubernatoret administrator et esse debeat sub protectione comunis Senensis dumtaxat in quodebeant deputari sacerdotes unum vel plures pro divina officia celebranda pro

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remedio anime sue per dictum comune Senarum, residuum vero quantitatisflorinorum a dictis quantitatibus superius dispensatis supra judicavit et disposuitreliquid et erogari et expendi mandavit et solui pro ut et sicut particulariter et distincteetiam nuda voluntate quocumque titulo vel codicillis contigerit cum deincepsdisponere relinquere vel erogare. Que omnia voluit haberi et censeri posita dispositaet legata in presenti testamento et ex eo efficaciter peti et exigi posse et executionivoluit de mandari ac si expresse in presenti testamento esset descriptum. Item institutionem predictam de dicto comuni Senarum fecit si et in quantum dictumcomune Senarum dictam hereditatem solempniter ad habuirent infra duos mensesa die notificationis et sciencie presentis testamenti post mortem dicti testatoris et sicontigerit non adhunc substituit et instituit sub condictionibus suprascriptis et cumhoneribus suprascriptis et infrascriptis hospitale Sancte Marie ante gradus maiorisecclesie civitatis Senensis et domum Sancte Marie Misericordie pauperum dictecivitatis pro equalibus partibus sub hac condictione si capitula et conventus et rectoresdictorum locorum solempniter adiverint hereditatem ipsius testatoris in alios duosmenses a die notificationis eisdem facte et post repudiationem dicte hereditatis facteper comune Senarum si contigerit eam non adhiri per comune Senarum predictum.Ita modo quod uno dictorum locorum acceptante altero repudiante acceptantiremaneat tota dicta hereditas cum honeribus suprascriptis. Et si contingerit postrepudiationem predictam factam per dictum comune Senarum dicta loca vel alterumeorum non adhire hereditatem predictam vel non mandare vel mandari posseexecutioni effectualiter voluntatem presentem et per ipsum testatorem dispositamquam in dictis casibus et quolibet eorum Ecclesiam Romanam sibi universalemheredem instituit cum honeribus suprascriptis et aliis per dictum testatoremdeclarandis si declarari contingerit. Onerans reverenter ex nunc in predictis etpredictorum executiis conscientis et animas Romanorum pontificum etadministratorum Ecclesie suprascripte. Et si contingat ex presenti testamento perinstitutos heredes successive hereditatem non adhivi et bona sua devenire adsuccessores ab intestato voluit legata predicta solui et ea ab intestato repetit et repetiriet deberi etiam absque hereditatis de eis fienda et per eosdem prestari et fieri voluit.Et ut ipsius testatoris voluntas plenam executionem recipiat in omnem eventum etut fideicomissarii liberius et magnus expedite executionem facere valeant voluit quodcomune Senarum adjutorium favorem et operam interponat et prebeat. Et ad hoc utliberitur hoc faciat voluit et in dicta causa legavit dicto comuni Senensi pro censuet nomine census et honore et omagio suarum terrarum annuatim et in perpetuumunum cerum de certa foliatum valoris centum librarum denariorum senensium queofferre debeant tam heredes supradicti istituti quam substituti et heredes venientesab intestato successive. Et fideicommissarii offerant et offerri faciant in die festeSancte Marie Virginis quando offertur cerus dominorum Novem cum armis ipsiustestatoris patentibus et in memoriam ipsius comitis Jacobi et pro salute anime sueoperi Sancte Marie predicte. Et nicchilominus in causa in quo hereditatis ab intestato

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deveniret voluit quod dicta judicia et legata solvatur de redditibus et intratis bonorumet terrarum suarum que bona sua predictis judiciis persolvendis obligari. Item subcondictione obiecta in omnibus suprascriptis quod terre, fortilitie, jurisdictiones etcastra ad eum pertinentia per heredem vel venientes ab intestato vendi vel alienarivel in alterum transferri vel obligari non possint silicet semper in hereditate ipsiuset apud heredes remaneant mandans predicta fieri et observari per heredem sub penaprivationis rei alienate et totius hereditatis. Et ad predicta executioni mandandasollicitanda et promovenda incessanter suos fideicommissarios executores etprocuratores inrevocabiles laudabiles officium dominorum Novem civitatis Senensispresens et quod pro tempore fuerit rectorem hospitalis Sancte Marie predicte,rectorem domus Misericordie suprascripte, priorem Beati Augustini Senensis loci,priorem Beati Dominici de Camporegio Senensis loci, priorem fratrum loci deCertosa, guardianum Beati Francisci Senensisloci consultorem in predictis, dominumNiccholaum Novellum quondam domini Filippi de Bonsignoribus de Senis,Francischum quondam Guidoni Ruffaldi et Guidonem quondam domini Mei civesSenenses fecit et constituit comune effectu. Et dedit eis licentiam substituendi aliosfideicommissarios et procuratores. Et ex nunc dedit eis et substituendis ab eis omniasuprascripta faciendi mandatum licentiam et auctoritatem cum generali libera etplena administratione, quorum fideicommissariorum mandatum et auctoritas ducetet reiteretur per duos singulos usque quo dicta dispositio fuerit executioni mandataet possint recommictere mandatum quotiens eis videbitur. Et quod factum fuerit peromnes vel maiorem partem eorum vel duas partes eorum valeat et teneat. Etnolentium acceptare et absentium voces et auctoritates eorum volentibus etacceptantibus applicentur. Et hec est sua ultima voluntas et dispositio quam voluitvalere et tenere pleno jure et specialiter jure testamenti et ultime voluntatis, et si nonvalent jura testamenti valeat jure codicillorum et alterius cujuscumque juris meliuset efficacius valere et tenere potet, ita quod sit immutabilis. Rumpens et cassans omnealiud testamentum et ultimam voluntatem quod et quam ab hodie retro et usque in hodiernam diem condedit sive ferit. Et siquam apparent corroboratam cujuscumquecondictionis in eo apposite, voluit esse nullam et vanam. Et ad hoc ut securiustestamentum predictum in sua permaneat immutabili firmitate voluit omne aliudtestamentum et ultimam voluntatem quod et quam apparent ab eo conditum velinposterum condendum vel per eum celebrandum vel fiendum non valere nec tenerealiquo jure vel causa et nullam obtinere robboris firmitatem nisi in eo expresse etsignantur et nominatim continentur et scripta forent hec verba videlicet Bernim,Caides, Anavit, Avacellus, et quod siquod apparent in posterum factum vel conditumab eodem in quo predicta verba superius scripta apposita non forent et in quo dictaverba ut superius dictum est scripta non forent ex nunc dicit et affirmat illumtestamentum et ultimam voluntatem esse fictitium et non verum. Et ex nunc sicontingerit dictum testamentum et ultimam voluntatem in posterum condendaumnon continere expresso nominatim et signantur predicta verba vel Benium, Caudes,

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Anavit, Avacellus, dictam hereditatem titulo irrevocabilis donationis in terminos deditet donavit post mortem suam dicto comuni Senensi et mihi notario infrascriptorecipienti pro dicto comuni Senensi cum honeribus condictionibus et pactis et modissuperius declaratis. Et predicta et fecit pro maiori securitate inmutabili testamentipredicti et contentorum in eo.Actum apud villam de Ampugnano comitatus Senensis in domo posita super podereFrancisci Guiduccii Ruffaldi in sala ipsius domus coram domino Guidone judicequondam Fredi de Montalcino cive Senense, Jacobo quondam Jordani socio predictidomini comitis Jabobi, Dominico quondam Guiduccini Ruffaldi et ser Bandinonotario de Senis, Francisco Guidonii Ruffaldi et Guidone quondam domini Mei deSenis et me notario infrascripto cognoscentibus personam dicti testatoris, testibusad predicta presentibus habitis et vocatis et rogatis a testatore predicto in quorumpresentia predictus testator rogavit me Jacobum notarium ser Gaulterii notarius deCastillione quod de predictis concedere publicum instrumentum ad dictum etscriptum consilium cujuscumque sapientis et specialiter domini Guidonis deMontalcino.Ego Jacobus filius ser Gualterii notarius de Castillione vallis vine comitatus Senensis,imperiali auctoritate notarius et judex ordinarius predictis omnibus et singulis utsupra legitur interfui et ea rogatus a dicto testatore scripsi et publicavi.

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1438, luglio-agostoSiena

Il Comune di Siena prevede le esequie del conte Guido di Santa Fiora, a luglio, e poi,del suo figlio Federico da Santa Fiora, ad agosto dello stesso anno.

1) 1438, luglio 5.

A. A.S.S. Concistoro 435, c.6 t: Circa pennonem et alia pro honore exequia comitisde Sancto Flora

Convocato congregato et cohadunato consilio populi et popularium magistrorumcomunis Senensis in sala magna palatii. Et ubi similiter consilia solent congregari innumero sufficienti facta proposuit super infrascriptis redditis consiliis. Et tenendoposito per toto ad lupinos albos et nigros et servatis certis solempnitatibus opportuniset fuit in dicto consilio actum optentum et solempniter deliberatum quod auctoritatesipsius consilii sit plene remissum et commissum in magnificum dominum capitaneumpopuli et vexilliferi magistros et illos cives quos apud se elegerint si quos voluerint qui

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ad honorandum obse exequie magnifici comitis Guidonis de Sancta Flore. In pennonetargit converti equi vestri famuli Bambriis, insignis comunis et in cera pro exequiishabeant autoritates expendendi usque quantitatem librarum quatrigentarum expensescomunis mittendo illud duos alios imbasciatores ultra persona Jacobi Guidini quiibidem est ad interveniendum in dictis exequiis ita quod ibidem sunt tres imbasciatoresnostri comunis unius per monte. Cum licteris et rotulis prout videbitur ad honoremcomunis. Non computatis in dictis libris IIIIc salariis ipsorum ambasciatorum. Et inpredictis habeant tantam auctoritatem quantam habet totum comune Senarum.

2) 1438, luglio 15

A. A.S.S. Concistoro 435, c. 15t : Apotissa expens factarum in obsequi comitis de SanctaFlora - Super materia de Sancta Flora

Magnifici domini et capitanei populi in simul et spectabiles vexilleri magistri visaexpensi facta de libris trecentis nonagenta septem solidis sex pro honorandis exequiiscomitis Guidonis in pennone targita super vestibus banderiis et cera juxtadeliberationem consilii generalis. Ipsam expensam approvaverunt. Et deliberaveruntquod camerarius Biccherne ipsos denarios solvat et instituat Francischino Maroso(?) operario camerario pro totis expensis per eum in predictis. Et cum spectabilibusvexilliferis predictis vigore deliberationis conyilii populi concorditer et solempniterelegerunt infrascriptos tres egregios et spectabiles viros super commissionibus comitisFederici de Sancto Flora. In simul cum ipsis magnificis dominis vexilliferis magistriset Bartaolomeo domini Tommassi de Agazaris, Guidocco Gionte et Jacobo Guidiniilluc ambasciatoribus juxta deliberationem consilii populi de qua retro, quorumelectorum hec sunt nomina: Dominus Pecciis de Petrus miles et doctor ; dominusPetrus de Michaelibus miles et doctor et dominus Antonius Johannis de Batigniano.

3) 1438, agosto 17

A. A.S.S. Concistoro 435, c. 33t: Remissio praticandi et capitulandi super materiaSancti Flore - Pro honorando exequi comitis Federici.

Quod sit remissum in magnificos dominos et vexilliferum magister et illos cives quisunt electi super materia Sancti Flore, et in alio sex vel novem cives eligendos pereos qui possint et auctoritatem habeant cum suppositis olim comitis Guidonis deSancto Flore praticandi componendi et capitulandi omnia ea que noverint expediread conservationem honoris et utilitatis comunis Senarum, cum hoc quod omnia etsingula per eos praticata composita et ordinata cum comitatibus et suppositis ipsiusolim comitis de Sancto Flore ponantur ad simile consilium, et pro ut super eisdeliberatum fuerit mictatur executioni, omnia faciendo et operando cum hoc quod

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terre et fortilitie ipsius olim comitis de Sancto Flore deveniant ad devotionem etgubernationem magnifici comunis Senarum. Simili modo et forma fuit in dictoconsilio virtum optentum et solempniter deliberatum quod sit remissum in magnificosdominos, capitaneum populi et vexilliferos magistros et cives electos super materiaSancti Flore honorandi memoriam et exequia comitis Federici comitis Guidonis deSancto Flora qui de proximo mortuus est, uno pennone super veste targia covetaequi et duobus banderectis quadratis insignis comunis, expensis comunis adconsilium Augustini de Burghensibus etc.

4) 1438, agosto 17

A. A.S.S. Concistoro 435, c. 34t: Pro centum manibus grossorum argenti qui missifuerunt ad Sanctum Floram – Pro censu comitis de Sancto Flore.

Deliberaverunt etiam concorditer et solemniter quod regulatores comunis significentcomitem Federicum comitis Guidonis de Sancto Flore destribuendo creditorem inbiccherna pro redditis in centum manibus grossorum argenti.Et similiter accordant creditorem ipsum comitem pro reddendo malleanipertinentibus ad eum in libris ... pro... censu presentis anni. Et quod postmodumde eis fiat apostisse solutionis directa ipsi camerari biccherne quod ipsos solvatcamerario Ecclesie catedralis pro censu presentis anni.

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1438, ottobre 16-23, ind.IISiena, in palatio residentie magnificorum et potentum dominorum

Le contesse di Santa Fiora si presentano con i rappresentanti delle comunità rurali deicastelli di Santa Fiora, Castellazzara e Scansano per concludere accordi con il Comunedi Siena. Le contesse cercano di conservare il loro dominio sopra detti castelli. Tuttavia,nel presente atto, viene fuori l’obbligo per le tre figlie di Guido da Santa Fiora di seguirele decisioni del comune per quanto riguarda il loro matrimonio.

1) 1438, ottobre 16

A. A.S.S. Caleffo Rosso, capitoli 4, cc. 257t-259.In nomine Domini nostri Jhesu Christi amen. Anno ab ejusdem Domini salutiferaincarnatione millesimo quatuorcentesimo trigesimo octavo, indictione secundasecundum ritum stilum et consuetudinem notariorum civitatis Senensis die verodecimo sexto mensis octubris, tempore pontificatus sanctissimi in Christo patris etdomini domini Eugenii divina providentia Pape quarti secundum comunem usum

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loquendi in dicta civitate Senarum. Universis et singulis presens publicuminstrumentum inspecturis appareat manifeste quod magnifici et potentes domini etdomini priores gubernatores comunis et capitaneus populi magnifice civitatis Senensisabsente Andreoccio ser Antonii Gennarii infirmo, spectabiles viri vexilliferi magistridicte civitatis et quindecim cives specialiter electi quorum magnificorum dominorumcapitani populi vexilliferi magistrorum et civium prefatorum nomina et prenominainferius sunt descripta, habentes ad infrascripta omnia et singula faciendum gerendumet exercendum plenam potestatem auctoritatem et baliam a generali consilio campanedicti comunis et populi civitatis Senensis prefate prout solempniter et publice patetmanu providi viri ser Barnabei de Tuderto notarii Reformationum dicti comunisSenensis vice et nomine comunis et populi civitatis Senensis prefate et pro ipsocomuni et populo ex balia auctoritate et potestate predictis ex una parte. Et venerabilevir frater Silvester Pieri de Sancta Flora, dignissimus Bacalarius frater ordinisheremitarum Sancti Augustini et Jacobus Johannis de Sancta Flora predicta vocatusde Calegiano ambassiatores mandatarii sindici et procuratores magnificarumcomitissarum et comitissarum Cicilie, Johanne et Gabrielle filiarum olim recolendememorie magnifici comitis Guidonis de Sancta Flora predicta et comunis et hominumSancte Flore predicte ad infrascripta omnia et singula facendum gerendumpaciscendum componendum et exercendum plenum speciale ac generale mandatumhabentes prout plene constat publicis instrumentis manu ser Antonii Petri Ciardinide Ischia notarii publici Senensis. Et prudentes viri Guaspar Antonii et RaneriusAngeli Sozi de Scanzano ambassiatores mandatarii sindici et procuratores comunisScanzani predicti habentes ad infrascripta omnia et singula faciendum paciscendumcomponendum gerendum et exercendum plenum speciale ac generale mandatumde quo plene constat publico instrumento manu ser Jacobi ser Johannis de CastillioneAretino notarii publici. Et providus vir Antonius Vivarelle vocatus Antoniucciusde Castro Azara, ambassiator mandatarius sindicus et procurator comunis ethominum Castri Azare predicti habens ad infrascripta similiter omnia et singulafaciendum paciscendum componendum gerendum et exercendum plenum specialeac generale mandatum de quo plene constat publico instrumento manu ser PierileonisGhichi domini Andree de Gualterottis de civitate castelli notarii publici dictisnominibus et quolibet vel altero dictorum nominum ex alia parte. Que mandata etnotula de qua in eis sit mentio sunt pene camere consistorii dictorum magnifici dominiet copia pene me notarium infrascriptum. Ad laudem honorem reverentiam et gloriamomnipotentis Dei ejusque gloriosissime matris semper virginis Marie sub cujusprotectione et defensa Senensis civitas regitur et in statu pacifico gubernatur. Et admagnificentiam honorem et tranquillitatem magnifici comunis et populi civitatisSenensis magnifici quod officii dominorum priorum gubernatorum et capitaneipopuli dicti comunis et populi civitatis Senarum ac etiam magnificarum comitissarumsuprascriptarum devenerunt ad infrascriptam compositionem et concordiam et adinfrascriptas promissiones, stipulationes et obligationes atque conventiones et pacta

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pro infrascriptis de jure vallandis et efficaciter firmandis prout et sicut per specialiaet distincta capitula inferius continetur et secundum eorum dispositionemcontinentiam et tenorem, quorum capitulorum tenor infra sequitur videlicet.Inprimis quod omnia et singula capitula olim facta inhita et contracta inter comuneSenense ex una parte et dictum olim magnificum comitem Guidonem ex alia partein submissione facta predictum olim magnificum comitem Guidonem que apparentin libro publico dicti comunis Senensis in foleis 682 et 683 existenti in concistoriodictorum magnificorum dominorum qui vocatur calefus novus fuit et esse intelligantex confirmata et ratificata in omnibus partibus suis et in nullo sit modo aliquoderogatum. Item quod dicte comunitates Sancte Flore, Scanzani et Castri Azare et quelibet earumteneantur et debeant custodire, guardare, salvare et manutenere ipsas terras et rochassive fortillitia earum et cujusque earum videlicet Sancte Flore, Scanzani, Castri Azareet Selvane pro prefatis magnificis comitissis et ad earum obedientiam et voluntatemet ad honorem et statum dictorum magnificorum dominorum Senensium secundumquod in capitulis ut supra olim factis inhitis et contractis inter dictos magnificosdominos Senenses et dictum olim comitem Guidonem continetur. Et facere et curareita et taliter quod in dictis terris aut aliqua earum et rochis predictis non introibit autstabit seu morabitur aliquis malivolus et suspectus magnificis dominis Senensibuscontra eorum voluntatem de quibus malivolis eis debeat notificari suis loco et temporecongruis per magnificos dominos qui per tempora residebunt. Item quod dicte comunitates et homines earum facient et curabunt ita et taliter quoddicte comitisse aut aliqua earum non contrahent matrimonium nec contractummatrimonii facient cum aliquo sine expresso consensu et voluntate ipsarumcomitatum et hominum earumdem, et quod ipse comunitates et homines nullo modoconcludent nec promictant concludi aut contrahi ab ipsis comitissis aut aliqua velaltera earum aliquem contractum matrimonii cum aliquo sine expresso consensu etvoluntate magnifici comunis Senarum. Et in casu quo dicte comitisse aut aliqua earumse maritarent aut contractu aliquem matrimonii facerent vel contraherent secundumexpresso consensu comunis Senensis tunc et eo casu dicte comunitates et hominesteneantur et debeant rochas et fortillitia dictarum terrarum et cujusque earum etSelvane dare, tradere et consignare realiter et cum effectu mandatariis dicti comunisSenarum uni vel pluribus. Item quod eo ipso quod dicte magnifice comitisse aut aliqua earum alligate fuerintad aliquem matrimonii contractum cum aliquo cum consensu et voluntate dictorummagnificorum dominorum Senensium prout super dicitur intelligantur remanereet remaneant et sint obligate comuni Senarum eo modo quo erat dictus magnificuscomes Guido et cum eisdem capitulis et non aliter tenendo dominium dictarumterrarum et bonorum prout superius in secundo articulo continentur. Et predicta omnia et singula predicti et infrascripti magnifici et potentes dominicapitanei populi vexilliferi magistri et cives electi prefati quorum ut dictum est nomina

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et prenomina subscribentur vigore et potestate dicte eorum auctoritatis potestatis etbalie sibi concesse et date per dictum consilium generale dicti comunis Senensis utdictum est et vice et nomine dicti comunis et populi civitatis Senarum et pro ipsocomuni et populo ex una parte, et frater Sivester et Jacobus sindici et procuratoresdictarum magnificarum comitissarum et comunis et hominum Sancte Flore predicteet pro ipsis comitissis et dicto comuni et hominibus Sancte Flore et Guaspar etRanerius sindici et procuratores dicte comunitatis et hominum Scanzani et pro ipsacomunitate et hominibus Scanzani et Antonius aliter Antoniuccius predictus sindicuset procurator dicte comitatis et hominum Castri Azare et pro ipsa comunitatese ethominibus ex alia parte promiserunt sibi ad Tusciam et inter se massim videlicet unapars alteri et altera solenibus stipulationibus hinc inde intervenientibus nominibusquibus super et quolibet vel altero eorum et convenerunt perpetuo attendereobservare et adimplere et contra non facere dicere vel venire per se vel alium seualios directe vel per obliquum de jure vel de facto quacumque ratione jure modovel causa sub pena et ad penam decem milium florinorum auri et de auro. Quampenam nominibus antedictis sibi ad invicem solempne stipulatione hinc indepromissam dare et solvere promiserunt si et quotiens commissa fuerit que pena totienscommictatur et peti et exigi tota possit quotiens fuit modo aliquo contrafactum automissum de predictis aliquid. Et dicta pena commissa soluta vel non predicta omniaet singula nichilominus firma perdurent cum refectione dampnorum interesse etexpensarum litis et extra. Pro quibus omnibus et singulis observandis predictimagnifici domini capitaneus populi et vexilliferi magistri et alii cives electi etinfrascripti obligaverunt dictum comune et populum Senensem et ejus bona omniapresentia et futura jure pignoris et ypothece eisdem sindicis et procuratoribusrecipientibus et stipulantibus pro dictis magnificis comitissis et pro comunitatesibuset hominibus prefatis Sancte Flore, Scanzani et Castri Azare. Et dicti sindici etprocuratores et quibus eorum sindicariis et procuratoriis nominibus quibus superiusobligaverunt dictas magnificas comitissas et earum bona omnia presentia et futurajuris pigneris et ypothece dictis magnificis et potentibus dominis capitaneo populi,vexilliferis magistris et aliis civibus electis recipientibus et stipulantibus pro dictocomuni et populo Senense et ipsius comunis et populi vice et nomine. Renuntiantesdicte partes nominibus antedictis exceptioni non factarum dictarum submissionis,suppositionis, subjectionis, promissionis, conventionis et obligationis predictarumrei dicto modo non geste non sic celebrati contractus exceptioni doli mali actioniin factum condictioni sine causa vel ex injusta causa beneficio de pluribus reis debendiet novarum constitutionum et de fideiussoribus epistole divi Adriani fori privilegioet omni alii juris et legum auxilio beneficio et favori. Et juraverunt sponte partespredicte et quilibet eorum super animas constituentium ad sancta Dei evangeliacorporaliter manutactis scripturis dictus autem frater Silvester super pectus suumquia sacerdos contra predicta vel aliquod predictorum non dicere facere vel venireper se vel alium aut alios aliquo tempore de jure vel de facto in judicio vel extra aliqua

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ratione, jure modo vel causa sed predicta omnia et singula observare prout super etinfra continetur. Quibus quidem partibus et cuilibet earum presentibus volentibus inpredicta omnia et singula sponte confitentibus precepi ego Franciscus notarius etjudex ordinarius infrascriptus nomine sacramenti et guarentisie secundum formamstatutis Senarum quatenus predicta omnia et singula et infrascripta faciant et observentprout supra promiserunt et scriptum est. Nomina vero dictorum magnificorumdominorum capitanei populi, vexilliferi magistorum et quindecim civium prefatoruminfra se quanter videlicet. Petrus Petri de Signorinis prior, Andreoccius ser AntoniiGennarii, Marchion Augustini magistri Antonii, pro Terçerio K(amollie); BartolomeusFrancisci Guilielmi capitaneus populi, Jacobus Bartoli Lotti, Marianus Chechi Marci,Bartolomeus Jacoppi de Petrucciis, pro Terçerio (cinvitati); Marianus Jacobi deHumidis, Jacobus Christofori Jacobi domini Grifoli et Angelus Andree GeorgiiPasqualis, pro Terçerio Sancti Martini; Magnifici domini et capitanus populi (omessii 3 vessilliferi e i 15 cittadini).Acta fuerunt predicta omnia in civitate Senarum in palatio residentie magnificorumet potentum dominorum dicte civitatis cui undique via comunis in consistorio dictipalatii coram egregiis et providis viris Berto Antonii Berti de Ildobrandinis, NerioMeii de Martiis et ser Johanne Angeli Minucci è notario omnibus de Senis et serJohanne Bartolomei de Boscolis de Asciano notario et cive Senarum testibus adpredicta presentibus adhibitis vocatis et rogatis.Ego Franciscus filius Stefani Vannini de Senis publicus imperiali auctoritate notariuset judex ordinarius et nunc notarius et scriba prefatorum magnificorum dominorumet eorum consistorii per magnificum comune Senarum specialiter deputatus predictisomnibus et singulis interfui eaque rogatus manu propria scripsi et publicavisignumque nominem meum apposui consueta in fidem et testimonium promissorum.Signum mei Francisci + Stefani notarii predicti.

2) 1438, ottobre 23.

A. A.S.S. Concistoro 436, c. 35t.

Magnifici et potentes domini et capitaneus populi antedicti et una cum eis magnificidomini et capitaneus populi noviter extracti, vexilliferi magistri et quindecim civesalias electi super materia Sancte Flore in numero XXXIIIIor congregati et cetera,audito quod comitisse de Sancta Flora sunt de proximo maritande et cetera,deliberaverunt quod magnifici domini et capitaneus populi eligant tres cives quiperquirant et investigent pro habenda informatione de predictis pro ut viderintesse necesse aut expediens etcetera. Post que magnifici domini capitaneus populi etvexilliferi magistri supradicti remanentes in consistorio elegerunt ad predicta faciendainfrascriptos tres cives quorum hec sunt nomina videlicet: Bartolomeus dominiThommassi de Agazaria, Guidoccius Jonte et Jacobus Guidini.

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1450, agosto 9, ind.XIIISiena, in concistoro

Bosio degli Attendoli, figlio di Muzio detto Sforza, e Galeazzo conte d’Arco, in nomedelle contesse Cecilia e Giovanna del fu conte Guido Aldobrandeschi da Santa Fioraloro respettive mogli, concordano con il comune di Siena, una transazione per questionisorte nelle terre di Santa Fiora, Scansano e Castellazzara.

A. B. A.S.S. Capitoli 5, cc. 85t-87t, 1450, 9 agosto.

In nomine Domini nostri Yhesu Christi amen. Anno ab ipsius Domini salutiferaincarnationis MCCCCL indictione tertiadecima die numero nona mensis augustitemporis pontificatus sanctissimi in Christo patris et domini domini Nicolai divinaprovidentia Pape quinto. Cum tempore retrohacto acte fuerint quedam differentesinter magnificum comune Senarum et quosdam cives et sudditos ipsius comunis exuna parte et magnificum dominum Bosium de Actendolis et dominum Galeaziumde Argozi dominos Sancte Flore et comitissas de Sancta Flora infrascriptas etquosdam eorum subditos actione et occasione quorumdam dampnorum datum etillatorum hinc inde in persona et bestiis et rebus quibuscumque et pro alia quacumquecausa usque in presentem diem. Et cum prefatum magnificum comune Senensemsemper non obtanstibus predictis paterno amore dilexerit dictos dominum Bozium,comitem Galeazium, comitissas et eorum subditos tamquam bonos filios. Et dictidominus Bozius comes Galeazius et comitisse et eorum subditi et homines semperfuerint maximo amore et filiali devotione afficti edidem magnifico comuni Senensitamquam proprii et benefactorii ipsos. Igitur magnifici et potentes domini dominipriores gubernatores et capitaneus populi magnifice civitatis Senensis una cumspectabilibus vexilliferis magistris solempnitate convocati et congregati in concistorioeorum solitum residentie prefactis comunis Senensis utiliter peragendis atquetractandis quorum nomina hic inferius erunt descripta habentes auctoritatem adomnia et singula infrascripta ab opportunis consiliis et status comunis Senensis etvice et nomine ipsius comunis Senensis ex una parte. Et magnificus Nicodemus dePontemulo cancellarius illustrimi ducis Mediolani procurator et procuratorio nominemagnifici domini Bozii Sforzie de Actendolis domini Cosignuole et domini SancteFlore et magnificarum dominarum Cecilie et Johanne dignitissarum comitissarumdicte Sancte Flore, constituentes eorum propriis nominibus et vice et nominemagnifici domini Galeazzi comitis Archii et domini Sancte Flore, Scanzani et CastriAzare, pro quo magnifico domino Galeazzo comunitatibus hominibus in personis etquolibet eorum dicti constituentes et quilibet eorum in solidum clerato reati

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habitatione promiserunt et se facturos et curatos. Ita et taliter quod prefatus dominusGaleazzus comunitates et singulares persone et homines ratificabunt solempniteret quilibet de persone omologabunt et confirmabunt omnia et singula suprascriptaet infrascripta pro ut de eis procuratorio et momento clare constat manu providi viriser Jacobi Bucciarelli de Theramo vicarii Sancte Flore se die XXV mensis Junii 1450,in publica solempni et legiptima forma a me notario infrascripto viso et lecto exalia parte et tunc in presentia consensu auctoritate et voluntate Leonardi Claii deSancta Flora occtenus, affirmantis et asserentis quod dictus dominus Bozius dominusGaleazius et comitisse sit contrati omnibus et singulis suprascriptis et infrascriptisquibus portavit copiam capitulorum infrascriptorum et ea legerunt et intralexerintet de quibus etiam copiam habuit prefatus magnificus Nichodemus suprascriptusmanu mei notarii infrascripti volentes et intendentes dictas differentias tollere et adconcordiam ad invecem quietam et tranquillitatem dictarum partium non omninoinnovandi silicet predictis differentiis solum et dum taxat secandis et pace etconcordia reintinsicando dictis nominibus et quolibet ipsorum unanimiter concorditavenerunt ad invicem et intase ad infrascriptam compositionem transactionem etpactum solempnibus et legiptimis super hinc inde intervenientibus videlicet feceruntinserunt firmaverunt concluerunt et compositionem et transactionem simul et dictisnominibus et quolibet eorum fecerunt et firmaverunt prout et sicut in infrascriptiscapitulis et provisionibus obtemptis in consilio populi mangnifici comunis Senensisde quo proprius manu mei notarii infrascripti. Et in consilio generali ipsius comunisaliquo proprius manu ser Johannis Bandicti notarii reformationum dicti comunis dieXXIII mensis julii 1450 et quolibet eorum continet et descriptus est. Cum hacdeclaratione facta interdictas peretis nominibus predictis et quolibet eorum. Quodde libras mille CCCCXLV sol.XI den.9 que extonit dentur et consignentur dictisdomino Bosio, domino Galeazzo et comitissis in sale VCL pascuis ut indicto capituloultimo continetur ad beneplacitum dicti domini Bozii domini Galeazzi etcomitissarum mandantum fieri debiti ut inprimis provisionibus et capitulis contineturet quolibet eorum que omnia et singula super infrascripta pactis predictis etnominibus predictis et quolibet eorum et suprascriptam transactionem et pactumpromixerunt solempniter et legiptimiter stipulantis hinc inde intervenientibusactendere et observare et adimplere Senis, Florentia, Pisis, Sancta Flora, ScanzanoCastro Lazara et ubicumque locorum et remotum et ganis distantis a superiusnominatus et non contrafacere vel venire per eos vel alios de jure vel de facto aliquaratione jure modo vel causa, sub pena et ad penam duorum milium florinorumsolempni et legipta stipulatione promissa, quam penam pars non observans pactiobserverunt vel observare volenti dare et solvere promixerunt prout et sic et quotienscomissa fuerit. Et dicta pena commissa vel non soluta vel non proximierunt predictaomnia et singula nichilhominus observare ut superius continetur in scriptum est, cumintegra et facta omnium et singulorum dampnorum interesse et expensis litis etcetera.Pro quibus omnibus et singulis observandis firmis quod tenendis dicti magnifici

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domini capitaneus et vexilliferi obligaverunt dictum magnificum comune Senensemet singula bona ipsius comunis presentia et futura jurium, pingnori et ypothece dictomagnifico comuni Senensi et suprascriptis magnificis dominis capitaneo et vexilliferis.Renunptiantes pro predictis exemplari non facte dicte transactionis compositionis,conclusionis et pacti et non facte promissionis et obligationis predictarum rei dictomodo non geste non sit ablati contractus actioni infactum condictioni sine causavel ex injusto. Quod meta causa fori privilegio doli mali beneficio Senarum inductisin honorem dicti et omni alii juris et legum et consuetudinum et statutum auxiliobeneficio et favori. Et juraverunt sponte ad sancta Dei evangelia corporaliter manutactis scripturis predicta omnia et singula vera esse et contra ea non facere vel venirevel aliquo predicto per eos vel alium aliqua ratione jure, modo vel causa de jure velde facto in judicio vel ex alio. Sed predicta omnia et singula observare ut superiuscontinetur et scriptum est quibus quidem presentibus et volentibus, et predicta omniaet singula suprascripta sonte confitentibus precepi ego notarius infrascriptus nominesacramenti et guarantisie et secundum formam statutis civitatis Senensis, quantiumpredicta omnia et singula observetur prout superius continetur et scriptus est.Quorum capitulorum et provisionum tenor talis est videlicet //.Actum Senis in concistoro prefatorum magnificorum dominorum coram spectabilibusviris ser Johanne Benedicti et Casulis notario pro magnifico comuni Senensi adprestasreformationem et ser Francischo Angeli de Asciano notario magnifici capitani populiipsius civitatis testibus ad hec specialiter ad habitis rogatis et vocatis.+ Ego Arduinus Leonardi et Arduinus civis Senensis imperiali auctoritate notariuset judex ordinarius et ad presens pro magnifico comuni Senensi notario concistoriiomnibus et singulis suprascriptis dum sit agitarentur inter dictas partes interfui et earogatis alteri fideli notario scribere geci quo in aliis dicti offici occupatu ipso lettome publice subscripsi ad fidem omnium et singulorum predictorum et singum cumconsuetum hic aposui et designavi et illud quod sub cassum est ubi dicti non projudicando et cetera fuit cassum per me et deliberatum magnificorum factum diequinta settembris 1450 et que manu ser Stefani ser ser Mestro testibus rogatis etcetera.

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1461, aprile 30, ind.IXSiena

Il nuovo conte Guido da Santa Fiora, figlio di Bosio Sforza e di Cecilia da Santa Fiora,con il padre, chiedono di porsi sotto la protezione del comune di Siena, rispettando degliarticoli scritti in lingua volgare (qui non trascritti). A. B. A.S.S., Capitoli 5, cc.130t-132, 1461, 30 aprile. Edizione parziale.

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In nomine Sancte et Individue Trinitatis Patris et Filii et Spiritus Sancti amen. Annonavitatis ejusdem MCCCCLXI, indictione nona die jovis trigesima mensis aprilis,cum hoc sit quod de anno domini MCCCLXXXVI de mense junii inter magnificumcomune Senarum pro una parte et magnificum comitem Guidonem de Sancta Florapro altera parte seu agentes pro eis fuerint facta certa capitula et conventiones rogataper ser Minum filium Dominici notarium publicum et olim cancellarium prefatemagnifice comunitatis Senensis adque capitula habeatur relatio et cum successuitet magnificus dominus Bosius Sfortia gener suprascripti quondam domini comitisGuidonis et magnificus comes Guido filius suprascripti illustris et magnifici dominiBosii et magnifice domine Cecilie filie quondam suprascripti magnifici dominiGuidonis, ipse illustris et magnificus dominus Bosius et magnificus Guido vollentescum suprascripta comunitate Senarum veram et sinceram adherentiam etrecomandationem habere intercessionem et interventum illustrissimi et excellentissimiprincipis domini Francisci Sfortie vice comitis ducis Mediolani etc. Papie Anglariequorum comitis ac Cremone domini fratris suprascripti illustris et magnifici dominiBosii patris et benefactoris prefate magnifice comunitatis Senensis, qui illustrissimuset excellentus dominus dux Mediolani et quod intendit. Et ita sue est mentis ut idemadherentia et recomendigia et alarum umbra ac protectione et defensionesuprascripte magnifice comunitatis Senensis quem ad modum ettiam ipse prefatusdominus dux vivit et in futurum vivere pretendi. In circo Dei et Gloriose VirginisMarie atque omnium sanctorum nominibus in convocatis ibique magnificus dominusdantes Bartolomee Santis de Senis nunc moram trahens in hospitio CappelliMediolani ambasciator et orator ac sindicus et procurator prefate magnifichecomunitatesis Senensis ut patet instrumento rogato viso et lecto tenoris hujusmodividelicet ex una parte. Tenor dicit mandati infrascriptus est.

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Tavola genealogica semplificata – Le ultime generazioni degli Aldobrandeschi(XIII-XV secc.).

Fonte parziale: S. M. COLLAVINI, Honorabilis domus e spetiossisimus comitatus. Gli Aldobrandeschida ‘conti’ a ‘principi territoriali’ (secc. IX-XIII), Pisa, ETS, 1998, pp. 580-582.

Font: F. ALLEGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini da Duecento a fineTrecento, tavole genealogiche.

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Tavola genealogica semplificata – Gli Orsini apparsi negli ultimi decenni della storia degli Aldobrandeschi (XIII-XIV secc.)

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Note:1 Sic: semper.2 Sic: comite.3 Sic: comite.4 Il testo sospeso era in italiano, e venivano elencati diversi capituli. Per accomodarsi dello spazio nellapubblicazione, è stato ritenuto il corpo essenziale della decizione.

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Conclusioni

Mario AscheriUniversità di Siena

Credo che i Lions possano essere soddisfatti, come pure gli enti che hannosponsorizzato questa giornata, perché si può tranquillamente dire che è statamolto ricca.

Questi Aldobrandeschi li abbiamo visti crescere, stabilizzarsi, fare tante cose a SantaFiora e altrove; li abbiamo seguiti nella letteratura, nelle aule giudiziarie, nelle alcovequasi; insomma, sono venuti fuori nella loro straordinaria vitalità anche nel corsodi questi secoli, in un’area che era delicatissima perché era un’area di cerniera tralo Stato papale in formazione e il cuore della Toscana delle città in via di formazione. Questa è un’area-cuscinetto, e perciò abbiamo visto tutte le preoccupazioni dei papie come Federico II prima e gli Angiò dopo, avessero qui uno dei quadrantifondamentali del loro operare. E forse gli Aldobrandeschi sono così centrali in Dante proprio perché fanno partedi quella sua grandiosa cosmologia tutta medievale di Papato e Impero; loro sonoproprio in mezzo, in una posizione assolutamente centrale. La Maremma e l’Amiata del 1100 e 1200 non hanno nulla a che fare con quello chesarà la Maremma e l’Amiata del Sei-Settecento. Dobbiamo imparare a distinguere ivari periodi e ad evitare l’anacronismo e il teleologismo, che sono i rischi semprericorrente nella ricostruzione storica; nel senso che dobbiamo evitare di proiettarel’oggi nel passato e/o di spiegare il dopo col prima: la perifericità della Montagnadi oggi non ha nulla a che fare con il passato, quand’era centro d’una abbazia tra lepiù importanti dell’Italia centrale ed era a un passo da un’arteria come la Francigenae dai porti maremmani.Ebbene, se c’è stato un elemento veramente positivo nelle nostre relazioni, al di làdegli apporti specifici spesso validissimi e innovatori di ognuna di esse, è chespaziando sull’universo-mondo di quel passato (letteratura, archeologia, politica),mi sembra sia emersa in modo esemplare la complessità di quel tempo, e quindi nesia derivato un nuovo avvertimento a mai semplificare in sede storica e meno che maiper quei secoli così vitali, così effervescenti. S’è vista la centralità che il 1100 e il 1200 hanno nella storia dei castelli, delle abbazie,della famiglia degli Aldobrandeschi e delle città. Sono i due secoli formativi centralidella civiltà italiana, e quindi anche della civiltà europea. La straordinaria ricchezza

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di eventi di personaggi (ma anche di beni materiali rispetto al passato) offertaci daquei due secoli è balzata fuori con evidenza. Perciò si è voluto raccogliere rapidamentegli atti del convegno, in modo che possano dare un contributo positivo e impulsoad ulteriori ricerche.La interdisciplinarietà sempre ricercata (ma poco praticata nei fatti) qui si tocca invececon mano. La ricerca puramente documentaria si è intrecciata felicemente con laricerca archeologica di gruppi diversi e con l’analisi letteraria, alternandosi leprospettive più generali agli accertamenti puntuali e gli esami retrospettivi con analisiimportanti anche per interventi futuri sul territorio.Ne vien fuori con evidenza che è un territorio da considerare con estrema attenzione.Il passato ha lasciato molte testimonianze e quelle scritte le si possono integrare oleggere correttamente solo coordinandole con quelle monumentali, artistiche edarcheologiche. Solo così si possono dare quadri convincenti e aprire ipotesi di lavoroproficue per continuare.I nostro relatori sono stati fedeli all’assunto: un grazie venga loro quindi anche dame, che mi sono curato solo di evidenziarne l’attitudine a portare un contributopositivo.Si poteva fare di più, naturalmente, come sempre. Ma non è detto che tra qualchetempo non si possa pensare ad un ‘Santa Fiora 2’, visto l’interesse giustificatissimodel Comune, degli altri enti e dei nostri attivissimi Lions, bene rappresentati daRodolfo Fazzi, sempre cortesemente insistente per raggiungere lo scopo.Abbiamo già detto del libro del Ciacci, sempre fondamentale, per cui vorrei oggispezzare una lancia a favore di un’ulteriore ristampa. Dato che è il libro dal quale èancora imprescindibile partire, bisogna che chi ha delle responsabilità di politicaculturale ne favorisca una ristampa per consentirne una più larga fruizione. Ma c’è dell’altro che i lavori documentari, da quelli di Collavini alla Redon e allaCirier, hanno fatto emergere chiaramente. E cioè che è il tempo di raccogliere inmodo organico altri documenti, non conosciuti a suo tempo dal Ciacci. Insomma,bisogna pensare ad un ‘codice diplomatico’ degli Aldobrandeschi attuale, ad un‘Ciacci due’, per intenderci, perché c’è una ricca documentazione venuta fuori dopoil lavoro del Ciacci, utile ma con i suoi anni che non nasconde. Le raccoltedocumentarie, toscane e non, via via edite a Firenze, a Pisa, a Siena (il fondamentaleCaleffo Vecchio, cominciato nel 1933, lo abbiamo finito solo pochi anni fa!), ma anchefuori della Toscana e all’estero (i tedeschi sono stati attivissimi nell’edizione di fonti,ma non escluderei nuovi apporti da raccolte angioine, inglesi e pontificie) vannosetacciate accuratamente e certamente verranno fuori notizie imprevedibili. Peraltroabbiamo, a questo punto, i giovani studiosi che hanno le carte in regola per lavorarein questo senso: bisogna incoraggiarli nel modo giusto per farlo o per favorire chialtri potrebbe farlo. Sono lavori a volte lentissimi, di grande pazienza quasi comegli scavi archeologici, però bisogna farli se si vuole rinnovare il patrimoniodocumentario di cui disponiamo.

Conclus ioni

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Insomma, gli scavi archeologici ben vengano, ed è giusto che dopo tanto silenziosiano privilegiati, ma non dimentichiamo l’apporto documentario. I secoli di cuitrattiamo sono per il nostro Paese di grandissima diffusione della scritturazione; letracce degli Aldobrandeschi possono perciò rintracciarsi nelle sedi più impreviste.Il comparto documentario, quindi, non va trascurato. Non si pensi di essere arrivatial fondo della ricerca in questo settore. Anche perché, come è ben noto, non tutti gli archivi sono ugualmente ordinati einventariati. Le sorprese possono essere dietro l’angolo ogni momento. Più che maipoi lo possono essere negli archivi ecclesiastici, ancor meno curati purtroppo e nonsempre accessibili. Anzi, bisognerà aggiungere ancora che il comparto ecclesiastico,se così si vuol dire, è stato necessariamente assai poco curato in questo nostroincontro. Ma è una lacuna che andrà colmata.L’organizzazione ecclesiastica del territorio merita attenti studi. Già in alcune relazionis’è vista l’importanza degli Agostiniani, ma è necessaria una riflessione complessivasull’organizzazione ecclesiastica e sui santi amiatini e maremmani. L’agiografia è moltoimportante: basta che venga fuori un testo come quello di san Pier Damiani e siapre subito un fascio di luce improvvisa. Un altro settore che nel nostro incontroabbiamo lasciato in ombra è quello della viabilità, mentre invece c’è ancora daparlarne e molto, perché nella nostra area i rapporti con Arezzo, con la diocesi diChiusi e con il mare sono stati fondamentali. S’è parlato tanto di Francigena negliultimi anni, ma naturalmente essa è solo un aspetto della realtà del tempo, dove, nondimentichiamolo, molto spesso gli ecclesiastici maggiori, i mercanti e le mercinavigavano. Il povero pellegrino e lo studente si muoveva per terra, ma chi potevasi guardava bene dal correre i rischi che la viabilità coinvolgeva; quindi, bisognaancora lavorare su Talamone e sul porto di Grosseto – nonostante i contributi recentidi Gaetano Prisco e della Sordini. Abbiamo spaziato abbastanza, oscillando tra mari e monti, facendo nel nostro piccolocom’erano abituati a fare in grande gli Aldobrandeschi. Ora è tempo di chiudere.Ringraziando, con viva cordialità, gli sponsor, gli organizzatori e gli Autori per ilgeneroso lavoro. Un grazie particolare ancora va anche al pazientissimo e attento pubblico: non è facilegodere dell’attenzione che ci ha riservato in questa occasione. Significa che questiproblemi non sono più ritenuti appannaggio di noiosi specialisti e che l’opinionepubblica comincia a percepire l’importanza centrale del fattore ‘cultura’ – che èqualcosa di più e talvolta di diverso dai ‘beni culturali’ cui si tende a ridurla anchein sedi accademiche. I confronti col passato come questi aiutano ad affrontare meglioil futuro, da una posizione più forte. La maturazione delle culture locali (e nonlocalistiche, grettamente campanilistiche) è il miglior rimedio contro i rischi diomologazione e appiattimento verso il basso cui siamo esposti dalla globalizzazionein atto; essa non è un pericolo nella misura in cui si ha un’identità precisa e robustaper colloquiare con i processi che attiva.

Conclus ioni

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Le pagine successive sono estratte da G. Ciacci Gli Aldobrandeschi nella storia e nellaDivina Commedia, Roma 1934 e riguardano gli atti di divisione del 1216 e 1274.

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Finito di stampare nel mese di Gennaio 2002