L'ultima pioggia

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Avventura, Luca Poggi

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LUCA POGGI

L’ULTIMA PIOGGIA

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L’ULTIMA PIOGGIA Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-437-6 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Giugno 2012 Stampato da

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1. Cominciò a piovere un dannato martedì, d’una pioggia leggera e costante. Gli alti pini della valle si imbibirono d’acqua rapidamente, ne trasudarono sbuffando nebbie di vapori e stillando goccioline dalla punta degli aghi. La valle prese lentamente a fumigare e i suoi fiati avvolsero guardinghi l’abitato. Delora era un piccolo paese disorganico, con un nucleo di fabbricati ravvicinati adibiti a negozi e abitazioni; il resto delle case era sparso nei dintorni della strada principale, per la verità l’unica, che attraversava longitudinalmente la valle. La casa di Al era leggermente più in alto delle altre; così altera, nel suo legname di faggio scuro e disuguale, vuoi per il tempo che per i tanti rattoppi, eretta a bastione d’una collina bassa e fitta di castagni, con le fronde mute che si rincorrevano a contendersi brandelli di cielo. La natura era mutevole e interessante; la prima volta che Al capitò laggiù aveva sbagliato strada a causa del maltempo, anni prima, ed era rimasto affascinato. Si era soffermato, attratto dai paesaggi e dal museo minerario. Anche quello, a suo modo, era suggestivo. Erano passati molti anni da quando c’era stato lo scandalo più risonante della regione: incauti geologi avevano girovagato per quella landa desolata decretandone l’opulenza del sottosuolo. Oro e argento. I tecnici si mantennero sul vago, non dettero indicazioni precise, non tracciarono X sulle mappe: qualcuno pensò fosse perché volevano esser loro a guadagnarci su; ma un incidente aereo pose fine alla loro vita prematuramente. Di essi rimasero solo dicerie e resoconti imprecisi. Questo non bastò, tuttavia, a scoraggiare poveracci e sognatori, che

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presero a sondare il fiume e scavare la terra, abbattendo alberi per innalzare le prime baracche. Dopo sei mesi di ricerche il fiume aveva reso solo ottime trote, la terra ottimi cavoli. Arrivarono altri geologi, che smentirono bellamente i precedenti colleghi; ma ormai il nucleo del paese era quasi formato. La gente, non senza traumi, abbandonò l’idea di diventare ricca; dopo un ragionevole periodo di indignazione pacata, passò alla rabbia, poi al silenzio dolente e quindi alla rassegnazione. Alcuni, quelli che continuavano a sentirsi nababbi mancati, se ne andarono per cercar fortuna altrove; ma la maggior parte rimase per continuare a campare da comuni mortali. I media non consentirono agli ormai ex cercatori di starsene in pace. Cominciarono a prenderli in giro. Ma i paesani ebbero un’idea discreta: fecero un museo celebrativo per festeggiare l’erratico destino che li aveva condotti in un posto così bello; non vi avevano trovato ricchezza, ma stare lì era comunque magnifico. Lo inaugurarono con discreta pompa, ringraziando pubblicamente Iddio perché l’oro non c’era e nessuno avrebbe deturpato quei bei luoghi che adesso chiamavano casa. Retorica un po’ becera, ma risuonò nei cuori. Anche per questo il museo fu un successo. Un sacco di gente piovve su Delora; gente che pagava per contemplare con sussiego le solite cose del minatore: padelle forellate, carrelli da miniera, tute e caschi con la tipica lucerna, picconi e pale, esplosivi e foto sbiadite. Quella stessa gente che poi, soffocato lo sbadiglio, andava a tirare ciottoli nel fiume o campeggiava sulle pendici delle dolci colline in attesa del tramonto. Il fumo di molti bivacchi serpeggiò nella timida aria serale per parecchie estati. Insomma, funzionò. I media divennero benevoli, come sempre quando s’inventa una iniziativa che vende; i turisti ricalcarono in neretto il percorso sulle loro cartine e impararono che Delora era uno dei tanti luoghi da vedere almeno una volta nella vita. Le persone del posto ebbero anche di che campare. Ma quella era un’ormai lontana e insolita parentesi, per Delora. Il vecchio paese minerario era mutato lentamente nei decenni. I discendenti di quell’epoca remota erano fortemente innestati nel mondo reale; circa la metà della forza lavoro operava part-time nelle città vicine, l’altra metà aveva un impiego che consentiva di starsene la maggior parte del tempo a casa propria. La valle del Delora era probabilmente uno dei

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luoghi del pianeta dove il telelavoro era più diffuso. Quando Al capitò da quelle parti era ancora un discreto giornalista e scriveva libri che qualche scriteriato arrivava addirittura a comprare. La sua era una vita di corsa; allora si disse che, se mai avesse rallentato, la valle del Delora sarebbe stato un posto buono per viverci. Non si era sbagliato. Quando pagò lo scotto di quella vita - il fallimento del matrimonio con Lori, un esaurimento che lo condusse a odiare il suo mestiere - ricordò di quel luogo incantevole e vi tornò. Aveva accumulato abbastanza soldi, stress e amarezza da sentire il bisogno di un anno sabbatico. Molti comprano una barca a vela e girovagano tra le isole dei tropici, o se ne vanno alla ricerca di sé stessi in qualche monastero buddista; lui decise di passare il suo anno a Delora. Comprò l’unica casa in vendita, un po’ lontana dal centro del paese; andava a pescare nel fiume e coltivava le sue verdure. La gente del paese lo infastidiva, voleva starsene da solo. Si limitava a praticare la chiesetta del paese la domenica, ricambiava chi lo salutava però non frequentava nessuno. Così finì per conoscere tutti, ma superficialmente. E tutti conoscevano lui. La sua misantropia non lo rese un vicino simpatico. Era molto chiacchierato e lo sapeva. A parte la chiesa, l’unico posto dove era costretto a incontrare gente era l’emporio. Era grande per un paese di circa trecento anime e molto fornito. Vendeva sementi, vanghe e accessori da orto; cibo per animali e cristiani, casalinghi e ferramenta, veleni, armi, pitture, legname da costruzione e quant’altro non avrebbe sfigurato in qualunque supermercato moderno. E c’era Ron, il proprietario; di certo la persona con cui Al aveva, per forza di cose, scambiato qualche parola in più. Idealista e arguto, l’avrebbe classificato Al; ma la propria scarsa attenzione per la gente non gli aveva mai consentito di andare oltre. E Ron, da vecchio marpione, l’aveva inquadrato bene e si limitava a una estroversa bonomìa procommerciale. Al sapeva che era capace di fare di meglio: l’aveva sentito dialogare con avventori abituali con tutt’altro scilinguagnolo. Verso di lui Ron covava un certo interesse, che non esitava talvolta a dimostrare; ma l’uomo rispettava comunque il riserbo del giovane anche se gli impediva di soddisfare la propria curiosità, e Al gliene era grato. Passarono i mesi con poche scosse.

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Quando l’anno sabbatico ebbe termine Al si sentì perso. Non aveva voglia di tornare al mondo da cui era fuggito, la sola idea lo disgustava. Così, fece quello che nell’occasione fa un giornalista fallito: si concesse un altro anno sabbatico con la scusa che avrebbe provato a scrivere un libro; un vero libro, non quell’immondizia di buonismo politico e di falso ideologico che gli aveva consentito di pagare i conti del divorzio. In realtà aveva sempre amato scrivere; voleva che un po’ di quell’amore, che da troppo aveva dimenticato, tornasse a fare parte della sua vita. Il bello è che il libro lo scrisse davvero; pochi mesi di impegno febbrile, poi l’invio a un editore che sapeva l’avrebbe letto con coscienza e l’avrebbe cestinato solo se non valeva. Quanto a lui, finalmente poteva dirsi in vacanza. Se il libro non fosse andato non importava; aveva fatto quel che sentiva, aveva provato. Poteva tornare nel mondo, adesso, ma non prima di godersi per la prima volta la sensazione di un riposo meritato dopo la giusta fatica. Andava a pescare tutti i giorni, coltivava l’orto in modo intensivo, camminava sulle pendici dei monti che contornavano la valle prima del sorgere del sole. Avanzava lentamente o marciava come un soldato, secondo l’umore, ascoltando il suo corpo funzionare in attesa dell’alba. Talvolta incontrava un inatteso cacciatore; lo prendeva quasi sempre di sorpresa, lui, dall’incedere furtivo, di fronte alla spocchia inossidabile dell’altro. La carabina allora roteava leggermente, con un sussulto, per poi tornare a dormicchiare sulla spalla dell’uomo infastidito. Ma il più delle volte Al non vedeva nessuno; procedeva a lunghi passi e di quando in quando faceva una sosta. Non necessariamente quando era stanco: gli piaceva osservare il paese dall’alto mentre si svegliava gradualmente. Riprese la sua vecchia passione giovanile dell’arco. Allestì il campo di tiro sul retro, aveva abbastanza terra. Si costruì un bersaglio, un grosso disco di paglia intrecciata, e prese a esercitarsi regolarmente. Stava bene. Poi giunse quel dannato martedì. Aveva cominciato a piovere alle prime luci, lentamente. La pioggia riempì scoli e canali, scrosciando fiocamente, rivolando per le strade e impolpando le campagne. Al aveva una bella scorta di cibo in casa, così decise di poltrire e restarsene tranquillo.

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Stava rimettendo a posto le sue cose, tutta quella variegata congerie di ricordi lasciatigli dal passato e che non aveva mai avuto il coraggio di riesaminare, tanto meno di buttare. Foto e lettere, articoli riusciti, qualche premio; c’erano gli scritti di Lori, che all’epoca del matrimonio erano suo diario personale e che poi lei gli aveva fatto recapitare tramite l’avvocato. Al aveva sempre pensato che l’avesse fatto per mostrargli che razza di mascalzone fosse stato. Per questo non li aveva ancora toccati; erano ancora lì, dentro a una scatola di cartone con sopra scritto “ALEJANDRO”. La visione del suo nome completo lo metteva a disagio, per tutti era sempre stato solo Al; Lori lo chiamava per esteso solo quando voleva rimbrottarlo per qualcosa. Era difficile orientarsi nel suo passato disordinato. Ci volle un’intera giornata; lo scopo iniziale era anche quello di buttare via un po’ di ciarpame, ma non gli riuscì molto bene. Ogni cosa, quando la prendeva in mano, gli parlava in modo incerto e ovattato; la mente girovagava per conto suo tentando di ritrovare un filo continuo tra ricordi elusivi e sconnessi. La sua permanenza a Delora sembrava aver aggrovigliato e confuso le sue memorie, gli serviva uno sforzo consapevole per riafferrare il passato. Come se ormai non gli appartenesse, non fosse più cosa sua. Continuava a rigirarsi tra le mani la scatola delle lettere di Lori senza aprirla, aspettando che gli dicesse qualcosa di più, ma non lo faceva. Eppure doveva; negli ultimi tempi lo spiava da sopra l’armadio di camera quando se ne stava a letto e lo salutava con un’occhiata gelida quando si alzava la mattina. Aveva dovuto cambiarle posto, dopo un po’, infilandola nel ripostiglio all’ingresso, ma senza risolvere gran che; quella dannata scatola sembrava responsabile di ogni flebile scricchiolio della sua casa, un simpatico villino coloniale completamente in legno. Come se l’inevitabile chiacchiera delle strutture stagionate giungesse agli angoli contrapposti del fabbricato partendo da quello sgabuzzino confusionario; da lì, dove una porzione chiara della sua anima galleggiava tra pareti di cartone. Al sapeva quand’era cominciata la cosa; scrivere quel suo libro aveva innescato un meccanismo d’introspezione dolorosa, ne era fastidiosamente consapevole. Ripescatosi dal limbo in cui aveva vagato così a lungo, adesso quando si guardava allo specchio per sbarbarsi si

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riconosceva; cominciava a capire chi fosse quel tipaccio che lo fissava armato di rasoio. Pensava un sacco, ben sapendo che pensare troppo fa male. Il matrimonio fallito era uno di quei dolori; senza volere, da un paio di settimane aveva preso a ripercorrerne alcuni scorci, come in un film di bassa qualità. Quel che vedeva era indistinto, e per certi versi questo era un bene; spesso non gli garbava affatto. Certamente una cosa l’aveva capita: con Lori e con sé stesso era stato superficiale. E non solo con lei; correre così tanto gli aveva impedito di soffermarsi su quel che contava veramente: la gente. Almeno, secondo Lori. Lei glielo aveva ripetuto tante volte in quegli anni, ma lui non era riuscito ad afferrare il concetto. Troppe persone contornavano la sua vita, allora, per lo più rompiscatole o sanguisughe. In sostanza, tipi da evitare; o, al più, da manipolare. Adesso che viveva da solo poteva contemplare l’essenza della cosa. La gente. Non ne aveva bisogno, in realtà. Mai avuto. Eppure, di qualcuno dei saluti timidi che riceveva in chiesa o all’emporio, o in mezzo alla strada, sentiva il calore. Era inspiegabile, per Al. Interruppe i pensieri, scosse la testa e si affacciò alla finestra. Pioveva ancora. Era buio, ormai. Prese un libro dalla sua biblioteca e sedette in poltrona. Avrebbe letto per il resto della serata, secondo una consolidata abitudine. Si addormentò in poltrona come un vecchietto.

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2. Il mattino seguente lo colse in posizione scomoda con il libro ancora in mano. Guardò fuori e sbuffò al maltempo; continuava a piovere. Ric entrò nella stanza protestando con grazia; era un micio arancione veramente grosso, sempre affamato, e reclamava la sua colazione. Al non aveva mai posseduto un animale in passato, e non l’avrebbe comunque mai avuto se Ric non avesse fatto la sua comparsa davanti a casa, zoppicante e macilento, negli occhi quella dignità felina che gli uomini dovrebbero imparare; era solo una palletta di pelo tremante di freddo e paura, là sulla soglia. Se ne stava fermo senza miagolare, fissando il gigantesco umano col musetto verso l’alto, pronto a combattere o fuggire nella caligine d’una mattinata mediocre. Al era rimasto a osservarlo per qualche attimo sperando che se ne andasse; Ric l’aveva fissato di rimando ed era rimasto lì. Al si era arreso e l’aveva fatto entrare, di certo solo per qualche attimo, che poi si era fatto dannatamente lungo, trasformandosi in mesi. All’inizio non voleva dargli alcun nome; il nome di un animale o è privo di senso, o è come un’etichetta che svilisce il valore di chi lo porta. Quel micio non avrebbe potuto mai chiamarlo Pussi o Mao senza insultare il suo ferino amor proprio. Ma Ricardo era il suo secondo nome e Al l’aveva detestato anche più di Alejandro. E in quel gatto un po’ si rivedeva. Lì, alla porta, alle intemperie, in silenzio. Una vita fuori. Così, alla fine, quando si era reso conto che non poteva richiamarne l’attenzione semplicemente schiarendosi la gola, era andata per Ric. Un abbreviativo, il nome per esteso suonava ridicolo. Al gli versò un po’ di latte nella ciotola e gli fece qualche moina, poi preparò anche per sé. Amava colazioni massicce a base di cibo salato, detestava i dolci.

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Prese la sua medicina con un sorso di caffè. La pioggia seguitava a scendere, lenta e costante. Con gesto insofferente Al indossò l’impermeabile; non avrebbe permesso al clima squinternato di rovinargli la giornata. Amava il sole, ma camminare con la pioggia andava bene lo stesso. Fece un giro circospetto intorno alla casa dando un’occhiata alla sua verdura. Vide subito che qualcosa non andava; c’erano state delle visite notturne, probabilmente un istrice. Le patate erano per metà da buttare quell’anno, e aveva già trovato rosicchiate altre primizie. Ne aveva abbastanza; prese l’auto, un vecchio fuoristrada che non lo aveva mai tradito, e andò verso il centro. Guidò meccanicamente osservando il cielo coperto in modo uniforme; infilò di proposito un paio di pozzanghere, nell’intento di far sì che gli spruzzi dilavassero la fanghiglia su gomme e cerchioni. E poi l’effetto non era niente male. In giro non c’era nessuno; quando entrò in paese s’insinuò tra le file delle auto parcheggiate e rallentò, disturbato dalla pioggia. L’emporio apriva molto presto e aveva già tutte le luci accese; Al parcheggiò davanti ed entrò. Ron era dietro al bancone, sistemava con pazienza i nuovi articoli sugli scaffali. Guardò il giovane con la coda dell’occhio. «Al» disse. «Buongiorno Ron.» «Di nuovo quelle bestie, eh?» «Già. Non hai qualcosa? Una trappola, roba del genere…» Ron mostrò un paio di articoli piuttosto sanguinari. «Non c’è qualcosa di meno cruento?» Ron ridacchiò. «Sei il primo che me lo chiede. Se le fai fuori poi te le mangi, no?» «Mmmm» fece il giovane; ma non commentò. Era una mentalità da cacciatore, immaginò Al. Un uomo alto e allampanato entrò nell’emporio facendo tintinnare i campanellini sulla porta; ripiegò l’ombrello con grande attenzione e lo appoggiò da una parte. Aveva i capelli splendidamente bianchi. «‘Giorno a tutti» disse; la sua voce roca gli dava un tono di autorità. Al era certo che s’esercitasse allo specchio radendosi la barba. «Buongiorno sindaco» salutò Ron. Al disse lo stesso; non sapeva come si chiamasse il sindaco, da quando viveva lì lo aveva sentito sempre chiamare a quel modo.

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«Chi fa fuori chi?» chiese il sindaco, accennando un sorriso. «Il nostro Al, qui…» disse Ron «pare che qualche animale gli impesti l’orto. Ma non sembra intenzionato a fargli male.» «Come i Gomez, allora» disse il sindaco con una punta di acredine. I Gomez erano cinque fratelli, tutti simili tra loro, nel carattere e nell’aspetto. Ispidi, tozzi e muscolosi, dall’aria sempre imbronciata e testarda dei contadini laboriosi e pugnaci. Non avevano fama di grande intelligenza, però, né di buon cuore. Avevano ognuno numerosi figli, sputati ai padri. Abitavano in un gruppetto di case appartato, distante dal centro un paio di chilometri in direzione opposta alla casa di Al. Talvolta Al li vedeva aggirarsi nelle campagne prima dell’alba col fucile imbracciato e un maschio orgoglio dipinto sul volto; per loro quell’arma era la naturale prosecuzione del proprio organo erettile, era evidente. Vestivano sempre in mimetica. «Già» disse Ron «ho saputo di quel cervo. Mai sentito di un cervo affrontato e ucciso a coltellate?» Aveva guardato Al. Il giovane si piccò di non dargli soddisfazione; indicò dei paletti e del fil di ferro in rotoli. «Proviamo con quello» decise. Se non avesse funzionato per tenere lontano gli intrusi, quel materiale avrebbe saputo come utilizzarlo comunque. Ron continuava a guardarlo. «Non li conosco bene» disse alla fine Al. La sua risposta fece torcere la bocca al commerciante. «È questo il guaio» ammonì «una volta non era così. Il paese era più unito. Oggi per lo più ci ignoriamo. Anche i bambini. Da quando hanno istituito la scuola telematica non hanno motivo di muoversi di casa. Nessun contatto fisico con gli altri. Non esistono strutture che favoriscano la socializzazione, a Delora. Oggi non sappiamo neanche cosa aspettarci, dai nostri vicini.» Era il discorso preferito di Ron. Lo faceva spesso; le prime volte Al pensava che ce l’avesse con lui, ma con il tempo comprese che Ron parlava in generale. Desiderava davvero che vi fosse una maggiore coscienza comunitaria. La vita del mondo attuale però andava in direzione opposta. Il sindaco aveva ascoltato con attenzione, sentendosi punto sul vivo dall’ultima parte di quel discorso. «E via, Ron» disse, provando con abilità la maneggevolezza di un’ascia

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corta «lo sai che non ci sono fondi. Siamo poche anime quaggiù. Niente asilo per i bambini, parco giochi, circolo ricreativo. Se un anziano vuol giocare a carte è bene che accenda il computer. In rete trova tutti i compagni che vuole.» Ron sgranò gli occhi e divenne rosso come un peperone. Il sindaco si lasciò sfuggire un sorriso. «Stavo solo scherzando» assicurò. Non avrebbe potuto stuzzicare il commerciante meglio di così. Anche Al si concesse una smorfia divertita. «Hai ragione, Ron» aggiunse il sindaco «lo sappiamo tutti. È così che vanno le cose oggi. Molta gente non ci fa neanche caso.» Non avrebbe dovuto dirlo; questo solleticò ulteriormente Ron, che si esibì in un’interminabile lamentazione prendendo fiato pochissime volte. Il sindaco l’aveva detto apposta: si divertiva un sacco a far parlare Ron, che a vociar d’impeto mostrava una loquela così forbito da far pensare a un’estrazione sociale di tutt’altra pasta. Aveva fatto sempre il bottegaio, quell’uomo? Al ne ebbe abbastanza di così tante chiacchiere; pagò, raccolse la sua roba e lasciò Ron a inveire e il sindaco a gongolare malizioso. Fece un segno di saluto ai due uomini e uscì dall’emporio. Infilò gli acquisti in macchina, entrò a sua volta. La pioggia ticchettava allegramente sul largo cofano del fuoristrada. Accese il motore e andò verso casa. Pensava a Lori. Erano diversi giorni, ormai. Doveva essere la scatola delle lettere. Non era più in grado di ignorarla. Lo spiava. Al era consapevole della sua esistenza come fosse stato un topolino chiassone che rosicava le strutture della sua casa, della sua vita. Il suono di quel fruscio si diffondeva dappertutto, inudibile eppur presente; ma quella era solo una scatola. Che diamine, quante volte se l’era detto? Quando arrivò a casa lasciò il materiale nel bagagliaio e corse dentro. Ric lo accolse con felino entusiasmo. Al si accese la brocca del caffè - era un consumatore incallito - e prese la scatola di Lori. Sedette a terra e per la prima volta da che gli era stata consegnata l’aprì. Chissà come mai si aspettava un nugolo di fogli disposti alla rinfusa, invece c’era solo un grosso diario, sul tipo di quello usato dai bambini, con l’immagine di un cavallo sulla copertina. Lori aveva sempre amato i cavalli. Al sfogliò le pagine di malavoglia, senza essersi ancora deciso a leggere. L’idea generale che ne trasse fu quella di un lavoro sistematico e ordinato. La

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grafia era quella di Lori, piccola e rotonda, ogni pagina era scritta fitta, senza cancellature. La data stampata era abrasa, a lato Lori l’aveva riscritta a penna, così che tra due pagine consecutive non c’era necessariamente un solo giorno di scarto. «Mio Dio» mormorò Al «ho sposato una grafomane.» Ric prese a strusciarglisi sulle gambe. «Be’» disse Al, vago. Tornò indietro e cominciò a leggere dalla prima pagina. Un resoconto dettagliato della festa di matrimonio, non tanto sui fatti, quanto su come lei si era sentita. Scorse la altre quattro pagine successive. Sempre su momenti importanti della loro vita, sul modo di sentire di lei. Era romantica e contenta come Al non si ricordava. I primi tempi andava bene, allora. Lui era stato così preso dal proprio lavoro che non ne era del tutto certo. Le pagine si susseguivano saltando parecchi giorni, spesso settimane; erano abbastanza inoffensive. Al si rilassò e prese a esaminarle senza saltare una parola. Dopo un bel pacchetto di pagine e un paio d’ore di lettura gli appunti si fecero più frequenti: qualcosa non andava. La carriera di Al si stava mettendo in mezzo. No, non tanto la carriera; Al si stupì di scoprire che anche Lori la considerava importante. Era lui, Al, che non andava. Pensava solo a sé stesso, secondo quel che scriveva Lori. Niente anniversari, appuntamenti mancati; l’ansia che vi fosse un’altra donna appariva evidente dagli scritti del periodo. Al non si era mai reso conto di questo; non c’era mai stata un’altra donna, solo il lavoro. L’ennesimo caffè cominciò a borbottare sul fuoco. Al lo ignorò. Lori scriveva di getto, ora, senza punteggiatura, e quasi tutti i giorni. Citava fatti di cui Al aveva un confuso ricordo, erano stati solo a margine della sua vita; per Lori invece erano stati importanti. Davvero era stato così assente? La solitudine di Lori era palese. Lei era un ottimo medico e stava via di casa molte ore al giorno, ma Al l’aveva battuta alla grande; sembrava non aver fatto il minimo sforzo per trovare uno scorcio per loro. Molte volte Lori era andata al giornale per pranzare con lui; Al non c’era mai e se c’era non si faceva trovare: l’ora di pranzo era quella in cui lavorava meglio, con tutti i colleghi fuori dalle scatole per mangiare. Giunse al punto in cui Lori scriveva del ricovero in ospedale del padre, un vecchio autoritario che Al non aveva mai digerito del tutto. Era

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qualcosa di serio, Lori aveva scritto parole intrise di angoscia. Da medico, sapeva bene cosa lo aspettava: era l’inizio di una lunga degenza. Al ricordava di essere andato a trovarlo in ospedale, ma la visita non era stata del tutto gradita, all’inizio. Si erano annusati come fanno due cani, con un certo sospetto, che anche con il tempo non era mai venuto meno. S’erano girati intorno parlando del più e del meno, senza dirsi nulla, cioè. «Così, Dan, ti hanno infilato quaggiù» aveva esordito Al, cercando di sedersi senza inciampare nel trabiccolo della flebo. Dan, il suocero, aveva implicitamente tradotto: “così ti sei tolto di torno per un po’, finalmente.” «Solo qualche giorno, Alejandro. Tu come stai?» Al aveva trasalito per com’era stato chiamato e anche perché l’uomo gli aveva rubato la battuta: stava al genero, ovviamente, informarsi sulla salute dell’altro. Al aveva tradotto: “lo so che non t’importa un fico secco. Sei qui solo per non avere rogne da Lori.” Non poteva dargli torto; da che si era sposato, Dan non aveva fatto altro che mettersi in mezzo: iperprotettivo verso la figlia, rompiscatole verso di lui. E gli stava facendo visita malvolentieri, Al; giornalista com’era, con Dan gli mancavano sempre le parole. Ma l’ombra di preoccupazione sulla faccia di Dan, un uomo tutto d’un pezzo che non cedeva mai, l’aveva colpito più di mille diagnosi funeste. Ne fu scosso davvero. Mentre rifletteva in quel modo l’anziano l’aveva guardato sornione. Al aveva tradotto quel suo silenzio: “aspetto che tu mi chieda come sto, anche se ora ti farà sentire un cretino.” «Come stai tu, piuttosto» fece Al, remissivo. Dan, a torto o a ragione, aveva tradotto: “ti accontento subito, so che ti va troppo male per impuntarmi d’orgoglio.” «Dimmelo tu» fece allora Dan, corrucciando la fronte. Al aveva tradotto: “Lo so che ne sai più di me, Lori è un medico e avrà parlato con te. Vediamo se hai i testicoli per spiattellarmi quello che mia figlia non vuole farmi sapere.” «Temo di saperne quanto te» aveva detto Al, assumendo un’espressione stupita; sapeva bene che l’altro avrebbe tradotto: “ammetto di non avere testicoli.” E infatti Dan aveva sorriso, ma con sfumatura mesta: doveva essere stato angustiato davvero. Di solito quel tipo di giochino andava avanti per parecchio e lui, che in genere la spuntava, adesso aveva perso mordente.

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Al aveva sentito il bisogno di concedergli di più. «Lori ha poca voglia di parlarne» aveva aggiunto «è preoccupata. Ma non troppo.» Dan non se lo aspettava, l’Al che conosceva non avrebbe portato avanti la sceneggiata: mentito avrebbe mentito, ma il meno possibile. Questa sembrava quasi la verità. E fu così che i due uomini avevano cominciato a parlare davvero, forse per la prima volta; chiacchierarono di Lori, per lo più, e piacevolmente. Senza bisogno di strane traduzioni. «Torna a trovarmi presto» aveva esclamato Dan alla fine. «Lo farò» aveva promesso Al. Non mantenne mai la promessa. Venne un periodo di intenso lavoro, per Al. Una sera, e questo episodio lui lo ricordava bene, era l’anniversario del loro matrimonio. Lori aveva lasciato il padre alle attenzioni di altri medici per cercare Al: dopo avere tentato di gestire per ore quel malato ormai terminale, e ciononostante ancora iroso e intrattabile, voleva che la serata avesse qualcosa di buono. Era tornata a casa; era così frastornata che non ricordava gli impegni del marito. Qualcosa di irrazionale le aveva fatto pensare di trovarlo lì, pronto a sostenerla. Al era lontano e non si era fatto rintracciare per un pezzo. Lori aveva vissuto quei momenti con ansia crescente. Quando finalmente Al aveva risposto alle chiamate l’aveva liquidata con pochissime parole, senza ascoltarla: era fuori, c’era un lavoro da finire, scadenze importanti, non aveva tempo da concedere a chiacchiere romantiche. Sul diario di Lori quel dialogo era scritto come fosse parte di un brogliaccio di narrativa, con tutti i segni di interpunzione al loro posto. Al lesse agghiacciando un tantino: si sentiva inchiodato al muro da quelle righe accurate, come una farfalla da un collezionista. «Al…» aveva detto Lori, con voce piccola piccola. «Non si sente gran che» fu la risposta di Al «cambia posizione, dove sono la rete va e viene.» Aveva buttato giù subito. Lori aveva richiamato pochi minuti dopo. La voce era sempre la stessa. Al aveva sospirato dall’insofferenza. «Non va ancora, Lori.»

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«Al?» «Eh? Mi senti, allora.» «Sì.» «Lo so. È l’anniversario e io sono fuori. Abbiamo fatto il discorso molte volte. Ci rifaremo.» «Al, papà…» «So anche questo. Mi dà addosso: sciupo la sua bambina; dovrei stare con lei invece di andarmene in giro. Ma io lavoro, Lori. Ti spiace se ne riparliamo? Ho un sacco da fare.» «N-no.» «Brava.» Al aveva riattaccato. Lei era precipitata nello sconforto; si era seduta sul letto ed era rimasta con il mento sui gomiti per parecchio tempo. Poi aveva cercato di nuovo il marito, ma stavolta il suo cellulare era spento. Ripeté il tentativo dieci minuti dopo, con lo stesso risultato. Tornò ad appoggiare il mento sui gomiti. Il diario non citava alcun pensiero di Lori, non veniva commentata la cosa: lei era rimasta semplicemente lì lasciando che la mente corresse per conto proprio. Alla fine era tornata in ospedale; il padre era peggiorato, non era più cosciente e respirava con l’ausilio delle macchine. Sarebbe morto di lì a due ore senza svegliarsi. Lì, in poche frasi, Lori esprimeva forte il cruccio di non aver potuto parlargli; mentre il padre scivolava nell’oblio lei cercava il conforto del marito che non c’era. Al imprecò a bassa voce. Ricordava che per tutta la giornata era stato impegnato a organizzare una intervista importante. Il cellulare era stato quasi sempre spento, tranne quando Lori l’aveva chiamato. Lui non aveva capito nulla di quel che lei gli aveva detto. Al lesse i commenti di Lori; lei ne aveva sofferto parecchio e certo a seguire doveva aver dimostrato questa pena a parole e contegno, ma lui non si era accorto di nulla. Lei aveva subìto la sua impassibilità con un ammacco ancor più dolente, che trapelava anche dalle pagine successive. Eppure lei non gli aveva mai rinfacciato nulla, neanche quando il divorzio parve inevitabile e l’amarezza della donna trapelava persino dai gesti.

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Lori aveva continuato a scrivere ogni giorno; Al seguitò a leggere quelle righe, a lungo, scuotendo la testa per la propria evidente inadeguatezza come marito e come uomo. Al inspirò forte e chiuse il diario con fermezza. Andò a spegnere sotto alla macchinetta del caffè, che ormai si lamentava come un moribondo. «Non credevo di uscirne così malconcio» disse Al, carezzando Ric, che lo seguiva come un cagnolino. Bevve una tazza fumante, poi riprese la lettura. Quella sera, prima di dormire, si lavò i denti guardandosi allo specchio. Si sciacquò la bocca. Scosse la testa a quel tizio dall’espressione sdegnata e l’aria colpevole. «Sei stato un discreto stronzo» disse. Ora poteva andare a letto.

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3. La mattina dopo, naturalmente, pioveva. L’aveva fatto per tutta la notte, colpendo forte il tetto in legno della casa di Al; lui ne era stato cosciente, tra veglia e sonno. A tratti la pioggia battente aveva spazzato le finestre, risuonando argentina con grazia sfrontata. Al si svegliò di soprassalto, la mente ancora intrisa dei fumi residui di sogni che non cercò di riafferrare. Dalle tende della finestra filtrava la luce dell’alba, fioca ed esitante tra cumuli di nubi in movimento. L’uomo si alzò con decisione, versò il cibo a Ric, prese la sua medicina e si vestì rapidamente. Gliel’avrebbe fatta vedere lui, al maltempo. Prese due fette di pane, un po’ di prosciutto e una bottiglietta d’acqua, infilò tutto nello zaino e si preparò a uscire. La pioggia scendeva ancora, incessante ma non forte. Non gli interessava, comunque. Era stato a poltrire abbastanza; da quando aveva cominciato a fare lunghe camminate quell’attività fisica era diventata una droga: la pretendevano i suoi muscoli e la sua mente. Uscì e chiuse bene la porta, lasciando il gatto in casa. Non aveva ombrello, ma l’impermeabile funzionava egregiamente; si calcò bene il cappuccio legandoselo al collo e si avviò rapidamente verso il centro della valle, secondo un percorso che aveva fatto molte volte. Avrebbe potuto seguirlo a occhi chiusi. La valle del Delora aveva una forma quasi a otto. In uno dei lobi si trovava lui; il Delora attraversava nel centro dell’otto, ma non longitudinalmente: lo faceva segando l’otto in due, quasi intendesse separare le due pance tondeggianti coronate di alti colli. Al centro, proprio dove scorreva il fiume, c’era una strozzatura tra le montagne che riduceva la valle a uno stretto canalone leggermente rialzato; per passare da una pancia all’altra occorreva traversare un ponte in acciaio. Vista dall’alto l’area aveva un aspetto unico; la strada e il fiume erano perpendicolari fra loro, come una croce che spartiva in quarti quasi

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uguali la vallata. A nord, oltre la corona di monti, c’erano tra i quattro e i cinque chilometri di pianura, poi una catena montuosa di grande estensione portava il terreno a salire ancora; lì la strada s’inerpicava tra i picchi, per poi scendere di nuovo oltre e raggiungere la città più vicina, a circa trentacinque chilometri da Delora. A sud, invece, non c’era altro che un’amplissima spianata verdeggiante, ornata qua e là di boschi d’alberi scuri e fitti; si poteva incontrare un centro abitato pur di proseguire per altri settanta chilometri buoni. Al s’incamminò speditamente; avrebbe raggiunto un estremo della valle, allontanandosi dal fiume. Procedette in salita, seguendo una vecchia mulattiera ormai in disuso. Era l’unico tracciato che lo conducesse in sicurezza tra i boschi permettendogli di sapere dove si trovava anche tra le brume del primo mattino. Fece un largo giro lottando con la pioggia che ora veniva giù alla grande; con il tempo buono avrebbe goduto di una bella vista, ma così si accontentò di sentire il proprio corpo lavorare respirando con ritmo armonico e costante. Trascorse un’ora circa senza fermarsi. Il pensiero di Lori andava e veniva. Le aveva fatto male, è vero, al di là di quel che diceva il diario. Però, in fondo, non era stato proprio una carogna; molte colpe che la donna gli imputava non derivavano dal suo egocentrismo, ma dalla malattia; una nuova compagna, elusiva e pretenziosa. Era arrivata all’improvviso quando Al, senza particolare gioia, era giunto all’apice della sua carriera giornalistica. Cominciavano a invitarlo a manifestazioni e cerimonie, ormai era abbastanza conosciuto; un giorno anonimo a un meeting noiosissimo, seduto in buon ordine all’ascolto di un collega attempato, era arrivato improvviso il primo devastante attacco. Al divenne istantaneamente consapevole del proprio battito cardiaco, del sangue che a ondate correva nel suo corpo. E se si fosse fermato? O al contrario, se quel pulsare, già amplificato, fosse cresciuto e cresciuto ancora, fino a farlo scoppiare? L’idea, assurda, si fece strada nella sua mente. Fu come se una cappa scura lo avvolgesse, sentì la punta di ogni nervo reagire, quasi friggere dalla tensione, mentre le sue gambe furono come tagliate dal corpo, quasi inerti, utili solo a ciondolargli i piedi come se non gli appartenessero. Attese la morte… che non venne. Durò solo pochi secondi, ma la fronte gli s’imperlò di sudore e in un

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attimo le forze lo abbandonarono. Non si sentiva in grado di tenersi in piedi, ma quando poco dopo il discorso ebbe termine si alzò e applaudì con gli altri. Tacque quell’evento, lo rimosse dai suoi stessi pensieri. Un’anomalia, un accidente irripetibile come una nevicata d’agosto, così lo volle classificare. Finché non capitò di nuovo, in più occasioni, e del tutto imprevedibili. Come poteva vedere la cosa? Era diventato un problema e lo sapeva. Ma non avrebbe fatto niente. Succedeva, tutto qui. Pochi secondi di grande sofferenza, dopodiché si sentiva fisicamente ed emotivamente da buttare. Ma poteva nasconderlo. Nel momento dell’attacco Al irrigidiva il volto, stringeva i denti per non emettere alcun suono, poi rimaneva leggermente stordito; poteva incespicare, a quel punto, però un piccolo infortunio si può attribuire anche ad altro. Al divenne molto abile a fingere; con Lori fu addirittura diabolico. Era un medico sua moglie, doveva essere bravo. Scuse infinite; lei le percepiva come tali, annaspava nel dubbio ma almeno restava lontanissima dalla verità. Poi venne il giorno dell’incidente d’auto. Al non riusciva più ad andare in ufficio, quella mattina. L’idea di allontanarsi da casa, di imboccare l’autostrada per fare una mezza dozzina di chilometri lo atterriva. Eppure doveva reagire. Con i sensi appannati dal panico infilò il casello per pura fortuna, poi gli occhi gli si offuscarono e piantò la macchina nel guardrail. Lo portarono in ospedale, meno male non quello di Lori; non era una cosa seria, ma nel deliquio le sue difese erano abbassate e quei medici erano in gamba. Lo passarono dal pronto soccorso a psichiatria. Domande su domande. Spossato, ammise. Fu l’inizio di una cura suo malgrado: il dottore non avrebbe avvisato la moglie, ma lui promise di farsi seguire da un professionista. Dovette mantenere la parola per forza: il medico lo teneva d’occhio. Al rabbrividì, ricordando quanto difficile fu per lui accettare quell’aiuto. I muscoli ora cominciavano a protestare; preso da ricordi infausti aveva istintivamente reagito aumentando l’andatura. Rallentò, concentrandosi intensamente sul respiro; si stava stancando più del solito, doveva essere colpa di quel dannato terreno sdrucciolevole. Per fortuna era piuttosto in forma. Già, l’attività fisica. Quella era stata una scoperta. Il suo psichiatra era un fanatico di body building. Mai avuto un medico

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personale dai pettorali giganteschi? Turbava un po’ quella vista. Gliene avevano parlato benissimo, però. Al primo incontro, nella sala d’attesa, aveva avuto voglia di scappare tant’erano strane le facce dei suoi assistiti. C’erano davvero dei malati di mente in quella saletta. Ma, quanto al corpo, erano tutti dannatamente in forma. Si era sentito ridicolo in mezzo a loro. L’unico scricciolo. Poi aveva conosciuto il dottore e la sua terapia: chimica e attività fisica. «Così, devo proprio scegliere uno sport?» aveva detto Al. Il medico l’aveva scrutato ballonzolando inconsciamente i bicipiti. «Certo. È importante quanto l’aiuto farmacologico. Mi creda. Attività all’aperto. Allora?» Attendeva una risposta; Al aveva sempre disprezzato i palestrati. All’aperto, eh? C’era la sua vecchia passione. «Direi che… sono un arciere.» Si sentì ridicolo mentre lo diceva. Il medico aveva scosso la testa e tutto il fascio di muscoli connesso. «Non va. Quello non è un vero sport. Non…» «Se la batto a braccio di ferro me lo dà per buono?» Battito di palpebre sotto sopracciglia foltissime. Poi, un sorriso denigratorio. «Se non vuole fare pesistica o attività di squadra, si dedichi alla corsa.» «Me lo dà per buono o no?» Altro sorriso. «D’accordo.» Al aveva vinto in dieci secondi: tendere la corda del suo arco gli aveva reso la muscolatura del braccio destro dura come la pietra. Il medico se n’era stato con la spalla dolente per un po’ parlando ancora delle cure; poi l’uomo non aveva potuto evitare di cambiare espressione fissando Al con agonismo. «Due su tre?» «Va bene.» Quel giorno il povero psichiatra aveva rischiato una brutta lussazione. Non più obbligato a scegliere, Al s’era rilassato ed era divenuto accomodante. Così aveva deciso di dedicarsi alla corsa. E fu una rivelazione. Non l’avrebbe mai detto, ma faceva davvero per lui. Questa cosa Lori non la capì e Al non raccontò tutta la storia; lei sapeva soltanto che di punto in bianco Al aveva iniziato a correre, a tutte le ore,

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sacrificando anche il preziosissimo lavoro. Cosa che lui non aveva mai fatto… per starsene con lei, ad esempio. Distratto dalle sue elucubrazioni, rallentò per rendersi meglio conto di dove si trovasse; la pioggia rendeva più complesso orientarsi. Riconobbe il posto dagli alberi vicini, due enormi platani gemelli. Proseguì. Il primo segno che stava per giungere alla meta furono i pali del telefono; percorrevano la valle parallelamente alla strada e con essa presero a inerpicarsi, gradualmente, man mano che si avvicinavano alla barriera delle montagne. Allora strada e pali si separavano: la strada serpeggiava pigramente, i pali seguivano la traiettoria ripida e dritta che conduceva alle creste del lato nord. I contrafforti sporgenti cominciarono a intravedersi tra le nebbie; Al si concesse la prima sosta e sbocconcellò il panino con appetito. Non sedette: ovunque c’erano rivoli di torrentelli improvvisati che scendevano dalle cime, la pioggia aveva cosparso tutto di un velo di umidità appiccicosa. Quando ebbe finito riprese la marcia dirigendosi verso la strada asfaltata; era a circa trecento metri dal passo quando s’avvide che qualcosa non andava: i pali del telefono erano abbattuti e la strada pareva mozzata. Tra le spire di nebbia, indovinò che il passo era crollato; era l’unica zona sgombra d’alberi e le rocce dell’area non sembravano così stabili. Colpa dell’uomo e della sua furia disboscatrice, come al solito. La pioggia insistente aveva saturato le falde, gonfiando la terra che, non più trattenuta, aveva trascinato tutto con sé. Un refolo di vento asportò le nebbie per un tempo sufficiente a mostrare i dettagli della frana. La montagna s’era come inginocchiata; si vedevano massi notevoli rotolati per centinaia di metri e uno smottamento generalizzato che aveva lasciato la catena montuosa come una bocca sdentata: una valanga di terreno impolpato d’acqua aveva trascinato e rovesciato il tratto culminante della strada, portando ogni cosa molto più in basso, falcidiando i pochi alberi del versante. I pali del telefono apparivano come disordinati dardi sulla schiena di un enorme paziente in una sessione di agopuntura. Non avrebbero usato il telefono per un pezzo, gli abitanti della valle. Al decise di tornare indietro, forse nessun altro sapeva. Avrebbe potuto avvertire con il cellulare, ma nella zona per i cellulari non c’era linea. Erano isolati. Al accelerò; se qualcuno percorreva la strada in macchina, inconsapevole, avrebbe corso dei rischi. La montagna era ancora

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instabile e molti massi ingombravano l’asfalto: ci si poteva imbattere nelle rocce prima ancora di vedere la frana. Provò a trotterellare un po’, ma rischiò di scivolare un paio di volte e rallentò. S’inerpicò sul tratto finale della mulattiera percorrendo l’ultima curva ascendente; da lì la strada diventava più facile e sicura per il ritorno, a patto di non cadere in mezzo al fango. La luce del giorno penetrava tra le nubi, ma la pioggia era comunque costante, anche se ora scendeva a ritmo blando. Al si fermò, prendendo fiato. Da quella posizione udì qualcosa che non aveva notato all’andata. C’era un suono che echeggiava sulle pendici, portato dal vento sino a lui; come di una cascata. Era il fiume. Al lo intravide dall’alto, ora che guardava nella direzione giusta. Il Delora, compreso tra i Picchi del Lupo, i due bastioni che stringevano la valle, scorreva furioso e marrone tra le sponde inerbate. Gli argini erano forti, ma l’acqua minacciava di esondare. Una piena così non compariva negli annali del paese. Il ponte che scavalcava il fiume, l’unica via rimasta per entrare e uscire dalla valle, era schiaffeggiato dall’acqua nei punti di attacco alla terraferma. Ora Al era davvero preoccupato. Scese rapidamente percorrendo il sentiero quasi invisibile e infilando una bella sequela di pozzanghere; scivolava in maniera controllata, usando la fanghiglia molle di fosse e cavità acquitrinose per rallentare. I grossi stivali lottavano tra lo sciabordio delle mote. Il cappuccio si rovesciò ma Al lasciò fare. Era inzuppato, ormai. Per arrivare a casa impiegò un tempo che gli parve interminabile. Non si curò di rassettarsi, prese le chiavi della macchina e corse all’emporio. Ron si alzava sempre presto e avrebbe saputo cosa fare. Dopo non molto le campane del paese presero a suonare senza sosta.

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4. La chiesa si stava riempiendo; il suono incessante delle campane in giorno feriale aveva prima incuriosito, poi preoccupato tutti quanti. Gli ultimi paesani stavano entrando, anche chi non frequentava le funzioni religiose era presente e si guardava in giro leggermente a disagio. Il sindaco era vicino all’altare; il parroco gli consegnò il microfono che usava per dire messa. La gente parlottava per informarsi, ma nessuno sapeva. Al sedeva su una panca a mezza altezza della navata centrale, permanentemente scrutato dalla piccola degli Heinz, una famiglia di biondissimi tedeschi arrivati nella valle dieci anni prima. La bimba era tempestata di efelidi rugginose e aveva uno sguardo d’un azzurro insolente. Al la ignorò. Il sindaco batté un dito sul microfono, sollevando un fischio prolungato. «Amici paesani» cominciò «mi scuso se siete stati chiamati in questo modo, ma siamo qui per una ragione importante: il versante nord è franato.» Vi fu un brusio sommesso, che il sindaco sovrastò facilmente. «Vi esorto a non usare veicoli in direzione nord, la strada non è praticabile. La frana ha abbattuto anche le linee telefoniche, quindi non sarà possibile effettuare e ricevere chiamate fino al suo ripristino.» Il brusio si fece più forte. «È un disagio, lo so. È accaduto altre volte. Finché non saremo coperti dalla rete cellulare forse capiterà ancora.» Disse la frase con tono polemico; aveva proposto varie volte la posa di ripetitori sulle creste dei monti, ma la gente, spaventata dai comprovati danni all’organismo provocati dai campi magnetici, aveva sempre rifiutato. L’unico ripetitore di cui voleva sentir parlare era quello TV, che era stato installato anni prima sui Picchi del Lupo.

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«Qualcuno dovrebbe andare a chiedere aiuto» disse un uomo con una gran barba, alzandosi lentamente in piedi «se lasciamo che il gestore se ne accorga e intervenga con i suoi tempi, rimarremo isolati fino a Natale.» «Giusto» disse il sindaco; si lisciò la fronte con la mano. «Prima di fare qualunque cosa direi di aspettare Pablo, dovrebbe essere qui a momenti.» Pablo era l’unico poliziotto del paese. Qualcuno dalle ultime file chiese cosa c’entrasse la polizia con i telefoni. Il sindacò scandì bene le parole. «Sta controllando il ponte. Sembra che il fiume sia molto alto, più di quanto io sia in grado di ricordare.» Questa era un po’ grossa da mandar giù. «Vuol dire che avremmo problemi a lasciare la valle?» chiese Bo Gomez, facendosi portavoce della sua famiglia. I Gomez sedevano raggruppati e tutti avevano un’espressione corrucciata, più infastidita che preoccupata. Anche i numerosi bambini. Il sindaco scosse la testa con decisione. «Non facciamo ipotesi premature» disse «aspettiamo Pablo, dovrebbe essere già qui. Restiamo calmi.» La gente si mise a discutere animatamente con i vicini di panca. Il sindaco sedette lentamente, fissando a più riprese l’orologio. Ma dov’era finito Pablo?

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5. Pablo osservò le strutture del ponte; erano forti, ma vecchie. Le travi in acciaio erano in buone condizioni, quello che lo preoccupava erano i piloni: tre, uno centrale in mezzo al fiume, e gli altri due incastonati nelle sponde opposte, tutti realizzati in calcestruzzo di bassa qualità. Il pilastro nel mezzo era di semplice appoggio, c’era una piastra in acciaio su cui s’attestava l’intradosso del ponte; quelli laterali non erano veri pilastri, ma terrapieni rivestiti da un crostone di cemento. Il fiume in quel punto non era più largo di sei metri, la larghezza minore nel suo percorso rettilineo nella valle. Lì le acque acceleravano; molti tronchi venivano trasportati velocemente dalla corrente impetuosa, cozzando contro le strutture inferiori del ponte che, essendo relativamente leggero, vibrava in maniera sonora. La forza delle acque tendeva a spostarlo lateralmente, gli appoggi di estremità si opponevano alla sollecitazione, mostrando però delle fratture grigio scuro sulla superficie di calcestruzzo. Pablo non sapeva cosa fare. Si strofinò la faccia, asciugandosi alla bell’e meglio dalla pioggia. L’acqua era al limite degli argini; il ponte, che era contornato da una grata d’acciaio a maglie strette per evitare che la gente in transito cadesse in acqua, era premuto da una gran massa di materiale arboreo di piccole e grandi dimensioni trascinato fin lì dai monti: quella massa premeva a causa della corrente, e il suo ritmo d’accumulo progressivo non accennava a ridursi. Quel che era peggio, il ponte era stato realizzato per vecchie portate d’acqua, antecedenti alla breve avventura mineraria, a seguito della quale, con il cambiamento degli equilibri idrogeologici, nuovi affluenti erano comparsi. Erano stati presi provvedimenti tramite opere di adeguamento, ma erano solo stati innalzati gli argini; con tutto il materiale di avanzo dagli scavi minerari era la cosa più facile, ma il ponte non era stato rialzato. Il risultato era che l’argine era più alto del

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livello inferiore del ponte e l’acqua stava cominciando a scorrere sul fondo stradale sospeso, filtrando attraverso la rete di parapetto. Pablo salì sul viadotto per sincerarsi della cosa bagnandosi le scarpe. Da lì il Delora faceva paura. Pablo si preoccupò parecchio. La rete era premuta fortemente, il gran numero di detriti in arrivo tendevano a tapparne i buchi e Pablo temette che l’acqua, non trovando più alcuno sfogo, creasse una pressione tale da sconquassare la struttura. Corse in macchina, aprì il cofano e cercò tra gli attrezzi che si portava sempre dietro. Prese una tenaglia lunga un braccio e corse sul ponte; prese a smantellare gli elementi di fissaggio della rete senza rendersi perfettamente conto di quel che faceva. Pensò che fosse una buon idea tagliare un po’ qua un po’ là, per far sì che la rete se ne venisse tutta insieme. La pressione era notevole; man mano che l’uomo tranciava, la rete si deformava di più. All’improvviso Pablo udì uno schianto inatteso; la rete, come lui voleva, aveva ceduto nel suo insieme. Sotto la spinta di tronchi e rami la rete si disfece proiettandosi contro l’uomo, che ne fu avviluppato; Pablo saltò a piè pari la carreggiata, scagliato contro la rete che stava sull’altro lato del ponte. Il colpo fu violento, accompagnato da un bombardamento di rami e rametti, foglie marce e terriccio. L’uomo cadde seduto, leggermente stordito. Si ripulì la faccia dallo sporco, mentre l’acqua, non più ostacolata, entrava a ondate portando di tutto. Il tritume prese ad accumularsi rapidamente contro l’altra rete. L’acqua ora era di mezzo metro sopra l’asfalto e Pablo, incapace di muoversi, vi era immerso sino alla cintura. Si sentiva un inetto bimbone compreso in un umido destino. Si riscosse rabbrividendo all’abbraccio gelido delle acque sudice. Si alzò, allora, sguazzando scompostamente per liberarsi dalla rete divelta; dette le spalle alla corrente, e questo fu un errore. Non aveva ancora usato la tenaglia per togliersi l’impiccio che una coppia di tronchi si avvicinò rapidamente, scavalcò gli ostacoli e spazzò il ponte colpendo Pablo alle gambe. Con un gemito l’uomo cadde in ginocchio, le gambe intrappolate dai legni; lottò per liberarsi ancora, ma gli sembrava di muoversi nella gelatina. Più il tempo passava e più nuova roba gli andava contro o si addossava alla rete rimasta. Pablo riuscì ad alzarsi, senza fiato; lasciò perdere la tenaglia, qui era in gioco la pelle. Senza più ostacoli, quintali di rifiuti si accumulavano sull’asfalto. Altri tronchi si aggiunsero; non erano grossi ma crearono un nuovo problema: si incastrarono nelle parti strutturali del manufatto opponendosi al flusso

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libero della robaccia convogliata fin lì. Con orrore, Pablo vide che la strada si riempiva di un po’ di tutto. Non era più solo la rete: quella forse avrebbe ceduto alla pressione eccessiva. Adesso erano le stesse strutture in acciaio del ponte che contribuivano all’impilamento del materiale. Pablo lottò per tornare alla macchina, scavalcò parecchi ostacoli, cadde e si bagnò da capo a piedi. Rischiò due volte di affogare. La macchina era laggiù, sembrava inarrivabile. Ora il ponte era pieno, ma altre cose riuscivano a saltare quelle presenti alzando cataste. Il peso cominciava a farsi considerevole. Incapace di fare qualcosa di intelligente Pablo pensò solo a scappare. Si aggrappò alle longarine più alte e fece il funambolo col poco di energia che gli restava. Ce l’aveva quasi fatta. Con un salto si ritrovò sull’argine e con un altro ruzzolò goffamente verso la macchina. Era salvo. Non riusciva a rimettersi in piedi, lasciò che le ginocchia si inzuppassero di melma. Attese qualche minuto respirando forte. Si alzò, finalmente, con cautela, scivolando sul terreno pregno di pioggia. Stava scendendo fitta fitta. Si diresse di nuovo sull’argine; in quel breve lasso di tempo il ponte si era riempito fino all’inverosimile, ed era colpa sua. Togliendo la prima rete ma non la seconda, aveva creato una sacca in cui la corrente si riversava senza sosta portando nuove cose. I tronchi ammonticchiati erano parecchi, adesso; coprivano gran parte delle superfici. «Crollerà» mormorò Pablo. Il peso dell’acqua e del resto stava facendo cigolare le strutture portanti. Pablo osservava impotente. Continuava a peggiorare. C’erano fango e legno dappertutto. Il ponte emetteva suoni sinistri e le crepe sul terrapieno si allargarono. Non cedettero né le strutture metalliche, né la parte asfaltata, ma il terrapieno si contorse e si sfaldò con una lentezza irreale. Terra e cemento caddero nel fiume lasciando al loro posto un buco ampio e nero. Il ponte si mosse: la parte connessa alla terra si staccò a fatica sotto la spinta della piena; l’estremo del ponte ruotò e si abbassò, senza affondare. Il ponte tentennò, strusciò contro il pilastrino centrale, traslò verso valle roteando piano, infine l’impiantito si deformò e si staccò in larghe scaglie, lasciando cadere docilmente tonnellate di carico nel centro del Delora. Pablo trattenne il respiro; osservò stolidamente il materiale che prima si dibatté litigioso, e poi trovò tra i flutti la via per abbandonarsi al suo viaggio verso il mare. L’uomo girò la testa; il ponte era inutilizzabile, ormai, restava a dimenarsi nel centro del fiume, inclinato, ancora vincolato all’ultimo terrapieno sulla riva

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opposta. Nella cavità lasciata dal suo lato Pablo vide incanalarsi una grande quantità d’acqua: in quel punto dell’argine non c’era più nulla a opporsi alla forza del fiume. Il primo robusto fiotto d’acqua esplose in trecce lucide e s’avventò all’esterno del letto, finalmente libero. L’auto fu investita dai flutti, oscillò, si mosse lentamente. Pablo lanciò un grido da pellerossa terrorizzato. Saltò verso la macchina inzuppandosi di nuovo come un pulcino nel torrente copioso in rotta verso valle. Annaspando l’uomo si aggrappò alla maniglia della portiera ed entrò in auto insieme a un bel po’ d’acqua; chiuse lo sportello e accese il motore. L’auto si mise in moto subito; Pablo forzò il motore inutilmente, le ruote erano parzialmente immerse e slittavano. L’acqua scura di minutaglia minacciava di infilarsi nel tubo di scappamento. Per fortuna il fiume esondato trascinò il veicolo per molti metri, fino a condurlo in un punto in cui le ruote fecero presa di nuovo. Pablo sterzò verso il paese e partì a razzo.

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6. Il sindaco riusciva a stento a quietare la gente. Erano tutti agitati e spaventati. I Gomez erano decisamente arrabbiati, adesso. Tozzi e robusti come scaricatori di porto, discutevano animatamente con la voce che sembrava più che altro un ringhio inespressivo. Quando Pablo, fradicio e spaventato, fece la sua comparsa nell’assemblea con grave ritardo, tutti ammutolirono. Il sindaco s’avvide delle condizioni in cui era e insisté per farlo sedere. Pablo rifiutò. Molti gli facevano domande. L’uomo alzò una mano e parlò tanto fiocamente da forzare il silenzio altrui. «Il ponte è andato» disse. Strepito generale. Il sindaco cercò strenuamente di zittire i presenti. «… silenzio, ho detto!» sbraitò il sindaco per quarta volta. Vi fu un attimo di calma. «Il ponte è andato» riprese Pablo «ero presente. L’acqua sta filtrando da un buco dell’argine. Dobbiamo fare qualcosa in fretta o la forza del fiume scaverà una breccia di dimensioni tali da allagare velocemente la valle. E le case stanno nel punto più basso.» «La fine del topo!» gridò una donna spaventata. «Calma» disse il sindaco cercando di coprire il vocìo che quel commento aveva originato. Bo Gomez si consultò con i fratelli. «Sindaco» disse, alzandosi in piedi «non possiamo scappare, se mai volessimo. Abbiamo una frana a nord e un guado impossibile a sud. Ho un sacco di figli e nipoti qui con me, sindaco. Spero che abbia una proposta.» Il sindaco si guardò attorno cercando una risposta, senza trovarla. Al si guardò intorno anche lui; la gente era terrorizzata. Sarebbero già stati abbastanza disperati abbandonando le loro case, ma dover aspettare l’inondazione senza poter fuggire…

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«Qualcuno ha un’idea?» chiese il sindaco. «Mandiamo qualcuno a chiedere aiuto. L’idea è ancora più valida, adesso» disse la signora Heinz, una giovane donna attraente dal marcato accento tedesco. Era a un paio di metri da Al e stringeva la figlia come se lei volesse sfuggirle. Pablo scosse la testa. «È un’idea buona, ma superata. Se non facciamo qualcosa per arginare la piena, in due ore ci troviamo tutti sotto alcuni metri d’acqua.» Al si alzò in piedi, vincendo l’istinto misantropico che lo spingeva a farsi i fatti suoi. I presenti lo osservarono senza particolare interesse. Alzò entrambe le braccia indicando di voler parlare. Il sindaco lo vide. «Al» disse l’anziano capo della comunità «dicci.» «Abbiamo bisogno di un nuovo argine» disse Al, con un tono leggermente forzato per farsi sentire. Bin Gomez, fratello minore di Bo, sghignazzò rivolgendosi ai parenti. «Un nuovo argine, sicuro» mormorò «perché noi non ci abbiamo pensato?» Bo approvò la frase del fratello con un risolino sardonico. «…dicevo» proseguì Al «che dobbiamo crearne un altro.» Pablo scosse la testa di nuovo. «Non so cos’hai in mente, ma non si può fare. L’area è impraticabile, ora.» «Non dico di avvicinarsi al fiume. Saliamo una ventina di metri sulle pendici dei Picchi del Lupo e facciamoli saltare.» «Facciamo saltare cosa?» disse Bo stupito. «I due Picchi del Lupo» rispose Al «non dovrebbe essere difficile. Il crollo delle pareti di roccia può formare una barriera sufficiente.» «Con cosa dovremmo farli saltare, a parole?» disse Bin, a voce forte ora. Al allargò le braccia in un gesto omnicomprensivo. «Delora è stato un paese di minatori. Non dovrei essere io a suggerirlo.» «Hai detto giusto, amico. È stato. Un sacco di anni fa» replicò Bin. «Oh, insomma» sbottò Ron schizzando in piedi «abbiamo capito cosa intende Al.» «L’hai capito tu» fece Bo, in difesa del fratello «hai degli esplosivi, nell’emporio?» Ron si concesse una smorfia di disprezzo. «Il museo» interloquì il sindaco «sicuro. Nel museo abbiamo un bel po’ di lingotti di dinamite. Ma sono vecchi.»

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«Non ci resta che provare» disse Al «ci servono solo dei volontari che piazzino le cariche ai piedi dei Picchi e le facciano brillare. Con una miccia bella lunga, anche.» Ora i fratelli Gomez avevano gli occhi che luccicavano. «Ci penseremo noi. Abbiamo esperienza, in queste cose» disse Bo. Nessuno ebbe voglia di chiedere che tipo di esperienza; qualcuno era disponibile e tanto bastava. «Bene. Propongo che i Gomez vadano subito» disse il sindaco «non ci possiamo permettere di attendere oltre. Noi altri possiamo aspettare qui.» Tutti erano d’accordo. I Gomez marciarono al museo e presero tutti i candelotti di dinamite che trovarono, li caricarono sulla loro jeep e partirono alla volta del fiume. La gente attese con impazienza, seduta in chiesa. Al se ne uscì un po’ alla chetichella; era già stato anche troppo sotto i riflettori, per i suoi gusti. Era giunto alla chiesa a piedi, e a piedi s’incamminò verso i Picchi del Lupo.

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7. Le esplosioni furono quasi simultanee. I Gomez avevano fatto presto, ma anche Al si era mosso in fretta; era giunto in vista dei Picchi da due minuti quando il doppio rombo percosse le pareti delle montagne. Dalla sua posizione, lontana ma sopraelevata rispetto al letto del fiume, Al aveva una buona visibilità degli eventi. I fumi del mattino si stavano diradando; era quasi spiovuto. Il sole non aveva abbastanza forza per forare le nubi, ma diffondeva comunque luce e calore sufficienti da disperdere le ultime nebbie. I Picchi tremarono. All’inizio parve che la dinamite non avesse avuto effetto, poi, con una lentezza esasperante, intere colonne di roccia iniziarono a sgretolarsi. I Picchi vennero giù, sfaldandosi in costoni e massi di ogni dimensione; il rumore del crollo fu ancora più impressionante delle esplosioni. Le rocce fecero a gara a raggiungere il suolo, rotolando e balzando sul terreno accidentato, invadendo la strada che conduceva al ponte, intercettando le acque del fiume che stavano invadendo la valle. Alti spruzzi d’acqua si levarono in cielo. Al rimase a guardare quello spettacolo finché, tra le polveri e il fango, la visibilità di quella porzione di vallata si ridusse a poca cosa. Alte grida si levarono là in basso: erano i fratelli Gomez che festeggiavano. Ruggivano e sghignazzavano d’orgoglio. Al attese che la pioggerella ripulisse l’atmosfera.

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8. In chiesa la gente stringeva le mani ai vicini e lodava i fratelli Gomez, che non si curavano di nascondere una certa fierezza. Dopo che il nuvolone si era dissipato era stato subito evidente che il tentativo era riuscito; il fiume era stato arginato e aveva ripreso il corso regolare, cominciando a esondare leggermente sopra la riva sud. L’acqua aveva iniziato a scendere in quella parte di valle senza possibilità di danno, visto che da sempre la zona era disabitata. Tutti facevano festa; erano ancora isolati, ma almeno non rischiavano più la pelle. Ron si accostò ad Al, che era appena rientrato dalla sua ennesima scarpinata del giorno. «Vedi?» disse con sarcasmo Ron «tutti d’amore e d’accordo. Persino i Gomez sembrano decenti, oggi.» Al lo fissò con una certa sorpresa. L’ironia del negoziante non gli sembrava del tutto motivata. «Questa gente ha rischiato parecchio, oggi. È normale che siano contenti.» Ron ricambiò lo sguardo di Al. «Certo» assentì «ma come sarebbe andata se la situazione non si fosse risolta?» «Be’, se davvero l’acqua depura, ora saremmo tutti purificatissimi.» «Non è quel che intendevo. Se l’emergenza non fosse stata così drammatica, avremmo giocato tutti a festeggiamo-assieme-i-Gomez?» «Ron» disse Al «non ti capisco. Una volta tanto che il paese sembra unito come volevi tu…» «Solo per fifa, Al, solo per fifa» replicò Ron. La gente ancora parlottava animatamente, visibilmente più rilassata. Il sindaco cercò di attirare l’attenzione sventolando le mani. «Amici…» cominciò «amici…» Alcuni si voltarono verso di lui e sedettero di nuovo, in attesa. Gli altri

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seguirono l’esempio senza fretta. «Compaesani» riprese l’anziano «siamo tutti grati ai fratelli Gomez per l’apporto che hanno dato alla faccenda. E grazie anche a te, Al, per l’ottima idea. Ma siamo ancora in emergenza. Direi che dovremmo decidere cosa fare. Non possiamo comunicare con le città vicine, possiamo solo ricevere le trasmissioni televisive. Sono il nostro solo contatto con il mondo esterno. Dobbiamo prendere in considerazione l’opportunità di mandare qualcuno ad avvertire della nostra condizione.» «Sì, giusto» disse qualcuno in fondo alla navata. Vi furono svariati commenti favorevoli, ma sembrava che nessuno si rendesse conto di cosa comportasse. Ci fu chi prendeva la camminata come una gita scolastica. Suo malgrado, Al era forse l’unico che per esperienza avesse un’idea della difficoltà dell’iniziativa; si alzò in piedi. «Scusatemi. Non voglio spaventare nessuno, ma neanche lasciare che si sottovaluti la cosa.» I paesani lo guardarono attentamente; Al si dimenò, leggermente a disagio, spostando alternativamente il peso del corpo da un piede all’altro. «Per chiedere aiuto» disse «si deve scalare la cresta di monti che circonda la valle, evitando la frana o i picchi crollati, che sono instabili. Poi scalare la successiva catena di monti per arrivare a una zona coperta dalle reti cellulari. Quattro giorni a piedi. Devo anche puntualizzare, signor sindaco, che non siamo nemmeno in grado di ricevere le trasmissioni televisive. Il ripetitore stava assai vicino ai Picchi del lupo. Troppo.» La gente ci rimase male. Molti guardarono i Gomez, un po’ meno entusiasti. Bo fissò Al con un certo astio. «Sai un sacco di cose, tu» disse Bo «come sai quanto ci vuole?» «Mi piace camminare» disse Al asciutto. «Sapevi anche della piena» disse Bo. «Sì.» «E la frana? Chi l’ha vista stamani deve essersi alzato dannatamente presto.» Come spesso Al aveva visto i Gomez vestiti di tutto punto per la caccia, così loro avevano visto Al marciare vigorosamente tra le nebbie, nella semioscurità. Al annuì. «Ho incontrato la frana e ho notato la piena, per fortuna» rispose Al.

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Non ci vedeva nulla di male. Alle sue spalle e intorno si alzarono brusii malevoli. Bin Gomez si unì al gioco del fratello. «Tu hai suggerito di far crollare i Picchi del lupo» disse. Al capiva cosa cercavano di insinuare, anche se non ne capiva il perché. Comunque non gliene importava niente. «Non c’era alternativa» disse. Bo Gomez alzò la voce. «Qualcun altro tra voi altri ha visto la frana?» domandò, scorrendo lo sguardo sui presenti. Anche se mormorata, la risposta era un evidente “no”. «Suggerisco di andare a vedere, allora. Non si sa mai.» Al si strinse nelle spalle. Il sindaco, che aveva una certa simpatia per il giovane, sembrava imbarazzato. «Direi… che si può fare, senza offendere nessuno» intervenne, evitando di guardare Al «in macchina ci vogliono non più di dieci minuti.» «Fate pure» disse Al «quando l’avrete vista, rimarrà comunque il problema dei soccorsi. Io non ho particolare voglia di andare, ma sono quello più adatto.» Ron gli comparve accanto, gli mise una mano sulla spalla. La gente borbottava in maniera incomprensibile; con uno sguardo significativo Ron indicò i presenti. «Apprezzo la tua offerta, Al» disse poi, in modo che gli altri sentissero «so che non c’è bisogno di andare alla frana.» Il sindaco guardò Ron, Al e i Gomez. «Certo» disse «ciononostante i nostri cittadini devono essere sicuri. È una situazione già abbastanza difficile. Non costa nulla andare a vedere quella frana.» «Se c’è, e se è una frana» disse Bin. Francamente si divertiva. Altri mormorii turbati. «Che c’è?» chiese Bo «è stato Al a suggerire la dinamite. Sapeva bene dov’era.» «Sta’ zitto, Gomez» disse Ron «tutti sapevamo dov’era. Se fosse stata usata per chiudere il passo nord le esplosioni avrebbero svegliato tutti. È stato uno smottamento, invece, inudibile per il maltempo.» «Ok, ok» disse Bo sorridendo. Molti comunque sbirciavano Al con palese ostilità, e lui non avrebbe potuto dar loro torto: i Gomez dimostravano spesso la loro lillipuzianità mentale, ma erano prevedibili come le tasse. Al era ritenuto strano per

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abitudini e atteggiamenti. Chi altri s’infradiciava nottetempo per il solo piacere di camminare? Pablo si alzò in piedi; ormai si era ripreso dall’esperienza sul fiume. «Ho capito» disse. Andò da Al e lo prese a braccetto. «Mi spiace, Al» disse. Il giovane lo squadrò con un certo stupore. «Per la tua sicurezza, Al» disse a voce alta il poliziotto «rimani dentro casa per un po’, vedo troppe occhiate storte, qua dentro. Finché non si chiarisce tutto.» Al sorrise senza allegria. «D’accordo. Ma stiamo perdendo tempo.» Pablo accompagnò Al fuori dalla chiesa e lo fece entrare nell’auto di servizio. Al notò le condizioni pietose del veicolo, ma non era in vena di commentare; fece per sedere sui sedili posteriori, ma Pablo gli aprì la portiera davanti: non voleva che il giovane si considerasse un vero prigioniero. Pablo lo accompagnò a casa sua e lo salutò con cortesia professionale, raccomandandogli di non andarsene in giro; poi tornò alla riunione paesana. Al entrò in casa e ciondolò qua e là senza una meta, poi decise di prenderla con filosofia e di leggere un buon libro; ne prese uno dalla biblioteca, ma lo rimise a posto subito. Poteva fare di meglio. Andò a prendere la legna nel capanno adiacente casa ignorando la pioggia di nuovo battente, e tornò dentro con una bracciata di rami robusti. Mise il tutto nel camino e accese il fuoco, che prese a scoppiettare allegramente. Non era freddo, l’inverno pieno era passato da un pezzo, ma la pioggia continua di quei giorni aveva abbassato la temperatura di qualche grado e Al trovava un sollievo fisico e psicologico nel fiammeggiare allegro della legna secca. Lasciò che il fuoco gli imporporasse la pelle del viso; poi decise come avrebbe passato il resto della giornata. Si organizzò per bene; pasto frugale e lettura scelta davanti al focolare. La scatola di Lori era per terra, aperta; Al teneva il diario tra le mani, un po’ troppo vicino al volto, così che inconsciamente doveva socchiudere gli occhi per mettere a fuoco la scrittura fitta in cui era immerso. Agli arresti domiciliari, o quel che erano, non aveva altro stimolo che leggere la storia del suo personale fallimento come marito; troppe volte aveva lasciato che il suo lavoro entrasse nella sua vita familiare, troppe volte

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Lori ne aveva sofferto senza farglielo pesare. Poi la malattia; a quel punto del diario era già entrata in campo. Un fattore nuovo, di cui Lori non doveva sapere. Un mezz’uomo, ecco cosa aveva sposato la sensuale, cerebrale, dolce Lori. Al prese a curarsi all’insaputa di lei e andava a correre nelle ore più impensate: adorava la città di notte, la sensazione di efficienza del proprio corpo, il sudore che disperdeva assieme all’angoscia. Lori non ci capiva più niente; quell’uomo faceva il possibile per sfuggirle o cosa? In mezzo a quel frastorno, leggendo ancora Al vide anche un lato tenero di Lori che non pensava esistesse; era sempre stata carina con i bambini, ma nella pagina del 12 dicembre di due anni prima diceva: “ho incontrato la bimba dei vicini, oggi. Ha tre anni e mezzo, un vestitino da bambola e una fantastica maniera di guardare le cose. Come se fossero più di quel che sono. Non sono riuscita a distogliere l’attenzione mentre giocava con le amiche e spiegava le sue ragioni con puntiglio. Fantastica. Le è caduto il pallone nel nostro giardino, è venuto a prenderlo vicino a me. Profuma di bimba. Ho pensato come sarebbe stato se fosse mia figlia. Io, con una bambina. Chissà se ad Al piacerebbe?” Al non aveva mai visto Lori come una madre. Lori non aveva mai visto Lori come una madre, per quel che ne sapeva lui. Non avevano mai parlato di avere figli; troppo complicato, visto il loro lavoro, o forse era semplicemente troppo presto. Almeno per Al. Non si era sentito maturo per diventare padre, come per un sacco di altre cose. Gli uomini, eterni bambini. La frase preferita di sua madre, rammentò. Ma non era soltanto questo. Al era malato. E si sentiva malato. Che razza di padre sarebbe stato un uomo così? La cura giusta era assai lontana, allora; solo la corsa gli dava sollievo. Lori continuava poi con altri fatti, non molto interessanti per la verità. Il diario riportava poi un evento inoffensivo che però Al avrebbe preferito scordare: il patatrac che lui aveva combinato alla regata di fine anno. Ricordava anche troppo bene; lui e Lori erano andati in barca su un lago montano, e siccome l’imbarcazione era comoda e dal fondo piatto, be’, era alquanto predisponente all’amoreggiamento. Ma certe effusioni possono essere inopportune se si galleggia al centro di un lago dove sta per svolgersi una competizione velica. Certo, quelli non l’avevano segnalata, ma Al si era sentito piccino piccino quando, sbaffato di rossetto, aveva dovuto profondersi in scuse con i concorrenti più

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maleducati. Lesse quelle righe senza entusiasmo ma con stupore crescente: Lori l’aveva vissuta in modo così diverso! Si era divertita, persino. Aveva riso di gusto, badando di nasconderlo ad Al; era così imbarazzato, quel ragazzo! Le era apparso teneramente impreparato innanzi a tanto magra figura; lui, che si sforzava sempre di mantenere il controllo delle cose. Lei glielo aveva ripetuto spesso: “non c’è da illudersi di avere il controllo della tua vita, le cose accadono e basta. È importante accettarlo, questo, per essere felici.” Mai Lori aveva profferito frase più lontana dal modo di sentire di Al. Lui aveva sempre pianificato le proprie cose, pretendendo da sé stesso e dagli altri sin troppo rigore. E così aveva fatto finché, poi, non cessò di essere in grado di esercitare quel controllo: prima la malattia improvvisa, quindi lo sgretolamento del matrimonio e del lavoro. Un tonfo sordo, la sua vita. E questo l’aveva condotto a Delora. Al si riscosse, fustigato dal codone di Ric. A Lori sarebbe piaciuto quel gatto. Non era solo bello, era un animale capace di seguire l’umore di Al. Gli era accanto quando lui stava male, lamentandosi con un miagolìo stentato da micettino; si teneva alla larga nei momenti di malumore; era parte integrante del mobilio nel tempo lieto e nel riposo. Insomma, era migliore di Al; lui sì che si adeguava alle cose, secondo il pensiero di Lori. Al lo carezzò sulla schiena sollevando un prrr compiaciuto. Riprese a leggere. Il giorno dopo Lori scriveva di un’amica all’ottavo mese di gravidanza; diceva: “… mi sono scoperta a spiare la sua pancia enorme, e lei si è messa a ridere. Le ho chiesto scusa e ho riso anch’io. Cosa deve essere avere qualcuno dentro? Sentirlo, chiamarlo per nome, sapendo che quel suono penetra dentro di te e arriva fino a quell’esserino indifeso? Ringrazio Dio che mi ha fatto donna. Al non saprà mai cosa significa…” Al cominciò a sbocconcellare un panino imbottito d’insalata dell’orto. Scorse una decina di giorni zeppi di fatti e pensieri anonimi; lui si stava comportando benino, in quel periodo, Lori era abbastanza serena. Poi il venti gennaio: “… mi piacerebbe che fosse una sorpresa. Al non se l’aspetta di certo. Ma non so come la prenderà, forse è meglio che lo scopra da sé…” E il ventitré: “… non mi sento bene. Al è all’estero, impegnatissimo. Non ne abbiamo ancora parlato. Ho un po’ paura, Al ha ripreso a essere

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scostante. Non posso dirglielo. Devo chiudere, adesso. Non mi sento affatto bene…” La pagina successiva era datata venti febbraio, un intero mese di salto. C’erano poche righe, scritte in grafia piccola: “non ho voglia di nulla. Al ha dei problemi al lavoro, ne parla continuamente. Cerco di aiutarlo, ma ci vorrebbe chi sostiene me. Sono a terra. Non credo di voler rischiare di ripetere quest’esperienza. Mi sento distrutta dalla perdita di questa bambina…” Al chiuse il diario di scatto facendo saettare all’insù le vibrisse di Ric, che gli si era acciambellato contro. Pensò furiosamente, a lungo. Ripose lentamente il diario nella sua scatola. Restò a osservare le fiamme che s’inseguivano nel camino, finché i lampi non si fecero fiochi e infine non rimase che cenere. «Mio Dio» mormorò «c’è qualcosa che sapevo, di quella donna?» FINE ANTEPRIMACONTINUA...