L'ultima profezia

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di Davide Zaccardi, gothic fantasy

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Davide Zaccardi

L’ULTIMA PROFEZIA

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L’ULTIMA PROFEZIA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Davide Zaccardi ISBN: 978-88-6307-325-6

In copertina: Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Novembre 2010 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Lucia, con amore. Grazie per aver creduto in me.

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CAPITOLO I Di come solo poche persone, sebbene dotate di poteri e forza di volontà superiori alla media, siano riuscite a cambiare i destini del mondo di Artan, si sarebbe discusso a lungo negli anni successivi agli sconvolgenti eventi che avevano avuto luogo. Assistere alla nascita di una nuova divinità era tanto sconcertante quanto inaspettato. Pochi conoscevano la profezia del “Grande Sacrificio” prima che essa si realizzasse, e fra quei pochi solo una piccola parte la considerava degna di credito. Che tutto quello facesse parte del misterioso disegno dei divini creatori dell’universo o che si trattasse di una straordinaria anomalia cosmica, poco importava; l’equilibrio si era spezzato e una nuova era aveva appena avuto inizio. Ai mortali non era concessa la conoscenza degli avvenimenti inerenti alla creazione dell’universo e delle sue leggi fisiche, e tanto meno i Creatori si erano mai manifestati direttamente agli abitanti del pianeta Artan. Agli albori i popoli erano stati a lungo lasciati a loro stessi, senza alcuna conoscenza e una limitata coscienza della propria condizione. Essi veneravano il sole, le due lune e gli elementi in maniera istintiva e vivevano quasi come bestie, in capanne di fango ed erba o dentro a caverne naturali, traendo sostentamento dalla caccia, dalla pesca o dalla raccolta dei frutti spontanei della terra, nascondendosi nelle proprie tane quando l’inspiegabile e spaventoso buio della notte sopraggiungeva. Ci vollero millenni prima che i primitivi insediamenti umani cominciassero a trasformarsi in villaggi organizzati e a costituirsi le prime vere e proprie civiltà. Se qualche brandello di verità cosmica trapelò un tempo dalle insondabili profondità dell’universo, era oramai dimenticato, caduto nell’oblio come le vite dei primi uomini. Fu in questo periodo che avvenne la nascita degli “Dei Carnali”. I racconti e le spiegazioni in merito a questo periodo differiscono fra loro, oramai influenzati da successivi millenni di mistificazioni e reinterpretazioni, ma fu certamente un’era di cosmici cambiamenti. Da ogni popolo emersero degli individui dotati di straordinari poteri e conoscenze innate, immortali, seppure vulnerabili alle ferite, che sapevano influenzare la realtà con il semplice pensiero; questi individui erano divinità fra i propri simili, venerati, seguiti,

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protetti e gelosamente custoditi. Intorno a loro si raccoglievano i comuni mortali e si andavano formando le prime nazioni. Nessuno seppe mai spiegare con certezza come mai queste divinità vennero al mondo, ma quasi tutti concordano sul fatto che furono i Creatori a desiderarlo, per dare ai popoli una guida che fungesse da tramite con loro. Gli Dei Carnali erano in comunicazione con i Creatori e parlavano in loro vece, seppure nemmeno loro conoscessero le intenzioni delle entità supreme e il cosiddetto Grande Disegno. Ai tempi in cui si svolge questa storia le divinità carnali avevano abbandonato da molti secoli la dimensione materiale, a causa dei problemi causati dal pervertito utilizzo dei loro poteri divini. I conflitti bellici di quell’epoca, definita dagli storici “Era Leggendaria”, terminavano sempre in massacri fra le fazioni, con gli Dei Carnali che nell’espressione distruttiva dei loro poteri arrivavano a spazzare via persino le proprie file di combattenti. Da punto di riferimento si erano tramutati in prepotenti dittatori. Fu il riconoscimento di tale ingiusta condizione che convinse gli Dei Carnali più coscienziosi a cercare una soluzione diplomatica e pacifica ma, nonostante i numerosi incontri che seguirono, non riuscirono a raggiungere un accordo comune. Le pretese, i pregiudizi, la sete di potere e vendetta, la voglia di prevaricare gli uni sugli altri… ogni cosa concorreva nell’allontanare la possibilità di una riconciliazione. Alla fine gli Dei Carnali decisero di affidarsi al giudizio dei misteriosi Creatori, nonostante questi avessero per sempre lasciato il totale dominio sulla dimensione materiale agli immortali. I Creatori, forse delusi e infastiditi dal fatto che i loro favoriti non avevano saputo trovare una soluzione pacifica ai loro dissidi, decisero arbitrariamente di trasportare gli Dei carnali in un mondo lontano, ove avrebbero potuto affrontarsi in battaglia e risolvere i loro conflitti una volta per tutte senza causare ulteriori massacri fra i mortali. I mortali non seppero mai cosa successe esattamente in quel luogo sconosciuto. Quello scontro fu definito “Il Mitico Eccidio” e vide la definitiva scomparsa di molte divinità con la vittoria del Bene sul Male, della Legge sul Caos. Gli Dei Carnali avevano ridefinito un nuovo equilibrio, mentre i sopravvissuti che ancora non si trovavano d’accordo con la maggioranza vittoriosa si erano arresi e avevano imparato, loro malgrado, l’arte del compromesso.

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Purtroppo durante il Mitico Eccidio, che durò circa cento anni, le alleanze mortali, rimaste senza la forte guida divina, si erano frantumate in migliaia di piccoli clan e fazioni che si combattevano fra loro per la conquista delle ricchezze o dei territori altrui. Quel tempo fu chiamato “L’Era dello Smarrimento” e fu sicuramente il periodo più violento e oscuro della storia di Artan. Quando gli Dei sopravvissuti tornarono dal Mitico Eccidio e videro quella situazione, si resero conto che i mortali non erano in grado governare senza il loro ausilio, ma sapevano anche che la loro permanenza su Artan era troppo pericolosa. Decisero all’unanimità di stilare quello che venne chiamato “Il patto dell’Esilio”: ogni divinità avrebbe rinunciato al proprio corpo fisico e si sarebbe ritirata in diverse dimensioni spirituali completamente isolate dal piano materiale, le quali avrebbero accolto dopo la morte anche le anime dei mortali fedeli; queste dimensioni presero il nome di “Paradisi”. Gli Dei si erano elevati al di sopra della carnalità e della materialità, ma dato che il loro potere divino e la loro stessa immortalità erano dipendenti dall’estensione dei possedimenti terreni posti sotto il loro comando, non potevano rinunciare del tutto a influenzare il destino di Artan; avrebbero scelto fra i propri fedeli alcuni esponenti privilegiati per far giungere a tutti gli altri la loro autorità. Vennero così creati i primi ordini religiosi, ridefinite le cognizioni di vita ultra-terrena e codificati i culti. I vari capi-culto si ergevano fra i propri simili chiamando a raccolta i fedeli e riunendoli sotto le bandiere dei regni terreni che volevano riformare in nome degli antichi splendori dell’Era Leggendaria, dando inizio così alle prime teocrazie. Altri mortali, invece, dotati di spirito più pionieristico e individualista, cominciarono a progettare una società libera dal dominio degli Dei, gettando le basi delle prime nazioni laiche. Nonostante gli attriti filosofici che c’erano fra i due differenti approcci alla vita politica, le varie fazioni si erano rafforzate in una claudicante ma effettiva armonia, istituendo rapporti commerciali e diplomatici fra loro. La storia delle varie civilizzazioni non proseguì mai del tutto pacificamente, poiché l’esistenza di fazioni confinanti filosoficamente differenti generava spontaneamente dei conflitti, ma perlomeno il caos dell’Era dello Smarrimento era stato acquietato e i massacri dell’Era Leggendaria erano solo uno spaventoso ricordo. Gli Dei Carnali avevano finalmente preso una saggia decisione.

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Il mondo conosciuto di Artan era diviso in due continenti piuttosto vicini fra loro, uno a nord e l’altro a sud, chiamati rispettivamente Ogellian e Yuzan; solo Ogellian era abitato. A quel tempo, tutte le nazioni erano riassumibili in tre gruppi principali: L’Alleanza, le Terre del Caos (altresì note come Artalos) e l’Unione del Nord. L’Alleanza era capeggiata dalla beneamata teocrazia di Moth, Dio della Luce, della Conoscenza e della Legge. I mothiani avevano posto sotto il proprio dominio, dapprima in uno status di vassallaggio poi in una pacifica annessione, la teocrazia di Kaban, Dio della Guerra e della Forza, nonché fratellastro minore di Moth, essendo nato dalla stessa madre. Mothiani e Kabaniti andavano molto d’accordo, nonostante i secondi fossero assai più facinorosi dei primi per via del loro retaggio guerriero e della loro filosofia non pacifista. A ovest del regno di Moth si trovavano le tre nazioni laiche esistenti, che avevano aderito all’Alleanza più per assicurarsi la pace piuttosto che per affezione alla forma politica del vicino di casa o per rispetto nei confronti del Dio Moth: dal punto più a nord, sino a sud, sulle coste del continente, erano nate da diversi secoli la magocrazia di Thureinal, uno stato governato da maghi e stregoni, Il regno di Nuassirìm, precedentemente sotto il giogo dell’omonimo Dio della Terra e dei Metalli, caduto poi durante il Mitico Eccidio, e il regno di Sartrim, anch’esso derivante da una teocrazia un tempo appartenete al Dio Sartrim delle Tempeste, Signore dei Mari e del Vento, anch’egli vittima dell’antica contesa divina. A est del regno di Moth, nell’entroterra, si trovavano la teocrazia di Mirion, Dio dei Viaggiatori e del Tempo Cronologico e più a sud la teocrazia di Valina, la Dea della Pietà, della Maternità e della Guarigione. L’Unione del Nord giaceva immersa fra i ghiacci, come un freddo copricapo sulla testa dell’Alleanza. Era formata da due teocrazie di dimensioni quasi pari al regno mothiano: la teocrazia di Otrian, Dio dei ghiacci e del Freddo, nonché Signore dei nomadi della steppa, e la teocrazia di Eri, Dea della Morte e della Rinascita. L’Unione del Nord tendeva a estraniarsi da ogni possibile conflitto e cercava di condurre una vita il più pacifica possibile con i confinanti, dovendo già affrontare condizioni di vita estreme a causa del clima non certo ospitale delle terre gelide sulle quali era sorta. Nonostante il loro atteggiamento fosse piuttosto mite, tutti i governi confinanti non potevano fare a meno di pensare che prima o poi si sarebbero spinti aggressivamente oltre i propri confini, alla ricerca di terre più fertili da conquistare.

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Alle cosiddette Terre del Caos appartenevano un gruppo di teocrazie violente che stipulavano effimere alleanze per pugnalare alla schiena i precedenti alleati ed espandere i confini dei propri possedimenti a loro spese. Il nome usato dai dotti e dagli studiosi per questo confuso gruppo di teocrazie era “Artalos” che in lingua antica significava “Terre degli Sconfitti”. Di fatto, queste teocrazie erano l’eredità di tutte le divinità sconfitte, ma sopravvissute al Mitico Eccidio; i governi che dominavano l’Artalos desideravano il ritorno delle divinità sul Pianeta e non perdevano occasione per espandere la propria influenza territoriale, con il progetto di sottomettere gli stati dissidenti al loro disegno. Confinante a ovest con il regno di Moth, a nord con i domini di Valina e a nord-est con il regno dei Quattro Demoni, del quale si parlerà in seguito, si trovava il regno di Jamall, una teocrazia appartenente alla Dea Senza Nome, Signora dei Segreti, della Disperazione e di tutte le creature che si nascondono nell’oscurità, Dea della Notte e dell’Omicidio. Questa nazione era governata da due persone: il Maestro Oscuro, capo della gilda degli assassini, e l’Oracolo, capo del Culto delle Tenebre e portavoce della Dea dell’Oscurità; l’Oracolo era una veggente umana che aveva ricevuto il dono dell’Immortalità in circostanze misteriose. Dai Confini meridionali della teocrazia di Eri dell’Unione del Nord, lungo i confini orientali delle terre civilizzate di Mirion, di Valina, dei Quattro demoni, di Jamall e di Aslamon, si trovavano le terre dei Sutar, feroci guerrieri discendenti da una delle due razze senzienti non umane del continente. I Sutar sembravano l’unione estetica fra un umano e un rettile, e si dividevano in tre razze principali: la stirpe di Hagull, Dio sutari del Fuoco, quella di Kaashna, Dio sutari delle Paludi, della Tristezza e dei Sogni Infranti e i seguaci del Dio Gathranoch, divinità sutari della Distruzione e delle Maledizioni. A sud del regno di Jamall, confinante a ovest col vecchio regno di Kaban, c’erano le terre di Aslamon, figlio del Dio Gatranoch, metà umano e metà Sutar, abitate prevalentemente da una popolazione umana o mezzo-sangue, come il loro Dio. Aslamon era il Dio del Tradimento e dei Complotti, dell’Invidia e della Rabbia. L’altra razza non umana era chiamata Iluar, umanoidi dai tratti felini che vivevano in villaggi arborei, ma anche di questi si narrerà in seguito. Un’eccezione fra tutte le nazioni era costituita dal regno dei Quattro Demoni, il quale si manteneva assolutamente neutrale, intrattenendo rapporti

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commerciali con tutte le nazioni confinanti, indipendentemente dalla loro fazione. Sebbene quel regno fosse assimilato alle terre dell’Artalos, era più che altro un dominio indipendente e isolato politicamente. I Quattro Demoni erano potenti entità provenienti dal mondo lontano in cui gli Dei si erano battuti durante il Mitico Eccidio, al quale avevano partecipato solo in qualità di osservatori. Avevano seguito su Artan i sopravvissuti senza fornire spiegazioni sui motivi del loro arrivo e sulle loro intenzioni. Ottennero il proprio regno terreno prendendo le redini di quella che un tempo era la teocrazia di Zarghala, divinità caduta in battaglia, inventore delle arti. I Quattro Demoni non erano stati obbligati ad aderire al Patto dell’Esilio per via della loro natura non divina (ossia non avevano il potere di manipolare la realtà oggettiva in maniera diretta e non traevano potere dalla terra che dominavano), nonostante fossero di natura immortale e possedessero dei poteri simili a quelli degli altri Dei. Inoltre, visto che si limitavano a mantenere intatti i confini del proprio regno senza alcuna velleità espansionistica, non costituivano una minaccia alla salvaguardia dei mortali. Sin dal loro arrivo i Quattro avevano preferito risolvere le proprie contese tramite la diplomazia o l’assassinio, senza intervenire in prima persona o militarmente. Sebbene non fossero divinità, essi erano considerati dai mortali come i rappresentanti delle quattro aree di conoscenza dello scibile umano, dato il loro immenso sapere: la magia arcana, la magia divina, l’arte e la scienza, e si contendevano il dominio sulla Conoscenza Assoluta con il Dio Moth, ma sempre in maniera subdola e senza coinvolgere gli eserciti, facendo piuttosto proselitismo fra i fedeli del Dio avversario. Il panorama politico di Ogellian era ancora tumultuoso e in continua evoluzione, ma nessuno avrebbe potuto immaginare quanto le cose erano realmente destinate a cambiare, forse anche contro lo stesso volere degli Dei.

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CAPITOLO II La città di Jamall, capitale dell’omonimo regno il cui nome in lingua antica significava “Reame Segreto”, era uno dei più ricchi insediamenti della regione del Turòng, una vastissima e brulla pianura. Il governo era costituito dal clericato femminile del Culto Oscuro che amministrava il credo religioso della teocrazia, detenendo anche il potere legislativo, e dalla gilda degli assassini con potere esecutivo e giudiziario che costituiva la guardia cittadina e comandava l’esercito. Nonostante l’apparente esiguità delle difese militari jamallite, la teocrazia resisteva da secoli agli attacchi delle nazioni dell’Alleanza anche grazie alla grande catena montuosa chiamata “il Grande Ferro”, per via della sua forma a ferro di cavallo, che si estendeva lungo i confini con quelle terre e che offriva un’ottima difesa naturale; controllare i pochi passi montani che potevano permettere il passaggio degli eserciti nemici era relativamente facile anche disponendo di pochi uomini. Era appena finita la fiera annuale dei Nove Giorni che iniziava il solstizio d’estate e che vedeva incontrarsi su quella strada polverosa i mercanti più ricchi della regione per tutto il periodo da cui prendeva il nome. Il solstizio d’estate rappresentava il capodanno secondo il calendario comune ai regni di tutta Ogellian, perché si narrava che quando i Creatori diedero forma ad Artan, l’estate fu la prima delle stagioni che inventarono. Lo scorrere dei giorni era definito in base alla stagione, divisa in nove decadi; il primo periodo terminava al decimo giorno della nona decade d’estate, seguito da un giorno speciale dedicato alla commemorazione degli antenati. Quell’anno, nel penultimo giorno della fiera, era stata festeggiata la centoundicesima festa propiziatoria del Grande Sacrificio: una ricorrenza jamallita che cadeva ogni cinque anni e che faceva riferimento a un’antica profezia che prevedeva il ritorno degli dei su Artan e la nascita di una nuova divinità. I jamalliti pregavano e compievano sacrifici in ogni città del regno per propiziare la buona sorte e la benevolenza della futura divinità. Appollaiati come corvi su uno dei tetti d’arenaria vicini al centro cittadino, un ragazzo e una ragazza osservavano la folla della via del mercato che si dissipava man mano che i bottegai sgomberavano la strada dalle loro colorate merci per lasciare il posto all’avvolgente e silenziosa oscurità della notte. I due giovani vestiti di nero erano appartenenti alla gilda degli assassini e non

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si trovavano là per assistere alla fine della festosa occasione, ma per eseguire uno dei tanti lavori sporchi che il Maestro Oscuro, capo della gilda e regnante di Jamall insieme all’Oracolo, affidava ai propri sottoposti. I loro nomi erano Libon e Matara. Matara si rivolse al silenzioso compagno. «Ho saputo che l’altra notte hai assistito alla cerimonia del Grande Sacrificio. Come mai?» Libon sorrise malignamente. «Mi trovavo in zona; stavo raccogliendo informazioni per il lavoro che dovremo fare stanotte. Hanno bruciato tre gatranochiani ‘sta volta.» «Non è da te andare alle cerimonie. Non credi nemmeno alla profezia!» Il giovane assassino si voltò verso la compagna. «Ci sono stato solo per veder morire quei tre bastardi. Non mi dire che tu invece credi a questa sciocchezza del Grande Sacrificio. È l’unica profezia dell’Oracolo che non si è mai avverata.» «Non si è ancora avverata, ma nessuno può permettersi il lusso d’ignorarla…» Matara assunse un tono sentenzioso «…e comunque la gente ci crede davvero. Solo tu hai il coraggio di riderci sopra. Non è che hai sangue nordico?» Risero insieme. Matara si legò i lunghi capelli castani con un nastro e calò sul proprio capo l’ampio cappuccio nero. Quello era il gesto rituale che la giovane compiva ogni sera, prima di abbandonare al giorno le rassicuranti vesti da comune cittadina e calarsi nella personificazione oscura della gilda degli assassini. Libon la osservava estasiato: ogni gesto di lei era per lui un’espressione d’eleganza da ammirare e, nonostante fossero oramai dieci anni che conducevano quella vita, ogni sera non riusciva a fare a meno di godersi il suo sensuale svanire nella coltre nera di quel mantello, incantato come un bambino al primo tramonto della sua vita. Durante il giorno i due, come tutti gli altri appartenenti alla gilda, si mischiavano alla popolazione per vivere come comuni popolani con il compito di raccogliere le voci di strada e di indagare su alcuni fatti o persone, mentre di notte, il momento consacrato alla loro Dea, si coprivano con le vesti sacre del loro credo ed eseguivano il lavoro per il quale erano stati addestrati: assassinare chi si era macchiato di una qualche colpa oppure rubare dalle casse dei nobili che osavano trattenere per sé le tasse destinate invece all’avido erario. Le cose funzionavano in quel modo nel regno di Jamall. Non esistevano prigioni, poiché essendo quella la teocrazia dominata dalla Dea

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dell’Omicidio, le colpe dei mortali erano punite con la morte, punizione deliberata da qualche sacerdotessa anziana e comunicata ai capi-gilda interessati, a insaputa dello stesso colpevole che non scopriva d’essere stato colto con le mani nel sacco fino a ché non si trovava al cospetto degli assassini o non scopriva le proprie casse svuotate d’ogni bene. Libon richiamò la compagna. «Mat…» Lei si voltò rabbiosa di scatto e digrignò la bocca in una smorfia di sdegno. «Scusa…» Libon sospirò nuovamente. Non doveva più chiamarla con il suo vero nome. Quando il cappuccio copriva quei lineamenti aggraziati e dolci, Matara cessava d’esistere. Matara non aveva colpe, Matara era l’innocente figlia del giorno, inconsapevole coinquilina della creatura della notte chiamata Aratam, con la quale condivideva il corpo ma della quale ignorava le azioni. Libon si era abituato al cambiamento d’identità ma aveva capito che tale estrema scissione della personalità fosse un segno di squilibrio mentale che la sua compagna mostrava ogni volta in maniera sempre più evidente e profonda. La mattina, quando l’alba imponeva la cessazione delle loro attività notturne, Matara tornava in sé, senza dar segno di ricordare quello che la sua illusoria contro-parte aveva fatto poche ore prima. Libon amava Matara e non riusciva a fare a meno d’amare anche Aratam, ma era comprensibilmente spaventato. Se nella gilda avessero saputo che Matara mostrava segni di squilibrio mentale, l’avrebbero fatta sparire come facevano con tutte le Lame Nere che mostravano sintomi simili. La trasformazione illusoria della ragazza liberava una passionalità violenta che Libon non aveva più la forza di contrastare e a nulla era ancora servita l’opera di convincimento che faceva regolarmente su Matara durante il giorno per invogliarla ad affidarsi alle cure delle sacerdotesse che avrebbero scacciato dalla sua mente quella maledizione. Lui la amava troppo per permettere che le succedesse qualcosa di male, ma sapeva che mentire al capo della gilda non avrebbe risolto il problema; Matara doveva cambiare vita, riposarsi, magari fuggire. Aveva pensato di portarla via, lontano dalla città di Jamall, con l’assurda speranza che l’organizzazione occulta avrebbe loro permesso di crearsi un’altra vita, ma il Maestro non avrebbe mai tollerato la fuga delle sue due migliori Lame Nere: così erano chiamati gli assassini della Dea. La nera rete della gilda li aveva avviluppati nella sua stretta soffocante fin dalla loro più tenera età. Erano stati cresciuti per rubare, uccidere,

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terrorizzare… diventare l’essenza stessa di tutte le paure che la “gente del giorno” cercava di ignorare. Sia Libon che Matara non avevano mai conosciuto i propri genitori e nulla era mai stato rivelato loro sulle rispettive origini. I primi ricordi che possedevano risalivano all’infanzia passata insieme, giocando all’ombra dell’inquietante figura del Maestro Oscuro che li osservava dalle fessure della maschera d’ebano che da sempre copriva il suo volto. Erano stati gli unici due membri della gilda a essere stati direttamente addestrati dal capo supremo. La loro comune condizione di orfani li avevano legati fin dal principio e il servizio in nome della Dea li aveva visti collaborare e crescere insieme, affiatati come pochi altri. Il fatto che Libon fosse il partner fisso di Matara, unica femmina accolta fra i ranghi delle Lame Nere, lo aveva reso una sorta di piccola celebrità fra gli altri assassini, anche se le battute maliziose sul loro conto erano all’ordine del giorno, soprattutto fra i più giovani. La gilda degli assassini, per i maschi della teocrazia, rappresentava la migliore o forse l’unica opportunità di fare carriera all’interno del governo jamallita, mentre per le femmine, agevolate dalla politica di stampo femminista e matriarcale del regno, esisteva la via più sicura e rapida del sacerdozio. Matara, nonostante fosse stata scelta per diventare una vestale della Dea, aveva rinunciato a tale privilegio per restare al fianco di Libon; i due si amavano molto. La gilda, al contrario del Culto Oscuro, accettava candidati di entrambi i sessi, ma Matara era l’unico membro femminile in quel momento. «Qual è il volere della Dea, questa notte?» sussurrò con tono solenne Aratam. «Oro.» Libon puntò l’indice verso la sagoma della tenuta di Lord Cabboth a due isolati di distanza dalla loro posizione, fissandola con i suoi occhi neri e accesi. «Le casse private del mercante di schiavi si stanno gonfiando pericolosamente. Lui dichiara di possedere meno di quanto invece abbia e ciò infastidisce il Maestro.» Libon sogghignò; amava dare alla sua compagna le istruzioni imprimendo alle parole un pizzico d’umorismo. Era l’unico modo che conosceva per non sentire troppo il peso delle responsabilità in più che la sua coscienza, oramai ammaestrata ma ancora viva, avrebbe dovuto sopportare dopo ogni lavoro. «La gilda teme che se non interveniamo immediatamente, i forzieri potrebbero esplodere e causare qualche ferito.» Aratam si espresse in un sorriso malevolo.

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«Allora andiamo a compiere quest’opera urgente di salvataggio. Sono certa che il caro Lord Cabboth domani rivolterà la città per trovarci e offrirci tutta la sua gratitudine.» Il ragazzo, mentre esponeva il piano d’azione alla compagna, disegnava una mappa nella polvere che copriva il tetto sul quale erano appollaiati, con la posizione delle guardie nella villa del ricco mercante. Aratam osservò a lungo in silenzio la polverosa mappa disegnata dal compagno, mentre Libon accarezzava con lo sguardo le sue labbra carnose in attesa che si pronunciassero in una delle geniali idee che la ragazza riusciva a tirare fuori in ogni occasione. Non si accorse che gli occhi della perfida e sensuale Aratam si erano già posati sui suoi e che divertita lei lo stava stuzzicando mordicchiandosi il labbro inferiore con gli incisivi, sapendo i pensieri che riusciva a istigare nella sua metà con quel semplice gesto. In effetti Libon sapeva resistere a malapena alle carezze di Matara mentre era totalmente annichilito dalle provocazioni di Aratam. Aratam levò gli occhi al cielo e sbuffò divertita pensando alla fragilità della volontà maschile. Matara non si sarebbe mai comportata così. Quella sciocca pendeva dalle labbra di Libon, inconsapevole del potere che avrebbe potuto esercitare sul suo compagno di vita. Aratam disprezzava Matara e pareva conoscere vagamente gli avvenimenti del giorno. Era come se l’espressione malvagia della personalità della giovane fosse sempre presente, mentre la notte cancellava ogni traccia di Matara. Da quella sera, tuttavia, le cose sarebbero cambiate in maniera inaspettata. «Sono stanca. Tanto stanca.» Sentendo quell’affermazione, Libon abbandonò le proprie elucubrazioni levando lo sguardo attonito sull’amata, non avendo ben inteso chi avesse parlato, se Matara o Aratam. La sua voce si era espressa nell’intonazione dolce e gentile della ragazza che non apparteneva alla personalità notturna. Lei continuò: «Andiamocene il più lontano possibile da questo posto maledetto, dalla gilda, dal Maestro Oscuro, da tutto questo male… sono stanca di questa vita.» Libon faticò a trovare il fiato per parlare. «Mat… Matara?» chiese con tono incerto come cercando la conferma che fosse effettivamente lei a parlare e non la sua seconda personalità. Lei non smise di fissarlo e sollevò il cappuccio nero quel tanto che bastava per lasciarsi guardare bene il viso. «Lo sai che non possiamo. La gilda è ovunque. Non abbiamo speranze.»

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Non era la prima volta che Matara aveva espresso la volontà di abbandonare la gilda, ma sapeva che dopo il rituale d’iniziazione a nessuna Lama Nera era concesso di andarsene. Quando erano piccoli tutto era esaltante, quasi divertente visto dagli occhi innocenti di un fanciullo. Il potere divino di risparmiare la vita o dare la morte, di incutere il terrore solo con la propria presenza e l’inconsapevolezza di un bambino che affondava il mortale giocattolo dentro al corpo di qualcuno. Nessun rimorso, nessun rimpianto, solo il silenzio e gli ultimi sospiri di una vita che si spegneva fra le loro braccia. Una volta tornati alla gilda ricevevano i plausi e le lodi delle sacerdotesse e dei confratelli più grandi e poi tornavano a giocare nelle loro stanze. Con la maturità giunse la consapevolezza e con essa la sofferenza. Aveva cessato di essere un gioco, un’azione che qualcuno, del quale si fidavano, gli diceva di fare solamente perché era “giusta”. I sacerdoti cominciavano a parlare di ideali elevati, di fine ultimo, di sacrificio e cieca obbedienza. Il bambino diventava uomo e acquisiva la responsabilità delle proprie azioni, ma prima ancora di far loro capire che si stavano dannando l’anima, gli mostravano il Potere, gli riempivano le orecchie di parole importanti, sacre, suadenti, abbastanza convincenti per la grezza intelligenza di un adolescente. Senza comprendere ciò che stavano per promettere, li avevano sottoposti al rituale d’iniziazione e, senza nemmeno realizzare il cambiamento, si erano ritrovati con una lama maledetta in mano e tanti ideali che pian piano cancellavano la loro volontà. Libon e Matara erano diventati figli dell’Oscura Signora, ma come poteva il loro rapporto d’amicizia, trasformatosi progressivamente in amore, svilupparsi in un tale contesto senza svilire notte dopo notte quello che facevano? Finché non si conosce la gioia non si sa identificare la sofferenza, ma i due ragazzi avevano visto cosa di buono c’era nella vita. Avevano intrapreso un cammino pericoloso e contestato nell’organizzazione e molti non vedevano di buon occhio il loro sentimento, che con la sua luce turbava le tenebre che avrebbero dovuto invece venerare e personificare. Nessuno aveva insegnato loro ad amare e tanto meno si era preoccupato di istruirli sulle conseguenze che i sentimenti avevano sulla vita degli individui. Libon e Matara avevano scoperto una strana e indefinibile attrazione, differente dal semplice voler stare insieme. I loro giochi li portavano ad avere contatti fisici sempre più frequenti e intensi, fino alla notte in cui scoprirono il sesso: Libon aveva appena compiuto sedici anni e Matara andava verso i quindici.

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Il maestro affidò loro l’incarico di assassinare due persone. Come al solito i due ragazzini si equipaggiarono e uscirono per recarsi al luogo loro indicato come l’abitazione delle vittime, appostandosi là vicino in attesa che lo sgombrarsi delle strade facilitasse l’occultamento dei loro movimenti. Guardando attraverso una delle finestre di quell’abitazione assistettero incuriositi, divertiti e imbarazzati, a qualcosa che non avevano mai visto prima: i due obiettivi erano giovani coniugi e nell’intimità della loro stanza da letto, inconsci del destino che sarebbe calato fra poche ore su di loro senza nessuna pietà, si scambiavano i gesti d’amore e le attenzioni che incantarono i due giovani assassini. In quell’istante Libon e Matara capirono all’unisono che quello era ciò che a loro mancava: quelle carezze ed effusioni interpretavano appieno lo sconosciuto e bruciante desiderio che da troppo tempo li imbarazzava. Nascosti nell’ombra li imitarono, inizialmente cercando goffamente di apprendere da loro, ma tutto venne poi naturale. Quando si rivestirono sentivano entrambi di avere fatto qualcosa che la Dea non avrebbe certamente approvato, ma che i loro cuori desideravano da sempre. Decisero di tenere nascosto il loro rapporto d’amore a tutti gli altri, persino al Maestro Oscuro, ma ogni notte che si lasciavano alle spalle appesantiva sempre più le loro coscienze, costituendo lentamente un bagaglio poco sostenibile per entrambi: si chiedevano quanti amori simili al loro avevano infranto tramite l’assassinio e quanta sofferenza stavano causando alle persone di Jamall. Libon allontanò i ricordi e soppresse le emozioni che si agitavano dentro di lui. «Quante monete d’oro credi dovremmo portarci dietro?» Matara, molto sorpresa, arcuò lievemente il sopracciglio mentre la sua mente calcolatrice valutava il peso delle monete, il tempo necessario per il furto e la fuga, poi osservò decisa il suo compagno. «Stai parlando sul serio? Vuoi davvero usare quei soldi per fuggire da Jamall?» Il giovane annuì, anche se non molto convinto. «È inutile rimandare anche se credo sia un suicidio. Prima o poi non saremo più in grado di sopportare tutto questo e tu… tu non stai bene, Matara.» Matara concordò. «Preferisco morire tentando, piuttosto che impazzire qui. Ma non me ne voglio andare senza di te.» «Non te lo permetterei mai.»

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«Lo so.» Constatò Matara quasi con tristezza. «Non abbiamo bisogno di molti soldi per andarcene. Quello che potremmo portare con noi sarà più che sufficiente per vivere qualche mese.» Lui sorrise e lei gli rispose con la smorfia più buffa che riusciva a concepire in un momento del genere, per sdrammatizzare un poco. Stavano per mettersi contro la gilda, cimentandosi in un’impresa alla quale mai nessuno era sopravvissuto e che avevano loro stessi ricacciato dalle proprie fantasie più sfrenate: tradire la Dea delle Tenebre e abbandonare la gilda degli assassini. Eppure entrambi sentivano dentro di sé e dentro l’altro la forza necessaria per riuscire; forse era la forza del loro amore unitamente alla disperazione di una speranza vana che li stava muovendo in quel momento. Il piano fu definito e messo in pratica. Ogni cosa andò egregiamente. Del furto di quella notte se ne sarebbe parlato a bassa voce per generazioni. Otto schiavisti massacrati, il mercante di schiavi rovinato, due uniformi nere della gilda abbandonate sui forzieri svuotati e l’avvistamento di una coppia, un ragazzo e una ragazza, seminudi e coperti di sangue che avevano scorazzato tenendosi per mano lungo la Via del Mercato con due enormi sacchi tintinnanti sulle spalle, ululando alla luna come lupi. Il valore in monete d’oro locali di diecimila Lune, fra denaro e gioielli, svanì nel nulla. Con quella cifra, Libon e Matara avrebbero potuto garantirsi una vita agiata al di là dei confini jamalliti.

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CAPITOLO III Nelle sale segrete della gilda i passi veloci del Maestro Oscuro risuonavano minacciosi mentre digrignava i denti sotto la maschera d’ebano. Un giovane assassino dai lunghi e ben curati capelli neri stava inginocchiato nell’ossequiosa attesa che il capo della gilda gli impartisse un ordine. I suoi occhi non osavano levarsi più in su del pavimento. I passi cessarono e il ragazzo trattenne il fiato per qualche secondo. Non capiva come mai fosse stato convocato con tanta urgenza nonostante fosse già correntemente occupato in un altro lavoro in nome della Dea. «L’altro ieri due fratelli hanno tradito la gilda fuggendo da Jamall. Li abbiamo attesi invano un’intera giornata, pensando che stessero cercando di far perdere le proprie tracce dopo il lavoro ch’era stato loro assegnato, ma in seguito abbiamo saputo che hanno compiuto un furto e delle esecuzioni non autorizzate. Hanno persino abbandonato le vesti sacre della gilda sul luogo del delitto. La sentenza per i traditori è la morte.» Il Maestro Oscuro mostrava da sempre una spietata risolutezza nei confronti di chi osava tradirlo, ma in quel caso sembrava che in realtà esitasse a dare l’ordine d’esecuzione. «Partirò alla ricerca dei due fuggitivi non appena albeggerà, Maestro.» Il Maestro Oscuro si avvicinò all’assassino e lo guardò gelidamente da dietro alla maschera. «Non tornare alla gilda fin quando non avrai adempiuto al tuo dovere, sono stato chiaro, Sykus? I due fuggitivi sono Matara e Libon. Li conosci bene. Trovali e uccidili in nome della Dea.» Matara e Libon. Sykus li invidiava per le loro abilità e per la predilezione che i tutori e il Maestro Oscuro mostravano nei loro riguardi, e perciò li odiava. Ucciderli era per lui la migliore occasione per mostrare alla gilda il proprio valore e togliersi, una volta per tutte, una grande soddisfazione. Sempre senza sollevare lo sguardo scomparve sogghignando con passo lesto e leggero nelle tenebre che, venerate sovrane, regnavano in quei corridoi. Dall’ombra una voce di donna, suadente ma fredda e inquietante, s’insinuò nel silenzio della camera centrale, rivolgendosi al Maestro Oscuro. «Credi che Sykus sia all’altezza del compito che gli hai affidato? Libon e Matara sono… speciali.» La voce del maestro si fece cupa.

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«No, non credo. Sykus è sicuramente il più ambizioso e crudele dei miei giovani, ma non ha il loro talento. Non sa attenersi gli ordini ed è una minaccia per la gilda. Per questo ho mandato lui; morirà nell’impresa o fallirà nel trovarli e non farà più ritorno.» La donna misteriosa sospirò profondamente dal buio assumendo un tono severo. «Ho avvertito qualcosa di terribile nella sua anima… non è come gli altri. Non è controllabile. Se dovesse riuscire a uccidere Matara e Libon, dovrai liberartene tu stesso.» L’uomo mascherato cominciò a respirare rabbiosamente mentre il suo cuore faceva sobbalzare i pesanti monili d’onice che gli decoravano il petto coperto dalla tunica rossa. Con voce adirata sbottò: «Non mi dare ordini, Oracolo! Non devo rendere conto a te di come io gestisco i problemi della gilda.» La voce femminile proveniva da una donna immersa nelle tenebre e coperta da capo a piedi da un intrigo di pizzi e sottili veli di seta neri; solo due nude ed esili braccia di carnagione chiarissima erano visibili attraverso le vesti. La donna cui il Maestro si era rivolto chiamandola “Oracolo” si avvicinò a lui e con le braccia gli cinse dolcemente il petto, da dietro, avvicinando la bocca velata all’orecchio del capo della gilda. «Perdonami, non volevo farti adirare, ma sai bene che dobbiamo stare attenti. Il prediletto potrebbe rivelarsi in qualunque momento. Dobbiamo proteggere la Dea e il nostro regno a ogni costo.» Il Maestro si voltò verso il viso occultato dell’Oracolo, e dalle fessure della maschera dietro alle quali bruciavano i suoi occhi neri carichi di malvagità egli lanciò uno sguardo irritato. «Il “nostro” regno? Jamall appartiene alla Dea, non a noi. A ogni modo, Sykus non sarà mai il prediletto. Lui è potente, ma non è in grado di sostenere le più alte espressioni del Dono Oscuro. Lo considero uno dei nostri peggiori fallimenti.» La donna lasciò scivolare la candida mano lungo le spalle del Maestro Oscuro provocandogli un brivido che lui cercò di dissimulare. «Potrebbe essere proprio questo il problema. È avido di potere e la bestia potrebbe prenderlo con sé.» L’uomo mascherato ebbe un fremito sapendo bene cosa potesse implicare l’eventualità descritta dall’Oracolo. Il cosiddetto “Dono Oscuro”, altresì noto come “Potere Oscuro”, era una forma di magia che gli assassini della gilda imparavano a gestire tramite gli anni di esperienza. Durante il rituale d’iniziazione gli aspiranti erano indotti

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in uno stato di trance mistica tramite l’uso di droghe e formule magiche e la loro anima veniva spinta per un breve periodo nella dimensione dell’Ombra, il dominio e il rifugio della Dea Oscura. Nessuno poteva descrivere quell’esperienza, ma quelli che superavano il processo senza impazzire o morire tornavano coscienti sentendosi in qualche modo profondamente mutati nell’animo. I sentimenti di pietà e affetto, e ogni altra virtù… veniva tutto corrotto e sostituito dal seme oscuro che la Dea impiantava in ognuno di loro. Da quel momento l’iniziato era in grado di compiere dei veri e propri prodigi, arrivando a dominare capacità sovrumane che solamente un sacerdote dotato di poteri divini o un mago abbastanza esperto erano in grado di contrastare. L’addestramento della gilda era perlopiù dedicato al controllo di questa abilità. Il Potere Oscuro aveva però un pericolo insito in esso, poiché quanto più qualcuno lo utilizzava tanto più ne veniva influenzato. La mente del praticante veniva contorta e inesorabilmente distrutta, diventava assetato di potere, privo di freni inibitori e totalmente folle. Veniva “preso dalla bestia”, si diceva. Questo era il motivo principale per cui le Lame Nere raramente superavano i trent’anni. Quando iniziavano a dare i primi segni di squilibrio venivano “ritirati”, ovvero affidati alle cure delle sacerdotesse e di loro non si sentiva più parlare. Si mormorava che venissero usati come servitori e schiavi di piacere nel tempio sotterraneo del quartiere delle sacerdotesse, manipolati e annichiliti dai poteri delle devote alla Dea Oscura. Le sacerdotesse della Dea infatti erano ancora più potenti delle Lame Nere, per quanto la loro magia fosse più orientata al dominio della mente altrui piuttosto che al combattimento, ma facevano un uso assai moderato dei loro poteri e raggiungevano quindi la vecchiaia. L’Oracolo continuò: «Il tempo del Grande Sacrificio è ormai alle porte. Troppo a lungo lo abbiamo rimandato e i segni cominciano a manifestarsi. Nessuno aveva mai tradito la gilda prima d’ora e sai che se Sykus non riesce a ucciderli, Matara e Libon torneranno… dovranno tornare se vorranno essere liberi.» Il Maestro sospirò sconsolato, ma aveva già provato l’indefinibile sensazione che qualcosa di straordinario e terribile al tempo stesso sarebbe dovuto accadere dal lì a poco. «Spero che tu stia sbagliando. Non vorrei dover uccidere la ragazza.» «Farai quello che sarà necessario, Maestro.» Arresosi al pensiero, si alzò dal trono e spalancando le braccia verso la grande statua che dominava la sala, raffigurante una donna coperta di veli similarmente all’Oracolo, con voce potente urlò: «Sia lode alla Dea!»

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L’Oracolo ripeté quelle parole e il silenzio tornò a occupare la grande stanza circolare.

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CAPITOLO IV Con “Grande Sacrificio” si indicava una profezia diffusa dall’Oracolo prima ancora del Mitico Eccidio. La sua storia è antica quanto la civiltà di Artan. A quei tempi la Dea dell’Oscurità era stata catturata da Gatranoch, il Dio sutari della Distruzione, e imprigionata presso la sua fortezza. Là conobbe l’Oracolo, la quale le venne assegnata come ancella e dama di compagnia per tutta la durata della prigionia. L’Oracolo era una delle schiave umane mortali di Gatranoch, per il quale era anche costretta a sfruttare i suoi sovrannaturali poteri di veggente: era una delle poche persone sopravvissute al massacro del suo popolo un tempo guidato dal Dio Carnale della Divinazione, caduto in battaglia contro i Sutar. La Dea e l’Oracolo avevano ordito un piano per liberarsi una volta per tutte dalla tirannia del terribile Dio sutari sfruttando le invidie che il figlio Aslamon aveva nei confronti del padre. La Dea fece segretamente preparare un pugnale identico a quello che Gatranoch portava con sé in battaglia e usando quell’arma uccise la madre umana di Aslamon, lasciando che il mezzo-Sutar la trovasse vicino al cadavere. Aslamon, cadendo nel tranello teso dalla Dea, montò su tutte le furie, raccolse l’arma e con furore omicida si recò presso le stanze di Gatranoch. Si narra che la rabbia di Aslamon era talmente violenta che, quando s’infuriava, il suo stesso sangue si tramutava in un nero veleno, col quale lui impregnò la lama del pugnale al fine di renderlo ancora più letale. La lama in questione venne chiamata in seguito “la Lama Nera” e divenne il simbolo di appartenenza alla gilda degli assassini di Jamall quando venne fondata, proprio in ricordo di questo evento. Seguì un combattimento violentissimo fra padre e figlio che non vide alcun vincitore. Gatranoch, innocente dell’accusa d’omicidio, chiese la possibilità di difendersi chiamando l’Oracolo per farle rivelare, grazie ai suoi poteri di veggente, chi fosse il reale colpevole. L’Oracolo rispose alla convocazione e mentì, in accordo con la Dea Oscura, confermando l’accusa nei confronti di Gatranoch. Il Dio della Distruzione, a quelle parole, si scagliò sulla veggente e la colpì violentemente alla testa con uno dei suoi pugni possenti, poi fuggì, conscio del fatto che rischiava d’essere sopraffatto dall’ira del figlio. L’Oracolo era svenuta a causa del colpo inferto dal Sutar e si narra che rimase priva di sensi per oltre una settimana, pendendo pericolosamente fra la vita e

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la morte. Fu durante l’ultimo giorno di questo stato d’incoscienza, poco prima di svegliarsi, che l’Oracolo pronunciò la profezia del Grande Sacrificio, i cui misteriosi e criptici versetti vennero trascritti dalla stessa Dea dell’Oscurità che si trovava accanto alla complice in quel momento. “Tremenda vendetta l’innocente brama, come tributo al sangue versato, così il prediletto cercherà con la lama l’oscuro cuore di chi l’ha creato. Colei che per prima ha sporcato il pugnale, dal Distruttore sarà maledetta. Troverà rifugio fra le ombre del Male dal suo destino, restando protetta. La Bestia prenderà il prediletto sul monte perché dalla madre, costui troppo richiede, così potrà risalire alla fonte e pretendere il trono sul quale lei siede. Ma la Bestia e la madre saran consumati, poiché solo il prediletto trarrà beneficio dai regni da loro già conquistati che saranno riuniti nel Grande Sacrificio. Un nuovo Divino camminerà sulla terra costringendo sul campo gli altri Carnali. Saranno tempi di pena e di guerra, la civiltà conoscerà tutti i mali.” Quando Gatranoch tornò alla fortezza con le prove della colpevolezza della Dea Oscura per l’omicidio della madre di Aslamon, l’Oracolo era già fuggito a Jamall e della Dea nessuno ebbe più notizie. Seguì una guerra fra Jamall e gli altri due regni che venne interrotta solo dalla convocazione dei Creatori degli Dei Carnali al Mitico Eccidio. Da quel momento in poi la veggente acquisì inspiegabilmente il dono dell’immortalità e parlò sempre in nome della Dea Oscura, senza mai rivelare dove ella si fosse nascosta, sebbene dalla seconda quartina si intuisca che essa abbia trovato dimora nella dimensione delle Ombre; questa supposizione è

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avvalorata dal fatto che la Dea non fu obbligata a prendere parte al Mitico Eccidio. Gli storici sostengono che la Dea Oscura fu la prima Dea Carnale ad abbandonare il mondo materiale e ritirarsi in una dimensione spirituale. Il Maldicente della seconda quartina è sicuramente Gatranoch, dato che “il Maldicente” era uno dei suoi tanti appellativi (Gatranoch aveva il potere di scagliare terribili maledizioni). Per quanto riguarda la figura del prediletto, assai più numerose sono le interpretazioni: ai tempi, la parola “prediletto” era anche usata per indicare il primogenito di una famiglia, il quale era destinato a ereditare ogni eventuale possedimento. Questo rende dubbia l’eventuale interpretazione, poiché inizialmente si pensava che la profezia facesse riferimento proprio ad Aslamon, “prediletto” di Gatranoch, ma il fatto che lui abbia apparentemente cessato di cercare vendetta sulla Dea Oscura e che abbia perso il diritto di successione al trono del padre, mette in dubbio questa ipotesi. La terza e la quarta quartina sono le più misteriose e ancora oggetto di studio, ma nessuno è ancora riuscito a fornire una spiegazione convincente e completa sul loro significato. Se l’ultima parte della profezia si realizzasse, segnerebbe l’inizio di una nuova Era Leggendaria, avviando ancora un doloroso periodo di massacri e guerre; per questa ragione la profezia del Grande Sacrificio era ritenuta importantissima per i destini di tutti i popoli del pianeta e tutti i regni avevano gli occhi puntati sulla potente teocrazia jamallita. Era opinione piuttosto diffusa che la previsione dell’Oracolo fosse stata riferita solo parzialmente. I sostenitori di questa ipotesi ritenevano che il Culto Oscuro fosse a conoscenza di particolari fondamentali per la corretta interpretazione delle quartine e che si rifiutasse di divulgarli. Il testo della profezia, noto a tutti, era scritto nel Libro delle Ombre, il testo sacro della religione jamallita.

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CAPITOLO V Dopo l’ultimo colpo a Jamall, Libon e Matara avevano viaggiato solo di giorno per una settimana, nonostante i loro poteri di Lame Nere fossero più deboli alla luce del sole, mischiandosi alle carovane di mercanti e nomadi senza inseguire una meta precisa. L’importante era allontanarsi il più possibile dalla capitale, abbandonando possibilmente il regno jamallita. L’estate da poco iniziata prometteva d’essere molto calda e dormire all’aperto non era un problema. Quando furono certi di essere sufficientemente lontani convertirono le monete pesanti e i gioielli più costosi in gemme, riducendo così il peso del loro carico, e si comprarono due cavalli di buona qualità per viaggiare più velocemente. Dirigendosi per altri sette giorni verso nord erano giunti in una piccola cittadina, Quirtall, incastonata in una valle di pascoli smeraldini, un paesaggio naturale davvero raro nella piana del Turòng, perlopiù coperta da terre brulle e sterpaglie. Si trovavano già sulle colline ai piedi del Grande Ferro settentrionale, con il confine delle terre dell’Alleanza che distava pochi giorni di marcia attraversando i pericolosi passi montani. In tutta la loro vita non si erano mai allontanati tanto dalla loro città e i paesaggi che avevano incontrato strada facendo avevano accresciuto in loro l’odio per un’organizzazione che li aveva privati della possibilità di vedere tutti i meravigliosi colori del mondo. Quando entrarono a cavallo nella cittadina di Quirtall capirono che quello sarebbe stato un posto eccellente per nascondersi e riposare, almeno per un po’. La colorita gente di campagna, le casette di legno e pietra e l’aria di semplicità che si respiravano in quel posto li conquistarono fin dall’inizio. Si erano seduti al tavolo di una taverna e avevano ordinato uno stufato d’agnello. Si sentivano liberi e persino il cibo aveva un gusto migliore, più pieno. Nessuno avrebbe più impartito loro degli ordini e non avrebbero più dovuto uccidere in nome della Dea. Erano stanchi e sfiniti dalla tensione del viaggio e quando ebbero mangiato diedero qualche spicciolo a uno stalliere per potersi sdraiare nel granaio e addormentarsi beati, avvinghiati fra loro. La notte calò sulla coppia addormentata e Matara spalancò gli occhi contemporaneamente al suo compagno. Il richiamo irresistibile dell’oscurità li

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portava all’insonnia e Matara avvertiva pulsare dentro di sé la sua seconda personalità che pareva non volesse abbandonare la propria esistenza notturna. Lei non voleva preoccupare il suo amato raccontandogli della pressione che Aratam imprimeva alla sua mente per essere liberata, nel suo crescente desiderio di correre nella notte come uno spirito maligno come aveva fatto per tutta la vita fino a pochi giorni prima. Era conscia del fatto che Aratam era un’invenzione della sua coscienza torturata, anche se faticava ad ammetterlo, e inoltre si sentiva stupida all’idea che una ragazza forte come lei non riuscisse a liberarsi di un’ossessione talmente ben riconoscibile. Il Maestro Oscuro insegnava ai ragazzi che la prima regola per definire un piano d’azione di successo era identificare innanzi tutto gli ostacoli al raggiungimento dell’obiettivo; una volta riconosciuti i propri nemici era molto più semplice sconfiggerli, ma questo metodo non poteva funzionare con Aratam; lei non era nemica di Matara e la giovane sapeva che liberandosene avrebbe dovuto sorreggere al posto della sua seconda personalità tutte le colpe di una vita d’omicidi e furti. Libon non la poteva aiutare perché anche lui doveva sostenere lo stesso identico fardello, anche se sembrava meno turbato da questo. Lei lo fissò con tenerezza e gli sistemò la capigliatura, poi lo baciò delicatamente mentre lui, con la mano ancora intorpidita dal sonno, le carezzava la schiena. Entrambi erano confusi, spaventati ed emozionati; la notte non aveva nessun ordine da impartire, non avrebbero dovuto stendere nessun piano d’azione. Dovevano imparare a vivere in maniera tranquilla cercando di dimenticare il male che le loro mani avevano perpetrato ed evitando di attirare l’attenzione; per questo scopo erano stati ben addestrati, ma non sarebbe stato facile per diverse ragioni. «Che facciamo adesso?» Libon sembrava piuttosto turbato dall’assenza di impegni notturni e una sensazione d’ansia si era impossessata di lui come se fosse annoiato dall’inattività, ma c’era anche qualcos’altro che lo rendeva inquieto. «Ho una spiacevole sensazione da quando ci siamo allontanati da Jamall, che si fa sempre più forte man mano che proseguiamo nel nostro viaggio. Sento come se l’istinto mi spingesse a fare cose terribili, a desiderare di tirare fuori la Lama Nera… e usarla.» Matara annuì. «Sì. È una specie di richiamo. Alle volte è come se il pugnale diventasse così caldo da bruciarmi la pelle. Fa male.» «Già. Temo che questo sia un effetto collaterale del rituale che ci lega alle armi sacre. Se vogliamo essere liberi dobbiamo trovare il modo di spezzare

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questo legame, ma purtroppo non ho idea di come si possa fare una cosa del genere.» Matara si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per il granaio con la solennità di una sacerdotessa mentre scavava nei recessi più profondi della propria memoria cercando un ricordo che le permettesse di accendere una scintilla di speranza; doveva aver sentito qualcosa riguardo all’annullamento del rituale e della maledizione. Nonostante avesse scelto di diventare una Lama Nera della gilda e non una Sacerdotessa del Culto, aveva ugualmente ricevuto un’istruzione di base sui precetti della fede e sui rituali iniziatici. Nessuna reminiscenza conduceva alla soluzione e lei abbandonò delusa le braccia lungo i fianchi. «Credo che un segreto del genere sia conosciuto solo dall’Oracolo o dalle sacerdotesse più vicine a lei. Il rituale dovrebbe servire per porre la tua anima in contatto con l’essenza spirituale della Dea. Quando raggiungi lo stato di trance, la tua anima entra nella dimensione delle Ombre dove la Dea risiede; lei lega la sua essenza alla tua così è in grado di donarti il Potere Oscuro… non so come questo avvenga esattamente, ma è logico pensare che l’unico modo per spezzare il rituale sia di convincere la Dea a sciogliere questo legame. Forse nei regni vicini hanno usanze simili e sono in grado di dirci come si fa.» «Non credo che troveremo molti amici nelle terre dell’Alleanza, ma forse c’è un modo per convincere qualcuno ad aiutarci.» Lei si voltò verso il viso di Libon che, a mala pena visibile nell’oscurità, era corrucciato in una espressione cupa mentre parlava. «Potremmo trovare alleati nel Regno dei Quattro. Noi conosciamo molti dei segreti della gilda e del Culto Oscuro. Forse in cambio delle informazioni tattiche di cui disponiamo, potremmo convincere i Quattro ad aiutarci.» Matara dubbiosa scosse la testa. «Non ho un’idea migliore della tua al momento, ma non credo sia prudente immischiarci con quegli esseri viscidi. Sono più subdoli di un mercante di schiavi e badano esclusivamente ai propri interessi.» «In qualche modo dobbiamo trovare degli alleati. Non abbiamo speranze se restiamo da soli e ho paura che questa spinta a uccidere diventerà sempre più irresistibile con il passare del tempo. I Quattro hanno la roccaforte principale a Zarghala, a un mese di marcia verso est. Con i cavalli potremo raggiungerli in circa due settimane.» Matara sbuffò: «Dovremo viaggiare ancora a lungo quindi.» «Sii paziente. Lo sapevamo che non sarebbe stato facile.» «Già. Mi spiace di averti trascinato in questa faccenda.» Il viso di Libon si fece cupo.

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«Sono qui perché ti amo e perché anche io non volevo più fare quella vita. Non mi ci hai trascinato, ci stiamo andando insieme.» «Ti ringrazio. Non ce la farei senza di te.» «Lo stesso vale per me; ci siamo sempre mossi come se fossimo una cosa sola e questo ci ha garantito la sopravvivenza fino a oggi. Io proteggo te e tu proteggi me. È questo il nostro patto, ricordi?» Matara sorrise e annuì. «Bene, restiamo ancora qualche giorno qui a Quirtall. Ho bisogno di riprendere il fiato e di un po’ di tranquillità; mi piace moltissimo questo posto.» «Chissà. Forse un giorno potremo venirci a vivere» disse Libon sognante. La ragazza sorrise divertita dall’immaginarsi nei panni di una tranquilla ragazza di campagna. «Sarebbe buffo.» I due fuggiaschi risero con una leggerezza che non sentivano da molto tempo; sebbene fossero certi che la strada verso la libertà fosse ancora lunga e impervia, si erano già lasciati alle spalle la cupa vita nella città di Jamall. Erano impauriti ma carichi di speranze e sogni e il loro amore li sosteneva.

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CAPITOLO VI Sykus si fece aiutare da una vestale per sistemare i capelli in una treccia e si equipaggiò adeguatamente per soddisfare l’ordine del Maestro. Erano anni che aspettava l’occasione di mettersi in evidenza nella gilda, ma era regolarmente surclassato dalla palese predilezione del Maestro verso Libon e Matara. Si stava apprestando a eseguire l’ordine più soddisfacente e inaspettato della sua carriera di Lama Nera. Pregustava il momento nel quale la sua arma maledetta sarebbe affondata nelle gole dei due rivali. Per qualche anno aveva provato una forte attrazione nei confronti di Matara e la frustrazione del non poterla avere aveva alimentato un rancore terribile verso entrambi. Nella sua mente arida di sentimenti aveva trasformato la passione per la ragazza nel morboso desiderio di ucciderla, di possedere la sua vita e sentirla sgorgare dalle sue vene in un lento singulto di mortale passione. Sykus provava una soddisfazione estatica quando toglieva la vita a qualcuno e lasciava eseguire ai suoi compagni più giovani tutte le pratiche che non riguardavano l’omicidio. Il giovane si alzò, carezzò la guancia della vestale e la avvicinò lentamente a sé. Era assolutamente proibito fare sesso con una vestale, diritto concesso solo alle Sacerdotesse, ma nessuna delle giovani osava opporsi o denunciare il bellissimo Sykus. Il più delle volte, inconsapevoli del pericolo che l’assassino costituiva per loro, accettavano con eccitazione il suo invito a intrufolarsi nelle loro camere con la promessa di godere delle sue attenzioni. Il folle barlume che illuminava gli occhi del ragazzo sapeva spegnere la volontà di chiunque con una prepotenza cui solo le consacrate al Culto e il Maestro sapevano opporsi. Sykus possedette la giovanissima intunicata con un’impetuosità e una veemenza tale da lasciarla sfinita, dolorante e lacrimante, poi abbandonò la cella senza nemmeno voltarsi. Il pianto sommesso della vestale s’interruppe con un sussulto di poco preceduto da un sibilo attutito: l’ombra di Sykus, distaccatasi dal suo proprietario come un essere a sé stante, era rimasta in silente attesa nella camera per porre fine al dolore della ragazzina. Se Sykus non fosse stato visto uscire mentre qualcosa avveniva nella sua cella, sicuramente avrebbe dovuto rispondere dell’ennesimo omicidio di una delle vestali della Dea. Che la tua passione diventi morte e che la tua ombra ti sia compagna, era uno dei precetti della fede oscura che preferiva e che cercava di trasmutare, dall’interpretazione

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figurata per la quale era stata espressa, nel senso più pratico e letale al quale lui era votato. Questa era una delle tante espressioni del Potere Oscuro a disposizione degli assassini della gilda. Avrebbe occultato il cadavere altrove in un secondo momento. L’assassino annusò la fredda aria di quella notte spazzata dal vento del Nord alla ricerca di una traccia che gli indicasse la direzione presa dai due fuggitivi. Inspirò profondamente e socchiuse gli occhi isolando nella sua testa i rumori della strada circostante. Dal vicino bordello provenivano le risate soffocate dei giovani prostituiti mentre intrattenevano le facoltose e viziose clienti, in un vicolo un ubriaco si scaldava le mani a uno scoppiettante fuoco mentre intonava canzonacce sguaiate, lo scricchiolio dei sassi schiacciati da un carro in corsa… ogni odore, ogni rumore aveva una precisa collocazione nel quadro mentale che Sykus si stava dipingendo. «Nord.» Sykus s’inumidì le labbra con la lingua, avvertendo il sapore salato del freddo mare ghiacciato portato dal vento che lo aveva ispirato; si fidava del proprio intuito e del Potere che riusciva a gestire meglio di tanti altri suoi compagni. L’ombra nera di Sykus raggiunse il suo legittimo padrone e il giovane guardò ai suoi piedi; ancora una volta il Potere lo aveva accontentato nella sua esigenza di morte e la sua ombra aveva cristallizzato il momento dell’uccisione della vestale per condividerne il macabro piacere. Sykus viaggiò solamente la notte, occultando la propria presenza con il suo Potere durante il giorno, dormendo senza mai raggiungere lo stato di sonno profondo con una tecnica mentale insegnatagli dal suo tutore. Era uno dei migliori giovani della gilda nel manipolare le forze negative persino durante il dominio del sole, abilità donatagli dalla Dea forse in virtù della sua profonda malvagità e devozione all’assassinio. Era sicuramente apprezzato al servizio della Dea, ma lui non si accontentava di essere solo “uno dei migliori”, poiché il suo ego gli imponeva la ricerca di una posizione d’assoluta supremazia che avrebbe minacciato persino la vita del Maestro e dell’Oracolo qualora il ragazzo fosse stato in grado di cogliere un momento di debolezza dei due capi. Ogni cittadina che attraversava portava le tracce mentali dei suoi due obiettivi, confermandogli ogni volta di essere sulla strada giusta. Sykus aveva pochi anni in più di Libon, ma aveva l’esperienza e il controllo dei veterani più temuti e come segugio si era dimostrato molte volte inesorabile e infallibile; ogni individuo, attraverso i propri pensieri e le emozioni, lasciava dietro di sé una scia invisibile che il giovane assassino aveva il potere di captare come pochi altri nella gilda.

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La sua ricerca terminò quattordici giorni dopo, a Quirtall, quando Sykus avvertì molto vicine le aure di Libon e Matara. Sapeva che anche le sue prede lo avevano oramai sentito e rimase in attesa, al centro della piazza principale del paese, aspettando che i due dessero il via all’inseguimento il cui esito era già scontato nella superba mente di Sykus. Avrebbe seguito la loro scia proprio come aveva fatto fino a quel momento e li avrebbe trovati, uccisi e squarciato il loro petto, per portare come trofeo alla gilda i cuori dei due traditori. Non poteva immaginare quale sarebbe stato il suo destino se avesse fatto ritorno. Sykus fu effettivamente abile nell’inseguimento, poiché riuscì ad arrivare dopo soli due giorni che Libon e Matara si erano stanziati in quella cittadina. Aveva viaggiato in maniera tanto efficace e intelligente da avere annullato persino il vantaggio che i due avevano su di lui, grazie alle cavalcature che avevano acquistato. Sarebbe stato lecito sospettare che il suo cammino fosse guidato da qualcosa di ben più lungimirante e affidabile del suo sesto senso e del Potere. Se in quel momento della notte qualcuno ancora sveglio avesse visto Sykus, da solo, immobile al centro della piazza, avrebbe subito intuito che la morte era venuta a Quirtall per portare via qualcuno con sé.

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CAPITOLO VII Libon si girò di scatto verso Matara che già da qualche secondo si era immobilizzata con lo sguardo fisso nel vuoto, si infilò i morbidi pantaloni di seta nera acquistati il giorno prima e si avvicinò prudentemente alla finestra che dava sulla piazza per guardare fuori. «È Sykus. È fermo al centro della piazza e sta guardando in questa direzione.» La voce di Libon esprimeva preoccupazione e ansia, ma non paura. Matara frugò nel buio fra i vestiti ammucchiati e scelse una pregiata vestaglia di lana cremisi per ripararsi dal freddo. Si stiracchiò, sbadigliò sommessamente e posò la mano sinistra sulla lama maledetta che inseparabile era posata sul suo fianco destro. «Non credevo che avrebbero mandato addirittura lui. Ci vogliono morti, a quanto pare. Cosa pensi di fare?» Libon si voltò verso di lei e sospirò ammirando la sua sagoma nell’ombra. «Lo scontro è inevitabile. Non sarà facile.» I due finirono di vestirsi, si sedettero sul letto e si afferrarono le mani. Matara baciò il collo di Libon e posò la testa sulla sua spalla. Passò un po’ di tempo prima che trovasse qualcosa di utile da proporre in un momento complesso come quello, ma non voleva deludere le aspettative dell’amato che da sempre faceva affidamento sul suo ingegno. «Se obbligassimo Sykus a utilizzare il Potere fino ai suoi limiti, forse potremmo spingerlo fra le braccia della Bestia.» Libon la fissò stralunato. «Sei impazzita? In quel caso saremmo entrambi morti prima di rendercene conto. Hai idea di quanto diverrebbe potente? Qui non ci sono Lame Nere che possano venire a ritirarlo. In che modo potrebbe esserci utile quello che stai dicendo?» Lei si alzò e si incamminò verso la finestra stringendo i pugni. «Dici così perché c’è una cosa che non sai riguardo la Bestia… una conoscenza che è destinata solo alle Sacerdotesse.» Matara continuò con voce più grave, appesantita dall’importanza di quella rivelazione, poiché stava tradendo il giuramento di segretezza che aveva fatto al cospetto di tutto l’ordine prima di rinunciare alla privilegiata posizione di sacerdotessa del Culto per diventare una Lama Nera. Nonostante la sua situazione non le imponesse più alcun impegno nei confronti delle

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sacerdotesse, non era ancora riuscita a scrollarsi di dosso i dogmi che l’avevano inquadrata per tutta la vita e faceva fatica a dire quello che avrebbe dovuto rivelare a Libon in quel momento. Matara parlava come se recitasse un capitolo del Libro delle Ombre e la sua voce era appesantita dal timore dell’imminente pericolo. «Anche se non credi al Grande Sacrificio, c’è un segreto riguardo a esso che potrebbe tornarci utile. Solo il Culto Oscuro, e i sacerdoti di Moth che hanno tradotto le tavole dell’Oracolo, sanno in che modo la nuova divinità potrà risorgere.» «Cosa c’entra con noi questa cosa?» Matara raccontò brevemente la storia relativa alla profezia del Grande Sacrificio. Libon intervenne: «La storia la conoscevo, seppure non in maniera così particolareggiata. So che quando Gatranoch si rese conto di essere stato incastrato dall’Oracolo e dalla Dea Senza Nome, lanciò su di loro una maledizione terribile.» Matara annuì. «Esatto. La maledizione raggiunse solo la profetessa di sventura, però. La Dea si salvò perché si era già nascosta nella dimensione dell’Ombra, dove nemmeno il potere del Sutar poteva raggiungerla. L’Oracolo perse il potere che le permetteva di vedere il futuro, cosa che pochi al di fuori del Culto sanno, ma prima che questo accadesse ebbe l’ultima visione che descriveva proprio la maledizione del Dio sutari e ne rivelava le intenzioni: la maledizione avrebbe fatto in modo che il figlio prediletto della Dea uccidesse a tradimento la madre, proprio come lei aveva progettato di fare nei confronti di Gatranoch usando Aslamon. Di fatto, è la maledizione di Gatranoch a corrompere il Potere Oscuro e a renderlo pericoloso per chi lo usa, perché esso crea un legame con le energie della stessa Dea. La seconda quartina della profezia dice anche: “La bestia prenderà il prediletto sul monte perché dalla madre, costui troppo richiede, così potrà risalire sino alla fonte e pretendere il trono sul quale lei siede.” Questa parte della Profezia non è mai stata interpretata con precisione, ma la sacerdotessa anziana che mi ha istruito affermava che quando questo sarebbe avvenuto, la Dea avrebbe fatto di tutto per distruggere la minaccia. Se Sykus venisse preso dalla bestia sarà la Dea stessa a distruggerlo.» Libon sembrava piuttosto scettico.

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«Come facciamo a esserne certi? Non ne avevo mai sentito parlare durante il mio addestramento.» Matara sbuffò infastidita. «Devi fidarti di me. Anche se gli istruttori della gilda ci hanno raccontato che la Bestia è solamente uno stato di follia indotta dal contatto con la dimensione dell’Ombra, non è così: è la maledizione di Gatranoch a provocarla… semplicemente la cosa non viene rivelata per evitare che qualche Lama Nera particolarmente ambiziosa possa pensare di lasciarsi andare a questo stato per diventare “il prediletto” della profezia e prendere il posto della Dea. Quando l’assassino cade sotto l’influenza di Gratranoch, La Dea non è in grado di interrompere il legame che c’è fra lei e uno dei suoi figli, quindi manda gli spiriti dell’Ombra per fare in modo che l’impudente sia ucciso. In effetti il rituale d’iniziazione crea un perenne contatto che permette alle Lame Nere di rintracciarla ovunque ella si trovi, per poter liberamente attingere alla sua energia. Quando tu mediti e preghi, non hai la netta sensazione che la Dea sia proprio vicino a te?» Libon annuì. «Be’, è più vero di quanto tu creda. Grazie al rituale tu sapresti recarti nella dimensione dell’Ombra e orientarti nelle sue tenebre fino a ritrovare la Dea, perché istintivamente sai sempre dove essa si trova.» Libon rimase in silenzio perplesso poi scrollò il capo. «Questo è molto interessante, ma tu vuoi davvero che affidiamo la nostra vita a una tua considerazione su una profezia? C’è qualcosa che non quadra in questa storia. Se uno dei suoi figli la potrebbe condurre alla morte, perché la Dea non ordina all’Oracolo di individuare subito il suo “prediletto” e non lo uccide subito? Potrebbe anche togliere di mezzo tutte le Lame Nere.» Matara scosse la testa. «L’Oracolo non è mai stata in grado di riconoscere il momento preciso in cui si realizzerà il desiderio di Gathranoch. Potrebbe succedere oggi o fra mille anni, e la Dea ha bisogno di tutti i suoi figli per conservare il potere sulla terra. Ci sarà sempre un “prediletto” non appena muore il suo predecessore e se non si trova fra le Lame Nere potrebbe essere fra le sacerdotesse, quindi dovrebbe ucciderci tutti. Lei chiede solamente che il Potere sia usato con parsimonia.» «L’Oracolo potrebbe anche essersi sbagliato.» Matara continuò irritata: «Che sia vero o no, la Bestia è una cosa reale.» Libon guardò Matara divertito. «Be’, speriamo che la profezia non si avveri proprio stanotte!» ridacchiò, poi un pensiero lo turbò e la sua espressione mutò in aria di rimprovero: «Se la Dea non dovesse mandare gli spiriti d’Ombra saremmo in un mare di guai.

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Forse il tuo piano rappresenta l’unica via di scampo da questa situazione, ma il rischio è davvero molto grande. Comunque, profezie a parte… ti sei accorta che parli ancora come se facessimo parte del Culto o della gilda? Ce ne siamo andati proprio per non essere più compresi in questi folli schemi e quindi non siamo più Lame Nere, cerca di mettertelo in testa.» Matara rispose con un forte accento di tristezza sulle sue parole: «Lo saremo fino a che non ci saremo liberati sia del Dono, sia di questi maledetti pugnali. Non ci basta rinnegare ciò che abbiamo fatto o in cui abbiamo creduto e nemmeno otterremo la salvezza semplicemente decidendo di non estrarre più le nostre armi. Anzi… sarebbe il caso di farlo ora dato che qua fuori qualcuno ci sta aspettando con ansia e non ha certo percorso tutta questa strada per fare quattro chiacchiere.» La ragazza aveva ragione, purtroppo. Libon si diresse alla porta e posò la mano sulla maniglia, ma si bloccò. «Questa potrebbe essere l’ultima notte della nostra vita.» Non erano abituati a dover valutare una simile eventualità, perché quella era la prima volta che incontravano un avversario abbastanza forte da sconfiggerli. Lei avvertì un dolore quasi fisico a quel pensiero, ma cercò di scacciarlo in fretta. «Usiamo la testa, il Potere e restiamo uniti, così potremo farcela. Sykus è forte, ma noi siamo in due e una forza ancora più grande ci tiene in vita, non dimenticarlo mai. Si tratta solo di resistere abbastanza a lungo.» Il ragazzo sentì le parole della compagna infondergli la forza necessaria per affrontare il proprio destino con maggiore sicurezza, qualunque esso fosse. Aprì la porta, tese la mano a Matara e insieme uscirono sulla strada dove il loro inseguitore li aveva pazientemente attesi. Il giovane che indossava la tunica nera della gilda li osservava con sdegno mentre i due si avvicinavano a lui mano nella mano. «Siete patetici. Non capite che è proprio questo sentimento che vi rende deboli? Guardatevi, vi state comportando proprio come due prede.» L’odio che Sykus infondeva alle proprie parole era corrosivo, ma i due non parevano minimamente toccati dalle parole del loro ex-confratello. Estrassero contemporaneamente le loro lame scure, parchi di parole e agognanti di una soluzione veloce al loro problema. Sykus li fissò entrambi a lungo. Come in ogni combattimento, quello era il momento in cui si stabiliva chi fosse psicologicamente più forte; la soggezione del più debole dava all’avversario un vantaggio non indifferente, ma i numerosi scambi di sguardi fra Sykus e i due non sortivano alcun effetto, tanto le forze erano ben equilibrate. Quando i tre contendenti si stufarono del duello mentale diedero il via alla danza di morte che avrebbe segnato la fine della vita di almeno uno di loro. Si

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muovevano in circolo, lenti ma fluidi, come un branco di lupi che circonda la preda, attenti e pronti a ogni minimo movimento dell’avversario. Se Sykus li avesse presi singolarmente li avrebbe quasi sicuramente vinti senza troppo sforzo, ma Libon e Matara lavoravano insieme, diventando una forza distruttrice imbattibile e il giovane ambizioso ne era a conoscenza. Una vittoria del genere avrebbe fatto di lui una vera leggenda nella gilda. Sarebbe diventato il braccio destro del Maestro, perlomeno fino a che non fosse riuscito a occuparne il posto. Seguì un violento scambio di colpi, ma nessuno andò a segno. Sykus era abile quanto loro nel corpo a corpo anche se era meno avvezzo alle mosse acrobatiche tanto amate dalla ragazza. Il giovane assassino fece un paio di saltelli indietro per prendere nuovamente distanza dai suoi due avversari e per asciugarsi il sangue che gli stava colando dal naso rottogli da Libon. «Non male, anche se non sarà abbastanza. State rendendo questo incarico più divertente di come lo avevo immaginato.» Detto questo, Sykus raccolse il respiro, si concentrò brevemente e svanì dalla vista avviluppato da una coltre di tenebre magiche. «Un trucco da principiante… mi deludi Sykus se speri di batterci così.» Libon conosceva bene quello stratagemma che era una delle prime capacità che si apprendevano cercando di padroneggiare il Potere. L’assassino comparve improvvisamente davanti a Matara che si stava rialzando da terra per sferrarle un lesto diretto sul viso e una coltellata allo stomaco, ma la ragazza deviò prontamente il pugno con il braccio destro schivando anche l’arma, mentre rispondeva con un altro fendente mancino diretto alla gola. Libon si lanciò in uno spettacolare calcio volante che mancò purtroppo l’obiettivo, ma sbilanciandolo in modo da permettere alla sua compagna di portare a segno il colpo di lama che andò ad aprire un taglio molto profondo sulla spalla del contendente. Sykus urlò di dolore mentre barcollando indietreggiava. Matara sogghignò. «Sei finito, Sykus. Il veleno della lama ti ucciderà fra pochi istanti.» L’assassino scoppiò in una sonora e gustosa risata. «Ho passato questi ultimi anni della mia vita pensando al modo di salire il più velocemente possibile verso il comando della gilda e agendo di conseguenza. Sapevo che ciò mi avrebbe creato dei nemici al suo interno, e ho ritenuto opportuno imparare a difendermi dal veleno che spargiamo sulle lame. Ne ho assunto dosi via via sempre più massicce e ora ho sviluppato un’immunità che rende vana la tua baldanza, Matara. Se mi vuoi vedere morto ti conviene fare affidamento su altri stratagemmi.»

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L’espressione trionfante della ragazza si spense a quelle affermazioni. Sykus era stato davvero furbo e previdente nel prendere una tale iniziativa e ora i due avevano scoperto che il combattimento sarebbe stato più lungo di quanto avessero previsto. Se fossero sopravvissuti a quello scontro avrebbero adottato anche loro quel metodo. Libon e Matara si scambiarono uno sguardo carico d’apprensione temendo che se Sykus si fosse dimostrato troppo abile per le loro capacità marziali, avrebbero dovuto agire seguendo l’idea che lei aveva avuto nella stanza della locanda. Purtroppo ciò significava sottoporsi a un pericolo maggiore perché avrebbero dovuto affrontare, almeno per un po’ di tempo, un avversario posseduto dalla potenza della Bestia senza avere idea di cosa esattamente ciò implicasse. Anche ammettendo che sarebbero riusciti a tenersi a un’adeguata distanza di sicurezza c’era il rischio che qualche innocente finisse coinvolto nel combattimento. I colpi e le schivate si susseguirono a un ritmo martellante per i successivi dieci minuti, senza apportare alcun vantaggio decisivo a nessuna delle due controparti. Neppure l’utilizzo da parte della coppia del Dono Oscuro sembrava sortire i risultati desiderati: tutte le tecniche esoteriche si stavano rivelando inefficaci. Se Libon o Matara fossero stati colpiti dalla lama velenosa di Sykus sarebbero periti, e più la stanchezza appesantiva i loro movimenti, tanto maggiori erano le probabilità che ciò avvenisse. Dovevano assolutamente trovare una soluzione, siccome la fuga era resa impossibile dalla superiore velocità in corsa di Sykus e dalla facilità con la quale il loro avversario avrebbe potuto colpirli con un dardo avvelenato una volta giunti alla distanza minima di lancio; a rendere più difficili le cose c’era l’innata chiaroveggenza che il loro avversario sapeva utilizzare con disinvoltura. La persona che avevano davanti rappresentava una condanna a morte certa per chiunque e a quel punto sembrava inevitabile il dover ricorrere a stadi più elevati di Potere, accostandosi sempre di più alla possessione bestiale. Matara aveva oramai lasciato il posto ad Aratam, come si poteva constatare dalle imprecazioni e dagli epiteti che la ragazza aveva cominciato a lanciare all’indirizzo del suo avversario da qualche minuto e sembrava più vicina di Sykus ad affondare nel baratro della Bestia, cosa che preoccupava e distraeva Libon, il quale sentiva crescere anche dentro di sé UNA furia distruttiva incontrollabile. il delicato equilibrio delle forze stava pendendo a favore dell’assassino solitario. Aratam cominciò a urlare selvaggiamente e si lanciò nuovamente all’attacco, liberando una scarica oscura di energie negative per imprimere ulteriore forza al colpo che stava per infliggere. Libon la imitò e il furioso scontro

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ricominciò, ancora più terribile e devastante di prima. Tutto il paese s’era accorto di ciò che stava avvenendo nella piazza poiché le loro urla arrivavano sino ai confini dell’abitato, ma nessuno osava mettere il naso fuori dalla finestra per il terrore. L’inferno stava inscenando un’epica battaglia fra quelle case e lo spettacolo non era destinato ai comuni mortali. Vampate di fuoco magico, sparizioni e riapparizioni, mortali frecce fatte di pura e gelida tenebra. Sykus non riusciva fortunatamente a trovare la concentrazione necessaria per staccarsi magicamente dalla sua ombra, ma teneva testa agli avversari con feroce determinazione. I tre stavano dando fondo a tutta la loro conoscenza esoterica per potersi distruggere a vicenda, ma la magia della gilda non era concepita per essere usata contro un’altra Lama Nera e avrebbe più facilmente distrutto il paese intorno piuttosto che ucciso uno di loro. La bocca di Libon oramai grondava un viscoso liquido nero, la pelle di Aratam-Matara era quasi incandescente mentre Sykus aveva cominciato ad assumere le forme mostruose della Bestia. Gli occhi dei tre erano finestre aperte sull’Inferno e rispecchiavano una furia tanto profonda e antica quanto la battaglia che stavano combattendo, quella che ancora squassava le fondamenta del mondo invisibile fra i sutari di Gathranoch e i Figli della Notte. La Bestia li stava trasformando anche fisicamente oltre che mentalmente; i tre contendenti avevano abbandonato ogni umana inibizione e non vedevano altro che il proprio nemico, ma Sykus sapeva ritardare l’arrivo del mostro meglio dei suoi due avversari. La lotta era dentro e fuori di loro. Quirtall si apprestava a essere cancellato dalle mappe mentre la lotta senza quartiere dei tre Figli della Notte aveva cominciato a mietere le sue vittime fra gli innocenti paesani. Il Potere Oscuro si era impossessato di loro e la Dea stava spalancando le porte del regno delle tenebre per mandare le anime dannate a fermare i combattenti presi dalla Bestia. La prima struttura a cedere fu la locanda, inghiottita da una spaccatura lunga trenta metri e larga quattro che si era formata nel terreno, seguita da altre otto case. Gli abitanti del paese stavano fuggendo terrorizzati dalle abitazioni tempestate dai fiotti di lava che fuoriuscivano dalle fenditure e dalla furia dei tre che ormai non avevano più nulla di umano. Il Potere richiamato dai combattenti stava avendo effetti apocalittici e se solo un minimo barlume di ragione fosse restato a qualcuno di loro, sarebbero rimasti anch’essi terrorizzati dal suo sconsiderato utilizzo. Nessuno poteva immaginare oltre quale limite potesse arrivare il Dono Oscuro o tanto meno prevedere la vastità apocalittica dell’invasione infernale che ne stava seguendo. Creature immonde fatte della materia delle ombre stavano spuntando da quelle spaccature e partecipavano alla battaglia dei tre assassini per distruggere la

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minaccia alla vita della Dea. Queste creature d’ombra, le furibonde e spietate anime dei condannati a raggiungere la Dea Oscura a causa della propria condotta riprovevole in vita, distruggevano e uccidevano ogni cosa non fosse in grado di resistere al loro passaggio. Le tre Bestie si affrontavano fra loro, abbattendo una dopo l’altra le anime terrificanti che giungevano per distruggerle in un numero sempre crescente. Morirono quasi duecento persone, massacrate sia dai dannati sia dalle tre furie e di Quirtall non rimase più traccia. Laddove un tempo s’ergeva una tranquilla località di montagna fra pascoli verdi e rigogliosi, restava un cumulo di macerie su di una desolata distesa di terra arida, spaccata e bruciata. Questa scena sovrannaturale poteva ricordare il periodo denominato dagli storici come “Era Leggendaria”, gli antichi tempi in cui le divinità si muovevano fra i mortali e li conducevano personalmente in battaglia.

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CAPITOLO VIII Fra le mura della Fortezza di Luce si udivano solo i passi cadenzati della ronda notturna. La Fortezza di Luce era la roccaforte un tempo abitata dallo stesso Dio Moth, ma che ora ospitava gli ufficiali dell’esercito mothiano e alcuni nobili. Il Supremo Difensore Kashill, l’anziano generale dell’esercito, s’era addormentato sulle mappe mentre tentava di pianificare l’ennesimo attacco oltre l’avamposto di Kurtha per allargare i dominio del Dio Moth e liberare altre cittadine dal giogo dei regni dell’Artalos, in particolare dal loro nemico principale: il regno di Jamall. Era una lotta senza tregua che lo aveva privato di ogni tranquillità; avvertiva il peso degli anni e aveva la sensazione che la sua clessidra stesse travasando gli ultimi granelli di sabbia. Desiderava ardentemente regalare, prima della sua morte, una vittoria importante al popolo di Moth e al suo Dio, non tanto per l’ambizione d’essere ricordato come un eroe, poiché già tanto aveva fatto fino ad allora per la causa della Legge Suprema, ma per vedere il sogno di un mondo all’insegna della pace vicino alla sua realizzazione. Era cosciente però che tale utopia, se fosse stata veramente realizzabile, non sarebbe stata raggiunta in meno di dieci generazioni e non ci credeva più tanto ardentemente come quando era un giovane e volenteroso paladino; temeva che quella lotta non avrebbe mai avuto fine e la tanto profetizzata vittoria della Luce sulle Tenebre non fosse altro che una mera consolazione per i valorosi che morivano ai confini del regno. Il sonoro bussare di una mano guantata lo risvegliò dal suo sonno leggero. «Avanti.» La porta si spalancò ed entrò un giovane sacerdote di Moth, tutto trafelato. Doveva aver fatto di corsa tutta la strada dal tempio alla roccaforte per recapitare il messaggio che si apprestava ad annunciare. «La Somma Guardiana… Sironna…» doveva ancora riprendere fiato. Il Supremo s’alzò dallo sgabello velocemente e fece alzare il messaggero inginocchiato, per fissarlo negli occhi. «Per Moth! Parla, ragazzo, non mi tenere sulle spine!» «Chiedo perdono, Supremo Kashill… Moth ha mandato una visione alla Somma Guardiana: mi ha mandato a comunicarvi che… il Grande Sacrificio è cominciato, e che lei si sta preparando per raggiungervi alla sala delle riunioni.»

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Kashill sgranò gli occhi mentre il messaggero continuava: «Io dovrei tornare al tempio, quindi se non avete una risposta da…» Kashill scaraventò bruscamente il giovane ansimante su un lato, facendolo cadere, e si lanciò fuori dalla porta urlando: «Svegliate il Comandante Pogstar, il consigliere Alosius, e radunate il consiglio di guerra!» Quella notte, mentre centinaia d’innocenti morivano a Quirtall, l’esercito mothiano avrebbe iniziato i preparativi per la lunga marcia verso Kurtha, l’avamposto situato a sud-est dalla fortezza, al principio di una lunga gola montana che attraversava il Grande Ferro da ovest verso est e che conduceva dentro al regno di Jamall. Da quel posto, non molto lontano dal luogo in cui Libon e Matara avevano combattuto contro Sykus, partivano quasi tutti gli attacchi dell’Alleanza al regno della Dea Oscura. C’erano altri passaggi presidiati dalle truppe alleate, ma la gola di Kurtha era la più ampia e la meno difendibile, per quanto ogni iniziativa militare fosse sempre stata sventata dalle insidiose imboscate delle truppe d’élite della gilda. In passato Kashill aveva ascoltato attentamente le parole della Somma Guardiana, il cui nome era Sironna, che gli aveva parlato del Grande Sacrificio. Sironna era il capo del Culto Luminoso e insieme al clero mothiano d’alto rango rappresentava il potere legislativo del regno teocratico. Il culto di Moth, i cui sacerdoti erano chiamati “Illuminati”, essendo devoto ai principi di Luce e Conoscenza rappresentati dal proprio Dio, aveva il compito di istruire tutti i mortali di Artan, facendo assumere agli Illuminati il ruolo di professori e insegnanti, oltre che di guide spirituali. I paladini, guerrieri devoti principalmente alla funzione di Supremo Legislatore del Dio, mantenevano il potere esecutivo e giudiziario, con equità ma inflessibilità. Stando a quanto Sironna aveva insegnato a Kashill, il periodo del Grande Sacrificio avrebbe coinvolto i mothiani in una gran battaglia, forse l’ultima, contro i regni dell’Artalos, le Terre del Caos, come le chiamava il popolino. Il giovane sacerdote che aveva portato il messaggio a Kashill si alzò confuso massaggiandosi con una mano il gluteo dolorante offeso dalla caduta e con l’altra grattandosi la testa, nella vana speranza di capire perché quella comunicazione fosse così importante, ma non gli era dato sapere. Non ancora. La profezia del Grande Sacrificio era stata volutamente tenuta nascosta al popolo per evitare il panico incontrollabile che sarebbe scaturito dalla sua eventuale realizzazione. In effetti nessuno era completamente a conoscenza della profezia che prospettava ancora molte brutte sorprese ai popoli dei vari schieramenti. Per

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ognuno di loro il Grande Sacrificio avrebbe assunto un significato diverso: per i seguaci di Moth si prospettava una lunga e dolorosa guerra. Il consiglio di guerra indetto da Kashill e diretto dallo stesso, era composto da Sironna, il mago consigliere Alosius, il Comandante Pogstar e un esiguo manipolo di ufficiali dell’esercito e nobili anziani molto affiatati, alcuni fedeli a Kaban, Dio della Guerra, altri a Moth. Per quanto la fortezza ospitasse gli esponenti del governo mothiano, la vera capitale del regno era a decine di chilometri verso sud-ovest. La città principale di una teocrazia prendeva generalmente il nome della divinità alla quale essa era dedicata. Tanto per fare un esempio, la capitale del regno di Moth era chiamata appunto “città di Moth”, o più semplicemente “Mothar”, aggiungendo il suffisso “ar” che significava “casa” nella lingua antica di Ogellian. Era una tradizione rispettata da quasi tutti i regni teocratici; Jamall e Valina costituivano le uniche due eccezioni a questa regola. Mothar era considerata maggiormente il centro del Culto Luminoso, per quanto la stessa Sironna, il capo degli Illuminati, risiedesse anch’essa in una struttura consacrata attigua alla Fortezza di Luce. Dopo le spiegazioni di Sironna, che furono volutamente poco precise ed evasive riguardo la profezia dell’Oracolo, e dopo il discorso introduttivo di Kashill, che ispirò l’animo degli astanti, nessuno si mostrò contrario all’inizio della guerra, seppur con qualche riserbo da parte di alcuni; essa sembrava inevitabile, stando a sentire le affermazioni della Somma Guardiana e del Supremo Difensore, i quali istigavano il furore guerriero dei kabaniti e inneggiavano alla purezza della missione di Giustizia Suprema dei paladini mothiani. «Se questa profezia afferma che saremo coinvolti in un epico scontro con le forze del Caos, non vedo perché dovremmo anticiparla. Se l’Oracolo si fosse sbagliata? La nascita di una nuova divinità dell’Oscurità significherebbe automaticamente il ritorno di Moth e di Kaban su Artan. Ammesso che la profezia sia genuina, cosa di cui io dubito sinceramente, non ci converrebbe attendere i divini condottieri?» Stava parlando uno dei nobili che aveva molti possedimenti terrieri ai confini con il Grande Ferro e che si preoccupava della possibilità che un’eventuale conflitto sarebbe potuto sfociare sino all’invasione delle sue proprietà. Kashill replicò immediatamente: «Quante possibilità ci sono che l’Oracolo si sbagli o che abbia mentito? Non avrebbe alcun senso. Vi ricordo inoltre che questa profezia fu l’ultima che scrisse prima di perdere il dono della preveggenza e per tanto deve essere considerata affidabile. Dobbiamo partire

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prima che le cose vadano troppo in là per poterle controllare. Per quanto ne sappiamo, la nuova divinità è già sorta e aspetta solo di manifestarsi. Dobbiamo annientare le truppe jamallite prima che vengano organizzate.» Ci fu un gran levarsi di voci e commenti, acquietati solo dall’intervento di Sironna: «L’Alleanza sarà posta di fronte a una semplice scelta: intervenire attivamente su questa situazione o venirne travolta, impreparata e indebolita dalla mancanza di lungimiranza e coraggio dei suoi nobili. Convocheremo ogni nazione alleata al fine di sostenerci gli uni con gli altri, e con l’aiuto degli Dei sconfiggeremo una volta per tutte i regni ribelli dell’Artalos. Cercheremo un accordo anche con l’Unione del Nord, offrendo loro un posto nella gloriosa vittoria che i nostri eserciti uniti potranno ottenere. La nuova divinità non è ancora sorta, ma succederà presto: Moth stesso mi ha mandato una visione. Se riusciamo a ridurre i domini di Jamall in tempo, questa minaccia sarà significativamente indebolita.» Le discussioni continuarono, ma la decisione era oramai stata presa dalla maggioranza anche se, stranamente, il consigliere Alosius non si espresse per tutto il tempo, rimanendo a osservare con aria preoccupata il dibattito dalla sua sedia alla destra di Kashill. Quindici giorni dopo quella notte il distaccamento dell’esercito mothiano stanziato nella Fortezza di Luce e tutte le altre truppe richiamate dalle province più vicine, erano praticamente pronti a partire. Dopo aver mandato i messaggeri diretti ai regni alleati, dopo aver riempito molti carri con carichi di provviste e vettovaglie e istruito gli uomini affinché si preparassero al trasferimento verso l’avamposto, l’armata proseguì con passo cadenzato e disciplinato lasciandosi alle spalle l’amato castello. Il Comandante Pogstar, che era a cavallo in testa alle truppe, accelerò l’andatura del suo destriero per affiancarsi al fidato consigliere del Supremo Kashill, Alosius. «Alosius… ancora non capisco il motivo di tanta urgenza. Non sappiamo neppure se gli alleati si uniranno a noi.» L’anziano mago si destò dalle proprie elucubrazioni e incontrò lo sguardo fiero del Comandante. Alosius era un vecchietto mingherlino e ridicolo se messo fisicamente a confronto con il possente guerriero dalla pelle scura e dagli occhi severi, uno dei veterani più rispettati dell’esercito. «Ci ho pensato molto anche io in queste due settimane e ne ho parlato con Kashill, ma ho intuito che nemmeno lui possiede una visione completa su questa situazione. Non capisco, e ti confesso che questo mi disturba, ma presumo che la Somma Guardiana sappia quello che sta facendo… almeno lo

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spero.» Pogstar si rassettò il cinturone guardando verso Kashill e la donna che gli cavalcava di fianco, indicatagli da Alosius. «Anche gli ufficiali hanno capito che qualcosa di grave è successo nelle Terre del Caos, e il fatto che i nostri capi ci escludano da alcune informazioni non motiva certamente le truppe.» Alosius si strinse nelle spalle, passandosi la mano sulla testa canuta e parzialmente calva. «Ci diranno quello che vorranno farci sapere quando giungerà il momento giusto, Pogstar. Il motivo della partenza è ragionevole: c’eri anche tu alla riunione del Consiglio di Guerra. Nel frattempo dovremmo evitare di spettegolare come due comari o i tuoi uomini penseranno che anche tu stia tenendo loro nascosto qualcosa.» Il mago sorrise, Pogstar sospirò annoiato: «Se Kashill o Sironna ti fanno sapere qualcosa di più, ti prego di riferirmelo subito. Non credo di poter contenere ancora a lungo il malcontento che si sta diffondendo fra i miei soldati.» Alosius strizzò l’occhio in segno d’intesa al Comandante e s’immerse nuovamente nei suoi misteriosi ragionamenti. Il mago era ammirato e amato da chiunque lo avesse conosciuto proprio grazie al suo modo di fare accomodante e sincero. Al contrario di molti altri esperti praticanti della magia arcana, Alosius non si faceva scudo del proprio sapere per mettere in soggezione le persone che lo circondavano, evitando anzi tutti quei comportamenti eccentrici e superbi che tendevano a isolare gli altri maghi dal resto dei “comuni mortali”. Alosius aveva ricevuto la sua istruzione da uno dei più famosi e potenti maghi convocatori dei territori dell’Alleanza, Solzius di Klintarn; per quanto nessuno fosse mai riuscito a raggiungere la competenza e le capacità magiche del gran maestro, Alosius era riconosciuto unanimemente come il degno e legittimo successore dell’arte della Convocazione. Tramite complesse formule arcane in lingue dimenticate dai più, il convocatore riusciva a richiamare sul suo piano d’esistenza entità o creature d’altri mondi, tanto potenti quanto più profonda era la conoscenza esoterica di chi le richiamava. Si narrava che in occasione di una battaglia fra Solzius e il predecessore del corrente rappresentante di Aslamon, il grande mago fosse riuscito persino a evocare Bomanon, il guardiano della Sala della Luce Perenne, l’immortale guerriero devoto a Moth che proteggeva la sua dimora dimensionale. Quando Solzius morì di vecchiaia, a novantotto anni suonati, al suo funerale parteciparono tutti i regnanti delle teocrazie che componevano l’Alleanza. Persino Murgrub, il bicentenario necromante di Zarghala, temuto consigliere dei Quattro Demoni, assistette alla funzione,

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nonostante la sua presenza causasse molte polemiche nella capitale della magocrazia di Thureinal. Nessuno aveva avuto il coraggio di impedirgli l’accesso alla città anche se Kashill, allora da poco asceso alla guida dell’Alleanza, era riuscito a strappare al temibile mago la promessa di una condotta esemplare in cambio della sua visita alle compiante spoglie. Come al solito il regno dei Quattro manteneva una posizione di neutralità nei confronti della guerra che da sempre vedeva in campo le armate dell’Alleanza contro i soldati dell’Artalos, e Murgrub mantenne la parola data per non incrinare i rapporti diplomatici, nonostante desiderasse da molto tempo arrecare danno alla magocrazia. Alosius osservò a lungo Sironna e Kashill che cavalcavano l’uno di fianco all’altra e cercò d’intuirne gli stati d’animo. Sironna sembrava piuttosto tesa, ma anche molto emozionata, mentre Kashill era decisamente nervoso e a disagio e lanciava continue occhiate pensierose alle proprie spalle in direzione dei vari schieramenti che li stavano seguendo. Il vecchio mago non aveva molta simpatia per la cinquantenne signora del Culto Luminoso, per quanto le riconoscesse molte doti. Aveva da sempre sostenuto che la donna fosse troppo ambiziosa per guidare i seguaci di Moth verso un periodo di pace e prosperità, pensiero avvalorato dalla sua propensione a legare facilmente con i sacerdoti di Kaban e dalla corrente azione militare da lei consigliata, per quanto bisognasse ammettere che era principalmente a lei che si doveva la solidità e il successo dell’Alleanza. Anche Alosius aveva delle conoscenze particolari riguardo il Grande Sacrificio e aveva già intuito che tale dispiegamento di truppe era fin troppo anticipato rispetto ai tempi descritti dall’Oracolo, ma confrontando i propri dubbi con Kashill, questi aveva chiesto al suo amico e consigliere di rimandare le domande alla prima sosta, senza aggiungere altro. Da prima che l’Alleanza venisse formata, tutti i Supremi Difensori mothiani avevano l’usanza di scegliere fra gli Arcimaghi di Thureinal un Gran Consigliere che partecipava attivamente alla vita politica della nazione. Il riserbo del Supremo Difensore era segno che gli ordini provenivano dall’inconfutabile autorità dello stesso Moth; nessun teocrate avrebbe osato sottovalutare l’utilità dei consigli di un potente e saggio arcanista anche se poneva ovviamente la volontà del proprio Dio sopra ogni altra parola, ma vi era un profondo rispetto verso i maghi, per quanto la magia arcana e quella divina non fossero compatibili fra loro dal punto di vista etico. Mentre la prima donava agli uomini dei poteri miracolosi governati e sviluppati solo attraverso lo studio, la seconda portava al potere tramite la devozione al

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proprio Dio ed era sottoposta al giudizio divino in ogni utilizzo. Un mago avrebbe potuto fare quello che desiderava con la propria magia, mentre un sacerdote o un paladino potevano esercitare solo il volere del Dio con quel dono. Molti contestavano la pericolosità di un potere quasi divino affidato all’instabile e corruttibile coscienza umana. In qualità di Gran Consigliere del regno Alosius avrebbe dovuto essere informato di ogni cosa seduta stante, ma sospettava che Sironna, dichiaratamente ostile agli arcanisti, avesse costretto Kashill a tenerlo sulle spine il più possibile senza un motivo veramente valido. Anche quest’ostilità della Somma Guardiana contribuiva a creare attriti nei rapporti con il Gran Consigliere. «Sironna, Somma Guardiana!» Alosius la chiamò mentre si avvicinava velocemente. Lei si liberò il viso dal velo bianco semi-trasparente che la proteggeva dagli insetti e dalla polvere e si girò piuttosto infastidita verso il mago. «Ditemi, Gran Consigliere Alosius, per cosa mi state interrompendo?» Alosius si trattenne dal mostrare il proprio disappunto per la sgarbata risposta. «Volevo delle informazioni in più su questo viaggio.» A parte la destinazione, Alosius non conosceva nessuna informazione certa riguardo gli intenti della donna. Lei puntò i suoi grandi occhi castani su quelli del mago e senza nascondere il proprio fastidio replicò che Kashill avrebbe ben presto fornito le informazioni che egli cercava. Alosius sorrise ironicamente. «Certo Sironna, sapevo di poter contare sulla vostra collaborazione.» Detto questo non le lasciò il tempo di controbattere e si lanciò al galoppo indietro, verso il Comandante Pogstar, che una volta affiancato lo interrogò immediatamente sull’esito del breve scambio di parole. «Abbi pazienza, seguace di Kaban, la Somma Guardiana ha delegato il Supremo a fornirci ogni informazione alla prima sosta, come già mi era stato detto e come immaginavo.» Pogstar osservò il simbolo del Dio della guerra che gli pendeva sul petto, sopra quello di Moth inciso sulla corazza di piastre. Era stato più volte criticato perché portando i simboli in quel modo mostrava poco rispetto per il Culto Luminoso, ponendolo al di sotto della sua fede per Kaban. Ma Pogstar si era guadagnato il comando dell’esercito ed era diventato il compagno di battaglia di Kashill grazie ai suoi meriti. Aveva combattuto e sofferto per il regno mothiano più di quanto avessero fatto quelli che lo criticavano. Lo stesso Kashill sorrideva ai dispetti del suo amico e non prendeva parte alle

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polemiche, preferendo divertirsi alle spalle dei nobili e dei sacerdoti che subivano le ben poco diplomatiche risposte dell’inviperito combattente. «Cercherò di tenere a bada i miei uomini, ma la richiesta rimane la stessa, caro Alosius. Fammi sapere qualcosa.» Il mago sorrise e annuì col capo. Cavalcarono silenziosamente vicini, osservando Kashill e Sironna che discutevano fra loro, fino a che la prima sosta non venne ordinata e i soldati non iniziarono a preparare il campo per la notte. Era finalmente giunto l’irrimandabile momento delle spiegazioni e Alosius si diresse verso la tenda del Supremo Difensore, seguito di pochi passi da Pogstar. Entrambi entrarono per sedersi di fronte a lui senza dire una parola poiché avevano la certezza che Kashill avrebbe iniziato a parlare senza bisogno di ulteriori solleciti. Così fu. «Come già avete sentito dire, è iniziato il Grande Sacrificio, predetto dall’Oracolo e confermato da Sironna attraverso le visioni che Moth le ha mandato. Il nostro compito è di recarci nella terra della Dea e distruggere il Culto Oscuro e le Lame Nere. Credo sappiate che gli dei traggono potenza anche dalla vastità dei propri possedimenti terreni… togliendo di mezzo il Culto e la gilda elimineremmo i due poteri che possono contrastare la nostra conquista.» Pogstar annuì vigorosamente, mentre Alosius sospirò dubbioso. «Credi che quest’armata sia in grado di penetrare il passo oltre l’avamposto di Kurtha? Ci abbiamo provato già molte volte, con forze di poco meno ingenti di questa, e si è sempre rivelato un fallimento a discapito delle migliaia di soldati che hanno perso la vita durante questi tentativi.» Kashill annuì alle parole del mago senza occultare la propria preoccupazione. «Lo so, amico mio, ma questa volta sarà diverso. Sai anche tu che prima di partire ho mandato dei messaggeri in ogni regno alleato; stiamo progettando un’invasione di massa dentro ai territori della Dea e parteciperanno tutti quando sapranno che stiamo combattendo per evitare il Grande Sacrificio. È un dovere morale dal quale nessuno oserà esimersi. Non si tratta della solita battaglia di contenimento. Spero che tale nobile scopo sarà appoggiato anche dall’Unione del Nord.» Pogstar intervenne: «Ho delle vaghe conoscenze su questa storia del Grande Sacrificio… nulla di più di quanto abbia potuto apprendere sbadigliando durante le lezioni degli Illuminati. Necessito di maggiori informazioni da diffondere fra le truppe. Credo ne sappiano ancora meno di me.»

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Alosius scoppiò a ridere: «Beneamato Pogstar, sappiamo quanto ardore poni nello studio delle discipline culturali, non abbisogni certamente di farcelo notare!» Pogstar sbuffò fintamente irritato mentre Kashill sorrideva della beffa del mago. Il trio era affiatato e la presa in giro era all’ordine del giorno quando si trovavano in privato, anche se i due combattenti erano meno propensi alla battuta scherzosa quando parlavano con il mago, in virtù della soggezione che egli imponeva naturalmente sui suoi due amici. Fortunatamente nessuno di loro era permaloso e negli oltre trent’anni di servizio comune sotto l’egida dell’Alleanza non erano mai scoppiati dei litigi degni di nota. Kashill spiegò pazientemente al Comandante che il periodo che si andava prospettando, ammesso che i segnali non costituissero un falso allarme, avrebbe visto la nascita di un nuovo Dio che sarebbe emerso fra i seguaci mortali della Dea Oscura. Siccome il patto, in forza del quale gli Dei si erano autoesiliati, si sarebbe infranto a causa della presenza di una divinità carnale su Artan, ognuno di loro avrebbe fatto ritorno nei propri domini e avrebbe guidato per l’ultima volta i mortali in battaglia. «Non ho mai combattuto contro un Dio, amici miei, ma se questa deve essere la mia ultima battaglia resterò con voi sino alla fine. Noi seguaci di Kaban non ci tiriamo indietro come certe femminucce del Nord-Ovest.» Pogstar si riferiva ai pacifisti seguaci di Mirion e Valina. Kashill intervenne sul commento del Comandante: «Non criticare i valiniti e i mirioniti, Pogstar. Sono membri dell’Alleanza e ci forniscono il validissimo sostegno di guaritori ed esploratori… i migliori del continente. Comunque, se le cose andranno come spero vadano, non sarà necessario confrontarsi con nessun Dio. Tutto dipende dalla pronta partecipazione dei nostri alleati. Forse riusciremo a penetrare i confini jamalliti prima dell’ascesa al rango di divinità di questo mortale. Andremo direttamente a Jamall, ignorando le città lungo il percorso. Se riusciamo a prendere la capitale fortificata e a uccidere i due regnanti, avremo la vittoria in pugno e le altre città cadranno l’una dopo l’altra.» «Allora perché non partiamo da Valina? Da Kurtha a Jamall ci sono venti giorni di marcia, ma dal confine nord solo quattro.» «È vero, ma l’azione combinata lungo tutti i confini frammenterà le truppe jamallite. Siamo in netta superiorità numerica, anche divisi in cento armate. Stai pur certo che gli alleati non si tireranno indietro: l’Alleanza ha troppo da guadagnare da questa impresa. Chiunque parteciperà alla conquista, prenderà parte anche alla spartizione dei territori.» Pogstar si alzò, anche se non pareva pienamente soddisfatto delle risposte ottenute, e con la solita marziale cortesia si accomiatò dagli altri due per

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tornare alla propria tenda. Quando il Supremo Difensore e il suo consigliere restarono soli, un silenzio meditabondo rese più oppressiva l’atmosfera di quel ritrovo informale. Fu Kashill il primo a rompere il silenzio. «Avverto un peso ingombrante sul tuo animo, Alosius. A cosa stai pensando?» Il mago sospirò. «Ancora nulla di ben definito. Suppongo che in pochi giorni giungeranno qua i messaggeri con le risposte degli alleati, magari insieme alle prime truppe di rinforzo dalle roccaforti più vicine. Voglio prima parlare con qualcuno della magocrazia e poi ti spiegherò. Fino ad allora non far caso ai malumori di questo vecchio rimbambito.» Rise, ma nella sua voce era percepibile un fondo d’amarezza. Kashill posò amichevolmente la mano, resa callosa dagli anni di battaglie passate impugnando la spada in nome di Moth, sulla spalla del Consigliere. Annuì. Rimasero ancora un po’ insieme, chiacchierando di argomenti meno impegnativi e preoccupanti, fino a che non giunse l’ora di cena.

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CAPITOLO IX Il Maestro Oscuro era pigramente accasciato sul trono d’ebano e onice nella buia Sala Centrale e alle sue spalle era in piedi l’Oracolo che, com’era sua abitudine, si posava su di lui cingendogli il petto con le nude braccia. Il suo alito caldo lo solleticava sul collo, ma da qualche giorno il capo della gilda aveva perso il gusto della compagnia della donna in nero, tanto era preoccupato dalle svariate complicazioni nella situazione del regno se la profezia dell’Oracolo si fosse veramente realizzata. La notizia che Quirtall era stata rasa al suolo da un’orda infernale si era diffusa a macchia d’olio. Un avvenimento del genere non poteva passare inosservato e molto probabilmente ogni divinità aveva già provveduto ad avvisare i propri rappresentanti terreni tramite visioni di quegli stessi avvenimenti, valutando oltretutto che Quirtall, essendo un paese di frontiera, ospitava sicuramente delle spie straniere. Da quella notte nefasta erano passati venticinque giorni e Sykus, come previsto dall’Oracolo, non aveva fatto ritorno. I pochi ufficiali della gilda dislocati a Quirtall, alcuni scampati per un soffio alla distruzione, avevano riferito dei resoconti confusi riguardo la battaglia, ma non erano rimasti abbastanza a lungo per assistere al suo esito. Purtroppo la creatura femminile velata di nero che si trovava alle sue spalle non aveva mai sbagliato nelle sue previsioni, anche dopo che la maledizione del Dio Gatranoch l’aveva raggiunta. Effettivamente l’Oracolo presente nel tempio segreto di Jamall era proprio lo stesso implicato nell’antica leggenda e da centinaia di anni guidava da dietro alle quinte l’intera teocrazia. Era l’unica creatura di Artan a essere in grado di andare e muoversi liberamente nella dimensione dell’Ombra, il luogo etereo dove prendevano forma gli incubi e i pensieri più perversi e dove dimoravano le anime oscure di molti malvagi. Un inferno senza luce e senza punti di riferimento dove i dannati camminavano scontrandosi nel buio fra di loro senza potersi parlare, vedere o sentire e disperandosi per la propria solitudine. Era la destinazione delle anime di assassini, egoisti, bugiardi, spie… ed era anche il luogo dove le ombre e gli incubi traevano la materia di cui erano fatte. In quel nero caos si nascondeva dalle ire di Gatranoch la Dea, che per non farsi trovare aveva persino fatto dimenticare ai viventi il proprio nome, gettandolo nella fossa più profonda di quella dimensione. Per questo veniva definita in tanti modi, senza mai rivolgersi a essa con il suo appellativo proprio.

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L’Oracolo un tempo poteva scrutare in quella disperazione e trovare ciò di cui abbisognava, potendo portare alla luce i segreti più oscuri e reconditi di ogni cosa, vivente e non, presente, passata o futura. Ma, a causa della punizione che il Dio della Distruzione le aveva inflitto per il suo tradimento, questo suo potere era stato quasi del tutto cancellato. Avrebbe ottenuto solo informazioni parziali, imprecise, ingannevoli. Ciò nonostante nessun uomo veramente saggio avrebbe preso sotto gamba le parole uscite dalla bocca dell’Oracolo. Il Maestro Oscuro era uno degli uomini che sapevano dare il giusto peso alle frasi di quella donna immortale e l’ascoltava con attenzione ogni qual volta discutevano insieme di qualcosa. «Le spie dal nord-ovest hanno comunicato che Sironna ha ordinato l’invasione di massa. L’Alleanza attaccherà in meno di un mese e molti dei miei uomini sono impegnati al confine opposto. I Quattro hanno ridotto il traffico di carovane dal nord-est e sono certo che stanno tramando qualcosa.» La voce del Maestro Oscuro non era minacciosa e risoluta come al solito, pareva invece quella di un uomo stanco e preoccupato. «Se la situazione si facesse più critica non sapremmo a chi rivolgerci. Credi che i servi di Aslamon ci aiuterebbero?» L’Oracolo rimase concentrata in silenzio per qualche secondo: «Dovremmo far loro promesse che non saremmo in grado di mantenere. Preferirei giocare questa carta solo in caso di estrema necessità.» Il Maestro annuì, concordando con l’interlocutrice velata. Nessuno avrebbe voluto essere alleato con il popolo che si apprestava ad affrontare l’ira dell’Alleanza. I Seguaci di Aslamon, al sud, nemici storici, anche se poco aggressivi nei confronti dei figli della Notte, erano al momento impegnati nella guerra contro i Sutar del regno di Gathranoch, il cui governo, in virtù della tregua firmata con i Quattro, poteva intensificare gli sforzi nella campagna d’espansione in quella nazione. «Ogni cosa nasce per deperire e morire, alla fine, ma è così ingiusto che tutto ciò che ho costruito in tutti questi anni rischi di sgretolarsi con tanta facilità. Non lo posso accettare.» La donna in nero si inginocchiò davanti al regnante appoggiandogli la testa sulle cosce: «Non è questo il modo di parlare per il Signore della gilda e sovrano di Jamall. Se non sei tu il primo a mostrare forza e sicurezza, le tue Lame Nere ti abbandoneranno.» «Chi sarà il prediletto? Potrebbe davvero essere Matara oppure Libon… o Sykus? Sei l’Oracolo, tu devi saperlo!» La donna in nero digrignò i denti: «Non mi è stato concesso di vedere, ma in fondo che cosa cambierebbe? Nessuno può opporsi al Fato. Quello che ho

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visto è ciò che sarà. Fare delle concessioni all’Alleanza ci farebbe guadagnare del tempo prezioso, e ci permetterebbe di attendere l’arrivo della nuova divinità perdendo meno terre possibili.» «Ne abbiamo già discusso e mi sono espresso chiaramente contrario, Oracolo! Piuttosto che chinare il capo a quei viscidi vermi preferisco subire mille assedi. Siamo in grado di resistere a sufficienza.» «Quando la nuova divinità sorgerà potrebbe non avere più un regno da cui attingere forza.» «La discussione è chiusa, Oracolo.»

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CAPITOLO X Libon aprì lentamente gli occhi, ma gli ci volle qualche minuto prima di mettere a fuoco la vista. Si sentiva completamente privo di forze e non c’era parte del corpo che non gli dolesse. Era sdraiato, avvolto da bendaggi untuosi e aromatici, sulla sua testa il soffitto di una capanna di legno, dai cui interstizi filtrava una tenue luce solare. Dell’edera selvatica pendeva dalle assi di legno e, all’esterno, una quiete piacevole e accogliente faceva da giusto sottofondo al canto degli uccelli. Voltandosi su un lato, ancora confuso e stordito, vide Matara che, rannicchiata su una stuoia in un angolino della baracca, dormiva beatamente. Era coperta da una semplice e leggera tunica bianca e portava i capelli sciolti sulle spalle. Ai piedi portava dei sandali di legno intagliato. Era bellissima nella sua semplicità. Si sforzò di ricordare come fossero finiti là, ma si rese conto che la più recente reminiscenza che era in grado di richiamare riguardava il combattimento con Sykus. «M… Maaaat…» La voce gli uscì a malapena, secca e rauca dalla gola che gli bruciava, come se non bevesse da giorni. Non aveva la forza di alzarsi, ma fortunatamente Matara si risvegliò lentamente dal suo sonno e aprì gli occhi che sgranò colmi di gioia quando s’accorse che il suo amato s’era svegliato. Si alzò velocemente e corse subito ad abbracciarlo, ma Libon non riuscì a trattenere un grido di dolore quando le braccia lo strinsero sulle costole che, a giudicare dal male provato, dovevano essere rotte o perlomeno incrinate. Lei lo baciò su tutto il viso e poi corse fuori quasi sfondando la porta, urlando come una forsennata. «Hutden! Hutden! Libon si è svegliato!» Matara tornò dentro con un sorriso talmente luminoso da oscurare il bel sole che pervadeva la piccola baracca di legno e si sedette su uno sgabello di fianco al letto, porgendo a Libon una bisaccia piena d’acqua e aiutandolo a bere. «Temevo che non ti saresti svegliato mai più. Ho avuto tanta paura.» Gli appoggiò delicatamente la testa sul petto e lui cominciò ad accarezzarla. «Dove siamo? Chi è questo Hutden?» Lei non fece tempo a rispondere che sull’uscio si presentò un ometto piuttosto basso, dai lunghi capelli bianchi e gli occhi azzurri, accesi e vispi, che non dimostravano l’età veneranda dichiarata dal resto del suo aspetto. Il suo corpo

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minuto era coperto da una tunica identica a quella indossata da Matara e, a parte una corda fatta di giovani ramoscelli verdi intrecciati per formare una cintura che teneva ferma il vestiario intorno alla vita, non portava nient’altro. Una voce calorosa e simpatica. «Sono io Hutden. Piacere di conoscerti, Libon.» Gli tese la mano e lui, sorridendogli indeciso, gliela strinse. Era callosa e ruvida come quella di un contadino e calda e cordiale come quella di un amico. Libon aveva mille domande da porre a entrambi, ma il vecchietto lo prevenne. «Potremo parlare più tardi, ora ti lascio solo con la tua graziosa compagna.» Sorrise, esponendo una fila di denti perfetti e candidi, e accennando un inchino scomparve nel bosco oltre la porta. Matara si mise a giocare con i suoi capelli e sorridendo cominciò a parlare. «Tu ricordi cosa successe dopo il combattimento con Sykus?» Libon scosse la testa. «Nemmeno io. Mi sono svegliata qui dentro, proprio come te adesso. Hutden, che è un guaritore devoto a Valina, ha detto di averci trovato abbracciati, quasi morti e coperti dalle ferite, in mezzo a dei cespugli non molto lontani da qui. Non è riuscito a intuire cosa ci avesse ridotti in quello stato e io non gli ho voluto raccontare nulla. È una gran brava persona, ma sai che Valina è una nemica giurata della Dea e non so se…» Libon sorrise al pensiero che il loro salvatore facesse parte di uno dei culti, dopo quello di Moth, più ostili al loro. Sorseggiò ancora dall’otre. «Hai fatto bene. Ora più che mai abbiamo bisogno di alleati. Sai dove siamo esattamente?» Matara aggrottò le sopracciglia: «Hutden mi ha detto che ci troviamo a due giorni di marcia dal confine nord dei territori di Jamall. Siamo nel regno di Ausmine, nel mezzo della Foresta degli Iluar.» Libon scoppiò in una risata nervosa: «Non è possibile! Ma ti rendi conto che da Quirtall sono quasi venti giorni di cammino fra le montagne?» Matara sollevò gli occhi e spalancò le braccia: «Cosa ti posso dire? Oramai non mi stupisce più nulla. Lo vuoi sapere per quanto tempo sei rimasto incosciente?» La ragazza si fece seria e Libon si stupì nel realizzare che, in effetti, le condizioni atmosferiche facevano presupporre che l’estate fosse oramai inoltrata. Matara era titubante, come se facesse fatica a credere a quel che stava dicendo: «Io mi sono risvegliata diciotto giorni dopo la battaglia, il che è gia un bel dire se pensi che siamo giunti sin qui senza sapere come, ma tu… tu sei rimasto in questo stato per altre due settimane!»

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Libon si sentì come se una secchiata d’acqua gelida gli fosse stata rovesciata improvvisamente addosso; dopo qualche secondo di sconcertato silenzio, si riprese. «Com’è possibile che il vecchio non abbia riconosciuto le nostre armi o non abbia avvertito la nostra aurea?» Il giovane si tastò il fianco sinistro per toccare la lama nera che come sempre era al suo fianco. Matara si carezzò il mento pensierosa. «Hutden sa sicuramente chi siamo, ma credo che non gli interessi. È un eremita e ha giurato alla sua divinità di prestare soccorso a chiunque. Da quando ho ripreso conoscenza mi ha fatto pochissime domande sul nostro passato, e non ha mai insistito sull’argomento quando capiva che non volevo parlarne. Penso che voglia una nostra spontanea confessione e, sinceramente, penso che prima di andarcene sarebbe corretto dirglielo. Io gliel’ho tenuto nascosto finora perché ritenevo fosse giusto parlarne prima con te.» Libon ci pensò per un po’, poi concordò con la sua compagna che avrebbero raccontato a Hutden la loro storia quella sera stessa. «Che fine ha fatto Sykus?» Matara non lo sapeva. Poche ore dopo Libon riuscì a mettersi seduto e inghiottì avidamente l’amaro brodo caldo che l’anziano eremita aveva preparato per lui. Quando sentì nuove forze confluire in tutto il corpo scambiò uno sguardo d’intesa con Matara, la quale cominciò a narrare la loro storia al gentile vecchietto che si era preso cura di loro. Hutden sembrava perplesso: «Quindi voi non ricordate niente di quello che successe a Quirtall, e non avete idea di come siate giunti fin qua? È assurdo, per quanto abbia la sensazione che non mi stiate mentendo. Non vi viene in mente nessun particolare?» I due ragazzi scuotevano le teste, ignari di tutto, ma si erano accorti che Hutden voleva dir loro qualcosa. Libon prese la parola: «Hutden, per quello che hai fatto per noi hai la nostra gratitudine e la nostra stima. Saremmo probabilmente morti senza le tue cure, e spero che ti sia convinto che non hai nulla da temere da noi.» Il vecchio annuì ma il suo sorriso era triste. «Allora, parla liberamente, amico: avverto la tua tristezza e il tuo timore, e ne sono dispiaciuto. Parla e noi ti ascolteremo.» «Non riesco a credere che voi siate gli stessi che…» Libon corrugò la fronte non riuscendo a intuire la fonte della tristezza dell’uomo e Matara guardava il suo compagno interrogativamente, stupita

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anch’essa per il momentaneo stato d’animo dell’arzillo e sempre sorridente vecchietto valinita. Hutden finalmente parlò e confessò loro le reali circostanze del loro ritrovamento. Ventiquattro giorni prima di quella sera e dieci giorni prima che Matara riprendesse conoscenza, l’eremita aveva rinvenuto i loro corpi quasi esanimi, ma confessò che era stato colto dal terrore osservandone le fattezze. I due ragazzi, in quel momento, avevano un aspetto simile a quello di due creature demoniache evase dagli incubi di un folle. I loro mostruosi corpi mostravano i segni di una lunga e sanguinosa battaglia. Hutden narrò che aveva deciso di benedire quelle due creature con la parola sacra di Valina, onde creare una barriera di sicurezza fra lui e loro, ma la reazione alle preghiere del guaritore era stata inaspettata. Quei due demoni si erano trasformati davanti ai suoi occhi per assumere l’aspetto normale e decisamente più rassicurante dei giovani esseri umani che parlavano con lui in quel momento. Hutden spiegò che mosso dalla compassione aveva deciso di portarli alla sua capanna per offrire loro le prime cure, in attesa che il falcone viaggiatore, che nel frattempo aveva mandato alla capitale con il dettagliato resoconto del ritrovamento, facesse ritorno con la risposta della regina Ausmine. Dopo sei giorni il volatile addestrato era tornato con gli ordini della regina valinita legati alla zampa. Ausmine aveva ordinato al guaritore di trattenere i suoi due ospiti e di mantenere segreta la loro presenza a chiunque, con il compito di spedirle regolari rapporti settimanali. Così fece. La regina aveva scritto all’eremita di essere molto prudente poiché quei due ragazzi erano probabilmente i responsabili del massacro di decine di soldati e almeno un centinaio di civili valiniti. Hutden aveva indagato, parlando con i boscaioli insediati all’interno della foresta, ed era riuscito a cogliere le voci che confermavano gli avvenimenti descritti dalla regina. I due ragazzi erano sconvolti da quel racconto e prima di riuscire a parlare si scambiarono lunghi sguardi, come se comunicassero telepaticamente. «Hutden, se quello che la regina ti ha scritto è vero, perché non ti è stato ordinato di ucciderci? Potevamo essere pericolosi anche per te, una volta ripresi i sensi, e se fossimo fuggiti avremmo potuto causare un altro massacro.» Libon guardava senza rancore l’anziano uomo seduto di fronte a lui, il quale sembrava non fosse per nulla a conoscenza dei motivi occultati dietro a un ordine talmente imprudente. «Me lo sono chiesto anch’io, molte volte… è vero che il culto di Valina pone la Vita e la Compassione sopra ogni altro valore, ma se vi foste dimostrati

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tanto pericolosi io non potevo essere sicuro di avere le capacità di fermarvi; altre vite si sarebbero spente a causa vostra. Posso solo supporre che la regina Ausmine già sapesse che tipo di persone voi foste, così come l’ho scoperto io con il tempo, conoscendo Matara.» Vi era molto affetto nelle parole di Hutden, una tenerezza paterna che faceva sentire a loro agio i due ragazzi. «Io non so cosa vi abbia trasformato in quelle… cose… ma vedo con chiarezza le persone che diverrete se date retta al vostro cuore. Sono abbastanza vecchio per sapere che nonostante gli errori del passato, c’è sempre una possibilità di una redenzione, per chiunque; anche per voi, nessuno è escluso.» Il resto della serata vide i tre abitanti della piccola catapecchia di legno immersa nella foresta conversare tranquillamente e accrescere la reciproca stima man mano che la loro confidenza s’approfondiva. Hutden promise ai due giovani che si sarebbe informato sui progetti di Ausmine nei loro confronti. Nel cuore della notte, mentre ancora cercava di prendere sonno, Matara ebbe una delle sue folgoranti illuminazioni. Nelle ultime settimane era riuscita a dominare il richiamo dell’oscurità, iniziando a vedere l’alba non come la fine delle sue imprese notturne, ma come l’inizio di una nuova giornata, così come effettivamente era per quasi tutti gli esseri umani. A ogni modo, in quel momento non riusciva ad acquietare il proprio cervello che continuava a macinare ed elaborare i discorsi della sera appena trascorsa, finché un’improvvisa intuizione la fece balzare fuori dalle coperte. Si lanciò verso il guaritore che beatamente riposava e lo svegliò di soprassalto. Hutden si destò terrorizzato, imprecando e pregando, temendo che la furia omicida dei suoi due assistiti si fosse risvegliata, ma l’indelicata iniziativa di Matara era fortunatamente dovuta a ben altri motivi che lei s’affrettò a chiarire. «Hutden! Hutden! Svegliati!» «Ti prego… non mi uccidere!» Gli occhi azzurri del brav’uomo sbarrati nel buio cercavano di definire le forme del suo aggressore. Matara scoppiò in una sonora risata e abbracciò l’impaurito vecchietto: «Perdonami, caro amico, non volevo spaventarti… ma il racconto di quando ci hai trovato mi ha fatto venire un’idea.» Mentre Hutden calmava il suo cuore galoppante, Libon, svegliato dal trambusto, si mise seduto ancora assonnato tentando di capire cosa avesse provocato le urla dentro alla catapecchia.

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Matara proseguì: «Hai affermato che fu quella specie di benedizione a farci tornare normali, giusto?» Hutden confermò che se quella non era stata una semplice e incredibile coincidenza, si poteva affermare che i poteri di Valina avevano compiuto il prodigio in questione. «Pensi di poter ripetere l’esperienza?» Il guaritore annuì: «Si tratta di un rituale sacro piuttosto semplice che qualunque fedele sacerdote della Dea madre può eseguire con successo.» Matara baciò schioccando sulle guance del confuso valinita. Libon chiese a Matara che intenzioni avesse, ma lei stava già trascinando Hutden fuori dalla capanna. Con fatica il ragazzo li seguì. La fievole luce lunare illuminava malamente la piccola radura in cui i tre si trovavano. Matara con gli occhi accesi di entusiasmo teneva per un braccio il sacerdote mentre Libon li osservava appoggiato all’uscio. «Io ora richiamerò il Dono Oscuro. Quando sarò vicina al culmine tu compirai lo stesso rituale che hai fatto quando hai trovato i nostri corpi e…» Hutden spalancò gli occhi impauriti: «È una follia! Se non dovesse funzionare potresti fare del male a qualcuno!» Matara scosse la testa con molta decisione. Libon non tentava neppure di dissuaderla, perché sapeva che quando la sua amata era in quello stato d’esaltazione era impossibile farla tornare sui suoi passi, tant’è che lei aveva già cominciato a concentrarsi senza ascoltare ulteriori repliche del sacerdote il quale, resosi conto della pericolosa e imminente situazione, si gettò in ginocchio intonando il sacro canto del rituale. Libon si fidava della sua compagna, ma concordava anche con i timori del vecchio. Il Potere, una volta liberato, ottenebrava la mente e rendeva impossibile distinguere i nemici dagli amici; ancora non si spiegava, infatti, come mai quando i loro due Poteri s’erano espressi nella forma finale non si fossero attaccati e uccisi a vicenda. Ci volle del tempo prima di richiamare la Bestia poiché il Dono Oscuro doveva essere sfruttato molto intensamente. Matara lasciò spazio ad Aratam, per poi iniziare ad assumere forme nuove, terribili e terrificanti. Sotto la sua veste le forme femminili si stavano contorcendo in un doloroso schioccare d’ossa che si rompevano, e un rumore liquido accompagnava la muscolatura che mutava fisionomia, gonfiandosi e contorcendosi. La ragazza gemeva di dolore e imprecava con frasi tanto blasfeme da disgustare persino il suo compagno. La voce di Hutden cresceva d’intensità, diventando tutt’uno con i rumori della foresta. Il suo canto era potente, ma portava con sé la delicata eufonia della natura. Le foglie agitate dal vento, il canto degli uccelli notturni, il rumore dell’erba che cresce. La litania di Hutden era diventato veicolo per

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la grande sinfonia della natura e quel piccolo uomo ora appariva come un gigante, tanta era la potenza con cui la Dea della Guarigione e della Natura, simbolo di Fertilità e Maternità, lo stava investendo. Il minuto corpo del vecchietto era un canale attraverso cui passavano le energie della vita e della nascita e Libon capì, in quel momento, che Hutden era stato troppo umile dichiarando che quel rituale era qualcosa di semplice attuazione. Il ragazzo osservava stupito e preoccupato le energie liberate dai due contrastanti poteri, ch’erano diventate visibili e s’affrontavano in una danza di scie luminose e avviluppanti serpi di tenebra. Se il Potere di Matara si fosse rivelato più forte non avrebbe potuto salvare la vita del vecchio e maledì l’imprudenza della sua compagna che stava ponendo il loro salvatore in un serio pericolo, anche se confidava nel fatto che la ragazza da lui amata non avrebbe agito in quel modo se non fosse stata più che sicura della sua idea. Gli avvenimenti presero proporzioni inquietanti quando la terra cominciò a tremare e un paio d’alberi là vicino rovinarono al suolo, sradicati da una forza misteriosa che stava spaccando il terreno. Qualcosa voleva uscire dalle profondità dei reami sotterranei e nulla l’avrebbe fermata se non fosse stato per il canto melodioso di Hutden che cominciava a prendere il sopravvento sulla terribile espressione della Bestia. Matara era irriconoscibile: il suo corpo aveva strappato la veste che la copriva ed era cresciuto di quasi un metro in altezza; le sue braccia erano diventate lunghe e sottili come le zampe di un enorme ragno, e terminavano con degli artigli bestiali che davvero poco ricordavano le delicate mani della ragazza. Sulla sua schiena spuntavano tentacoli neri che si tendevano e si contorcevano in spasmi irregolari e le belle labbra di Matara s’erano ritirate per mostrare una fila di terribili canini baluginanti sotto il chiarore lunare. La sua pelle era nera come una notte di novilunio e i suoi occhi non esistevano più, essendo diventati due buchi oscuri, come finestre su un mondo di tenebre talmente profonde da non poter appartenere a quella dimensione. La voce di Hutden crebbe ancora fino a stordire Libon che, pietrificato, assisteva al terribile spettacolo; ci fu un’esplosione di luce verde che occultò alla vista ogni evento per qualche secondo. Quando gli occhi di Libon tornarono funzionali egli poté tirare un mesto sospiro di sollievo, anche se la paura non s’era ancora sopita. Matara, coperta da un viscoso liquido nero, era accasciata su un fianco, mentre Hutden, ancora inginocchiato, si premeva il palmo della mano sul petto con una smorfia di dolore. Il ragazzo barcollò fino all’amata priva di sensi e s’assicurò ch’ella fosse viva, poi si diresse incespicando verso il vecchio che respirava affannosamente. «Hutden, cosa ti sta succedendo? Non morire amico mio, resisti!»

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Hutden lanciò uno sguardo carico di rimprovero e dolore al giovane. «Ora mi passa, ma sono troppo vecchio per cose del genere!» Matara aprì gli occhi e vedendo Hutden che riprendeva fiato mentre il suo compagno lo sorreggeva si rallegrò. L’esperimento, seppur con qualche complicazione, era riuscito. Matara aveva dimostrato che il potere di Hutden poteva contenere la Bestia. Quando lei si fu lavata di dosso lo strano liquido e si fu rivestita con una tunica nuova, spiegò il senso di quello che era appena accaduto ai due che, ancora irritati dal rischio appena corso, la ascoltavano con severo cipiglio. «Se il potere di Valina ha saputo contrastare quello della Dea, allora è possibile che esistano dei rituali per annullare per sempre la maledizione che ci affligge. La regina Ausmine, come ha detto Hutden, oltre a essere la regnante di queste terre è anche l’amministratrice e portavoce del culto della Natura. Possiede sicuramente poteri superiori a chiunque nel culto e ci potrebbe aiutare!» Libon sorrise un po’ amareggiato: «C’era davvero bisogno di mettere le nostre vite in pericolo per arrivare a questa conclusione? Ausmine non ci aiuterà mai. Ti ricordo che furono le Lame Nere ad assassinare l’uomo che amava, otto anni fa.» Matara sospirò: «Dobbiamo tentare, amore mio, non possiamo ignorare questa possibilità di salvezza senza averci nemmeno provato. Lo hai detto tu stesso: non siamo più Lame Nere.» Hutden, che era stato silenzioso fino a quel momento decise d’intervenire: «Grazie a questa rischiosa esperienza ora sappiamo che la benedizione di Valina è in grado di scongiurare ogni pericolo, persino quando il potere della Lama Nera è attivo e non inerte com’era quando io vi trovai privi di sensi.» Matara annuì felice d’essere stata compresa. «La mia regina potrebbe prendere in considerazione la possibilità di aiutarvi, in cambio di questa preziosa informazione. Rendetevi conto che se il regno di Valina non ha ancora attaccato Jamall è stato proprio per timore del potere oscuro, ma le Lame Nere avrebbero un’arma in meno d’ora in poi… grazie a voi. Mi rimetto però alla vostra volontà. Non mi sento in diritto di obbligarvi a tradire i vostri principi in nome di una causa che non vi appartiene. La regina, se lo vorrete, non mi negherà un incontro.» Matara e Libon non ebbero bisogno di consultarsi fra loro per capire che le parole di Hutden erano sagge e intelligenti, e insieme concordarono che avrebbero chiesto udienza presso la corte valinita per esporre il loro problema e mostrare una possibile soluzione ai dissidi con il regno jamallita.

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La mattina successiva, dopo una sana dormita per riprendere le forze, Hutden mandò un piccione viaggiatore verso la città che portava lo stesso nome della Dea madre, con la richiesta dei ragazzi. La risposta giunse dieci giorni dopo su un carro guidato dal priore del tempio della capitale che li avrebbe portati di gran carriera entro le mura cittadine, fino al cortile interno del castello d’alabastro. FINE ANTEPRIMACONTINUA...