L'ultima alba

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di Daniele Zolfanelli, Fanta-Horror

Transcript of L'ultima alba

Daniele Zolfanelli

L’ULTIMA ALBA

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L’ULTIMA ALBA Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Daniele Zolfanelli ISBN: 978-88-6307-334-8

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2010 da Logo srl

Borgoricco - Padova

RINGRAZIAMENTI Sono dell’idea che ogni libro nasca per volontà propria. Certo, è chi lo scrive a dare una sfumatura a quella volontà, ma, di per sé, l’anima rac-chiusa in una storia è autonoma quanto ogni altro spirito vivente. Lo scrittore si sente trascinare dalle sue parole e, in un modo o nell’altro, finisce con l’annaspare in quei turbinosi pensieri elargiti dalla mente. Per quel che mi è concesso, vorrei ringraziare quelle piccole sfumature che hanno ornato l’essenza intrinseca della narrazione. Non esiste scrittore che si sia formato da solo, perciò un grazie a coloro che mi hanno ispirato e da cui ho appreso, seppur in minima parte, le tecniche: Stephen King, primo fra tutti; Scott Westerfeld; Cassandra Clare; Laura Gallego Garcìa; Francesco Dimitri. E i musicisti: Metallica, Guns N’Roses, Skid Row, Bullet for my Va-lentine, e tanti altri. Ma ora passiamo ai ringraziamenti veri: Emanuela Signorini, aspirante fotografa artistica, che ha realizzato la foto sul retro di copertina. Sei riuscita ad immortalare tutto il mio fasci-no, e non è cosa da poco. La mia “vecchia” (si fa per dire) classe, la 5B. Ognuno di voi ha dato vita a un capitolo, a un paragrafo, a una riga e ad una parola. Niente è nato per caso. I miei genitori e mio fratello, che fa tanto casino. Ma, dopotutto, è nella confusione che regna la creatività. Un ringraziamento anche a tutti coloro che mi hanno sostenuto. Sarebbe impossibile scrivere da solo. Adesso basta, non avete comprato il libro per le mie divagazioni scon-clusionate. Vi lascio alla storia, sperando possa non disgustarvi troppo. In fondo, finché l’alba sorgerà, sarà più che lecito sperare.

Daniele Zolfanelli

“Scrivere un libro è come trovare in mezzo all’erba un filo di un colore brillante e seguirlo per vedere dove ti porta. Alle volte il filo si spezza e

rimani con niente in mano, ma ci sono volte in cui, se hai fortuna, se hai coraggio, se hai perseveranza, ti porta a un tesoro. E il tesoro non è mai i soldi che guadagni vendendo il libro; il tesoro è il libro stesso.”

Stephen King “La storia di Lisey”

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PARTE PRIMA

EDGAR Mi chiamo Edgar, o almeno questo era il mio nome prima di morire. Non so se insieme all’anima sia svanito anche il nome. Forse la luce accecante che mi ha investito si è portata via tutto di me. Mi ha lette-ralmente investito. Un grosso pick-up con i fanali abbaglianti che sfrec-ciava al centro della strada. Ricordo bene il rumore, in fondo è stato l’ultimo che ho sentito. La puzza di pneumatici bruciati, il suono del clacson, il fischio assordante dei freni… chissà se mi fossi spostato co-sa sarebbe successo? Probabilmente sarei ancora vivo, o avrei trovato un altro modo per togliermi la vita. Decidere di morire è giusto tanto quanto voler continuare a vivere. Non c’è niente di sbagliato nel cam-minare di notte in una strada buia, ad occhi chiusi, per impedire alle la-crime di scivolare sul volto. Canticchiavo una canzone dei Nirvana, quella che preferivo, “Come as you are”. La mia voce non era esattamente come quella di Kurt Cobain, ma non importava. Prima di morire non c’è niente che importa vera-mente, e più la morte si avvicina più il mondo intero si rimpicciolisce, si rende fragile, quasi insignificante nella sua semplicità. Non sapevo che mi sarebbe stata data una nuova vita, altrimenti avrei evitato di mettere la camicia più bella che possedevo. Le macchie di sangue non si tolgono facilmente. Non ero cosciente quando cominciai a sanguinare. L’impatto mi fracassò le costole, durò meno di un secon-do, poi più niente. Dopo la luce fu il buio. E il buio rimase. Ero morto. Nessuno poteva salvarmi. Il cuore non batteva più nel petto, il sangue fuoriusciva dalle ferite, un freddo abbraccio mi avvolgeva. Ciò che mi portò ad aprire gli occhi fu una forza estranea alla mia vo-lontà. Le ossa rotte furono sorrette dalla rabbia, le lesioni si rimargina-rono, ma il dolore si amplificò e si espanse in ogni capillare del mio

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corpo. Solo il cuore non riprese a battere. Si appassì, come un fiore sra-dicato, e il freddo prese il sopravvento. La prima cosa che vidi, sdraiato sull’asfalto, fu l’immagine della luna. La osservai. Non mi era mai capitato di fissarla così a lungo. Fui inter-rotto dal rumore di un’altra macchina che si dirigeva verso di me. Sta-volta mi spostai, rotolando fino al margine della strada, e mi misi in piedi. C’era qualcosa di strano. Ero arrabbiato. Sentivo la rabbia scorrermi nelle vene. Una forza violenta mi dominava. Quella macchina che per poco non mi investì si fermò di colpo. L’autista scese e corse fino a raggiungermi. Io non mi mossi. «Va tutto bene?» mi chiese lui. Il suo nome era Piter Plummer e fre-quentava la mia stessa scuola. Non eravamo mai stati grandi amici, an-zi, lo conoscevo solo di nome. Giocava nella squadra scolastica di ba-sket, e io odiavo il basket. Ma, ovviamente, anche questo non è impor-tante. «Si, va tutto benissimo» risposi io, senza aggiungere altro. «Cosa ci facevi in mezzo alla strada? » Ora cominciava a diventare un po’ troppo invadente. Caro Piter, facevo l’unica cosa che una persona che cammina in mezzo alla strada di notte può fare. Aspettavo di essere travolto dalla morte. «Questi non sono affari tuoi» «Potevo investirti, ma…» suppongo che in quel momento notò la cami-cia sporca di sangue. Quella camicia che fino a un giorno prima indos-savo a scuola, perfettamente celeste. Sulle braccia nude il sangue si era seccato, e, in parte, la notte contribuiva a nasconderlo. «Cosa ti è successo?» «Assolutamente niente» «Quello è sangue?» «Che cosa? Questo?» strofinai un dito sull’addome, dove le chiazze e-rano più dense. Non avevo cicatrici sul corpo, nessun taglio, niente che si potesse notare al tatto. Dovevo essere morto già da qualche ora. Il sangue non era più fresco. Avvicinai il dito macchiato di rosso alla bocca e lo leccai. Un sapore inebriante si espanse per tutto lo stomaco. «Si… è certamente sangue» Non potrò mai dimenticare il modo in cui Piter mi guardò, la tonalità con cui si velarono i suoi occhi. Ne percepivo la paura, il terrore che presto sarebbe sfociato nelle lacrime. «C’è qualcosa che non va, Piter?»

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«Sei tu che hai qualcosa che non va… io torno a casa» Si voltò per tornare alla sua auto. Io lo afferrai per le spalle e lo stratto-nai contro di me, contro la mia camicia. «Casa tua è lontana, Piter, molto lontana» Lo morsi alla gola. Volevo divorare il suo grido prima che uscisse dalla bocca, volevo che anche il suo sangue mi sporcasse la camicia, volevo sentire la paura vicina a me, e volevo esserne io la sorgente. Questo fu il primo omicidio. L’abbandono dell’innocenza. E fu qui che imparai quanto fosse veramente facile uccidere. La vita non è altro che un percorso verso la morte, non ci sono altre destinazioni. Continuai a mordergli il collo, a divorarne la carne. Poi sbranai il resto. All’alba un poliziotto notò il cadavere. Non lo avrebbe identificato se non fosse stato per i documenti nelle tasche dei pantaloni. Pensò ad un animale selvatico. Un lupo affamato, probabilmente. E così comunicò anche alla famiglia Plummer. «Mi dispiace molto… vostro figlio è morto» I genitori ammutolirono, cercarono di capire le parole del poliziotto. Si rifiutarono di crederci, così come ci si rifiuta di credere a ciò che si ri-tiene impossibile. Ma è una finzione temporanea che non può sorreg-gersi per molto. Crolla, e quando crolla trascina il mondo con sé. «Il suo corpo è stato trovato poche ore fa» i singhiozzi della madre lo interruppero. Lui evitò di guardarli negli occhi. Spostò la testa in un’altra direzione, lo sguardo in basso. «È stato sbranato da un anima-le» Dovrei ritenermi offeso… un animale… l’ho ucciso per nutrirmi, per sopravvivere. Tutti uccidono per sopravvivere, chi muore soffre, gli amici lo piangono. Cosa c’è di tanto sbagliato se la vittima è un essere umano? Non posso dire di non aver avuto rimpianti in seguito, ma se ripenso alla dolce brezza mentre il suo sangue mi levigava la pelle… lo rifarei. La dannazione eterna è un buon prezzo per un piacere sconfinato di po-chi secondi. La carne calda di un cuore che batte, il sangue maturo che scorre. Le mie labbra su tutto questo… Non voglio essere giudicato in maniera sbagliata. Anche io sono stato umano, e so bene che certi dolori sono incurabili. Tutti temono la morte.

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La storia che mi accompagna non è una storia felice. Non ho intenzione di raccontarla perché qualcuno mi ascolti. Però, in certi casi, sento il bisogno di voltarmi e guardare la vita passata, e ripensare a ciò che ho fatto, a ciò che ho perduto. È un puzzle complicato, pieno di tasselli che non riesco a incastrare, di ricordi frantumati dal tempo, di tessere rotte, bruciate, strappate, di pensieri cancellati. Ci sono figure prive di colori, le più lontane, immagini sfuocate, catturate da un obbiettivo difettoso. Volti perfetti, bagnati, visti attraverso la tremula ombra di una lacrima. Specchi vuoti che si chiedono quale immagine riflettere. Ciò che non posso confondere è la musica. Adoravo ascoltare i miei cd allo stereo. Passavo intere giornate chiuso in camera con la musica a tutto volume, alla ricerca della canzone più bella. Il poster dei Nirvana appeso al muro sopra il letto, e molti altri sparsi un po’ ovunque. Il sof-fitto era l’unica parete rimasta del tutto bianca, incontaminata dalla mia follia. Tenevo una chitarra appoggiata a un angolo. Una chitarra acustica, in legno, che mi avevano regalato un paio di anni prima a Natale. La stavo suonando il giorno in cui arrivarono i miei nuovi vicini. Era estate. Faceva caldo e dalla finestra che si affacciava sul giardino vidi avvicinarsi una ragazza. Non la conoscevo. Doveva essere la figlia del signor e dalla signora Ros, la famiglia venuta ad abitare nella casa di fianco alla mia. La zia mi aveva avvertito che sarebbero arrivati quel giorno. Ma lei si trovava al lavoro, perciò toccò a me andare ad aprire la porta quando suonarono il campanello. «Ciao, io sono Angela» si presentò con una voce melodiosa e un sorriso stampato sulla faccia. Rimasi colpito dalla bellezza dei suoi occhi, cele-sti e sfumati di bianco. I lunghi capelli biondi leggermente arricciolati, e l’espressione un po’ intimorita della nuova arrivata. «Edgar» le risposi io. All’improvviso mi accorsi di avere un nome stu-pido. Edgar. Se non altro è facile da ricordare. «Io e i miei genitori ci siamo appena trasferiti qui, abitiamo nella casa accanto» «Benvenuti» Parlavo a monosillabi, come un bambino che non sa bene cosa dire. Se ci fosse stata la zia mi avrebbe gridato di invitarla a entrare, invece di starmene imbambolato sulla soglia della porta. Avevo perfino lasciato lo stereo acceso in camera. La musica arrivava fin lì, alle orecchie di Angela. «Sweet Emotion, degli Aerosmith, giusto?»

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Le sorrisi. «Si, ti piace?» «È bellissima. La adoro… comunque sono passata per salutarti e, come dire, conoscere un po’ il vicinato. Magari qualche volta potremo ascol-tare delle canzoni insieme» «Sarebbe bello» non riuscii a dirle altro. La mia voce pareva essere sta-ta rapita dalla sua bellezza. «Ora devo andare ad aiutare i miei a sistemare le nostre cose» si voltò verso i genitori che la stavano chiamando «Arrivo subito» Poi tornò a fissare me. «Allora ci vedremo spesso in questi giorni… Ciao» Ricambiai il saluto e me ne tornai in casa, davanti alla finestra, aspet-tando di rivederla. Pensai a lei per il resto della giornata. Alla sua voce, alla sua faccia. La notte il pensiero si espanse, come la fiamma di una candela in uno sga-buzzino buio. Sbirciavo da dietro la tenda che copriva la finestra, cer-cando di vedere una stanza illuminata nella casa accanto. Avrei voluto guardarla dormire, distesa sul suo soffice letto, ad occhi chiusi, rischia-rata solo dai raggi della luna. Credo che quella notte sia entrata nei miei sogni. Vorrei poter ricordare cosa ho sognato, almeno cercherei di sognarlo di nuovo. Quando la zia mi venne a svegliare per dirmi che andava a lavoro prima, io bisbigliai il suo nome. Non il nome della zia. Il nome che bisbigliai fu ben più dolce. «Angela?» ripeté lei «Chi è Angela?» «È un’amica» risposi assonnato, schiacciando le parole con uno sbadi-glio. «Di solito io non mi ricordo nemmeno il mio nome appena mi sveglio... ma se dici che è un’amica non voglio controbattere…» La sveglia segnava le sei e qualcosa. Gli occhi mi si chiudevano e non riuscivo a leggere i numeri sul quadrante digitale. Mi rimisi a dormire, sotto le coperte. È bello addormentarsi sapendo che il tuo sogno più grande si trova a pochi passi da casa.

*** Quando mi svegliai scesi in cucina a fare colazione. Indossavo solo i pantaloni del pigiama. Faceva troppo caldo per vestirsi. Il termometro segnava venti gradi, e, ben presto, la temperatura sarebbe aumentata implacabilmente. Presi un cartoccio di latte fresco dal frigo e un pacco

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di biscotti al cacao. Mangiai lentamente, distratto, così fortemente con-centrato a pensare a chissà cosa, che non assaporai nemmeno il gusto dei biscotti inzuppati nel latte. Ogni sensazioni esterna scivolò via, la-sciando nient’altro che un vago ricordo del suo passaggio. Tornai in camera e suonai la mia chitarra. Certi rumori aiutano a riordi-nare quel gran baccano che a volte fracassa la testa. Niente di particola-re, suonai nota per nota, lasciando che i suoni si susseguissero sponta-nei, senza preavvisi. Per due settimane rimasi inchiodato alla finestra, a vedere la gente camminare, le macchine percorrere la strada, e il tempo che passava davanti a tutto questo, le nuvole spostarsi nel cielo, il sole tramontare e le stelle brillare di una luce sempre più debole. I nuovi vicini erano impegnati a riordinare la casa, a trasferire i loro vecchi mobili nella nuova dimora, e non avevano il tempo per socializ-zare col vicinato. Così rividi Angela solamente il primo giorno di scuo-la. E quello fu anche il primo giorno di pioggia dopo un’estate bollente. Ci incontrammo nel lungo corridoio affiancato dagli armadietti degli studenti, poco prima del suono della campanella. «Anche tu vieni a scuola qui?» mi chiese lei, felice di sapere che alme-no non era del tutto sola, in mezzo a centinaia di ragazzi e insegnati che non aveva mai visto prima d’ora. «Sì… tu in che aula sei?» «La quinta B. Mi potresti aiutare a trovarla?» si guardò intorno, fra la folla «Non sono molto esperta del posto» Oltre alla mia stessa scuola, anche la mia stessa classe. Non potevo chiedere niente di meglio. La accompagnai e la feci sedere accanto e me. Il professore di fisica la presentò al resto della classe appena si ac-corse del suo nome stampato sul registro. «Angela Ros» cercò il volto nuovo tra i suoi vecchi studenti, e lo trovò in seconda fila a destra «Ho sentito che vieni dal Maine. Spero ti trove-rai bene nella nostra scuola» Lei si sentì imbarazzata quando gli occhi di tutta la classe le finirono contro, per osservarla, come fosse un alieno fra decine di esseri umani. Evitò gli sguardi indagatori dei compagni e si concentrò su un punto imprecisato del proprio banco. Le braccia consorte, la testa china. «Mi sono trasferita spesso negli ultimi anni» Io le ero vicino quando pronunciò quella frase e fui in grado di percepi-re una lieve nostalgia, un sentimento di solitudine nascosto dietro la maschera di felicità che voleva mostrare.

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«E ora facciamo un piccolo ripasso di inizio anno. Chi sa dirmi quali sono le tre leggi della dinamica?» Il resto della lezione si perde tra i ricordi. Per tutta l’ora guardai Angela con la coda dell’occhio, senza mai voltarmi, fingendo di ascoltare le pa-role del professore. In realtà riuscivo solo a vederlo. Vedevo tutti quan-ti. Ma non li sentivo. No. I battiti del mio cuore erano più intensi delle parole. L’istinto di sfiorarle le mani, il desiderio di dirle qualcosa. Qualsiasi cosa. Anche la più stupida. La voglia di sentire la sua voce, di vedere le sue labbra muoversi e sfiorare le mie. Erano le sensazioni più forti che avessi provato. «Il primo principio della dinamica, chiamato anche principio di inerzia, fu scoperto da Galileo e afferma che un corpo mantiene il suo stato di quiete o moto rettilineo uniforme finché non interviene una forza ester-na a modificare il suo stato» «Esatto, Alan. Almeno qualcuno ha studiato invece di prendere il sole in spiaggia per tutta l’estate» il professore iniziò presto coi rimproveri. Per fortuna lasciò che fosse Alan a rispondere al resto delle domande. «Il secondo principio si deve a Newton…» Di Alan non c’è molto da dire. È il classico secchione, bravo con i libri e imbranato con tutto il resto. Adorato dagli insegnanti e schivato dalle ragazze. Raggiunge la media dell’otto quasi tutti gli anni. Dico quasi perché l’anno scorso aveva quella del nove. Ma tra noi studenti è famo-so per ben altri tipi di medie. Zero ragazze frequentate, zero ragazze baciate, e zero ragazze portate a letto. Uno zero totale. Non per me, pe-rò. Lui era il mio migliore amico. Credo di essere stato l’unico a cono-scerlo veramente bene, e quindi anche l’unico a poter dire che non può essere giudicato con un numero, tantomeno con uno zero. «Il terzo è il principio di azione e reazione, secondo cui ad ogni azione corrisponde…» Come direbbe lui… l’intelligenza è inversamente proporzionale alla popolarità. «…una reazione uguale e contraria» «Molto bene» disse il professore compiaciuto, tra gli sbadigli degli stu-denti «E ora passiamo a un nuovo argomento» Finita la lezione di fisica fui costretto a sorbirmi altre due ore di chimi-ca e una di storia. E, ad ogni materia, il profumo di Angela mi avvolge-va, mi sfiorava le narici, invitandomi ad avvicinare la mia sedia alla sua, a sentire il suo odore più da vicino. Le guardai il volto. Lei se ne accorse e mi accennò un sorriso, poi riprese a seguire la spiegazione di chimica.

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Dalla finestra della classe vedevo piovere. Il cielo grigio e rumoroso. L’ultima campanella suonò a mezzogiorno. «Ci vediamo da te oggi pomeriggio?» mi disse Alan. Io intanto riponevo i libri nello zaino. «Si. Un po’ di pioggia è quello ci voleva» «Hai già in mente qualcosa?» «Ho un’idea… sarà divertente» Angela ci ascoltò, incuriosita «Di cosa state parlando?» Non so perché, ma speravo me lo chiedesse. «Ti va di venire a casa mia?» «Certo»

*** Riordinai la mia camera quel pomeriggio, subito dopo la scuola. Tolsi tutti i vestiti dal pavimento e li infilai alla rinfusa nell’armadio. Non vo-levo fare brutta figura. Alan era abituato al mio disordine. Ci conosce-vamo dai tempi dell’asilo e sapeva che non ero il tipo più preciso sulla Terra. Se devo dire la verità, ho sempre odiato l’ordine. È così monoto-no, e non lascia spazio al dubbio. Il caos, invece, è l’esaltazione della creatività, è quella cosa che ti fa dire: dove sono finiti i miei pantalo-ni?... E ti lascia senza risposta. Ma Angela non mi conosceva. Non poteva immaginare certi aspetti del mio carattere. E io volevo che si sentisse a suo agio. Con le giuste occa-sioni il tempo di conoscersi a fondo arriva sempre. Per un po’ ascoltai i ticchettii della pioggia sull’asfalto, i rumori delle auto che rapivano quelle piccole gocce e le schiantavano contro il cru-scotto. Nel giardino vedevo svolazzare decine di foglie cadute dai pro-pri alberi, sospinte dalle correnti dei venti. Si alzavano, libravano nell’aria, e scendevano e roteavano in infinite spirali. Alan arrivò presto e Angela ci raggiunse pochi minuti dopo. «Allora cos’è che fate di solito qui?» ci chiese Angela. «Suoniamo» «Suonate?» «Anche se dall’aspetto non si direbbe, siamo artisti» le spiegò Alan. Posò la custodia che teneva con sé sul mio letto e, una ad una, aprì le serrature. Tirò fuori un basso di colore verde, lucido, dall’aspetto im-peccabile «Guarda Edgar, ho cambiato la corda. Ora fa un suono molto più bello»

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«Non vedo l’ora di sentirlo» gli risposi. «Mi piace» le disse Angela, poi si volse a me «Tu invece cosa suoni?» Indicai la mia chitarra, appoggiata al muro in attesa di essere suonata. «Wow, e sei bravo?» «Puoi dirmelo da sola dopo avermi sentito» Aprii la finestra e un’ondata di freddo e umidità ci travolse. Il rumore del vento si espanse, infrangendosi contro i nostri corpi caldi. Io afferrai il manico della chitarra e mi preparai a suonare. Accesi lo stereo con il nuovo cd che avevo comprato. «Alan, la conosci Jeremy, dei Pearl Jam?» «Si, è spettacolare quella canzone» «Ok, preparati… Angela ci serve una cantante, ci stai?» «Io non sono brava a cantare…» «Non importa, tanto non possiamo fare brutta figura se non c’è nessuno ad ascoltarci» La canzone cominciò. La suonai per la prima volta quel pomeriggio, insieme ai miei amici, guardando il temporale che si scatenava in città. «Non conosco nemmeno la canzone» ormai la voce di Angela era so-vrastata dal suono dello stereo. Il volume altissimo, quasi assordante. «Ripeti le parole» dissi io, poi imitai gli accordi iniziali nel modo mi-gliore che potevo, stando attento a non stonare troppo «cerca di alzare il più possibile la voce» Mi sono divertito molto quel giorno. Eravamo così fragili e innocenti. Ammaliati dalla potenza della natura. Non ricordo ogni singola emo-zione che provai. Accanto a Angela i colori prendevano un’altra tinta. Il cielo grigio sembrava azzurro, e sereno. Il vento appena percettibile e il rumore più intenso era quello della rugiada che scivolava giù dai fili d’erba. La ascoltai cantare finché non si fece buio. Allo scoccare delle 7 Alan se ne tornò a casa, riparandosi dalla pioggia sotto un piccolo ombrello rosso, quello di sua sorella probabilmente. E io rimasi solo con Angela. «Allora sono bravo?» le chiesi, riponendo la chitarra al suo posto vicino al muro e sedendomi sul bordo del letto, accanto a lei. «Si. Non ero mai stata ad un concerto» «Posso procurarti un biglietto per la nostra prossima apparizione… ogni giovedì in camera mia. È un evento da non perdere» «Ci sto» pensò a qualcosa, aggrottando le sopracciglia e rivolgendo lo sguardo verso l’alto «Però la prossima volta voglio essere io a sce-gliere le canzoni» «A patto che siano belle»

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«Se fossero brutte non le ascolterei» Restammo in silenzio per una manciata di secondi, e solo quando in-crociai i suoi occhi mi accorsi che la stavo fissando e che non potevo distogliere l’attenzione da lei. Lì tutto svanì, i colori si mischiarono, le sagome si sfumarono. Intorno ad Angela, un dipinto privo di criteri, creato dalle pennellate improvvise di un cieco. La lentezza dello scorre-re del tempo, pietrificato dagli avvenimenti, rallentato da una mente che voleva che quel momento durasse in eterno. Ci siamo baciati. Chiusi gli occhi per far sì che niente si intromettesse tra di noi, e mai fui talmente felice dell’oscurità come in quel bacio. Il silenzio. Non sentivo più la pioggia cadere. Nessun rumore del mondo mi infa-stidiva. Non avvertivo altro che il calore e la sua piacevolezza. La bel-lezza che permeava l’essenza di tutto, prima che finisse. «È meglio che vada» furono le parole che interruppero l’eternità, e io rimasi da solo a raccoglierne i frammenti. Angela staccò le labbra dalle mie, lasciandomi in bocca il sapore che ero riuscito a rubarle. «Non volevo costringerti…» «Non mi hai costretta… anch’io volevo… ma ora devo proprio rientra-re, si sta facendo tardi» Durò poco, ma non rimpiansi il suo bacio. Non potevo associare a tanta felicità la tristezza del rimpianto. Non fui altrettanto in grado di na-scondere la nostalgia. Volevo avvicinarmi di nuovo a lei, per stringerla tra le braccia e sentirne il profumo. Per baciarla ancora, ad occhi chiusi. «Ci vediamo a scuola domattina» le dissi. «Si» E se ne andò lontana. Troppo lontana per un cuore che batte il suo no-me, che scandisce la sua voce, che riflette nel sangue la sua immagine, e che vede nel buio la sua ombra. Troppo lontana da me.

*** La notte sopraggiunse, e con lei i sogni, i desideri proibiti di una mente giovane. E, stavolta, fui sicuro di ciò che sognai, di vederla correre nel campo di rose. Il cielo sereno, vicino all’ora del tramonto, produceva sfumature rossastre all’orizzonte. Le nostre mani congiunte e le braccia tese mentre correvamo e infine cadevamo sui morbidi petali. Con la leggerezza che sembrava farci lievitare, per poi lasciarci scivolare fra le

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sinuosità delle rose, seguendo le sagome dei petali, contornando i con-fini dello spazio. Gli abiti bianchi che indossavamo si tingevano dei colori delle rose, dell’erba, del terreno, del firmamento. Ci cospargevamo dei colori, me-scolandoli, unendoli, formando figure incomprensibili. Ancora credevo che ci stessimo rotolando nel paradiso quando mi sve-gliai. Strinsi il guanciale, sperando che fosse lei. Esitai ad aprire gli oc-chi. Se non l’avessi vista distesa accanto a me, mi sarei lasciato sfuggi-re la sua immagine, ormai impressa sotto le palpebre. «La colazione è pronta. Scendi» La zia mi chiamò dalla cucina. Stava preparando le frittelle ripiene di cioccolato. L’aroma dolciastro penetrava dalle fessure della porta e i-nondava la mia stanza. Dovetti tornare alla realtà. Quella realtà che non aveva niente a che fare con i sogni. Lasciai il cuscino dalla stretta che lo teneva imprigionato a me, e questo cadde giù dal letto, sul pavimento freddo. Io feci lo stesso, senza sapere che un corpo prova più dolore di un oggetto quando si infrange al suo-lo. «Ci vuoi lo zucchero sopra?» Entrai in cucina e lanciai un’occhiata alla zia davanti ai fornelli. Non gradivo molto le sue specialità, in modo particolare la mattina, quando lo stomaco deve ancora riprendersi dal torpore della notte. «No, così va bene» Mi passò un piatto con sopra qualcosa dalle sembianze di una frittella. Indugiai prima di assaggiarne un boccone. La zia non sapeva cucinare, e, del resto, nemmeno io ne ero capace. Dopo l’incidente sono state ben poche le volte che ho mangiato cibi veramente buoni. Comunque prefe-risco mangiare le poltiglie della zia piuttosto che morire di fame. «Stasera tornerò più tardi del solito, ho troppo lavoro da sbrigare» Lavorava nella pizzeria più grande della città, Luigi pizza. Non come pizzaiola, ovviamente. Faceva la cameriera, e certe volte gli toccava il turno doppio. Quella era una di quelle volte. «Tu cerca di non combinare guai mentre non ci sono» «Non sono più un bambino, zia» Finii svelto la colazione per non fare tardi alle lezioni. Presi lo zaino e salutai zia Mary. Di solito impiegavo dieci minuti per raggiungere la scuola. Quella volta ce ne misi meno di cinque. Corsi fra i vicoli, fra le strade, senza fermarmi finché non arrivai alla grande statua a forma di planisfero a pochi metri dal giardino della scuola.

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Ero in anticipo. Perfetto. Non potevo entrare in classe senza prima aver parlato con Angela. Vo-levo dirle cosa provavo per lei, come mi faceva sentire averla accanto, e come, con un solo bacio, mi aveva annebbiato ogni pensiero. Quante cose avrei voluto dirgli, e quante poche gliene dissi quando la vidi. Tutto si ridusse ad un’unica parola. «Ciao» niente di più insignificante. «Edgar, ciao» aveva una voce diversa. «Vorrei parlarti di una cosa…» non sapevo come proseguire. Provarsi i discorsi nella mente e immaginarsi di farli davanti alla persona deside-rata non è come farli veramente a quella persona. Le parole spariscono, si dimenticano, alcune si mischiano con altre, e ciò che rimane è la con-fusione «Quello che è successo ieri…» «Non è stato niente ieri» mi interruppe lei, ma la sua voce decisa tre-mava, forse gli scuoteva il cuore «Dimentichiamo tutto e restiamo ami-ci» Dimenticare… non è facile dimenticare di aver sfiorato le stelle. Sono emozioni impossibili da rimuovere. «Non posso fare finta di niente» la guardai intensamente. La tristezza che le scorgevo sul volto, le lacrime sul punto di scivolare sulle guance. «Invece devi. Noi non possiamo stare insieme…» «Rispondi solo ad una domanda» cercai il modo migliore per dirlo «Cos’hai provato quando ci siamo baciati?» «Paura» si asciugò una lacrima «Ho provato paura perché temevo mi sarei innamorata di te» La campanella di inizio delle lezioni suonò. Noi la ignorammo, aspet-tando che il resto degli studenti entrasse in classe. «Ti preoccupa il fatto di innamorarti di me?» parlai piano, rompendo delicatamente il silenzio. Ora le nostre voci vagavano solitarie per i corridoi deserti. «Sì… non voglio amarti sapendo che un giorno non potremo più stare insieme» Altre lacrime le bagnarono il volto. Lacrime fredde, gelide. La abbracciai e per un po’ non dissi nulla. La tenni stretta. Il volto po-sato contro i suoi capelli, i cuori talmente vicini da battere allo stesso ritmo. «Io non ti lascerò mai» le sussurrai vicino alle orecchie. Con una carez-za tolsi le ultime lacrime che le coprivano le guance, e ripetei la frase senza staccarle gli occhi di dosso. «Non ti lascerò mai»

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Chi lo fece per primo non lo so, ma ci baciammo di nuovo. Le labbra di Angela si unirono alle mie, il sapore delle lacrime salate, il calore, la bellezza. Chiusi gli occhi.

*** Siamo entrati in classe in ritardo. La lezione di letteratura era già inizia-ta e la professoressa ci lanciò una smorfia di disapprovazione appena ci vide. Scrisse qualcosa sul registro e tornò alla spiegazione. Io e Angela ci sedemmo al solito banco del giorno prima. Stavolta più vicini. Fingendo di ascoltare la storia del decadentismo francese che la professoressa spiegava con estrema precisione. Ripensavo a ciò che era appena accaduto. E, sono convinto, Angela fece lo stesso. Aveva gli occhi persi nel vuoto, a fissare la lavagna sporca di gesso. Ci guardavamo e ci perdevamo negli sguardi. «Edgar» mi richiamò la professoressa, facendomi voltare di scatto. L’espressione severa che mostrava al di là della cattedra incuteva timo-re «Dato che sei così attento perché non mi ripeti che rapporto avevano gli scrittori come Baudelaire o Oscar Wilde con i temi romantici?» Se fossi stato intelligente come Alan non avrei avuto problemi a ri-sponderle. Purtroppo io ero Edgar, e non andavo molto d’accordo con lo studio. E, se non fosse stato per Angela che rispose al posto mio, sa-rei dovuto rimanere in silenzio finché la professoressa non si fosse stancata di tormentarmi. «L’amore degenera nelle passioni, nelle depravazioni, nel gusto di tutto ciò che è proibito e sregolato. In alcuni casi può diventare perverso e sadico, spinto fino ai limiti della comprensione umana. È un amore a un livello molto più alto di quello che normalmente è… dovrebbe essere questa la risposta» «Ottimo, signorina Ros» Ero salvo. Le bisbigliai un grazie e aspettai la fine dell’ora per dirle tut-to il resto. Non volevo che la professoressa mi interrompesse dai pen-sieri che mi ronzavano in testa. Erano i più belli che avessi mai fatto. Perciò continuai a fingere di ascoltarla, prestando attenzione a nes-sun’altra che alla ragazza che mi sedeva al fianco. Dopo scuola tornammo a casa insieme, sotto un cielo ricoperto da nu-vole bianche. Il vento ci sfiorava i capelli, e gli zaini che portavamo in spalla ci facevano sentire più pesanti.

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«Vediamoci stasera» le dissi, una volta giunti sotto il portico di casa sua. «Sì» di nuovo quel tono freddo nella voce, una nota malinconica che le uscì dalla bocca. E, con la stessa malinconia, la lasciai e me ne andai a pranzo, nell’attesa di rivederla. «Ci vediamo dopo» le parole rimasero sospese nel vento, nella speranza che si dirigessero da lei.

*** Ero felice. Controllavo continuamente l’orologio, aspettando i rintocchi delle lancette, il calare della notte, il tramonto. Appena finii di mangia-re, Alan mi bussò alla porta, riportandomi alla realtà, fuori dai pensieri che mi inghiottivano. «Ti disturbo?» «No, vieni» lo feci entrare e richiusi la porta alle sue spalle. «Cosa stavi facendo?» «Niente di interessante. Ammazzo il tempo» «Ti auguro di ucciderlo» mi disse Alan. Raramente gli sentivo fare delle battute, lui che trovava divertente cal-colare la radice quadrata del pi greco e applicare il teorema di Pitagora ai tramezzini al tonno. Doveva significare che era felice, proprio come me. «Ti va qualcosa da mangiare?» andammo in cucina e esplorai il frigo alla ricerca di un po’ di dolciumi. Riuscii a trovare una barretta al cioc-colato e la diedi ad Alan. «Grazie, mi era giusto venuto un po’ di appetito» la scartò dalla confe-zione e la mangiò in pochi bocconi «Senti, Edgar, sono venuto da te perché ti volevo parlare…» «Dimmi tutto» Lo ascoltai. «Tu sai che non sono molto bravo con le ragazze… insomma non è che ci so proprio fare… Ma ora credo di averne trovata una che non posso lasciarmi sfuggire, e ti chiedo un aiuto» Si sentiva nervoso e insicuro, lo capii dalla voce. Esattamente le stesse sensazioni che avevo provato parlando con Angela quella mattina d’estate. «Certo che ti aiuto, che amico sarei sennò. Ma chi è questa ragazza?» «Angela Ros. Mi sono innamorato appena l’ho vista» Mi sono innamorato appena l’ho vista…

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È difficile descrivere con semplici parole quello che mi pervase, le e-mozioni furono di rabbia e tristezza, nere e bianche. Come poteva non sapere che io ero innamorato di lei, ancora prima che lui la conoscesse. Mi sentivo furibondo e distrutto. L’irrefrenabile voglia di dargli un pu-gno dritto in faccia e dirgli di lasciarla in pace, di non pensare più a lei, di non rivolgergli nemmeno la parola, di dimenticarla. Rimasi immobile. «Non è bellissima?» insistette Alan. «Si… è certamente la ragazza più bella che abbia mai visto» «Lo sapevo» si stampò un sorriso sulla faccia «Mi devi assolutamente aiutare. Io non ho la minima idea di come si faccia la corte ad una ra-gazza e non voglio fare brutte fig…» «Ho da fare delle cose adesso, è meglio se te ne vai» lo interruppi, invi-tandolo ad uscire. Non aggiunsi altro. Parlare è difficile in certe occa-sioni. Ti spezza il cuore. Se ne andò, lasciandomi solo. Ora, che aveva gettato una macchia tra i miei pensieri, la vedevo espandersi e corrodere ciò che di luminoso prima mi abbagliava. E fino all’avvento della notte potei percepire la rabbia marcire in me, fino a che il buio non mi circondò completamen-te, e allora la luminosità non ancora sbiadita si mostrò in tutto il suo splendore. Incontrai Angela nel viottolo davanti al giardino di casa. L’espressione severa e triste nei suoi occhi giunse fino a me, il suo rammarico, la pau-ra, fu impossibile fingere di non accorgermene. «Stai bene?» «Sì» «Dall’aspetto non si direbbe» Era stanca e affaticata, come se non riposasse da giorni. «C’è una cosa di cui non ti ho parlato…» respirò più velocemente, riu-scivo a sentirlo «Non è la prima volta che mi trasferisco in un’altra cit-tà. Vedi… mio padre è un militare, e per motivi di lavoro deve trasferir-si spesso, e io sono costretta a cambiare città, a cambiare amici, a cam-biare vita ogni volta… e non so quanto tempo rimarrò qui. Forse un giorno dovrò andarmene di nuovo, e a quel punto…» ripeté l’ultima pa-rola un paio di volte, ad occhi lucidi, come se non volesse credere a ciò che stava per dire «A quel punto non potremo più stare insieme Sarebbe meglio non cominciare nemmeno questa storia. Soffriremo meno…» «Guarda come brillano le stelle» le dissi io, alzando lo sguardo. Lei fe-ce lo stesso «Alcune di loro sono morte, eppure la luce che hanno ema-

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nato non si è ancora spenta… se una stella può continuare a vivere dopo la morte, niente può impedirmi di stare con te. Quanto lontana tu possa mai essere, il mio amore ti raggiungerà sempre» Le presi una mano e con l’altra le tolsi una ciocca di capelli dal volto. La tenni stretta a me per il resto della sera. Non feci caso al freddo, né al mondo che mi circondava, o ai miei stessi pensieri. Avevo già qual-siasi cosa potessi volere, infinitamente migliore di ogni altro desiderio. Alcune lacrime sono belle, perché sono felici, e dolci, e calde, perfino in grado di riflettere i sette colori dell’arcobaleno. E furono quelle le lacrime che ci bagnarono la faccia, scivolando su di noi per poi cadere a terra. «Non ho mai avuto un ragazzo come te» «Spero sia un complimento» «È più di un complimento. Io ti amo»

*** Il sogno che feci quella notte fu identico alla realtà. Lo ricordo nei mi-nimi dettagli, e ripensandoci mi pare di rivivere per la seconda volta quel momento. Mi svegliai dopo l’immagine dell’ultimo bacio, col suo sapore sulle labbra. Tra le mani sentivo il calore che la sera prima mi aveva riscal-dato, e il cuore che continuava a battere intensamente, e scalpitava, cer-cando di uscire dal petto. Colpi veloci e forti, delle martellate che mi rimbombavano all’interno. «Mi ero ripromessa che non mi sarei innamorata più di nessuno» mi disse lei, quando ancora le lacrime le appannavano gli occhi. «Non è una promessa facile da mantenere» «No… infatti» Mi raccontò della sua precedente vita, nel Maine. «… dove vive Stephen King» aggiunse subito. E mi raccontò del suo primo amore, finito con un addio. «Me ne sono andata molte volte da molti posti, e ho lasciato molte per-sone» «Ma ora sei qui, con me» le dissi io «E non permetterò che tu te ne va-da» Ascoltai le sue tristi parole, alcune talmente distanti dai ricordi da farmi sgomentare al pensiero che io stesso sarei potuto diventare uno di quel-li. Un ricordo sfuocato, un fiore appassito nel giardino della dimenti-

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canza. E lei la mia rosa, la mia unica rosa, che mai avrebbe smesso di essere rossa.

*** A scuola la baciai. Fu la prima cosa che feci appena la vidi. Nemmeno le due ore di biologia che mi attendevano riuscivano ad intimorirmi, ora che Angela mi teneva la mano. E insieme percorremmo il corridoio fino al suo armadietto. La aiutai a prendere i libri, quei grossi libri pesanti che nessuno vorrebbe mai dover studiare. «Perché non ce ne andiamo?» le dissi. «E dove vorresti andare?» Quanto mi piaceva ascoltare la sua voce, così piena di vita. «Sono molti i posti dove vorrei andare con te…» pensai a quale fosse il più bello, ma tutti sarebbero stati i più belli del mondo con lei. Non po-tevo immaginarmi una spiaggia, un parco, o un tramonto senza la sua immagine davanti. Sarebbe stato lo stesso che immaginare un oceano senza acqua. «Quindi hai intenzione di marinare la scuola…» «Sì… era questa l’idea» Ripose i libri che aveva appena preso in un angolo dell’armadietto. Sor-ridendo, mi rivolse uno sguardo pieno di gioia e io feci lo stesso. Rag-giunsi lì il picco massimo di felicità consentitomi. Ora non mi rimaneva che da scendere, da cadere in basso, nella tristezza. «Edgar…» Mi voltai. Era Alan. «Edgar… cosa stai facendo?» Aveva gli occhi puntati dritti all’altezza dei fianchi, dove la mia mano si incrociava con quella di Angela. Le dita intrecciate l’una all’altra. «Alan, amico, devi sapere una cosa…» «No» non lo avevo mai visto con quella faccia. Pareva una maschera prima che un volto umano «Non devi chiamarmi amico» I suoi occhi mi spaventavano. Erano gli occhi di chi non riusciva a cre-dere a ciò che vedeva. Spalancati, contriti, morti. Provai a parlargli. «Non sono riuscito a dirtelo, non volevo rovinare la nostra amicizia…» «È troppo tardi per questo, ormai» Ciao, io sono Edgar. Come ti chiami? Alan

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Ciao Alan, ti va di sederti accanto a me? Si. Non mi fai i dispetti, vero? No, voglio essere tuo amico «Aspetta…» Se ne era già andato. L’amicizia di tanti anni dissolta in un solo istante.

*** FINE ANTEPRIMACONTINUA...