L’ORA DELLE EVIDENZE DAL MONDO REALE

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THE FUTURE OF MEDICINE POWERED BY PFIZER ITALIA Se paragonassimo i partecipanti di un trial clinico a uno schieramento ordina- to di soldatini omogenei, allora la pratica clinica reale somiglierebbe piuttosto a un campo di battaglia: uno scenario complesso, confuso, in cui le condizioni sono tutt’altro che ideali o standardizzabili. Eppure, nonostante il caos intrin- seco, basare la ricerca medica su ciò che davvero accade al di fuori degli studi randomizzati è una strada sempre più promettente. Soprattutto da quando, a metà degli anni Dieci, si è iniziato a proporre un cambio di paradigma da una medicina basata sulla sola evidenza scientifica verso una basata anche sul valore. Vale a dire, in cui alle migliori soluzioni di salute indicate dalla letteratura e dalla competenza medica si è affiancato il concetto di paziente-centrismo e del prendersi cura delle persone, ottenendo anche una diminuzione dei costi a carico del sistema sanitario e una tendenza verso la medicina per- sonalizzata. Come ha proposto l’economista statunitense Michael Porter davanti alla società di on- cologia medica Asco nel 2015, l’obiettivo di salute globale è costruire una piattaforma abili- tante che permetta di avere per tutti le migliori cure, a partire da un sistema di misura dei risultati ottenuti – e dei costi sostenuti – da ciascun paziente. E già qualche mese prima, nel giugno del 2014, con un editoriale firmato da Sebastian Schneeweiss il New England Journal of Medicine aveva esplicitato come il successo delle evidenze del mondo reale non risieda tanto nel raccogliere grandi quantità di dati, quanto nel tradurli in indicazioni concrete che migliorino i trattamenti da offrire ai pazienti. Su cosa si debba intendere con l’espressione Real World Data (Rwd), le versioni sono diverse. Di certo si tratta di informazioni raccolte da una molteplicità di fonti, dai registri elettronici ai reclami, dai dati generati a casa dalle persone a qualunque traccia che, nel pro- prio percorso di cura, il paziente lasci dietro di sé, anche in termini di beneficio percepito. A cui si unisce, come elemento imprescindibile, una piattaforma di big data strutturata per trasformare dati di qualità in evidenze significative. “Pensavamo [che con i Real World Data] sarebbe stato facile, come premere un pulsan- te”, ha ammesso già nel 2015 in una celebre frase Marcia A. Kean della Feinstein Kean He- althcare, “invece il problema con i dati del mondo reale è proprio il mondo reale”. In effetti, la parola dato evoca l’idea di qualcosa di semplice, di immediato, e non a caso c’è chi per INDICE REAL ITALY DATA P.2 LE PROMESSE DEI NUOVI ALGORITMI P.3 COMPLEMENTARI E INTELLIGIBILI P.4 IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE ALLA PROVA DELL’INNOVAZIONE P.5 L’AIUTO DEL DIGITALE PER LA RICERCA CLINICA P.6 RIPARTIRE DALL’INTELLIGENZA AUMENTATA P.7 S L’ORA DELLE EVIDENZE DAL MONDO REALE L’approccio Real World Data, ossia la ricerca clinica basata sull’osservazione, è un metodo recente ma irrinunciabile per fare scienza medica. C’entrano big data e intelligenza artificiale, ma soprattutto la capacità scientifica di gestire un nuovo modello di ricerca. PROSPETTIVE Come possiamo sfruttare al meglio le potenzialità della digital health e dei dati raccolti dal mondo reale? Attorno a questa domanda è stato costruito TheBigDate, un evento promosso da Pfizer per comprendere l’evoluzione della pratica clinica attraverso le promesse della tecnologia. In questo speciale tabloid vi raccontiamo le conclusioni, grazie a interviste agli ospiti e approfondimenti sul tema. HEALTHCARE EDITION

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THE FUTURE OF MEDICINE

POWERED BY PFIZER ITALIA

Se paragonassimo i partecipanti di un trial clinico a uno schieramento ordina-to di soldatini omogenei, allora la pratica clinica reale somiglierebbe piuttosto a un campo di battaglia: uno scenario complesso, confuso, in cui le condizioni sono tutt’altro che ideali o standardizzabili. Eppure, nonostante il caos intrin-seco, basare la ricerca medica su ciò che davvero accade al di fuori degli studi

randomizzati è una strada sempre più promettente. Soprattutto da quando, a metà degli anni Dieci, si è iniziato a proporre un cambio di paradigma da una medicina basata sulla sola evidenza scientifica verso una basata anche sul valore. Vale a dire, in cui alle migliori soluzioni di salute indicate dalla letteratura e dalla competenza medica si è affiancato il concetto di paziente-centrismo e del prendersi cura delle persone, ottenendo anche una diminuzione dei costi a carico del sistema sanitario e una tendenza verso la medicina per-sonalizzata.

Come ha proposto l’economista statunitense Michael Porter davanti alla società di on-cologia medica Asco nel 2015, l’obiettivo di salute globale è costruire una piattaforma abili-tante che permetta di avere per tutti le migliori cure, a partire da un sistema di misura dei

risultati ottenuti – e dei costi sostenuti – da ciascun paziente. E già qualche mese prima, nel giugno del 2014, con un editoriale firmato da Sebastian Schneeweiss il New England Journal of Medicine aveva esplicitato come il successo delle evidenze del mondo reale non risieda tanto nel raccogliere grandi quantità di dati, quanto nel tradurli in indicazioni concrete che migliorino i trattamenti da offrire ai pazienti.

Su cosa si debba intendere con l’espressione Real World Data (Rwd), le versioni sono diverse. Di certo si tratta di informazioni raccolte da una molteplicità di fonti, dai registri elettronici ai reclami, dai dati generati a casa dalle persone a qualunque traccia che, nel pro-prio percorso di cura, il paziente lasci dietro di sé, anche in termini di beneficio percepito. A cui si unisce, come elemento imprescindibile, una piattaforma di big data strutturata per trasformare dati di qualità in evidenze significative.

“Pensavamo [che con i Real World Data] sarebbe stato facile, come premere un pulsan-te”, ha ammesso già nel 2015 in una celebre frase Marcia A. Kean della Feinstein Kean He-althcare, “invece il problema con i dati del mondo reale è proprio il mondo reale”. In effetti, la parola dato evoca l’idea di qualcosa di semplice, di immediato, e non a caso c’è chi per

INDICE

REAL ITALY DATA

P.2

LE PROMESSE DEI NUOVI ALGORITMI

P.3

COMPLEMENTARI E INTELLIGIBILI

P.4

IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE ALLA PROVA DELL’INNOVAZIONE

P.5

L’AIUTO DEL DIGITALE PER LA RICERCA CLINICA

P.6

RIPARTIRE DALL’INTELLIGENZA AUMENTATA

P.7

S

L’ORA DELLE EVIDENZE DAL MONDO REALEL’approccio Real World Data, ossia la ricerca clinica basata sull’osservazione,

è un metodo recente ma irrinunciabile per fare scienza medica. C’entrano big data e intelligenza artificiale, ma soprattutto la capacità scientifica di gestire un nuovo modello di ricerca.

PROSPETTIVE

Come possiamo sfruttare al meglio le potenzialità della digital health e dei dati raccolti dal mondo reale? Attorno a questa domanda è stato costruito TheBigDate, un evento promosso da Pfizer per comprendere l’evoluzione della pratica clinica attraverso le promesse della tecnologia.

In questo speciale tabloid vi raccontiamo le conclusioni, grazie a interviste agli ospiti e approfondimenti sul tema.

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Diritto alla privacy, etica della scienza e pratica clinica: i real world data, nel nostro paese e nel resto del mondo, si intrecciano

con questioni normative, economiche e di metodo.

PRIVACY

L’Italia ha una tradizione di lungo corso nell’uso virtuoso delle in-formazioni sanitarie, ma utilizzare i dati del mondo reale nel mon-do reale non è semplice. Ce ne parla Giovanni Corrao, docente di statistica medica all’università di Milano-Bicocca, per fare il pun-to su come stia evolvendo la cultura del dato.

Quanta consapevolezza c’è oggi sull’importanza dell’ap-proccio real world data?Tanto nella ricerca quanto nelle istituzioni c’è eterogeneità, an-

che a seconda dell’area e del dominio clinico. L’oncologia, nonostan-te ottimi esempi, è in gran parte rimasta fuori da questo filone, con i ricercatori ancora legati all’esclusività dei trial clinici. Le ragioni – ben comprensibili – sono di tipo organizzativo e pratico, perché gli studi osservazionali che partono dai real world data utilizzano in modo retrospettivo informazioni che già esistono e sono spesso no profit. In un trial clinico, invece, ogni paziente arruolato è un pro-fitto per la struttura sanitaria. Quello che si propone, però, non è di abbandonare i trial clinici, ma di affiancare ciò che già c’è con studi basati su dati del mondo reale.

Tra trial clinici e studi real world data ci sono differenze, scientifiche e di impostazione?A oggi è ancora forte il mito della randomizzazione: dà delle

garanzie, certo, ma nessuno propone di sostituire un trial clinico randomizzato con uno studio osservazionale, bensì di aggiungere informazioni che non si potrebbero avere altrimenti. In un trial cli-nico il tempo di osservazione è breve, e per i farmaci innovativi le conoscenze sono spesso non mature: per questo non può rimanere l’unico approccio di ricerca.

I segnali delle istituzioni indicano un interesse per i dati del mondo reale, ma le questioni di privacy impediscono di allargare l’accesso ai dati. Si apre un mondo di interpretazioni normative, in cui però si palesa la scarsa sensibilità sull’utilità che i dati possono avere per la sanità pubblica. Senza scordare che i dati hanno un va-lore, e chi li possiede ha poca propensione a condividerli.

Il riferimento è alla situazione del nostro paese?Sono temi globali, ma il problema è più sentito nei paesi con

un’economia forte, come l’Italia. Tra Unione europea e Stati Uniti c’è differenza: noi abbiamo una normativa che, sulla carta, garantisce la privacy, ma che ha innescato problematiche ancora senza risposte adeguate. L’Italia ha una miniera d’oro di dati, vista la tradizione più che trentennale in questo settore, e abbiamo centri di epidemiolo-gia che fanno scuola del mondo, dall’Agenzia italiana del farmaco all’Istituto superiore di sanità. Il problema è superare lo scoglio che

la privacy pone quando viene scambiata per garanzia assoluta. Per consentire l’accesso a dati che riguardano trattamenti, malattie e interventi dovrebbe bastare anonimizzare l’informazione, ed è già possibile al 99% con tecnologie d’avanguardia.

Dove sta allora il problema dell’accessibilità dei dati, all’at-to pratico?Come singolo cittadino, se autorizzo a usare i miei dati – di cui

sono l’unico proprietario – voglio la garanzia che siano sfruttati nel modo migliore e più adeguato per produrre nuova conoscenza. È una questione etica, che però pare a volte scordata.

La normativa vigente offre ampie garanzie, e ha come premessa la libera circolazione dei dati nella Comunità europea, ma il modo in cui viene interpretata nel nostro paese non è chiaro, né univoco. Abbiamo 21 versioni diverse, una per ciascuna regione e provincia autonoma: o usciamo da questa impasse o non ce la facciamo, e ser-ve una voce istituzionale forte che uniformi le regole di accesso.

L’Italia sta mantenendo alta la propria tradizione?Cito un caso paradigmatico che mi riguarda: nel luglio 2020 ho

presentato all’Istat un progetto – Alert Cov – per identificare preco-cemente i focolai di Covid-19 su scala micro-territoriale, fino al livel-lo di condominio. Il progetto è stato valutato e approvato, ma siamo ancora bloccati perché il garante della privacy teme che il processo possa includere l’accesso a dati sensibili e riservati, nonostante le garanzie fornite. Si stanno confrontando due punti di vista diver-si, ma al di là di chi ha ragione c’è nel mezzo la salute pubblica: se il progetto fosse autorizzato potremmo intervenire dove un focolaio sta per esplodere, non dove c’è già.

Finché non avremo una norma ben scritta, l’opportunità del mare di dati esistenti andrà persa, in senso economico, culturale, generazionale e come capacità di trasformare i dati in conoscenza.

Oltre ad avere dati affidabili, bisogna usarli bene: come ce la stiamo cavando?Il punto critico è spesso l’utilizzo, perché abbiamo esempi an-

che recenti di dati con qualità ottima ma male interpretati. Parlan-do di Covid-19, quando sentiamo dire da politici, critici d’arte e per-sino scienziati che l’Italia ha avuto una letalità superiore agli altri paesi, ventilando che da noi si curi peggio la malattia, è una bufala. I dati non sono comparabili. In Russia le linee guida stabiliscono che un decesso è Covid-19 se c’è un reperto autoptico. In Belgio lo è qua-lunque caso in cui il medico abbia un sospetto. In Italia occorre un tampone positivo refertato. La qualità del dato è sempre ottima, ma i confronti non hanno senso.

REAL ITALY DATA

enfatizzare la complessità che ci sta dietro preferisce parlare di Real World Evidence. Un dato in sé e per sé non è un’informazione, ma è solo trattando, processando e analiz-zando dei dati che possono emergere con-clusioni ed prove.

Proprio il tema della credibilità di que-ste evidenze, insieme a quello della privacy e dell’accessibilità dei dati sanitari indivi-duali, rappresenta il principale elemento di critica all’approccio Real World Data. Ma sull’altro piatto della bilancia ci sono l’e-normità di dati disponibili o raccoglibili, la possibilità di fare riferimento per tempi più lunghi a gruppi di pazienti più ampi rispet-to a uno studio randomizzato, e soprattutto l’opportunità di intervenire sulla pratica clinica anche al di là del singolo farmaco o trattamento, migliorando l’outcome finale del paziente.

Alla comunità scientifica tutto ciò ap-pare sempre più chiaro: basta notare cosa sta accadendo al cosiddetto propensity sco-re, un parametro statistico che permette di dividere a posteriori i pazienti di uno studio osservazionale Real World Data in due grup-pi, per verificare se esista o meno un nesso di causa-effetto tra trattamento e beneficio. Nel 1985 era completamente assente dalla letteratura scientifica, nel 2000 si contava in una ventina di pubblicazioni all’anno, e nel 2020 è stata superata quota 6mila.

Come suggerisce chi di Rwd si occupa, ciò che serve per arrivare a una buona pra-tica clinica è il rigore. Che non vuol dire ri-correre a modelli sempre più sofisticati di apprendimento automatico, ma significa anzitutto avere un metodo, ricorrere a un processo logico formale che, a partire da un quesito scientifico, preveda e pianifichi mo-di per tenere conto dei fattori confondenti e delle fonti di incertezza, casuale e sistema-tica.

In termini di prospettive, la ricerca basata sul mondo reale può beneficiare di un’ampia disponibilità di dati di buona qua-lità, più che sufficienti come materia prima su cui lavorare per monitorare e valutare i percorsi di cura seguiti dai pazienti. Tut-tavia, resta il punto critico del rendere ac-curata l’osservazione delle prove, visto che c’è ancora un giustificato scetticismo sulla possibilità di generare davvero evidenze af-fidabili.

Contro la vulnerabilità agli errori si-stematici esistono già strumenti e algoritmi capaci di tenerne conto. Aggiungendo al po-tere dell’intelligenza artificiale la possibi-lità di raccogliere e collegare tra loro flussi amministrativi, dati strutturati come i regi-stri e un’enorme mole di dati non strutturati come immagini, biomarcatori, testi scritti, informazioni raccolte dai dispositivi wea-rable e non solo. Più in generale, ciò di cui la medicina basata sul mondo reale ha bisogno è la definizione di protocolli di ricerca: non si tratta di rivoluzionare la pratica corren-te, ma di adattarsi a un contesto cambiato, con norme condivise per generare evidenze scientifiche utili alle persone.

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UN PROGETTO DI WIRED ITALIA POWERED BY PFIZER ITALIA TESTI DI GIANLUCA DOTTIE ALICE PACE

> SEGUE DALLA PRIMA

INTERVISTA A: GIOVANNI CORRAO

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Siamo solo agli albori dell’applicazione al mondo della salute delle potenzialità high tech, tra intelligenza artificiale e super capacità computazionale. Ma l’impatto che si genera è tale da cambiare

volto alla sanità, a partire dalla ricerca scientifica e fino alle competenze mediche.

SFIDE

COME (E DOVE) CRESCE L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NELLA RICERCA MEDICA

STUDI PER SPECIALITÀ

Con più di 660 milioni di follower, Xiaoice è la poetessa più seguita al mondo, ed è un’intelligenza artificiale. Nei Paesi Bassi hanno mostrato i dipinti di Rem-brandt a un algoritmo, che usando la stampa 3D ha poi creato un nuovo dipinto, indistinguibile da un Rembrandt autentico secondo i critici d’arte. Poesia, pit-tura e musica sono già tra le attività che un’intelligenza artificiale può svolgere

con successo, destando meraviglia, curiosità o magari spavento. Ma cosa accade quando questa straordinaria potenza viene applicata al mondo della salute?La medicina è uno degli ambiti in cui i cambiamenti sono più profondi. L’apprendimento automatico permette di arrivare a una diagnosi a partire da immagini radiografiche o d’altro genere, con una capacità che in ambiti specialistici come la dermatologia o l’onco-logia è già confrontabile con quella dei medici. La capacità predittiva intrinseca dei mo-delli di data analysis anticipa l’esito probabile degli interventi terapeutici. La potenziali-tà di simulare processi biochimici su scala micro e nanometrica consente di prevedere il processo di ripiegamento 3d di una proteina, o di eseguire test preliminari su potenziali molecole farmacologiche senza dover condurre studi in vitro o su modelli animali.

Nel mondo c’è una fioritura di grandi aziende e startup che si sono inventate i modi più disparati per fare incontrare tecnologia e salute. Per ridurre gli errori diagnostici, per mo-nitorare tramite device indossabili i parametri clinici e i sintomi – così da identificare pre-cocemente patologie e campanelli d’allarme – o per affiancare gli specialisti al microscopio e analizzare il contenuto di un vetrino.

Eppure, quando si parla di intelligenza artificiale, talvolta si pensa ancora al preistori-co computer Deep Blue che nel 1997 ha battuto il campione mondiale di scacchi Garri Kaspa-rov. Il vero cambio di passo è stato solo nell’ultimo lustro: nel 2016 l’algoritmo Alpha-Go si è auto-addestrato e poi ha battuto il campione di Go, un gioco miliardi di volte più complicato degli scacchi. Nello stesso anno si è raggiunta la parità uomo-macchina nel riconoscimento visivo degli oggetti, poi nella comprensione del parlato, e infine nel rispondere a domande oggettive. Com’è accaduto per l’elettricità, l’intelligenza artificiale è stata usata prima per fare meglio le cose di sempre, quindi per trasformare il mondo. In futuro sarà ovunque, dal lavoro alla mobilità, dalla casa al tempo libero e alla pubblica amministrazione, fino alla cu-

ra della persona e alla sanità pubblica. Tra le conseguenze che questo passaggio porta con sé c’è la trasformazione di attività e lavori: prima ne spariranno e poi se ne creeranno di nuovi con competenze diverse, in fabbrica come in corsia, nel marketing come in un labora-torio di ricerca.

Oltre a farci comunicare con i computer e prendere decisioni migliori, l’intelligenza ar-tificiale sta dando alle macchine la capacità percettiva, con applicazioni dalle automobili a guida autonoma alla diagnostica clinica. In un progetto per non vedenti, un’intelligenza ar-tificiale montata sugli occhiali o su uno smartphone può vedere il mondo e comunicare a li-vello uditivo cosa stia accadendo. Può avvisare di un pericolo, o leggere un menù. La persona ipovedente che l’ha sviluppato lamentava di non sapere come le persone reagissero a quello che diceva, mentre ora può avere una vita sociale migliore e più ricca.

E non finisce qui: in sanità e non solo, l’intelligenza artificiale è ottima per trovare cor-relazioni e pattern, superando l’incapacità innata umana di pensare in modo statistico, fa-cendo emergere nuove evidenze scientifiche.

Guardando più in là, computer potenti, enormi quantità di dati e algoritmi basati su reti neurali stanno facendo entrare in un percorso accelerato, con una crescita esponenziale di applicazioni e risultati. Il prossimo limite da affrontare è di tipo fisico, perché i transistor sono già grandi pochi nanometri, 500 volte più piccoli di un globulo rosso, e arrivano al sin-golo atomo. La risposta sono i computer quantistici, che processeranno in pochi minuti (o forse secondi) algoritmi che ora richiederebbero più tempo della vita dell’universo. In ter-mini di salute, ciò che la computazione quantistica potrà abilitare è anzitutto un migliora-mento ulteriore nella capacità di diagnosi, poi la realizzazione della medicina di precisione e personalizzata, e pure l’ottimizzazione dei flussi economici e dei rischi, con effetti che spa-ziano dai prezzi dei trattamenti alla gestione delle assicurazioni sanitarie.

La grandiosa potenza di calcolo si sposerà con quantità impressionanti di dati: per questo si sta lavorando a nuovi tipi di salvataggio, come il DNA sintetico, che è la forma più efficiente dell’universo nota agli esseri umani, con cui si potrà salvare in un centimetro cubo ciò che oggi occupa i più grandi data center al mondo, e con una persistenza di mi-gliaia di anni.

C

LE PROMESSE DEI NUOVI ALGORITMI

L’Ai influenzerà in modo sempre più decisivo la pratica medica e l’assistenza sanitaria: basta guardare l’impennata delle pubblicazioni scientifiche su PubMed a tema machine o deep learning negli ultimi anni. Grande l’impatto sullo studio dell’origine delle malattie, in diagnostica e anche sulla lotta ai tumori.

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Medicina dello sport

Oncologia

Assistenza sanitaria di

base

Medicina d’urgenza

Chirurgia

Odontoiatria Gastroenterologia Oftalmologia

Radiologia

Pediatria Cardiologia Neurologia

Patologia

Pneumologia Endocrinologia Dermatologia

Psichiatria

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Accorciare le distanze tra paziente e medico, e tra paziente e cura, dove sembravano insormontabili. Riorganizzare gli indizi sui segni di malattie enigmatiche, come le tessere di un puzzle che rivelano il quadro completo. E infine coinvolgere nella ricerca della migliore terapia le persone valorizzando le differenze di età, sesso, genere, etnia e stato sociale. Grazie agli strumenti di salute digitale e sfruttando a pieno regime il potenziale dei Real World Data (Rdw) è questo il mondo che possiamo immaginare nel prossimo futuro, con un impatto su diagnosi, cura, ma anche sulla stessa ricerca clinica, che rappresenta per alcune categorie di pazienti e cittadini un’opportunità senza precedenti: una maggior inclusione. È il caso di chi ha una malattia rara, che spesso si ritrova senza un trattamento e, vista la ridotta mole di esperienza e di evidenze maturate, a non ricevere a volte nemmeno una diagnosi. Ed è anche il caso delle persone storicamente sottorappresentate nella ricerca e nei trial clinici, come le donne e alcuni gruppi di popolazione, per esempio neri e latini.Per le malattie rare, quelle con meno di cinque casi su 10.000 persone, il vantaggio di strumenti che garantiscano anche a distanza una forma di assistenza sanitaria non è difficile da immaginare. Si tratta della reale possibilità di superare, con app e dispositivi, la lontananza fisica che intercorre tra il malato e, per esempio, la clinica specializzata più idonea, difficilmente sullo stesso territorio. Ma anche – e questo non solo per patologie poco diffuse ma per tutte le malattie croniche, come i tumori – in un supporto costante e durevole nel tempo. Al di là dell’assistenza, con l’avvento del digitale e degli studi di Rwd sulle malattie rare è anche la ricerca a uscirne rivoluzionata. Con l’approccio degli studi tradizionali risulta molto difficile reclutare un numero adeguato di candidati per le sperimentazioni; adottando invece i nuovi metodi diventa più facile entrare in contatto con i pazienti là dove si trovano, e raggiungere numeri critici. L’ultimo anno ha visto diversi e incoraggianti lavori nel campo, per esempio sull’utilizzo di un registro di evidenze prese in contesti di real life sull’atrofia muscolare spinale, oppure la raccolta di Patient Report Outcome attraverso un’app per indagini sulla beta talassemia.Il set ideale per la dimostrazione di sicurezza ed efficacia di terapie e interventi sono gli studi randomizzati controllati, con cui definiamo le linee guida per la prescrizione, la rimborsabilità e in generale tutti gli standard per la cura. La volontà di semplificazione mirata a escludere ulteriori variabili in un sistema già di per sé estremamente complesso come il nostro organismo, ha fatto sì che i criteri di inclusione di questi studi fossero incentrati prevalentemente sul maschio bianco. Le recenti e ormai innegabili differenze tra il corpo di maschi e femmine, così come tra persone che appartengono a gruppi di popolazione differenti, hanno però messo in luce l’eventualità che i risultati ottenuti dalle sperimentazioni possano non riflettere le reali necessità di tutti, e messo in moto una ridefinizione dei criteri in un’ottica di maggior inclusione. Sarà necessario ripartire da zero per ciascuna categoria finora non rappresentata? No, se recuperiamo in corsa grazie alla disponibilità attuale di Rwd, che possono fornire un contributo sostanziale nel colmare lacune di informazioni su questi sottogruppi, per esempio risalendo con informazioni raccolte nel real world agli effetti di un trattamento su larga scala. E se è vero che le variabili sono tante e che appare ancora impossibile riuscire a contenerle tutte, che la ricerca stia andando in questa direzione è un segnale importante.

Strumenti digitali e Rwd per una medicina più inclusiva

Più gli algoritmi si fanno sofisticati e più è decisivo discutere di responsabilità del medico, non solo legali ma anche etiche e cliniche: come regolare

al meglio il rapporto tra sanità e intelligenza artificiale?

LIMITI

Tecnologia e pratica medica formano sempre più un tutt’uno, con un impatto concreto su salute e benessere delle persone. La ri-flessione sul futuro dell’intelligenza artificiale parte dalla sanità, ma tocca la società per intero. Ecco la visione di Fabio Moioli, diret-tore di Microsoft Consulting e membro del Forbes Tech Council.

Fabio Moioli, cosa ne pensa della penetrazione della tecno-logia, in ambito medico e non?Tecnologie potenti possono creare preoccupazione, e qualcuno

si immagina o teme un futuro alla Terminator. Leggendo i giornali, però, viene da pensare che il più grande rischio che stiamo corren-do non sia dovuto all’intelligenza artificiale, bensì al suo opposto: la stupidità naturale. L’intelligenza artificiale stessa sta però di-ventando sempre più potente, capace di cose che sembravano fanta-scienza fino a pochi anni fa. E allora si fa decisiva la nostra respon-sabilità nell’usarla, in senso etico, critico e nel dare senso a ciò che l’algoritmo fa.

Che direzione sta prendendo lo sviluppo high tech, e cosa ci aspetta?Non ne ho la minima idea. Le traiettorie tecnologiche sono intu-

ibili, ma le tecnologie potranno essere persino più spinte di quanto pensiamo e, soprattutto, il loro uso dipenderà da noi. Il modo mi-gliore di prevedere il futuro è crearlo, e sta a noi scegliere se avere un mondo migliore o peggiore. Il tema non sono le soluzioni più o meno sofisticate, ma creare strutture che rendano gli esseri umani più intelligenti in quello che fanno.

Qual è allora il nostro impatto, come persone e società, nel determinare il futuro?Per molto tempo ancora saremo noi umani a creare le tecno-

logie, e non sempre con successo. Decideremo se e come usarle, e soprattutto come distribuirne i benefici. L’agricoltura di precisio-ne aumenta la produttività con meno acqua e pesticidi, ma poi sta a noi decidere cosa fare del cibo e se farlo avere a tutti. Inoltre, sare-mo noi a insegnare all’intelligenza artificiale: passiamo dal dovere imparare a capire i computer a un contesto dove i computer impa-rano a capirci. Col rischio che apprendano da noi razzismo, corru-zione… Se con un algoritmo decidessi chi assumere o promuovere elaborando i dati di un’azienda, l’intelligenza artificiale impare-rebbe ad assumere o promuovere uomini bianchi, penalizzando le donne o magari chi proviene da una certa zona geografica. E non sarebbe accettabile.

Che rapporto avranno umani e algoritmi, in generale e in sanità?Se l’algoritmo impara da noi pregiudizi e comportamenti de-

vianti, avremo l’opportunità di intervenire correggendolo – dato che a differenza delle persone non ha un subconscio – in modo che non discrimini più le donne, il colore della pelle o altro. E nel fare ciò collaboreremo, anziché competere, con le tecnologie. Già da tempo, per analizzare esami clinici, ci sono algoritmi più accurati di qual-siasi medico. Se faccio vedere un esame sia a un algoritmo sia a un medico, il risultato è migliore che se lo vedesse solo il medico o solo l’algoritmo, poiché essere umano e macchina pensano in modo di-verso e commettono errori differenti. Se gli esami saranno analiz-zati dalle macchine, il medico avrà più tempo da dedicare ad attività prettamente umane, come parlare con i pazienti e prendersi cura di loro. La macchina è potentissima per trovare connessioni fra milio-ni di dati e di parametri, ma fatica a trovare relazioni di causa ed ef-fetto, su cui eccelle invece l’essere umano. La direzione è dunque la complementarità tra persone e intelligenza artificiale.

Che compito sarà dunque riservato al medico, in questo con-testo?Tutto ciò che si può automatizzare lo sarà, anche più di quanto

immaginiamo ora. Il ruolo del medico sarà incentrato su empatia, principi e valori, in base ai quali costruiremo, addestreremo e use-remo l’intelligenza artificiale. Prendendo spunto da ciò che diceva Ben Parker al nipote Peter, dal grande potere che la tecnologia ci dà deriva una grande responsabilità: amplificare il nostro lato umano. Quando si tratta di questioni che hanno un impatto sulla vita e sulla salute delle persone, la decisione finale va lasciata al medico. La tec-nologia può dare una mano, ma il ruolo umano nel capire e decidere resta fondamentale. E lo dice una persona che di mestiere vende tec-nologia.

Per concretizzare questa responsabilità umana, a che livel-lo ha senso intervenire?Etica, governance e normative sono questioni da affrontare a

tutti i livelli: la Comunità europea ci lavora già, ma occorre interve-nire pure a livello individuale. Bisogna sia chiaro come gli algoritmi operano e, se alcuni criteri sono eticamente inaccettabili, si dovrà entrare nell’algoritmo e correggerlo. Ma ciò è possibile solo se lo si capisce: non è quindi questione di trasparenza, ma di intelligibilità. Una soluzione high tech ben fatta deve avere non solo un codice leg-gibile, ma essere comprensibile.

COMPLEMENTARI E INTELLIGIBILI

INTERVISTA A: FABIO MOIOLI

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In una medicina dove i dati assumono sempre più valore, poter disporre di intelligenze artificiali capaci di raccogliere e gestire informazioni in modo adeguato non è una questione che possiamo rimandare. Se da un lato i Real World Data (Rwd) rappresentano un’opportunità straordinaria per arricchire il nostro sguardo, la qualità del dato diventa sempre più cruciale, così come la scelta di strumenti e infrastrutture. In che modo l’Ai consente di sviluppare questi strumenti per clinica e ricerca? Risponde Riccardo Bellazzi, professore presso il dipartimento di Ingegneria industriale e dell’informazione dell’Università di Pavia.

In che modo l’Ai può aiutarci a gestire i Rwd in medicina?Grazie ai Rwd siamo in grado di osservare una porzione della realtà che offre moltissime informazioni alla ricerca, ma chiaramente quello che riusciamo a cogliere dipende strettamente da come i dati sono o sono stati raccolti: quelli reperiti finora non servivano a condurre studi clinici, ma piuttosto per la rendicontazione. E i sistemi informatizzati sono disegnati prima di tutto per questo. L’Ai può colmare questo gap, perché permette di comprendere meglio dati già disponibili ma non facili da rivedere, come immagini e testi. E non solo: ci offre

l’opportunità di costruire sistemi migliori per raccogliere Rwd.

Come lavorare sull’Ai per massimizzare l’u-tilità e minimizzare i rischi dei Rwd?Abbiamo due punti fondamentali su cui lavorare. Anzitutto, sviluppare sistemi di gestione e condivisione migliori. In secondo luogo, dobbiamo raccogliere i dati in modo intelligente. È necessario modellizzazione anche il processo di raccolta, capire esattamente da dove arriva (e come) un’informazione. In caso contrario, se inseriamo cioè nei database dati che esulano da una buona strategia, i modelli che ne derivano sono compromessi, con il rischio di generare evidenza con forti bias o pregiudizi.

Cosa significa “raccogliere i dati in modo intelligente”? Va posta molta attenzione alla qualità del dato. Questa passa attraverso il processo di raccolta, ed è importante avere coscienza anche del contesto dal quale i dati emergono. Pensiamo per esempio all’iter clinico di un paziente in ospedale: un percorso fortemente dipendente da come lavora il reparto dove si trova. Se non lo tengo in considerazione, non riesco a interpretare davvero i suoi dati, col rischio che ciò che estrapolo sia distorto. Inoltre, il paradigma del foglio Excel, il

sistema dove incasellare le informazioni sul paziente con cui siamo soliti ragionare, non è il miglior metodo di raccolta: non è di facile gestione da parte del personale sanitario, resta incompleto o, al contrario, potrebbe contenere informazioni che esulano dal contesto. È difficile che una raccolta di Rwd sia coerente con uno schema tabellare, poiché le decisioni sanitarie implicano piuttosto raccolte dati asimmetriche, guidate da ipotesi diagnostiche: l’Ai ci offre la possibilità di immaginare una nuova generazione di cartelle cliniche elettroniche che si muova su questo terreno con approccio critico.

Servono quindi nuove infrastrutture “a monte” rispetto al dato? Il massimo dello sforzo andrà investito su questo. Mi rifaccio a un nostro lavoro estremamente attuale. Durante la prima ondata pandemica abbiamo condiviso tra molti centri di ricerca dati su pazienti Covid: pur su una coorte relativamente ridotta, alcune tendenze risultavano già visibili, come l’ipotesi di una coagulopatia associata alla malattia. Questo a sottolineare l’importanza di poter condividere informazioni e condurre analisi congiunte di dati in tempo reale, e di come giocare d’anticipo per creare un’opportuna infrastruttura di data sharing sia un fattore abilitante per la ricerca e la pratica clinica.

RELAZIONI

a digital medicine è già tra noi. Anzi, è proprio addosso a noi, che si tratti del polso o del taschino, e in alcuni casi è già dentro al nostro corpo. Parliamo di uno smar-twatch che capta minuscoli mutamenti nella frequenza cardiaca e segnala se stia-mo andando incontro a un episodio di fibrillazione atriale. Oppure di un inalatore intelligente, che si accorge grazie a un sensore se stiamo assumendo regolarmente

(o meno) il farmaco al suo interno. Cambiano anche gli ospedali, e così i singoli ambulatori. Una radiografia non è più una semplice lastra, un nero su bianco tutto da interpretare: c’è l’intelligenza artificiale che in molti casi ne propone già una lettura, grazie ad algoritmi che lavorano per noi e migliorano la capacità di fare diagnostica per immagini. E una killer ap-plication capace di interpretare in automatico testi scritti in linguaggio naturale è sempre più vicina, con la possibilità che a cercare referti, estrapolarvi informazioni, compiere asso-ciazioni, saranno presto le macchine.

Come evolverà all’interno di questo scenario il rapporto tra medico e paziente? Potrà farlo in meglio, se dietro le quinte tutto sarà gestito in modo opportuno. Questo significa in primo luogo un adeguato iter di validazione degli strumenti, come sta avvenendo per software e hardware nell’ottica sia della telemedicina che della digital therapeutics (che possono cioè essere utilizzati per fornire un intervento terapeutico vero e proprio). Un per-corso già ampiamente avviato, non solo per il rigoroso vaglio scientifico al quale questi stru-menti sono sottoposti, ma anche se guardiamo al piano normativo, in preda oggi a un grosso impulso dopo l’entrata in vigore (in Germania, nel 2020) della prima legge sugli strumenti di digital health nel contesto assistenziale. Lo stesso vale per l’Ai, dove assistiamo sempre più spesso al passaggio dalla ricerca al prodotto, e poi all’impiego su larga scala, con un nu-mero sempre crescente di software in fase di approvazione. Ma non è solo questo. È necessa-rio anche creare sin d’ora le condizioni affinché i pazienti, e i cittadini in generale, possano

mettere a fuoco il più possibile questi nuovi sistemi: adottare quindi la piena trasparenza rispetto al potenziale, ai limiti, alla tutela dei dati, e creare consapevolezza nel grande pub-blico di pari passo con la formazione degli specialisti e del resto del personale sanitario.

A questo proposito una questione che va sicuramente affrontata con urgenza è quella del sistema dei valori, capire cioè a fondo come funzionano i processi decisionali all’inter-no di queste tecnologie e, in particolare, allontanarsi dall’idea che questi verranno via via “delegati alle macchine”. Se è vero che le macchine saranno sempre più necessarie a sup-portare clinici e ricercatori nel prendere decisioni tenendo conto dei dati, non va dimenti-cato (e l’utente finale deve esserne cosciente) che alla base delle scelte di valore c’è sempre una decisione dell’essere umano. Pensiamo, per esempio, a un sistema intelligente per il riconoscimento, attraverso immagini, di un tumore al seno: lo strumento restituirà un punteggio, una misura di probabilità di quanto a un’immagine possa associarsi la malat-tia. Ma a inserire il valore soglia, al di sopra del quale la macchina manderà un segnale di allarme, è sempre e comunque l’essere umano, nel momento stesso in cui avviene il design dello strumento. Al di là di come viene effettuata la diagnosi, insomma, siamo sempre noi a stabilire il costo di una decisione sbagliata, e molto del rapporto di fiducia tra paziente e tecnologia, e di conseguenza tra paziente e medico che utilizza quella tecnologia, si gioca su questa consapevolezza.

Altro aspetto da ricordare è il fattore-tempo: gli strumenti di cui oggi disponiamo agi-scono da catalizzatori per la ricerca e la pratica clinica. Con questa leva, come messo in luce anche dal cardiologo americano Eric Topol, uno dei più attivi pensatori dell’innovazione in sanità, il medico risparmia tempo: minuti preziosi che possono essere sfruttati per gestire meglio un problema e ridurre il numero di errori. Ma anche per riportare al centro del rap-porto il fattore umano: l’empatia.

L

Le opportunità che arrivano dal mondo reale

DOVE I DATI SARANNO UTILI

A oggi nel mondo ci sono oltre 7mila farmaci in fase di sviluppo clinico. Un’innovazione medica imponente, che è la risposta alle sfide di salute che coinvolgono pazienti e sistemi sanitari. E i cui benefici potranno essere quantificati e studiati anche tramite l’approccio real world data.

2.000

Hiv/Aids Diabete Salute mentale

Area cardiovascolare

Area immunologica

Malattie infettive

Area neurologica

Tumori

1.500

1.000

500

0

La sfera delle tecnologie digitali, tra device per la salute e intelligenza artificiale, è in rapida espansione. Il legame tra i pazienti e personale sanitario è in questo scenario

come un elastico teso, il cui riavvicinamento si gioca tutto sulla sicurezza, sulla trasparenza e sul rispetto dei valori. Anche quello del tempo.

IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE ALLA PROVA DELL’INNOVAZIONE

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Fonte: Health Advances (elaborazione Efpia)

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SPERIMENTAZIONI

La raccolta di dati sulla salute di pazienti e cittadini passa sempre più attraverso le app degli smartphone e i dispositivi indossabili, tanto che alcuni strumenti digitali opportunamente validati sono ormai a pieno titolo dispositivi medici, impiegati nella diagnosi o come supporto terapeutico. Non solo: il potenziale dei device si fa sentire anche nella ricerca clinica, dove contribuiscono con informazioni raccolte in contesti di real life: i cosiddetti Real World Data (Rwd). Che garanzie ci offrono questi strumenti e quali competenze abbiamo sviluppato negli studi basati sui Rwd? Ci risponde Eugenio Santoro, Responsabile del Laboratorio di Informatica medica dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs.

Qual è il contributo che gli strumenti di sa-lute digitale forniscono alla ricerca clinica?Gli strumenti di digital health permettono di compiere un studi nuovi, basati sui Real World Data: dati raccolti in contesti di vita reale, fuori dalle sperimentazioni. A questo insieme appartenevano in origine cartelle cliniche elettroniche, database amministrativi, registri di patologie e dati generati con i cosiddetti Patient Report Outcome (Pro), cioè i riscontri dei pazienti ottenuti attraverso sondaggi su stato di salute, decorso della malattia o aderenza a un trattamento. Oltre a queste informazioni possiamo ora includere anche l’enorme mole di dati generata da smartphone, wearable device e Internet of Things, che avviene in modalità passiva, indipendentemente da operatori sanitari e pazienti. Così i dati per la ricerca clinica diventano molti di più e qualitativamente diversi.

In questo modo come si stanno trasforman-do medicina e ricerca?Uno studio recente, pubblicato su Jama, ha confrontato le curve di sopravvivenza di pazienti con tumore al polmone con o senza l’utilizzo di riscontri dei pazienti (Pro) per segnalare gli effetti collaterali della chemioterapia. Il software, disponibile su web o in un’app, valutava quando era necessario allertare l’oncologo. A due anni dal progetto, la sopravvivenza dei pazienti che con i Pro risultava migliorata in modo significativo rispetto chi utilizzava solo le vie tradizionali. E con un distacco pari a quello che si può riscontrare con l’uso di un farmaco. Altro esempio, uscito su Nature, è uno studio di epidemiologia digitale su scenario globale che ha messo in relazione dati raccolti da app che misurano l’attività fisica con quelli sull’obesità. Ne è uscita una correlazione inversa tra quanto le persone camminavano e tasso di obesità, ma anche una relazione diretta tra numero di passi e disponibilità di aree pedonali nelle città. Altri studi analizzano invece il rapporto tra i dati raccolti dai dispositivi elettronici e i Pro, confrontano cioè i parametri biometrici raccolti dai device con le informazioni riportate dal paziente. Ne è un esempio un lavoro sull’artite reumatoide che ha comparato dati dei Pro e quelli forniti dai sensori dello smartphone mentre i pazienti lo impugnavano e compivano movimenti col polso. Chi riferiva una maggior severità del dolore erano proprio le persone per cui i dati registrati dal software suggerivano una reale difficoltà di movimento: segno che lo strumento digitale rappresentava un buon metodo di valutazione clinica.

Quali i vantaggi nelle sperimentazioni clini-che?

In primo luogo, la contrazione dei tempi di arruolamento: diventa possibile andare a colpo sicuro verso potenziali candidati, sfruttando per esempio il potenziale delle online community. Scaricare un’app è estremamente rapido e gli strumenti digitali consentono una raccolta dati sia attiva che passiva molto agile rispetto agli studi tradizionali. Altro plus è poter raccogliere dati in tempo reale, e in modo costante. Si tratta poi di dati raccolti direttamente alla fonte dunque più accurati. Non sono necessari intermediari, il che rende il lavoro meno costoso.

Se consideriamo poi il contesto in cui la ricerca durante la pandemia, esiste una reale esigenza di riscrivere gli schemi e andare nella direzione della digitalizzazione delle sperimentazioni cliniche, cioè di condurre sperimentazioni randomizzate controllate che siano decentralizzate, dal reclutamento alla raccolta dati.

Quali i limiti e le questioni aperte?C’è la possibilità che gli strumenti vengano utilizzati con entusiasmo in fase iniziale, ma che gli utenti perdano interesse nel corso tempo, con il rischio di un drop-out prima che lo studio sia concluso. Bisogna lavorare sull’engagement per contenere questo fenomeno, per esempio con tecniche di reminding (messaggi che ricordino di compiere determinate operazioni) o fornendo incentivi come il raggiungimento di target. Oltre, ovviamente, a rendere ancora più semplici e accessibili, cioè alla portata di tutti, questi strumenti.

L’aiuto degli strumenti digitali per la ricerca clinica

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Le necessità generate dalla pandemia hanno inevitabilmente accelerato l’ascesa della digital health, e in particolare l’adozione di soluzioni per la telemedicina come il teleconsulto e il monitoraggio a distanza, di app per la salute, di piattaforme per la condivisione e l’analisi dei dati (come quelle dedicate alla ricerca epidemiologica), di strumenti per il supporto alla diagnosi abilitati dall’intelligenza artificiale. E, ondata dopo ondata, il personale in azione si è ritrovato a dover assumere dimestichezza con questi sistemi direttamente sul campo e in tempo reale. Tuttavia, nell’ottica della forte espansione hi-tech in campo medico, sanitario e di ricerca che si prospetta per gli anni a venire, è auspicabile che si possano maturare esperienza e consapevolezza senza bisogno di correre o improvvisare, plasmando figure professionali che possano muoversi non solo con dimestichezza, ma anche con spirito critico, nell’ecosistema che ci attende. ll prezzo da pagare altrimenti sarebbe altissimo: vedersi scivolare tra le mani il potenziale che questi strumenti ci offrono. Il medico del futuro vivrà a stretto contatto con le macchine, con la realtà virtuale e dovrà orientarsi nell’uso di sterminati database; dal punto di vista pratico dovrà dimostrare obiettività sulle performance di una nuova tecnologia e capacità di lettura (per esempio) della schede di approvazione di un prodotto: saranno insomma sempre più necessarie competenze tecniche. Questo – attenzione – non significa che un neurologo o un oncologo sarà chiamato a trasformarsi in ingegnere, bensì aiutare i professionisti a dotarsi di nuovi strumenti di base e abilità, soprattutto informatiche, trasversali rispetto alla neurologia e all’oncologia e adottabili in tutte le specialità. Col risultato che avremo neurologi capaci di far lavorare grosse moli di dati in cerca della miglior cura disponibile per un disturbo, così come oncologi in grado di intervenire nella maniera più efficace su un tumore grazie all’intelligenza artificiale (e sono solo due dei tanti esempi possibili). Affinché questo avvenga, urge che i programmi per l’aggiornamento di chi è già operativo e la formazione delle future generazioni di camici bianchi vengano sin d’ora tarati sui tempi – rapidissimi – dell’innovazione. Il mondo statunitense, una realtà tradizionalmente molto tecnologica anche nella formazione sanitaria, ha iniziato già da tempo a integrare nel percorso di molte categorie di professionisti lo studio degli strumenti di medicina digitale. Ma in questa direzione vanno ora anche molte università italiane, che stanno introducendo lo studio dell’informatica e della bioingegneria all’interno delle scuole di medicina. Ne sono esempio il programma di eccellenza Meet (Medicine Enhanced by Engineering Technologies) delle Università di Pavia, di Pisa, Iuss Pavia e Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, così come il progetto Medtec di Humanitas University e Politecnico di Milano (che consente agli studenti di medicina di conseguire in modo integrato pure una laurea triennale in ingegneria biomedica), entrambi formulati per dare un’impronta anche quantitativa alla professione. Un’impronta che andrà ricalcata anche nel percorso di studi delle altre figure del settore healthcare: infermieri, tecnici, biologi. Seguendo la scia lasciata dall’esperienza Covid-19, la stessa educazione avverrà senza ombra di dubbio sempre più da remoto. E con uno sguardo, come il mondo ha imparato nel corso dell’ultimo anno, di sicuro più consapevole rispetto all’importanza di un’efficace collaborazione virtuale e che non si arresta entro i propri confini geografici. Dovremo fare squadra, insomma, all’interno di un team globale.

Le professioni mediche del futuro

Con la pandemia abbiamo toccato con mano potenzialità high tech a cui non vorremo più rinunciare. Ecco cosa ci aspetta tra telemedicina, computer

quantistici e deep learning per la diagnostica.

TECNOLOGIA

Se c’è una certezza che Covid-19 ci ha lasciato, in termini di salute e tecnologia, è che dai traguardi raggiunti in tempo di emergen-za sanitaria non si torna più indietro. Anzi, gli eccellenti risultati aprono nuovi interrogativi che spaziano dal modo di fare scienza al ruolo delle professioni sanitarie. A raccontarci le prospettive tecnologiche è Daniela Scaramuccia di Ibm, partendo da un futuro che nella nuova normalità è già qui.

Daniela Scaramuccia, a che punto siamo in termini di tecno-logia, digitale e innovazione?L’innovazione digitale è già presente in molti settori, sanità in-

clusa. Le persone ci sono abituate per servizi come finanza, traspor-ti e intrattenimento, e si aspettano un’interazione fluida anche per i bisogni di salute. E sono realtà le prime terapie digitali, software che hanno dimostrato efficacia, qualità e sicurezza. Durante la pan-demia la telemedicina ha consentito l’accesso a cure altrimenti non possibili. Secondo uno studio McKinsey, negli Stati Uniti i pazienti assistiti sono cresciuti 175 volte, e pure i servizi sanitari regionali italiani hanno consentito le televisite e sviluppato piattaforme ad hoc. Con Covid-19 abbiamo avuto conferma che intelligenza artifi-ciale e supercomputer consentono la simulazione in silico di nuove molecole farmaceutiche, accelerandone lo sviluppo con meno rischi e costi. Unendo le migliori competenze e le più avanzate tecnologie i vaccini sono arrivati in tempi inimmaginabili un anno fa. La pande-mia ha rimesso al centro il sistema sanitario e la sua resilienza come pilastro per la sostenibilità economica e sociale, oltre che garanzia del diritto alla salute, dimostrando le potenzialità della tecnologia.

Quale sarà allora il contributo delle tecnologie digitali da qui in avanti? La pandemia ha fatto maturare un new normal anche in sanità,

e le persone si aspettano che prescrizioni elettroniche, televisite e telemedicina non scompaiano. Pure il Pnrr prevede risorse ingen-ti per digitalizzare i servizi sanitari. Un esempio è il Green Pass: lo stato di New York ha sviluppato una soluzione con Ibm basata su blockchain, intelligenza artificiale e cloud ibrido che fornisce certi-ficati vaccinali a 20 milioni di cittadini, dandone accesso in modo si-curo e verificabile a compagnie aeree, aziende di trasporto, controlli di frontiera e aziende dell’entertainment come cinema e stadi, fino a istituzioni ed enti sanitari.

Che impatto avrà l’intelligenza artificiale nella diagnostica?Può supportare l’analisi di informazioni non strutturate di cui

il mondo della sanità è ricco, come anamnesi, immagini, referti e lettere di dimissioni. Questi dati, confinati in silos applicativi, quan-

do estratti in un data lake comune non hanno una chiara identifica-zione semantica. Senza tecniche come il Natural Language Proces-sing rimarrebbero non trattabili, se non a valle di onerosi processi manuali. È possibile utilizzare i dati per ripensare le attività sani-tarie, ridurre i tempi di accesso alla cura e ottimizzare servizi, pro-cessi e risorse, con più efficienza e soddisfazione per tutti. Inoltre, nella diagnostica per immagini, il deep learning accelera il ricono-scimento e la classificazione. Nel 2018, l’Istituto nazionale tumori di Napoli e Ibm hanno lanciato un progetto per la diagnosi dei tumori atipici della mammella, analizzando più di 4mila vetrini di oltre 320 lesioni, con risultati incoraggianti. L’impatto sulla prevenzione è concreto: monitorare indicatori oggettivi e soggettivi dello stato di benessere di milioni di persone, e prevederne in anticipo le traietto-rie di salute, permette interventi precoci efficaci.

Quali sono le tecnologie più avveniristiche che vedremo in ambito salute?Avremo esperienze più immersive e interazioni a distanza ric-

che e naturali grazie alle realtà virtuali, per gli addetti ai lavori e i pazienti. Il quantum computing accelererà la scoperta di nuove molecole come target e come terapie, con una velocità tale da fare immaginare terapie personalizzate. Cleveland Clinic e Ibm hanno, per esempio, un progetto per la ricerca sanitaria con calcoli ad alte prestazioni, tra cloud ibrido, intelligenza artificiale e calcolo quan-tistico. Cambia anche il modo di fare scienza. Ibm Research ha av-viato un’iniziativa, Accelerating Science, per rivedere il processo stesso di indagine scientifica sfruttando le tecnologie per guidare i ricercatori. Con benefici soprattutto nella ricerca traslazionale, per la diagnostica e per terapie più efficaci.

Di quali competenze e figure professionali ci sarà bisogno nel mondo healthcare? Non può esserci trasformazione digitale se dimentichiamo la

centralità dell’uomo e l’alleanza con la tecnologia, un binomio da cui emerge ciò che chiamiamo intelligenza aumentata. Vanno compresi potenzialità e limiti delle tecnologie, per indirizzare l’innovazione dove può portare un reale beneficio a operatori e pazienti, modifi-cando dove occorre governance e processi regolatori. Servono figu-re di confine che comprendano sia le necessità degli addetti ai lavori sia dei pazienti: il successo dei progetti di digitalizzazione avanzata dipende da team fortemente multidisciplinari. E occorre una for-mazione ampia e organica, con azioni concrete degli atenei per la formazione di medici, infermieri, tecnici e biologi. Con nuove figure professionali che, sfruttando il digitale e l’interazione uomo-tecno-logia, migliorino la qualità dei servizi sanitari.

RIPARTIRE DALL’INTELLIGENZA AUMENTATA

INTERVISTA A: DANIELA SCARAMUCCIA

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