L’opera d’arte da un punto di vista percettivo La...

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1 L’opera d’arte da un punto di vista percettivo La psicologia della Gestalt Se per Freud l’oggetto della sua speculazione artistica era il contenuto, per gli psicologi che han- no analizzato l’opera d’arte da un punto di vista percettivo (riconducibili alla psicologia della Ge- stalt) l’oggetto di indagine sono le qualità formali costitutive dell’opera. Mentre Freud si è occupato del segmento Autore-Opera d’arte, per gli psicologi della Gestalt il segmento da analizzare è Opera d’arte-Fruitore. L’esponente principale di una psicologia che si è occupata dell’analisi percettiva delle immagini, da semplici raffigurazioni geometriche in bianco e nero a opere artistiche di notevole complessità, è Rudolf Arnheim. Arnheim, essendo uno psicologo di formazione gestaltista, considera i principi ba- se della percezione, le leggi di organizzazione del campo, come presupposti fondamentali, come e- lementi base di una grammatica visiva, che vengono adoperati nella percezione e interpretazione delle qualità formali delle immagini visive in generale e, in particolare, degli oggetti d’arte. Secon- do questo approccio, il lavoro più organico di Arnheim è rappresentato dal suo libro “Arte e perce- zione visiva”, la cui prima edizione risale al 1954 e che è stato riveduto in maniera significativa nel 1974. In questo testo, configurazioni, immagini, dipinti, sculture, architetture e oggetti vengono sot- toposti ad un’approfondita analisi delle caratteristiche formali, strutturali ed espressive che costitui- scono le cosiddette regole compositive adoperate dall’artista, che guidano l’osservatore nella perce- zione dell’immagine (un approfondimento di questi aspetti sarà trattato nella seconda parte di que- sta dispensa). Esistono, in particolare, due aspetti che acquisiscono rilevanza per una psicologia dell’arte in chiave gestaltista: la buona forma e la teoria dell’espressione. Per buona forma è definita quella ten- denza a preferire le forme che appaiono più equilibrate, regolari, simmetriche, le forme più “buone” appunto. Le unità che compongono il campo percettivo si articolano in maniera tale che vengano aggregate in strutture equilibrate, armoniche, coerenti tra loro, in una forma “il più buona possibi- le”. Prendiamo l’esempio delle due figure sottostanti.

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L’opera d’arte da un punto di vista percettivo

La psicologia della Gestalt

Se per Freud l’oggetto della sua speculazione artistica era il contenuto, per gli psicologi che han-

no analizzato l’opera d’arte da un punto di vista percettivo (riconducibili alla psicologia della Ge-

stalt) l’oggetto di indagine sono le qualità formali costitutive dell’opera. Mentre Freud si è occupato

del segmento Autore-Opera d’arte, per gli psicologi della Gestalt il segmento da analizzare è Opera

d’arte-Fruitore.

L’esponente principale di una psicologia che si è occupata dell’analisi percettiva delle immagini,

da semplici raffigurazioni geometriche in bianco e nero a opere artistiche di notevole complessità, è

Rudolf Arnheim. Arnheim, essendo uno psicologo di formazione gestaltista, considera i principi ba-

se della percezione, le leggi di organizzazione del campo, come presupposti fondamentali, come e-

lementi base di una grammatica visiva, che vengono adoperati nella percezione e interpretazione

delle qualità formali delle immagini visive in generale e, in particolare, degli oggetti d’arte. Secon-

do questo approccio, il lavoro più organico di Arnheim è rappresentato dal suo libro “Arte e perce-

zione visiva”, la cui prima edizione risale al 1954 e che è stato riveduto in maniera significativa nel

1974. In questo testo, configurazioni, immagini, dipinti, sculture, architetture e oggetti vengono sot-

toposti ad un’approfondita analisi delle caratteristiche formali, strutturali ed espressive che costitui-

scono le cosiddette regole compositive adoperate dall’artista, che guidano l’osservatore nella perce-

zione dell’immagine (un approfondimento di questi aspetti sarà trattato nella seconda parte di que-

sta dispensa).

Esistono, in particolare, due aspetti che acquisiscono rilevanza per una psicologia dell’arte in

chiave gestaltista: la buona forma e la teoria dell’espressione. Per buona forma è definita quella ten-

denza a preferire le forme che appaiono più equilibrate, regolari, simmetriche, le forme più “buone”

appunto. Le unità che compongono il campo percettivo si articolano in maniera tale che vengano

aggregate in strutture equilibrate, armoniche, coerenti tra loro, in una forma “il più buona possibi-

le”. Prendiamo l’esempio delle due figure sottostanti.

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La figura sulla sinistra è vista su un piano bidimensionale, composta da sei triangoli regolari. Se

però eliminiamo semplicemente tre lati, otteniamo una figura formata da tre rombi adiacenti sul

piano; risulta però più semplice vedere un cubo tridimensionale: i tre rombi vengono regolarizzati,

secondo il principio più economico della buona forma, in un cubo formato da tre quadrati in pro-

spettiva (figura sulla destra).

In entrambi i casi proposti, lo stimolo prossimale, l’informazione retinica, dà luogo a diverse in-

terpretazioni: noi, in genere, quando le condizioni prevalenti lo consentono, scegliamo la forma più

semplice, regolare, simmetrica, appunto buona o pregnante. E’ come se il nostro sistema visivo fos-

se retto da una sorta di tendenza alla parsimonia, all’economizzazione degli sforzi, scegliendo, tra le

diverse alternative, quella che conduce alla massima semplicità figurale attraverso una riduzione del

numero di elementi della configurazione complessiva: lati, angoli, figure. Perché vedere nella figura

sulla destra, per esempio, tre rombi (poligono formato da lati uguali, ma angoli diversi), quando in

un cubo unifichiamo, innanzitutto, i singoli elementi in un tutto (il cubo) e, in secondo luogo, ab-

biamo un poliedro formato da quadrati che da un punto di vista geometrico sono poligoni più sem-

plici del rombo?

Il secondo aspetto analizzato da Arnheim è la teoria dell’espressione. Secondo questa teoria un

oggetto d’arte esprimerebbe una serie di caratteristiche dirette e non mediate. Per esempio una for-

ma o un colore esprimerebbero in maniera immediata la loro allegria o tristezza. La psicologia della

Gestalt propone un approccio differente rispetto a quello più tradizionale; secondo la tradizione fi-

losofica e psicologica le qualità espressive che si attribuiscono ad un oggetto hanno a che fare con

le associazioni che nel tempo e nell’esperienza individuale si sono apprese. Secondo i gestaltisti la

percezione non è appresa, non proviene dall’esperienza e non è soggetta a modificazioni culturali

(ovviamente per quanto riguarda gli aspetti di base, riconoscimento, organizzazione e qualità e-

spressive degli stimoli). Arnheim definisce l’espressione “come il corrispettivo psicologico dei pro-

cessi dinamici che si risolvono nell’organizzazione degli stimoli percettivi” (Arnheim, 1949, trad it.,

p. 79). In altri termini, il rapporto tra il pattern stimolatorio (la dinamica della forma visiva) e

l’espressione che trasmette.

Per Arnheim la funzione psicologica degli oggetti è di natura sostanzialmente espressiva: gli

oggetti devono essere in grado di comunicare, attraverso le loro caratteristiche formali, qualità di

tipo espressivo. Sono dunque gli oggetti che portano in sé l’espressività. E’ famoso l’esempio del

salice piangente che non viene visto come triste perché assomiglia ad una persona triste, ma perché

la sua forma, la sua flessuosità, il suo pendere passivo impongono una configurazione strutturale

simile a quella della tristezza negli esseri umani (Arnheim, 1975).

L’espressione è spiegata sulla base del principio dell’isomorfismo. Nelle sue linee fondamentali

ed essenziali, col postulato dell’isomorfismo (ísos = stesso, morfé = forma) veniva avanzata

l’ipotesi (che è stata in seguito criticata) secondo cui la percezione di una forma o di un oggetto tro-

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va delle precise corrispondenze (un isomorfismo appunto) nei processi fisiologici del cervello. Per

estensione, anche l’espressione è spiegata, appunto, in termini di isomorfismo. Si tratta di un pro-

cesso che può aver luogo in supporti, oggetti, media molto diversi tra di loro, ma che possono risul-

tare simili nella loro organizzazione strutturale (Arnheim). Il punto debole di questo approccio è che

questa relazione isomorfica tra forma (esterna) e attivazione di aree cerebrali corrispondenti e simili

non ha trovato riscontro empirico. I critici della psicologia della Gestalt affermano che tale teoria è

più conosciuta per le sue convincenti dimostrazioni delle famose leggi di organizzazione formale

che per l’interpretazione di queste leggi.

La seconda parte di questa dispensa è dedicata interamente all’analisi percettiva delle immagini

secondo un approccio che si può ricondurre ad Arnheim. Verranno prese in considerazione le carat-

teristiche strutturali delle immagini e gli aspetti compositivi che hanno condotto l’autore alla crea-

zione artistica con le possibili spiegazioni teoriche.

Escher, un artista gestaltista?

Un’artista che si è interessato molto di psicologia della percezione, in particolare dei lavori dei

Gestaltisti, a cui deve parte del suo lavoro, è l’artista olandese Maurits Cornelius Escher. Gli studi

dei gestaltisti e di Rubin sul rapporto figura e sfondo furono di grande interesse e ispirazione per la

sua attività artistica. L’articolazione figura e sfondo con la sua ambiguità percettiva caratterizzò in

particolare i lavori di Escher alla fine degli anni trenta.

Escher visse per un lungo periodo in Italia, dal ‘21 al ‘34 circa, era molto attratto dal mare, dai

paesaggi e dalla luce. La sua produzione fino a questo periodo era prevalentemente figurativa e rea-

listica. Il cambiamento verso una produzione più astratta e sperimentale fu determinato probabil-

mente dalla lettura del libro di Koffka “Principi di psicologia della forma”. Riprese quindi con mol-

to interesse un argomento al quale si era dedicato in maniera saltuaria precedentemente.

Un altro fatto importante che determinò questo cambiamento di stile fu il viaggio che nel 1935

intraprese in Spagna dove poté ammirare i mosaici moreschi dell’Alhambra ed iniziò i suoi studi e

lavori sulla simmetria e sulla tassellazione del piano.

Alla base dei numerosi lavori di Escher sulla suddivisione periodica del piano troviamo il princi-

pio, ispirato dalla “Coppa con i due profili di Rubin”, secondo cui ogni figura usata può contempo-

raneamente svolgere due funzioni: figura e sfondo.

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Un’opera che può sintetizzare in maniera efficace questo tipo di ricerca è “Divisione regolare

del piano I” del 1957 (vedi immagine sopra), in cui si assiste ad un progressiva e continua trasfor-

mazione dei diversi elementi figurali, partendo da una semplicissima texture lineare (1), fino ad ar-

rivare ad una tassellazione del piano composta da pesci bianci ed uccelli neri (12). In alcune parti

dell’opera si riscontra un completo equilibrio tra le regioni bianche e nere (4, 7, 10, 11), mentre in

altre, in seguito alla maggiore densità della trama (data dalle linee curve e dai cerchietti, che ci fan-

no immediatamente interpretare le stesse forme come uccelli) le diverse regioni invertono il ruolo di

figura e di sfondo (8, 9). Finché si arriva alla conclusione di questa metamorfosi nell’ultimo tassello

(12), in cui è dato massimo risalto alla contemporanea presenza di pesci e uccelli, in una relazione

di figura/sfondo o forse sarebbe più corretto di figura/figura.

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Wertheimer Balla: 1912-2012. Un secolo dal Movimento apparente1

Introduzione

Nel 1912, poco più di un secolo fa, due protagonisti della scienza e dell’arte, da prospettive molto

diverse affrontarono un argomento simile inerente la costituzione e la rappresentazione del “movi-

mento apparente”. Max Wertheimer nel 1912, con la pubblicazione “Experimentelle Studien über

das Sehen von Bewegung” (Studi sperimentali sul movimento apparente), diede origine alla Psico-

logia della Gestalt. Giacomo Balla, nello stesso anno, diede un contributo fondamentale con il suo

programma di analisi dell’immagine, iniziato prima della sua adesione al futurismo, attraverso la

rappresentazione dinamica del movimento con immagini statiche, in particolare con tre opere: Ritmi

dell’archetto, Dinamismo di un cane al guinzaglio e la Bambina che corre sul balcone. Nonostante

i due personaggi non si siano mai conosciuti e non abbiano avuto nessun contatto è interessante os-

servare come siano giunti, attraverso due percorsi molto diversi (scientifico ed artistico), alla tratta-

zione di tematiche simili.

La psicologia della Gestalt

La psicologia della Gestalt nacque in Germania, a Berlino ed è conosciuta prevalentemente per i

suoi studi sulla percezione visiva. Oltre al suo fondatore, Max Wertheimer (1887-1967), gli espo-

nenti più noti furono i suoi allievi Kurt Koffka (1886-1941) e Wolfgang Köhler (1887-1967). La pa-

rola tedesca Gestalt può essere tradotta in italiano con forma, schema. La teoria della Gestalt propo-

ne due leggi generali sullo studio dei fenomeni psichici: 1) I fenomeni psicologici, non solo quelli

percettivi, avvengono in un campo (il concetto di campo era stato mutuato dalla fisica e in psicolo-

gia assumeva il significato di uno spazio vitale in cui agiscono forze con valenze contrapposte); 2) I

processi, per quanto le condizioni lo permettano, tendono a rendere lo stato del campo “buono”, nel-

la direzione di un equilibrio delle forze presenti.

In antitesi all’associazionismo di Wundt, che definiva la mente sulla base di modelli simili ad una

chimica mentale e la percezione come l’attività d’unione di singoli elementi in un tutto, i Gestaltisti

spiegavano l’atto percettivo come un comportamento globale, immediato e unitario che non era co-

stituito dalla semplice somma degli elementi in un tutto. La caratteristica di questo tutto sarebbe de-

terminata dalle relazioni reciproche tra gli elementi che formano l’oggetto; da qui la famosa massi-

ma: “Il tutto è più della somma delle singole parti” (Mastandrea, 2004). Per esempio, nonostante

una melodia possa essere suonata in tonalità diverse, viene riconosciuta sostanzialmente identica,

purché rimangano invariati gli intervalli tra le note; eppure modificando la tonalità è cambiato tutto,

1 Questo lavoro è stato pubblicato sulla Rivista di Psicologia dell’Arte. Mastandrea S. (2012). Wertheimer Balla. 1912-2012: un secolo dal Movimento apparente, Rivista di Psicologia dell’Arte, n. 23, 39-53.

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non è rimasta neppure una nota uguale nelle diverse melodie (von Ehrenfels, 1890/1984). Allo stes-

so modo, una forma (per esempio un triangolo), può essere riconosciuta come tale, sia quando è co-

stituita da tre linee rette, sia quando è formata da punti organizzati in una struttura che definiamo

appunto triangolare. Ciò che risulta importante per i gestaltisti, non sono gli elementi in sé di una

configurazione, ma sono le relazioni tra le unità che compongono la struttura, quelle che venivano

definite “qualità emergenti”. Già il fisico austriaco Ernst Mach, nel suo testo L’analisi delle sensa-

zioni (1885), affermava che le strutture spaziali costituite da forme geometriche e le strutture musi-

cali composte da melodie erano indipendenti dai loro elementi costitutivi di base, rispettivamente, le

linee e le note.

Il movimento apparente

La formulazione di una teoria della percezione in termini gestaltisti può essere fatta risalire al 1912,

anno di pubblicazione dello studio di Wertheimer sul movimento apparente. Il moto apparente con-

siste nella percezione fenomenica di movimento, in assenza di movimento fisico. Nell’esperimento

di Wertheimer, immagini luminose stazionarie, presentate in rapida sequenza, davano luogo alla

percezione di un unico punto luminoso in movimento; si osservava dunque una discrepanza tra pia-

no fisico e fenomenico, tra la realtà e quello che in effetti era percepito.

Esistono condizioni in cui è possibile percepire un movimento in assenza di movimento reale. E’ la

ben nota condizione del movimento apparente che si rinnova ogni volta che vediamo delle lucine

luminose che sembrano rincorrersi, mentre semplicemente si accendono e si spengono in maniera

sincronizzata. Dopo avere pianificato una serie di studi condotti nell’arco di un paio d’anni, Wer-

theimer pubblicò nel 1912 il suo lavoro sul movimento apparente (fenomeno phi) o movimento

stroboscopico (per stroboscopio si intende un sistema di proiezione di luci a intermittenza molto ra-

pida). Suo figlio Michael racconta che il padre ebbe l’intuizione del movimento apparente durante

un viaggio in treno. Folgorato da questa intuizione scese a Francoforte e si recò in un negozio di

giocattoli dove acquistò uno stroboscopio che iniziò ad utilizzare nella sua camera d’albergo (Me-

cacci, 1992). Un paio di anni dopo pubblicò il lavoro sul movimento apparente che segnò l’inizio

della psicologia della Gestalt. In che cosa consiste il movimento apparente di Wetheimer? Se due

lampadine vengono accese in successione, con un intervallo piuttosto lungo (superiore ai 200 milli-

secondi) tra la prima e la seconda, si percepiranno due luci stazionarie che si accendono e si spen-

gono indipendentemente l’una in seguito all’altra. Se l’intervallo è invece molto breve, si vedranno

due luci che si accendono simultaneamente. Se l’intervallo, sarà ottimale, circa 60 ms, il risultato

percettivo sarà quello di una luce in movimento o meglio di un punto luminoso che si muove dalla

posizione in cui si trova la prima luce a quella in cui si trova la seconda (Fig. 1).

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Figura 1. Esempi di movimento apparente: in a) la luce si sposta da sinistra verso destra; in b) il rettangolo verticale compie un ribaltamento sull’asse orizzontale;

in c) la figura superiore compie un movimento rotatorio.

E’ il principio del movimento che viene utilizzato nella proiezione della pellicola cinematografica.

La pellicola è composta da numerosi fotogrammi che non sono altro che fotografie statiche ripetute

diverse volte mentre la scena da riprendere cambia, si muove e si modifica. All’inizio del cinemato-

grafo, quando esisteva solo il cinema muto, il numero di fotogrammi che la tecnologia dell’epoca

era in grado di produrre era di 18 al secondo. Un numero esiguo per poter ottenere una visione di

movimento fluido e continuo. Infatti, se guardiamo un film muto dell’epoca, notiamo che i perso-

naggi si muovono non in maniera fluida e progressiva, ma a scatti. Attualmente con i moderni si-

stemi di proiezione si è riusciti ad aumentare il numero di fotogrammi per secondo, che sono diven-

tati 24; inoltre questi 24 fotogrammi vengono ripetuti ogni secondo per 3 volte, secondo una succes-

sione sincronica, per un totale di 72 fotogrammi al secondo; il risultato è quello della percezione di

movimento ottimale. Si tratta comunque sempre di immagini statiche presentate in rapidissima suc-

cessione, molto più rapida in quest’ultimo caso rispetto all’esperimento di Wertheimer.

Il Futurismo e Giacomo Balla

La data ufficiale di nascita del Futurismo si fa solitamente risalire alla pubblicazione del Manifesto

sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, a firma di Marinetti, Boccioni, Carrà, Russo-

lo, Severini e Balla. In realtà, una prima pubblicazione del manifesto apparve il 5 febbraio del 1909,

sulle pagine del quotidiano bolognese La Gazzetta dell’Emilia. Il manifesto letterario del 1909 fu

esteso un anno dopo alla pittura e, in seguito anche ad altre forme di espressione artistica come scul-

tura, architettura, scenografia, fotografia, cinema, poesia e anche musica. I primi pittori firmatari fu-

rono Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, ai quali si aggiunsero in seguito Giacomo Bal-

la e Gino Severini (Lista, 2009).

Alcuni passaggi tratti dal manifesto focalizzavano l’interesse di questa corrente d’avanguardia sul

movimento e la velocità: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bel-

lezza nuova, la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa è più bella della Vittoria di Samo-

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tracia” . Con questa dichiarazione nacque l’avventura di una delle avanguardie storiche artistiche

più famose. Come afferma Popper (1970), “Forse per la prima volta nell'arte moderna l’idea del

movimento precede sia la sua percezione sia la sua emozione […] Comunque nelle opere futuriste il

movimento si colloca per lo più a metà strada fra il movimento oggettivo (impressionistico, neoim-

pressionistico o cubista) e il movimento soggettivo (espressionistico), in una categoria che si può

chiamare movimento concettuale” (Popper, 1970, pp. 53-54).

Gli inizi del XX secolo sono caratterizzati da numerose conquiste, scoperte e creazioni che segne-

ranno conseguimenti decisivi per il progresso e la modernità. Uno dei temi dominanti è il movimen-

to, inteso come la possibilità di diminuire le distanze reali tra le persone attraverso l’uso di mezzi

meccanici che cosentono spostamenti più rapidi. A cavallo dei due secoli ‘800 e ‘900 viene costrui-

ta l’automobile (il motore a propulsione è del 1850). Nel 1899 a Torino viene fondata la prima fab-

brica di automobili FIAT, nel 1900 un’altra fabbrica di automobili, in Germania, la Daimler Benz.

Nel 1903 i fratelli Wright compiono il primo volo in aeroplano (Carollo, 2002). Diversi artisti futu-

risti (tra questi Balla e Russolo) dedicano studi e lavori importanti che hanno come contenuto

l’automobile, come oggetto di massima espressione dinamica della modernità attraverso il movi-

mento. E’ un esempio lo studio di Balla che trasforma una macchina dell’epoca (molto squadrata e

poco dinamica) in uno studio d’automobile dove vengono trattati e sviluppati gli elementi formali

che più di altri sono rappresentativi del dinamismo figurato, le linee diagonali e il cerchio (le ruote

dell’automobile; Fig. 2).

Figura 2. G. Balla, Studio di automobile, 1912

Le mostre futuriste in Europa nel 1912

La prima mostra dei futuristi si tenne a Parigi nel Febbraio 1912, presso la Galerie Chez Bernheim

Jeune, dal 5 al 24 febbraio dal titolo “Les Peintres Futuristes Italiens” (Fig. 3).

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Fig. 3. A sinistra la locandina della mostra e a destra i futuristi Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi nel 1912

Alla mostra parigina vennero esposte le opere di tutti i pittori firmatari del manifesto ad eccezione

di Balla, la cui opera Lampada ad arco (Fig. 4) fu censurata da Boccioni, perché non sufficiente-

mente futurista, nonostante il quadro di Balla fosse presente nel catalogo della mostra del 1912,

stampato a gennaio (Lista, 2008).

Figura 4. G. Balla, Lampada ad arco, 1911-1912, olio su tela, cm. 174x114, New York, The museum of Modern Art

L’attribuzione della data di creazione del quadro è stata piuttosto problematica. La data riportata

nell’angolo superiore sinistro del quadro è del 1909. De Marchis (2007) sostiene che l’anno riporta-

to, 1909, “non è la data dell’opera bensì la dedicatoria al testo di Marinetti Uccidiamo il chiaro di

luna cui si riferisce l’iconografia del dipinto che da esso dipende, testo del 1909 ma conosciuto da

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Balla nella edizione in traduzione italiana del 1911. Dunque il dipinto è posteriore a tale data e ne

dipende. La data è forse stata aggiunta in previsione dell’esposizione alla mostra futurista a Parigi

del 1912 […]. Boccioni fonte autorevole, lo ascrive al 1912” (De Marchis, 2007, p.17). In una lette-

ra ad Alfred H. Barr Jr. (direttore del MOMA a New York), Balla scrive: “Per meglio precisare Vi

spiego che il quadro della “Lampada” è stato da me dipinto durante il periodo divisionista (1900-

1910); infatti il bagliore della luce è ottenuto mediante l'accostamento dei colori puri. Quadro, oltre

che originale come opera d'arte, anche scientifico perché ho cercato di rappresentare la luce sepa-

rando i colori che la compongono. Di grande interesse storico per la tecnica e per il soggetto. Nes-

suno a quell’epoca (1909) pensava che una banale lampada elettrica poteva essere motivo di ispira-

zione pittorica; al contrario, per me il motivo c'era ed era lo studio di rappresentare la luce e soprat-

tutto, dimostrare che il romantico “chiaro di luna” era sopraffatto dalla luce della moderna lampada

elettrica (Fagiolo dell’Arco, 1967, pp. 112-113).

Afferma ancora De Marchis (1977), in conclusione ai riferimenti riportati sulle difficoltà legate alla

datazione, che l’opera potrebbe datarsi dopo la riedizione italiana del testo di Marinetti e quindi tra

il 1911 e il 1912. Al contrario dunque, da quanto affermato da Balla, il testo di Marinetti, “Fu così

che trecento lune elettriche cancellarono con i loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde

degli amori”, avrebbe fornito l’ispirazione per la creazione del quadro: (De Marchis, 1977, p. 18).

E’ interessante osservare l’analogia con il manifesto pubblicitario per l’azienda elettrica AEG del

1910, disegnato da Beherens (Fig. 5). L’irradiamento della luce è reso in entrambe le opere attraver-

so gli elementi che costituiscono una fitta trama di particelle luminose in espansione.

Figura 5. P. Beherens, Manifesto pubblicitario per la società elettrica tedesca AEG, 1910.

La seconda mostra futurista ebbe luogo a Londra, nel marzo 1912, presso la Sackville Gallery. La

terza mostra si tenne a Berlino dal 12 aprile al 15 maggio con il titolo “Futuristen”, presso la Galle-

ria Der Sturm. E’ divertente l’aneddoto che narra di Marinetti che con un taxi girava per le strade di

Berlino con Walden (compositore, critico e poeta tedesco) lanciando i manifesti “Viva il futuri-

smo”. La quarta mostra del 1912 si tenne a Bruxelles, dal 20 maggio al 5 giugno, dal titolo “Les

peintres futuristes italiens”, presso la Galleria George Giroux (Ouvrard, 2009). E’ interessante nota-

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re come proprio nel 1912 si tennero in diverse città europee, tra cui anche Berlino dove avevano se-

de gli studiosi della nascente Psicologia della Gestalt, diverse mostre futuriste nel tentativo di dif-

fondere la conoscenza di questa importante avanguardia. Non esistono comunque riscontri docu-

mentati della conoscenza reciproca tra questi due gruppi di ricercatori nell’ambito della scienza e

dell’arte. Come afferma Bartoli (2009), i futuristi conoscevano gli studi e le ricerche di Ernst Mach

dell’Università di Vienna su argomenti relativi all’ottica e all’acustica. Boccioni mostrerà di aver

letto, oltre ai lavori di Mach, quelli sull’ottica fisiologica di von Helmholtz, i principi di psicologia

di Spencer e gli studi di psico-fisica di Fechner (Lista, 2008). Evidentemente l’interesse per il mo-

vimento, il dinamismo percettivo e la sua rappresentazione era frutto dello spirito del tempo, agli

inizi di un secolo ricco di profonde e rapide trasformazioni.

Balla e la rappresentazione del movimento attraverso immagini statiche

E’ proprio questa coincidenza temporale che vede, nello stesso anno, il 1912, la pubblicazione del

lavoro di Wertheimer sul movimento apparente e alcune opere di Giacomo Balla che rappresentano

una sorta di movimento apparente reso, non attraverso la procedura sperimentale utilizzata da Wer-

theimer, ma con immagini statiche che esprimono un notevole effetto di dinamismo.

Come sappiamo, la poetica futurista era rivolta per buona parte allo studio del movimento, della ve-

locità e del dinamismo.

Se il movimento può essere definito come la modificazione fisica e graduale della posizione di un

oggetto nello spazio in relazione al tempo, il dinamismo può essere definito come l’attribuzione di

movimento ad un oggetto o ad un’immagine che di per sé è statica. La percezione del dinamismo

figurale è legata a fenomeni di strutturazione ed organizzazione della figura, dove entrano in gioco i

vari elementi costitutivi dell’immagine (assi, diagonali, relazioni sopra-sotto ecc.). Artisti, pittori,

grafici, illustratori, fin dall’antichità, hanno sempre cercato di rappresentare il dinamismo di ele-

menti della scena su una superficie bidimensionale che di per sé è statica. Cutting (2002) ha svolto

un’analisi delle diverse modalità che gli artisti hanno utilizzato per raffigurare persone od oggetti in

movimento. Egli riconduce a cinque, le modalità che sono state utilizzate per rappresentare il mo-

vimento: 1) Un equilibrio dinamico ottenuto attraverso la rottura della simmetria della figura; 2) La

rappresentazione di immagini multiple (stroboscopiche), attraverso la sovrapposizione parziale o la

traslazione e la conseguente creazione di ritmo; 3) Il piegamento in avanti dell’immagine in una po-

sizione diagonale; 4) La sfocatura, che simula la persistenza dell’immagine sulla retina; 5) Le linee

d’azione come frecce o semplici linee, come vengono utilizzate frequentemente nei fumetti.

Nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 Balla scrive “ per la persistenza della immagi-

ne sulla retina, le cose in movimento si moltiplicano […] così un cavallo in corsa non ha quattro

gambe: ne ha venti” (Sylvia, 2005). Con quest’affermazione Balla fa riferimento al lavoro sulla

cronofotografia condotto da Etienne Jules Marey che nel 1882, mediante uno strumento che egli

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stesso costruì, noto col nome di “fucile fotografico”, riprese con scatti rapidi in successione il mo-

vimento in volo degli uccelli e l’andamento di esseri umani (Fig. 6).

Figura 6. E. Marey, Uomo che cammina indossando vestito nero con striscia bianca ai lati, 1883.

Nello stesso periodo circa, negli Stati Uniti, Eadweard Muybridge condusse delle ricerche simili a

quelle di Marey in cui fotografava corpi umani e animali in movimento. La sua tecnica era quella di

cogliere l’immagine in movimento attraverso una serie di scatti in successione. La famosa rivista

Scientific American gli dedicò una copertina (Fig. 7).

Figura 7. Copertina del Scientific American dell’ottobre 1878, dedicata allo studio di E. Muybridge sul cavallo in movimento.

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Balla, proprio nel 1912, dipinge tre opere molto innovative all’interno della stessa produzione futu-

rista e più in generale dell’arte. Dinamismo di un cane al guinzaglio può essere considerato il primo

quadro compiutamente futurista di Balla (Fig. 8).

Figura 8. G. Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, olio su tela, cm. 90,8x110,2, Buffalo,

Allbright-Knox Art Gallery, Gift of G.F.Goodyear.

In quest’opera è evidente la scomposizione del movimento nelle zampe del cane che sembrano rote-

are in modo frenetico. Anche il guinzaglio sembra che oscilli rapidamente, così come le scarpe della

signora che porta a passeggio il cagnolino. L’autore ha voluto fermare in un’unica scena movimenti

che si esplicano in successioni temporali diverse. Da un punto di vista percettivo viene riprodotto il

meccanismo di persistenza dell’immagine sulla retina. Attraverso la memoria sensoriale (in partico-

lare quel tipo di memoria sensoriale denominata “memoria iconica”) il nostro occhio è in grado di

trattenere, per un centinaio di millisecondi circa, l’immagine che viene proiettata sui recettori retini-

ci. Ossia, l’immagine registrata sulla retina non decade immediatamente, ma viene trattenuta dai re-

cettori per circa un decimo di secondo; questo fenomeno prende il nome di persistenza

dell’immagine sulla retina. Uno degli esempi più conosciuti è quello della brace della sigaretta. Se

al buio qualcuno fa muovere velocemente una sigaretta accesa, l’osservatore è in grado di percepire

delle linee continue di colore rossastro che corrispondono alla traiettoria che compie la sigaretta.

Questo fenomeno è dovuto al fatto che i recettori retinici rimangono attivi per qualche decina di

millisecondi anche dopo che l’oggetto non è più presente in quella determinata posizione del campo

visivo, ma si è spostato. L’immagine, nell’esempio la brace della sigaretta, sarà percepita di un co-

lore sbiadito che dopo circa un centinaio di millisecondi si esaurisce; in seguito intervengono i re-

cettori retinici dell’area adiacente che trattengono a loro volta l’immagine successiva e così via. La

percezione che si crea è quella di una linea continua che tiene conto di tutto questo susseguirsi di

informazioni visive. L’immagine non essendo più presente nella posizione inziale subisce un deca-

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dimento di risoluzione che dà luogo a quella che comunemente è detta sfocatura dell’immagine. Ta-

le sfocatura sarebbe dunque la memoria iconica residua in seguito allo spostamento dell’immagine

presente nel campo visivo da un punto a quello successivo. Secondo l’analisi proposta da Cutting

(2002), una delle tecniche utilizzate dagli artisti è proprio quella della sfocatura dell’immagine do-

vuta al fenomeno della persistenza retinica. Balla utilizza questa modalità per rendere il dinamismo

del cane al guinzaglio. L’artista, in particolare, si sofferma sugli elementi più mobili della scena: le

zampe e la coda del cagnolino, il guinzaglio e le scarpe della signora. Più che avanzare, sembra che

il cagnolino agiti le zampette facendole roteare sospeso in aria. Balla mostra nel dipinto

un’accelerazione di tutta la scena. La presentazione simultanea delle diverse posizioni delle zampe

del cane crea un andamento vorticoso o basculante, così come il guinzaglio sembra agitarsi avanti e

indietro o sembra roteare come nel gioco del salto della corda. Le scarpe della signora compiendo

un percorso più ampio rispetto alle zampe e al guinzaglio assumono un andamento rapido in avanti.

La seconda opera di Balla presa in considerazione è Ritmi dell’archetto (Fig. 9). Questo quadro è

stato dipinto durante il secondo soggiorno di Balla a Düsseldorf ospite dei coniugi Löwenstein; il

marito di Gretel Löwenstein (allieva di Balla a Roma) era un avvocato, appassionato violinista a cui

Balla dedica il quadro (Lista, 2009).

Fig. 9. G. Balla, Ritmi dell’archetto, 1912, olio su tela, cm. 52x75, Estorick Collection of Modern Italian Art.

E’ un’opera fortemente legata al precedente dinamismo di un cane al guinzaglio. In questo dipinto

l’artista conduce un’accurata analisi dei movimenti che le dita della mano sinistra del violinista

compiono sulle corde del manico del violino. Anche in questo caso è stata scelta la tecnica della

sfocatura dell’immagine e della sovrapposizione delle immagini. In primo piano possiamo vedere la

mano sinistra del violinista riproposta quattro volte in posizioni differenti, dalla più sfuocata (la

mano nella posizione inferiore) fino alla rappresentazione della mano nella posizione più alta meno

sfuocata e quindi quella più prossima temporalmente. La mano impugna il manico del violino ri-

proposto anch’esso quattro volte. Le dita nella posizione superiore sono come sdoppiate e non si

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capisce se appartengano alla mano precedente. Si può vedere l’archetto, anche questo rappresentato

quattro volte che appare muoversi all’interno della struttura trapezoidale della composizione. Il pol-

sino della camicia bianca sotto la giacca è costituito da un’unica striscia formata la linee di diverse

gradazioni di bianco che tiene insieme le rappresentazioni sovrapposte delle mani in posizioni di-

verse.

L’ultimo della serie dei tre quadri del 1912 dedicati al movimento è la Bambina che corre sul bal-

cone (Fig. 10). Secondo Lista (2008) l’opera avrebbe avuto una lunga fase progettuale ed esecutiva,

tra l’estate e l’autunno 1912.

Fig. 10. G. Balla, Bambina che corre sul balcone, 1912, olio su tela, cm. 125x125, Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna.

Come afferma Fagiolo dell’Arco (1988), Balla iniziò a spostare da A a B quello che prima era stato

immobile. Con le evidenti differenze, vorrei sottolineare la forte analogia di quest’opera di Balla

con lo studio sul movimento apparente di Wertheimer. Come osserva Pierantoni (1986) la spiega-

zione scientifica dei dipinti di questo periodo dedicati alla scomposizione dinamica dei corpi e

all’analisi cinetica è riconducibile agli esperimenti di Wertheimer sul movimento apparente. Più in

generale si può dare lettura di quest’opera di Balla secondo i principi gestaltisti di organizzazione

formale e ricondurre la scomposizione pittorica del movimento che ne fece Balla al lavoro di Wer-

theimer sul movimento apparente.

In questo dipinto la pennellata è tipica della tecnica divisionista. La figura della bambina è scompo-

sta in una serie di forme irregolari colorate che costituiscono l’unità base della composizione. Il tito-

lo, e in particolare il termine “corre”, ci è sicuramente di aiuto per interpretare il soggetto. La scom-

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posizione dei gesti e dei movimenti della bambina sul balcone vengono catturati da Balla in una se-

rie di istantanee frammentate, in sequenza da sinistra verso destra.

Il primo problema che si pone è come facciamo ad affermare che il soggetto tratta di una bambina

che corre, avendo a disposizione solo delle figure geometriche colorate irregolari?

Secondo Wertheimer e gli psicologi gestaltisti il nostro sistema visivo organizza e articola le diverse

parti che compongono una scena, non in termini di unità elementari presenti nella configurazione,

ma in un certo numero di fattori che agevolano l’unificazione degli elementi in un tutto. Il risultato

visivo, fenomenico (ciò che appare), per usare un termine molto caro ai gestaltisti, è in genere una

riduzione degli elementi, che vengono raggruppati sulla base di alcune caratteristiche condivise. Il

risultato finale della nostra percezione avrebbe a che fare quindi con un tutto che non è semplice-

mente la somma dei singoli elementi, ma un’organizzazione immediata e unitaria delle diverse par-

ti. Esisterebbe dunque una tendenza ad articolare il campo visivo in base alla natura degli elementi

disponibili, che, in genere, raggruppiamo se sono vicini tra di loro, se sono simili per forma o colo-

re, se formano una configurazione chiusa, se la linea si sviluppa in una direzione continua e omo-

genea ed, infine, se costituiscono delle forme buone, cioè semplici, regolari, simmetriche o pregnan-

ti, per quanto le condizioni stimolatorie lo permettano e se in queste riconosciamo elementi noti.

Quando gli elementi figurali che costituiscono la stimolazione percettiva sono composti da un in-

sieme di elementi misti, si manifesta la tendenza all’articolazione di unità percettive fra elementi

che sono simili tra loro per un qualche aspetto. La legge della somiglianza può dipendere da

un’uguaglianza cromatica, di forma, di grandezza o altro. Secondo la legge della vicinanza, a parità

di altre condizioni, le parti più vicine di una configurazione vengono a formare unità figurali distin-

te e separate (Mastandrea, 2004).

Le macchie colorate, apparentemente caotiche che compongono la bambina, sono organizzate pro-

prio in base a queste due leggi della somiglianza e della vicinanza. Elementi cromatici simili ven-

gono raggruppati percettivamente in maniera da costituire le diverse parti del corpo della bambina.

Partendo dalla parte superiore riconosciamo i capelli o un copricapo composto da macchie colorate

e il volto formato da macchie più omogenee di varie tonalità di gialli. Percorrendo con lo sguardo la

figura verso il basso troviamo una serie di macchie prevalentemente azzurre che costituiscono il bu-

sto; un’interruzione del busto è data da una sorta di linea ondulata e, al di sotto, una serie di mac-

chie simili alla parte superiore che, in questa posizione, formano la gonna della bambina. Ancora

più sotto un’altra striscia di colorazione prevalentemente beige che forma il ginocchio della bambi-

na e più in basso macchie cromatiche per buona parte azzurre che formano i calzettoni e, infine, nel-

la parte inferiore macchie di colore nero che costituiscono le scarpe. I colori dominanti del dipinto

sono caratterizzati da varie tonalità di azzurro (busto, gonna e calzettoni), di giallo e marrone (viso e

ginocchia) e di nero (scarpe). Non esistono linee e contorni, per cui la capacità di riconoscere gli e-

lementi costitutivi della scena rappresentata è una sorta di problem-solving visivo; riusciamo molto

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bene a trovare la soluzione proprio attraverso la capacità che il nostro sistema visivo possiede di

creare delle unità figurali sulla base della unificazione di elementi singoli raggruppati sulla base dei

principi di somiglianza e vicinanza. Il riconoscimento finale della bambina che corre è reso possibi-

le grazie al confronto della scena del quadro con lo schema mentale che con l’esperienza ci siamo

formati di una bambina che corre. In mezzo a questo apparente caos di macchie colorate giustappo-

ste e sovrapposte, sembra impossibile, ma si riesce a riconoscere anche la ringhiera del balcone. Sa-

rebbe sicuramente molto più difficile vederla se il termine balcone non fosse stato indicato nel tito-

lo. Il nostro sistema visivo è in grado di unificare quelle macchie di colore che, in virtù del loro o-

rientamento verticale (si potrebbe parlare di somiglianza per orientamento), formano delle unità di-

stinte da tutto il resto della figura. Le barre verticali che formano la ringhiera possono anche essere

contate abbastanza facilmente e si scopre che sono in numero di dieci. E’ curioso notare che in una

fotografia (Fig. 11) sono ritratti i coniugi Balla con la figlia Luce nel balcone di casa, dove si può

vedere la lunga ringhiera; sulla destra della stessa figura è riportato uno studio sul movimento.

Fig. 11. A sinistra i coniugi Balla con la figlia Luce nel balcone di casa a Roma e, a destra, uno studio di Balla per Bambina che corre sul balcone, 1912

Inoltre, queste dieci linee verticali che di fatto costituiscono le barre della ringhiera di casa Balla

(Fig. 11) sono delimitate da una linea superiore ed una inferiore sempre composte da macchie colo-

rate; in questo caso però l’unificazione è disposta secondo un orientamento orizzontale. Il rapporto

tra le diverse rappresentazioni della bambina e la ringhiera crea un effetto insolito. Sembra persino

che il corpo della bambina si intrecci con la ringhiera: il corpo della bambina si trova in secondo

piano rispetto alla ringhiera collocata davanti, mentre i calzettoni e le scarpe sembrano fuoriuscire

dalla ringhiera fino a trovarsi davanti alla ringhiera che retrocede in secondo piano. Se assumiamo

che la ringhiera funga da cornice e le barre verticali da singoli fotogrammi cinematografici, possia-

mo contare nove diversi “scatti” della bambina in un progressivo spostamento di posizione.

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La rappresentazione del movimento è focalizzata in tre precise linee andamentali del quadro: la

prima collocata all’altezza della mano, la seconda delle ginocchia e la terza delle scarpe. Ad

un’attenta osservazione la mano segue un moto oscillatorio dapprima discendente e successivamen-

te ascendente, tipico del movimento reale della mano di una persona in corsa. Le ginocchia sembra-

no anch’esse mosse da una forza propulsiva che si esplica formalmente in una sorta di cuneo che

procede verso destra. L’occhio dell’osservatore segue le diverse tonalità del colore arancio che de-

finisce la mano e le ginocchia della bambina in corsa. Le scarpe, che risaltano per la loro caratteri-

stica cromatica nera, costituiscono l’elemento di maggiore mobilità del soggetto attraverso l’uso

della diagonale, che come è ben noto è utilizzata nella rappresentazione pittorica di un oggetto in

movimento (Arnheim, 1974). I tacchi delle scarpe sollevati da terra, assieme alle gambe imprimono

un forte dinamismo all’intera figura.

A differenza delle prime due opere esaminate, nella Bambina che corre sul balcone Balla non ha u-

tilizzato la tecnica della sfocatura dovuta alla persistenza retinica dell’immagine, bensì il principio

della traslazione dinamica dell’immagine, in sequenze presentate simultaneamente. Che cos’è il di-

pinto di Balla se non una trasposizione pittorica di quanto Wertheimer andava studiando sperimen-

talmente con il movimento apparente? Wertheimer aveva condotto la sua ricerca attraverso

l’accensione e lo spegnimento di due lampadine, in due posizioni diverse, in due tempi differenti.

Quando l’accensione e lo spegnimento in successione avevano una durata ottimale si percepiva un

movimento solo apparente in quanto nella realtà vi era assenza di movimento fisico. Balla pone tut-

te le lucine di Wertheimer, aggiungendo il colore, contemporaneamente sullo stesso piano e nello

stesso momento. Nell’esperimento di Wertheimer si è in presenza di una reale successione tempora-

le tra l’accensione delle luci, mentre nel dipinto, Balla aggiunge la quarta dimensione dello spazio,

il tempo, attraverso la scomposizione cinetica della bambina in corsa e la ripetizione della figura in

una nuova relazione spazio/temporale. In conclusione, il risultato finale, pur partendo da premesse

molto diverse, scientifiche da un lato e artistiche dall’altro, potrebbe essere definito equivalente.

Wertheimer e Balla non si sono mai conosciuti nella realtà, ma lo spirito del tempo li ha fatti incon-

trare.

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