Loggetta gennaio06 5 · 8 Salvatore aveva fatto il soldato come tutti a vent’anni, nel ‘6. Era...

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Anno XX n° 1 GENNAIO / MARZO 2015 Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 26-2-2004 n. 46) art. 1 comma 1 - DCB Centro Viterbo notiziario oggetta di Piansano e la Tuscia L la copertina di Giancarlo Breccola 102 “Noi” e la Grande Guerra “Noi” e la Grande Guerra

Transcript of Loggetta gennaio06 5 · 8 Salvatore aveva fatto il soldato come tutti a vent’anni, nel ‘6. Era...

Anno XX n° 1GENNAIO / MARZO 2015

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“Noi” e la Grande Guerra“Noi” e la Grande Guerra

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Ècosì che ho sempre sentito de-finire la grande guerra dai vec-chi del mio paese: “guerramondiale”, dando per sconta-

to che si parlasse della prima. La se-conda, quella del ‘40/’45, era “la guer-ra questa”, “l’ultima”. Dove non c’erasolo il riferimento ad un evento recen-te e ultimo in ordine di tempo, maanche un implicito giudizio di merito,unmisto di orrore e desiderio di rimo-zione. Un istintivo distinguo tra i dueconflitti, come abbiamo notato altrevolte.Quegli uomini del “quindici-diciotto”uscivano dalla guerra con l’aureoladel martirio e della vittoria. Una guer-ra essenzialmente europea, combattu-ta in casa, presentata come liberazio-ne dallo straniero e compimento del-l’unità nazionale (“quarta guerrad’indipendenza italica”). “Alla sacramemoria e a gloria di essi - è scrittonella lapide che a Piansano ne ricordai Caduti, uno a uno - che con l’olocau-sto della fiorente giovinezza concorse-ro alla redezione dell’Italia e degli op-pressi...”. Era il dicembre del 1919, al-l’indomani, si può dire, della fine delconflitto.I reduci del ‘45 tornavano invece dauna guerra di aggressione, sicuramen-te meno giustificabile sul piano mora-le, terminata con una sconfitta e unaorribile guerra civile. Ai lutti e alle sof-ferenze immani non faceva riscontrouna analoga carica epica e aureola dionorato servizio alla patria. Per moltotempo non venne in mente a nessunodi erigere un monumento per ricorda-re i nuovi Caduti, e quando nel ‘61/62se ne cominciò a proporre la costru-zione, nacquero subito delle discus-sioni sui nomi da incidervi, tanto chel’opera fu realizzata dopo altri sei annisenza alcun elenco nominativo: “Pian-

sano ai suoi Caduti”. I morti sono tuttimorti, ma come non essere portati adistinguere, da una parte o dall’altra,tra partigiani e collaborazionisti deitedeschi? Tra caduti in battaglia suivari fronti e vittime di ritorsioni e ven-dette politiche? E con quali criteri giu-dicare lealtà e tradimento nei tragicicambiamenti di fronte?, in quel confi-ne spesso angoscioso tra etica e dove-re che in frangenti estremi dilania lecoscienze?Quando, nel 2006, il colonnello Vitto-rio Ansalone presentò la sua poderosa

ricerca “Gloriosa Viterbo” sui decoratial valor militare della prima guerramondiale nati nella provincia, ammiseonestamente che un lavoro analogoper la seconda guerra sarebbe statofortemente problematico: non soloper le difficoltà intrinseche in ogniricerca del genere, ma soprattutto perle implicazioni politico-ideologiche diun conflitto disastroso sotto moltiaspetti e divenuto a un certo puntoguerra fratricida, senza più confini econ effetti devastanti su popolazioniinermi. Non che manchino pubblica-

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Antonio Mattei

La “guerra mondiale”Il primo grande conflitto del secolo XXnelle “retrovie” dei nostri paesi contadini

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zioni sul tema, ma non si possononegare le numerose zone d’ombra diuna storia convulsa e non pienamentecondivisa. Dove finisce il dovere mili-tare e comincia il crimine di guerra?Quando è amor di patria e quandoistinto di sopraffazione, settarismo esete di vendetta? E d’altra parte la sto-ria insegna che “banditi” e “traditori”diventano “martiri” ed “eroi” a secon-da del vincitore. Per cui eroi e vittimeinnocenti, anche civili, di quest’ultimoconflitto, rischiano il destino di “figlidi un Dio minore”.

Sarà un’impressione sbagliata, ma lecelebrazioni per il centenario dellaprima guerra mondiale, con rievoca-zioni commosse e recuperi pregevolidi memorie, in qualche caso sembra-no tradire la cattiva coscienza diun’Italia che si rifugia nella retoricapatriottico-risorgimentale per nonguardare in faccia le contraddizionidella sua storia più recente. Lì unapagina di gloria; qui l’ora buia del diso-nore. Con riverbero inevitabile suglisfortunati protagonisti, che diventanoper ciò stesso figli e figliastri.

Questo il primo motivo di perplessità.Poi ce n’è un altro, che riguarda la nar-razione di quell’immane carneficinache fu la prima guerra. Nel senso chea pagarne il maggior tributo di sanguefurono i contadini, ossia proprio quel-li che meno l’avrebbero voluta. Sono

noti i rapporti di forza e le polemichetra interventisti e neutralisti: minoran-ze agguerrite i primi, masse disomoge-nee questi ultimi. Tra i quali c’era lagente dei campi, in un’Italia ancoraprevalentemente agricola. Non soloper la condanna della guerra fatta dapapa Benedetto XV - culminata nellafamosa denuncia di “inutile strage” chenon poteva non trovare un’eco nellareligiosità popolare delle campagne -ma anche per l’estraneità viscerale deilavoratori della terra, quella più pro-fonda anima contadina che li rendecooperatori dell’opera della natura epermeati di fatalismo e rassegnazionecristiana. Se a ciò aggiungi l’eterna ne-cessità di provvedere ai bisogni pri-mari in un’economia di sopravviven-za, e l’incerta coscienza nazionale do-vuta a sua volta all’ignoranza larga-mente diffusa, ben si capisce come le

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Un accampamento di soldati italiani sulle balzedel Monte Nero (foto grande), un altro sul MonteSei Busi (foto a fianco, “Dolina maggiore Vene-zian”), e il trincerone del Genio a Castelnovo delFriuli (foto sotto), tutte sul fronte dell’Isonzo, in trescatti del sergente telegrafista Giulio Compagnoni

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masse contadine fossero assoluta-mente refrattarie all’idea di un coin-volgimento bellico. Consapevoli, tral’altro, del nessun peso politico-deci-sionale di una classe sociale da sem-pre esclusa da ogni diritto elettorale.“Le campagne tacevano - scrive il no-stro Bonafede Mancini - per l’atavicaconstatazione che la guerra sarebbestata decisa da altri”.E tuttavia ne sopportarono il pesomaggiore. E se, dopo la tragedia diCaporetto, si ebbe l’incredibile resi-stenza sulla linea del Piave fino acapovolgere le sorti della guerra, pas-sando nel giro di un anno dalla disfat-ta alla vittoria finale, si dovette in granparte proprio alla promessa delladistribuzione delle terre ai contadinisoldati. Senza i tratti distintivi deiquali, bisogna aggiungere, forse nonsarebbe stata possibile neppure quel-la conduzione strategica - che non staa noi giudicare, né dire se avrebbepotuto avere alternative - fatta diassalti frontali disperati di uomini lan-ciati al massacro contro postazionimunitissime e in posizioni dominanti.Le perdite altissime su tutti i frontisono il segno sia del freddo calcolo deicomandi militari sul costo di viteumane, sia della natura di uominiatavicamente “usi obbedir tacendo etacendo morir”, come fu scritto deicarabinieri.

Di quegli uomini bisogna considerarel’assoluta inadeguatezza a quella diffi-cilissima guerra di montagna, a con-tatto con altre genti e i linguaggi in-comprensibili degli stessi compagnid’arme. “O Gorizia tu sei maledetta”,impreca uno dei tanti canti di quellaguerra, legato alle sanguinosissimebattaglie dell’Isonzo: “Traditori signori

ufficiali / che la guerra l’avete voluta /schernitori di carne venduta...”. E anco-ra, nel canto “Addio, padre e madre,addio”: “...Sian maledetti quei giovanistudenti /che hanno studiato e la guer-ra han voluto / hanno gettato l’Italia nellutto / per cento anni dolor sentirà”. C’èdolore e rabbia, in queste espressioniistintive di protesta. E se, nella produ-zione musicale di genere, si trovanocanti di gagliarda baldanza come “Ad-dio mia bella addio”, o “La leggendadel Piave”, o la “Canzone del Grappa”come “La campana di San Giusto”...(antesignane di “Giovinezza” o “Fac-cetta nera” della guerra fascista),quante, per contro, le nenie tristi dicori, soprattutto alpini, legate a quellemontagne trasformatesi in cimiteriper decine di migliaia di ragazzi ven-tenni? E mentre le canzoni di più acce-so patriottismo hanno generalmente

un autore, come per un intento propa-gandistico mirato, i canti spontanei didolore sono perlopiù anonimi, comedire corali, di tutti, espressione diumori e sentimenti largamente diffusitra i soldati.Il retroterra contadino dei quali emer-ge anche da alcune battute, tra il realee il verosimile, rimaste nell’aneddoti-ca dei nostri paesi. Come quel padreche, al figlio in guerra sulle varie “quo-te” di quelle montagne, scrive: “Figlio,tu prendi la tua, di quota, e vieni via”;oppure quell’estroso fante inchiodatoin quella logorante guerra di posizio-ne, che in uno sfogo istintivo per gliscarsi successi militari e i più frequen-ti ripiegamenti, per evitare la censuras’inventa: “Qui si zappa poco e sivanga parecchio”, che solo un contadi-no traduce subito in ‘procedere all’in-dietro’.

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Cartolina viaggiata con la Preghiera del soldato italia-no (1915) e messa al campo sul monte Vodil (frontedell’Isonzo) in una foto dello stesso sergente telegrafi-sta Giulio Compagnoni.L’eterna contraddizione di ogni Chiesa in tempo diguerra: indispensabile conforto alle sofferenze e allepaure degli uomini in armi, e allo stesso tempo l’in-vocazione “Benedici o Signore le nostre armi” cheimplicitamente equivale alla maledizione di quellenemiche (in questo caso, tra l’altro, ugualmente cri-stiane). “Come se - diceva nel 1982 il presidente dellaCaritas mons. Giuseppe Pasini in occasione dellaguerra anglo-argentina per le isole Falkland - due fra-telli pregassero il padre comune di essere aiutati adammazzarsi”. Nel testo di questa preghiera, in ognimodo, c’è una sapiente insistenza sulla difesa dellapropria terra con propositi di pace a seguire

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Uomini che, se non erano partiti perla guerra direttamente dai campi,erano appena sbarcati dalle navi cheli avevano riportati dall’America. Unnumero altissimo, se si pensa chesolo i piansanesi chiamati alle armidovettero essere sui 350 e il parrocodell’epoca calcolava intorno a 500 gliemigranti “americani” nelle varieondate. Una uguale epopea che allefatiche della terra aveva aggiuntoquelle di ferrovie e miniere, e cheaveva ridotto quegli uomini, nella sta-gione migliore della loro vita, a emi-granti o soldati, ove si pensi che mol-tissimi erano rimpatriati una primavolta per la guerra di Libia e poi, ripar-titi, una seconda per rispondere allamobilitazione generale del maggio1915.

È evidente che questi uomini resistet-tero comunque alla prova crucialerivelando doti insospettabili. A partela resistenza fisica e la capacità di sop-portazione tipiche della gente deicampi, non c’è Comune dei dintorniche non possa vantare decorati alvalor militare, uomini che in svariatecircostanze dettero prova di forzad’animo e risolutezza eccezionali. E dicapacità acquisite sul campo o porta-te in dote dall’esperienza americana:addetti alle ferrovie pratichi di dinami-te, minatori esperti di gallerie, campa-gnoli abilissimi con i quadrupedi deireparti di cavalleria e someggiati...C’entravano, si capisce, anche l’ardo-re giovanile e un po’ di avventurismo,ma si potrebbe portare più di unesempio di sincero amor patrio e soli-da coscienza civica.

Epperò poche rondini non fanno pri-mavera. E per una nobile lettera scrit-ta dal fronte ai propri familiari, ci sonodecine di morti senza aver lasciatouna riga perché analfabeti; di dispersiin combattimento o in prigionia senzauna voce, i cui familiari sono venuti asaperlo a distanza di mesi o anni; didenunciati ai tribunali militari, anche,per essere stati sopraffatti dalla pauranell’inferno degli assalti o per avertentato l’automutilazione; di giovanifamiglie allo sbando per la perdita delmarito e padre...Ecco, pensiamo che non renderemmoloro un buon servizio mascherandonela tragica realtà dietro sventolii di ban-diere e squilli di fanfare. Non lo rende-

remmo né a loro né alla storia. Che seli emancipòmettendoli brutalmente incontatto con un mondo fatto anche dicittà, di macchine, giornali e fabbri-che, e magari, in qualche caso, ancheinsegnandogli a scrivere per fare lapropria firma; se in qualche modo lipromosse cittadini estendendo il suf-fragio elettorale maschile a chiunqueavesse fatto la guerra, indipendente-mente da ogni altro requisito; se, infi-ne, sembrò mostrarvi interesse conqualche accenno di legislazione socia-le e di “riforma agraria” postbellica at-traverso l’Opera Nazionale Combat-tenti, non ne scalfì tuttavia la millena-ria arretratezza culturale e di fatto nonne migliorò che in apparenza le condi-zioni economiche, con i rapporti diforza rimasti anzi irreggimentati peraltri vent’anni e fino alla fine delsecondo conflitto.Ecco perché, mentre sentiamo il sa-crosanto dovere di ricordare questatappa fondamentale della storia nazio-nale, temiamo di tradirla o banalizzar-la ove non vi cogliessimo il “testamen-to” vero di quanti vi sacrificarono lavita; ove la riducessimo ad una sortadi gara tra miseri per esibire medaglie-ri e benemerenze patriottiche; ovenon ne facessimo tesoro, e non riu-scissimo a trasmetterne il messaggio,per capire quanto... l’alloro, per dirlacon Foscolo,... “di che lacrime grondi edi che sangue”.

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Reticolato austriaco “Davanti alla trincea delle Frasche” (foto di Giulio Compagnoni)

Cimitero di guerra(foto di Giulio Compagnoni)

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Salvatore aveva fatto il soldatocome tutti a vent’anni, nel ‘6.Era contadino, non arrivava a

uno e sessanta, aveva la dentaturaguasta e non sapeva né leggere néscrivere. Più o meno come tutti. Maera forte e di gran cuore, e nel ‘12,dopo qualche anno di America -dov’era sbarcato almeno tre volte trail 1906 e il 1909 e si era fatto fare ilritratto tutto in ghingheri che vedia-mo - si era sposato con la ‘Ntògna delpòro Baldóne, una Binaccioni dagliocchi vivi e innamorati. L’anno dopoavevano avuto la primogenita Siria edopo altri due anni Paride. La mobili-tazione generale del maggio 1915piombò in quella casa come unadisgrazia. Salvatore e Antonia, checome tanti si erano sposati soltantocon rito religioso, andarono in Comu-ne a regolarizzare la posizione loro edei figli (Paride era nato quel giu-gno), e quindi Salvatore partì. Queimatrimoni dell’ultim’ora sembrava-no testamenti. Nel ‘15 ce ne furonotantissime, di quelle regolarizzazionicivili, perché con il richiamo in guer-ra, in caso di morte si sarebberolasciati se non altro moglie e figlilegittimi. A novembre di quell’anno,in ogni modo, Salvatore era nell’87°reggimento fanteria, da cui transitònel 32° e poi di nuovo nell’87° enell’84° e nel 148°. Fece tutta la guer-ra andando e tornando dalle primelinee. A luglio del ‘17 si ammalò gra-vemente in trincea e ad agosto fumandato a casa in licenza per qual-che giorno. Con l’incancrenirsi dellaguerra, sentiva che non sarebbe piùtornato e non ce la faceva a staccarsida casa, ma il 30 di quello stessomese era di nuovo al corpo per

l’ultima assegnazione al 266° fante-ria. Tornò ancora in licenza e ripartì,sempre con la malattia addosso.Paride era morto come un angiolettoa un anno e mezzo di vita ed erastato rimpiazzato da Lidia, venuta asettembre del ‘17. Presentarono unadomanda per ottenere il congedo ouna convalescenza, e le lettere dellamoglie negli ultimi mesi dovetteroessere per Salvatore il suo unico via-tico. Antonia, analfabeta anche lei, se

le faceva scrivere da la Pèppa de lapòra Modestia, e nella dettatura sentila trepidazione di questa giovanesposa con due creature da allevare.Salvatore le conservava come reli-quie, quelle lettere, e dopo la suamorte furono restituite alla famigliaben ripiegate dentro alla tasca milita-re di stoffa grigioverde. Sono seifoglietti ingialliti, scritti a distanza diotto-dieci giorni l’uno dall’altro traaprile e maggio del 1918:

Caro Salvatore, io rimasi molto addolo-rata della tua partenza... Non facevoaltro che piangere da quanto mi fececaso. Di più, pensando a te che partistiaddolorato perché dovevi fare un brut-to passo. La venuta è molto bella e lapartenza è molto brutta. Quei quindicigiorni passano come il vento. Mi pareche a casa non ci sei stato per niente,e lo stesso effetto farà a te, ma speria-mo di rivederci presto coll’aiuto di Dioe Maria Santissima, ché solo loro devo-no pensarci a darti forza e fortuna diritornare presto sano e salvo... [...] Daldottore ci sono andata cinque volte perpigliare il certificato [da allegare alladomanda presentata, ndr], ma peròha fatto proprio come si deve e di piùnon ha voluto niente (ma io gli ho por-

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Gli esempi che seguono sono tratti e variamente rielaborati daun mio precedente libro sui Caduti di Piansano nelle due guer-re mondiali: Quei morti ci servono, pubblicato nel 2001 a curadel Comune di Piansano presso la tipografia Ceccarelli di Grot-te di Castro. In esso confluirono diversi miei articoli su aspet-ti particolari legati al tema e pubblicati nella Loggetta in tempidiversi: La “razza” - i rapporti di parentela nelle comunità con-tadine (Loggetta n. 14 di lug 1998, pp. 1-3); Un istante per morire, ottant’anniper l’atto di morte (Loggetta n. 23 di gen 2000, pp. 2-3); “Il fu” Mattei Giovanni (Logget-ta n. 33 di set. 2001, pp. 1-3), oltre all’articolo di Umberto Mezzetti La guerra del Canu-to (Loggetta n. 13 di mag 1998, p. 14). Ad essi fece seguito una mia integrazione suidecorati al valor militare della prima guerra: Eroi d’un giorno (Loggetta n. 62 di mag-giu 2006, pp.39-42). Seguiranno altri esempi nei prossimi numeri dell’annata.

Appendice

I coniugi Antonia Binaccioni e Salvatore Brizi (nato a Piansano nel 1886, soldato del 266° reggimentofanteria, morto il 23 giugno 1918 nell’ospedaletto da campo n° 119 per ferite riportate in combattimen-to. La salma venne sepolta nel cimitero di guerra di Mirano Veneto e successivamente traslata nel tem-pio-ossario di Udine)

Famiglie “allargate”

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tato venti òve che lui ha molto gradi-to)... [La domanda l’ho spedita] perespresso e c’è voluto tredici soldi, dun-que speriamo bene...[...] Antonio della zia Maria si trovaprigioniero in Austria e si è saputo perparte del figlio di Capodipiccia, anchelui prigioniero, che ha mandato a direche lo ha veduto mentre andava allavoro... [...]. Le nostre care bambinestanno bene, ma adesso alla Siria le èvenuto un male agli occhi e giorno enotte non fa altro che piangere... qua cisono molti bambini che hanno malecome loro... Nella lettera mi dici chedevo mettere tanti fagioli, ma laggiùnella valletta ho messo pure un pezzet-to di granturco e per il resto tutti fagio-li. Pure il granturco è molto necessarioper la casa, e dunque pure di quello sene posso pigliare quattro o cinque staiami farebbe proprio comodo [...] Midispiace che non potevi trovare la stra-da. Ad averci pensato, si portava viaqualche moccoletto, ma quando si è lìsi leva dalla mente tutto e non si capi-sce più niente di quello che si fa... [...]Mario [fratello di Antonia] è venutofinalmente, più si è fermato tre giorni aRoma dalle zie: di quella domanda cheabbiamo fatto, gli hanno detto che tustai in zona di operazioni ed è moltodifficile che ti possano mandare, mapoi hanno parlato pure con un tenentee gli ha detto che se tu puoi venire aldeposito, si fa un’altra domanda ed èmolto più facile... Adesso, con la com-binazione che ti trovi all’ospedale, setu potessi venire in Italia [= essere tra-sferito in un ospedale interno], tipotrebbero richiedere anche a Roma...perché se ti possono fare qualche bene,te lo fanno. [...] In quanto agli occhi,però, ancora non vònno guarire, e dipiù mi si sono ammalati pure a me...,sennò stiamo proprio bene... Mario èpartito ieri ed è passato da Roma. C’èandata pure mia madre per quattro ocinque giorni. Volevano portare pure laSiria, ma a causa degli occhi nonhanno potuto portarla... Non puoiimmaginare quanti pianti ha fatto...Mo’ gli dico che quando che vieni tu, cela porterai... Tanti saluti da Neno eMario, dai miei e tuoi genitori, salutidalla Margherita e Colombo, dai mieizii, da... e Margherita, dalla Rosa efamiglia, baci dalle nostre care bambi-ne, e in ultimo ti saluto io, e ti dò millebaci e un forte abbraccio, e sono tuasposa per sempre Antonia. Buona for-tuna di rivederci presto...[...] Speriamo che Iddio non ci abban-donerà mai, che verrà un giorno chepotremo stare tranquilli e contenticome una volta, che si stava moltobene, e avranno fine tutti i guai e le tri-bolazioni che passiamo in questotempo...

A giugno, quando sembrava essersirimesso del tutto ed era uscito dal-l’ospedale (dove era ricoverato ancheil tenente Oreste Borghesi, sindaco diMontefiascone, che vi morì una setti-mana più tardi), a Salvatore gli scop-piò a fianco quella bomba che gli tra-fisse la colonna vertebrale, e fu inutilela corsa all’ospedaletto del campo.Qualche giorno dopo Antonia rientra-va a casa dall’essere stata a vangare lavigna e notava che i passanti la guar-davano in modo insolito. Il cuore leimpazzì, perché cominciò a venirle perla testa che Salvatore fosse tornato, einvece incontrò il povero don Giaco-mo che le dette la tragica notizia.

*Questa sventura finì per intrecciarsi inmaniera davvero singolare con quelladi altri due contadini soldati, di cuiuno morto anch’esso al fronte e l’altrosopravvissuto e tornato in paese: giu-sto in tempo per vedere la mogliemorire di spagnola nell’ottobre del ‘18.Questo reduce era Irenèo Melaragni,classe 1884, che con tre figli piccolicercò subito una nuova sistemazionesposando Maria De Carli, vedova diguerra e con due figli altrettanto pic-coli. La Marietta si era infatti sposatanel 1909 con Mario Di Virginio, cadutoin battaglia nel Trentino nell’aprile del‘17, e per non perdere la magra pen-sione di guerra si sposò con Irenèo colsolo rito religioso. Ne ebbe due figli,che per la legge rimasero naturali e

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Mario Di Virginio, nato a Piansano nel 1884, spo-sato con Maria De Carli, soldato del 70° reggimen-to fanteria, morto il 5 aprile 1917 nel posto avan-zato della sinistra Fondo Leno per ferite riportatein combattimento, sepolto nel cimitero di Anghe-beni (frazione del comune di Vallarsa, in provinciadi Trento)

Irenèo Melaragni (1884-1935), reduce di guerra

che naturalmente furono “imbrancati”con quelli precedenti dell’uno e del-l’altra. Dopodiché la donna morì diparto nell’aprile del ‘24 e Irenèo, a que-sto punto con sette figli sulle spalle,dovette necessariamente trovare unanuova sistemazione. Era il suo quartomatrimonio, perché la prima moglieera morta senza avergli dato figli nel1906. L’ultima fu appunto Antonia Bi-naccioni, la vedova di Salvatore Brizi,che ora aveva le sue due figlie sugli8/10 anni e assolutamente non volevasaperne di risposarsi. Era rimasta cosìtraumatizzata dalla perdita del maritoche non finiva di maledire quella bom-ba assassina e lì per lì aveva infittito levisite ai malati di spagnola per pren-dersi il contagio e farla finita anche lei.Ora fu sua madre a convincerla: “Pren-di questo possidente - le diceva di Ire-nèo - sennò come fai con due figli picco-li? Saresti costretta a lasciarli a uno o aun altro per andare a lavorare in Ma-remma!”. Sicché quelle sue due figliefinirono per aggiungersi ai sette di Ire-nèo e agli altri tre che poi nacquerodal loro matrimonio. In tutto dodici!,anche se poi i due precedenti figli diMarietta (e di Mario Di Virginio), nonavendo più in quella famiglia né padrené madre biologici, andarono a viverecon gli zii, pur mantenendo, con Ire-nèo e i suoi, legami di affetto e solida-rietà. Un intreccio di fratelli e fratella-stri - germani, consanguinei, uterini...,legittimi e naturali - da creare una retecosì complicata di parentele e affinitàin cui neppure gli stessi interessati so-no mai riusciti completamente a rac-capezzarsi.

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Antonio era un pastore lentiggi-noso che aveva la sua età, lasua famiglia numerosa, e sicu-

ramente pensava di non aver più nien-te a che fare con le armi. Il serviziomilitare l’aveva fatto da tempo, all’etàgiusta e anche con qualche soddisfa-zione, come portaferiti e soprattuttotiratore. All’atto del congedo gli erastata concessa la solita “dichiarazionedi buona condotta” e per di più avevacontinuato a presentarsi per le istru-zioni periodiche per tutto il primodecennio del secolo.Nel frattempo si era sposato ed avevaavuto cinque figli, due maschi e trefemmine. Sicché era andato in Ameri-ca e coi soldi inviati era riuscito acomprarsi una bella casa al primopiano in Via Roma. A quel punto

avrebbe voluto rimpatriare, ma lamoglie gli scrisse di non venire per-ché stavano chiamando alle armianche quelli della sua classe (tra chia-mati e richiamati, si ritrovarono allearmi tutti i nati dal 1874 al 1900: 27classi!, con potenziali padri e figli fian-co a fianco). Antonio venne lo stessoe naturalmente fu richiamato, facen-dosi quasi tutta la guerra dal 25 mag-gio del ‘15 al 25 luglio del ‘18, quandofu mandato a casa devastato dallatubercolosi. In seguito fu riconosciuto“permanentemente inabile al serviziomilitare” e gli mandarono a casa ilcongedo, ma lui era già morto.Nel frattempo gli era nata un’altrabambina nel ‘16 (che rimpiazzòl’ultima di tre anni, morta pochi mesiprima); gli era morta la moglie di spa-

gnola nel ‘18, e, non potendosi muove-re dal letto, aveva dovuto affidare ibambini ai nonni materni. Alla suamorte, quella bella casa fu sbarratacome se vi avessero abitato degliappestati. Quella malattia portatadalla guerra pesò sempre su tutta lafamiglia come un macigno. Gli diceva-no “razza tubercolosa”. Non era veroche fosse una tara ereditaria, tantoche in famiglia sono tutti vissuti piut-tosto a lungo, ma la malattia era con-tagiosa e quell’accusa era comeun’onta infamante, anche per trovarda maritarsi od ammogliarsi.I cinque figli si stiparono dunque incasa dei nonni, un vano giù per le Sca-lette invaso di letti e brandine. Natu-ralmente i nonni non sapevano distri-carsi con “le carte” (Titta Casali eraanche paralizzato) e non riuscironoad evitare la partenza alle armi delprimogenito Pèppe, che nel ‘26 vennemandato in servizio militare a Calta-nissetta (da cui però fu rimandato infamiglia quasi subito). Nel frattempola piccola Gina, ultima arrivata, avreb-be dovuto essere adottata da un diret-tore di posta romano, venuto a Pian-sano appositamente per parlare conla maestra e i nonni. Sembrava cosafatta, ma il fratello maggiore Pèppe,informato a Caltanissetta, scrisse tele-graficamente di no, sennò non sareb-be tornato più lui: “Cinque figli siamo,e cinque dobbiamo rimanere!”. Così iragazzi si aiutarono a crescere avicenda e Annétta, annoiatasi di quel-la sacrificata convivenza coi nonni,tornò ad aprire di prepotenza la casadi Via Roma.Più che “ricordi di guerra”, questisono marchi a fuoco che ti condizio-nano per sempre l’esistenza. E non sose è un’impressione, ma in alcuni diquei figli, che ho conosciuto da vec-chi, mi sembra ora di ricordareun’uguale espressione degli occhi,spenta e umanissima insieme, comeper antico bisogno d’affetto.

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“Razza tubercolosa”

Piansano, 1914 circa. Il ritratto da inviare al mari-to in America (studio fotografico Baldi di Acquapen-dente). La famiglia al completo comprendeva iconiugi Antonio Sonno e Rosa Casali, con i figliMaria (1904-1943), Giuseppe (1906-1991), Gio-vanni (1908-1993), Anna (1910-1988), Ines(1913-1916) e Gina (1916-2005, assente in que-sta foto perché non ancora nata). Il capofamigliaAntonio, nato a Piansano nel 1877, fece tutta laguerra come soldato di fanteria fino al luglio del1918, quando fu congedato per riforma: giusto intempo per veder morire di spagnola la moglie tren-tottenne, e poi seguirla nel settembre del 1920

5° reggimento genio era passato alla136a centuria del 1° reggimento genio(305a compagnia) e poi al 120° reggi-mento fanteria, che come sappiamoera schierato lungo quel carnaio cheera il fronte dell’Isonzo. Era così labileil confine tra la vita e lamorte che i suoisuperiori neanche s’accorsero che nonc’era più, e ancora dopo la sua mortecontinuavano ad eseguire annotazionisul suo foglio matricolare: “Inviato inlicenza illimitata il 18 dicembre 1918...;In congedo illimitato il 16 agosto 1919...;Prosciolto definitivamente dal servizio il31 dicembre 1920...”! Nella realtà, quel“morì nelle mane del nemico” incisosulla lapide al cimitero, con il suo erro-re dialettale è ancora più vero eimpressionante. Ne abbiamo contatiotto, tra i nostri 47 Caduti, di morti neicampi di prigionia austro-ungarici, equasi tutti nell’ultimo anno di guerra.“Senza pane e senza patria”, commen-tava un giornalino militare nella prima-vera del ‘18. Alcuni vi giunsero feriti,ma il freddo e la fame fecero il restocon malattie polmonari e intestinali,mentre diversi altri prigionieri (tra iquali tre decorati al valor militare) riu-scirono fortunatamente a tornare inpatria alla fine del conflitto.Con quattro figli piccoli, la vedova diChécco Colelli non sapeva come fare.All’inizio non le dettero neanchel’infidèo della cooperativa assegnatoagli ex combattenti: dicevano che ledonne non erano in grado di lavorare laterra e che il loro compito era quello diallevare figli. Ma tutte le vedove di guer-ra si risentirono e allora furono ricavatiai Formoni degli appezzamenti di otto onove staia, ossia della metà degli altri.Tutte le vedove di guerra si ritrovaronoconfinanti di terreno a lavorare conzappe e vanghe. La Maria era donnetta

delicata e assolutamente non abituata alavorare la terra, ma vi andava ugual-mente coi figli e seguiva soprattuttoLazzaro, ormai quindicenne, che dovet-te imparare presto dai vicini e si sentìsempre “padre” delle sue sorelle, finquando non si maritarono.Non tutte le vedove di guerra si rispo-savano, naturalmente. Dipendeva datante variabili: l’età e il numero dei figli;i pochi beni di famiglia; le possibilità diappoggio presso familiari e parenti.L’Adele del pòro Nazareno Ceccariniper esempio “andò per serva”, supe-rando in ogni caso un non facile tabùper una condizione ritenuta umiliante erischiosa per il pudore, percepita nelsentire comune quasi come diventare‘proprietà padronale’. Ma lei riuscì amantenere onoratamente la famigliafacendo per tanti anni “la serva deicarabinieri” (succedendo alla storicaPica) e poi la graziàna dei De Simoni.

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Francesco Colelli, nato a Piansano nel 1881, spo-sato con Maria Bonifazi, soldato del 205° reggi-mento fanteria, morto per èdema il 21 febbraio1918 nel campo prigionieri di guerra di Milowk(oggi Milowka, in Polonia).

“Nelle mane del nemico”

Dopo il servizio militare nell’l,Chécco del Guardiano avevamesso su famiglia ed avevaavuto i primi tre figli: Lazzaro,

Marianna e Anastasia (che per unostrano processo linguistico del nostrodialetto tutti hanno sempre chiamato econosciuto come Nostasìa). Quindicedette anche lui al miraggio dell’A-merica e vi andò emigrante per diversianni, riuscendo a mettere da parteoncia a oncia qualche risparmio e acomprarsi quella casetta giù ppe’ leCappannèlle rimasta poi di famiglia. Alritorno le nacque l’ultima figlia, chechiamò Amerìga in ricordo della lungapermanenza in quella terra lontana dilà dal mare. Quando fu richiamato allearmi a febbraio del 1916, fu comevedersi stroncare una costruzionepaziente di opere e affetti. Forse non sene rese neppure conto, ma baciò lamoglie e i figli e non li rivide più: Lazza-ro, il maggiore, aveva undici anni, eAmerìga, l’ultima, neppure due. Inviatoin zona di guerra dopo un paio di setti-mane, giunse sul campo di battaglia il20 maggio, giorno della nostra festapatronale. Dalla 4a sezione ciclista del

“Le ultime vangate”, dipinto del 1892 di Angiolo Tommasi (1858-1923)

Quella del ‘15-’18 fu una guerracombattuta, sofferta e vintanon solo dai soldati al fronte,ma anche da coloro che ri-

masero a casa a garantire l’ordinesociale ed economico italiano, in unarealtà che vedeva assente un terzodella popolazione maschile (Ischiacontava 2700 anime circa, e più di 400uomini sotto le armi). Furono le donnead assumersi l’onere di far rimanere inpiedi l’economia di un Paese in guerra.Le donne nelle città presero i ruoli deiloro padri e mariti nei servizi e nellefabbriche; impararono a guidare iprimi tram, a fare le postine, e al fron-te le consegne in trincea. Vinsero lapaura non solo dei proiettili e dellecannonate, ma anche quello di bruttiincontri lungo le retrovie della trinceadove cucinavano per le truppe. Maper le donne ogni luogo d’Italia haavuto il suo fronte: quello dei conti intasca delle famiglie senza più il contri-buto lavorativo di un uomo. Spesso isussidi per i familiari del combattentenon arrivavano regolari ed avevanoforti ritardi; non solo circolava pocamoneta liquida, ma anche i beni diprima necessità scarseggiavano per

tutte quelle braccia maschili impegna-te nel conflitto o per la necessità stata-le di sfamare il suo esercito.In paese mancavano gli uomini, i loromestieri e la loro paga. Così molte gio-vani donne presero il posto di padri emariti nei latifondi; altre, di tutte leetà, senza un pezzo di terra proprio oaltrui da coltivare, s’inventarono ognitipo di attività commerciale. Tra lafine del ‘15 e gli inizi del ‘19 ci fu inIschia un boom di rilascio di licenzecommerciali a nome di donne conuomini sotto le armi che è paragonabi-le soltanto a quello dei primi anni ‘80.Le donne della prima guerra mondia-le, soprattutto quelle dell’ex statopontificio, conobbero la loro primaemancipazione: nella sofferenza enella fatica, sì, ma per la prima volta laloro vita stava nelle loro mani e nelleloro capacità. Sfatarono la buonadecenza di allora che voleva le “donnea modo e per bene” uscire solo seaccompagnate, perchè c’era una guer-ra e certe buone maniere dovevanoper forza essere accantonate. Diceva-no “...non ci si vergognava più di porta-re il proprio cesto da sole...”. Vinta laritrosia da retaggio culturale, furonole prime a rendersi conto del contribu-to che potevano dare alla società e afar uscir fuori le loro capacità impren-ditoriali, proprio quelle della piccolaimpresa tipica italiana.A Ischia le donne del ‘15-’18 s’improv-visarono vinaie e ostesse, fornaie, pol-livendole, venditrici ambulanti di frut-ta e verdura, barbiere, ma anchemani-fatturiere artigianali di merceria varia,come Giuseppa Federici che “esporta-va” i suoi prodotti anche nei paesilimitrofi. Gli uomini della famiglia Sca-gnetti partirono tutti alla guerra e lagiovane Maria da allora sfruttò la bra-vura nella sartoria in un promettentemestiere: divenne sarta di professio-ne, e tutti i signori del circondario por-tavano abiti suoi. In quegli anni prese

piede a Ischia un tipo di commercioche finì con la guerra: il pescato delFiora, che entrò, aggiunto a penna, nelcalmiere ischiano. Ischia non è maistato un paese di pescherie, mentrenel periodo bellico ve ne erano bencinque. L’allevamento di animali dacarne di media e grossa taglia erariservato al cliente Stato, i bifolchierano sotto le armi, e non era più pre-sente in paese la figura del veterinario(e del dottore. La popolazione malatasi rivolgeva a Meca la Raschia, cheperò aveva ricevuto dal parroco donVolpini il divieto di pronunciare le sueformule magiche, mentre ne accettavala medicina tradizionale; anche i guari-tori Bastiano e Talbonzio la praticava-no).L’apporto proteico era rappresentatoda pollame, uova e pesce. I ragazziniche non avevano più bestiame daaccudire andavano a pescare al Fiorae le loro madri vendevano quel pesca-to a ben quattro lire al chilo in queirimissini ricavati nel tufo che primaospitavano animali. Come luogo dirivendita scelsero le periferiche Piae(Via del Fiore) e il Zompo de MastroGiovanni (Via delle Cantine), perchè visono i fossi sottostanti a strapiombo,per cui le frattaglie del pesce gettate disotto non avrebbero dato cattivoodore nell’abitato. La manutenzionestessa del paese venne affidata adonne, come “La Veronica”, primaoperaia comunale donna, che si occu-pava della nettezza urbana, dellamanutenzione delle fontane pubblichee del lavatoio comunale (le unichedipendenti municipali fino ad alloraerano state semplicemente addettealla pulizia degli uffici).Finito il conflitto ben pochi di questiesercizi rimasero in attività, ed il rien-tro degli uomini a casa e al lavoro disempre dimostrò che l'emancipazionefemminile paesana non era stata unfatto voluto, cercato e cosciente, mauna necessità nella contingenza mo-mentanea della guerra. Nonostantesiano state le donne a mandare avantil’economia italiana nel periodo belli-co, l’immagine che di loro c’è statalasciata nell’immaginario è quelladelle “buone crocerossine”, per unavisione della società che ancora vole-va la donna in un ruolo comunquesubordinato alla cura e all’assistenzadell’uomo.

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Ischia di Castro

Maura Lotti

Ischia ‘15-’18:il paesedelle donne

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Ma il canto romanesco nonrievoca il seguente caso,perché non poche lacrimedeve aver versato la signo-

ra Loreta Cappuccini nel veder partireper il fronte del ‘15-’18 tutti i suoi cin-que figli, in barba alle categoried’arruolamento che prevedevanoesenzioni dal servizio mili-tare per questi casi. Eranouna famiglia numerosa dicampagnoli, residenti inVia di Cellere 56. Per primipartirono richiamati Erme-te e Alfredo, poi di levaanche Giuseppe, France-sco e Giovanni. Ma propriodi Giuseppe, il più riottosoal reclutamento, tornò acasa solo la sua medagliadi bronzo, conferitaglipostuma nel 1919 per ilseguente episodio:

Durante il ripiegamento,comandato a inutilizzare ipezzi della batteria, compi-va il proprio dovere concalma e fermezza sotto ilbombardamento nemico.Sorpreso da una pattugliaavversaria, benché disar-mato, si slanciava controdi essa, e, con viva collutta-zione contribuiva efficace-mente a catturare tre nemi-ci ed a mettere in fuga glialtri. Carso, 28 ottobre1917.

Nato il 16 aprile del 1893 inIschia di Castro, fu soldatodel 2° reggimento bombar-dieri (13° gruppo bombar-dieri, 6a batteria), bersa-gliere. Prese parte alle ope-razioni militari che feceroda sfondo alla battaglia diMontebello. Morì a Lance-nigo (Villorba) il 27novembre 1918 per feriteriportate in combattimen-to; morì assieme ad unaltro bersagliere ischiano, GiuseppeBiselli, nelle medesime circostanze. Lasua sepoltura si trova presso il sa-crario di Nervesa della Battaglia.Avendo già due fratelli in guerra non

avrebbe dovuto essere stato chiamatoal dovere verso la Patria (date anchealtre condizioni di stato civile dellafamiglia), eppure il 3 aprile 1916 passòla visita di leva che lo rese abile arruo-lato, seppur momentaneamente ido-neo soltanto per servizi sedentari perpostumi di frattura al piede sinistro.

Precedentemente era stato riformatoin rassegna speciale per postumi di lus-sazione dell’articolazione tibio carpicadestra. Purtroppo per lui l’escamotage

dell’autolesionismo non funzionò duevolte (pratica assai diffusa sia tra iragazzi che dovevano presentarsi allaleva sia tra i soldati al fronte per otte-nere licenze o non farsi mandare inprima linea). Questo sano e robustoragazzo ventitreenne di un metro esettanta e dai 92 centimetri di petto

era fisicamente il soldatoperfetto per il regio eserci-to italiano. Per lui non erastato necessario aggiunge-re centimetri d’altezza o ditorace per raggiungere iparametri di reclutamento,come invece si era assaiverificato nelle visite deiriformati per deficienze. Cifurono casi di ragazzi fatticrescere sulla carta di benquattro centimetri in tremesi, tra una visita e l’altra,per farli tutti abili arruolati.Così come i richiamati piùin là con l’età si vedevanonotevolmente migliorate(sempre sulla carta) le pro-prie condizioni di salute: lasordità da un orecchiodiventava così una sempli-ce otite ed un precedentedeperimento organico sidimostrava solo una lievegracilità. Serviva ogni brac-cio possibile da mandare asparare o nell’indotto belli-co: robusto, esile, esentabi-le o meno; i modi perarruolare chiunque eranostati ben insegnati ai buro-crati e ai medici di leva.Giuseppe Civitelli feceparte di quell’esercitoreclutato per forza, e diquella terza parte di Cadutiischiani che, stando allaloro situazione civile o fisi-ca, non avrebbero dovutoneanche esser stati arruo-lati, ma che furono tra i piùsaldi al loro dovere (e perquesto ricompensati da

onorificenze), proprio perché impron-tati e abituati all’obbedienza nella lororealtà quotidiana del latifondo.

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“...O bersagliere parti contento,tra ‘n bacio e ‘n artro ar reggimento...”

Giuseppe Civitelli, nato a Ischia di Castro nel 1893, bersagliere del 2° reggimentobombardieri, morto a Lancenigo (Villorba) il 27 novembre 1918 per ferite riporta-te in combattimento, sepolto nel sacrario di Nervesa della Battaglia. Decorato allamemoria di medaglia di bronzo al valor militare

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La breve monografia del bersa-gliere Giuseppe Civitelli mo-strava l’arruolamento di massamesso in atto dall’apparato

militare durante gli anni della grandeguerra. Non tutti i nostri fanti peròerano riottosi all’arruolamento. I figlidei benestanti ischiani si arruolavanovolontari, e con il loro titolo di studiopotevano ambire a gradi o a mansionid’ufficio lontane dal fronte, come gliischiani G. Egisti Pellei (ufficialed’amministrazione) o i cugini Candidoe Alberto Baldeschi, entrambi gradua-ti, e il ragioniere G. Simoncini, sottote-nente contabile sfuggito alle pallottoleeuropee e africane ma ucciso damalattia. I ragazzi meno abbienti inve-ce vedevano nell’esercito un migliora-mento delle proprie condizioni di vita,soprattutto nutrizionali. Il giorno del-l’entrata in guerra fu pubblicato sullagazzetta ufficiale l’aumento dei sussidigiornalieri per i soldati. C’era unaretribuzione di 60 centesimi per ilcombattente, altri 60 per la moglie e30 per ogni figlio. Ai genitori che vive-vano con un soldato celibe spettavauna lira al giorno, alle eventuali sorel-

le o fratelli conviventi 30centesimi. Tali erano leretribuzioni dell’esercitoper i militari residenti neipaesi; quelli che vivevanonei capoluoghi ammini-strativi o di distretto ave-vano diritto a sussidi leg-germente più alti. Per unafamiglia media con uno odue uomini arruolati (iquali mandavano la pro-pria paga a casa perchénutriti dal regio eserci-to) significava più omeno tre lire giorna-liere, cioè il potere diacquisto, stando alcalmiere ischianodell’epoca, per duechili di pane, oppuredue litri di latte, omeglio tre etti di car-ne di vitella o mezzochilo di castrato. Aibraccianti retribuiti agiornata allettava la pa-ga certa nel momento distallo nel lavoro dei campi,e la paura del pericolo veniva attenua-ta dal fatto che inizialmente la guerraera stata ventilata come un breve con-flitto risolvibile al tavolo delle trattati-ve. Inoltre l’esercito garantiva (conl’enorme sforzo finanziario a cui fusottoposta l’economia italiana) bentre pasti quotidiani per i suoi soldati,un rancio sostanzioso da tre/quattro-mila calorie giornaliere. Quegli ischia-ni nominati nei registri come campa-gnoli, villani, pastori, e così via, dal-l’esiguo torace, quasi sicuramentenon avevano mai conosciuto la carnenel piatto tutti i giorni né tanto menomai assaggiato il cioccolato. NeancheDante Fossati (1899-1984) aveva maivisto “la mattonella” prima di indossa-re l’uniforme, tanto da dover guardarei commilitoni cosa ne facevano; quan-do capì che era cibo commestibile e

dall’odierna nota bontà, disse al suosergente che se gli fosse stata elargitaanche il giorno dopo avrebbe avutoun motivo aggiuntivo per uccidere ilnemico: “le ‘strìache”. Era un Ragazzodel ‘99, legionario fiumano agli ordinidi Gabriele D’Annunzio, partito volon-tario appena diciottenne infervoratodalla propaganda irredentista e nazio-nalista. Il fronte triestino e istriano isti-garono maggiormente certe tendenze,preparando il substrato politico deiragazzi come Dante che di lì a pochianni si sarebbero ritrovati nella Mar-cia su Roma.

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“Na mattonellap’ammazza’le ‘strìache”

Dante Fossati di Ischia di Castro (1899-1984),legionario fiumano volontario agli ordini di Gabrie-le D’Annunzio

Francobollo commemorativo dei “Ragazzi del ‘99”

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consentito di risparmiare grano in quanto, essendo menoappetitoso, se ne sarebbe mangiato in quantità minore. Enuovamente si tornò sulla qualità del pane a distanza diun paio di mesi quando, con un altro decreto luogotenen-ziale, si decise un pesante aumento della percentuale diabburattamento della farina.

PANE DI GUERRA - Secondo gli ultimi Decreti ministeriali e luo-gotenenziali col 1 marzo prossimo si dovrà mangiare tutti untipo di pane unico che sarà uguale tanto per l’esercito cheper la cittadinanza. Il pane si comporrà con farina abburatta-ta a 90 per cento [...] Tali prescrizioni sono assolute, sia peril pane cotto nei forni pubblici o confezionati nelle case pri-vate. E quella dell’abburattamento al 90 per cento si estendead ogni sorta di pasticceria. Il pubblico farà buon viso a que-sti provvedimenti, meno restrittivi delle analoghe disposizio-ni francesi, anche perché il pane sarà con farina pari a quel-la usata dall’esercito. Ogni famiglia italiana si sentirà compia-ciuta e onorata di accomunarsi almeno per il pane ai suoicari combattenti [L’Eco, 3 marzo 1917].

La percentuale di abburattamento è indicata dalla quantitàdi farina che si estrae da cento parti di cereale eliminandoin vario grado crusca e cruschello; nel pane bianco è nor-malmente compresa tra il 75 e l’80%. In sostanza, quindi,

Pane di guerraPersuasori occulti, ma non troppo…

Montefiascone

GiancarloBreccola

La prima guerra mondiale fu sostanzialmente con-flitto di trincea, vissuto quindi dal resto del Paesein maniera indiretta tramite il drammatico tributodi vite umane e i gravi disagi materiali che scaturi-

vano dall’incalzare delle difficoltà economiche. Entrambiquesti aspetti, almeno per quanto riguarda la realtà mon-tefiasconese, hanno lasciato una pur minima traccia gra-zie a un periodico d’impronta cattolica che si stampavanel paese in quegli anni: il settimanale “L’ECO DELLA DIOCESIDI MONTEFIASCONE”.La pubblicazione, oltre a notizie più generiche di caratte-re nazionale, riservava infatti uno spazio ai fatti locali -con una comprensibile attenzione per quelli relativi alconflitto - che potevano spaziare da argomenti di tipopolitico-patriottico a problematiche economiche e diordine pratico. Tra i vari articoli ve ne sono alcuni che,pure nella drammaticità del contesto, per la loro ingenuatendenziosità, invitano a un amaro sorriso. Si tratta dialcuni trafiletti rivolti a convincere la popolazione alrisparmio, ma anche che alla fine non tutti i mali vengonoper nuocere. Vediamo quindi cosa si scriveva sul panequando, nel paese, le restrizioni e i razionamenti iniziaro-no a farsi pesantemente sentire.

IL PANE - Esso non si deve mangiare fre-sco. Che il pane fresco sia più gustoso,si sa: ma in quanto alla sua digeribilità,l’esperienza dimostra che è dannosissi-mo allo stomaco e poco nutritivo. Ilpane fresco non viene conveniente-mente smaltito dai succhi dello stoma-co e gran parte di esso va in feci. Que-sto non si verifica col pane rifatto. Lascienza antica e quella moderna vannoin questo d'accordo [L’Eco, 1 aprile1917].

L’indicazione - che oltre a non esseresupportata dalla scienza antica, sem-bra anche contraddetta da quellamoderna - risultava invece in linea conil decreto luogotenenziale n. 1708 del12 dicembre 1916, relativo alla “Confe-zione e vendita del pane”. All’articolon. 2 dello stesso decreto si stabilivaquanto segue: “Il pane non può esseremesso in vendita o somministrato, senon nel giorno successivo a quello dellacottura e non può esser sottoposto aprocedimenti speciali di conservazionetendenti a mantenerlo fresco”. I con-travventori, tra l’altro, sarebbero statipuniti a norma del decreto luogote-nenziale del 19 ottobre 1916, n. 1399.L’obbligo di vendere il pane raffermoera uno stratagemma che avrebbe

Il motto “Per vivere bisogna resistere” presente su una serie di cartoline disegnate da Attilio Mussino -con il chiaro intento di suscitare nei soldati che le ricevevano o inviavano un sentimento di odio e dirivalsa in grado di rafforzare la loro volontà di resistenza e di vittoria - restituiscono il clima di estremaemergenza seguito alla disfatta di Caporetto. Che sia raffigurato nell’atto di mietere le messi per appro-priarsi del pane - come in questa immagine - o di uccidere senza pietà donne e bambini, il nemico èsempre rappresentato come un violento usurpatore e predatore della patria

questo “pane di guerra” era un pane semintegrale - di cuioggi si stanno riscoprendo i vantaggiosi aspetti nutriziona-li - che all’epoca però risultava generalmente sgradito, anzi,secondo un redattore dell’Eco, addirittura “immangiabile”.

IL PANE DI GUERRA - Fu inaugurato la settimana scorsa anche aMontefiascone, e riuscì ultra-quaresimale, anzi immangiabile[L’Eco, 1 aprile 1916].

PEL PANE DI GUERRA - L’applicazione del Decreto sul confezio-namento del pane con farina abburattata al 90 per cento hasuscitato qualche malcontento tra le donnette del popolo,che non sanno capacitarsi della necessità di tale provvedi-mento. Sono state elevate delle contravvenzioni e anchesequestrate delle tavolate di pane che poi è stato mandatoall’Asilo dei figli dei richiamati e all’Orfanotrofio femminile.Peccato che si trattava di povera gente che è rimasta senzapane e senza farina... [L’Eco, 17 marzo 1917].

Purtroppo ai problemi derivati dal sapore e dal gusto, sene aggiungevano altri caratterizzati da conseguenze piùfastidiose e imbarazzanti.

OCCHIO AI MOLINI - Che il pane sia più o meno scuro è un malerelativamente leggero a cui potranno per amore o per forzaadattarsi tutti. Il guaio più grosso sta nel fatto che si sentonospesso delle lagnanze di dolori di ventre o di stomaco permotivo del pane introdotto nello stomaco. Nasce perciò ilsospetto che la farina venga sofisticata nei molini o altrove eche, colla scusa dell’abburattamento al 90 per cento, vengaallungata con sostanze eterogenee che producono poi ilamentati disturbi gastro intestinali [L’Eco, 24 marzo 1917].

Tornando ai messaggi dei “persuasori occulti” dell’Eco,come commentare la spudorata faziosità con la quale sicercava di denigrare le qualità nutrizionali della carne?

LA CARNE - Essa è considerata da molti come l’unico alimentoessenziale per una buona nutrizione. È un errore, comedimostrano gli esperimenti scientifici, la carne invece occu-pa uno degli ultimi posti nella potenzialità nutritiva. Essa, ingenerale non ha un gran numero di calorie (per caloria inten-desi in linguaggio scientifico, l’unità di misura della alimenta-zione): e quindi non può dare al sostentamento del corpo unnotevole contributo [L’Eco, 1 aprile 1917].

Ed infine, sempre nell’aprile del 1917, il giornale si lanciain una iperbolica sintesi sui vantaggi della sobrietà ali-mentare, ricorrendo ad un crescendo di deduzioni etico-filosofiche che sembrano giungere alla base di ogni pro-blematica socio-politica.

ECONOMIA NEL MANGIARE - Seguitiamo a battere il chiodo finchéè caldo - Mangiare secondo l’appetito significa mangiaretroppo: mangiare troppo significa andare incontro a malattiee generale decadenza fisica: dalla decadenza fisica trae origi-ne inevitabilmente la decadenza morale e politica dellenazioni [L’Eco, 28 aprile 1917].

La campagna per “L’economia dei consumi”, oltre a con-siderare i pressanti aspetti legati all’alimentazione, tratta-va anche quelli che, in varia misura, comportavano formedi consumo di materie prime. Ecco quindi, per conclude-re, un articolo rivolto all’economia del vestire, certamen-te meno “ipocrita” dei precedenti, ma non immune da unpistolotto moraleggiante in linea con il carattere clericaledella pubblicazione.

L'Italia non produce cotone, e la lana delle sue greggi è ingran parte assorbita dall'esercito. Conseguentemente lamassima parte dei tessuti che trovatisi in commercio adisposizione della popolazione civile consiste in materieprime importate. E dunque un dovere far durare il più pos-sibile gli articoli di vestiario, e non rinnovarli se non quan-do sia assolutamente indispensabile, contribuendo dabuoni patrioti ad impedire che i capitali, così necessarialla condotta vittoriosa della guerra, emigrino all'estero.Bisognerebbe poi severamente proibire quelle mode fem-minili che rendono necessario l'impiego d'una soverchiaquantità di stoffa, e la risparmiano solo dove sarebbenecessaria per salvar la modestia. Lo stesso dicasi per ciòche riguarda il cuoio. I bisogni dell'esercito, sia per la con-cezione di calzature sia per la confezione di oggetti di equi-paggiamento e di selleria, sono enormi, mentre la materiaprima scarseggia. Bisogna dunque avere la massima curadelle calzature, non sciuparle col soverchio uso del lucido,e cercare quanto si può, di prolungarne la durata [L’Eco, 1aprile 1917].

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L’arrivo del rancio per i soldati, a dorso di mulo, sul Monte Sei Busi(foto di Giulio Compagnoni)

17LoggettaLlagen-mar 2015

Detto con tono rassicurante elento, il c’era una volta… è dasempre l’incipit delle storie dallieto fine. Nella storia reale, a

differenza di quella fantastica dellefavole, non sempre il finale è tale oanche corrispondente all’aspettativadei lettori o degli auditori. Talvolta èinimmaginato perfino dallo storico chelo ricerca. Così è avvenuto anche per ilmonumento ai Caduti di Onano dellaprima guerra mondiale che, inauguratonell’agosto 1926, ha avuto un’inaspet-tata conclusione nel 1957. La storia deifanti-contadini partiti da Onano per ilfronte, del Parco della Rimembranza edel Monumento ai Caduti, è statol’omaggio che il Comune di Onano, nelcentenario del primo conflitto mondia-le, ha offerto ai suoi cittadini con la rea-lizzazione del calendario del 2015 (B.Mancini, G. Franci) presentato nel pre-cedente numero della Loggetta. Unaguerra che ha contato 10 milioni dimorti, fra i quali 650.000 italiani e traloro anche 39 militi onanesi, il più gio-vane dei quali, Salvatore Giovannini,aveva soli 20 anni (come lui anche Giu-seppe Cionco); il più grande, il caporaleDomenico Corsini, 38.Una storia, questa del monumento diOnano, che nella sua genesi è simile aquella degli altri monumenti eretti in

tutta Italia e che inizia con la richiestada parte del comitato promotore alComune per ottenere il finanziamento elo spazio pubblico per collocarvi ilmonumento. Non di rado i monumentifurono preceduti dalla creazione di unParco/Viale della Rimembranza, ovverodal piantare un albero per ciascun deiCaduti della comunità.Ad Onano i due comitati del pro parcoe del pro monumento eseguirono conalto senso morale e civico quanto lororichiesto dalle autorità nazionali. Nellaprimavera del 1923 venne inaugurato ilViale della Rimembranza, con la messaa dimora di cipressi nel terreno anti-stante il cimitero comunale - ubicazionequesta adottata anche a Capodimonte ead Ischia di Castro - e poi, nel 1926, conl’inaugurazione del monumento figura-tivo in bronzo in Piazza Umberto I.A rendere diversa la storia del monu-mento ai Caduti di Onano non è certo ilsuo incipit, tantomeno la rimozionedalla sua sede originale per una disin-volta sistemazione in Piazza Pio XII nelsecondo dopoguerra, sorte toccataanche ad altri monumenti della provin-cia (Viterbo, Bolsena, Grotte di Castro),quanto il suo inatteso epilogo appresodalle carte dell’archivio storico comu-nale. Il finale inimmaginato della storiasi è rilevato nella delibera di giunta (23

agosto 1957) che ha autorizzato la ven-dita del monumento, qualificato soloquale metallo vecchio, alla ditta diAdriano Scapigliati di Piancastagnaioper 79.300 lire (equivalenti a 1.132euro), prezzo affatto esorbitante nean-che per il tempo. Allo sconforto si èaggiunto anche lo sdegno per l’una-nimità dei voti di giunta favorevoli allavendita senza altra valutazione storica,artistica, civica, contraria all’azione.L’operato è stato motivato dalla solanecessità di far cassa per l’erezione diun nuovo monumento ai Caduti delleguerre con risultati, per quest’ultimo,artistici e economici, tutt’altro chelodevoli. Il nuovomonumento, un obeli-sco in travertino collocato nel piccoloparco di Via G. Marconi, fu inauguratonel 1959 alla presenza dell’onorevoleGiulio Andreotti allora ministro dellaDifesa. Il buon senso avrebbe dovutosuggerire agli amministratori di riposi-zionarvi quello già esistente con unaspesa davvero modesta e con risultatiestetici di ben altro livello.Alla pietosa damnatio memoriae con-cessa agli imprudenti amministratoridella giunta, appare doveroso contrap-porre i dati sul monumento figurativo inbronzo per consegnarli alla memoriastorica. Dalle carte dell’archivio siconosce che dopo le delibere di giunta

Onano C’era una voltail monumentoBonafede Mancini

Onano:il Monumento ai Caduti

della Grande Guerra(foto Archivio di Stato di Viterbo)

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e di consiglio del 1921 si ritornò a parla-re del monumento nella seduta di giun-ta del 24 maggio 1925, allorché nel ver-bale si legge che l’amministrazionecomunale (Cesare Marricchi presiden-te, Sante Scalabrella e Camillo Camilliassessori) s’impegnava a pagare lespese per la sistemazione del basamen-to del monumento in Piazza Umberto I(localmente detta Piazza del Monte). Lalavorazione delle lastre in pietra, ban-chine e gradini, furono appaltate alloscalpellino Pietro Bizzarri di Bagnore-gio, i lavori di muratura ad AgostinoPatrolecco di Onano. I lavori di sistema-zione furono completati il 16 marzo1926 e l’inaugurazione avvenne il suc-cessivo 8 agosto 1926.

Il Miles morenteLa collocazione del monumento figura-tivo in bronzo ai Caduti, sul lato destrodella piazza e sotto l’imponente moledell’antico palazzo Monaldeschi-Sforza,rispondeva all’esigenza di dare maggio-re lustro al monumento ed alla stessacomunità che lo aveva voluto erigere.La vicinanza del palazzo del Comune,della caserma dei carabinieri, dellascuola e della chiesa, ne garantivano lasua funzione istituzionale di ricordomateriale della guerra e formativa pertutte le nuove generazioni, in particola-re per gli scolari.Una volta istituita la commissione perl’erezione del monumento (1921), ilcomitato ne dovette decidere le forme ele modalità esecutive. Le difficoltàincontrate però dal comitato non furo-no affatto limitate e la stagnazione fu

superata solo all’inizio del 1924 conl’elezione di Rodolfo Benelli a presiden-te del comitato, da poco giunto inOnano con la qualifica di medico con-dotto. Al medico fiorentino è riconduci-bile anche la scelta di commissionareallo scultore fiorentino Luigi Luparini eall’architetto Bruno Ferrati di Genoval’intero monumento. Una ristretta cer-chia di amici, facenti tutti parte di unpiù ampio e raffinato circolo intellettua-le fiorentino.Per il monumento l’architetto Ferratiprogettò una grande e lineare base qua-drangolare a piramide tronca sul cuipiedistallo sarebbe stata poi posiziona-ta la statua del milite morente in bron-zo. Permateriali edilizi impiegò lastre inbasaltina di Cortona e di Bagnoregio. IlFerrati nel 1925 era risultato vincitoredel concorso per la costruzione delPonte della Vittoria a Firenze, davanti alParco delle Cascine.Una foto della fine degli anni Venti(Archivio di Stato di Viterbo) ci restitui-sce l’intero complesso del monumentofigurativo nella piazza di Onano. Mancainvero un primo piano della sculturadel Milite (miles) morente che ne resti-tuisca i dettagli. Si tratta in ogni mododi una pregevolissima figura in bronzo(260 chili) di soldato morente nudo,dalla postura abbandonata e di gran-dezza maggiore di quella naturale. Laposa e il guerriero non avevano nulla diretorico, il soldato vi è stato rappresen-tato nel supremo distacco dalla vita etrasformato in miles romano per la pre-senza dello scudo, sul quale abbandonail braccio, e della galea sul capo. La tra-

sfigurazione eroica è stata rimarcatadai forti versi che il noto scrittore epoeta Sem Benelli (fratello di Rodolfo)dettò per il monumento i cui ossimorischiudono il milite morente alla suaeternità tra gli uomini:

NOI MORIMMO IN UN BALENO CHE CI ILLUMINÒ LA VITANOI VIVREMO IN UNA LUCE CHE CI IRRADIERÀ LA MORTE

Non minore di quella di Ferrati è l’au-torevolezza artistica che accompagnavaLuigi Luparini. Nel 1920 lo scultoreaveva esposto alla XII edizione dellaBiennale di Venezia una sua opera, Lafamiglia, in gesso. Oltre che scultore fuanche pittore e autore dimedaglie (Con-gresso Eucaristico Nazionale, 1927,Bologna). Nel 1924 aveva realizzato LaPietà per un tabernacolo con bassorilie-vo in bronzo e posto a Firenze in PiazzaSan Felice. Si tratta anch’esso di unmonumento ai Caduti della Guerra Italo-Austriaca MCMXV-MCMXVIII del quartie-re fiorentino e che raffigura il Cristo cheaccoglie tra le braccia un fantemorente.Il milite è qui raffigurato in forma reali-stica, a petto nudo e con pantaloni,giberna e gambali. Sotto l’edicola fioren-tina, nel marmo scuro, l’oraziano inse-gnamento Dulce et decorum est propatria mori e i nomi dei Caduti.La figura solitaria del milite morente delmonumento di Onano presenta fortianalogie nella posa con quella del mili-te del bassorilievo fiorentino, ma piùancora con quella del Cristo della Pietàdi Firenze di Michelangelo, sculturaquesta che il Luparini non poteva disco-noscere. La posa, l’abbandono del cor-po nudo, il braccio cadente del Miles,risultano familiari e speculari a quellidel Cristo di Michelangelo. Un accosta-mento affatto improprio in quegli anninei quali, in tutta Europa, si volle dareun significato religioso ai milioni di sol-dati morti nella prima grande guerra dimassa.Il Miles morente del monumento aiCaduti di Onano non aveva nulla diretorico e di marziale rispetto ai tantis-simi eretti allora in Italia. Quella suaantiretorica e dolorosa modernità este-tica della guerra è stato forse il motivoprincipale della sua mancata compren-sione da parte della comunità onanesee dei suoi amministratori che, con inno-cente trascuratezza, ne deliberarono la(s)vendita quale semplice metallo vec-chio.Una storia che nelle carte d’archiviorisulta completata ma che potrebberiservare ancora un altro finale se fosseprovata la voce che dice il monumentofare mostra nel giardino di una villa: chil’ha visto?Miles morente (Luigi Luparini),

particolare del monumento di OnanoLa Pietà (Michelangelo), Firenze

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La situazione internazio-nale è veramente criticae quindi non posso noncondividere l’intento del

nostro direttore di dedicarequest’anno particolare attenzio-ne alla grande guerra, l’eventoche ha profondamente segnatola storia di tante nazioni.Io sono convinto - e penso chepochi ne siano consapevoli - chestiamo già vivendo la terzaguerra mondiale, iniziata conl’assalto alle torri gemelle diNew York: questa “terza” non èpiù una guerra classica combat-tuta ‘alla frontiera’, ma un belli-gerare fatto d’ignobili atti terro-ristici. Sono sufficienti pochi,aberranti attentati individuati inaree insospettabili per minare lospirito d’intere nazioni. Ed allo-ra ben venga il ricordare a tutti,ed in specie ai giovani, che “Laguerra (ogni guerra) è bella ma èscomoda”, come ebbero a ricor-darcelo con macabra ironiaPaolo Monelli ed il disegnatoreGiuseppe Novello: per il “bella”non saprei dove indirizzare, maper lo “scomoda” è sufficienteandare a visitare i tanti ossari diguerra che parlano perennemente di dolore e di morte.

Debbo confessare che per una serie di fortunate circo-stanze la mia famiglia non ebbe a soffrire tragedie parti-colari anche se gli anni 1915-18, sparando nel mucchio,colpirono senza pietà parenti ed affini. Non ho documen-ti con cui imbastire un qualche memoriale di particolareimpegno ed allora ripiegherò sui pochi aneddoti ricorda-ti in famiglia, sia la mia, sia quella di mia moglie.

Lo zio Tòto Carosi, fratello di Luigi (carabiniere medagliad’argento che ha dato il nome alla stazione dell’Arma diBagnaia e prozio di Aldo, giudice dell’attuale corte costi-tuzionale), era una figura quasi leggendaria in famiglia,dato il suo carattere un po’ strambo ma coerente con suegranitiche, radicate idee. Una su tutte: quando su Viterbopiovevano le bombe (ovviamente quelle della secondaguerra mondiale) anche se nei dintorni c’erano sicuriricoveri antiaerei lui si rifiutava di utilizzarli perché eraconvinto che esse non l’avrebbero colpito. Ricordo chemia madre non sopportava tale sua convinzione ma ades-so, con il senno di poi, credo di capire la infantile sicurez-za dello zio: deve aver visto la morte in faccia tante di

quelle volte sulle trincee delconfine che…Ma c’era poi un altro nemiconon meno crudele, il terribilefreddo… “Io sparavo, sparavoma non per ammazzare qualcu-no ma per riscaldarmi le manicol fucile…”. Io lo vedo il carozi’ Tòto caricare il suo “91” esparare, sparare per alimentarela sua stufetta portatile.Parlava spesso del Col di Lana,il rilievo da cui, chi ne aveva ilpossesso poteva tenere sottoscacco un ampio settore delfronte. Fu teatro di aspri com-battimenti e sulle sue balze per-sero la vita circa 8.000 combat-tenti fatti segno da poche, benpiazzate mitragliatrici. Fu ribat-tezzato “Col di Sangue” e perporre fine all’inconcludente car-neficina gli italiani decisero difarlo saltare in aria. Scavaronoallora una galleria che consentìdi piazzare una mina con ben 5tonnellate di dinamite propriosotto le postazioni nemiche. Il17 aprile del 1916, alle 23,35circa essa fu fatta brillare eduna parte della montagna crollòportando con sé oltre 150 nemi-

ci. Ciò consentì ai nostri, pronti per l’immediato assalto,di riprendersi l’insanguinata montagna. Giorno ed oradell’operazione erano ovviamente tenuti segreti, ma a mesembra di vederlo lo zio spiare ogni notte il profilo delcolle maledetto sperando che sia questa la notte buona…Gli ordini sono precisi: dopo lo scoppio l’assalto deveessere immediato, come immediato dev’essere lo scavodelle nuove trincee e l’approntamento delle mitragliatri-ci… le nostre, questa volta…e allora via di corsa, su, senzacurarsi della polvere e del fumo che ammorbano l’aria…Dappertutto brandelli di corpi maciullati, armi distrutte,camminamenti sconvolti…

Tornò a casa (era di Viterbo - La Quercia) con le dita deipiedi congelate e, come accaduto a quanti in guerra nehanno viste troppe (penso agli alpini sopravvissuti allebattaglie ed alla terribile ritirata di Russia dell’ultimo con-flitto) non amava parlare delle tante tragedie da lui e daisuoi commilitoni vissute nei disperati combattimenti. Erariuscito a tornare dall’inferno, lo zio Tòto, e noi lo guar-davamo con lo stesso rispetto con cui si possono guarda-re dei resuscitati…

Viterbo

“Sparavo per...riscaldarmi le mani col fucile...”

Antonio Carosi, nato a Viterbo (La Quercia) nel 1893,morto a Viterbo nel 1979

Piero Carosi

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conta di aver rischiato molto in un’occasione del genereperché mentre un fortissimo fuoco di mitraglia costringevatutti ad appiattirsi a terra, chiese all’ufficiale che, intiman-dogli di avanzare, gli aveva puntato la sua pistola sotto lagola: “Perché non ci precede?”. Poi senza aspettare rispostaavanzò strisciando, tagliando i reticolati, sparando mentrel’arma nemica apriva vuoti paurosi tra le file dei nostri. “El’ufficiale?”, gli chiedo. Mi risponde che ad “avanzare” c’erasoltanto lui con i suoi eroici soldati, i quali il più delle volte,se l’azione non aveva buon esito e sempre sotto il fuoco,rientravano provvedendo ad aiutare i feriti ed a recuperare,quando possibile, i morti.Siamo alla triste ritirata di Caporetto e chi cerca disperata-mente di fermare gli avversari è a costante, diretto contattocon il nemico. Capita che nelle fasi dell’arretramento ci sipossa trovare improvvisamente circondati dal nemico edallora non resta altro che arrendersi, dando così inizio adun’altra vita di guerra, quella da prigioniero nonmeno dolo-rosa. E’ difficile accettare che ai tormenti della guerra sisommi anche il dubbio - poi diventata certezza - che nontutti i nemici siano al di là della linea del fronte: con parolepoetiche Giovanni Ermete Gaeta, il famoso E.A.Mario auto-re della non meno famosa “Leggenda del Piave”, definisce iltradimento “fosco evento”. Antonio viene internato nelcampo di Lienz (a circa una trentina di chilometri dall’attua-le confine con l’Austria) e lì, fra un tentativo di fuga ed unaltro vive un’esperienza incancellabile: la fame è tanta etutti i prigionieri cercano in ogni modo di mettere qualcosasotto i denti. Il nostro adocchia un bel giorno un cespugliet-to d’erba proprio a ridosso del reticolato emuovendosi conestrema circospezione cerca di avvicinarglisi. Proprio men-tre sta per arraffarlo la sentinella, dall’alto della sua torret-ta, si accorge del furtivo movimento e gli tira una fucilata apochi centimetri dal capo!Una notte la fuga: il fronte non è lontano ed allora, con laforza della disperazione riesce a varcarlo cercando di arri-vare, di tradotta in tradotta, ad Orte, da cui raggiungerecasa. Ironia della sorte, il treno per Viterbo è appena parti-to! Il desiderio dell’agognato ritorno è fortissimo e così,senza esitazione s’avvia lungo i binari che segue fino allastazione d’arrivo. Circa alle tre di notte è sotto casa e chia-ma…Quello che succede lo si può immaginare: la notte trascorretra baci, abbracci, pianti di gioia e tante richieste di notizieda quanti hanno parenti al fronte, notizie che non ha la pos-sibilità di fornire! Un piccolo particolare: arrivato a casatrovò che la città era illuminata non più con i fanali a gasmadalla modernissima luce elettrica.Può il nostro Antonio mettere la parola fine alla sua avven-tura? No! Il periodo di “ferma” militare - di due anni a queltempo - non è compiuto ed allora è giocoforza rimettere lozaino in spalla e ripartire! Si arruola come legionario fiuma-no con D’Annunzio ma qui ci fermiamo perché questa èun’altra storia.

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“I morti di gas...sembrava che dormissero”

Antonio Grani (Viterbo 1898-2001)

Miosuocero, cavaliere di Vittorio Veneto AntonioGrani, classe 1898 di Viterbo, aveva 18 anniquando gli giunse la “cartolina precetto”. Dopoun affrettato addestramento fu spedito al fronte

dove iniziò il suo calvario di fantaccino destinato ad argina-re gli austroungarici impegnati nella Strafexpedition del gen.Conrad, operazione nota anche come “Battaglia degli Alti-piani”.Si combatte una guerra di posizione, quindi di trincea cheper i soldati è tutto: rifugio, casa, camera da letto, servizi,sala da pranzo emolto spesso tomba. Si vive sotto il costan-te tiro delle artiglierie, dei mortai, delle mitragliatrici equando i rifornimenti dalle retrovie non arrivano si resistecome si può avendo come nuovi nemici la fame e la sete.Spesso si è chiamati a compiere assalti per riconquistareterreno già in nostre mani ed allora si può assistere a sceneinaspettate e terribili: intere trincee piene di nostri soldatiche mentre a prima vista sembrano soltanto addormentatisono di fatto rimasti vittime delmicidiale gas asfissiante cheli ha uccisi tutti in un battere di ciglia. “Sembrava che dor-missero...”, ripeteva allorché richiamava l’orribile ricordo.Sono tanti gli esempi di luminoso eroismo di ufficiali e sol-dati, ma nonmancano, viceversa, casi di comandanti imbel-li che intimavano ai propri sottoposti di andare all’assalto atutti i costi. Mio suocero, che aveva il grado di caporale, rac-

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Acorollario del mio articolo sul-la scuola femminile che haoperato a Bolsena per più diduecento anni [vedi la pagina

di Bolsena nella sezione Dalla Tuscia],un discorso a parte va fatto sugli inter-venti attuati dalle suore del SS. Sacra-mento negli anni della prima guerramondiale. Che le vide infatti impegna-te, insieme alla popolazione, su tutti ifronti, anche se l’educazione e l’istru-zione femminili rimasero, allora e persempre, la loro primaria attività.Già alla vigilia del doloroso evento, leistituzioni scolastiche della nostra cit-tadina avevano raggiunto uno svilup-po notevole (non dimentichiamo chefin dal 12 gennaio 1817 funzionavapresso l’ex convento di San France-sco, oggi sede del municipio, la scuolaelementare maschile, diretta dai Fra-telli delle Scuole Cristiane dell’istitutoLa Salle, chiamati dal vescovo diOrvieto mons. Lambruschini e suapprovazione del papa Pio VII). L’am-ministrazione delle scuole era passatadai Comuni ai consigli provinciali sco-lastici di nuova formazione: garanzia,tra le altre, di un più equo trattamentoeconomico agli insegnanti. Nella scuo-

la femminile funzionavano ormaianche le classi quarta e quinta e sipensava già ad una sesta classe. Lemaestre-suore, ormai tutte di ruolo,operavano in armonia con le maestrelaiche, con molta stima da parte dellefamiglie e l’approvazione costante daparte degli ispettori scolastici. Esiste-va anche, sotto l’egida di un patronatoscolastico, un doposcuola serale,senza limiti di età, per integrarel’opera dei maestri.

Sono gli anni 1914/‘15: ha inizio laprima conflagrazione mondiale eormai è ineluttabile che l’Italia entri inguerra; il 22maggio 1915 èmobilitazio-ne militare anche a Bolsena; il 29 par-tono per il fronte i soldati della nostracittadina.Già dall’inizio della primavera, lacomunità aveva dato luogo ad unaimportante mobilitazione civile: si eracostituita una cassa di pronto soccor-so per le famiglie dei combattenti, conofferte di enti morali, autorità e citta-dini comuni residenti o no a Bolsena.Entrano tempestivamente in funzioneuna commissione annonaria, una com-missione per l’assistenza agraria e

quella per i servizi militari, per la poli-zia urbana e per il segretariato delpopolo e, infine, un comitato perl’asilo dei figli dei richiamati, costitui-to dalle signore Tondi, Cavagnaro,Paparozzi, Vallati, Battaglini e Serafini.Le suore del SS. Sacramento, pur nonessendo le ispiratrici del progetto,rappresentano la mano tesa che nepermette l’attuazione: offrono sponta-neamente i locali della loro dimora e simettono a disposizione per ogninecessità; con competenza e discre-zione organizzano le prestazionivolontarie di alcune ragazze locali,subentrando poi ad esse nell’attivitàdidattica e assistenziale.In seguito ad alcune ispezioni ministe-riali effettuate all’asilo e che ne ricono-scono l’ottimo funzionamento, il Gior-nale d’Italia (1° settembre 1916) scrivetestualmente: “Nulla manca ai piccoliricoverati: ampi e ariosi locali, buonvitto, divertimenti. Del buon trattamen-to danno valida sicurezza le guancerosee e paffute di tutti quei frugolini. Ilocali sono stati offerti dalle buoneSuore Francesi che disinteressatamentene hanno assunto il governo, coadiuva-te dalle signorine del paese”. E ancora:

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“Lana, lanaper i soldati!” Antonietta Puri

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“…Per la provvida bontà di tanti esserisì nobili nulla mancherà mai ai nostricari figli i quali, pieni di riconoscenza,emetteranno dalle loro boccucce cina-brine gai trilli di ringraziamento”.

Le suore che operavano a Bolsena inquegli anni di conflitto bellico, seppu-re dette “francesi”, sia per le loro origi-ni che per la presenza nella comunitàdi una consorella francese, la superio-ra sr. St. Lazare Clement, erano difatto italiane, come suor Maria Bene-detta Caronti, di Subiaco, e suor SantaSerafina Centra, di Carpineto Romano.Queste, oltre ad avere una buona com-petenza pedagogica, organizzaronodegli spettacoli serali, vere serateaccademiche che videro più di unavolta i piccoli dell’asilo protagonisti ascopo di beneficenza. Tra quelli cheriscossero maggiore successo è rima-sto famoso lo spettacolo del gennaio1916, quando le somme raccolte furo-no devolute in gran parte in favore deibambini del Belgio, una delle nazionipiù duramente colpite allorché nel1914 fu invasa dall’esercito tedesco,pur essendosi dichiarata neutrale, percolpire proditoriamente la Francia.Questo episodio ci fa comprenderel’aperturamentale, oltre che spiritualedelle suore sacramentine, che mentresi prodigavano nell’assistenza dei figlidei nostri richiamati, volgevano unosguardo attento a drammi più grandidei nostri.

Un altro grande successo ebbe la gran-diosa lotteria pro-asilo, sempre su ini-ziativa delle buone suore, nella qualefurono venduti 10.000 biglietti (1917);e ancora, una festa per i figli dei richia-mati che salì agli onori della cronaca,per la bravura sia delle maestre chedei piccolissimi attori. IlMessaggero nescrisse una relazione dettagliata.

Nell’autunno del 1915 le suore furonopromotrici della cosiddetta Battagliadella Lana, per la quale le ragazze bol-senesi, spesso accompagnate dallestesse suore, si recavano presso lecase coloniche e gli ovili e con la paro-la d’ordine “Lana, lana per i soldati!” sidavano alla raccolta del preziosomateriale. In breve tempo ne raccolse-ro più di 90 chili, con i quali furono ve-locemente realizzati e spediti al frontesettanta pacchi di berretti, corpetti ecalze di lana.

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Villa San Giovanniin Tuscia

“Io non voglio cheper me piangete...”Dal diario di guerra di un soldato sangiovannese

MicaelaMerlino

AngeloCapuzzi

Francesco Moretti (1882-1917)

Un tributo di sangue pagòanche Villa San Giovanni inTuscia, come testimoniano inomi di ventiquattro soldati

scolpiti su una lapide apposta sulmonumento ai Caduti, in Piazza Savo-ia. Di questi, diciannove perirono suicampi di battaglia, mentre cinque sispensero nei duri campi di prigionia.Un documento di grande importanza ècostituito dal diario che l’artigliereFrancesco Moretti scrisse nel 1916,mentre si trovava sul fronte dell’I-sonzo. Questo prezioso documento èstato pubblicato nel 2001 a cura diPaolo Giulianelli e Piero Valeri, e conillustrazioni di Angelo Capuzzi, nellacollana dell’associazione “La Scuffiac-cia”, con il titolo “Un Figlio per laPatria. Diario di un artigliere della pri-ma guerra mondiale” (Davide GhalebEditore, 2001). I passi qui di seguitoriportati sono tratti da questa pubbli-cazione.

Francesco era nato a San Giovanni diBieda (come allora si chiamava ilpaese) il 19 marzo 1882 da AntonioMoretti e Maria Santa Mariani, e poisposò Nazzarena Giulianelli. Il 30 giu-gno 1916, all’età di 34 anni, fu chiama-to alle armi; partì per il fronte il 1° ago-sto, il 2 arrivò a Casale Monferrato. Iprimi giorni non furono duri, perché,come raccontò lui stesso “…la vita siabituò, dove divenne allegra e gaia peri divertimenti che si prendevano”. Il 5ottobre gli fu promessa una licenza edegli era molto contento...

“…di rivedere la famiglia e tutto quantobramavo, sognavo a occhi aperti, men-tre nel più bello quando dovevo partireil Colonnello non volle firmarla [la licen-za], così fino alle ore 12 di detto giornonon mangiai dalla contentezza, dalleore 12 fino assera non mangiai dallarabbia, poi fu maggiori distino quellasera stessa dovetti montare di guardiaalla porta che mai ero montato. Oh!

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ma per questo giorno non ci riesce a raggiungere. Quando furo-no le ore 4 stanchi dalla fatica e senza mangiare non si potèandare avanti. Tornammo di nuovo dove si era lasciati i carribagagli e cavalli dove i cucinieri ci avevano preparato il solitorancio, si mangiò tutto quanto ci avevano dato, poi di nuovo, atrasportare i pezzi, fino alle ore 1 della notte, faceva un freddoinsopportabile. Tanto poi il Sig. Capitano ci licenziò dicendociandate a dormire, ritornammo di nuovo al solito posto chiamatoRoccolo Cattanio dove vi era una segheria, ma soltanto la tetto-ia, fuoco non si poteva accendere, dunque come dormire? Pas-sammo il resto della notte, sempre in piedi, quando furono le ore5 sveglia eravamo tanto svegliati che non si era dormito un solominuto, andamo ragazzi disse il Tenente bisogna prendere uncingolo per ciascuno e portarlo dove sono i pezzi, questi cingolipesano 45 Kg facendo la bellezza di 4 Km non era poco, ebbeneognuno prese il suo pezzo assegnato, e via, giunti al posto furo-no messi i cingoli ai pezzi e via di nuovo affare il traino, perchéancora vi era da fare un chilometro per arrivare ai piazzole, lastrada era brutta e in salita, e in discesa, quando furono circa leore 10 principiò a cadere la neve a larghe falde che copriva il ter-reno in pochi minuti, noi soldati tutti in pastrano intenti al nostrolavoro di traino che era molto più faticoso del giorno anteceden-te, sotto quella neve incessante che si finì per non vedere piùnemmeno la strada ….”. Dopo molto soffrire si fece giorno laneve cadeva ancora, in certi punti aveva raggiunto l’altezza di 80centimetri, allora tutti avvolti nel nostro pastrano tutto abbagna-to che pesava almeno 50 chili, si avvicinamo alla cucina dove cifu concesso il solito caffè, e radunata di nuovo, qua ragazzi sideve portare il filo del telefono in batteria dove si giunse alle ore11, la neve gli aveva raggiunto l’altezza di metri 1,50. si dovevaandare in quelle strade già fatte altrimenti non si riusciva venirefuori ma questo giorno fummo più affortunati perché il Capitanoci licenziò subbito così si tornò di nuovo all’accantonamento, esi mangiò il rancio… Il 17 alle ore 10 doveva principiare il bom-bardamento mentre si siamo alzati alle 5½ e il tempo nevicavadirottamente allora venne sospesa ogni iniziativa di avanzata. Iltempo si faceva sempre più pessimo, quando fu sera già la nevesi era raddoppiata a quella antecedente…”.

Nel novembre ad Asiago, mentre i soldati stavano caricandocingoli e pezzi di artiglieria, perché dovevano raggiungere lastazione di Tiene, Francesco incontrò un suo compaesano:

“…un conducente con una barba lunga fuori del solito, comequella mia, e si incontrarono i nostri sguardi, rimanemmo unistante sorpresi dalla contentezza nel riconoscersi, questo eraGiganti Lelio, che per me fu una bella soddisfazione come pari-

Quanti pensieri quella notte, nelle ore di servizio in un chiarodi luna piena, nel più silenzioso tormento contemplavo le stel-le, il treno fischiava continuamente, dove mi rinnovava il ram-marico della licenza, l’orologio della Città mi toccava le ore,era per me una tristezza mai passata in tempo militare…”.

Il 18 ottobre fu deciso di sorteggiare, tra i componentidella batteria di cui faceva parte Francesco, quelli chesarebbero dovuti andare al fronte:

“…non fu per noi una lieta notizia, assistemmo a quel sorteg-gio con molta paura di essere chiamati come lo fu, che fui asse-gnato alla 31° Batteria Obici 149. Ebbene contro la mia volon-tà dovetti rassegnarmi perché non vi era via di scampo. Senzasciogliere i gruppi fummo portati alla caserma vecchia, dove cidettero tutto quel corredo che ci occorreva per il fronte (…)Alle 10 mi ritirai in caserma tutto malinconico menti l’altri seresi tornava allegri e contenti, per il vino bevuto e per qualchebella soddisfazione provata”.

Partiti i prescelti, li attendeva un lungo viaggio verso est,e il 21 ottobre...

“…finalmente arrivammo, a distinazione, dove prima di entra-re dovemmo fare almeno mezz’ora di attesa fuori. Oh, chebrutti momenti, entrati ci presero il nome e cognome e poi ciindicarono una finilessa [fienile] per dormire, ma questa voltavi era il fieno dove si poteva fare un bel sonno…”.

Dal 4 novembre Francesco era sull’altipiano di Asiago.

“Quando furono le ore 6 del mattino del 4 si trovammo alla sta-zione di Bassano all’ora si poté giudicare che si andava inTrentino, defatti dopo pochi chilometri, si trovammo in mezzoa certi monti a picco che faceva paura guardargli, alle ore 10si trovamo alla stazione di Cismon, un piccolo paesetto inmezzo a questi monti di scoglio che erano pittoreschi vedergli,mi sembrava che dalla grande altezza, e eretti a picco mi sof-focavano l’aria, gli si fece lo scaricamento, dove si partì alleore 1, alle ore 3 arrivammo a Primolano, dove si sostò per tuttala notte si fecero le tende si costodirono i cavalli e alla sera sicomperarono dei fiasconi di vino dove passammo una seraallegramente vicino a un fosso con delle sue soli monti più ele-vati di quelli di Cismon. Alle ore 7 del 5 ordine dal Capitanopartenza, il tempo dalla notte che si era fatto cattivo, piovevadirottamente, furono attaccati i cavalli partenza, si prese unastrada fatta a zich e zach per Enego dove sotto una pioggia tor-renziale si arrivò alle ore 4 in paese, si dovette di nuovo sosta-re, tende non si potevano fare dalla grande acqua che veniva,così i nostri superiori trovarono una fienara per dormire, giàeravamo tutti bagnati occorreva del fuoco per asciugarsi machi lo dava? Si dovemmo adattare alla meglio, chi andette adormire al fienaro si adattò alla meglio, mentre io e altri 8 deimiei compagni fummo di guardia chi ai pezzi e chi ai cavalli.Quella notte per me fu una di quelle memorandum non ledimenticherò mai più. Come Dio volle il mio servizio era dalleore 10 alle 12 per fortuna non pioveva più il tempo si eramesso a buono, così non mi bagnai più e quelle ore del dormi-re le feci dentro il carro bagaglio. Alle ore 10 del 6 prendemmoil rancio e poi partenza sempre in salita, in mezzo a macchiefolte di abete, dove non si riscontrava traccie di anima vivanon si vedevano in mezzo a quei monti né un uccello né unanimale, era proprio macchie adattati per lupi, alle 6 di seragiungemmo ne un monte chiamato Campomulo dove dormim-mo sotto le soliti abeta [abeti] che fin dalla mattina si era cam-minati in mezzo a questi. Il 7 alle ore 10 partenza per il fronteassegnato, prendemmo il solo caffè si arrivò fine a un certopunto coi cavalli, dove con questi non si poté andare in avan-ti si dovette mettere ai pezzi dei grossi cavi e tutti i soldati dellabatteria dovemmo portare i pezzi alla pusizione [posizione],

L’incontro tra Francesco e Lelioin un disegno di Angelo Capuzzi

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menti fu per esso, ci scambiam-mo qualche notizia d’ambo leparti e poi ognuno fece il suolavoro assegnato, tanto finì chealla sera si doveva stare insiemecome lo fu”.

Francesco purtroppo fu feritomortalmente sul fronte; portato“nel posto avanzato della 24a

Sezione Sanità”, in una localitàdifficilmente identificabile, morìil 1° gennaio 1917 per una “feritaall’addome da pallottola di fucileper fatto di guerra alle ore 14”.Molto toccante è la lettera-testa-mento che scrisse ai genitoripoco prima della chiamata allearmi, nella quale, tra l’altro silegge: “Altro non mi resta chechiedervi perdono di quanto viho offesi e disturbati e voglio davoi la Benedizione”.Preoccupandosi per il doloredei genitori, che vedevano ilproprio figlio partire per unaguerra che avrebbe messo inserio pericolo la sua vita,aggiunse:

“ Io non voglio che per me pian-gete, che con questo nulla potretericavare, ma piuttosto vi danneg-gerete la salute. Per darmi un sol-lievo dovete stare tranquilli e nonpensarci più. Il bene che a mevolete sarà raddoppiato a Peppe[il fratello], che voglio speraresarà di vostra consolazione (…)a lui tutto raccomando di lavora-re e di volervi bene e di portarvifino all’ultimo momento rispetto!Smetto miei Cari genitori col pen-siero sempre su di voi e dandovil’ultimo bacio”.

Sembrano parole che in qualchemodo presagivano l’infelicedestino che attendeva France-sco, il quale da quella guerranon tornò. Ai genitori affranticonsigliò questo pensiero peralleviare il dolore: “Vi prego dinon accorarvi per me, anzi dove-te essere orgogliosi pensando chepure voi avete dato un figlio perla Patria…”. Una Patria, l’Italia,che è stata costruita sui sacrifi-ci, sul dolore e sul sangue ditante persone, di tanti giovani“figli” pianti dalle loro famiglie,la cui memoria non dobbiamomai dimenticare.

[email protected]

LoggettaLlagen-mar 2015

Nell’ambito delle celebrazioni a memoriadella prima guerra mondiale, anche Tar-quinia si appresta a dare il suo contribu-

to con una esposizione di documenti conservatinell’archivio storico comunale. Il progetto, cuidaremo ampio spazio dopo la realizzazione, nelprossimo numero della rivista, è parte di una ideaelaborata dall’università della Tuscia di Viterbo (pro-fessori Maurizio Ridolfi e Catia Papi di storia contem-poranea) che pubblichiamo [email protected]

La Grande Guerra a TarquiniaIl fronte interno tra storia e memoria (1915-1918)Progetto di ricerca, culturale e didattico(novembre 2014)

In occasione del centenario dell’inizio delprimo conflitto mondiale e dell’entratain guerra dell’Italia, l’Università dellaTuscia, con il Centro Studi sull’EuropaMediterranea, e il Comune di Tarqui-nia promuovono un progetto di ricer-ca, culturale e didattico volto a per-seguire quattro obiettivi:• la ricostruzione storica dell’espe-

rienza di guerra nel territorio comu-nale attraverso l’analisi delle fonti astampa e d’archivio;

• il recupero della documentazioneancora conservata presso privati;

• l’analisi della costruzione pubblica dellamemoria della Grande Guerra attraversoun’indagine sulla toponomastica e una map-patura dei monumenti;

• la restituzione alla cittadinanza dei risultati dellericerche attraverso una mostra, una pubblica-zione e unbreve ciclo di conferenze.

1) Il “fronte interno”: Tarquinia in guerraNel dibattito storiografico, e più in generale nella coscienza pubblica, la Grande Guerracostituisce il primo moderno “conflitto totale” di cui le popolazioni europee abbiamofatto esperienza, un conflitto nel quale la tradizionale distinzione tra zone di combatti-mento e retrovie, tra combattenti e civili, andò progressivamente assottigliandosi. Uncomune vissuto di mobilitazione, devastazione e privazione assimilò i “fronti militari” e i“fronti interni”, in ragione della stessa fisionomia degli eserciti nazionali a coscrizioneobbligatoria, dunque delle ricadute demografiche ed economiche della guerra sullecomunità locali, oppure ancora del peggioramento delle condizioni alimentari e sanitariedelle popolazioni dovuto alle politiche di approvvigionamento e requisizione connesseallo sforzo bellico.In questo quadro generale, l’analisi dell’esperienza storica di Tarquinia negli anni diguerra rappresenta dunque un importante tassello, capace di illuminare le dinamichesociali che interessarono specialmente i comuni rurali: numero dei richiamati in rapportoalla popolazione complessiva; tributo di morti; ruolo dell’amministrazione comunale nellamobilitazione patriottica, nell’assistenza civile e nel sostegno all’economia locale; pre-senza di profughi o prigionieri di guerra; espressioni di dissenso e resistenza alla guerra.

Giovanna Mencarelli

Tarquinia

25LoggettaLlagen-mar 2015

Proprio in riferimento aquesto centenario, chenon va assolutamentecelebrato ma “ricordatoper non dimenticare”,alcuni libri qui segnalati siriferiscono agli avveni-menti della prima guerramondiale.Mario Laurini e AnnaMaria Barbaglia, del “Cen-tro Studi Culturali e di Sto-ria Patria” di Orvieto, giànel 2014 hanno edito dueprestigiosi volumi intitola-ti Dagli Stati Preunita-ri, a Caporetto, allaVittoria. Il secondo volu-me tratta in particolare deLa Prima Guerra Mon-diale (406 p.) con un cor-redo di immagini straordi-narie di cui le copertine a

colori de “La Domenicadel Corriere” scandisconola sequenza degli avveni-menti bellici, descritti inquattro parti, propriocome gli anni che hannovisto impegnato il nostropaese, dall’entrata in guer-ra nel 1915 alla conclusio-ne del 1918. I testi descri-vono analiticamentel’evolversi delle singolebattaglie, la vita dei solda-ti al fronte, le decisionipolitiche e militari che ilnostro paese dovetteadottare con le motivazio-ni delle scelte che sidovettero affrontare dallaparte politica e da quellamilitare, i personaggi notie meno noti che fecero lastoria di quei giorni tre-

mendi. Il corredo icono-grafico del libro è natural-mente completato da altre

TusciaLibri newssulla Grande Guerra

Cento anni fa l’Italia entrava in guerra. Nessu-no poteva immaginare che quella sarebbestata definita la “Grande Guerra” del 1900. Vadetto che, dopo questa, il mondo non si è fattomancare più nulla, in un secolo che ci avrebbefatto assistere a una “seconda guerra mondia-le” e, diciamocelo senza reticenze, avrebbecoinvolto di continuo i popoli nell’esplosionedi tante altre “piccole-grandi” guerre che inAfrica, nel Sud America, in Asia, di riflesso inAustralia, e nella stessa Europa, avrebberoinsanguinato il “patri suoli” di tante nazioniove guerre civili, fratricide, spaventose hannosegnato la fine di un Novecento da dimentica-

re, che ci lascia un’eredità pesante, coinvolgente e sconvolgente; non ieri, ma inquesti giorni e in queste ore.Tanto per non scordarci, ci riferiamo alla guerra civile spagnola, a quella recen-te seguita alla spartizione dei territori della ex Jugoslavia, la guerra cecena, quel-la del Golfo, che in pratica continua ancora oggi con gli eccidi ISIS in Iran, Afgani-stan, Siria, le guerre israelo-palestinesi, l’eccidio delle torri gemelle, quelli delRuanda e le terre del terzo mondo che ogni giorno registrano scontri, sequestrie morti. Ho provato solo a rinfrescare la memoria attraverso internet e l’elencodelle guerre segnalate che, dal 1900 ad oggi, (vedi al link: http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_guerre_per_ordine_cronologico#1918-1945) destano sorpresa eincredulità…I lettori scuseranno questa premessa, ma, nello spirito dell’invito fattoci dalnostro direttore, non potevo sottrarmi a questa sottolineatura personale sulla“Grande Guerra” e le sue conseguenze.

RomualdoLuzi

Un complesso di questioni che riman-da anche al problema dell’edificazionedi una memoria pubblica del conflitto,

in grado di restituire una narrazionecondivisa e condivisibile del vissuto

sociale negli anni di guerra, di favorirel’elaborazione del lutto e la reintegra-zione culturale e politica dei reduci. Il

progetto di ricerca sulle fonti docu-mentarie, già archiviate o da rinvenire

nelle abitazioni private, e l’indaginesulla toponomastica e i monumenti

alla Grande Guerra sono quindi fra lorostrettamente collegati.

2) Metodologia e obiettivi delprogetto

Sotto la supervisione di un responsabi-le scientifico proposto dall’Universitàdella Tuscia, nel corso del progettosaranno promosse attività di ricercasulla storia di Tarquinia negli anni di

guerra.Contestualmente, l’amministrazione

comunale provvederà a pubblicare unmanifesto col quale la cittadinanza

sarà chiamata a fornire documentazio-ne relativa all’esperienza di guerra:

fotografie, lettere, diari, oggetti mate-riali ecc.

La ricerca di documentazione costitui-rà anche l’occasione per promuovereuna raccolta di testimonianze sullememorie familiari. Questa parte del

progetto sarà svolta dagli allievi dellescuole elementari, medie e superiori di

Tarquinia, orientati e seguiti dai lorodecenti.

Gli allievi delle scuole saranno inoltrecoinvolti nell’indagine sulla trasforma-

zione della toponomastica e nella map-patura delle targhe e dei monumenti

dedicati alla Grande Guerra.Al fine di predisporre e coordinare il

lavoro nelle scuole è previsto un incon-tro propedeutico a carattere seminaria-

le tra il responsabile scientifico delprogetto e gli insegnanti interessati a

prendervi parte.La documentazione rinvenuta nel

corso delle ricerche d’archivio e sullastampa locale, assieme a quella fornita

dalla cittadinanza e raccolta dagliallievi delle scuole, andrà comporre

una mostra sull’esperienza di guerra aTarquinia, con relativo catalogo, cheospiterà anche i saggi di ricerca e i

risultati del lavoro sulle testimonianzepubbliche e private del conflitto.

In occasione dell’inaugurazione dellamostra sarà infine promosso un breveciclo di conferenze a partire dalla fil-mografia e letteratura sulla Grande

Guerra in Italia e in Europa.

26 LoggettaLlagen-mar 2015

illustrazioni in bianco enero e da molte cartine acolori delle zone di guerrae delle battaglie combattu-te. Ci si accorse soltantoalla fine del conflitto che ilcontributo della sola Italiaera costato di ben 651.000militari caduti, circa589.000 morti civili.L’Italia, forse per la primavolta e per tanti italiani, sipoteva chiamare “Patria”,in quanto per lei avevanosacrificato la vita e patitotante sofferenze. Fu cosìche in ogni città ed in ognipaesino sorsero monu-menti, lapidi e parchidella memoria per ricor-dare questo immane sacri-ficio.

Maura Lotti e Pier LuigiGavazzi hanno tempesti-vamente curato un inte-ressante volume che

hanno intitolato “Cadem-mo per lasciarvi laPatria Libera e unita”.Ischia di Castro e laGrande Guerra (Vetral-la, D. Ghaleb ed., 2914, p.83 ill.). Le memorie chesono state raccolte in que-ste pagine hanno la valen-za di una ricerca storica

particolarmente curataperché, dopo le premessesulle motivazioni del con-flitto, prende in esamevari momenti della parte-cipazione dei soldatiischiani alla “GrandeGuerra” con una elenca-zione delle liste di leva,per illustrare poi variaspetti, come quanti equali furono coloro cheparteciparono alla vita delfronte e alla vita di trin-cea, quanti caddero per laPatria, le principali opera-zioni che li videro coinvol-ti, le celebrazioni cheaccompagnarono in Ischiadi Castro l’arrivo a Romadel Milite Ignoto,l’inaugurazione del Parcodella Rimembranza pressoil locale cimitero nel 1923che, eretto inizialmenteper soli 36 caduti, con lamessa a dimora di uncerto numero di pianteche costituivano il viale diaccesso al cimitero stes-so, subì nel tempo uncompleto rifacimento inmemoria del sacrificio di46 ischiani cui fu dedicatoun cippo ciascuno conuna stele commemorativae la scritta “Ischia diCastro ai Caduti per laPatria” (1935). Si dovevagiungere comunque al1964 per realizzare ilmonumento posto nelgiardino antistante lescuole elementari, conuna stele affiancata ad uncannone “Scoda 75/13mod 15” donato dalloStato per l’intervento del-l’allora ministro della Dife-sa Giulio Andreotti. Ilvolume è arricchito dasignificative immagini chesottolineano i momentidescritti nel volume. Traessi abbiamo ritrovato lafoto del sacerdote donEraclio Stendardi, alloracappellano militare e chesuccessivamente sarà par-

roco di Ischia e storicoapprezzato delle vicendedella città di Castro.

Nella quarto libro dellacollana de “i Ruffini”, editaa cura del liceo scientificostatale “Paolo Ruffini” diViterbo, è apparso recen-temente Viterbo:Grande Guerra eMemoria, di BonafedeMancini e Claudia Falcioni(Viterbo, Tip. Grazini eMecarini, 2015, 78 p. fig.).Il libro prende spunto dallavoro effettuato nell’annoscolastico 2008/2009 dallaboratorio “Fare Storia”della classe V G, cheall’epoca realizzò il DVDLa Grande Guerra1915/1918, Viterbo: testi-monianza e fonti, proietta-to a Roma il 18 marzo2009 nella prestigiosasede del Vittoriano diRoma. Il liceo Ruffini hasempre mantenuto unostraordinario rapporto dicollaborazione con ilMuseo Centrale del Risor-gimento di Roma, tantoche la prefazione di que-sto volume è stata scrittadal prof. Emanuele Marti-nez, direttore della sezio-ne didattica del museostesso. Il volume, insostanza, riporta la storiadelle celebrazioni fatte aViterbo in onore dei Cadu-ti, dall’inaugurazione delParco della Rimembranzarealizzato nel quartieredei Cappuccini il 6 maggio1923 e l’innalzamento delmonumento al Milite Igno-to di Viterbo collocato inPiazza Verdi (più notaPiazza del Teatro),secondo il bozzetto delloscultore palermitanoBernardo Balestrieri.L’inaugurazione ebbeluogo il 17 maggio 1925,con la presenza del re Vit-torio Emanuele III. Ilmonumento vedeva la col-

locazione nell’alta base intravertino di un figura difante in divisa da campocon bandiera, con ai latidue altre statue in cui sierano voluti raffigurarel’allegoria della famiglia edel lavoro. Così sulladestra fu posta l’immaginedella donna (come sposa,madre e vedova), e sull’al-tro lato la figura di unuomo virile con mazza dalavoro. Oggi di quel monu-mento esistono soltanto le

immagini fotografiche per-ché nel 1941, così comeavvenuto in altre città epaesi, le statue in bronzofurono fuse per fare i can-noni per la nuova guerrache l’Italia stava affrontan-do in quel momento. Pur-troppo si cancellava ilricordo di una guerra perproseguirne un’altra…Segno dei tempi? Mentrela parte storica del libro sideve al prof. BonafedeMancini, la prof. ClaudiaFalcioni, nel suo saggioletterario, ci parla di“Guerra: il ricordo e la poe-sia”.

[email protected]

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La inutile strage della GrandeGuerra, come la definì BenettoXV, contò al termine del conflit-to oltre 10 milioni di morti e 20

milioni di feriti; per l’Italia i soli cadutifurono 650 mila. I cittadini valentanesimobilitati per le armi durante l’interoconflitto 1915-18 furono 513 su unapopolazione residente di 3414 abitanti(censimento del 1911). Alla fine delconflitto, ha scritto Romualdo Luzi, sicontarono 43 morti in guerra, 10 milita-ri caduti per altre cause, 24 mutilati edinvalidi, 4 dispersi, 4 decorati con me-daglia al valore, 13 decorati con croceal merito di guerra e 42 prigionieri diguerra. Dall’acquisizione di dati aggior-nati al 2015 conosciamo però che ilnumero ufficiale dei Caduti, compresi idispersi e i morti per malattia, fu 65, aiquale si deve aggiungere anche il nomedi Felice Milano, calciatore della Nazio-nale azzurra e del Pro Vercelli, nato aValentano il 23 maggio 1891 e mortol’11 novembre 1915 a Zagora (Slove-nia). Questo numero di Caduti non èdefinitivo ma certamente il più corri-spondente al certo.La guerra mobilitò anche i tanti emigra-ti valentanesi che, dalla fine dell’Otto-cento, erano partiti dall’Italia per trova-re l’america. Si ha notizia che, nel rim-patriare dagli Stati Uniti per compiere ildovere di soldato, Biagio Biagini perìnel settembre 1915 nell’incendio delpiroscafo Sant’Anna. Con lui forseanche Angelo Antonio Cruciani. Altrefonti (Simone Simoni) informano che ivalentanesi, dai campi aviti e d’oltre-mare, mobilitati alle armi in difesa delleitaliche terre furono 645 e 45 i morti.Questi dati al momento non sono con-trollabili ma certamente verosimili.In modo meno generico, i nomi di 24valentanesi emigrati e richiamati inpatria per l’arruolamento nell’esercitoitaliano nel 1915, ci sono pervenutiattraverso un elenco, conservato nel-l’archivio del Comune di Valentano(fermo all’aprile 1917), che rispondevaal Questionario relativo ai connazionalirimpatriati dall’estero per prestare ser-vizio nell’esercito italiano e marina,avanzato al Comune dal commissariogenerale Mayor. La lista redatta reca la

distribuzione numerica dei paesi dioltreoceano raggiunti da questi valen-tanesi: Argentina (n. 15), New York (n.5), Brasile (n. 3); la professione piùcomune dagli stessi esercitata risultaquella di campagnolo, contadino, matra loro si contano anche un calzolaio,un meccanico, un commesso e unmuratore. Nei fatti sappiamo che, apartire dal primo Novecento, il numerodei migranti valentanesi verso gli Usaera molto maggiore rispetto a quelloraggiunto negli altri paesi del continen-te americano; il New Jersey è lo Statofederale che ha dato loro la maggiore

accoglienza e, al suo interno, in parti-colare la cittadina di Raritan. Tra lorofurono Felice Petroselli e SanteMoretti,volontari nell’esercito statunitense ecombattenti sul fronte francese, doveentrambi morirono nell’ottobre 1918 apochi giorni l’uno dall’altro (rispettiva-mente il 12 e il 20) per ferite riportate incombattimento. L’arruolamento di ita-loamericani nell’esercito degli StatiUniti seguiva il Selective Service System,vale a dire una rigida e fitta rete di uffi-ci governativi che avevano la funzionedi controllo sui criteri di arruolamentoche, per quanto ci riguarda, segnò

LoggettaLlaapr-giu 2015

Valentano“Noi” e la Grande Guerra II parte

“Dall’America all’Italia:…ti verremo a liberar”

di Bonafede Mancini e Livio Fornari

Manifesto per sottoscrizione del prestito di guerra (disegnato nel 1917 da Achille Luciano Mauzan, Italia)

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l’identificazione degli italoamericanicon la società americana, con la loronuova patria.A Sante Moretti è intitolata l’Associa-zione dei Veterani stranieri combatten-ti di Raritan con sede in ThompsonStreet 16, tra i cui combattenti dellaprima guerra mondiale fu anche FelicePetroselli, registrato anche comePetrocelli. Joseph Moretti, familiare diSante, fu tra i cittadini di Raritan chenel 1945 morì nel mare giapponesepressoché al termine del secondo con-flitto mondiale. Sante Moretti di Alfon-so era nato a Valentano il 20 dicembre1893, così come anche Felice di Bernar-dino (7 agosto 1893). Il Petroselli, dopoessersi imbarcato a Napoli sulla naveMadonna, raggiunse Ellis Island a NewYork il 7 marzo 1909, per ottenervi poil’ingresso negli Usa alcune settimanedopo (30 marzo).Nell’esercito statunitense combatté insuolo francese anche Giovanni Rosati(classe 1894) di Felice, che fu assegna-

to al C.A. 326 Infantery TH. u.s.Amer. ExForce. Dallo stato di famiglia rilasciatodal Comune di Valentano nel settem-bre 1918, conosciamo che a quella datail fratello Luigi risiedeva in America,probabilmente negli Usa, mentre ilresto della famiglia a Valentano.La storia di questi valentanesi volonta-ri nell’esercito statunitense è diversada quella degli altri connazionali rimpa-triati dall’estero per la guerra. Tanti diloro che avevano cercato, trovato,costruito, da soli e/o con le loro fami-glie l’america, furono costretti a lasciar-la, perderla per causa di forza maggio-re. Nel luglio e agosto 1915, dal porto diNew York raggiunsero l’Italia per esse-re arruolati nel regio esercito italianoSamuele Santi di Vincenzo (classe1878), che fu in servizio presso la com-pagnia presidiaria in Albania, SanteBenvenuti di Giuseppe (1888), PietroOnori di Francesco (1891), arruolatobersagliere, Vincenzo Scipio (1890) diGiovanni. Nell’agosto del successivo

anno fu la volta di Giovanni Menci(1890) di Vincenzo.Nonmolto diversa la sorte per altri duevalentanesi emigrati in Argentina erientrati in Italia per la guerra. Si trattadi Odoardo Scala e di Antonio Navarra.Lo Scala, registrato anche come Edoar-do, era nato a Valentano il 26 settem-bre 1892, rientrò nel giugno 1916 peressere arruolato nel 3° genio telegrafi-sti e morire sei mesi dopo a Firenze (7dicembre) per malattia. Navarra Anto-nio di Domenico, classe 1893, rientròdall’Argentina nell’ottobre 1915 e fuarruolato quale soldato nel 226° reggi-mento fanteria. Morì il 24 maggio 1917per ferite riportate in combattimento.Sorte che lo unisce al fratello Angelo,che, nato a Valentano nel 1897 (19 ago-sto), morì in prigionia per malattia il 27giugno 1918. Dall’Argentina fece rientroanche Achille Santi (1881) di Nicode-mo, che, rimpatriato nel dicembre1915, fu fante e poi fatto prigioniero.Felice anche la guerra conclusa dai fra-telli Giovanni (1877) e Settimio (1890)Fratini di Augusto, che rientrarono dalBrasile (San Paolo) con le sorelle Cate-rina, Rosa, Quintilia, Sestilia (luglio eagosto 1915). Giovanni era meccanico,e seppure in età non più giovanissima,fu arruolato prestando servizio in qua-lità di armaiolo nell’arsenale di Vene-zia. Il fratello Settimio fu arruolato inqualità di automobilista nella 4a arma-ta. Giovanni ebbe cure presso un ospe-dale di Venezia, dal quale fu dimesso indata 14 settembre 1918. Per l’assisten-za prestata al militare lo stesso ospeda-le di Venezia, in data 16 ottobre 1919,inoltrava il sollecito di pagamentoall’inadempiente Comune di Valentano.Dall’Argentina fecero rientro ancheAchille (classe 1881) e Ulisse (1896) diNicodemo Santi. Achille rimpatriò neldicembre 1915 per essere arruolato nel17° fanteria, il fratello Ulisse - nel di-cembre di due anni dopo - vennearruolato nel 92° fanteria. Provenientedall’Argentina fu anche Francesco Bac-chiorini (classe 1888) di Sante. Come ilfratello Carlo (1882) fu arruolato nel-l’artiglieria di campagna ma fu più for-tunato di quest’ultimo, in quantosopravvisse al conflitto mentre Carlomorì a Valentano, per malattia contrat-ta in guerra, il 18 marzo 1920. Nel set-tembre 1917 rientrò dall’ArgentinaFrancesco Venanzi (classe 1877) diFilippo, che, a differenza degli altri rim-patriati, ottenne l’esonero agricolodalle armi.Una storia, quella narrata, ancora pocoindagata ma che rivela i tanti aspettidella guerra.

LoggettaLlaapr-giu 2015

Manifesto per l’arruolamento nell’esercito degli USA (disegnato nel 1917 da Janes Montgomery Flagg)

scuole e contornati dacipressi e aiuole.Al centro del giardino spic-ca il grande monumentocon la figura di soldatoopera dello scultore PietroCanonica (Moncalieri 1869-

Roma 1959), che aveva ilsuo studio in una villaall’ingresso di Vetralla.Oggi questa villa è il mona-stero del Carmelo, mentre

LoggettaLlaapr-giu 2015

Questa è la frasescolpita su unadelle lastre mar-moree nel Giardi-

no delle Rimembranze aVetralla. Oggi ha un suono

strano, quasi patetico,visto lo stato in cui versaquesta lastra, uno dei tantimonumenti raccolti in areedi rispetto, accanto alle

il parco della proprietàCanonica è diventato villacomunale con giardini, fon-tane e campi sportivi. Sulterreno donato (compratoo espropriato da Canoni-ca) è situato l’edificio dellascuola media.L’inaugurazione del monu-mento in memoria deiCaduti in guerra si svolse il17 maggio 1925 su un’areadonata dal signor FlaminioPiatti, piemontese di fami-glia da tempo stabilita inVetralla e che del Canoni-ca aveva sposato una figliaadottiva. Pietro Canonicaha offerto la sua opera gra-tuitamente, un atto di gen-tile omaggio verso i Cadutie di generoso disinteresse.La giornata era moltosolenne per la presenzadel re d’Italia Vittorio Ema-nuele III, che inauguròanche l’edificio scolasticoappena ultimato su proget-to dell’ing. Guazzaroni. Glistudenti delle elementaridi Vetralla sono ancoraospitati nello stesso bel-l’edificio, oggi rinnovato efunzionante.Con opportuni lavori lazona vicino alla scuola,oggi piazza Marconi, fusistemata e vi fu installatauna bella fontana a fusogià esistente nel cortiledella Rocca. Il professorAndrea Scriattoli disegnòla vaschetta superiore e ilpinnacolo terminale, chenella fontana originaleerano andati distrutti. Lapiazza fu anche sistemataa giardino con numerosepiante. Oggi si trova anco-ra la fontana in situ mapurtroppo da molti anni èmuta.

Vetralla

“Morti per la grandezza della Patria”

Mary JaneCryan

“VETRALLA AI SUOI FIGLI CADUTI PER LA GRANDEZZA DELLA PATRIA 1915-1918”,opera dello scultore Pietro Canonica (1869-1959), autore anche del monu-mento ad Ataturk a Istambul

Lapidi con elenchi nominativi di vit-time vetrallesi, militari e civili, dellealtre guerre del secolo scorso

70 LoggettaLlaapr-giu 2015

Ecco la cronaca della gior-nata tratta da un diario deltempo:

“Tutto il paese si preparòcon un addobbo, tantosemplice quanto sponta-neo, fatto esclusivamentedi verde e di fiori in granquantità. La via Cassiadalla frazione di Botte finoalla città e all’uscita perViterbo, circa cinque chi-lometri, era interamentericoperta di fiori. Appositetribune erano statecostruite per accogliere lemadri, le vedove e gli orfa-ni di guerra. Il comitato,già da tempo costituito eattivissimo, aveva tuttopredisposto per ricevere ilsovrano Vittorio Emanue-le III, che con la sua pre-senza volle conferire mag-gior prestigio alla cerimo-nia.Giunto alle ore 9, fra glisquilli di attenti delle trup-pe e le note delle variebande intervenute, il re,che era stato già salutatonella frazione di Cura dalregio commissario delComune, il nobile perugi-no conte Giuseppe Cone-stabile della Staffa, fuaccolto da tutte le autoritàe dagli applausi del popo-lo. Dopo aver inauguratol’edificio scolastico, il re siavviò alla tribuna d’onoreeretta nel Parco delle Ri-membranza e a sinistradel monumento che, bene-detto dal parroco donDomenico Felli, fu poi sco-perto e ammirato dalsovrano e dai presenti.Poco dopo il sovrano par-tiva, diretto alla volta diViterbo dove si recava perinaugurare il monumentoai Caduti di quella città.Nello stesso giorno fu con-ferita, con l’offerta di unamedaglia ricordo, la citta-dinanza onoraria allo scul-tore Canonica”.

da “Vetralla pagine di storia municipale ecittadina da documenti di archivio”

(3° ed. 1992) di Andrea Scriattoli, pp.357-358

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Il 28 giugno nella sala consiliare del Comune di Tarquinia, allapresenza del sindaco, dagli organizzatori (Comune di Tarqui-nia, con assessorato alla Cultura e archivio storico comunale;Centro Studi sull’Europa Mediterranea; Università degli Studi

della Tuscia), è stato presentato l’evento - di cui si era già antici-pato il progetto nel precedente numero della Loggetta - con cuianche la città della Tuscia “ha inteso testimoniare, attraversol’analisi delle fonti a stampa e d’archivio, la ricostruzione storicadella grande guerra, con particolare riguardo alle ricadute socia-li ed economiche nel territorio comunale ed al contributo di viteumane e di sacrifici dato al primo conflitto mondiale da CornetoTarquinia…”.

Tarquinia nella Grande Guerra 1915-1918

Catalogo della mostra documentaria a cura di Catia Papa, con un’appendice di testi efonti, Tarquinia 2015Il testo, che segue l’impostazione della mostra, dopo la premessa di Catia Papa docu-menta: L’attesa; Un paese in guerra; Il fronte interno; Dopo Caporetto; La vittoria e lamemoria; Combattenti.In appendice: 1915-1918. Il tempo della guerra a Tarquinia, di Vilma Nazzi; Lettere e car-toline dal fronte, a cura di Piera Ceccarini; Taccuini di guerra, a cura di Maria Silvia Eli-sei. Allegata la mappa del fronte carnico 1915-1916 (Descrizione dei siti citati nel Diario.Tavola 1:25.000. Grafica Edmondo Elisei).

All’interno del Catalogo sono pubblicati gli spartiti musicali inediti con inni patriottici(ASCT, s.d., ma dicembre 1918): All’Eroico mio Colonnello ora Sua Eccellenza TenenteGenerale Emilio De Bono La Stella d’Italia, versi di Ennio Antonio musica del sergentecieco Edoardo Maroldi).Hanno, inoltre, contribuito alla realizzazione del progetto: Maurizio Brunori, EdmondoElisei, Anna Maria Valeri e Roberto Ercolani.La mostra, allestita nella sala capitolare della ex chiesa di San Marco, aperta al pubbli-co tutti i giorni, nel mese di settembre viene trasferita nei locali dell’archivio storicocomunale, per visite e incontri didattici con gli studenti delle scuole.

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Tarquinia

Giovanna Mencarelli

Manifestazioni in occasionedel Centenario

71LoggettaLlaapr-giu 2015

Villa S. Giovanni in Tuscia

Monumento ai Caduti di Tarquinia fuori Porta Romana, sul Viale Dasti, chenel retro riporta la seguente scritta:

QUESTA PIETRA

SACRA COME UN ALTARE

RAMMEMORA E ONORA

MORTI PER LA PATRIA

I FIGLI

DI TARQUINIA REGALE

Il Monumento ai Caduti

Nel 1919 il consiglio comunale, dopo avere delibe-rato la realizzazione di un monumento per ilquale aveva stanziato 15.000 lire, nominò unacommissione che approvasse il bozzetto per cui

aveva bandito un concorso. Risultò vincitrice la ditta del-l’architetto Alessandro Ribaldi di Milano, con un preven-tivo di spesa di 67.000 lire; per reperire i fondi necessarivenne organizzata anche una lotteria.L’11 maggio 1924 il monumento - il cui costo finaleammontò a 85.000 lire - venne solennemente inauguratoalla presenza di autorità civili e militari, dal principeUmberto di Savoia, all’onorevole Bottai, a tutte le associa-zioni degli ex combattenti e dei familiari dei caduti.Nel 1937 il monumento venne abbellito con quattro gra-nate, un affusto per bombarda e due bombe da bombar-da donate dal ministero della Guerra.Nel 1941 il gruppo bronzeo di 374 chilogrammi, conside-rato come metallo da riusare a fini bellici, trasportato aMilano e consegnato all’Endirot (Ente distribuzioni rotta-mi), venne fuso.Nel 1971, promosso dalla associazione nazionale marinaid’Italia e dal Comune, il monumento, seppure in misuraridotta, venne ricostruito nelle forme originali.Notizie desunte da: Giovanni Tonicchi, Tarquinia miles. La presenza militare nel terri-torio ed i cittadini tarquiniesi alle armi nel ventesimo secolo, Tarquinia 2006

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Il primo monumento visibile per chi raggiunge VillaSan Giovanni in Tuscia è quello dedicato alla memoriadei Caduti della prima e seconda guerra mondiale, chesi trova presso Piazza Savoia, la piazza principale del

paese. Fu eretto nel 1922 e in occasione della sua inaugu-razione si tenne una solenne celebrazione, come mostra-no alcune vecchie fotografie che ritraggono l’evento. Sivede una piazza ancora in terra battuta, alcuni caseggiatiall’intorno, strade sterrate e una folla di sangiovannesiassiepata attorno al monumento, abbellito perl’occasione con festoni. Questa piazza, che all’epoca erasolo uno slargo sterrato posto all’ingresso del paese, piùtardi fu pavimentata con lastre rettangolari di peperinolocale; ma quando, alcuni decenni dopo, il monumento aiCaduti fu spostato al centro della piazza, questa pavimen-tazione fu sostituita con un manto di asfalto e le vecchielastre furono reimpiegate per pavimentare la località Pra-ticello, zona a nord del paese.Il monumento ai Caduti di tutte le guerre è formato da unbasamento parallelepipedo costruito in peperino localeproveniente dalle cave situate presso la località Le Cese,vicino al bivio tra la strada provinciale Blerana e quellache conduce a Villa San Giovanni in Tuscia. Al di sopra sierge una colonna di marmo cipollino, che non provienedai resti strutturali della villa rustica romana sul cui sitofu edificato il paese, bensì fu prelevata dalle rovine del-l’antico abitato di Norchia. Il trasporto del pesante “far-dello” da questa località fino a San Giovanni di Biedaavvenne con l’ausilio di un carro trainato da una parigliadi buoi. In origine il monumento era dedicato solo aicaduti della prima guerra mondiale, come ricorda lalastra di marmo con epigrafe posta sulla facciata princi-pale del basamento, nella quale si legge:

AD ETERNA MEMORIADEI DILETTI SUOI FIGLI

CHE GLORIOSAMENTE CADDEROPER LA GRANDEZZA D’ITALIA

NELLA IMMANE GUERRAXXIV MAGGIO MCMXV

IV NOVEMBRE MCMXVIIIIL POPOLO DI SAN GIOVANNI

P[OSE]

Memoriedi pietraper i figlidella Patria

MicaelaMerlino

AngeloCapuzzi

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La colonna spezzata sulla sommità bene si addice a sim-boleggiare l’estremo sacrificio per la Patria di alcuni san-giovannesi, a cui la guerra strappò giovinezza e vita suicampi di battaglia e in prigionia.Tra i soldati morti in prigionia vi fu Sante Zega, nato il 1febbraio 1892 da Pacifico e Veronica Mazzoli e morto aGouvy in Belgio il 26 aprile 1918. Il suo nome è ricordato,oltre che in questo monumento, anche in uno simile dedi-cato nel 1923 ai Caduti di tutte le guerre a Gouvy in Bel-gio. Le informazioni contenute in una corrispondenzaintercorsa tra il Circolo belga di Storia “Glain et Salm” e ilComune di Villa San Giovanni in Tuscia per reperire noti-zie su questo soldato, ha permesso di chiarire il motivoper cui Sante Zega si trovasse proprio a Gouvy. Infattidurante il primo conflitto mondiale i tedeschi costruiro-no una ferrovia tra Saint Vith e Gouvy, usando comemanovalanza forzata alcuni prigionieri di guerra. Santeera stato catturato il 27 ottobre 1917 durante la lunga bat-taglia di Caporetto. Sopravvissuto alla carneficina, avreb-be incontrato però un altrettanto triste destino. Infatti,ben diciassette soldati di varie nazionalità, tra cui tre ita-liani compreso Sante, morirono a causa del duro lavoro edegli stenti patiti durante la realizzazione della ferrovia.La tragicità di questo evento fu accresciuta dal fatto che,per quanto riguarda Sante, la sua vita era stata già crudel-mente segnata dalla perdita di entrambi i genitori, avve-nuta quando era ancora fanciullo, cosicché di lui si prese-ro cura gli zii. Sante aveva poi fatto il contadino, e comemolti altri sangiovannesi del tempo, non aveva neppurefrequentato le scuole elementari, perciò era analfabeta.Ma in guerra questo non aveva alcuna importanza, ciòche contava per essere arruolati era una “sana e robusta”costituzione fisica, cosicché il giovane partì il 18 settem-bre 1912, venendo assegnato al 1° reggimento artiglieriadi campagna, 5° battaglione; poi nel 1915 fu trattenutosotto le armi, poiché imperversava la guerra. I resti diquesto sfortunato ragazzo, morto a soli venticinque anniin uno dei più terribili conflitti che hanno insanguinatol’Europa del XX secolo, riposano ancora nel cimitero diGouvy, insieme agli altri italiani Luigi Osiera e AurigeMazzoni.Sul monumento di Villa San Giovanni in Tuscia sonoricordati altri quattro soldati morti in prigionia: France-sco Bussotti, Evaristo Carlini, Avelio Giganti e PaoloBurattini.

Più numeroso, invece, fu il contributo di sangue dei san-giovannesi che trovarono la morte sui campi di battaglia,diciannove soldati. Per i pragmatici, la guerra è uno stru-mento di dominio, spesso mascherato dalla necessità di“mantenere la pace” (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”,dicevano i Romani). Per gli scettici, invece, i disastri delleguerre non insegnano nulla: la consapevolezza non fadiventare gli uomini più saggi, perché ogni nuova genera-zione ricade negli stessi “errori” di quelle che l’hannopreceduta.Contro queste idee ciniche e nichiliste si ergono le“Memorie di pietra”, come quella di Villa San Giovanni inTuscia e Gouvy, come tante altre sparse in tutta Europa,in tutto il mondo. Innalzate non solo per ricordare coloroche sono morti a causa delle guerre, per tramandarne inomi, ma anche per far riflettere e per convincere dell’as-surdità, dell’irrazionalità della violenza come strumentoper costruire una società civile.

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Il monumento ai Caduti oggi e in tre immagini storiche del 1922, quando fueretto e inaugurato

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Nonna Pia mi ha tanto raccontatodella grande guerra combattuta dasuo padre ma non ha lasciato scrittia tale proposito, per cui affiderò leseguenti righe alla mia personalememoria, attingendo a ricordi e sen-sazioni minime, presi in prestito dastorie a me più o meno vicine che inqualche modo hanno bussato allaporta dei miei ricordi. In fondo tuttiabbiamo avuto nonni in guerra.

Si chiamava Giovanni, detto Giovan-nino, classe 1883. Quando vennechiamato a onorare la Patria giàlavorava come sarto da uomo,

aveva moglie e una figlia di tre anni, ziaLidia, la sorella più grande di mia madre.Prestò la sua preziosa opera anche per isoldati italiani e nelle retrovie vide scor-rere le stagioni senza grandi scosse, fin-ché un brutto giorno si trovò in mezzoall’inferno dell’artiglieria austriaca. Pocolontano da lui c’era il commilitone Nico-la, giovane pastore di Farnese con cuiaveva stretto fraterna amicizia. I colpinon cessavano e temette della propriavita. Non potendo fuggire si rannicchiòdov’era, chiuse gli occhi e aspettò il peg-gio. Con sorpresa sentì una mano sullaspalla, era Nicola: “Se dobbiamo morire,moriremo insieme”, gli disse. Quandotutto finì si abbracciarono e piansero digioia.A nonno Giovannino si riempivano gliocchi di lacrime quando ricordava Nico-la o lo sentiva al telefono pubblico, eogni rara volta che lo vedeva era unafesta. Quando morì ottantaquattrenne,raccolsi tra le sue carte un santino stro-picciato e consunto per le numerose pie-gature, con l’immagine della Madonnadelle Grazie venerata in Farnese. Recavauna scritta vergata a matita rossa concaratteri infantili: “all’amico Giovanni,Nicola”. Era il ricordo che gli avevalasciato per lo scampato pericolo e chelui aveva sempre tenuto con sé, piegatocome una reliquia.Anche Nicola aveva ricevuto dal nonnoun santino simile, quello della nostraMadonna del S. Amore. Era tutto ciò chepossedevano in quel difficile momentoma nessun dono poteva essere più pre-zioso. Quando Giovannino tornò a casa,trovò la figlioletta già scolara ma lamoglie non c’era più: era morta di febbre

“spagnola”, una guerra senza fronte chearrivò a colpire dove l’altra non erapotuta arrivare.Pure Agostino tornò dal fronte. Nonaveva ancora visto suo figlio Livio, natonel 1915 quando lui era già partito. Miopadre mi raccontava non senza emozio-ne di quando suo padre, tornato al paesea piedi, lo riconobbe da lontano. “Avevopoco più di tre anni ma ho ancora nitidoil ricordo di quell’omone col mantellolungo che si avvicinava sorridendomi,mentre io morivo di paura. Poi mi presein braccio e mi disse che era il mio babbotornato dalla guerra ma io piangevo lostesso perché non lo avevo mai visto. Ipostumi di una zoccolata di mulo al tora-ce lo avrebbero ucciso dieci anni piùtardi... La guerra me lo aveva riportato; laguerra me lo tolse del tutto”.

Giovannino ricevette il titolo di Cavalie-re di Vittorio Veneto e ogni anno, il 24maggio, non dimenticava di ricordare anoi nipoti del passaggio del Piavefischiando l’inno. Poi per sdrammatizza-re prendeva dal taschino del panciottola sua cartuccia “bellica” di fucile doveconservava gelosamente del tabaccotoscano profumato e tenuto ben chiusoda un piccolo tappo di sughero. Si versa-va una presa di polvere sul dorso dellamano e ne dava un po’ anche a noi bam-bini per farci starnutire. Poi rideva dicuore.Il tabacco da fiuto: unico vizio di miononno. Un vizio preso in guerra quandodi notte anche il piccolo bagliore di unasigaretta poteva essere fatale. Bernardi-no, classe 1899, l’ultima chiamata inguerra, aveva risolto come tanti fuman-do al contrario, cioè col fuoco in bocca.Così Franco, detto Zicche, che sapevaanche girare il sigaro con la lingua esenza toccarlo con le dita. Questo giocodi prestigio che usava come un giocoper stupire e divertire noi piccoli loaccompagnò fino a oltre gli ottanta.

Il cavallo a dondolo di Roberto, classe1956, si chiamava Illiria, come la cavalladi guerra del nonno Torello, classe 1887.I racconti di Torello, ormai infermo, ave-

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Torre Alfina

I racconti di nonna Pia

Tracce di una guerra lontanaRitaPepparulli

Agostino Pepparullial fronte

Giovannino (classe 1883) e Nicolafesteggiano ottant’anni

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vano modellato la sua fantasia di bambi-no e così, tra i canyon del far west e lemontagne innevate delle Alpi, Illiria con-tinuo a galoppare saltando tutti gli osta-coli imposti dal tempo e restituendoall’antico soldato solo la bellezza deiricordi.La dichiarazione di guerra colse Torello,già emigrato in America, New Jersey,nella piantagione di fragole del fratelloPlacido, in tempo di raccolta. “Torno inItalia. Vado a combattere per la Patria”,disse, con la p maiuscola. “Se te ne vai,vedi di non farti più vedere”, fu la rispo-sta di Placido. Così fu.Torello raccontava dei monti del Carso.Se li ricordava bene perché ce lo poserod’inverno e con la neve, come fosseun’aquila, solo, a fare la guardia ai confi-ni, per tre giorni. Quando tornarono aprenderlo per dargli il cambio era addor-mentato e mezzo assiderato, allora lomisero agli arresti e lo processaronodecretandone la morte per fucilazione.“No. Ci serve meglio da vivo. Mandiamo-lo a tagliare i fili delle trincee, tantomuore lo stesso”. Non morì, anzi ebbe lameglio anche in un corpo a corpo colnemico. Fu premiato con la croce diguerra.

Come Torello, anche l’altro nonno diRoberto fece la guerra per fede. Partìvolontario sebbene fosse stato scartatoalla visita militare. “Se proprio vuoi anda-re ti mandiamo in fanteria”. “Meglio diniente...”, rispose laconico Giuseppe,classe 1887. Finì in Serbia e lì imparò afabbricare la grappa, che ad Acquapen-dente se la sognavano. E quando tornò acasa continuò a farla, perché piaceva e isignori glie la richiedevano. Poi un gior-no arrivò un controllo della Finanza,mandata da qualche soffiata d’invidia

paesana. I finanzieri cercarono ma nellapovera cucina trovarono solo un tubo dirame, un imbuto, un barile delle sarde...“Di che puzza?”, chiesero. “Di baccalà”,replicò sornione Peppe. “E l’apparec-chio? Dove sta l’apparecchio?”, doman-darono spazientiti. “E chi apparecchiamai!”.

Noi, i nipoti della grande guerra ormailontana, nonmeno dei figli abbiamo rice-vuto il messaggio di chi ne aveva soffer-to le conseguenze. Chi aveva avuto lafortuna di tornare era schiacciato dal-l’impegno di riprendere in mano la vita etirare avanti, così i figli, coinvolti in que-sto impegnativo gioco delle parti, nonpoterono godere della visione distacca-ta e giocosa dei fatti. Solo da vecchi iricordi vengono decantati, spogliati diogni drammaticità e presentati ai picco-li, ormai simili a sé, sotto la magicaforma del gioco.Una curiosità: alla visita militare Giusep-pe aveva conosciuto Agostino e divenne-ro amici, tanto che Peppe fece da padri-no al battesimo della primogenita diAgostino, zia Ida, la quale raccontò emo-zionata questo fatto quando conobbeRoberto al funerale di Livio, mio padre. Icasi della vita.Piccole cose, fatti minimi della vita dipersone che oggi non sono più ma cheancora fanno eco con la loro dirompen-te forza evocativa. Li facciamo nostri,per ricordarci tutti che la guerra di Giu-seppe, Agostino, Bernardino, Torello,Giovannino e tanti altri, non è durata treanni, è durata una vita. Si è infiltratanelle abitudini quotidiane dei suoi solda-ti, nei loro gesti, nelle parole, nella loromemoria più nascosta e li ha accompa-gnati fedele per ricordar loro che se liaveva risparmiati sul fronte non avrebbe

poi risparmiato loro la sua invadentepresenza in nessun momento della lorolunga o breve, felice o triste esistenza.Già grande, Rosanna mi raccontò delpadre che ebbe una gamba amputataall’inguine per lo scoppio di una granata.Era un uomo forte e in tutta la sua vitariuscì a dimostrare ai figli che il suosacrificio aveva avuto un senso e nellavita si può riuscire comunque. “Non l’homai visto abbattersi, né lamentarsi dinulla. Poi, assistendolo sul letto di morte,mi è sembrato che tutto l’orrore, lo sgo-mento, la disperazione che aveva prova-to tanto tempo prima, fossero improvvisa-mente riaffiorati alla sua coscienza. Soloin quel momento l’ho visto piangere esolo allora ho compreso la grande soffe-renza che lo aveva sempre accompagna-to nel più assoluto silenzio”.Tempo dopo, durante una mostra foto-grafica in biblioteca, ho potuto osserva-re una vecchia foto ingrandita e un po’sgranata, che ritraeva quel giovaneuomo disteso nel letto dell’ospedale dacampo dopo l’amputazione e ho capito ilsenso di quelle parole. La foto avevacolto nei suoi tratti tutto il dramma vis-suto: gli occhi sbarrati, il volto sudato econtratto. Era tutto lì, sospeso. La vitafutura solo un lungo intervallo a conte-nere il dolore di un’esperienza terribilepoi rimossa ma mai eliminata. Un doloreche ha saputo aspettare paziente pertutta la lunghezza di una vita vissuta daleone. Un dolore esiliato che, anche soloper un attimo, pretendeva il diritto di cit-tadinanza nell’animo in cui era albergatosilente e che ora proclamava a gran vocetutta la ferocia, la violenza, la profonda,disumana ingiustizia di una guerra.

Anche Candido ebbe una gamba ampu-tata dal ginocchio in giù per le feriteriportate in guerra. Lo aiutavano a cam-minare un bastone e una gamba di legno,molto benmodellata. Me la ricordo beneperché quando da piccola mi recavo dalmeccanico per aggiustare qualche pezzodella mia amata bicicletta, talvolta trova-vo Teresa, la Candida, con la gamba sot-tobraccio, magari a rinforzare gli attac-chi delle cinghie di cuoio e mi sembravastrano e poetico vedere questa donnacosì minuta maneggiare con tanta curaquell’arto di legno come fosse di carne eossa. E lo era veramente. Era l’ex votoche il suo uomo, come tanti altri, avevaappeso all’altare della dea Italia per averavuta salva la vita. Immagine traslata delsuo sacrificio, del generoso dono di quelpezzo di corpo e anima volati via insie-me alla sua spensierata giovinezza.

[email protected], classe 1959

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Torello, soldato di cavalleria della classe 1887, e suo fratello Placido, agricoltore in New Jersey

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Richiamato alle armi nel febbraio del 1916 - ormaitrentacinquenne, anche lui dopo la sua bella emi-grazione americana nel 1913 insieme con il fratelloBartolomeo - Giuseppe Di Michele era passato da

un reparto all’altro e nei primi mesi del ‘17 era finito nel120° fanteria. Dove il 12 marzo fu denunciato al tribunale diguerra del 6° corpo d’armata per essersi procurato “col rici-

no una congiuntivite ad entrambi gli occhi... rendendosi tem-poraneamente inabile al servizio”. Condannato a tre anni direclusione, si vide commutare la pena in condizionale purdi essere mandato in quella specie di anticamera dellamorte che era il 60° reggimento fanteria. E il 28 ottobre del1917 fu fatto prigioniero nella battaglia di Castelmonte, neipressi di Cividale del Friuli, nella circostanza dello sfonda-mento di Caporetto. Fu così che finì nel lager di quella loca-lità che oggi si chiama Milovice, nella repubblica ceca, auna cinquantina di chilometri a nord-est di Praga, dovemorirono permalattia un numero imprecisato di soldati ita-liani prigionieri.Vogliamo riportarne la vicenda non a disonore del caduto -che non fu né il primo né l’ultimo a ricorrere a certi strata-gemmi, e in ogni caso pagò con la vita anche per quelmomento di umana debolezza - ma per ricordare che laguerra è anche questo, ossia istinti e paure e reazioniimprevedibili, che non tutti e non sempre si è in grado dicontrollare e dominare: “stillicidio di mille tormenti, ricetta-colo di ogni vergogna, abisso immondo”, come scrisse Dona-to Donati della sua esperienza di prigioniero dei francesi inAfrica durante l’ultimo conflitto. I soldati hanno la loroumanità fatta di luci e ombre come per tutti, e se vogliamoche la loro avventura umana dica qualcosa anche alle gene-razioni di oggi, l’ultima cosa da fare è proprio mistificarneo nasconderne la realtà. Potrebbe anzi voler dire crearci unalibi per rimuoverne l’“attualità”. Per quanti militari dellaseconda guerra, a noi più vicina, abbiamo sentito racconta-re di analoghi tentativi di sottrarsi al rischio del fronte? C’èstato chi ha fumato sigarette inzuppate nell’olio per farsiaccelerare il battito cardiaco; chi ha finto attacchi epiletti-ci; chi ha fatto dei bagni in acqua gelida procurandosi real-mente delle malattie polmonari; chi ha pensato di romper-si un braccio, o un piede, sperando magari di venire asse-gnato ai servizi sedentari... Espedienti certamente non ono-revoli ma che bisogna mettere nel conto quando l’uomoviene posto di fronte a situazioni estreme. Del resto, pensa-te che se malauguratamente si ripresentassero quelle con-dizioni, non si ripeterebbero tentativi simili da parte deigiovani figli delle società più “evolute”?...Si veda anche - tanto per sdrammatizzare - questo simpati-co episodio del popolare Canuto ricostruito da UmbertoMezzetti. Perché nella tragicomica disavventura dei dueprotagonisti si riflette in realtà un aspetto angosciante deldramma della guerra.

La “medicina”del Canuto

Giuseppe Di Michele nato a Piansano nel 1881, soldato del 160° reggimen-to fanteria, morto per enterite il 26 febbraio 1918 nel campo prigionieri diguerra di Milovitz (Boemia)

Antonio Mattei

Umberto Mezzetti

Piansano

Apprestamento di difesesull’Altipiano di Asiago

(foto del sergente Giulio Compagnoni)

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[...] Quando prestava servizio militare inuna caserma di cui non ricordo la località, ilCanuto [Domenico Ciofo, 1894-1973, ndr]trovò tra i commilitoni un altro nostro pae-sano di nome Domenico e da tutti conosciu-to come Bigonzòtto [Domenico Calisti, 1895-1960, ndr]. Con la guerra in corso, il perico-lo di essere spediti al fronte era sempre pre-sente, ed un giorno ai nostri paesani vennecomunicato che entro breve tempo ancheloro sarebbero stati mandati in trincea. Lanotizia li atterrì, perché il pericolo dilasciarci la pelle era alto, e quasi tutti i sol-dati chiamati a questo sacrificio cercavanodi evitarlo usando vari stratagemmi. Ancheil Canuto e Bigonzòtto cercarono di risolve-re il problema provando ad inventarsi qual-che trucco, e l’occasione si presentò quan-do il Canuto fu mandato a casa in licenzaper pochi giorni. “O Me’ - disse il Canuto aBigonzòtto - io vo a casa ché m’hanno datola licenza, e quanno ariviengo ‘n casermaporto ‘na medicina che ‘n guerra ‘n ciannà-mo nessuno de due”. Bigonzòtto avrebbe voluto sapere diche cosa si trattava, ma il Canuto fece il misterioso e conl’aria di chi la sa lunga gli disse solo: “Fidete de me”. Finitala licenza, il Canuto tornò in caserma e andò a cercareBigonzòtto, il quale, quando lo vide, lo interrogò con trepi-dazione: “Aó, Canu’, l’hae pòrta la medicina?”. Il Canuto loguardò facendo la faccia da furbo e disse: “Te l’ho ditto chele portavo... Embe’, l’ho pòrta”. Guardava Bigonzòtto conspavalderia e nel suo volto si leggeva tutto l’orgoglio di unoche ha compiuto una grande impresa. Bigonzòtto continua-va a non capirci nulla, ma vedendo l’amico con quel-l’espressione soddisfatta capì che qualche cosa sarebbesuccessa. Il Canuto gli fece: “Viene dietro a me, annamo algabbinetto”. “O, e ch’émo d’anna’ a fa’ al gabbinetto?”, chie-se Bigonzòtto. E il Canuto: “Le so io ch’émo d’anna’ a fa’.Fidete de me”. Bigonzòtto era un po’ titubante, ma lo seguìed entrò insieme a lui. Appena dentro, il Canuto chiuse achiave la porta e fece: “Aó, tirete jù i calzone”. Bigonzòtto loguardò con sospetto e disse: “Ma che te see messo ‘n testa?Per chi m’hae preso?”, ma ancora fiducioso si calò i panta-loni. Il Canuto ordinò ancora: “Mo’ tirete jù le mutanne”. A

questo punto Bigonzòtto perse la pazienza e disse al Canu-to: “Ma tu me sa che te see ammattito, brutto porco! Mo’ te dò‘n cazzotto”. Senza scomporsi, il Canuto insisté: “T’ho dittofidete, che sinnò te tocca anna’ ‘n guerra”. Disorientato datanta sicurezza, e con la speranza di risolvere il problemadella partenza per il fronte, sebbene con diffidenza Bigon-zòtto si denudò. Allora il Canuto tirò fuori dalla tasca unpezzo di canna lungo una dozzina di centimetri, chiuso dauna parte da un tappo di sughero, lo avvicinò agli organigenitali di Bigonzòtto, lo stappò e cominciò a picchiettarela canna con le dita dicendo: “Forza, scappate fòra... Mové-teve... E che ve séte addormite?”. Ma picchia e picchia, edagli e dagli, non succedeva niente. Preoccupato, il Canutovoltò in giù la canna, e in quel momento caddero a terramorte stecchite sette o otto api. Quando il Canuto le vide aterra morte, fece una faccia da funerale, e mettendosi lemani in testa gridò disperato a Bigonzòtto: “Fratello, semorovinate! C’è morta tutta la medicina! Tocc’anna’ ‘n guerra!”.Mentre era in licenza, il Canuto aveva preso quelle api daun alveare e le aveva messe dentro la canna vuota conl’intenzione di farsi pizzicare i testicoli - prima quelli di

Bigonzòtto e poi i suoi - in modoche questi, gonfiandosi smisurata-mente, fossero risultati malati allavisita medica e quindi avesserocomportato l’agognato esonero peril fronte. Solo che si era scordato dilasciare qualche forellino in mododa far entrare un po’ d’aria ed evita-re che le api morissero asfissiate. Eadesso era lì, disperato dentro aquel cesso, davanti a Bigonzòttocon le brache calate, che non smet-teva di lamentarsi accorato: “Semorovinate!... Ma te pare a moriccetutta la medicina durante ‘l viag-gio?!... Ce tocc’anna’ ‘n guerra!...”.

Da “Quei morti ci servono” di Antonio Mattei(Tip. Ceccarelli, 2001) pp. 41-44

‘l Canuto (Domenico Ciofo, Piansano 1894-1973) Bigonzòtto (Domenico Calisti, Piansano 1895-1960)

Traino d’artiglieria sul Cadore(foto del sergente Giulio Compagnoni)

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Adistanza di un secolo dal 24maggio 1915, data che segnòl’entrata dell’Italia nella primaguerra mondiale, possiamo sola-

mente immaginare quali furono gli inti-mi sentimenti, le reazioni, le speranze ele paure che vissero i nostri concittadi-ni.Cadute le incertezze sulla partecipazio-ne italiana a quel conflitto mondiale,emersero dubbi sull’effettiva prepara-zione militare ad una guerra che poi lanazione superò a costo d’enormi e dif-fusi sacrifici, sia economici sia di viteumane, in prima linea come nei piccoliborghi. Basti conoscere, ad esempio,che in quel periodo ai soldati mobilita-ti il ministero suggeriva di presentarsialle armi con proprie calzature a gam-baletto in sostituzione di quelle regola-mentari impegnandosi a rimborsarne ilvalore tra le 10 e 14 lire al paio.Fino ad oggi, sullo stato d’animo deimontefiasconesi in quel primo giornodi guerra, non è stata trovata alcunatestimonianza negli archivi comunali.Porta invece la data del giorno succes-sivo, 25 maggio 1915, il primo approc-cio di un montefiasconese a quel con-flitto. Il documento in questione sem-bra uscito direttamente dal libro“Cuore” ed è la domanda, scritta a ma-no su un semplice foglio di carta bian-ca, del concittadino Amedeo Marzetti,in cui chiede l’arruolamento volontarioper il fronte nonostante alle visite dileva fosse stato dichiarato prima “rive-dibile” e poi “riformato per obesità”. IlMarzetti, per non farsi rigettare ladomanda, indica la sua professione dipizzicagnolo, quasi a giustificare la suacorporatura, ed evidenzia al ministerodella Guerra che egli è comunque ingrado di poter “sicuramente (sot-tolineato nel testo originale) prestareservizio militare”.Dopo qualche tempo, nel timore di nonessere arruolato, il Marzetti presentòuna seconda domanda e stavolta il suodesiderio fu accolto, cosicché ebbe lapossibilità di vestire la divisa grigio-verde che cercò di onorare al meglio.Una volta terminata la guerra e conge-dato con “fedeltà e onore”, secondo la

formula riportata sui fogli di congedodell’epoca, egli tornò in città. IlMarzetti era considerato in città unvero personaggio e con la sua innatabonarietà e le sue battute facili, ripresele abitudini di buongustaio insieme allacompagnia dei suoi inseparabili amici.Ma aldilà della simpatia anche fisicache egli suscita, è doveroso evidenzia-re che la sua ferma volontà di partirevolontario fu nobile e doppiamentevalorosa, in quanto egli nelle due do-

mande d’arruolamento tacque la suacondizione di titolare d’attività com-merciale, e di uomo sposato con benquattro figli. Il suo coraggioso e pa-triottico comportamento, pertanto, faemergere in tutta la sua semplicità ebellezza i sentimenti di tanti nostri con-nazionali e concittadini che come luiseppero compendiare concretamentel’amore per l’Italia con il desiderio dichiudere definitivamente il ciclo unita-rio risorgimentale.

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Montefiascone nei primi giornidella Grande Guerra

Montefiascone

Normando Onofri

Il pizzicagnolo Marzetti Amedeo (1888-1943) volontario per il fronte nonostante la riforma per obesità

In quegli stessi giorni dell’entrata inguerra, a Montefiascone fu costituitoun organismo presieduto dal vescovoGiovanni Rosi e dal sindaco facentefunzioni, Cori Giuseppe. Lo scopo eraquello di coordinare localmente gliaiuti ai nuclei famigliari di quei soldatiche con la loro partenza alle armiavrebbero determinato mancanza diforza-lavoro e carenza dei mezzi disostentamento, in una cittadina ad eco-

nomia quasi esclusivamente agricolagià fortemente provata dalla povertà edalla mancanza di terre da coltivare.Grazie alla disponibilità e sensibilitàdei concittadini, con tante donne inprima linea, furono organizzate quattrodiverse strutture per cercare soluzioniad altrettanti gravosi problemi che sisarebbero presentati: a) Comitato perla Cooperazione agricola: doveva sop-perire e coordinare la carenza di manod’opera per il raccolto nei campi fissan-done la paga; b) Comitato per le cucineeconomiche: in caso di necessità dove-va distribuire pasti possibilmente caldiai bisognosi; c) Comitato per gli asili:concedeva cura e assistenza prolunga-ta ai bambini delle famiglie dei richia-mati e delle madri obbligate al lavoronei campi; d) Comitato per il Segreta-riato del Popolo: aperto al Municipio,forniva chiarimenti su sussidi alle fami-glie bisognose dei soldati in armi.Sebbene come s’è visto il Comune sifosse già attivato concretamente per iprimi aiuti ai concittadini bisognosi, undocumento ufficiale riguardante il con-flitto iniziato s’ebbe solamente nelle bat-tute finali della seduta consigliare del 28giugno. Alle nobili e patriottiche parole

(seppur tardive) del sindaco facentefunzioni, Cori Giuseppe, che rivolse imigliori auguri all’Italia e ai concittadiniin armi, il consiglio si associò unanime.L’oratore non sapeva che in quellegiornate di fine giugno Montefiasconepoteva già piangere il suo primo cadu-to in guerra nella persona del bersaglie-re venticinquenne Nevi Vincenzo,morto a Cividale il 13 giugno 1915, eche invece un altro concittadino, iltenente Wolfango Fazi, il giorno 6 giu-gno s’era guadagnata sul campo unamedaglia di bronzo (ne guadagnerà poianche una d’argento).

A livello locale molto attive furono leDame della Croce Verde, un’istituzionecittadina di volontariato nata nel 1910.Il settore femminile era guidato dallasignora Adele Mimmi che coordinavala raccolta e la lavorazione di panni intela di lino o canapa, anche di vecchilenzuoli, che, preparati nella dimensio-ne di cm 40x40, erano utilizzati dainostri soldati al fronte. Il 25 agosto fueffettuata una fiera di beneficenza perraccogliere fondi destinati alla lana peisoldati. Furono raccolte 900 lire emolte donne si misero a lavorare lalana acquistata. Ma, seppure all’iniziodella guerra, c’era poco da spremeredalla popolazione, tanto che a causadella diffusa povertà nel mese di ago-sto 1915 dodici nuove famiglie furonoiscritte nell’elenco dei poveri.Dal fronte cominciavano a ritornare acasa i primi feriti ed invalidi, tra i qualiVincenzo Bartoleschi, Flaviano Castel-lani ed il tenente Luigi dottor Donati(notaio). E, purtroppo, per le necessitàbelliche cominciarono pure ad essereoperative anche nella nostra area lecommissioni militari di requisizioni deicarri e quadrupedi (cavalli e muli). Irisultati di una prima indagine comuna-le censì 21 carri a due ruote e 26 a quat-tro ruote, mentre il totale dei quadru-pedi fu di 84 cavalli e 48 muli. I contadi-ni del nostro piccolo universo agricolo,già poveri, senza mezzi e con gli uomi-ni al fronte, consideravano quelle com-missioni una iattura che aggiungevadisperazione allo sconforto ed ai lutti.A tutto ciò s’aggiungerà, a decorreredal 20 ottobre, l’incetta governativadella carne bovina per il regio esercitoe, purtroppo, si stavano predisponen-do ulteriori nuovi sacrifici a carico del“secondo fronte”.

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Consegna di medaglia al valor militareal tenente Ruben Rubbi,al quale sarà dedicata una via cittadina

Nevi Vincenzo (1890-1915) fu il primo montefia-sconese a morire in guerra. Era fratello del famosopoeta dialettale Nevi Amerigo detto Guardianello

79LoggettaLlaapr-giu 2015

Laprima guerra mondiale fu in sostanza una guerradi posizione: i fronti occidentali (franco-tedesco eitalo-austriaco) in realtà non variano per tutta ladurata del conflitto, se si eccettuano alcune avan-

zate, seguite da ripiegamenti, e la rotta di Caporetto. Inun tale contesto è evidente che lo spazio di vita propriodel soldato-massa, come ormai si possono definire i com-battenti, è la trincea. Le virtù richieste ai soldati sono per-tanto obbedienza, pazienza e resistenza alle sofferenze,alle privazioni e all’angoscia di trovarsi sempre a unpasso dalla morte. Fu nelle trincee che i soldati dovette-ro condurre la loro vita quotidiana, sempre in attesa: del-l’avvicendamento, del rancio, della posta, dell’ordine diattacco. La vita in trincea è narrata da libri e presentatada famosi film: i primi, scritti da uomini che l’esperienzadella guerra l’avevano vissuta e quindi rielaborata; isecondi da registi, che attingendo a documenti ed espe-rienze vi hanno costruito un discorso critico, quasi sem-pre polemico nei suoi confronti.Ben diverso è il caso delle testimonianze offerteci dai

diari e dalla corrispondenza. Già il solo fatto che il primoconflitto mondiale ci restituisca un numero elevato diregistrazioni di esperienze scritte in prima persona dasoldati semplici è di per sé significativo. I combattenti,arruolati tra il 1914 e il 1918, provenivano, infatti, in largaparte da un mondo nel quale la scrittura era prerogativadi pochi e in cui l’analfabetismo raggiungeva percentualimolto elevate. Per i soldati italiani, di estrazione preva-lentemente rurale, la guerra fu il modo per avvicinarsialla scrittura e alla lettura per mantenere un qualche con-tatto con l’ambiente di provenienza mediante la corri-spondenza, rigidamente controllata dalla censura.La scrittura rispose anche al bisogno individuale di defi-nire la propria condizione in una vicenda che si presenta,

“Io scrivo”La Settimana Italiana dedicata allaLettura e alla Scrittura si è conclusacon la XVII Festa del Libro organiz-zata dall’istituto comprensivo “An-naMolinaro” di Montefiascone. Trale attività allestite, collegate al pro-gramma regionale “IO SCRIVO”, è

stata presentata anche una iniziativagiornalistica in collaborazione con la Loggetta.Il progetto ha sviluppato dodici ore teoriche, inseritenelle lezioni di italiano delle terze classi medie, coin-volgendo oltre 80 alunni che hanno realizzato, per laparte pratica, elaborati giornalistici riguardanti la gran-de guerra. Per far ciò è stata utilizzata una raccolta digiornali locali dell’epoca: documenti originali chehanno offerto ai ragazzi la possibilità di un approccioai metodi della ricerca storica. Gli incontri sono staticosì strutturati: 1° spiegazione e conoscenza praticadei documenti utilizzati; 2° relazione con esempi dellepossibilità di acquisire e impiegare le informazioni; 3°scelta da parte degli studenti di un argomento da trat-tare e approfondire da utilizzare come spunto per unbreve articolo.Il progetto didattico è terminato, dopo la parte teoricaprotratta da gennaio a marzo, con la realizzazione dilavori redatti dai ragazzi, che si sono cimentati nellaprofessione di giornalista, scrivendo alcuni articoli sul-l’argomento trattato. Ne proponiamo due elaboratidalle classi del prof. Simone Colonnelli.

Il sonetto “La Patria”,composto da un soldatomontefiasconese(classe III A)

Artiglieria da montagna sul Monte Nero(foto del sergente Giulio Compagnoni)

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anche agli occhi dei più semplici, come una svolta di por-tata mondiale. Da qui il fiorire della diaristica (ma anchedella poesia), la quale, in quanto scrittura intima, dovreb-be essere più libera dalle preoccupazioni per la censura.In realtà, anche in questo tipo di scritti affiora il timore diandare oltre i limiti; una sorta di autocensura impediscedi esporre con realismo fatti cui si è partecipato o assisti-to e ciò per non cadere nello sconforto e nell’angoscia. Siscrive nei momenti di riposo, si scrive nell’immediatezzadell’avvenimento, si scrive in prossimità del campo dibattaglia cosparso di cadaveri di compagni e nemici dila-niati e non ancora raccolti, si scrive mentre continuano itiri di artiglieria. La stanchezza delle notti trascorsesenza dormire esaspera la percezione dell’orrore. Si scri-ve mentre si aspetta il rancio che non sempre arriva, per-ché i pochi chilometri che separano le retrovie dal frontesono esposte al nemico.Il 12 giugno 1915, pochi giorni dopo l’entrata in guerradell’Italia, L’Eco della Diocesi pubblicò una poesia di uncombattente montefiasconese. Il sonetto, intitolato LaPatria, risente del clima patriottico che caratterizzò il‘maggio radioso’:

La mia Patria mi ha dato il signoreMio pensiero, mia fede ed amore:Per me terra più cara non v’è;

Il mio senno, il mio braccio è per te

Bella e grande il mio cuore ti vuoleMadre altera d’indomita prole.Sei la terra ove sudo il mio pan.I miei padri deposti qui stan

Forte in pace sii Tu, forte in guerra;Dio ti vegli, o materna mia terra,Benedetto chi il nome ti dié,Benedetto chi muore per te.

La Grande Guerra fu il primo conflitto tecnologico dellastoria e non tardò a manifestare il suo volto terrificante.Molti soldati, partiti con l’illusione di combattere unaguerra giusta ed eroica, dovettero ben presto fare i conticon la terribile realtà bellica. Non furono pochi coloroche partirono volontari salvo poi cambiare atteggiamen-to dinanzi agli orrori della guerra. Si pensi a Erich MariaRemarque, che raccontò la propria esperienza in Nientedi nuovo sul fronte occidentale, e al ‘nostro’ GiuseppeUngaretti, che fu interventista, ma, di fronte alla morte ealla distruzione, cambiò le proprie posizioni mostrando,attraverso le sue liriche, gli aspetti più tragici del conflit-to e le sue terribili conseguenze. Per il poeta la guerrasignifica solitudine atroce, freddo, fame, morte, ma trovala forza di reagire riscoprendo la propria dignità interio-re ed il senso di partecipazione al destino comune del-l’umanità. Scrive dunque una sorta di “diario di guerra” inversi (molte liriche portano l'indicazione del luogo e delladata) in cui, accanto ad immagini drammatiche di mortee di desolata attesa della fine, trovano posto momenti diintensa solidarietà tra gli esseri umani.

Della prigionia dei soldati italiani non si trova quasitraccia nelle pubblicazioni militari, poco o nulla inletteratura o testi scolastici. Quand’anche se neaccennasse, il numero e le condizioni di quanti

morirono in prigionia si conoscono in modo frammentario.Solo recentemente ha rivisto la luce il saggio di GiovannaProcacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra(Ed. Bollati Boringhieri Torino, 2000). Una delle questioniprincipali durante la grande guerra fu il trattamento dei pri-gionieri di guerra. In teoria, i loro diritti dovevano esseregarantiti dalla Seconda Convenzione dell’Aja, un accordoentrato in vigore poco prima del 1914 e firmato da 44 Stati.Nella pratica, tuttavia, le cose andarono diversamente. Neldocumento, ad esempio, venne deciso come i prigionieridovessero ricevere la stessa razione di cibo di quella desti-nata ai soldati dell’esercito che li aveva catturati. Ma, ovvia-mente, le contingenze del momento non poterono garanti-re questo diritto: col passare del tempo i prigionieri aumen-tavano e, parallelamente, le risorse diminuivano. Coloroche furono catturati perciò ebbero un trattamento peggio-re rispetto a quanto era stato deciso pochi anni prima. Perquanto riguarda gli italiani, è stato calcolato che i soldaticatturati tra il 1915 e il 1918 furono circa 600mila, la metàdei quali presi nei giorni della dodicesima battaglia del-l’Isonzo. La maggior parte venne internata a Mauthausen(località tristemente famosa anche durante la secondaguerra mondiale), a Theresienstadt (Boemia), a Rastatt

Prigionieri irredentiin RussiaLa testimonianza de L’Eco della Diocesi(classe III B)

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(Germania meridionale) ed a Celle, nei pressi di Hannover.Sarebbe errato pensare che tutti i prigionieri furono il frut-to di azioni militari. Molti, in realtà, si lasciarono catturare,fuggendo dalla prima linea e presentandosi nei pressi dellepostazioni nemiche. Si trattava di una scelta disperata, madettata dalla speranza di trovare, nei campi di prigionia,delle condizioni migliori rispetto a quelle drammatichedella trincea. Ma la detenzione fu un’esperienza altrettantotragica. La mancanza di riscaldamento nelle baracche e divestiti pesanti rendeva insopportabile il freddo pungente,mentre il rancio era scarso e scadente. Data la grandissimapenuria di farina all’interno dell’impero, spesso questaveniva mischiata con della polvere derivata dalla macina-zione delle ghiande o della paglia mentre al posto dellapasta veniva loro distribuita una sorta di zuppa di patate ecavolo. Circa 100.000 italiani catturati dagli austro-ungaricie dai tedeschi non fecero più ritorno dalle loro famiglie. Glistenti, la fame, il freddo e le malattie (prima fra tutte latubercolosi) furono le principali cause di morte. Altri inve-ce, convinti interventisti e patrioti, soffrirono molto di piùper l’impossibilità di agire che per la fame. Carlo EmilioGadda, catturato nei pressi di Caporetto il 25 ottobre 1917,ha lasciato una preziosa testimonianza di questo durissimoperiodo. Rinchiuso nel lager di Celle, scrisse: “Soffro sì perla famiglia, per la patria, specie nei gravi momenti: alloraanzi l’angoscia mi prende alla strozza. Ma il dolor bestiale, ilmacigno che devo reggere più grave, la rabbia porca, è quel-la, che già dissi: è il mancare all’azione, è l’essere immobilementre gli altri combattono, è il non potermi più gettare nelpericolo”.

Nell’autunno del 1917 L’Eco della Diocesi, periodico cattoli-co di Montefiascone, dedicò un articolo ai prigionieri italia-ni internati in Russia. Si trattava dei cosiddetti ‘soldati irre-denti’, combattenti di lingua italiana nelle file dell’esercito

austro-ungarico. La storia dei soldati trentini in Russia rap-presenta un’esperienza del tutto straordinaria all’internodello svolgimento complessivo della grande guerra.L’ordine di arruolamento generale in Trentino arrivò imme-diatamente dopo l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Au-stria contro la Serbia. La leva di massa interessò gli uominitra i 21 e i 42 anni, per cui i reclutati trentini di quei primimesi furono circa 40mila, pari all’11 per cento della popola-zione. Altri 20mila trentini furono arruolati dopo l’ingressoin guerra dell’Italia. La maggior parte dei primi arruolativenne inviata sul fronte orientale soprattutto nella Galizia,dove i russi avevano scatenato una rabbiosa offensiva.L’Eco, che si assestò su posizioni pacifiste prima e durantela guerra, dedicò spazio alla sorte dei soldati trentini depor-tati in Russia. Nell’articolo del 7 ottobre 1917, si legge:“Rimangono ancora in Russia circa 26mila prigionieri dinazionalità italiana. Il nostro governo ha fatto di tutto perottenere la più sollecita liberazione e il loro rimpatrio”.Anche la Serbia, fin dal principio della guerra, aveva man-dato a Kiev un proprio ufficiale, incaricato di scegliere i sol-dati di nazionalità serba per ottenere l’immediata liberazio-ne: “Per molto tempo avvenne che parecchi irredenti, peressere anche essi liberi, si dichiararono serbi. Il nostro gover-no provvide mandando anch’esso un proprio ufficiale a Kieve i primi scaglioni di prigionieri sono già arrivati in Italia,accolti dagli applausi dei loro connazionali”.I prigionieri di guerra austriaci delle province di confine -nei documenti ufficiali italiani definiti “prigionieri irredenti”- che desideravano essere condotti in Italia furono raccoltia Kirsanov, luogo che il governo russo aveva destinato loro.Quella cittadina divenne ‘un’oasi di italianità’ nel cuoredella Russia. A Kirsanov le migliaia di prigionieri furonoripartiti in diversi fabbricati (cinema, scuola, fabbriche,ecc.) distribuiti nella città, ospitati in enormi stanzoni dota-ti di tavolati a due piani. Avevano in comune la cucina gesti-ta dai militari russi di quel distretto. Gli ufficiali irredentierano riuniti in una casa privata con cucina e letti propri, eun salario mensile assegnatogli dal governo russo. Il servi-zio sanitario era curato dai medici irredenti che vi avevanoallestito un’infermeria. I casi più gravi erano trattati pressol’ospedalemilitare russo. La posta funzionava. La responsa-bilità dell’acquartieramento era del comandante del reggi-mento di cavalleria russo di stanza nella cittadina, cheaveva dislocato dei picchetti di guardia a ogni caserma. Chiera in possesso di abilità richieste in città, aveva la possibi-lità di lavorare fuori. A Kirsanov, per rendere meno malin-conici e inutili i giorni della prolungata e sofferta attesadella partenza, si organizzò spontaneamente una vita socia-le favorita da quella fervida tradizione associativa che neicentri più grossi del Trentino e nei piccoli villaggi avevafatto nascere gruppi corali, corpi musicali, filodrammati-che, iniziative culturali ed economiche di vario genere. Purin tempo di guerra e con la povertà dei mezzi, si formarono,in quel luogo di raccolta di prigionieri, un coro eun’orchestrina, si diede origine a un giornaletto settimana-le (“La nostra Fede”, che uscì da febbraio a giugno 1916.) ea un quotidiano chiamato “Bollettino di guerra”, a concertie conferenze, a manifestazioni di spirito irredentistico. Nel1916 fu eretto un monumento in memoria degli Italiani irre-denti morti, si legge nell’epigrafe, “nell’attesa di rivedere laPatria libera dallo straniero”.

Camminamento da Ronchi a Vermegliano (fronte dell’Isonzo)(foto del sergente Giulio Compagnoni)

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Si calcola che nellaprima guerra mon-diale solo l’Italiaabbia avuto

1.240.000 vittime tra mili-tari e civili. Si può direperciò che non ci fu città,paese e villaggio che nondovesse piangere i suoicaduti. Ma questa tristis-sima regola ha una stra-ordinaria eccezione: ilpaese di Castellottieri nelComune di Sorano. Tra isoldati di questo paese,nell’arco di tutti i quattrolunghi anni di guerra, non

si ebbero morti! Comeaccadde un fatto cosìstraordinario, che costi-tuisce una felice eccezio-ne in Maremma, ma casoraro (se non unico)anche in tutta l’Italia? Larisposta in fondo è sem-plice: tutti i giovani chepartivano per la guerra (edi conseguenza tutto ilpaese, perché ogni fami-glia aveva figli, nipoti,parenti che andavano al

fronte) si affidarono allaMadonna.

A Castellottieri ab imme-morabili esiste una vene-razione profonda perMaria Santissima, la cuistatua è conservata inuna cappella, a destradell’altar maggiore dellabella chiesa cinquecente-sca, tutta decorata da pit-ture con episodi dellavita della Madonna: Nasci-

ta di Maria, Visita a S. Eli-sabetta, Natività, MariaSantissima in gloria con laTrinità.Localmente la festa dellaMadonna, che nel sentiredei castellesi supera dimolto il patrono S. Barto-lomeo, si celebrava tradi-zionalmente il 1° giugno(ora la prima domenica digiugno) con una solenneprocessione, che si snodasecondo un preciso per-corso per tutto il paesefino al limitare della cam-pagna ed è abbellita dal-l’infiorata. La forte devo-zione ha dato ancheluogo a pie leggende, chesi affiancano a racconti difatti straordinari realmen-te accaduti.Allo scoppio della grandeguerra i giovani di Castel-lottieri che partivanocome soldati, andavanodavanti alla Madonnaaccompagnati da mamme,babbi, fidanzate, spose efamiliari, a pregare fervo-rosamente perché Mariaconcedesse loro la graziadi poter ritornare sani esalvi; prima di uscire dallachiesa, lasciavano sull’al-tare, ai piedi della Madon-na, una strisciolina dicarta con il loro nome eun’invocazione; quei

Castellottieri si affida alla Madonnae tutti tornano vivi dalla guerraIl caso eccezionale, forse unico, di un paese che non ebbe morti in guerranon solo nel primo, ma neanche nel secondo immane conflitto mondiale

Angelo Biondi

Sconfiniamo un po’ dal nostro abituale “bacino d’utenza” per riportare questa singola-re testimonianza che in ogni caso riguarda un piccolo centro subito di là dal confinetosco-laziale. Castellottieri è infatti una frazione del comune di Sorano, che perl’appunto confina con quattro comuni della Tuscia: Acquapendente, Proceno, Onano eLatera. E la preziosa collaborazione dell’autore Angelo Biondi, ben noto e affermatostudioso di Pitigliano, è un validissimo contributo alla conoscenza di quella cultura diconfine che, pur nelle diverse sedimentazioni regionali, non può non rivelare recipro-che “contaminazioni” e denominatori comuni. La guerra, d’altra parte, azzerò ogni dif-ferenza sottoponendo uomini di ogni paese e regione ad una identica tragica prova.

La Madonna di Castellottieri nella sua cappella all’interno della chiesa parrocchiale, e (nell’altra pagina) la stessa por-tata in processione la prima domenica di giugno

Sorano

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foglietti dovevano rimane-re sull’altare della Madon-na fino al loro ritorno enessuno doveva toccarli.Nonostante i rischi e igrandi pericoli corsi suivari fronti, in effetti allafine della guerra nel 1918tutti i castellesi partiti peril fronte ritornarono acasa, accolti con grandegiubilo dalle famiglie edalla intera popolazione,che non mancò di ringra-ziare la Madonna. Tutticoloro che ritornavano,appena raggiunto il paese,andavano a ritirare il pro-

prio foglietto sull’altare ea ringraziare la VergineMaria prima ancora diandare a casa.Gli ex soldati castellesiusavano celebrare glianniversari principalidella grande guerra, acominciare dal 24 maggio(entrata in guerra dell’Ita-lia) e del 4 novembre(anniversario della vitto-ria), ma sopra ogni cosastava la loro Festa dellaMadonna del 1° giugno,come testimoniavano Aldi-sio Severini e CelestinoSestigiani, gli ultimi reduci

ancora viventi fino apochi anni fa.

Qualcuno potrebbe pensa-re che la salvezza di tutti isoldati castellesi fu uncaso, per quanto eccezio-nale e straordinario. Ilfatto è che nella secondaguerra mondiale il feno-meno si ripeté di nuovo!Ancora una volta i giovanichiamati alle armi, primadi partire, si recaronoall’altare della Madonna,accompagnati dai familia-ri, pregando e lasciando laloro strisciolina di carta.Ancora una volta affronta-rono pericoli di ogni gene-re in tanti luoghi dove sitrovarono ad operare inguerra e poi dopo lo sban-damento dell’8 settembre1943; alcuni di loro nonavevano mandato più noti-zie alle famiglie, che nonsapevano più dove si tro-vavano e se erano ancorain vita. Ma alla fine dellaguerra i militari castellesi,un po’ alla volta, comin-ciarono a ritornare allaspicciolata, anche quellidi cui non si aveva avutopiù niente. Meno uno:Lino Cappelletti.La famiglia e l’interopaese erano in forteapprensione; si avvicinavala festa della Madonna e sicominciava a disperare diveder tornare Lino,l’ultimo militare ancoramancante. Ma proprio il 1°giugno, quando tutto ilpaese era in chiesa e siapprestava a celebrare lafesta con la santa messa ela processione, ecco chesi presenta Lino Cappellet-ti, che va a ritirare il suofoglietto, l’ultimo rimastosull’altare, e a prostrarsidi fronte alla Madonna.Allora ci fu grande com-mozione ed esultanza tra icompaesani, tutti parteci-parono di cuore alla gioiadella famiglia di Lino, la

santa messa fu celebratacon grande solennità e lafesta riuscì ancora più fer-vorosa degli anni passati.

Il Comune di Sorano haavuto nella prima guerramondiale 258 caduti, aiquali fu dedicato nel 1923il Parco della Rimembran-za, con aiuole dedicateciascuna al capoluogo ealle numerose frazioni delComune; una sola manca:quella di Castellottieri. Intutti i paesi sono statieretti monumenti ai Cadu-ti o sono state appostealmeno lapidi a ricordo,con i nomi dei caduti inguerra. Invece nella chiesadi Castellottieri, ai piedidell’altare della Madonnanella cappella a destradell’altar maggiore, lemadri dei soldati castelle-si vollero inserire unalapide di ben altro tenore,in cui si può leggere:

A LODE E RINGRAZIAMENTO

A LA GRAN MADRE CELESTE

MARIA SS.CHE NELLE GUERRE

1915-18 E 1940-45CON GRAZIA SPECIALE PROTESSE

TUTTI I SOLDATI DI QUESTO

PAESE

LE MAMME

A cento anni dall’entratain guerra dell’Italia, intanti luoghi d’Italia ilricordo va ai molti Caduti;a Castellottieri invece ilricordo va a tutti quelliche ritornarono, con unmoto spontaneo di ricono-scenza e di ringraziamen-to alla Madonna.Il caso castellese è ecce-zionale (e forse unico), maanche esemplare di quellaprofonda fede religiosache sempre ha sostenutole nostre popolazioni con-tadine nelle difficoltà enelle tribolazioni, special-mente in tempo di guerra.

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Mio nonno Giuseppe Gratta-rola, nato a Vignanello il 25marzo 1899, è, come si puòevincere dalla data, uno

dei “ragazzi del ‘99”, uno dei tanti man-dati in guerra senza, probabilmente,sapere nemmeno il perché.Quest’uomo, alto, magro, sobrio, erasempre pronto allo scherzo. Di lui, chequando nacqui aveva 58 anni, ho deiricordi bellissimi, perché rimasi perqualche anno il suo unico nipote evissi con lui per quasi sei anni. Conmeera di una gentilezza squisita; fu il miopadrino di comunione e cresima, pas-savo con lui giorni piacevolissimi allafine della scuola, e tutti gli anni faceva-mo insieme una gita di un giorno aiCastelli, percorrendo a piedi il perime-tro del lago di Albano e finendo inevi-tabilmente in trattoria a mangiare fet-

tuccine e bistecca. (Fettuccine giallecome quelle non lo ho trovate più).Ma andiamo al dunque, prima di farcitrascinare dai ricordi. Quando ebbiuna età in cui si comincia a capirequalcosa di più, mi resi conto che miononno parlava con qualche difficoltà;niente di eclatante, ma si vedeva (omeglio si sentiva) che ogni tanto la

parlata zoppicava. E poi, su quel visoche un po’ somigliava alla maschera diEduardo de Filippo, con due baffettialla Hitler, si apriva una bocca doveerano rimasti ben pochi denti e la lin-gua mancava di un pezzo.Un giorno mi raccontò la storia diquello che lui si ricordava del momen-to in cui quella mutilazione avvenne.Come si può vedere dal suo foglio dicongedo - che fra l’altro è un piccolocapolavoro di grafica liberty - mio

nonno venne inquadrato il 15 maggio1917 (aveva appena compiuto 18anni!) nel 69° reggimento fanteria, chefaceva parte della brigata Ancona,dove venivano convogliati i militarilevati nel distretto di Orvieto, cheincludeva anche Viterbo. Non so se

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Vignanello“Noi” e la Grande Guerra III parte

MaurizioGrattarola

Un (quasi) miracoloal fronte

Giuseppe Grattarola, uno dei “ragazzi del ‘99”

L’autore con il nonnonella foto della

prima comunione

Foglio di congedo di Giuseppe Grattarola

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La prima notizia ufficiale giunta ad Acquapen-dente dell’entrata in guerra dell’Italia fu que-sto telegramma, inviato dal prefetto di Romaal sindaco e ricevuto il 22 maggio 1915:

Sua Maestà il Re ha decretata la mobilitazione generale del-l’esercito e della marina e la requisizione dei quadrupedi edei veicoli. Primo giorno di mobilitazione ventitre corrente

mese. Accusi ricevuta ripetendo integralmente testo telegramma. Prefetto Aphel

Nello stesso giorno fu convocato un consiglio comunale che venne aperto dalsindaco Vittorio Cozza con la seguente premessa:

Signori consiglieri, sono certo di interpretare il sentimento unanime di voi tutti col pre-gare che da parte di questo Comune venga inviato un caldo saluto ai nostri concittadi-ni, ufficiali e soldati, non che a tutti i nostri fratelli d’Italia chiamati in questo gravemomento politico alla tutela dell’onore e della grandezza della nostra amata Patria.V’invito a gridare con me Viva l’Italia

Due giorni dopo (24 maggio 1915) iniziarono i combattimenti contro le truppeaustro-ungariche.

Lo scoppio improvviso della prima guerra mondiale suscitò nell’intero paesele emozioni più svariate: sorpresa, incredulità, disperazione, ma anche spiri-to patriottico fino a quei momenti sconosciuto. Ma quello che sembrò il piùimpensato e difficile fu quello di dover abbandonare le proprie case per luo-ghi lontani e sconosciuti. Specialmente nei piccoli centri e nelle campagnequesta improvvisa partenza (per la maggioranza dei giovani era la primavolta) fu un fatto traumatico, e per chi rimaneva a casa procurò enormi pro-blemi soprattutto per i lavori agricoli.Il primo problema fu quello delle comunicazioni, e i soldati (in grandissimaparte analfabeti) impararono a leggere e scrivere aiutati dai commilitoni piùistruiti, dai cappellani o nelle “case del soldato”.

All’interno della comunità aquesiana, invece, nacquero subito vari comitati eassociazioni per risolvere le esigenze nate dal conflitto ed assistere o quantomeno alleviare i disagi dei concittadini militari e le loro famiglie in loco.L’impulso fu dato dalla visita del sottoprefetto di Viterbo, che fu accolto dal-l’intero consiglio comunale, dal pretore e dai rappresentanti comunali deipaesi del mandamento, oltre che dal vescovo e dai dirigenti al massimo livel-lo dei vari enti funzionanti in Acquapendente quali l’ospedale, l’asilo infantile,le parrocchie e le scuole. Per la creazione di comitati a sostegno dei soldati inguerra e delle loro famiglie si mobilitarono anche i vari circoli: la Croce Bian-ca, la Società del Tiro a segno, il Circolo democratico. Fu subito una realtà il“Comitato di resistenza interna” che doveva infondere la calma e la fiducia trala popolazione, vigilare sulle persone che agivano a scopo disfattista, starevicino agli orfani e alle famiglie dei caduti. A cura dello stesso Comitato nac-que la scuola per la confezione delle scarpe e il comitato mandamentale perla ricerca della carta. In entrambi i casi il concorso della popolazione fu enor-me: in soli cinque mesi si raccolsero oltre 34 quintali di carta, senza toccarelibri ed edizioni di importanza storica locale come esortato e raccomandato achiare note più volte dagli organizzatori.Ma quello che fu più a contatto con i militari al fronte, e sicuramente il piùapprezzato, fu il “Comitato femminile di organizzazione civile”. Specialmentecon l’approssimarsi dei rigori invernali, una schiera di donne si dedicò con

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Acquapendente

“Qua fa molto freddo...È più di un mese chenevica continuamente...”

Giovanni Riccini

mio nonno venisse messo immediata-mente in linea, ma la brigata Anconaviene coinvolta nell’ottobre del 1917nella rotta della II armata italiana, ed ècostretta a ripiegare attraversando ilTagliamento raggiungendo Padova eArsego. Il 5 novembre 1917, il fanteGiuseppe Grattarola viene trasferito al40° reggimento della brigata Bologna,coinvolta nella decima battaglia del-l’Isonzo da cui era uscita con solo 800superstiti. La brigata rimane a riposofino a gennaio 1918, poi entra di nuovoin linea nel settore del Monte Grappa,e successivamente sul Montello, doveviene sorpresa dall’offensiva nemicain un settore considerato secondarioed è costretta a retrocedere.In uno di questi giorni tremendi, miononno stava dormendo in un piccoloalloggiamento sulla linea del fronte,quando in sogno gli apparve San Bia-gio, il patrono di Vignanello, a cui eraparticolarmente devoto, che gli sugge-rì di uscire immediatamente dall’allog-giamento. Ancora intontito, miononno obbedì a quel consiglio, cer-cando senza successo di svegliareanche i compagni prostrati dalla fati-ca. Fu grazie a quella visione chescampò ad una morte orrenda; pochisecondi dopo, un colpo di mortaiocentrava in pieno l’alloggiamento,uccidendo tutti coloro che dormiva-no. Mio nonno fu colpito da una scheg-gia che gli attraversò il viso, strappan-dogli via una parte di lingua e quasitutti i denti.Non era finita lì: raccolto dai portaferi-ti, il fante Giuseppe Grattarola vieneportato in un ospedale da campo, inmezzo a mille altri in condizioni similio peggiori delle sue. Erano tempi duri,e molti soldati si procuravano da soliferite non gravi cercando di sfuggirealla carneficina. Mio nonno aveva unaferita considerata non grave e vennequindi sottoposto a vari interrogatori;per quei soldati che si autoinfliggeva-no ferite, era prevista la fucilazione.E qui avvenne un secondo miracolo;uno dei medici era un compaesano, undottore di Vignanello, che garantì permio nonno, che alla fine riuscì a scam-pare per ben due volte ad una morteorrenda e a permettere a me di nasce-re.

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slancio alla confezione di indumenti di lana e altri oggettidi corredo personali da inviare con pacchi al fronte. Sipuò leggere, infatti, sulla cronaca del “Corriere di Acqua-pendente” del 10 ottobre 1917, ospitata da “Il Messagge-ro”, come sia “cosa veramente ammirevole vedere di seraed anche nei giorni festivi, il salotto di Casa Piccioni affol-lato di signore e signorine intente al lavoro, che riusciràtanto utile e gradito specialmente nel prossimo inverno ainostri soldati. Lo stesso articolo giudicava altrettanto lode-vole l’opera che, fin dall’inizio della guerra, prestano lesignorine per l’ufficio di corrispondenza e di informazionipei militari e per le loro famiglie”.Anche lo Stato si mobilitò con il servizio postale più efficien-te possibile mediante la distribuzione di cartoline gratis e laconcessione di franchigie per i militari inmodo da favorire loscambio di corrispondenza con i familiari a casa. Della corri-spondenza tra i militari e il Comitato femminile si hannonumerose testimonianze con le cartoline in franchigia:

Zona di guerra 2-10-915Con molto piacere ho ricevuto il pacco da me tanto gradito del suopensiero che loro anno auto verso di me, che io mi trovo qua inmezzo per difendere la nostra cara e bella patria, ma gli promettoche mi son ben vendicarmi verso quei brutti nemici; altro non le hoda dirli tanti saluti alla sua cara famiglia e tutto il comitato dellesignorine dal soldato Lanari Arturo.

(LANARI ARTURO, 6a Batteria d’assedio 12° corp.d’armata)

Allo spettabile Comitato Organizzazione Civile, Acquapendente,Prov. di RomaTorre di Qui.. 31-12-915Dalla zona di guerra ove tutti i cuori palpitano all’unisono per la

gloria e grandezza d’Italia e pel trionfo della civiltà contro la bar-barie teutonica, invio a codesto benemerito Comitato, e in speciea quel simpatico stuolo di Signore e Signorine, che quali splendidegemme d’Italia ne fanno corona, i miei vivi ringraziamenti e salu-ti rispettosi, ben augurando ai destini della Patria. Viva l’Italia!Devotissimo Patacca Giuseppe

(PATACCA GIUSEPPE, 206° battaglione m.te.le, 3a compagnia,distaccamento di Torre Quind, Zona di guerra)

Alla Preggi.ma Signorina Maria Piccioni Cont.na, Acquapendente(28-9-15) Preggiatissima SignorinaNon sapendo, in altro modo, contracambiare al suo regalo, vengocon questa semplice cartolina. E fare mille ringraziamenti a leicompreso tutto il comitato, poiché ne avevo molto bisogno che quafa molto freddo. La mia salute è ottima, così spero che sii di lei etutti. Di nuovo ringrazziandola mi dico suo devotissimo MoschinoBenignoP.s. Perdonerà se ho tardato non sapevo a chi indirizzarla. Vival’Italia

(Caporal Maggiore MOSCHINO BENIGNO, 1° reggimentoartiglieria da campagna, 5a batteria, Zona di guerra)

Al Gentilissimo Comitato Civile, Acquapendente, Prov. di Roma18-12-16Gentilissime Signori, Non ho parole di poterle ringraziare del donoche mi hanno mandato per ripararmi dal freddo. È più di un meseche nevica continuamente, ma noi si facciamo sempre coraggio esperiamo di potere rivare alla fine e un giorno avere una pace vit-toriosa per il bene di noi e i nostri figli. La mia salute è ottimacome voglio sperare di voi tutti. Le auguro buone feste e i più sin-ceri saluti dalle vette del trentino dal soldato Tromboni Giacomo.

(TROMBONI GIACOMO, Ufficio approvvigionamento legname,Comando Genio, 20° Corpo d’armata, Zona di guerra)

Cartolina Arturo Lanari

Cartolina Giacomo Tromboni

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Molte informazioni dal fronte vengono inviate ai familiariscritte su retro di fotografie:

Bazzoli Piero, 1.10.15Oggi parto per il fronte da la ti farò sapere le impressioni che siprovano. Ti ringrazio della fotografia e di più di S. Antonio che loconserverò scrupolosamente come tu mi raccomandi fare. Andia-mo sul basso Isonzo poi ti manderò la direzione quando sarò arri-vato. Il viaggio sarà lungo per via che andiamo a Pordenone aprendere gli apparecchi [aereoplani].Mi ha scritto la mamma e stanno tutti bene, io pure non mi possolamentare come spero sia anche di te. Adesso per mezzo dei signo-ri di Acquapendente mi manderanno qualche cosa di lana che misara necessaria. Una famiglia di Valona mi ha regalato un belpassa montagne. Per ora ricevi infiniti saluti e un forte abbracciotu affezionatissimo fratello Piero.

Stefano Creti [maestro di scuola]Ricordando questa [foto] un qualche cosa della vita di guerra. Èfatta avanti alla capanna che mi son fatto costruire con rami fre-schi per sfuggire al caldo della soffitta. Qui lavoro quando nonsono al reggimento. Anche qui vedi Piccola, si starebbe bene insie-me. Ti penso sai, qui nella capanna durante il lavoro. Quantisogni, Piccola, ti bacio forte. Stefano tuo. Luglio di guerra 14.7.917.

Oppure con lettere più sgrammaticate scritte durante lelunghe ore passate in trincea con le quali si cerca soprat-tutto di tranquillizzare i propri familiari a casa o dare pur-troppo, tristi notizie su soldati feriti, prigionieri o disper-si:

Modena 12 dicembre 1916Carissima consorte con molto piacere rispondo alla tua cara lette-ra dove godo nel sentire che di salute stai bene eccosi ti poi assi-curare che segue di me stesso ora sono molto dispiacente nel sen-tire che nonai ricevuto la prima lettera che tio mandato e piu tiprego che tu ti faccia sempre coraggio che io to sempre in pensie-ro dite dal giorno che tio lasciato cosi tanto dolente carissima con-sorte […] ci vuole sempre coraggio perestare piu tranquilli eiltempo passa prima per che il destino la vuole cosi di tenerci cosidiseparati e lontani luno dallaltro questi due poveri cuori sconso-lati masperiamo che la vergine beata che faccia la grazzia di riu-nirsi presto assieme e allora di stare tranquilli e uniti e speriamoche presto viene quel giorno che presto si desidera tutti che vengapresto e diritornare tutti imbraccio alle sue famiglie e ti prego caris-sima consorte che appena che ricevi questa mia lettera di rispon-dere presto e farmi sapere le tue buone notizzie e anche linteressidi casa come vanno che io faro lostesso di farti sapere i miei maora prima di riscrivere aspetta che ti risponda io per che non sonocerto ti partire e poi ti mandero il nuovo indirizzo io sono statoaffortunato di venire a licenza per che quando sono tornato allamia compagnia non cio trovato piu nessino dei miei compagni tiprego carissima consorte che tu tienga sempre in conto dellaMamma ora nonmi resta altro da dirvi ti invi i piu affettuosi salutie baci di vero cuore atte uniti insieme colla Mamma e tanti salutianche al mio fratello e tutti in famiglia e i più distinti sono i tuoicuna stretta di mano e sono sempre il tuo aff.mo consorte MaggiGiuseppe addio […] che fate di buone feste tutti uniti in famiglia epiu un buon Natale tutti dacordo ben che io sia ito arraggiungere ilmio Reggimento spero di farlo buono anchio tanti saluti e baci apresto in buona salute addio e Buon Natale a tutti. Giuseppe Magi

Da una lettera inviata al sindaco di Acquapendente dalcappellano maggiore don Alfredo Del Vecchio avente peroggetto: Comunicazione notizie del sold. Panicali Felicedel 137° fanteria 6a compagnia:

Ill.mo Sig. Sindaco, compio io, quantunque non richiesto, il doloro-so incarico di comunicare alla S.V. Ill.ma notizie del Sold. Panica-li Felice… nostro concittadino. Si presentò a me il 16 Agosto, aven-do saputo essere io Te.te Capp. M.re del Regg. Fratello al 137 dellaBrigata Barletta. Questa prese parte attivissima nell’offensiva dal19 al 23. Avuto il cambio mi feci subito premura di conoscere lasorte del Panicali, augurandomi di saperlo sano e salvo. Invecenon si trovò in compagnia risultando =Disperso=. Continuerò anco-ra nelle ricerche, ma incomincio a disperare di venire a capo diqualche buona notizia, attesoché manca dal 21 agosto. Unica spe-ranza che ferito fosse stato trasportato sfuggendo, per la confusio-ne e l’intenso lavoro dei posti di medicazione, all’incaricato per laregistrazione, o che sia stato preso prigioniero. Nel qual non tarde-rà a dar notizie di sé, atteso l’esatto funzionamento della corri-spondenza dei prigionieri. Pregando la S.V. ill.ma informare inquesto senso la famiglia del sudd. Panicali Felice (il padre mi disseessergli morto in primavera del 1917) assicurandola che intensifi-cherò le ricerche nella speranza di poter comunicare migliori noti-zie. Con distinti ossequi… Don Alfredo Del Vecchio.

(continua nel prossimo numero)

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I testi sono tratti in gran parte dal volume “Ricordi di guerra. Acqua-pendente negli anni della Grande Guerra” a cura di Marcello Rossi /Acquapendente, Biblioteca Comunale - Archivio Storico, 2014

Piero Bazzoli

Stefano Creti

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Una curiosa testimonianzal’abbiamo raccolta a com-mento di un Caduto di cuinon siamo riusciti a reperire

neppure una fotografia, il ventunenneGiacinto Burlini, che era nato a Piansa-no nel 1897 e si disperse il 4 ottobre1918 durante un combattimento sulGrappa (morte presunta determinatadal tribunale di Viterbo con sentenzadel 20 settembre 1999).Di poco superiore al metro e mezzo distatura e piuttosto minuto di corpora-tura, ma sano e di buon colorito, Gia-cinto aveva imparato a leggere e scri-vere ed era stato chiamato alle armi avent’anni nel giugno del ‘17, alla vigiliadi Caporetto. Fece giusto in tempo afare un po’ di addestramento nell’84°fanteria e a novembre fu spedito alfronte col 120° reggimento. Poi loassegnarono al 32° fanteria di marcia equindi al 119°, che con il 120° costitui-va la brigata Emilia. Impiegata sulfronte dell’Isonzo fin dall’inizio dellaguerra, questa unità fu precipitosa-mente fatta ripiegare sul massiccio delGrappa dopo Caporetto. Comandatadi occupare alcune posizioni sullalinea delle malghe, riuscì a strappareal nemico la malga Val dei Pez, ma il 4ottobre 1918 un violento contrattaccoaustriaco riconquistò il caposaldo. Efu in quella circostanza che di Giacin-to si persero le tracce: proprio sul fini-

re della guerra, un venerdì che da noiera quello della festa della Madonnadel Rosario.Neppure lui, dunque, aveva avutomodo di spedire a casa la fotografia indivisa da fante, primo e unico ritrattodi questi contadini soldati. Su quaran-tasette Caduti del nostro paese, sedicinon ci hanno lasciato una foto: uno sutre. A volte si tratta di persone poi tra-sferite o decedute senza figli; di fami-glie anche numerose sparite dalla vitadel paese per morti premature e dia-spore varie; ma più spesso, semplice-mente, la foto non avevano fatto intempo a farla o è sparita con loro. E ilnon trovare una qualsiasi immaginedei nostri morti in guerra neppure alcamposanto, che è il sacrario degliaffetti e delle memorie, li fa sentiresenza patria. Quel “ricordino” era unlegame importante. Come oggi fannole vedove con le medagliette in cera-mica, alcune donne se lo portavano alpetto legato con un filo anche quandoi loro uomini al fronte erano ancora invita. E si ricorda scherzosamente la zi’Celeste de Titta, che guardando la foto-grafia del marito soldato appesa alcollo, ogni tanto se ne usciva comerecitando: “Oh che passione!: avéccelode ciccia e baciallo de cartone!”.

Uno che invece, tornato dall’America,la guerra se l’era fatta tutta, dal 26maggio del ‘15 in poi, per morire di tifoe broncopolmonite in un ospedalettoda campo in Macedonia, addirittura,era Egidio Santimòra, piansanese dellaclasse 1890, sposato con Marianna Sil-vestri, soldato del 3° reparto salmerie

(35a divisione), morto il 17 giugno del1918 e sepolto nel cimitero cattolico diSalonicco (Il fronte macedone erastato aperto dalle potenze dell’Intesaper soccorrere la Serbia control’attacco combinato di Germania, Au-stria e Bulgaria, e a settembre del 1916era stato inviato in Macedonia ancheun corpo di spedizione italiano).

Anche se in paese ilcognome è estintoda tempo, questavolta la foto delCaduto ce l’abbia-mo. E anzi ci assicu-rano che fino a ieriha giganteggiato,dentro una grandecornice, in casa deinipoti, i figli dellasorella Rosa, cheper la morte di Egi-dio si può dire cheandò via di testa.Recandosi tutti igiorni in campagnadi mattina presto,facilmente si imbat-teva in compaesaniche erano tornatidalla guerra, sicché ogni volta cercavatra di loro il fratello. Finché una matti-na, verso la fonte del Giglio, incontròBuzzecòtto che non poté fare a menodi dirle: “O Ro’, ‘nn aspetta’ ppiù ‘Ggi-dio. Èremo ‘nsieme ‘nde ‘n campo deconcentramento ‘n Grecia e è morto‘nde le mi’ bracce. E’ morto de fame.Ciànno dato ‘na saràca, ma lue è mortoco’ la saraca ‘n bocca. ‘N je l’ha fattamanco a magnàlla...”. Ma Rosa noncapì, non volle capire, e continuò acercarlo, ogni mattina presto, tra gliuomini in transito per la strada dell’in-fidèe.Quello di Rosa non fu un caso unico. Egli “scemi di guerra”, come li chiama-vano, non ci furono soltanto tra i sol-dati traumatizzati. In forme più omeno gravi ne portarono i segniaddosso anche molti familiari rimastiad aspettarli. La moglie di Giulio Cini,quando lui era al fronte, durante lelitanie cantate in chiesa la sentivanorispondere, salmodiando l’indirizzodel marito: “Al soldà-to Ci-ni Giùglio /seconda compagnìa / zonaaa di guè-erraaa...”.

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“Oh che passione!...”AntonioMattei

Piansano

Traino di artiglieria(dal libro “Quei morti ci servono”)

Egidio Santimora (1890-1918)

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... ‘l mi’ nonno Mario, Mario del Birèllo,che durante la guerra mondiale facivaparte de ‘n reparto d’artiglieria chestava al confino n’de la zona dell’Ison-zo. M’ariccontava tutte le battagliech’iva fatto. Lue faciva ‘l mulo e portavale proiettile vecino al cannone. Èrenoanne brutte, pure si lue era gioveno,perchè era stato chiamato con quelledel ‘99 e donque c’iva a malappena die-ciott’anne. L’artiglieria spara da lonta-no e praticamente era ‘nde le retrovie,ma le bombe arrivaveno pure lì...

La fame era tanta, se sa, epperò qual-che volta je capitava con qualche amicod’anna’ a magna’ ‘nde ‘na bettola (puresi pe’ magna’ era schizzinoso e qualcheusanza del posto ‘n jannava tanto agenio). M’ariccontava presempio che‘na sera co’ ‘n commilitone agnèdero amagna’ e la patrona de la bettola jechiese che voliveno. “‘Na bistecca co’ la‘nsalata”, je fecero. Quella je chiese si levoliveno accunnita normalmente o co’lo “sbrufio”. “Boh!”. Pensònno che co’lo sbrufio fusse stato mejo e je disserolo sbrufio. La donna - ‘n’anziana - va aprepara’ e poe je se presenta co’ le por-tate, la ‘nsalata, l’oglio e l’aceto. Posa lepiatte, se mette ‘n bocca ‘n po’ d’oglio e‘n po’ d’aceto, le sciacqua pe’ mischial-le e poi le solfia a spruzzo sopra a la‘nsalata e la gira e aripete l’operazio-ne… La cena sarà pure còsta pe’ ‘l tem-po che era e ‘l poco che se trovava, ma‘l mi’ nonno m’ha sempre ditto che la

bistecca la magnònno, ma la ‘nsalatan’hanno manco tocca (commentavasempre: “Almeno fusse stata ‘na bellaregazza!”).

...Quanno che ‘l nemico sfonnò a Capo-retto, tutte le gente fuggiveno p’aripa-rasse ‘nde ‘n posto più securo. Perquanto le soldate fussero giovene,durante que la ritirata, che durò trentagiorne, la colonna, che c’iva da portas-se dietro pure le cannone e ‘na massade robba tirata pure da le cavalle, s’ivada ferma’ parecchie volte durante ‘lgiorno. E questo era ‘l momento peggio,perchè tutte quele cristiane, stracchefinite da quanto caminaveno, appenache la colonna se fermava se colcavenogiù per terra p’ariposasse ‘n po’ e lacosa più facile era che s’addormìveno,lì come se trovaveno, de fianco a la stra-da. S’addormiveno e ‘n c’era nessunoche je dasse ‘na sgrullata p’arisostallequanno che la colonna se moviva. Chefine facìveno? Tutto dipendiva da chiarrivava doppo: o priggioniere o am-mazzate, passanno ‘nde ‘n momentodal sonno a la morte.Allora ‘l mi’ nonno se messe d’accordoco’ ‘n antro soldato: dormiveno a turno,e quanno che la colonna aripartiva, chiera de guardia svejava quello che dor-miva. Però ‘n giorno ‘n trovò più l’amicoperchè probabbilmente s’era allontana-to pe’ cerca’ da magna’. Allora se ‘nven-tò ‘na sveja automatica. Ècca come. Lecavalle tiraveno ‘l cannone, ch’attac-cato dietro c’iva la cassa de le muniz-zione (...sì che ‘nn era pericoloso! Si cecapitava sopra ‘na bomba! Ma tant’è).P’èssa sicuro de svejasse quanno che lacolonna aripartiva, ‘l mi’ nonno se met-

tiva a dormi’ a sedia per terra appoggia-to a la cassa de le munizzione, cosìquanno che la colonna aripartiva, luecascava e se facivamale, mo’ ‘ndel góm-meto mo’ ‘ndel capo… Ma almeno sesvejava e s’arimettiva a segui’ la colon-na. E ‘ntanto je la fece a riporta’ a casala pelle.

‘Na volta ce so’ passo, a Caporetto (cheogge se chiama Kobarid perchè è ‘nde laSlovenia). Siccome ero responsabbile‘nde ‘n’azzienda metalmeccaneca, ‘ngiorno c’ébbe ‘l compito de verifica’‘n’acciaieria a Bled, apponto in Slove-nia... Quanno ch’arrivae a Kranjska Goram’accorse che sarò stato a qualche die-cina de chilometre da Caporetto.M’aricordae de le ricconte del mi’ nonnoe de ‘mpatto decise d’annacce a fa ‘nacapatina (sinnò quanno ciarisarèe pas-sato, da que le parte?). ‘N ve sto a ddi’ letribbolazzione p’anna’ su e pòe p’ari-scégna da que la strada stretta e pienade neve. Guase a ‘gni curva c’era ‘nagrótte, ma coll’entrata messa bene, col-l’arco e le blocche squatrate e co’ nasigla scolpita ndell’arco: èreno le galleriefatte da le soldate durante la guerra. Dequesto so’ securo perchè m’aricor-daveno quelle ch’ivo visto su a Roana,‘ndell’altopiano d’Asiago, quanno ch’an-nàvemoapassa’ l’istate a casa del nonnode la mi’ moje e giravemo pe’ le boschee annavemo a visita’ le forte e l’ossarie,ché pure lì c’era stata la guerra...Me ce so’ volsute tre ore da KranjskaGora a Caporetto... ‘Nde la piazza delpaesino me so’ fermo ‘nde ‘n barre a fa’colazzione e ho chiesto ‘ndo potivo tro-va’ ‘l cimitero de guerra. Era lì vecino,su pe’ ‘na costarella. Ce so’ ito a fa’ ‘ngiro e a di’ qualche preghiera per quelepòre regazze, tutte giovanissime…Che robba, la guerra!

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LoggettaLlalug-set 2015

M’ariccontava ‘l mi’ nonno...FiorenzoPetroselli

Mario del Birèllo (Ciofo, 1898-1981)in un ritratto degli anni '50

Esercitazione di artiglieria (foto del sergente Giulio Compagnoni)

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Del complesso intreccio tra storia e politica nellatoponimia risorgimentale valentanese, con l’amicoRomualdo Luzi ho dato testimonianza ai lettoridella Loggetta nel 2011 per il 150° anniversario del-

l’Unità d’Italia (vedi il n. 89 di ott-dic 2011, pp. 22-24). Nel-l’articolo fu ricostruita la denominazione delle vie e piazzeche a partire dal 1870 furono titolate a personaggi, fatti, luo-ghi dell’età risorgimentale, insostituzione di quella assegnataledalle precedenti autorità cittadinepapaline. Esperienza conosciutada tutti i centri della Penisola almomento della loro annessione alRegno d’Italia e che è stata ripetu-ta, con la stessa volontà politica,pedagogica, morale e spirituale, altermine della prima guerra mon-diale quando alcune vie di Valen-tano, con delibera di giunta, furo-no denominate o anche rinomina-te con i nomi cari alla storia e allamemoria nazionali per “tramanda-re ai posteri [i] segni intangibili”.Al termine così del lungo conflittomondiale, la vittoria dell’Italia del-l’Intesa sugli Imperi Centrali futempestivamente esaltata dallagiunta municipale valentanese (30novembre 1918), peraltro grave-mente alle prese con il contrastoalla pandemia della spagnola chein quello stesso mese contò circa40 morti, con la titolazione di vie epiazze a personaggi della grandeguerra e alle nuove città irredenteentrate a far parte dell’Italia. Tre inuclei scelti per le nuove denominazioni: uno all’interno delcentro storico; gli altri due esterni alle due antiche ported’accesso alla cittadina. Le nuove titolazioni furono esteseagli assi viari e agli spazi storicamente e urbanisticamentepiù importanti, e dal novembre 1918 entrarono a far partedell’odonomastica valentanese Via Trento e Trieste, già Viadegli Uffici ma più popolarmente la Selciata, e la sovrastan-te piazza, parimenti degli Uffici, ribattezzata in Piazza dellaVittoria. Al fine di rimuovermi affrettate critiche rispondoche l’attuale Via degli Uffici (traversa di Corso GiacomoMatteotti), cosi denominata a partire solamente dal 1924(19 giugno), era stata fino allora titolata Via degli Invalidiper la presenza, in antico, dell’Ospedale civile: “Che la ‘Viadegli Invalidi’ venga sostituita con la nuova denominazionedi Via degli Uffizi molto più che ora vi sono situati i nuovi Uffi-ci del Registro e dell’Agenzia delle Imposte”.Tra i personaggi non poteva certo non essere celebrato il

“Duce glorioso della vittoria”, il generale Armando Diaz, cuivenne titolato il piazzale fuori della cinta delle antichemuraurbane, fino ad allora nomato di Santa Croce, per essere difronte all’antica Chiesa di Santa Maria del Gonfalone dellaSanta Croce (più semplicemente Santa Croce, ed ora rico-nosciuta anche come dei Battenti), fondamentale punto diconvergenza e di snodo viario cittadino. Nella denomina-zione popolare locale sia Piazza della Vittoria che PiazzaleArmando Diaz sono però dai più nominati ancora La Piaz-zetta e Santa Croce.

La giunta dispose altresì che alla titolazione della già esi-stente (1877) generica Via Cadorna, il generale che il 20 set-tembre 1870 aveva posto fine al potere temporale dei papiin Italia con l’ingresso in Roma del V corpo d’armata, fosseaggiunto l’onomastico Raffaele al fine di non equivocarlocon il di lui figlio, generale Luigi, capo di stato maggiore delregio esercito fino alla disfatta italiana di Caporetto e poidestituito e sostituito dal generale Diaz. Dell’aggiunta del-l’onomastico di Raffaele, o anche della sola lettera inizialeR., non c’è invero segno alcuno nella targa ceramica che harecentemente sostituita quella di più vecchia fattura deiprimi anni ‘50 del secolo scorso, quando furono acquistatedalla ditta Rosa Elia di Acquapendente 13 targhe in maioli-ca con le denominazioni delle piazze e vie e 250 piastrelle,anch’esse in maiolica, per la numerazione civica delle abi-tazioni. Come tale Via Cadorna resta ancora priva dell’ono-mastico sia nella nuova targa che nella mappa urbana.

Valentano

“Tramandare ai posteri segni intangibili”Armando Diaz, Cesare Battisti e Nazario Sauro, Trento e Trieste

Bonafede Mancini

Porta e Piazzale S. Martino nel 1919 furono rinominati Nazario Sauro e Cesare Battisti (cartolina postale, 1955 circa)

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Per il terzo nucleo la giunta deliberò che la porta a norddella cinta muraria, che immetteva in Corso Vittorio Ema-nuele (II), ora Corso Giacomo Matteotti: “che la Porta e ilPiazzale di San Martino siano intestate ai martiri perl’Italianità: Sauro e Battisti”. La terrazza della piazza “CesareBattisti che rispecchia sul lago di Bolsena, e sulla grande Val-lata di Latera con panorama veramente incantevole”, perdelibera di giunta nel 1924 (6 novembre) fu oggetto diampio lavoro di sistemazione con la collocazione di trenta-cinque colonnine di travertino (estratti dalla cava dellemacchie di Ischia di Castro) per delimitarne il perimetro sulvuoto sottostante a garanzia della incolumità dei cittadini.Eseguiti dallo scalpellino Arcangelo Nasini, le colonnine intravertino sostituirono una più insicura staccionata, ren-dendo anche più gradevole l’aspetto urbano. La titolazionedella porta e del piazzale ai due noti irredentisti ha avutoperò un’esistenza breve, poiché nel 1951 l’area risultavaaver ripreso già l’originale denominazione di Porta e Piazza-le San Martino.La denominazione della splendida terrazza sul lago cheaveva già affascinato George Dennis (1848), sembra esseredivenuta una carsica contesa, ideologica, culturale, nel sus-seguirsi delle amministrazioni, così come fu, in modo piùrumoroso e manifesto, anche per il largo intitolato a Gior-dano Bruno, ora Largo Paolo Ruffini. Le rivoluzioni come lerestaurazioni recano un’innocenza non priva di ombre, chela toponimia, nella sua catarsi o sua nemesi storica, (s)velaa chi non si limita al significante dei nomi consegnati: Nomi-na sunt consequentia rerum.

Nella toponimia derivata dalla grande guerraValentano regi-strava negli anni successivi anche Via Gorizia e Via MonteGrappa, vie tutte poste nel Borgo [Alfonso] Lamarmora(fuori Porta Magenta, già Porta Romana o anche delMascherone) e che già dal 1877 titolava sul luogo Via e Piaz-

za Garibaldi, Via [Urbano] Rattazzi, Via [Luigi]Masi, strade convergenti tutte verso il Poggio(delle Forche) e da qui verso Piazzale ArmandoDiaz. Il fatto poi che vi sia titolata una via anchea Cesare Battisti fa supporre che la comunità,dopo averne tolta la titolazione dal piazzale eporta (unitamente a Nazario Sauro), ne abbiavoluto riconfermarne l’onore e la memoria citta-dina (sebbene, ora, con la dedicazione di una viain uno spazio urbano marginale rispetto a quelloantecedente).L’entusiasmo per la vittoria, promosso dall’am-ministrazione e dalle istituzioni cittadine, culmi-nato il 20 settembre 1919 con l’inaugurazionedella targa marmorea ai 65 soldati valentanesiCaduti in guerra (http://www.albodorolazio.it/Ricerca.aspx), fu altresì spontaneo, sincero fra lapopolazione, ed è ben riconoscibile anche neglionomastici dati ai nuovi nati e che registrano Fiu-mana, Triestino.Recente, e rivolta alla memoria e all’identità citta-dina, è la titolazione del largo della Ripa, nel trat-to mediano di Via Carlo Alberto, a Piazza AlfonsoD’Ascenzi. Nato e vissuto a Valentano (1892-1971), il sottoufficiale si distinse nel corso dellungo conflitto e una sua azione guadagnò le pagi-

ne del Giornale d’Italia del 31 marzo 1918. Nel 1999, nellaricorrenza della festa della Liberazione, l’amministrazionecomunale (sindaco Vincenzo Colantuoni Romagnoli) havoluto per sempre ricordare alla comunità il valore dell’ot-timo cittadino col titolarne la piazza e con la collocazionein loco di una targa in ottone nella quale si legge (o megliosi leggeva, perché la targa necessita di pulizia) che il sottuf-ficiale, in data 16 settembre 1916, sul Carso a quota 144,ebbe a meritarsi una medaglia d’argento al valore militareper “aver assunto il comando dello squadrone rimasto privodi ufficiali, lo condusse con intelligenza ed ardire all’attaccodi una posizione nemica che conquistò, rafforzò e difese daicontrattacchi avversari”.

Via Cesare Battisti e via Gorizia

Piazza della Vittoria con l’Alberone (cartolina postale, 1955 circa)

Dalla nostra città partirono peril fronte circa 1400 giovani,cioè quelli compresi tra leclassi del 1875 e del 1899. Tra

di loro si contarono un centinaio dicaduti; molti tornarono in pessimecondizioni fisiche e psicologiche;molti furono anche i decorati. Questiprotagonisti tuscanesi sono tuttiscomparsi ed è sempre più difficiletrovare delle testimonianze dirette.

Rimane oggi il ricordo nei figli, oraultraottantenni, e nei nipoti ultracin-quantenni. Prima dell’avvento della te-levisione, nelle veglie intorno al fuocoil nonno, avanti con l’età ma ancoracon lamente lucida, regolarmente nar-rava la sua vita piena di episodi avvin-centi, fin nei minimi dettagli e conestrema precisione, e tra questi suoiricordi rinverdiva i suoi trascorsi inquei tre fatidici anni di guerra. Pun-tualmente parlava dell’amico uccisodagli austriaci, della vita in trincea,della fame sofferta, il freddo, la man-canza di notizie della famiglia, dellafidanzata, le avventurose notti passatea parlare con il nemico scambiandovitalvolta anche quel poco che aveva da

mangiare. Il racconto iniziava semprecon “M’aricordo che ‘ngiorno me trova-vo… Quanno…”. Noi ragazzi eravamotutti con le orecchie tese ad ascoltare.Magari il nonno raccontava sempre lestesse cose, ma per noi sembravanodelle vicende assurde ed irreali omagari fantastiche. Il nonno era ilnonno e amava raccontare con tantaenfasi i fatti d’arme della grande guerravinta, e teneva a precisare che con lasua partecipazione aveva contribuitoa riunire l’ultimo lembo d’Italia.Nei primi anni ‘70 a quei valorosi sol-dati - ancora viventi - fu conferita

l’onorificenza di “Cavaliere di VittorioVeneto” e fu loro consegnato un diplo-ma d’onore con una medaglia d’oro.

Ora ci sembra doveroso rendereomaggio a tanti soldati nostri concitta-dini, che con il loro sacrificio e la lorosofferenza, con ogni semplice azione ogesto eroico hanno contribuito adassicurare la libertà della nostra Italia.Negli anni successivi alla grande guer-ra, ogni comunità sentì la necessita dierigere monumenti a ricordo di quan-ti caddero per la patria. Anche i tusca-nesi vollero il loro monumento e,dopo aver costituito un comitato citta-dino, raccolsero i fondi necessari peracquistare un’opera dello scultoreviterbese Carlo Jelmoni. La statua - ilRisveglio - era vincitrice della meda-glia d’oro all’esposizione di Parigi. Perraggiungere la somma necessaria,anche la filodrammatica del Circolettoeffettuò recite devolvendo gli incassi afavore dell’acquisto, che si poté realiz-

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Tuscania

Il tributo dei tuscanesi alla “grande guerra”e il monumento che li ricorda

Luigi Tei

Consegna dell’onorificenza di Cavaliere di VittorioVeneto da parte del sindaco Leonardi

I tre fratelli De Santis di Tuscania, mandati al fronte per la grande guerra:Luigi della classe 1894, Giuseppe della classe 1895, Domenico della classe 1897

Consegna della bandiera

40

zare con contributi della popola-zione e quello determinante del-l’amministrazione comunale.Il monumento, con alla base duegradini in nenfro, è costituito daun cenotafio avente quattro lapi-di in marmo bianco dispostenelle quattro facciate, su duedelle quali erano incisi i nomi deicaduti e sulle altre due eranoscolpiti i trofei militari. Il tutto èsovrastato da un cippo marmo-reo sul quale siede un giovanecompletamente nudo, con lemani alla testa, come se si risve-gliasse da lungo sonno, che è lascultura di Jelmoni.Originariamente il monumentoera posto al centro della Piazzadel Comune (oggi Piazza Basile),davanti alla chiesa di San Loren-zo. Esso divenne il simbolo piùcaro agli ex combattenti, allevedove, agli orfani di guerra, agliinvalidi ed ai mutilati, puntod’incontro per rievocare annual-mente sia il 24 maggio sia il 4novembre, le date importantidella grande guerra. In quella cir-costanza gli ex combattenti mon-tavano di guardia al monumentoper l’intera giornata. La sera,dopo aver girato - con la bandamusicale in testa, al canto dellecanzoni di guerra e conmille fiac-cole accese - per le vie e piazzedel paese, raggiungevano ancorail monumento dove veniva lettoil bollettino della vittoria e suo-nato l’Inno del Piave. Dopo ladimostrazione rievocativa, tutti,ufficiali, sottufficiali, graduati esoldati, con lemedaglie sul petto,si radunavano per consumareuna cena collettiva nel chiostrodi sant’Agostino o presso il tea-tro comunale.

Oggi sulle lapidi, oltre ai nomi dei caduti della guerra del1915-18, sono incisi i morti di tutte le guerre, compresi icaduti della guerra 1940-45, che sono stati incisi su lastremarmoree che hanno sostituito le due originariamentedecorate con i trofei. Di tutto questo oggi non resta altroche il monumento, sistemato presso i giardini delle scuoleelementari lato viale Volontari del Sangue, dopo aver subi-to diversi interventi di restauro e collocazioni provvisorieal seguito dell’evento sismico del 1971, quando vennericomposto nel giardino pubblico di viale Trieste.

(tratto dal libro dello stesso autore, Tuscaniadalla Grande Guerra alla Liberazione del 1944,

in corso di pubblicazione)

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La storia ufficiale sulla disfatta di Caporetto furedatta da un ischiano, l’allora colonnello FulvioZugaro. Sebbene nato a Voghera (dove il padre eranotaio) il 20 giugno 1870, ripristinò il suo legame

con Ischia di Castro tramite il matrimonio con la compae-sana Francesca Bevilacqua, esponente di una delle fami-glie storiche più eminenti del paese. Entrò all’accademiamilitare di Modena dalla quale uscì tenente di un reggi-mento di artiglieria. Partecipò alla guerra d’Abissinia e fua lungo in Eritrea. Rientrò in Italia nel 1901 e fu promossocapitano presso il ministero della Guerra, dove fu segreta-rio personale del ministro generale Giuseppe Ottolenghi.Esperto di logistica, fu uno dei direttori dell’intelligenceitaliana durante la guerra italo-turca. Partecipò alla Gran-de Guerra come tenente colonnello ed in quel frangente fuvicedirettore degli uffici I.T.O. d’armata. Durante il conflit-to fu promosso colonnello.In quel momento l’esercito italiano conobbe la sua piùmemorabile sconfitta: Caporetto; una disfatta che a quasiun anno di distanza continuava a pesare tanto sull’assettodell’esercito quanto nel morale dell’Italia intera. Il governopresieduto da Vittorio Emanuele Orlando, incalzato da chipretendeva un’indagine parlamentare su quella catastrofi-ca “rotta” nella quale erano emerse tutte le contraddizionipolitiche e militari italiane, istituì la commissioned’inchiesta su Caporetto il 12 gennaio 1918, specie nell’in-tento di fugare l’insinuazione di complotti politici e tradi-menti di generali. La carica di segretario della commissio-ne fu affidata al colonnello Fulvio Zugaro e quella di presi-dente al generale Caneva. Tra il 15 febbraio 1918 ed il 25giugno 1919 la commissione tenne 241 sedute raccoglien-do una mole enorme di documenti, tra cui quelli che furo-no alla base del bacino d’informazioni per la stesura del-l’albo d’oro. Infatti da professore di statistica fu chiamatotra coloro che determinarono il metodo di redazione epubblicazione dell’albo d’oro. Durante la raccolta delmateriale d’indagine a Zugaro fu data l’onorificenza dell’or-dine militare di Savoia. Durante il 1919 il colonnello redas-se la prima relazione d’inchiesta su Caporetto che conse-gnò al governo il 24 luglio. Questa era il resoconto dei fattie delle operazioni. Il 10 agosto consegnò anche il secondovolume dell’inchiesta, quello che conteneva il giudizio mili-tare sulle responsabilità personali del disastro bellico. Sitrattò di una denuncia a tutto tondo della condotta dei ver-tici militari: Cadorna bollato come egocentrico, Porroquale incapace, Capello un macellaio. La polemica divennerovente e s’incrociò nel ‘19 con quella della vittoria mutila-ta. L’inchiesta escluse responsabilità del governo e causepolitiche, mettendo invece sotto accusa la catena dicomando per aver alimentato il malcontento nell’esercitoe nel Paese con dei metodi vessatori che portarono al col-

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Ischia di Castro

L’ischianoche consegnòla “grande guerra”alla storia italiana

Maura Lotti

Monumento ai Caduti

41LoggettaLlalug-set 2015

lasso nel momento di maggiore sforzo della coordinazio-ne. Pur non essendoci linee guida da parte governativasull’inchiesta, era scontato il fatto che in quel frangenteogni vertice italiano avesse bisogno di un capro espiatorionell’intento di spegnere sul nascere lo “sciopero” militaree contrastare la propaganda socialista. Inoltre la scopertadi una responsabilità singola avrebbe giustificato la scon-fitta agli occhi degli alleati e dell’opinione pubblica. Oltrea Cadorna, mandato a riposo come altri generali che perònon furono “sfondati”, la vittima sacrificale che uscì dal-l’inchiesta fu il generale Luigi Capello, gerarca moltoamato e stimato dai soldati come “uomo buono e giusto”oppure come “Duce geniale” (lettera dell’avv. Gino Bandi-ni, fante brigata Abbruzzi, agosto 1919, sui fatti del ‘16-‘17).Altre teste vennero tagliate dalla relazione del colonnelloZugaro: Cavaciocchi, Bongiovanni, Caviglia; fu inspiegabil-mente salvato il generale Pietro Badoglio, comandante del17°, uno dei tre corpi d’armata annientati a Caporetto.Anzi, dopo l’inchiesta Badoglio fu promosso a sottocapodi stato maggiore dell’esercito, nonostante lo studio dellarelazione lo indicasse ben fuori posizione al momento del-l’attacco. Nonostante la frettolosità ed i limiti con cui fuapprontata l’inchiesta, necessariamente urgente al gover-

no, e le polemiche gerarchico-militari che suscitò, il colon-nello Zugaro ne uscì con tutti gli onori. Fu promosso mag-giore generale e nel 1928 tenente generale. Fu capo dellatesoreria militare e fino al 1931, anno della morte, segreta-rio del ministero degli Affari Esteri.Tra le sue onorificenze spiccano la medaglia per le campa-gne d’Africa, quella mauriziana al merito per i 10 lustri dicarriera, la croce al merito di guerra e la medaglia a ricor-do dell’unità d’Italia 1848-1918. Scrisse vari trattati militaritra cui “Statistica dello sforzo militare italiano nella GuerraMondiale”, “Sguardo sintetico alla produzione del suolo ita-liano dal 1880 al 1923”, “Il costo della guerra italiana”, “Ilgrano nell’economia nazionale di pace e di guerra”.

“In concorde fatica si adoperano intorno al più prezioso mate-riale che della nostra guerra avanzi, due diverse, forse oppo-ste, attività. L’una quella ieratica, piamente volta a raccoglierele reliquie a dar gloria e ricordo al nome di chi, per la Patria,onoratamente cadde. L’altra, la fredda attività dello statistico,per cui i nomi spariscono trasformandosi in numeri... scrutan-do le uniformità e ricercando le leggi cui obbedisce la massaindistinta. Tra colui che innalza e colui che trascural’individuo, lavora lo storico, pensoso degli insegnamenti belli-ci, traverso cui esalta i fatti e guarda ai destini di nostra gente”.(Fulvio Zugaro, L’Albo d’Oro dei Caduti per l’Italia nella guerra mondiale, 1926)

[email protected]

Ischia di Castro: la casa e la lapide nella cappella cimiteriale di famiglia delgenerale Fulvio Zugaro, con la scritta

FULVIO ZUGARO20 GIUGNO 1870 8 AGOSTO 1931

DIRETTORE GENERALE AL MINISTERO DELLA GUERRA

PROFESSORE DI STATISTICA

DECORATO DI MEDAGLIA D’ARGENTO AL V.M.GRAND’UFFICIALE DELLA CORONA D’ITALIA

GENERALE DEL R. ESERCITO

CON SPIRITO ALTISSIMO

DI SACRIFICIO DI UMILTÀ DI FEDE

DEDICÒ SEMPRE

ALLA PATRIA ED ALLA FAMIGLIA

LE SUE VIRTÙ DI INTELLETTO E DI CUORE

NELLA MOGLIE FRANCESCA

E NEI FIGLI FOLCO E FALIERO

VIVRÀ ACCANTO AL CULTO

DELLA SANTA SUA MEMORIA

IL VOTO

DI ESSERE A LUI VICINI

IN ETERNO

LoggettaLlagen-mar 2009

dallaTuscia

Il 4 novembre scorso ricorreva il 90° anniversario dellafine della prima guerra mondiale. Era inevitabile che,nella giornata della memoria per i Caduti di tutte le guerre,in tutta Italia l’evento venisse ricordato come si conviene. Con tutte le sue luci e ombre, la “Grande Guerra”conserva intatta quell’aura di sanguinosa epopea nazionaleattraverso cui si saldarono i sentimenti di appartenenzadegli italiani.La vittoria finale con il soddisfacimento delle anticheaspirazioni risorgimentali, e soprattutto la scossaformidabile data da quel conflitto senza precedentialla vita civile e sociale del Paese, crearono quellaconvergenza d’intenti che fece di quella tragedia collettivaun banco di prova del sentimento nazionale.Perfino tra le nostre popolazioni, da sempre emarginatedalla Storia, se ne impose il “mito”.Ne sono esempio “l’urne confortate di pianto”erette in ciascuno dei nostri comunelli: sacrari, monumenti,lapidi... che dicono che il cuore d’Italia batteva anche qui,si identificava in quei lutti e sofferenze di famiglie.Forse per la prima volta. Ricordarlo - sia pure a titolo di contributo ein maniera assolutamente esemplificativa -non è retorica, ma debito filiale.am

122 LoggettaLlagen-mar 2009

All’ombra di agili cipressi edi alti lecci dalle bracciatentacolari levate al cielo,che fanno dell’area anti-

stante il cimitero un piccolo boscosacro, i nomi dei giovani Cadutidella prima guerra mondiale sonoscolpiti nel peperino dei 46 cippiquadrangolari, celebrativi del lorosacrificio estremo per la Patria.Furono posti lì a ricordo e civilericonoscimento, qualche anno do -po la fine del conflitto, quando leprofonde ferite materiali e moraliprovocate dalla tragica enormitàdel fatto cominciarono a rimargina-re e l’angoscia, la disperazione e ilterrore lasciarono il posto al rim-pianto e alla pietà.

Era il giugno del 1923, quando conpopolare partecipazione fu inaugu-rato a Ischia di Castro il luogo dellaMemoria, che fu chiamato Parcodella Rimembranza, sotto la Cer -reta, poco distante dal centro abita-to. Nel registro dell’Inventario dei benicomunali del 1933, il Parco è cosìriportato: “Della superficie dimq.960, è re cintato con staccionatae filo di ferro. Vi sono 36 alberi, sem -preverdi, dedicati alla memoria deiCaduti. Confina con la Strada Provin -ciale e con la strada di campagna. E’dato in custodia a SmeraldoMarucci, necroforo”.Ischia ricordava e onorava cosìquei suoi ragazzi, che avevano ri -sposto generosamente alla chiama-ta della Patria ed avevano dato uncontributo determinante alla Vitto -ria finale, con eroismo e col sacrifi-

cio della propria vita.Al generale della Vittoria ArmandoDiaz fu intitolata una via del paese,che però diventò presto nel 1922Via Ca nova, per commemorare ilcentenario della morte del grandeartista, marchese di Ischia.Chi va al cimitero, spinto dai “caldisensi”di affetto per i suoi morti, lipassa come in rivista quei cippi,percorrendo il vialetto che taglia ilParco. Sono lì schierati come inparata quei 46 giovani, quasi tuttisoldati semplici, qualche caporaleo sergente.C’è anche il cippo di un giovanesottotenente, caduto il 17 novem-bre 1941, Armando Caporossi, figliodi Peleo, sindaco per più anni adIschia di Castro, aggiunto successi-vamente forse a rappresentare tuttii Caduti della seconda guerra mon-diale, o forse, come più alto in gra -

dallaTuscia

IIIIsssscccchhhhiiiiaaaa ddddiiii CCCCaaaassssttttrrrroooo

di AngeloAlessandrini

IIII cccciiiippppppppiiii ddddeeeellll llllaaaaGGGGrrrraaaannnnddddeeee GGGGuuuueeeerrrrrrrraaaa

123LoggettaLlagen-mar 2009

do, ad onorare e guidare la beataCompagnia… Le guerre, si è soliti dire con ripeti-tività che potrebbe sembrare reto-rica e che invece è necessario esalutare alimento della memoria,sono un immane disastro co -munque, anche per chi le vince;come fu per noi in quella guerra,che vide morire ben 600.000 solda-ti italiani e moltissimi altri li fecetornare a casa mal ridotti nel fisicoe nel morale. Le case in quegli anninon conobbero che lacrime; la vitadi molte famiglie fu spezzata dallostrazio indicibile della perditaanche di più figli o parenti, per iquali non fu possibile fare neppureil funerale a casa: restarono sepoltio dispersi lontano gli affetti più carie le speranze più vere. Tanto fupesante il costo di quella “piccolaguerra… solo contro l’Austria perottenere Trento e Trieste”, comeallora diceva agli italiani il primoministro Antonio Salandra…Ma chi sono questi nostri giovanieroi?Sui cippi non c’è che il nome ecognome. Le notizie sottoriportatesu ciascuno sono il frutto di ricer-che effettuate presso l’ufficio ana-grafe del Comune di Ischia eall’Archivio di Stato di Viterbo, cheringrazio vivamente per la preziosacollaborazione. Vogliono essere unaffettuoso e doveroso riconosci-mento al valore ed un omaggio allamemoria, quasi a distanza di unsecolo.

MARCOALDI GIUSEPPE, di Nicola eNicoletti Giacinta, nato il 23 febbraio1885. Soldato del 4° regg.to artiglie-ria, 6° battaglione, cuoco. Fatto pri-gioniero nella ritirata di Caporetto,morì a Vernius-Meschede, nel lazza-retto dei prigionieri di guerra, il 26marzo 1918.

AMADEI ANTONIO, di Domenico eGiuseppa Ronconi, nato il 24 novem-bre 1880, ammogliato con GelsominiAl deria, soldato, morto per fatto diguerra il 19 ottobre 1915.

AMADEI AMADEO, di Domenico eGiuseppa Ronconi, nato il 16 aprile1889, ammogliato, sergente del 58°

reg g.to fanteria, 5° sezione mitraglia-trici m. 20762; morto a 28 anni pertifo addominale il 3 agosto 1917, nel-l’ospedale di guerra n. 16 della CroceRossa in Peda vena, sepolto a Norcendi Pedavena.

ROSSI CLEDDE, di Domenico e AnnaMonanni, nato il 22 gennaio 1892, sol-dato della 708a autosezione, 23° au -toreparto; morto di broncopolmonitea 26 anni il 7 ottobre 1918 nell’ospe-dale da campo n. 089, sepolto a Cro -mo (Pestone).

RIDOLFI LUIGI, di Vincenzo eFabbrizi Santa, nato l’8 febbraio 1889,ammogliato con Pa -ladini Oliva; soldatodel 130° regg.to fan-teria, morto a 26anni nell’ospedaleda campo n. 024 inCormons il 1 agosto1915 per enteritesospetta contrattamentre trovavasi intrincea, sepolto nelcimitero di Cor -mons.

SOLDI PIETRO, diFrancesco e BozziniMaddalena, nato il15 giugno 1890; sol-dato della 6a compa-gnia del 129° regg.tofanteria, morto sulMonte Zebio al po -sto di medicazioneper ferita d’arma dafuoco il 13 luglio1916, a 26 anni; se -polto alle pendicidel Monte Zebio.

BANDINI GIUSEP -PE, di Domenico eMarcucci Maria San -ta, nato il 22 dicem-bre1897; soldatodell’89° regg.to fan-teria, matricola 2086,morto nel l’o spe dalecomple men tare n.68di Vou ziers (Francia)il 22 febbraio 1919per miocardite acutainfettiva.

FABBRIZI ROSATO,di Antonio e Fran ce -

sca Sersanti, nato il 24 marzo 1886, sol-dato del 69° regg.to fanteria, 5a compa-gnia, matricola n.16394, morto nel-l’ospedaletto da campo n.138 diMarostica (Altopiano di Asiago) il 21febbraio 1918, in seguito a ferita di pal-letta di strapnel alla regione tempora-le; sepolto a Marostica.

BOZZINI ANTONIO, di Ermete eVannuzzi Lucia, nato il 31 maggio1881, soldato della 135a centuria del2° regg.to genio, 110a compagnia,morto il 19 settembre 1918 nell’ospe-dale militare di riserva (repartoLanza) di Casale Monferrato.

dallaTuscia

124 LoggettaLlagen-mar 2009

PETTINELLI ANDREA, di Giuseppe eLotti Ermeta, nato il 17 febbraio 1895,caporale del 33° regg.to fanteria, 5a

batteria, morto per broncopolmonitea Innsbruck il 10 aprile 1918 e lìsepolto nel cimitero militare, tomban.70.

RINALDI FILIBERTO, di Luigi e LuisaCedri, nato il 6 maggio 1894, caporaledel 218° regg.to fanteria, 9a compa-gnia, matricola 2936, morto il 19 otto-bre 1917 per contusioni gravi allatesta, torace, braccio destro ed asfis-sia nel bombardamento nemico alPasso della Leva, Monte Salgari;sepolto nel cimitero militare diCastana (Oltrepò Pavese).

CIVITELLI GIUSEPPE, di Vincenzo eCappuccini Lore ta, nato il 16 aprile1893, bersagliere, morto il 27 novem-bre 1918 a Villorba (Treviso), localitàCarità, nell’ospedale AdvancedSperating Centre.

FORTI GIUSEPPE, di Antonio e CentoDomenica, nato il 22 ottobre 1884,soldato del 13° regg.to bersaglieri,59° battaglione, matricola 8100,morto a Caposaldo di Casa Ninni il 19giugno 1918 in seguito a ferita discheggia di granata, sepolto a CapoSaldo di Casa Ninni.

SERICOLI GIUSEPPE, di Antonio eBagazzoli Rosa, na to il 13 marzo1894, soldato di fanteria, disperso il31 ot tobre 1918 nel combattimento diBrugnera (Friuli).

FORTUNA NICOLA, di Girolamo eVecchietti Giusep pa, nato il 15 otto-bre 1892, soldato del regg.to artiglie-ria di campagna, presunto morto nelMonte San Michele il 13 novembre1915.

PEDICELLI LUIGI, di Vincenzo e RosaOrtensi, nato il 22 gennaio 1896, sol-dato del 226° regg,to fanteria, 8a com-pagnia, morto per ferita sul MonteZebio (quota 1767 mt.) il 18 luglio1916, sepolto alle pendici del MonteZebio.

ALESINI ANTONIO EDOARDO, diDomenico e Cele sti ni Maria Antonia,nato il 20 febbraio 1900, soldato del22° regg.to fanteria, morto a Pisa il 28ottobre 1918.

PAZZAGLIA LUCA, di Sebastiano eRinaldi Beneria, na to il 14 marzo1884, soldato del 130° regg.to fante-ria, 7a compagnia, matricola 16922,am mogliato con Lazzarini Lisena,morto il 15 novembre 1915 per feritadi guerra nel locale della primamezza sezione di sanità in Sagrado(Gorizia), sepolto al cimitero diSagrado in locale adibito per i mortiper la Patria.

CAPOBIANCO FILIPPO, di Mariano eFriggeri Maria, nato il 26 gennaio1898, soldato del 226° regg.to fante-ria, 2a compagnia, morto nel lazzaret-to di guerra di Viston per polmonite efebbre spagnola il 29 settembre 1918,sepolto nel cimitero d’onore diBellevue per Viston, tomba n.121.

CORCHIANI ERMETE, di Giuseppe eGavelli Maria, nato il 24 maggio 1894,soldato del 226° regg.to fanteria, 6a

compagnia, matricola n. 3168, mortoil 30 agosto 1917 a Monfalcone,quota1461, per ferita d’arma da fuoco, se -polto alla Dolina Napoli al di sottodella quota 1461.

SQUARCETTA DOMENICO, di Giu -sep pe e Boninse gna Lucia, nato il 26gennaio 1893, soldato del 230°regg.to fanteria, 5a compagnia, matri-cola n. 14305, morto nelle trincee diHudi-Loy per ferita di scheggia di gra-nata nemica il 27 maggio 1917, sepol-to a Hudi- Loy.

BONFILI ROSATO, di Gervasio e Mo -nanni Lorenza, na to il 1° ottobre1892, soldato disperso nel fattod’armi di Monte Rasta il 27 giugno1916, dichiarato irreperibile.

TOZZI AGOSTINO, di Francesco eBorgognoni Vin cen za, nato il 25 ago-sto 1887, ammogliato con PeroniPompea; soldato della 10a compagniadel 201° regg.to fanteria, matricolan.10738, morto in combattimento l’11ottobre 1916 per scheggia di granataad Appacchiasella e lì sepolto.

CENTO GIUSEPPE, di Epaminonda eTalucci Maria, nato il 13 marzo 1893,soldato del 144° regg.to fanteria, pre-sunto morto il 18 giugno 1916 inseguito al combattimento svoltosi inMonte Zovetto.

Se è vero che lo spirito dei mortivive nella memoria, queste traccenella loro essenzialità vanno in que-sta direzione. Scriveva OscarWilde: “L’unico dovere che abbiamonei confronti della Storia, è quello diriscriverla”.Degli altri ci interesseremo nelprossimo numero della rivista.

dallaTuscia

Momento di relax in una trincea

Due santi in divisa militare al tempo della GrandeGuerra: Angelo Roncalli, il futuro papa GiovanniXXIII, e Padre Pio.

Il Sacrario degli EroiSan LorenzoNuovo

[...] Nel 1925 l’amministrazione civi-ca, interpretando il diffuso deside-rio della popolazione, fece costrui-re un piccolo sacrario militare peronorare i Caduti della prima guerramondiale. In seguito vi furonoricordati anche quelli della secon-da guerra.Ai lati di un vialetto che conducealla cappella votiva sorgono duemuri, sui quali sono apposte le lapi-di marmoree che ricordano i nomidei gloriosi Caduti: 42 della primaguerra e 17 della seconda.Sulla balaustra che delimita l’altareci sono due elmetti italiani: a sini-stra della prima guerra e a destradella seconda.Sulla strada verso Grotte di Castroc’è un cippo marmoreo che ricordala temporanea sepoltura di 140Caduti appartenenti al corpo dispedizione francese (C.S.F.) in Italia

nella seconda guerra mondiale. Lesalme in seguito furono trasferitenel cimitero militare francese diMonte Mario a Roma. Qui, sul mo -nu mento principale (dove sono

ricordati i comuni d’Italia che ospi-tarono temporaneamente i Cadutifrancesi) è riportato anche il nomedi San Lorenzo Nuovo.Il C.S.F., comandato dal generale

Alphonse Juin, fa -cente parte della Varmata americana,era composto daquattro divisioni: 1a

motorizzata dellaFrancia Libera, com-prendente anchediversi reparti dellaLegione straniera; 2a

marocchina; 3a algeri-na; 4a marocchina damontagna. Dopo Cas -sino, il C.S.F. fu impie-gato nel giugno-luglio1944 nell’Alto viter-bese (specie la zonadel lago di Bolsena),Radicofani, Val d’Or -cia, Siena, San Gimi -gnano, Pog gi bonsi. Inseguito fu ritirato dalfronte italiano perpartecipare allosbarco in Provenza(15.8.1944).

dallaTuscia

Il dott. Iacovoni è un medico ro -mano amante della nostra terraed estimatore della Loggetta. Aseguito della lettura del nume-ro speciale sul passaggio delfronte di guerra nel giugno1944, si è complimentato perl’obiettività dell’esposizione eper l’umanità che si respiranelle corrispondenze dai varicentri interessati: l’attenzioneal dramma delle popolazioni einsieme l’assoluta imparzialitàdelle cronache in riferimento alcomportamento degli esercitiin lotta. Al tempo stesso ci hainviato questo suo breve scrit-to, già apparso nel 2004 nellarivista Il Carrista d’Italia, nel-l’eventualità che potesse esser-ci di qualche interesse. E sicco-me è del tutto in sintonia siacon l’argomento già trattato,sia col tema di queste pagine,risulta un’“aggiunta” che nonguasta affatto e della quale anziringraziamo cordialmente l’au -tore.

di Roberto Iacovoni

125LoggettaLlagen-mar 2009

126 LoggettaLlagen-mar 2009

Il 4 novembre scorso l’Italia ha cele-brato il 90° anniversario della Vit -toria. I media hanno dato annuncisenza grande enfasi, notizie di com-

memorazioni che si sono perdute nelrumore più grande della crisi economi-ca internazionale, delle oscillazionidella borsa, delle problematiche checoinvolgono l’Italia e il mondo intero.Le giovani generazioni, con la riformadei programmi scolastici, prestanopoca attenzione a questa parte dellanostra storia, soprattutto ora che nellefamiglie non sono più presenti quelli che quella storiahanno vissuto e che la morte di Delfino Borroni, ultimosuperstite italiano della Grande Guerra, scomparso il26 ottobre 2008 a 110 anni, ha definitivamente archivia-to l’ultimo capitolo di tale epoca.Restano disseminati, in tutta la penisola italiana,migliaia di lapidi, di cippi, di monumenti commemo -rativi che in crociamo spesso, talvolta quotidianamen-te, senza prestarvi adeguata attenzione: i “monumentiai caduti”, che richiamano immagini d’altri tempi,ricordi sfumati e sbiaditi, che guardiamo senza vedere,ma che nei nostri tempi, che veloci consumano ogniforma di memoria e che rendono lontani e stantìi gliavvenimenti del giorno precedente, continuano a per-petuare un ricordo che appartiene a tutti e che è ormaiparte della nostra identità italiana. Non si tratta di esal-tare il “valore della guerra”, sempre deprecabile per lepiaghe che si porta ap presso, ma di richiamare il dove-roso ricordo di quelli che, in questo grande evento,ebbero troncata la vita. Commemorazione della Vittoriae, nella nuova accezione, Giornata dell’Unità Nazionale(come ha voluto il presidente Ciampi), oggi chequest’ultima viene addirittura po sta in forse da spinteautonomistiche che dimenticano che sui monti delCarso o nelle centinaia di luoghi che videro tanto spar-gimento di sangue c’erano italiani e soltanto italiani di

ogni regione d’Italia. E allora spendiamo due paroleper conoscere meglio queste memorie storiche. Il comune di Marta, il 14 maggio 1920, sull’esempio diquanto avveniva in tutta Italia in quegli anni, avevadedicato una lapide marmorea ai suoi figli morti inguerra. Di semplici forme, con un disegno leggermenteinciso nel marmo raffigurante una bandiera avvolta suse stessa e i nomi dei caduti, la vediamo ancora sullafacciata dello stabile al n. 10 della piazza Umberto I.Nel 1921, un certo Fabrizio Fabrizi di Roma, con un attodi squisita generosità, propose di farsi carico dellespese per innalzare nella piazza principale del paeseun monumento in memoria dei martani morti in guer-ra. La popolazione accolse entusiasta la proposta, cosìche il monumento fu eretto e inaugurato il 22 maggio1921. Non abbiamo, purtroppo, schizzi o disegni pre-paratori dell’opera. Da alcune vecchie cartoline pos-siamo vedere che il monumento aveva una base diforma triangolare ai cui vertici erano posti tre leoniaccovacciati. Dal centro del triangolo si innalzava unbasamento a forma di roccia su cui si ergeva una figu-ra maschile con un braccio alzato. Il 4 novembre dellostesso anno davanti a questo monumento si svolse unacommovente cerimonia. Si era costituito, a livellonazionale, un comitato per le onoranze funebri alMilite Ignoto che, proprio nella giornata del 4 novem-

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Marta Maria IreneFedeli

“Martaai suoieroi”

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bre 1921, doveva essere tumulato nell’Altare dellaPatria. La salma del Soldato Ignoto era transitata, neigiorni immediatamente precedenti, nelle stazioni diOrvieto e Orte, sostandovi per ricevere i tributi d’o -nore delle popolazioni lì radunate, come era avvenutoin tutte le stazioni attraversate dal treno che la porta-va da Aquileia a Roma. In ogni comune, per ordine delprefetto, si erano costituiti dei sottocomitati per orga-nizzare le celebrazioni che dovevano avvenire, in con-temporanea, in ogni città e paese d’Italia. Alle ore novevenne celebrata una messa in suffragio di tutti i cadutinella chiesa parrocchiale, quindi, terminata la solennefunzione religiosa, un corteo con le autorità, i presi-denti delle locali associazioni dei combattenti e reducidi guerra, dei mutilati e invalidi, degli orfani di guerra,di tutte le associazioni presenti sul territorio, e con levedove di guerra e i genitori dei soldati morti o disper-si, muovendo dalla chiesa si portò davanti al monu-mento dei caduti dove vennero deposti fiori e corone.Alle dieci e trenta, come voluto dalle superiori autori-tà, le campane della collegiata avevano iniziato a suo-nare “a gloria” e il suono a distesa proseguì, come sta-bilito, per mezz’ora. Alla stessa ora, a Roma, ilVittoriano accoglieva le spoglie mortali di colui che,sconosciuto a tutti, si caricava, nel suo anonimato, deisimboli dell’eroismo, degli ideali, dell’amor di patria,del valor militare, del coraggio, dell’abnegazione… Intutte le città sedi di reparti di artiglieria ventuno salvedi cannone rendevano onore all’eroe sconosciuto.Davanti al nostro monumento, dopo gli onori ai cadutie i discorsi di rito, la nostra banda musicale intonòl’Inno del Piave e la cerimonia si chiuse nella commo-zione generale.L’opera, realizzata con tanto entusiasmo e tanta gene-rosità, ebbe tuttavia un epilogo inglorioso. Tale manu-fatto, costruito in cemento armato e muratura ordina-ria, per la sua poca stabilità non ebbe l’approvazionené del donatore né della popolazione, che restaronoambedue delusi per le ingannevoli promesse dell’arti-sta esecutore dei lavori. Infatti, pochissimi anni dopo,tale opera era già così deteriorata e ridotta in statodeplorevole da suscitare un coro di critiche sia daparte dei martani che dei forestieri, e soprattutto daparte delle autorità superiori, che giudicavano indegnae indecorosa tale memoria nei confronti dei caduti. Ilregio sottoprefetto di Viterbo, comm. Manlio Presti,infatti, a più riprese invitò l’allora podestà Donati ademolirlo del tutto. Prima di eseguire la demolizione,tuttavia, il podestà interpellò il sig. Fabrizi e, pur espri-mendo la propria riconoscenza e il ringraziamento daparte del popolo martano per il munifico dono, chiesel’autorizzazione a “poter demolire il monumento e sosti-tuirlo con uno nuovo di maggiore eleganza di forme esolidità di materiale”. Il sig. Fabrizi non si oppose, anzidette ampia facoltà al comune di provvedere come me -glio avesse creduto. Ottenuto il consenso del donato-re, il podestà inoltrò una richiesta di nulla osta al pre-sidente dell’Opera Nazionale Combattenti per procede-

re alla demolizione. Successivamente venne contattatoil cav. Giuseppe Ciocchetti, scultore, che era proprieta-rio e direttore degli stabilimenti L’Arte Funeraria constudio e galleria espositiva in Roma. Specializzato inopere in bronzo e marmo destinate alla memoria e alricordo dei caduti in guerra, il Ciocchetti inoltrò unampio catalogo con varie figure celebrative adatte alloscopo. La pagina di presentazione si apriva con il tito-lo “Per onorare i caduti” e tutto il fascicolo è uno spec-chio fedele delle emozioni e del sentire dell’epoca,rivolta, dopo tanti dolorosi lutti, ad “eternare la memo-ria dei valorosi caduti con un degno ricordo marmo-reo…”. Il 9 agosto 1926 il podestà chiede al Ciocchetti,sulla base del detto catalogo, di far conoscere quali deimonumenti proposti possono essere realizzati con unacifra non superiore alle 12.000 lire. Nella stessa giorna-ta viene inviata una lettera al sig. Serafino Porchiella diBagnoregio per saggiare la sua disponibilità ad assu-mere l’incarico per la realizzazione delle parti in basal-tina dello stesso. Il 14 agosto il Ciocchetti invia duedisegni per la realizzazione del monumento proponen-do quattro soluzioni: un soldato in vedetta a figuraintera in marmo di Carrara, un soldato a mezza figurasempre in marmo, una Vittoria alata in marmo, un sol-dato lancia bombe in bronzo. Tra il 14 e il 20 agostouno scambio di telefonate e alcuni telegrammi defini-scono gli accordi tra il comune di Marta e lo scultoreCiocchetti. Si opta per il soldato in vedetta a figuraintera in marmo di Carrara alto m. 1,90 e posto su un

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basamento di travertino di m. 2,20 che poggia su gradi-ni di basaltina. Sul prospetto la dedica in bronzo“MARTA AI SUOI EROI” con una decorazione a forma difascia in bronzo con foglie di alloro e una spada, ai latidue lapidi con borchie di bronzo e i nomi dei cadutiincisi. Il pagamento verrà effettuato in due riprese: sei-mila lire quale anticipo alla conferma dell’ordine, lerestanti seimila lire alla consegna dell’opera presso lostudio dello scultore in Via Tiburtina a Roma. Il 25 ago-sto l’ing. Daniele Manini, per incarico del podestàDonati, stende una relazione con preventivo di tutte lespese occorrenti per la realizzazione del monumento.L’estensore, dopo aver richiamato tutte le motivazionicirca l’opportunità e la necessità della realizzazione diun nuovo monumento, riferisce che “il monumentinoesteticamente è bello e certamente soddisferà il senti-mento patriottico e pio dei martani. Per quel che riguar-da la spesa trovo che la medesima è mite, trattandosi diun lavoro accurato e complesso….”. Per il completa-mento del monumento, oltre alla spesa di 12.000 lireper l’opera dello scultore, bisognerà prevedere: lire1000, salvo conguaglio, per trasporto e messa in opera;lire 3000 per ringhiera in ferro battuto; lire 1000 perbasamento in pietra di Bagnoregio e colonnined’angolo della ringhiera. “Complessivamente il nuovomonumento importerà una spesa massima di lire 17.000e costituirà un degno omaggio di Marta ai suoi caduti perla Patria”. Così Manini chiude la sua relazione indiriz-zata al podestà. Quest’ultimo il giorno dopo, con pro-pria deliberazione e sulla base della relazione tecnica,“ritenuto doveroso e patriottico obbligo assecondare legiuste aspirazioni di questa cittadinanza che insistente-mente reclama un degno ricordo a perpetua memoriadei loro cari caduti eroicamente per una più grandeItalia”, rende esecutivo l’intento. Nella stessa si dà,inoltre, notizia che “per questo scopo i cittadini benchépoveri hanno offerto la somma di Lire 3000 e che perciòla spesa per il Comune si riduce a Lire 14.000”. La dispo-nibilità di tale somma sarà attinta nel bilancio del-l’esercizio in corso stornandola dall’art. 82 dove eranopreviste spese di lire 40.000 per lavori igienici che nonsi erano resi necessari. Versato l’anticipo ri chiestotramite l’esatto ria co -mu nale, il 28 agosto vie -ne rimesso allo scultoreCiocchetti il contrattodebitamente sottoscrit-to e l’elenco con i nomidei caduti, manifestan-do il desiderio di averela consegna del lavoro il12 settembre per potereffettuare l’inaugu ra -zione la successivadomenica 19. Il 3 set-tembre viene inviato ildisegno schematico conle relative misure per i

lavori di muratura e successivamente viene conferma-ta la consegna dell’opera per il 14 settembre. Il 21 ilpodestà, tramite telegramma, assicura il ritiro delmonumento e il saldo del pagamento entro la settima-na. La prevista inaugurazione, forse per motivi essen-zialmente tecnici, si era dovuta rimandare e il 28 unaltro telegramma del podestà rimanda al giovedì ovenerdì successivi il ritiro dell’opera. Nel frattempoera stato convocato a Marta, urgentemente, per i lavo-ri di competenza, il sig. Serafino Porchiella diBagnoregio che aveva incontrato il podestà il 19 set-tembre. Passeranno ancora vari giorni e il 14 ottobrecon telegramma si convoca, improrogabilmente, per ilgiorno successivo il Porchiella per la posa in opera delpietrame del monumento e il 16 ottobre, analogamen-te, si chiede al Ciocchetti di inviare a Marta, a spesedel municipio, una persona per l’assistenza alla posa inopera del monumento. Dalla risposta dello scultoresappiamo che le spese per l’assistente ammontano alire 50 giornaliere, vitto, alloggio e viaggio di andata eritorno. Il monumento è ormai realtà e realizzato, veramente, intempi brevi. Il primo novembre un’ordinanza del pode-stà fa divieto a tutti di introdursi all’interno del recintodel nuovo monumento e di imbrattarlo o danneggiarloin qualsiasi modo, pena il deferimento all’autorità giu-diziaria, e se trattasi di bambini saranno chiamati arisponderne i genitori. La cerimonia di inaugurazioneviene fissata per il 28 novembre alle ore 14 e, conte-stualmente, verranno consegnati la bandiera alla loca-le stazione dei reali carabinieri e il gagliardetto allalocale sezione del Fascio. Nell’elenco delle autoritàcivili e religiose e delle personalità a cui è stato inoltra-to l’invito per la cerimonia inaugurale trova posto unalettera di invito, più confidenziale che ufficiale, che sirivolge al signor Fabrizio Fabrizi e, rinnovando i senti-menti di gratitudine della popolazione martana, riper-corre la storia che ha portato all’innalzamento delnuovo monumento e auspica la sua partecipazione allamanifestazione. Purtroppo non abbiamo notizia delle modalità con cuisi è svolta la cerimonia inaugurale, dato che nel fasci-

colo non vi è traccia delprogramma. Il monu-mento resta a perennetestimonianza di un unamemoria storica forte-mente voluta e deside-rata e, con sacrifici,portata a compimento.Do po la seconda guerramondiale, sul retro delprospetto, venne ag -giunta una terza lapidecon i nomi degli ultimicaduti e dispersi nelsecondo conflitto.

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Per cinquantenni e dintorni, ifatti e i luoghi della PrimaGuerra Mondiale (1914-18)sono diventati familiari,

prima ancora che dai sussidiari emanuali scolastici, attraverso la te -stimonianza dei nonni o di altriconoscenti partiti per la Grandeguerra. Le occasioni per la trasmis-sione orale di queste storie, prive diogni retorica, erano innumerevoli eper i minori l’ascolto degli anzianiera avvertito come un do vere. Dinascosto, rovistando nel cassettodelle cose im portanti di famiglia,riuscivamo a tirar fuori anche qual-che vecchia foto dei nonni in divisa,solitamente in posa in un tranquillostudio prima di essere inviati alfronte. In quelle vecchie immagini,dal cartoncino molto spesso, si rico-noscono i tratti e i volti dei tantinostri bonari contadini adattati afieri soldati del Regno. Ruvidi neimodi e nella vita lo erano semprestati, e la guerra, che non volevano,li rese ancor più consapevoli diun’Italia che ignoravano e dallaquale si avvertivano sempre piùesclusi. Una consapevolezza chel’analfabetismo accresceva e che si

e stendeva anche alle loro donne,che, sebbene a casa e lontane dallezone di guerra, cominciarono adavvertire la ne cessità della loro sco-larizzazione, quantomeno per co -mu nicare con i loro uomini. Daalcune lettere di Francesco Ma rianialla nipote Maria (suora nelmonastero di Vitor chiano) abbiamotestimonianza delle condizioni pre-carie e delle preoccupazioni vissutedai soldati in trincea. In quietudiniche il soldato valentanese le chiede-va di omettere ai propri cari per evi-tare di allarmarli. “(…) si vedestequando scoppiano [bombe di oltre 4quintali] metteno terrore così notte egiorno si sta colla morte alla boccadunque mi raccomando di pregareper me anche io non mi scordo maipoi farae il piacere di non fare saperniente a casa che mi trovo in questecondizzione che non li oh palesatomai…” (9.5.1916). Precarie persinole condizioni per scrivere: “(…) per-donerai se è scritta male perché nonavemo tavolo toccha adattarsi soprale ginocchia”. (19.12.1915) Da un volontario ardito ho saputoche con il comandante Gabrielle(D’Annunzio) aveva preso parteall’impresa di Fiume. Barelliere sulMonte Grappa nel 1918, Silvano Pan -

fini raccontava con fierezza diaver parlato con ilre Vit torioEmanuele chegli aveva chie -sto se il man -giare era sod -disfacente. Confranchezza glirispose che ilrancio di stri -buito era insuf-ficiente e chel’unica cosa dicui non man -cavano i soldatierano i pidoc-chi. Seppure dibreve durata

l’incontro non restò privo di unqualche risultato, e così dal succes-sivo giorno “ci fu sempre consegna-to un elmetto pieno di castagne”. Ilgrido d’assalto: Avanti Sa voia!, ripe-tuto nel sonno, lo ha accompagnatoper tutta la sua intera esistenza,come anche il ricordo di ricevere dabere “un bicchierino che facevapassa’ la paura prima de uscì da latrincea per l’assalto a corpo a corpo”.Fu tra i primi (maggio 1915), se nonil primo valentanese, a ricevere lacartolina per il fronte. La Grandeguerra, come per altri valentanesi,era per lui il prolungamento di quel-la iniziata in Libia (1911), anche sene comprese presto e bene le diffe-renze, se non altro per la durata eper la cicatrice procuratagli da unabaionetta austriaca nella tempia.Altri combattenti, per tutta la lorovita di fumatori hanno conservatol’abitudine di aspirare il Toscanelli(sigaro) ac ceso all’interno dellabocca: “i cecchini tedeschi de nottenon sbagliavano mae ‘n colpo e seuno voleva porta’ a casa la pelle,questo era l’unico modo de fuma’senza pericolo”. La inutile strage mondiale, come ladefinì Benetto XV, contò alla finedella guerra oltre dieci milioni dimorti e venti milioni di feriti. I citta-dini valentanesi mobilitati per learmi per l’intero conflitto 1915-18,furono 513 su una popolazione resi-dente di 3414 abitanti (censimentodel 1911). Alla fine del conflitto, hascritto Romualdo Luzi, si contarono43 morti in guerra, 10 militari cadutiper altre cause, 24 mutilati ed invali-di, 4 dispersi, 4 decorati con meda-glia al valore, 13 decorati con croceal merito di guerra e 42 prigionieridi guerra. Si ha notizia che, nel rim-patriare dagli Stati Uniti per compie-re il dovere di soldato, Biagio Bia -gini perisse nel settembre 1915 nel-l’incendio del piroscafo Sant’Anna.Con lui forse anche Angelo Anto nioCruciani. Altre fonti (Simone Si mo -

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di BonafedeMancini

Valentano 1918-2008: 90° anniversariodella Grande guerra

Collocazione lapidepiazza Alfonso D’Ascenzi (1999)

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ni) informano che i valentanesi, daicampi aviti e d’oltremare, mobilitatialle armi in difesa delle italiche terrefurono 645 e 45 i morti. Tra i prigionieri fu anche il sergentedel reggimento Ge no va CavalleriaAlfonso D’Ascenzi (1892-1971). Pri -ma di es se re internato in un campoin Ungheria (primavera 1918), il sot-tufficiale, in data 16 settembre 1916,sul Carso a quo ta 144, ebbe a meri-tarsi una medaglia d’argento al va -lor mi li tare per “aver assunto ilcomando dello squadrone ri mastoprivo di ufficiali, lo condusse conintelligenza ed ardire all’attacco diuna posizione nemica che conquistò,raf forzò e difese dai contrattacchiavversari”. Trasferito poi al reggi-mento Piemonte Cavalleria, diedeancora prova del suo valore nel pas-saggio del fiume Livenza. La suaazione bellica guadagnò le paginedel Giornale d’Italia del 31 mar zo1918. Nel 1999, nella ricorrenza del -la Festa della Libe razione, l’ammi -nistrazione comunale (in personadel sindaco pro-tempore VincenzoColantuoni Romagnoli), con unasolenne cerimonia, cui ha preso

parte anche un drappellodi militari in divisa storica,gli ha intitolato la piazzaadiacente la Ripa con lacollocazione di una targa inottone che necessita, alpresente, di una lucidaturaper la sua lettura.Per la gravissima crisi eco-nomica seguita al terminedella guerra, l’inserimentodegli ex soldati non fu affat-to facile. A Valentano sicostituirono in Cooperativadi Reduci e Com battenti e letensioni sociali terminaro-no, non senza delusioni,con l’assegnazione di mo -deste quote di terreni (6staia), per altro anche po -co fertili. La Comunità fuinvece estremamente so -ler te nella compilazione diun Albo d’O ro ai propriCaduti e nella collocazionedi una lapide che ne ricor-dasse il sacrificio. Unmodesto monumento, se siconsidera che in gran parte

dei vicini centri, seppure minori,furono alzati monumenti con gruppiscultorei in bronzo di ben altra fat-tura e spiegabile col fatto chel’intervento dell’autorità municipalefu in Valentano estremamente tem-pestivo. Le vicende di taluni di questi monu-menti ai Caduti della Grande guerrasono storie dentro la Storia. Alcunisono scomparsi nel nulla (Onano),altri sono stati rifusi per ne cessitàbellica durante il secondo conflittomondiale (Vi terbo), altri gettati aterra per dileggio dalle truppe te -desche in ritirata (Acquapendente),altri continuamente riposizionati innuove sedi (Viterbo, Bolsena, Pian -sano), altri ancora ricoperti nelleloro caste nudità (Montefia scone), oaddirittura sostituiti per la presuntainverecondia (Ba gnoregio), quasifossimo ritornati in piena Contro ri -forma nell’anno del Signore 1926 eIV della rivoluzione dell’ E. F. La grande lapide commemorativadel monumento ai Ca duti di Va -lentano venne inaugurata il 20 set-tembre 1919, a meno di un annodall’anniversario della Vitto ria. La

scelta del giorno 20 settembre, giàfesta civile, (ma i festeggiamenticontinuarono anche nei successividue giorni) non fu casuale in quantocorrispondeva a quella dell’anniver-sario dell’ingresso in Roma del-l’esercito italiano (1870). All’inau -gurazione, ore 10, in ter venne il let -terato Fau sto Salvatori, autore delladedica della targa e noto ai più peravere successivamente composto(1922) l’Inno a Roma (musica di G.Puccini). Per la collocazione fuscelta la parete di centro, a de stradell’ ingresso, del palazzo municipa-le. Accanto ad essa trovano sede latarga a Garibaldi (1908), lo stemmain travertino di Valentano (XV seco-lo) e quello di papa Paolo III (1534-1549). La cornice della lapide è con-tornata da foglie di alloro e fasci lit-tori romani, in alto lo stemma diValen tano. Nella lapide, alla dedica(16 versi), seguono i nomi dei Ca -duti. Come per quella di altri monumenti,anche la storia di questa targa mar-morea è stata alquanto controversa.Prova ne sono le due dediche cheerano state proposte. Quella del let-terato Fausto Salvatori, che leggia-mo nel monumento, e quella del no -taio valentanese Simo ne Simoni(Valentano1881-Roma 1945), chevenne scar tata in quanto, come haefficacemente compreso Luzi, “me -no enfatica e ridondante di aggettividi quella del Salvatori”. In essa ilnotaio Simoni, già sindaco di Valen -tano, dichiarava che i 45 fiori di gio-vinezza valentanesi erano cadutiper unire alla Patria le italiche terree “per instaurare tra le genti il regnodel Diritto e nella società la Giu -stizia”. Concetti che suonaronocome troppo impegnativi e allar-manti e che spiegano perché neidecenni successivi Simone Simoni,primo notaio coloniale a Tripoli, neisuoi fermi principi di diritto e di giu-stizia fosse avversato dal fascismo,che lo espulse dalla Libia, lo destituìdella carica, lo carcerò e confinò.

per approfondire:R. Luzi, Valentano tra guerra e terra, in:

Atti del quarto convegno di Storia del Risorgimento,Viterbo, Agne sotti, 1990.

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Lapide ai Caduti di Valentano(foto Valter Cucchiari)

Si dice che non simuore quando siva sottoterra maquando dell’uomo

si perde il ricordo. Sequesto è vero - come èvero - i caduti di tutte leguerre i cui nomi restano

nella memoria collettivagrazie a monumenti, rie-vocazioni, cerimoniecommemorative, nonmoriranno mai: ogninazione, ogni città, ognico mune dedica ai proprimorti in eventi bellici

parchi, aree sacre, lapidi.Su di esse i nomi deglieroi - perché chi ha datola vita per la Patria ècomunque un eroe - sonoincisi a ricordare il lorosacrificio.Le parole che danno il

titolo a questa nota con-cludono la breve liricacon cui il sindaco diCapodimonte, dott.Giuseppe Micarelli, havoluto aprire la cerimo-nia rievocativa in onoredegli otto capodimontani

di PieroCarosi

Capodimonte …E noi cademmo per difendere

la nostra amata Patria

foto D’Onofrio

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decorati di medaglia dibronzo e croce di guerraper azioni eroiche com-piute nella prima guerramondiale, di cui nel 2008è ricorso il novantennale. Con non poca fatica lasegreteria comunale èriuscita a contattare iloro parenti ai quali èstata donata una copiadella bella pubblicazione- curata dal col. Vit to rioAnsalone, presidentedella sezione viterbese F.Muscaràdell’AssociazioneNazionale dell’AviazioneEsercito - in cui sono rac-colti tutti i decorati alvalor militare della primaguerra mondiale natinella nostra provincia. Lacerimonia di consegna,presenti oltre agli eredidei decorati stessi i rap-presentanti dell’ammini-strazione comunale, s’ètenuta presso la salaFanelli il 16 dicembrescorso.

Tempo fa eravamo in ottosulle rive del nostro bellago…

Rubo il verso con cuis’apre la poesia del sin-daco che, rievocandoun’immagine di fantasia,parla di otto amici cuiappare la visione d’un“fiume che rubava e por-tava via tanta acqua…”.Otto amici, come i nostriotto eroi decorati ed unfiume ladro che “portavavia tanta ac qua”: forsequel fiume è solo unametafora della guerra, laladra guerra che ha por-tato via, dal 24 maggiodel 1915 all’11 novembre

del 1918, più di mezzomilione d’italiani. Non èdifficile immaginarel’inferno degli assalti, del-l’avanzare sotto il grandi-nare dei proiettili, delmartellare delle artiglie-rie: è sufficiente leggerele motivazioni delle deco-razioni concesse ainostri compatrioti perrivivere quei drammaticimomenti:

BRANCIAGLIA MARIO diNapoleone, croce diguerra al v.m. (ten. cpl.effettivo al rgt. cavalleg-geri di Foggia) “Comandante di un ploto-ne montato, inviato sullasponda nemica di unfiume per appiedare aprotezione delle fanterie,assolveva brillantementeil proprio mandato, nono-stante il fuoco avversario,dando bella prova di ardi-mento”.

ERCOLANI CAMILLO diAlessandro, medaglia dibronzo al v.m. (caporalmagg. effettivo al 225°rgt. fanteria) “Graduato al ComandoBrigata dimostrava ordi-ne, slancio patriottico,intrepidezza di fronte alpericolo, serenità, accom-pagnava ufficiali in opera-zioni di pattuglia e torna-va loro di prezioso aiuto”.

ERCOLANI GIUSEPPE diFrancesco, medaglia dibronzo al v.m. (sold.effettivo al 90° gruppobombardieri)“Sotto violento fuoco diartiglieria, sostituiva ilcapo pezzo e, infondendocoraggio e calma nei com-

pagni, assicurava il perfet-to funzionamento dellasua bombarda”.

FAINA LETTERIO diFrancesco, croce di guer-ra al v.m. (sold. effettivoal 7° btg. r. guardia difinanza)“Disimpegnava il serviziodi portaordini con zelo edardire, attraverso terrenofortemente battuto dalnemico”.

FANELLI TOBIA di Pietro,croce di guerra al v.m.(caporal magg. effettivoal 37° rgt. fanteria)“Capo pezzo durante unospostamento attraversozona assai battuta, davabella prova di coraggio esereno sprezzo del perico-lo. Controbattuto efficace-mente dall’artiglieriaavversaria, faceva allon-tanare i serventi, rima-nendo solo a far fuoco”.

LUPI ARNALDO di Oreste,medaglia di bronzo alv.m. (sergente effettivobatt. bombardieri 33° rgt.artiglieria)“Offertosi spontaneamen-te a seguire un reparto difanteria all’assalto, riferi-va al comandante di que-sto notizie importanti sulnemico, e lo aiutava concoraggio a scacciarel’avversario da un cammi-namento, a far alcuni pri-gionieri e catturare unamitragliatrice”.

MANETTI G.BATTISTA diVincenzo, medaglia dibronzo al v.m. (sold.effettivo al 60° rgt. fante-ria)

“Porta ordini presso ilComando di compagnia,sotto violento bombarda-mento e nutrito fuoco difucileria, traversò ripetutevolte zone battutissime.Cadde colpito a morte nelcompiere il suo dovere”.

PANNUCCI UMBERTO diVittorio, medaglia dibronzo al v.m. (s.ten.effettivo al 1° rgt. artiglie-ria da campagna)“Incaricato del servizio dicollegamento, adempivail proprio compito conintelligente operosità,ardimento e sereno sprez-zo del pericolo. Feritodurante una ricognizionesulle prime linee, tenevafermo contegno, dimo-strando calma e altosenso del dovere”.

A conclusione di questabreve nota mi permettosuggerire all’amministra-zione comunale di onora-re questi nostri eroi inte-stando loro otto vie diCapodimonte: essedarebbero tangibile valo-re alle parole con cui ilgen. div. EmiddioValente, presidentedell’AssociazioneNazionale Aviazionedell’Esercito, chiude lasua presentazione allapubblicazione: “… siamofiduciosi che il ricordoglorioso di Coloro chefurono benemeriti dellaPatria torni ad essere con-siderato un vivo patrimo-nio di valori morali spe-cie a vantaggio dei giova-ni e delle future genera-zioni”.

IIIIsssscccchhhhiiiiaaaa ddddiiii CCCCaaaassssttttrrrroooo

di AngeloAlessandrini

IIII cccciiiippppppppiiii ddddeeeellll llllaaaaGGGGrrrraaaannnnddddeeee GGGGuuuueeeerrrrrrrraaaa ((((IIIIIIII ppppaaaarrrrtttteeee))))

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Ma come trascor-revano le giorna-te i soldati intrincea, in quelle

fosse scavate ad altaquota, dove stazionavanoin attesa dell’assalto, alfreddo d’inverno in mezzoa montagne di neve, sottola sferza del sole d’estate?La vita quotidiana di ognisoldato al fronte, prima diessere vita da combatten-te, era vita da operaio,carpentiere, minatore digallerie tra le montagne,portatore. Una vita in cui icombattimenti si alterna-vano ad un continuo ed

estenuante lavoro sia persopravvivere, sia per tra-sformare la montagna inuna fortezza.Un ex-combattente, CarloSalsa, scrive in un suolibro di memorie,“Trincee”: “E su, più inalto, tra i morti insepolti, isepolti vivi: le nostre bucheimbottite di fanti, minusco-le ampolle di vita in quelcimitero senza nome”.Così i giorni erano intermi-nabili, tra estenuanti fati-che o noia infinita, conun’alimentazione insuffi-ciente e spesso col morsodella fame. Scriveva il 1°luglio 1916 il tenenteFilippo Guerrieri ai suoifamiliari (“Lettere dallatrincea”, ed. 1969):“Mangio con avidità quel

po’ di roba che ogni tantoarriva: se nulla giunge, sicerca, si fruga negli zaini esi trova pur sempre unascatoletta di carne in con-serva, ottimo ripiego alpranzo non venuto, allafame atrocissima…”.Emilio Lussu, scrittorecontemporaneo che sitrovò a combattere inprima linea nel 1916sull’altopiano di A siago,nel suo noto romanzo “Unanno sull’Altipiano” ci par-tecipa l’amara, realisticariflessione dello statod’animo collettivo e deisingoli soldati in quellecondizioni: stato d’animodi annullamento psicologi-co e di istintiva temerarie-tà di fronte al pericolo nelmomento dell’assalto: “Ci

preferiscono affamati, asse-tati, disperati. Così non cifanno desiderare la vita.Quanto più miserabilisiamo, meglio è per loro.Così per noi è lo stesso,che siamo morti o chesiamo vivi.La vita di trincea, anche sedura, è un’inezia di frontea un assalto. Il drammadella guerra è l’assalto. Lamorte è un avvenimentonormale e si muore senzaspavento. Ma la coscienzadella morte, la certezzadella morte inevitabile,rende tragiche le ore che laprecedono”. “A distruggerci non è lamorte, ma la noia”, scrive-va un sottotenente allafamiglia. E lo psicologoFerrari, in un suo attento

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studio sui soldati al fronte,conclude che “l’annunciodi prepararsi per l’assaltoera accolto quasi semprecon gioia”.D’altra parte la duradisciplina imposta dalgenerale Ca dorna nonammetteva scampo. In unacircolare perentoriamenteordinava: “Nessuno deveignorare che in faccia alnemico una sola via èaperta a tutti: la via del-l’onore che porta alla vitto-ria o alla morte sulle lineeavversarie. Ognuno devesapere che chi tenti ignomi-niosamente di arrendersi odi retrocedere, sarà rag-giunto, prima che s’infami,dalla giustizia sommariadel piombo delle lineeretrostanti o da quello deicarabinieri incaricati divigilare alle spalle delletruppe, sempre quando nonsia freddato prima da quel-lo dell’ufficiale. Anche perchi, vigliaccamente arren-dendosi, riuscisse a cadervivo nelle mani del nemi-co, seguirà immediatamen-te il processo in contuma-cia e la pena di morte avràesecuzione a guerra finita”.A queste condizioni, solo

la pazienza, la rassegna-zione e la forza d’animodel fante-contadino pote-vano sorreggerne il mora-le. In trincea o negli assaltinon si contavano i feriti e imorti. Uno di questi,Attilio Frescura, raccontanel suo “Diario di un imbo-scato” (Cappelli, 1930):“Quando un soldato è ine-betito dal cannone dopoessere stato fermo al suoposto da cui, vivo, non puòmuoversi; quando è ferito,maciullato, morente, ripati-sce il suo martirio. Sotto laviolenza dello scontro ècaricato su una barella egiù, per ore, attraverso unastrada mulattiera su cui imuli si rifiutano. E i porta-tori sdrucciolano, inceppa-no, cadono. E il ferito urlacon tutta la sua carne stra-ziata… Accanto ad ognimorto vi è quanto gli vienetrovato addosso, nelletasche… Guardo: mezzosigaro toscano, delle mone-te, un borsellino, una lette-ra, un coltellaccio, unospecchietto, una scatola difiammiferi schiacciata perl’uso… Ah, la vita, la vitaracchiusa in quelle cosemiserabili che rappresenta-

no ciò che ci attaccava adessa: il denaro, il fumo,una donna, dei bambini,delle comodità…”.Leggendo queste pagine,si rivive in qualche modoil dramma che fu quellaguerra per i nostri soldati.Dei quali, per onorarne lamemoria e conservarne laidentità, riportiamo, comeper gli altri nel numeroprecedente della rivista,brevi notizie.

FANTI TOMASSO, di Pietroe Rossi Anna Maria, nato il10 settembre1885, soldatodell’8° reggimento fanteria,morto ad Ischia di Castro il16 settembre 1918 permalattia contratta in guer-ra.

BOTTONI EGIDIO, diVincenzo e CelestiniAntonia, nato il 6 settem-bre1884, soldato del 26°Reggimento Fanteria,morto per malattia contrat-ta in guerra nell’OspedaleMaggiore di Oneglia il 2ottobre 1917.

PAOLI RANIERI, di Pietro,nato il 16 giugno 1882 aMontopoli in Valdarno, sol-

dato del 7° reggimento fan-teria, morto il 19 marzo1917 sul medio Isonzo perferite riportate in combatti-mento.

BOZZINI GIUSEPPE, diLorenzo e BottoniFrancesca, nato il 19 otto-bre 1897, soldato nella 199°batteria bombarde, 51°gruppo, matricola n.9543,morto in seguito a bronco-polmonite influenzale nel-l’ospedale da campo 0142il 25 gennaio 1919, sepoltoa Monastir (Macedonia)nel cimitero degli Alleati.

GAVAZZI LUIGI, diGiovanni e PalombellaMaddalena, nato il 3 otto-bre 1896, soldato del 58°reggimento fanteria conl’esercito degli Stati Uniti,morto il 6 ottobre 1918 inFrancia.

BONFILI DESIDERIO, diGervasio e MonanniLorenza, nato ad Ischia diCastro il 24 maggio 1895,sergente del 23° corpod’armata, 37° reggimentoartiglieria da campagna,morto il 20 maggio 1927per malattia contratta in

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Soldati in ritirata a Caporetto: 24 ottobre 1917

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guerra; decorato con crocedi guerra, 18 agosto 1918.

MERLINI FILIPPO, diFerdinando e Gatti MariaDome nica, nato il 5 aprile1878 a Carpegna, soldatodel 71° battaglione m.t.,morto ad Attigliano il 26maggio 1918 per malattiacontratta in guerra, coniu-gato, di anni 40.

BESSI DOMENICO, diSaverio e Peroni Pietra,nato l’11 giugno1898 adIschia di Castro, soldato,disperso il 27 ottobre 1917a Codroipo in combatti-mento.

CAPOROSSI GAETANO, diCarlo e Agostini Maria,nato il 18 settembre 1897,caporale del 216° reggi-mento fanteria, 6a compa-gnia, matricola n. 5882,morto il 24 ottobre 1918per scoppio di bombardaitaliana a quota 141 nord-ovest di Nervesa, sepoltoa…(località non precisata).

AMICI ANTONIO, diDomenico e Lepri Angela,nato il 21 giugno 1898, sol-dato dell’83° reggimentofanteria, morto a Pistoia il19 aprile 1917 per malattiacontratta in guerra.

BELARDI FRANCESCO, diGeremia e RossiBernardina, nato il 26marzo 1889, ammogliatocon Mari Marianna; soldatodel 222° reggimento fante-ria, 1a compagnia, mortoper scoppio di granatanemica il 14 maggio 1917nelle trincee di quota 343in Val di Cava (Carso),sepolto a Val di Cava.

PELLICCIA PIETRO, diLuigi e Coraretti Maria,nato il 22 giugno 1899, sol-dato del 1° reggimentogenio, 51a compagnia zap-patori, matricola n. 2169,morto in seguito a scoppio

di granata nemica inSalettuol (medio Piave) il27 marzo 1918, sepolto inMacerata.

RONCA SANTE, soldato.Non sono state trovatealtre notizie.

SECCAVIGNE GIUSEPPE,di Carlo e Stendardi Rosa,nato ad Arlena di Castro il21 gennaio 1887, coniugatocon Campagna Elide, solda-to del 12° reggimento ber-saglieri, morto il 12 luglio1918 nell’ospedale militareRegina Margherita di Romaper malattia contratta inguerra.

GAVAZZI FRANCESCO, diDomenico e Squarcia Assun -ta, nato il 29 agosto 1898,soldato del 3° reggimentobersaglieri, morto il 19 gen-naio 1920 a Livorno permalattia contratta in guerra.

LAURA ALBERTO, diGiovanni e TiberiElisabetta, nato il 22 set-tembre 1887, caporalenella compagnia dei tirato-ri stabili di Levico(Valsugana), trovato mortoin combattimento sullaPunta Leve del MonteVerzena nella Val d’Assa il21 maggio 1916, sotterratoil 25 maggio 1916.

CAPOBIANCO ARMANDO,di Mariano e FriggeriMaria, nato il 6 dicembre1884, ammogliato, mugna-io, soldato del 207° reggi-mento fanteria, 2a compa-gnia; fatto prigioniero nelladisfatta di Caporetto il 26ottobre 1917, morto in pri-gionia il 5 gennaio 1918 aMilowitz in Boemia perpolmonite, sotterrato nelcimitero militare di quellacittà.

MAZZOCCHI TOMASSO,di Carlo e MarchiniLorenza, nato l’11 settem-bre 1884, soldato del 1°reparto speciale fanteriadisarmata di Vicenza,morto per malattia inseguito a fatto di guerra aVoghera, il 21 febbraio1918.

COSTANTINI DUILIO, diGiovanni, nato il 26 agosto1886 a Fabriano, caporaledel 130° reggimento fante-ria, morto il 13 luglio 1916sul Monte Zebio per feriteriportate in combattimen-to.

CELESTINI CARLO, diGiuseppe e di RinaldiCaterina, nato a Valentanoil 27 gennaio 1878, ammo-gliato con BattaglioniEufrasia di Cellere, soldatodel 2° reggimento artiglie-ria da fortezza, disperso il3 luglio1916 a La Spezianell’esplosione di un trenodi esplosivi in Viale SanBartolomeo, pontile Pirelli.

PIANTAMORE GIUSEPPE,di Lorenzo e Antonia Rosi,nato a Tuscania il 3 novem-bre 1894, ammogliato conMarucci Anna, soldato del36° reggimento artiglieriada campagna, 16a batteria,morto in Albania presso il146° reparto someggiato disanità per broncopolmoni-te il 21 settembre 1918,sepolto nel cimitero italia-no di Clisuro.

MARCOALDI GIUSEPPE,di Giuseppe e IntoppaVincen za, nato il 13 settem-bre 1881, ammogliato conDe Carolis Maddalena, sol-dato del 2° reggimento arti-glieria da fortezza, disper-so nell’esplosione di untreno di esplosivi in VialeSan Bartolomeo, pontilePirelli, La Spezia, il 3 luglio1916.(medaglia di bronzoal valor militare).

Il 47° cippo è alla memoriadi CAPOROSSI ARMAN -DO, di Peleo e di MenghiniOrsola, nato il 27 novem-bre 1919, sottotenente,morto il 17 dicembre 1941nell’ospedale da campo n.893 di Derna, durante laseconda guerra mondiale.

Dalla ricerca è, peraltro,emersa una cosa di rilevan-te interesse, che merita diessere presa in considera-zione. Altri due ischiani,che non figurano sulla lapi-de commemorativa delmonumento ai Caduti nelgiardinetto adiacente allascuola elementare, né suicippi commemorativi delParco della Rimembranza,caddero in quella guerra.Sono:

RINALDI DOMENICOANTONIO, di Gabriele eBiselli Lu cia, nato il 29 ago-sto 1876, soldato di fante-

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Il soldato Giulio Fabbrizi,fratello di Rosato, caduto in guerra

Un cavaliere di Vittorio Veneto,il sergente Ernesto Alessandrini

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ria del 208° battaglionem.t., ammogliato conButtarini Assunta, morto il9 dicembre 1916 a MalgaFieno, in seguito a ca dutadi valanga, sotto la qualerimaneva sepolto. (comunedi Ischia di Castro, registrodegli atti di morte dell’an-no 1917, parte II, n. 9).

DAMIANI LORENZO, diFrancesco e CiabattieriMaria, nato a Ischia diCastro il 1° luglio 1891, car-rettiere, soldato del 226°reggimento fanteria, 5a

compagnia, matricola25078, morto per ferita aseguito di fatto di guerra il6 luglio 1916 sul MonteZebio, sepolto alle pendicidel Monte Zebio.(comunedi Ischia di Castro, registrodegli atti di morte dell’an-no 1917, parte II, n. 10).Di quest’ultimo, nel regi-stro matricolare della clas-se 1891 presso l’archivio diStato di Viterbo, al numero23069, è riportata la con-cessione n.124716 del 2agosto 1923, alla memoria:“Autorizzazione a fregiarsidella Medaglia Interalleatadella Vittoria”.

Ci si chiede il perché diqueste omissioni. Semplicedimenticanza o leggerezza?Sarebbe grave. Ma è impro-babile, in un momento diparticolare sensibilità egeneralizzato riconosci-mento per i valori combat-tentistici nell’Italia del1923, anno di inaugurazio-ne del Parco dellaRimembranza ad Ischia diCastro. Questi due cippiverosimilmente potrebbe-ro essere scomparsi oessere stati utilizzati peraltro, quando il Parco fuoccupato dai tedeschi nel-l’ultimo conflitto mondialecome area di stazionamen-to e riparazione di auto-mezzi e macchine da guer-ra. L’omissione sulla lapide

del monumento ai Cadutisi spiegherebbe, poi, colfatto che chi ne compilòl’elenco negli anni ‘60,attinse certamente ai nomi-nativi dei cippi.Si potrà saperne di più, suquesto e su altro, appro-fondendo la ricerca nell’ar-chivio comunale, oggi, e datroppo tempo ormai pur-troppo, in stato di assolutaimpraticabilità. La nuovaamministrazione ne pren-derà certamente a cuore lasistemazione quantoprima, per quel rispetto econservazione della memo-ria che non può non farparte degli impegni priori-tari di un paese.E’, comunque, obbligomorale aggiungere sullalapide del monumento que-sti nomi, che con gli altriCaduti ischiani fanno partedel comune patrimonioideale della nostra storia;ed anche dedicare loro uncippo nel Parco, magari inoccasione della commemo-razione dei Caduti il 4

novembre.La guerra, che fece contarepiù di 600.000 soldati italia-ni morti e qualche milionedi mutilati e invalidi,immortalò e rese sacri nel-l’epopea nazionale i nomidel Piave, del MonteGrappa, del Carso, diTrento e Trieste e di tantialtri luoghi di combatti-mento. La battaglia diVittorio Veneto aprì leporte alla vittoria finale,con “le ragazze di Trieste”che cantavano ai soldatiliberatori: “O Italia, o Italiadel mio cuore / tu ci vieni aliberar”. Suonavano a diste-sa per la grande festa lecampane di San Giusto e ditutta Italia, quando il 3novembre 1918, alle ore 12,dal comando supremo ilgenerale Diaz inviava al reil proclama della vittoria:“…gigantesca batta-glia…fulminea avanza-ta…sfacelo totale del fronteavversario…nemico fuggen-te…”.Tornava la pace dopo

quasi quattro anni di dolo-re e lutti. Solo del Lazio icaduti furono 17.998, di cui12.420 della fanteria; 48 inostri soldati ischianicaduti. Furono dati onorifi-cenze e riconoscimenti:nella provincia di Viterbouna medaglia d’oro, 82d’argento, 60 di bronzo. Inostri Civitelli Giuseppe eMarcoaldi Giuseppe, comeesempi del dovere compiu-to fino all’estremo sacrifi-cio, ebbero la medaglia dibronzo alla memoria. Atutti i com battenti fu confe-rita dal presidente dellaRepub blica nel 1970l’onorificenza di Cavalieredell’Or dine di VittorioVeneto, tardivo riconosci-mento al valore di quei gio-vani, vecchietti ormai, cheavevano sacrificato allaPatria i migliori anni dellaloro vita.A distanza di quasi di unsecolo, il nostro ricordo litiene in vita; quella vita diqua che molti di loro ebbe-ro così breve.

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Monumento ai Caduti

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sopra elencati potevano essere con-servati a lungo permetteva che laloro preparazione potesse essere ini-ziata molto prima delle feste, sfrut-tando i ritagli di tempo che le sempreindaffarate donne riuscivano a strap-pare agli impegni quotidiani. Quindila sera, a veglia, si schiacciavano lenoci e le nocchie; un’altra sera lestesse venivano tostate con cura emesse nei barattoli chiusi ermetica-mente, pronte per essere miscelaticon gli altri ingredienti.

Le bucce delle arance e dei mandari-ni utilizzati per preparare i tozzetti ei croccanti venivano tolte con atten-zione dalla frutta, mentre quelle dellearance e/o dei limoni - utilizzati perpreparare i cavallucci e tutti gli altridolci - venivano grattugiate dallebambine sotto lo sguardo vigile dellemadri, che puntualizzavano conti-nuamente di limitare l’operazionealla parte esterna e colorata (gialla oarancione) evitando quella biancache è amarognola.

Prendo spunto per scriverequeste brevi righe da unfagotto di fogli e cartolineritrovato nell’archivio della

famiglia Mostarda di Bagnoregio,antica famiglia di giuristi oggi estinta,in specie avvocati e notai, discenden-te dal condottiero di ventura Mo-starda da Forlì (+ 1405). Ultimo espo-nente maschio l’avvocato CamilloMostarda (1914-1969). L’involucro ècostituito da un foglio di carta inte-stata: “Presidenza del Tribunale Civi-le e Penale di Viterbo”. A penna, conla grafia di mia nonna BernardinaMostarda, sorella di Camillo, si legge:“Fotografie - ricordini - cartoline - scrit-te dei soldati della Guerra 15/18 - foto-grafia di Mussolini”. Sono contenuteun centinaio di cartoline, lettere,fotografie e ricordini di soldatibagnoresi della Grande Guerra checorrispondevano periodicamentecon Riccardo Mostarda, padre diCamillo e Bernardina, avvocato enotaio, che sembra aver svolto unruolo di primo piano nel tenere saldii rapporti tra i soldati bagnoresi conle loro famiglie e più in generale conla loro città di origine, compreso ilcompito di comunicare ai familiari lamorte di un congiunto. Vi sono tra lealtre cose fotografie dei seguenti sol-dati: Pietro Scaramucci, RodunaroUrbani, Annibale Paolucci, Bonaven-tura De Sanctis, Arnaldo Agostini,Pierino Agostini, Angelo e NicodemoMancini.Tra questo materiale ho trovato trecartoline di Bonaventura Tecchi, laprima - illustrata con il panomaromadi Ponte Vecchio - scritta da Firenzeil 16 dicembre 1915 con le seguentiparole: “... verso il fronte: saluti e rin-graziamenti, Tecchi”. La seconda car-tolina fu scritta dal fronte il giornodell’“Antivigilia” di Natale del 1915(dalla “zona di guerra”), la terza dalmedesimo luogo il 27 gennaio 1916.

Bonaventura Tecchi nacque a Bagno-regio l’11 febbraio del 1896. A dician-nove anni partì volontario per il fron-te nonostante la possibilità di evitar-

lo: “Sia detto una volta per sempre -ebbe a precisare egli stesso - cheavevo insistito, come volontario diguerra, a far parte dell’esercito nono-stante una miopia superiore ai limitiprescritti pel servizio militare” (Barac-ca 15C, Milano 1961). Scarse sono letestimonianze dell’attività bellica diTecchi, se si eslcude una relazioneufficiale scritta nel maggio-giugno1917 (Azione della Brigata Arezzo).Più consistenti invece le notizie lega-te alla prigionia. Dopo aver trascorsogli ultimi mesi del conflitto come uffi-ciale di collegamento in un comandodi brigata sul Carso, Tecchi vienefatto progionerio dai tedeschi edestinato prima al campo di Rastatt,nel Baden, e poi a quello di Cellela-ger, a nord di Hannover. Qui trovaposto nella baracca 15C, la medesi-ma che ospita altri uomini di culturacome Carlo Emilio Gadda, Ugo Betti eFrancesco Nonni. Nei mesi della pri-gionia, dal febbraio al dicembre 1918,Tecchi scrive cinque quaderni, poiediti nel 1991 (Taccuini del 1918 sullaletteratura e sull’arte).In una intervista televisiva del 1969Gadda affermò: “Il caso mi diede comecompagno di prigionia BonaventuraTecchi, uno scrittore molto sensibile”,mentre tre anni dopo, in un’altraintervista, alla domanda se avesseamici al tempo della prigionia rispose:“No, veri amici no. C’erano i compagnidi baracca, che erano Tecchi e Betti.

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Ricetta delTortiglione o SerpenteFare una sfoglia con un uovo, duecucchiai di zucchero, un bicchie-rino di liquore a piacere (propriogusto), un cucchiaio di olio, labuccia grattugiata di un limone,cannella e vaniglia (a piacere), efarina quanto basta per renderel’impasto consistente ma nontroppo duro. Sulla sfoglia stesaspalmare la marmellata sopra laquale si distribuiscono 400 gram-mi di mandorle, noci e nocchiemacinate grossolanamente, 60grammi di cioccolato fondentegrattugiato, 150 grammi di zuc-chero, 100 grammi di uvetta, 100grammi di fichi secchi a pezzetti,buccia grattugiata di un limone,cannella e vaniglia (a piacere).Arrotolare la sfoglia, modellando-la o come un cerchio (serpenteche si morde la coda e guarnitodi due occhi) o come una S, pen-nellarla con l’uovo battuto. Cuo-cere nel forno a 180 gradi per 45minuti.

(ricetta di Idalba Cucchiari)

dallaTuscia Bagnoregio

Bonaventura Tecchivolontario nella Grande GuerraCento anni dopo (1915-2015), tre cartoline inedite

Luca Pesante

Tecchi era preoccupatissimo fino all’ul-timo del pensiero di quello che sarebbestata la sua fama nel mondo”.E proprio a quei mesi (luglio 1918)risale una bella pagina che Gaddascrisse sul compagno:

“magro, nervoso, dagli occhiali, ora unpo’ malato; è un signore del Lazio, alconfine umbro: Bonaventura da Bagno-rea. Come il suo grande omonimo econcittadino, ch’io venero nel 12.° delParadiso con fervore immenso, è unavolontà e un ingegno di prim’ordine,splendido esemplare della nostra stir-pe dov’essa è migliore; e un animooltremodo puro e onesto. Volontario diguerra, volontario in fanteria e sulCarso, volontario sul Col di Lana,volontario dopo esser stato esentato,ha due medaglie e tre ferite e mi egua-glia nell’ardore per la guerra; mi supe-ra certo per merito e per quello che sichiama lo ‘stato di servizio’. Giudiziomaturo, fermo, sicurissimo, in un’età incui sono rare queste qualità così nobili;è del ’96”.

Un ritratto che si compie anni dopoin Compagni di prigionia:

“Tecchi rientrava, con quella sua anda-tura tremenda di persona che s’è pro-posta camminare a tutti i costi, controa tutti. Riponeva i suoi libri, salutavabreve e secco, e come distratto ne’ suoiavventurosi pensieri, e un po’ stancodallo studiare. ‘Come va Gaddone? Hailavorato?’ mi chiedeva… togliendosi eripulendosi il pince-nez. Non osavo dir-gli la verità, tutto il lavoro erano stati ilsaccone e la barba e il far fronte allebestemmie bergamasche di Enzo, fiori-

te di qualche estrapolazione dal Penta-teuco. […] Natura nobilissima di giova-ne, tre volte ferito, [Tecchi] dividevacon me il mio rabbioso militarismo eguerrismo, con Betti e con gli altri com-pagni l’alto spirito di italianità, che lifaceva così puri nella mia idea”.

Dunque Tecchi diciannovenne èvolontario in guerra, e dopo averinviato poche parole da Firenze il 16dicembre durante il viaggio “verso ilfronte”, il giorno dell’“Antivigilia” diNatale del 1915 dalla “zona di guerra”scrive a Riccardo Mostarda: “TecchiBonaventura ufficiale nel 59° fanteria,12ª compagnia, zona di guerra”.

L’antivigilia di Natale 1915. Dalle lineepiù avanzate della nuova Italia, fra ilgelo e la tormenta, l’augurio più fervi-do pel Natale e l’anno novello. Il desi-derio dei combattenti bagnoresi è chedietro loro sia il paese concorde e fidu-cioso nei destini della patria rinnovel-lato da una redenzione non effimera,spirituale e economica. Saluti agli

amici. Venturino Tecchi.

Poco più di un mese dopo scrive unaseconda lettera, ancora indirizzata aRiccardo Mostarda:

27-1-916. Caro Avv., da otto giorni sonoin trincea nella primissima linea. Gra-zie a Dio, la pelle è salva, ma non lenascondo che il pericolo è stato estre-mo, alle volte tragico. L’altra notte hointeso l’imminenza della morte apochissimi (cento) metri. Relativamen-te alla posizione difficilissima e al tironemico le perdite della mia compagniasono state lievi, qualche morto e unaquindicina di feriti. Ho fiducia ferma difare sino all’ultimo giorno il mio dove-re. Tecchi

Non c'è molto da aggiungere a parolecosì pulite e semplici. Non sarà peròinutile ricordare giusto l’età del gio-vane che scrive: diciannove anni. Unragazzo diciannovenne che si trovaal fronte di guerra come volontario.

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dallaTuscia

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Dieci anni dopo Tecchi, a ventinoveanni, è direttore a Firenze di unodegli istituti letterari più prestigiosid’Italia: il Gabinetto Vieusseux, conuna grande carriera aperta fra lemani che lo porterà ad insegnare inmolte università europee e ad unintensissima attività di scrittore.Ogni comparazione con la nostraepoca sarebbe impietosa e forse inu-tile. Dunque da un lato c’è il coraggiodi un giovane bagnorese che nonesita a rischiare la morte per - comelui stesso ci dice - “una redenzionenon effimera, spirituale e economica”del nostro Paese. Dall’altro c’èun’Italia in cui è ancora tutto possibi-le, che permette ad un giovane talen-to neanche trentenne di raggiungerei vertici istituzionali della cultura.Erano anni segnati dal dramma delleguerre e degli eventi politici, ma altempo stesso straordinariamentevividi e fertili.Leggendo gli scritti di quel giovane cisi trova immersi in una curiositàintelligente impressionante, il rac-conto della valle di Bagnoregio, conl’occhio che cerca e si sofferma sullesfumatore di minuscole foglie o sullento lavorio del frantoio dell’oliodescritto a partire dal rumore delpasso di chi vi lavorava. E negli ulti-mi anni della sua vita, senza alcunaretorica, il ritorno alle origini nellaperfetta ammissione:

“Non sarei diventato scrittore, se nonfossi vissuto, nella mia fanciullezza,ogni anno, fra settembre e novembre,nella valle di Civita con la visionedavanti agli occhi del tufo dorato, deiruderi estrosi e luminosi del paese chemuore. Lì ho imparato ad amare lamalinconia di ciò che passa ed insie-me l’energia di chi, essendo uomo,cioè creatura spirituale, non vuol mori-re e spera nell’eterno” (Antica terra).

Manca oggi un uomo come Tecchi.Manca in generale quella curiositàintelligente, soprattutto nei giovani,che tutto rende possibile. Non ciresta che il tufo dorato e i ruderiestrosi e luminosi davanti ai nostriocchi. È una speranza forse vana, unalibi, che sposta tutto più in là (alibiin latino vuol dire altrove) ma èl’unico punto di partenza per unavera “redenzione non effimera”.

[email protected]

Sono quasi vecchio e senzavolerlo mi sento un po’ lamemoria di Civita, di questopaese che ormai vive solo con

poca gente. Nonostante la sua solitu-dine, specialmente quando si fa sera,ha ancora tante cose da raccontaresilenziosamente, come silenziose edeserte sono le sue vie.Qui e in tanti altri luoghi gli uominimi hanno insegnato a leggere e a scri-vere, ma è più il sapere che ho appre-so con la mia tenace volontà, facen-do mio il detto dell’Alfieri “Volli, sem-

pre volli, fortissimamente volli”. Il leg-gere, lo scrivere, l’aver conosciutoaltri paesi e l’aver vissuto altre espe-rienze, mi hanno insegnato a valoriz-zare tutto del mio paese, anche ilvento, quel vento che fa rimuginarenella mia mente tanti ricordi.

In questo nido di falco, dove vivomolti giorni dell’anno, sul far dellasera, quando le ombre si fanno piùlunghe ed il buio che sta per soprag-giungere serra la luce fino al nuovogiorno, tiro la porta di casa alle mie

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Un maggiodi tanti anni fa

GiuseppeMedori

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Era il 28 ottobre 1928 quando aSipicciano veniva inauguratoil monumento ai Caduti dellaprima guerra mondiale.

L’evento ebbe una grande risonanzanel piccolo paese della Teverina, poi-ché rappresentava non solo un tribu-to alla memoria dei combattenti sulCarso, sul Piave, sul fronte italo-austriaco, ma anche il trionfale risul-tato di una lunga, difficile, appassio-nata raccolta di fondi da parte ditutta la cittadinanza per poterlocostruire.Tutto comincia da una iniziativa del-l’allora medico condotto del paeseCesare Caccia il quale, insieme aEvaldo e Orlando Cipolloni, formauna piccola compagnia teatrale agliinizi degli anni venti del ‘900. Ad essasi uniscono poi altri paesani, tuttivolontari e senza conoscenze teatralispecifiche, ma tutti sorretti da unforte entusiasmo che permette lorodi cimentarsi in lunghe e divertentiprove di recitazione eseguite in qual-che casa o magazzino dell’anticoborgo.Nasce così la filodrammatica “CarloGoldoni” di Sipicciano, un sodaliziospontaneo sostenuto dall’OperaNazionale Dopolavoro (O.N.D.) pro-mossa nel periodo fascista, e che hacome repertorio le commedie deldrammaturgo di Venezia, ma anchequelle di Giuseppe Giacosa, di Nicco-lò Niccodemi, di Riccardo Melani,con grande partecipazione di pubbli-co e successi incoraggianti, tanto dafar partire un’altra iniziativa paesanaancor più importante e coinvolgente.Il dottor Caccia era da pochi annirientrato dall’orribile esperienzadella prima guerra mondiale e, cometanti altri reduci, aveva ancora vivo ilricordo delle sofferenze e delle atro-cità vissute al fronte contro gliaustriaci, come del resto aveva anco-ra impresse negli occhi le immaginidei compagni dilaniati dalle bombe edi quelli caduti sotto gli assalti con labaionetta. Tutti questi eroi meritava-no e meritano ancora oggi di esserericordati.E così una delibera dell’allora diretti-vo teatrale formato dai tre fondatori,

da alcuni consiglieri, e dalla direttri-ce artistica signora Maria Pepi, oste-trica del paese, decide di devolvereogni introito delle rappresentazioniper la realizzazione di un monumen-to ai Caduti, in memoria dei compae-sani vittime della prima guerra mon-diale.Per la filodrammatica il progetto ècertamente impegnativo, ma non perquesto tale da rinunciarvi, anzi. Irisultati lusinghieri ottenuti inizial-mente tra le mura paesane, spingonola compagnia teatrale a recitareanche nei paesi vicini, Bomarzo, Atti-gliano, Castiglione in Teverina, sinoal grande palcoscenico del teatrodell’Unione a Viterbo, dove mettono

in scena “Scampolo” di Niccolò Nic-codemi, ottenendo grande successoe richieste di nuove rappresentazio-ni.Al dottor Caccia si uniscel’entusiasmo della popolazione cheparallelamente dà inizio ad una rac-colta fondi per fare in modo chel’iniziativa si possa concluderepositivamente e in tempi rapidi. Enon mancano i contributi degli entilocali quali il Comune e l’UniversitàAgraria di Sipicciano, attestate daalcune delibere: un contributo di £.900 (delib. 31 dicembre 1924) ed unaltro di £. 1.500 (delib. 18 novembre1926); a queste seguiranno altre deli-bere di finaziamento.

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dallaTusciaSipicciano

Claudio Mancini

Il monumentoai Caduti

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Per la realizzazione del monumentosi pensa ad un artista di valore capa-ce di rispondere alle aspettative deisipiccianesi, un monumento che siain grado di trasmettere nel tempoquel sentimento di pietà e di ricono-scenza da parte di ogni parente econcittadino verso i propri soldatimorti per la Patria, un monumentoche differisca dai modelli canonici eche non si limiti solamente ad unatriste elencazione di nomi e gradimilitari.La scelta cade su Antonio d’Antoni,uno scultore romano poco più che

trentenne (17 gennaio 1894 - ottobre1969) ma artista già affermato e conun catalogo di opere prodotte ditutto rispetto, alcune presenti in col-lezioni private e altre esposte in luo-ghi pubblici.Le sue prime opere si ispirano ailavori del maestro Arturo Dazzi, dalquale aveva appreso la tecnica delmodellato lavorando esclusivamentein creta, e solo successivamentequella della scultura in marmo. Salvouna parentesi di circa quindici annitrascorsa a Milano e in Lombardiafra il 1943 e il 1959, il D’Antoni svolgela sua attività artistica prevalente-mente a Roma, seguendo gli insegna-menti di altri maestri quali Mangioni,Jerace e Quattrini, che gli consento-no di realizzare alcune statue inmarmo come il nudo femminileTigretta o la serie dei Putti, prodottitra il 1916 e il 1918, agli inizi della sua

carriera. A questi seguiranno altrilavori in marmo e in bronzo, come latomba della famiglia Cherubini aCapranica (Viterbo) e la baccantenuda Melanira, un bronzo nichelatocommissionato da una famiglia san-remese nel 1925.Ma fu certamente l’amicizia el’influenza del maestro brescianoAngelo Zanelli, famoso per aver rea-lizzato a Roma molte sculture al Vit-toriano, che gli consentono di ottene-re una serie di commissioni tra il1925 e il 1930 in occasione delle cele-brazioni indette per onorare i reduci

e gli eroi della Grande Guerra e chelo porteranno a lavorare per alcunicentri del Lazio, fra cui Sipicciano,dove Antonio d’Antoni progettal’“Ardito”.Si tratta di un soldato in bronzo agrandezza naturale, vestito con ladivisa militare in panno verde dellaprima guerra, con l’elmetto in testa eche tiene con la mano destra la Vitto-ria Alata.Come riporta il suo biografo Giovan-ni Giraldi nella pubblicazione “ANTO-NIO D’ANTONI, SCULTORE” del 1970, il pro-getto prevedeva inizialmente unarappresentazione diversa, compostasempre dalla figura centrale delfante, ma con un moschetto sullaspalla sinistra e un’aquila alpina sullamano destra al posto della VittoriaAlata, progetto ampiamente modifi-cato in corso d’opera per motivi anoi sconosciuti.A completamento poi dell’opera,l’artista romano era solito autografa-re i propri lavori con le lettere A.D.A.,iniziali del proprio nome e cognome,che nel caso del fante di Sipiccianosono presenti sulla nuca del soldato,proprio sotto l’elmetto di bronzo.

L’Ardito sormonta un cumulo di pie-tre e sassi a rappresentare le altevette dell’Italia Tridentina, triste sce-nario di indescrivibili fatiche e stenti,e di inenarrabili scontri all’ultimosangue.Molti giovani erano partiti per queiluoghi lontani: molti di loro eranoriusciti a tornare seppure mutilati oinvalidi, altri purtroppo erano mortisui campi di battaglia, senza daremodo ai commilitoni prima e ai fami-liari dopo, di recuperarne i corpi.Per questi ultimi, eroi della Patria edel paese, il comune di Graffignanoda poco costituito nel 1927 e al qualeSipicciano è stato aggregato, inaugu-ra il 28 ottobre 1928, anno VII del-l’Era Fascista, il monumento al cen-tro della piazza del paese con la par-tecipazione dell’autorità locali,l’immancabile banda cittadina “Amil-care Ponchielli”, anch’essa da pococostituita e diretta dal maestro Flami-nio Della Vicina, e i promotori del-l’iniziativa nonché finanziatori delmonumento.Una rara cartolina della fine deglianni Trenta testimonia la data di ere-zione del monumento: sulla colonni-na centrale, sotto il fascio littorio, silegge “28 OTTOBRE A. VII”, data scolpitanuovamente negli anni successividopo la rimozione del fascio “28-10-928 A. VII E. F.” sulla stessa colonnina.Si realizza così il sogno dei sipiccia-nesi che possono da quel momentoricordare i propri eroi caduti edispersi per la Patria, i cui nomi sonoregistrati in rilievo su una lastra dibronzo sotto il braccio nudo di unsoldato che tende una spada: sergen-te MORELLI PAOLO, soldato MORELLI CIRO,soldato GERI ALBERTO, soldato LUPINONELLO, soldato SAVINI ARMANDO, soldatoDOMINICI SECONDO, soldato SUONATO ENRI-CO, soldato MARCELLINI AMILCARE, tenen-te APOLLONI LUCIO CADUTO CIRENAICA1912.

Ma a questo triste elenco se neaggiugerà, purtroppo, uno più corpo-so con l’avvento della guerra d’Africadel 1936 e quella successiva dellaseconda guerra mondiale del 1944.Moltissimi saranno i ragazzi di Sipic-ciano ad essere chiamati alle armiper essere mandati in Africa Orienta-le e Occidentale, o essere inviati inSpagna con i reparti speciali del-l’O.M.S., o altri ancora a raggiungere

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Lo scultore Antonio d’Antoni (1894-1969) e (adestra) tracce del suo autografo (A.D.A.) sulmonumento

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gli angoli più sperduti dell’Europa delNord a combattere a temperatureproibitive. Molti di questi farannoritorno a casa, molti altri invecemoriranno sui campi di battaglia orisulteranno dispersi tra tanti altricorpi dilaniati e irriconoscibili.Il paese si appresta quindi a comme-morarli con una targa in marmo dafissare sotto quella in bronzo dellaprima guerra mondiale, ma deveperò affrontare le perentorie comuni-cazioni della presidenza del Consi-glio dei Ministri che, attraverso lavoce delle prefetture, intima ad ognipaese, Comune, cittadinanza cheabbia un monumento in bronzo, dirimuoverlo dalle rispettive piazze econsegnarlo all’Endirot (Ente Distri-buzione Rottami), incaricato tra glianni 1941 e 1942 di rimuovere tutti imonumenti in bronzo italiani, indi-stintamente, per il recupero deimateriali da utilizzare per gli arma-menti bellici. Nello stesso tempo lastessa presidenza del Consiglio dira-ma un’altra circolare datata 28novembre 1942 con la quale invita iComuni a fornire un bozzetto allaprefettura di altro analogo monu-mento ai Caduti da realizzarsi inmarmo, in pietra o in cemento persostituire quello rimosso. Alla rimo-zione dei monumenti in bronzo siaggiungono poi altre circolari chechiedono ulteriori sacrifici alle popo-lazioni con la rimozione e consegna

sempre all’Endirot, delle campanedelle chiese.Sono momenti difficili, drammatici,difficilmente accettabili di fronte alrischio di veder sparire in pocotempo i simboli della Patria e deipropri cari morti per essa, e quellireligiosi.Per fortuna, o forse per un inaspetta-to buon senso, tutto questo nonavviene. Ciò che sembrava un ordineirremovibile da parte del ministerodella Guerra si modifica in seguito aduna comunicazione della prefetturadi Viterbo che tranquillizza i Comunie la popolazione con la sospensionedelle ordinanze precedenti, sottoline-ando che “i monumenti in bronzo

dedicati a caduti o personaggi di rile-vante importanza storica, o di partico-lare attaccamento alle popolazioni”debbono essere conservati e quindinon più rimossi.Successivamente, su sollecitazionedella prefettura di Viterbo, il podestàdel Comune risponde con una letteradatata 18 gennaio 1943 con la qualeconferma che i monumenti di Sipic-ciano e Graffignano “mantengonoinalterata la loro struttura primitiva inquanto nessuna parte in bronzo risultaessere stata rimossa fin ora”.Viene così consentito alla popolazio-ne di Sipicciano di apporre unaseconda lastra commemorativa inmarmo con l’elenco dei Caduti e deidispersi della guerra d’Africa e dellaseconda guerra mondiale (1939-1944), dopo la conclusione del con-flitto: sold. BELLACANZONE ADRIANO, BIAN-CHETTI VITTORIO, c.n. CAPOCECERA ARMAN-DO, carab. GORINI GIOVANNI, sold. SANTORIINERIO, serg. m. DE TOGNI OTELLO, ten.capp. DON TRENTO BARBETTA, caduti inguerra; sold. SCARPONI VIRGILIO, SCARPONIRENZO, carab. SAVINI FERNANDO, mortiper malattia; g. fin. CAPITANELLI CARLO,c.n. BIANCHETTI EZIO, c. n. CELLETTI FEDERI-CO, c. n. EMILIANI NARCISO, cap.le MANNIGIOVANNI, c. n. VALENTINI FLORINDO, sold.LAMORATTA SEVERINO, sold. BARBETTACALABE, dispersi.

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Cartolina del monumentro (1930 circa) con colon-nina con la data di erezione

Lastra commemorativa in bronzo Caduti 1915-1918

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Il problema della corrispondenza con le famiglie siaccentuò con il fenomeno di prigionia di massa, checreò problemi logistici ed organizzativi fino ad allorasconosciuti. I prigionieri catturati dai due schiera-

menti in campo durante il conflitto sono stati ufficialmen-te stimati in otto milioni e mezzo. Solo i militari italianicostretti a vivere questa triste esperienza furono quasi600.000. Di questi, circa 280.000 furono catturati nelcorso della ritirata da Caporetto al Piave. Una volta che ifamigliari, dopo affannosa ricerca, riuscivano ad ottenereindicazioni precise sul disperso al fronte, ci si affidavaalla Croce Rossa per i rapporti epistolari e per l’invio dipacchi con provviste. La Croce Rossa Internazio naleaveva promosso e voluto la Convenzione di Ginevra chetutelava i prigionieri di guerra ed era praticamente la solache poteva permettere di comunicare oltre la linea delfronte, mentre l’Unione Postale Universale s’incaricò disorvegliare che gli stati belligeranti rispettassero le rego-le pattuite sul flusso di corrispondenza dei prigionieri,che sarebbe stata esente da ogni tassa postale. La corri-spondenza con gli internati doveva essere scritta inmodo chiaro, facilmente leggibile, così da agevolare laduplice operazione di censura, effettuata dagli addetti ita-liani e da quelli austro-ungarici. Per non andare incontroa sicura distruzione, le missive dovevano trattare soloargomenti privati e famigliari.Vari aquesiani vissero il dramma della prigionia inAustria e in Germania, come documentano le cartolineinviate ai famigliari a casa. Il 9 ottobre 1917, il prigionierodi guerra n. 171, Marsilio Palombini, detenuto a Sigmun-dsherberg, nella regione del Waldviertel (Bassa Austria),scriveva ai genitori in Acquapen dente, indirizzando lamissiva al padre Pietro Palombini:

Mie care genitori, rispondo alle 2 cartoline, la quale mianno assi-curato che state tutti bene e pure lemie fratelli midite che stannobene; quando mi scrivete mifarete sapere come va lacampagnia,eccome avete fatto lariccolta; ora vi faccio sapere che qua otrova-to il fratello di Gostanzo del Casino e gli farete tanti salute alla suafamiglia; perora ricevete tanti salute ebaci voi ettutti di casa.

L’interesse dei molti “soldati contadini” per il raccoltodei prodotti della campagna, preoccupazione vitale per ilsostentamento dell’intera famiglia, è vivo anche nella lon-tananza della prigionia. Altre missive ci mostrano, invece,come si cerchi di non rinunciare, nemmeno nella prigio-nia di guerra, alle abitudini alimentari mediterranee,come si evince dalla cartolina spedita, il 21 dicembre

1917, dal prigioniero di guerra Amilcare Zucca ad Acqua-pendente allo zio Stefano Zucca, abitante in Via dellaRugarella n. 19. Dal campo di prigionia di Minden inWestfalia, Zucca scrive:

Carissimo zio. È la 5ª cartolina che invio senza avere nessunarisposta. Spero presto riceve. La salute è ottima, il pensiero è moltoper il pacco che dovrò riceve in breve tempo. Dite alla Teresa chemetta dentro il pacco un pezzo di saponetta e un buon pezzo diformaggio per grattare nella pasta asciutta. Saluti baci a voi e tuttala famiglia.

Entrambe le cartoline, che erano il solo tipo di corrispon-denza concesso in partenza ai prigionieri, recano le veri-fiche dei controlli di censura.

“Noi” e la Grande Guerra IV parte Acquapendente

Giovanni Riccini

“Mettete dentro il pacco un pezzo disaponetta e un buon pezzo di formaggioper grattare nella pasta asciutta”

(segue dal numero precedente)

Cartolina Marsilio Palombini

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Il campo di prigionia di guerra di Sigmundsherberg, dacui scrive Palombini, era uno dei più grandi dell’imperoaustro-ungarico durante la prima guerra mondiale. Ini-zialmente destinato a prigionieri di guerra russi, dal 1916cominciò a riempirsi di prigionieri provenienti dal fronteitaliano e dovette essere ampliato; si arrivò a servirsi diletti a castello a tre piani. I problemi del sovraffollamentosi fecero sentire anche nell’ambito dell’alimentazione.Proprio dal 1917, quando scrive Palombini, la dieta risul-tò molto squilibrata, dato che si consumavano soprattut-to barbabietole, ed iniziarono gravi problemi di salute frai prigionieri. Inizialmente, infatti, i prigionieri italiani cat-turati al fronte godevano di buona salute ed erano ade-guatamente vestiti, ma dopo i ripetuti scontri sull’Isonzo,cominciarono a giungere prigionieri affamati, esausti eanche mal vestiti. Il grande afflusso di prigionieri portòsull’orlo del collasso il settore di prevenzione delle malat-tie, con gravi minacce di epidemie, fattori che consiglia-rono l’ampliamento dell’ospedale interno al campo.Durante i periodi estivi, si cercò di alleviare il sovraffolla-mento inviando un gran numero di prigionieri italiani alavorare nella realizzazione della ferrovia sopraelevatanel quartiere viennese di Floridsdorfer, progettata perfronteggiare le aumentate esigenze di traffico nella capi-tale austriaca, attraversata da un numero sempre piùingente di treni militari. Dal 1918, quando il campo di Sig-mundsherberg era sovraffollato di circa 7.000 prigionieri,co minciarono a scarseggiare anche gli indumenti per ireclusi e si dovettero utilizzare gli abiti di quelli deceduti,che venivano se polti nudi. Dopo la sconfitta austriaca di

Vittorio Veneto, il pri mo novembre 1918, gran parte delleguardie di Sigmundsher berg disertarono e i prigionieriitaliani, dopo aver organizzato una marcia all’interno delcampo senza essere stati ostacolati, ne assunsero ilcomando con il colonnello Menna, dichiarandosi soldatiliberi. Il 3 novembre veniva firmato l’armistizio tra Italia eImpero austro-ungarico e quattro giorni dopo gli ufficialiaustriaci di Sigmundsherberg venivano autorizzati alasciare il campo di prigionia. Solo il 2 gennaio 1919 gliaustriaci entrarono di nuovo in possesso del campo,quando il colonnello Menna e gli italiani rimasti lasciaro-no Sigmundsherberg. In totale, furono circa 100.000 gliitaliani che non tornarono più dai campi di prigionia, lamaggior parte dei quali morti di tubercolosi, di stenti e difame.

Da una dichiarazione giurata di un commilitone, delquale si ignora purtroppo il nome, rinvenuta tra ladocumentazione della prima guerra mondiale agli attidel Comune: Il soldato Romanini Clodomiro, visto cadere il proprio caposquadra, riconosciuto che, restando in quel punto, egli ed i suoicompagni sarebbero ad uno ad uno caduti senza alcun risulta-to, balza in piedi e con fare risoluto ed energico, lanciando unaformidabile sfida all’avversario, si butta attraverso al reticolatogridando: “Avanti, ragazzi / Sav. …”una pallottola nemica glitronca la parola; cade pesantemente a terra, ma il suo esempio,il desiderio di vendicarlo eccita i suoi compagni che con unbalzo raggiungono la posizione nemica e vi si mantengono.

Per ogni militare deceduto, generalmente il Comandoinviava al sindaco una nota per avvertire i familiari cheil defunto aveva lasciato dei beni: di solito erano mise-re cose come descritto in una lettera inviata dopo lamorte del soldato Bacci Olinto. Le cose da restituire aifamiliari erano: la corrispondenza, una cinghia dicuoio, un temperino, una saponetta, due mazzi di carteda gioco, delle pastiglie di menta, un pacchetto di siga-rette. Ben diverso se il militare aveva lasciato soldi oaltri valori e quindi la lettera elencava la proceduraper venirne in possesso.

Il caporale Salvatori Michele, classe 1890, residentenella frazione di Trevinano, usufruì di una licenzaall’inizio dell’anno 1917. Dovendo far saper al coman-do la destinazione di questa licenza decise di indicareTrevinano come meta del suo viaggio e non Montoriodi Sorano dove abitava la sua giovane sposa ritornatapresso la sua famiglia dopo la partenza per la guerradel marito (maggio 1915). A Trevinano abitava ancoral’anziana madre, vedova, e fu per riabbracciare pro-prio quest’ultima che la prima visita fu per lei. All’indo-mani partì a piedi per Montorio e la strada più breveda percorrere era quella che attraversava, nei pressi diProceno, il torrente Stridolone: e qui la tragedia. Il tor-rente in piena tradì il militare che annegò senza nem-meno rivedere la moglie, era il 6 gennaio 1917.

Nel 1915 Settimio Cesaretti è un giovane di 29 anni dapoco sposato con Giovannina Squarcia, da cui a giu-gno ha avuto un figlio. Come per tante altre giovanicoppie italiane l’entrata in guerra viene a sconvolgere

Cartolina Amilcare Zucca

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loro la vita: anche Settimio riceve la cartolina di richia-mo alle armi, 59° reggimento, Brigata Calabria. Almomento della separazione il giovane sposo vorrebbestrappare una promessa alla moglie, quella di nonrisposarsi qualora lui fosse morto in guerra. Giovanni-na ha solo vent’anni ed un figlio da crescere, ritiene lapromessa troppo impegnativa, promette però di esse-re fedele al marito finché lui sarà vivo. Settimio parteper il fronte alpino e nella primavera del 1917 un tele-gramma del ministero della Guerra ne dichiara lamorte in combattimento. Giovannina si veste a lutto,come si conviene, e inizia la sua nuova vita da vedovaquando, circa tre mesi dopo, riceve tramite la CroceRossa una cartolina di Settimio che, dalla prigionia, lechiede di inviargli del pane biscottato. La giovane moglie, dopo un momento di smarrimento,avendo riconosciuta la calligrafia del marito comeautentica si reca in Comune per chiedere spiegazioni.Dopo le prime perplessità degli impiegati comunali,iniziano gli accertamenti ed un successivo telegram-ma, datato 4 settembre 1917, dichiara Settimio prigio-niero dal 25 maggio. Uno dei figli di Settimio, Sante, oggi novantenne, ricordache il padre ha più volte raccontato, nel corso della suavita, del giorno in cui fu fatto prigioniero. La battagliasull’Hermada era stata molto dura, erano morti quasi

tutti quelli della suacompagnia; lui edun amico, Alessan-dro Colonnelli,erano riusciti aripararsi dietro unmucchio di pietreed entrambi furonoritenuti morti pererrore. Invece era -no stati fatti prigio-nieri dopo il rastrel-lamento da partedegli austriaci. Per Settimio e Gio-vannina la vicendasi concluse nelmigliore dei modi,lei evitò di risultarebigama ed al rien-tro la famiglia siallietò con la nasci-ta di altri cinquefigli: cosa sarebbesuccesso se nonavesse ricevutoquella cartolina?Oggi i nipoti dei

compagni d’arme, Pietro Cesaretti e Morena Ciacci, feli-cemente sposati, non sarebbero neppure nati.

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I testi sono tratti in gran parte dal volume “Ricordi di guerra. Acqua-pendente negli anni della Grande Guerra” a cura di Marcello Rossi /Acquapendente, Biblioteca Comunale - Archivio Storico, 2014

Un cannonepacifistaIl monumento ai Caduti

Sulla scia di tanti Comuni italiani anche Ischia neiprimi anni del fascismo voleva erigere un monumen-to ai compaesani caduti, pensato secondo lo stile e ledisposizioni in vigore. Una miriade di depliant e volu-

metti di cataloghi di privati scultori o di ditte specializzatecontenuti nell’archivio storico comunale testimonianol’interesse sia recettivo che pubblicitario nei confronti dellaspinta al monumentalismo commemorativo e propagandi-stico della prima metà degli anni ‘20. Nel 1923 si costituì in Ischia il “Comitato Effettivo pro eri-gendo Monumento ai Caduti” composto da tutte le perso-nalità più eminenti del paese e di cui presidente fu il pode-stà Ezio Caporossi. Il primo cittadino progettava un monu-mento che: “...immortalerà la memoria dei Gloriosi Concitta-dini ovunque e comunque caduti per la Patria ed attesterà labellezza ideale di quei purissimi che caddero...”. Per la suarealizzazione vennero fatti vari preventivi ma l’approcciopiù concreto il Comune lo ebbe con lo scultore romano Ber-nardo Balestrini, nel 1925, che per 25.000 lire era ben dispo-sto a realizzare il monumento scelto dal podestà Caporossie da lui preventivato. Si trattava di una Nike con in braccioun caduto dal volto appena accennato. Sarebbe stato postoal centro di Piazza Regina Margherita lungo la prima fila dialberi del largo dove si svolgevano i saggi dei balilla e altreliturgie fasciste. La targa commemorativa sul basamentodel gruppo scultoreo avrebbe riportato le parole scritte dalCaporossi: “Chi muore per la Patria è vissuto assai” e appro-vate dal P.F.N. di Viterbo. Nonostante lo stanziamento difondi per l’erezione di un monumento ai Caduti che arrivònel 1922 dalla sottoprefettura di Viterbo, e altro denarodestinato al monumento, il Comune non riuscì in queglianni ad affrontare la spesa. Il progetto degli anni ‘20 naufra-gò definitivamente quando arrivò in Ischia la circolaregovernativa del 7 aprile 1927, la quale dava disposizione aiComuni non in grado di erigere un monumento ai Caduti, di

Settimio Cesaretti e Alessandro Colonnelli

Ischia di Castro

MauraLotti

Cannone Skoda 73/13 mod. 15 del monumento ai Caduti di Ischia di Castro

destinare altrimenti il poco denaroraccolto ad opere assistenziali o dibeneficenza. Infatti il 3 dicembre 1927il podestà riunì il Comitato ed in taleseduta si deliberò che “…il Monumen-to ai Caduti non può erigersi per man-canza di fondi…”. Le £ 1396,45 che ilComitato era riuscito a raccoglierenegli anni furono in quella sede desti-nate a sanare il debito di £ 5986 che labanda cittadina aveva contratto perl’acquisto di strumenti musicali.

Dopo la fine della seconda guerramondiale venne considerata comemonumento ai Caduti la vecchia stelededicata alla memoria di Arnaldo Mus-solini, fratello deceduto di Benito,posta all’interno del Parco dellaRimembranza, ordinata nel 1934 dalCaporossi ed inaugurata l’annoseguente dal successore StefanoOrtensi. Nel nuovo ricorso storico ladedica fascista fu scalpellinata, lastele voltata e vi venne inciso Ischia diCastro Ai Caduti per la Patria. Ischia dovette aspettare cinquant’annidallo scoppio del primo conflitto mon-diale per avere il suo vero e propriomonumento ai Caduti. Il sito sceltoper ospitarlo racchiudeva nella suaubicazione la storia delle letture pas-sate dell’epopea della “grande guer-ra”. Infatti non lo si eresse al Parcodella Rimembranza, bensì nel giardinodell’allora nuovo edificio scolastico edell’An tiquarium, strutture recente-mente adibite a centro giovanile,biblioteca comunale e museo civico. Ilmonumento lì posto stava a ricordarealle giovani leve lo spirito dei loro pre-decessori “piccole guardie d’onore”, acui tanta parte dell’istruzione dedicòl’uso di un certo patriottismo; d’altrocanto, un posizionamento attiguo almuseo lo rendeva testimone della sto-ria paesana.

Questo monumento consta di un’altastele verticale riportante i nomi deicaduti nei due conflitti mondiali, a cui

pochi anni fa sono stati aggiunti duenominativi su ricerca e interessamen-to del Dott. Angelo Alessandrini; difianco ad essa vi è un cannone poggia-to su un basamento calcareo recantela targa: Cademmo per lasciarvi laPatria libera e unita. La targa originariariportava: Cademmo per lasciarvi laPatria più grande libera e unita. Ai lativennero posti due cipressi.Il cannone scudato, uno Skoda 75/13mod. 15, fu donato alla comunità dal-l’allora ministro della Difesa GiulioAndreotti, che nelle ricorrenze di que-gli anni si prestò nella sua figura istitu-zionale a commemorazioni ed elargi-zioni per le stesse. L’obice da 75/13prodotto dalle fabbriche Skoda nel1915 fu una preda bellica del regioesercito italiano, sottratto alle truppedi montagna dell’imperial regio eserci-to austroungarico. Il monumento fu inaugurato l’8 maggio1964 e il taglio del nastro fu effettuatoproprio dal ministro Andreotti. Ladata dell’inaugurazione ricadeva ilgiorno dedicato al “Ricordo e Riconci-liazione per coloro che hanno perso lavita durante la Seconda Guerra Mondia-le”. Un filmato vdell’Istituto Luce testi-moniò l’evento. Ad affiancare edaccompagnare il ministro vi eral’allora sindaco Giuseppe Mari, con alseguito il vescovo Luigi Boccadoro edil parroco don Antonio Papacchini.Come la sua ubicazione, anche la fat-tura del monumento non sembra esse-re casuale: un cannone, che primasparò contro gli italiani e poi controgli austriaci, usato nuovamente nellaseconda guerra mondiale contro itedeschi per il suo buono stato e perla caratteristica versatilità, che attra-verso mezzo Novecento ha fatto partedella nostra storia bellica, e messofiero davanti ai nomi dei nostri Cadutinell’atto di sparare a salve in loroonore. Le prime parole del discorsoinaugurale del ministro Andreottifurono: “Volontà di pace”.

Questo monumento non èl’opera di una mano artistica,idealizzante e astratto, ten-dente alla rappresentazionedi qualche virtù militare opatriottica, ma è un cimelioreale e nomi reali, a omaggiodocumentale di un momentostorico.

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Trentasette furono le meda-glie al valor militare attribui-te ai soldati montefiasconesinel corso della prima guerra

mondiale, a fronte di “soli” ventisetteconcittadini valorosi. Ciò significache alcuni di loro furono ripetuta-mente valorosi tanto da meritare piùriconoscimenti. I più decorati furo-no: Furio Monticelli (4), GiuseppeContadini (3), Wolfango Fazi (2),Angelo Mezzetti (2).

Come sempre avviene durante leguerre, ci furono anche coloro che,seppur non furono eroi, compironougualmente e correttamente il pro-prio dovere, magari in maniera ano-nima ma efficace, portando il loroattivo contributo così come sepperoe poterono fare. Altri soldati, di cuinon ci si può dimenticare, rimaseroinvalidi o menomati affrontando pertutto il resto della propria vita ulte-riori sacrifici, privazioni e difficoltà,ben consapevoli del proprio “carna-le” contributo.

Altri ancora, purtroppo, non furono.Non furono in alcun modo perché,parafrasando il poeta, il coraggionon lo avevano e non se lo potevanodare. E seppur quest’argomento èpoco trattato, come in ogni guerra cifurono anche costoro, cui mancò lafermezza d’affrontare il nemico. Nonfurono pochi questi “senza coraggio”che tecnicamente, secondo il codicemilitare, si dividono in due categorie,renitenti e disertori. I primi erano(oggi non più) ancora soggetti “civili”da arruolare che non rispondevanoalla chiamata di leva militare e fuggi-vano o non si presentavano al dovu-to controllo, con il quale s’intendevaaccertare la loro idoneità fisica, psi-chica e attitudinale, in base al qualepoi erano dichiarati idonei all’arruo-lamento o meno. I secondi, invece, pur vestendo gliabiti civili, erano già stati giudicati

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Ischia di Castro, Largo Cavalieri di Vit-torio Veneto, 8 maggio 1964. GiulioAndreotti, il sindaco Giuseppe Mari, ilvescovo Boccadoro e il parroco donAntonio Papacchini che inaugurano ilmonumento

Soldativalorosi e no

NormandoOnofri

Montefiascone

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“abili e arruolati” al termine delle verifiche attitudinali, equindi erano pienamente soggetti alle leggi militari diallora per, eventualmente, rispondere alle chiamate mini-steriali. Essi, pur rimanendo “civili” fino al giorno dellamobilitazione o del richiamo alle armi, dovevano rispon-dere pienamente alle sanzioni del codice penale militare- di pace o, più aggravato, di guerra - qualora non si pre-sentavano al Corpo/reparto di appartenenza o lo abban-donavano senza permesso.

Montefiascone non fu un’isola felice dispensata dal con-tare alcuni “figli minori” che disertarono. Non volendoentrare nel privato di scelte sicuramente sofferte e moltopersonali, interessa, invece, evidenziare come avvenneche tanti altri nostri concittadini, oltre un centinaio, ini-zialmente furono dichiarati renitenti. Quell'accusa ingiu-sta, di cui poi molti furono mondati, scaturì in realtà dalloro stato di emigrati all’estero per scarsezza di lavorointerno, e pertanto la mancata presentazione alla levamilitare non fu dovuta a viltà ma esclusivamente alla loroassenza dall’Italia per cercare un lavoro all’estero.

Accadde così che nella stessa situazione dei renitentimontefiasconesi si trovarono migliaia di altri connaziona-li. Quando finalmente il ministero della Guerra s’avvide diciò e del loro elevato numero, emanò una normativa perconcedere l’opportunità, a chi lo desiderava, di poter

rientrare in patria senza essere sottoposto alle sanzionipreviste dal codice militare di guerra e, quale ulteriorefacilitazione, fu anche offerto a titolo gratuito il bigliettodi rimpatrio in Italia. A quel punto, molti furono gli emi-grati italiani che, per spirito patriottico o altro,s’avvalsero di questa possibilità e rientrarono in patriaper andare “alla fronte” (nella parte iniziale del conflitto,si usava il genere femminile).

Secondo la legislazione del Paese dove erano emigrati, siverificò per alcuni italiani la possibilità di optare tra ilrientro in Italia oppure il vestire direttamente la divisadella nuova patria. Ciò avvenne in particolare per gli emi-grati negli Stati Uniti d’America. Tra quest’ultimi sono daricordare due concittadini accomunati nell’anno 1918 daun tragico destino di morte. Emigrati negli USA per lavo-ro, optarono per l’arruolamento con l’esercito di quelpaese e, vestita la divisa di quella nazione, furono imbar-cati per l’Europa a combattere il comune nemico tedescoin terra di Francia, sulle Argonne. Il primo si chiamava Domenico Benedetti, era un marine,l’equivalente del soldato di fanteria, e morì a trentunoanni l’otto agosto; il secondo, Giovanni Porroni, era ungiovane ufficiale di ventitré anni, con alle spalle una sto-ria sentimentale non bene definita e che comunque anchelui perse la sua giovane vita il sei ottobre in terre lontanesia dalla vecchia patria italiana sia da quella di nuovaadozione.

Le salmedi questidue con-cittadinif u r o n oriportatein Italianel set-t e m b r e1922 eM o n t e -fiasconein quellaoccasio-ne tribu-

tò ai caduti il massimo degli onori predisponendo addi-rittura un piccolo monumento funebre ove far riposare iloro resti mortali. Ancor oggi quel piccolo sacello è benvisibile al cimitero nel secondo riquadro a sinistra delvecchio ingresso monumentale.

Da “Montefiascone e la Grande Guerra” dello stesso autore,

presentato nella sala consigliare di Montefiascone il 21 novembre 2015

[email protected]

Nota dei “renitenti” montefiasconesi classe 1895. E’ ben evidente il loro statodi emigrati in America

Visione d’insieme e particolaredel piccolomonumentofunebre aPorroni e Benedettinel cimiterodi Montefiascone

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Mariano Ghezzi di Sinalunga,medico a Castro all’iniziodel 1600, in una preghieraalla Vergine Assunta protet-

trice della Città di Castro, la supplicavadi tenere lontane dalla città la Peste ela Guerra. I due cavalieri dell’Apocalisse, accom-pagnati dalla penuria alimentare (laCarestia, il terzo cavaliere nero), fece-ro la loro cavalcata mortale nel 1918,ultimo anno della Grande Guerra altermine della quale nel mondo si con-tarono circa 10 milioni di Caduti. Aisoldati caduti si aggiunsero i mortidovuti all’influenza della Spagnola trala popolazione mondiale, la cui stimaè calcolata tra i 50-100 milioni; in Italiatra i 700 mila e un milione, vale a direun numero maggiore rispetto ai 650mila Caduti in guerra. L’influenza e lecomplicazioni polmonari della pande-mia (il cavaliere verde) fecero più vit-time degli eventi bellici.

L’influenza, descritta come la piùgrave forma di pandemia della storiadell’umanità, ebbe origine negli USA(Kansas) nel marzo 1918. I primi con-tagiati furono i soldati statunitensi, epoi da questi, con il loro arrivo adaprile in Europa, l’epidemia fu segnala-ta in Francia tra le truppe franco-bri-tanniche e la popolazione civile e suc-cessivamente, a partire dal mese digiugno, anche in Inghilterra e in Italia.Le fu dato il nome di “Spagnola” per-ché la sua esistenza fu riportata solodai giornali spagnoli che non eranosottoposti alla censura di guerra, poi-ché la Spagna era un paese non belli-gerante. Negli altri Paesi il violento dif-fondersi dell’influenza venne tenutonascosto dalle autorità con dispaccirassicuranti circa la facile prevenzio-ne e cura dell’influenza (Italia, ministe-ro dell’Interno, 20 ottobre 1918) e daimezzi d’informazione che tendevano aparlarne come di un’epidemia circo-scritta alla Spagna e facilmente curabi-le (dentifricio Zarri; acqua di coloniaPIM) come si poteva leggere negliinserti del Corriere della Sera, dellaDomenica del Corriere.I sintomi dell’influenza Spagnola simanifestavano inizialmente come maldi testa, dolori lombari, tosse, febbre e

polmonite; ben presto poi il corpo rea-giva riempiendo i polmoni di sangue econ sanguinamenti dalla bocca, dalleorecchie o dal naso, e da qui infine lamorte. Recenti esperimenti hanno ten-tato di capire il perché della straordi-naria virulenza e letalità della Spagno-la. Una delle conclusioni più accredita-te è che quell’influenza possa avercausato una vera e propria “tempestadi citochine”, sostanze che sono nor-malmente prodotte dalle nostre difeseimmunitarie ma che un rilascio spro-porzionato può causare una reazioneimmunitaria polmonare eccessiva e diconseguenza determinarne le compli-canze letali. I giovani in buona salute econ un sistema immunitario moltorobusto possono avere tempeste dicitochine più facilmente di personecon un sistema immunitario debole(anziani); da ciò anche il loro più altonumero di morti rispetto ai vecchi.Nei Paesi belligeranti il lutto privatodella pandemia fu oscurato rispetto aquello collettivo legato alle morti“eroiche e sante” in guerra, sicché deisoldati contagiati e morti per Spagno-la non è possibile precisare i numeri.In Italia sembra che il contagio abbia

avuto origine tra i soldati nelle retro-vie del Vicentino e che da loro la pan-demia sia stata estesa poi sull’interofronte per proseguire, con il rientro acasa dei soldati per la licenza militare,all’intera popolazione della Penisola.Dei sei militi valentanesi morti in pri-gionia (tutti nel 1918) quattro lo furo-no per malattia.

Qualche frammento di quella luttuosaesperienza l’ho ascoltata nella miainfanzia (ad Onano) dai racconti dellanonna Nina; l’ho poi astrattamenteappresa dai libri; l’ho infine concreta-mente e drammaticamente incontrata,unitamente all’amico Livio Fornari, neiverbali delle delibere di giunta ed ordi-nanze, nel registro dei defunti dellaparrocchia di San Giovanni Evangeli-sta, e più ancora nelle strazianti richie-ste che alcuni privati cittadini, nel lorodolore e nella dignitosa indigenza,indirizzarono al sindaco per riceveredal Comune di Valentano un aiuto perl’acquisto della cassa da morto per lamorte di uno o anche più congiunti,talvolta nel breve termine di pochigiorni. Per rispondere all’emergenza,il cimitero restò aperto ininterrotta-mente, giorno e notte, per consentirela tumulazione delle salme.I dati registrati nella documentazioned’archivio ci fanno conoscere che aValentano nel 1918 si contarono 153morti, contro una media annua di 50-60 decessi su una popolazione di 3.330- 3.400 unità. Il picco dei morti lo siebbe nei mesi autunnali, massimo nelnovembre 1918, quando sono registra-ti 45 decessi (con l’apice nella settima-na dal 6 al 13). I giorni della grande vit-toria italiana nella guerra contro gliImperi Centrali furono per Valentanoquelli nei quali le lacrime scesero tra ildolore privato e la gioia collettiva,

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Valentano

1918: la letale epidemiadi “Febbre Spagnola” Bonafede Mancini

Albrecht Dürer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse(ca. 1497-98)

Ospedalemilitare

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l’esultanza per la nuova Italia e il dolo-re per i tanti lutti della pandemia.Nella ricorrenza dei Santi e dei Defun-ti (1-2 novembre), su richiesta dell’uf-ficiale sanitario (dottor Berardi), il sin-daco Cruciano Cruciani diffusel’Ordine (31 ottobre) di chiusura com-pleta al pubblico del cimitero “permisure igieniche profilattiche, in riguar-do all’attuale epidemia d’influenza,nonché che vi si celebrassero funzionicommemorative religiose di sorta”.Il precedente 14 ottobre 1918 ilComune aveva emesso un’Or dinanzanella quale erano fissati i rigorosidivieti che i cittadini valentanesi dove-vano osservare “per la urgente necessi-tà di provvedere al risanamento igieni-co del paese per impedire la eventualediffusione di malattie infettive”. Dell’ordinanza fu data stampa permanifesto pubblico e per foglio(Valentano, Tipografia F. Martello),consegnato quest’ultimo ad ogni fami-glia. La lunga e dettagliata ordinanzaseguiva ad un bando diffuso il 2 otto-bre nel quale il sindaco aveva già ordi-nato ai proprietari di “sgomberare leproprie stalle, con il trasporto del leta-me da eseguirsi durante la notte e nelleprime ore mattutine”; nonché ai pos-sessori di maiali di porli “in appositecapanne ad una distanza di 200 metridalla periferia dell’abitato”. Semprenello stesso giorno furono aumentati ipubblici scopini, praticate ampiedisinfezioni a mezzo di sublimato,creolina, e latte di calce.“Nonostante tali preventivi provvedi-menti igienici, si presentò qualche caso

del morbo perché importato da fuori, eil primo decesso si ebbe il giorno 13[ottobre] che allarmò subito la popola-zione; allora il successivo giorno 14 sipubblicò la ordinanza a stampa” dellaquale si è detto sopra. Il verbale diconsiglio n. 1739 del 28 ottobre 1918c’informa ancora che: “moltiplicandosigiornalmente i malati ed essendosi dalgiorno 13 al 23 verificati 11 decessi,venne il 24 telegrafato all’Ill.mo Sig.Prefetto e all’On. Deputato del Collegiochiedendo 4 militari per il servizio dipolizia mortuaria e d’igiene, un medicomilitare onde non venisse a mancare lanecessaria assistenza sanitaria e l’inviodi disinfettanti e Cordiali. Fu dispostoper l’aumento di letti al Civico ospeda-le e perché una squadra di volontarisupplisse alla deficiente assistenza deimalati. Si provvide altresì perl’immediato trasporto dei deceduti alcimitero, sia di giorno che di notte ed aun sufficiente deposito di casse mortua-rie […]. Soggiunse il Sindaco che idecessi fino ad oggi sono stati 15 e assi-cura che nulla verrà trascurato affinchél’epidemia verrà arrestata”. (archiviocomunale di Valentano, deliberazioniconsigliari 1912-1918, c. 7, pp. n. nn)L’operato dell’amministrazione, rico-nosciuto encomiabile dai convenutialla seduta di consiglio, non potevaessere affatto risolutivo del problemain quanto non vi erano ancora medici-nali (antivirus) in grado di combattereil mortale virus, eccezionale sia perampiezza che per virulenza, e scono-sciuto ai testi di microbiologia; mostraperò quanto l’amministrazione comu-

nale fosse stata accorta e solerte nel-l’agire contro l’epidemia. Utili informazioni e dati sono contenu-ti anche nel successivo verbale diseduta n. 1745 del 15 dicembre 1918,nel quale sono state registrate, oltrealle spese occorse al Comune perl’acquisto dei disinfettanti, anchequelle per l’acquisto di: “40 casse mor-tuarie di varie misure a £. 65 in mediaciascuna per un totale di 2.660 Lire”. Lacarenza del legname ne aveva nel frat-tempo fatto aumentare il prezzo. In apertura di consiglio il sindaco avevaricordato che in virtù dei provvedimen-ti adottati per combattere la Spagnolagià nella precedente seduta del 28 otto-bre n. 1739: “la mortalità comparsa dellamalattia nei primi di ottobre ad oggi èstata di 44 individui, mentre quasi ovun-que dei Comuni limitrofi ha assunto pro-porzioni allarmanti”. (archivio comuna-le di Valentano, deliberazioni consiglia-ri 1912-1918, C. 7, pp. n. nn)Il registro dei morti della parrocchia diSan Giovanni Evangelista di Valenta-no, per gli interi mesi di ottobre,novembre e dicembre 1918 ha censitorispettivamente 33, 45 e 13 morti, perun totale di 91 decessi e non propria-mente 44 come detto dal sindaco. Siprecisa in merito che gli atti di morteredatti dal parroco, don FrancescoSperapani, corrispondenti e omogeneia quelli dell’ufficiale dello stato civiledel Comune, non recano la causa deldecesso, ma appare evidente che idati numerici dichiarati in sede di con-siglio dal sindaco non risultano coe-renti con quelli contenuti nei registridei decessi. D’altronde non si puònemmeno ritenere che l’eccedenza trail numero dei 91 decessi registrati dalparroco e i 44 dichiarati dal sindacosia esclusivamente dovuta a morti peranzianità, a malattie di altra natura, adincidenti. Le morti al contrario sonoperlopiù di bambini e delle giovani: lagran parte dei maschi adulti erano alfronte. Fatto è che nel 1918 il registrodella parrocchia conta 153 morti (contrascrizione postuma di un altrodecesso: 154) contro i 90 del 1917, i 51

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Epidemia di Spagnola, personale sanitario

Distribuzionedi rancio

tra i soldati austriaciprigionieri

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del 1916, i 59 del 1915, i 60 del 1914. Idati relativi alla mortalità tornano astabilizzarsi sui livelli anteguerra apartire dal 1919 con 48 decessi, 58 nel1920 e 51 nel 1921. Ad esclusione giàdel 1917, quando i morti risultano

pressoché raddoppiati rispetto al pre-cedente anno, con un picco di 26decessi nel mese di dicembre (23 deiquali di bambini tra 1 e 5 anni), i nume-ri dei morti sono rimasti sostanzial-mente stabili e omogenei fino al 1916 e

poi a partire dal 1919 (archivio parroc-chiale di Valentano, Liber Mortuorum1914-1921, DEF. 13, pp. n. nn). Resta inogni modo da spiegare, ma non ne sodare la certa motivazione, quale siastata la causa dell’alta mortalità regi-strata nel 1917 (ott. n.11; nov. n. 6; dic.n. 26; e continuata nel mese di genna-io 1918 con altri 13 morti): né la Spa-gnola (comparsa solo nell’autunno delsuccessivo anno), tantomeno i soldativalentanesi caduti sul fronte di guerra(11 nell’intero anno). Cresce invece ilsospetto che possa trattarsi di qual-che altra pandemia virale, forse ence-falite letargica, o dei più tradizionalicolera, malaria, tifo, carbonchio.

Dalla narrazione ometto di citare i luttie gli intensissimi dolori provati dallefamiglie valentanesi colpite dalla Spa-gnola per non violarne i sentimenti ela privacy, ma nei termini della varie-gata casistica rientrano, accanto allegenerali condizioni di povertà e diindigenza derivati alla popolazionedalla guerra, i casi di un vedovo rima-sto solo con una bambina di 13 giorni,di un cieco rimasto solo per la mortedella moglie e della figlia, di due bim-betti orfani dei genitori, di una vedovarimasta senza figli. E così la supplica che M. Ghezzi avevarivolto alla patrona di Castro, la Vergi-ne Assunta, evoca al presente il timo-re per risveglio di qualche impazientecavaliere bianco.

Centenario della Grande Guerra: l’albero della rimembranza

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Campo di prigionia di Milowitz (oggi Milovice), nella repubblica ceca, a una cinquantina di chilome-tri a nord-est di Praga, dove morirono per malattia un numero imprecisato di soldati italiani prigio-nieri, quasi tutti nell’ultimo anno di guerra. Tra di essi, il fante Giovanni Santi di Valentano (classe1895), che vi morì il 22 febbraio1918, e il fante Giuseppe Di Michele di Piansano (classe 1881) chevi morì per enterite appena quattro giorni dopo, il 26 febbraio.

Anno Decessi

1914 60

1915 59

1916 51

1917 90

1918 153

1919 48

1920 58

1921 57

Anno 1918 Decessi

Gen. 13

Feb. 7

Mar. 6

Apr. 7

Mag. 5

Giu. 3

Lug. 8

Ago. 8

Set. 4

Ott. 34

Nov. 45

Dic. 13

Totale 153

(archivio parrocchialedi Valentano, Liber

Mortuorum ab anno1914 ad annum1921, DEF. 13)

(http://www.tuttitalia.it/lazio/27-valenta-no/statistiche/censimenti-popolazione/)

Censimento anno: Popolazione residentea Valentano

1871 2.650

1901 3.356

1911 3.414

1921 3.392

Come ogni anno, l’amministrazione comunale di Valentano hacelebrato la ricorrenza del 4 novembre, festa dell’Unità Nazio -nale e delle Forze Armate, con la deposizione della corona al

monumento ai Caduti della Grande Guerra (1915-18) alla presenzadelle autorità civili, religiose e militari. Ospiti d’onore, gli studentidella scuola primaria e secondaria di primo grado di Valentano, cheattraverso significative letture hanno ricordato i valori e gli ideali sucui si fonda la realtà locale e nazionale. Messaggi di pace che sonocontinuati negli interventi del sindaco (Franco Pacchiarelli) e del vice-sindaco (Leonardo Ricci) rivolti alla comunità, all’Italia e all’Europa,che a cento anni dal primo conflitto mondiale ne hanno voluto ricor-dare i lutti e le distruzioni.Il centenario è stato anche l’opportunità per piantare un giovane albe-ro (cipresso) della rimembranza (rinominato albero della Memoria edella Libertà) e collocare una targa in ricordo dei 66 valentanesi Cadu-ti nella Grande Guerra. Da Piazza Cavour, luogo della tradizionale ceri-monia di deposizione della corona di alloro, il corteo si è mosso versoPiazzale San Martino, rinominato Nazario Sauro e Cesare Battisti nelnovembre 1918 e poi nuovamente ritornato all’antica denominazionenegli anni successivi al secondo conflitto mondiale, per la cerimonia dichiusura del centenario.Nella piccola targa in maiolica, realizzata da Mario Romagnoli, contesto in italiano e in inglese, sono unite la bandiera italiana, delComune e quella Europea, a conferma della nuova Europa risortadalle distruzioni di due guerre mondiali. Il breve testo, curato da

Bonafede Mancini, si è limitato ad aggiornare il numero dei Cadutivalentanesi (nella lapide sotto il portico del Comune in Piazza Cavourse ne danno 46) e riprende l’incipit dei versi dati nel 1919 dal nota-io Simone Simoni (Valentano 1881-Roma 1945) per la lapide a ricor-do dei militi Caduti -versi che gli furonoperò respinti perquelli più altisonantidi Fausto Salvatori -e in quello finale larielaborazione di unpasso di EmilioLussu in Un annosull’Altipiano:

PER UNIRE ALLA PATRIAITALICHE TERRE

645 VALENTANESIACCORSERO

66 MORIRONOIN UN ATTIMO

L’ETERNITÀ

(b.m.)

Valentano, Piazzale San Marti-no: albero della Rimembranzaai Caduti della Grande Guerra

Vogliamo riproporre questi ricor-di di Lorenzo Sonno (1910-1998), perché nella loro sempli-cità e apparente divagazionetratteggiano in realtà, con gliocchi di un bambino, il clima delpaese durante la guerra.

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re era di Lazzaro Melaragni, e a ognuno cui riempiva labottiglia lui domandava di chi era figlio. Quando toccò ame: “E tu de chi sèe fjo?”. “So’ fjo de Cèncio Sonno”. Quan-do intese quel nome mi guardò, poi mi disse: “Tie’, le du’solde, pòrtele a la tu’ mamma”. Poi la mamma mi disseche era tanto amico del babbo.Io fui molto contento a tornare a casa con la bottiglia discotta e i due soldi. Pensavo che quei due soldi fosseromiei, e invece non era così. Per molti giorni si fece quelbuon pasto: in un piatto si metteva pane e scotta, ed erauna buona colazione. Un giorno uscendo da scuola vidialla bottega di Chécco Bomba, che era sull’argine della

Piansano

“È finita la guerra!...”

Lorenzo Sonno

Nell’anno millenovecentoquindici, quando scop-piò la guerra, il babbo venne chiamato soldato.Non occorre dire quello che cominciò nellanostra famiglia, che contava già tre rampolli:

Domenico, Lorenzo e Rosa. Ricordo che al momento disalutarci, il babbo ci raccomandava di essere buoni conla mamma, ché lui sarebbe ritornato presto. La nonna glidisse: “Tie’, fjo, ch’ho rimediato ‘ste tre òva e l’ho lésse. Teserviranno lungo ‘l viaggio, ché mica se sa ndo’ te manna-rànno a fini’!”. Il babbo ci abbracciò, ci baciò e partì.In quel tempo lui era garzone con Tomasso Fagotto,uomo pieno di virtù e sapienza, che aveva una buonaazienda agricola e parecchie pecore. A queste pensava ilbabbo, e dopo la sua partenza il buon Tomasso non ciabbandonò mai. Ogni anno ci dava al Fiocchino un pezzodi terra ben preparato per il granturco, e l’anno appressoper il grano, e con l’aiuto delle zie la mamma lo tiravaavanti al meglio che poteva. Avevamo pure un piccololocaletto quasi da piedi alle scale dove tenevamo tre gal-line. Con quelle tre galline la mamma aveva sempre qual-che uovo di riserva. La gallina che le faceva più grosse sichiamava Culona. Lì abitava anche un capraro, Règge DeCarli, che la sera veniva con le capre e le mungeva e ven-deva il latte a un soldo a bicchiere. La notte le capre sta-vano lì sotto la voltarèlla e la mattina ripartivano.Quando veniva in licenza, il babbo andava a lavoraresempre da Tomasso, che anche lui aveva due figli in guer-ra. Durante una licenza mi portò con lui a mangiare laricotta al Vitozzo, e a fare il pastore c’era Umberto Mez-zetti con i due figli Mariano e Rigo. Certo che a quei tempila vita non era facile. La mamma aveva un bel fardellosulle spalle...Io e Rosa andavamo all’asilo, che era comandato dallasòra Chécca, una suora molto rigida con noi. Chi faceva lacucina era Emilia la Pisana, moglie di Ruggero Bronzetti.Dopo la scuola veniva anche Méco per mangiare quelloche ci davano: un po’ di minestrone di erba con qualchevaco di pasta, che per chiapparlo ci voleva la rete, ma erabuono, ché meglio non c’era. Ricordo una sera, quandotornavamo a casa dall’asilo, alla Poggetta incontrammo lanonna Margherita che ci disse: “Quanno rivate a casa,séte bòne, ch’a la mamma jè nato ‘n cittarèllo bello bellocome voe”. Era il quarto figlio...Spesso avevamo notizie del babbo. Io, dopo diversotempo perduto per via di un male agli occhi, riandavo ascuola. Sentii dire dagli altri bambini che loro andavanoin una casa a comprare la scotta, e chiesi alla mamma sepotevo andarci anch’io. Sì che potevo andarci. Si pagavadue soldi al litro. La mattina appresso io avevo una botti-glia da un litro e due soldi. La casa dove si doveva anda- Piansano (Piazza del Comune) ai primi del ‘900

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piazza all’imbocco di via delle Capannelle, una bellafuscella di albicocche e pensai a come fare per comprar-le. Sapevo che la mamma teneva quei due soldi sotto unatazza sopra il comò, e pensando sempre di avervi parte,le presi e ci comprai le bricòcche. Erano molte, ma quelledella mamma furono molte di più, e sapevano di sale.Quel giorno la mamma aveva fatto il pane e la fornaia erala Nazarena de Chiavarèllo. Quando questa venne a pren-dere la tavola del pane mi trovò che piangevo e disse:“Nanna, e che ha ‘sto fjo?”. “Jò menato io!”. “E perchè jaemenato?”. “Perchè c’ivo du’ solde e me l’ha rubbate”. Queidue poveri soldi! Una volta sull’altare e una volta nellapolvere! La mamma, sopraffatta dal peso della famiglia edalla miseria, faceva presto ad andar fuori dalla grazia-diddìo, e io e Meco facevamo da scudo. In quei tempi davano cinque lire al mese di sussidio, poila mamma con le zie andavano a lavorare a giornata,quando trovavano. Quando la mamma andava fuori, lanostra mamma era la nonna Rosa. Io e Meco andavamo ascuola e a pranzo andavamo all’asilo, poi dalla nonna. Untriste giorno ci giunse una brutta notizia: il babbo erastato ferito da una granata e si trovava ricoverato in unospedale. Non si sapeva altro, e lo spavento non fu poco.Ma dopo qualche giorno lui ci scrisse che si trovava in unospedale di Milano. Ci spiegava del suo male che non eragrave: si trattava di un braccio rotto, ma ora era ingessa-to e stava bene. Sicché la sua disavventura non fu bruttacome il diavolo ci aveva dipinto. Restò a Milano fino a chefu guarito, poi fu assunto dallo stesso ospedale per servi-zi sedentari fino a che finì la guerra. Veniva a trovarcimolto spesso. Credo che non gli sia andata male. Ful’anno che io feci la cresima: l’ottobre del millenovecen-todiciassette... [Durante la seconda guerra mondiale la famiglia di CèncioSonno si trovò con ben cinque figli in guerra, e con lenotizie di morte che arrivavano in paese di continuo,viveva con il terrore di venire informata prima o poi dellamorte di qualcuno di loro. Con le ferite della prima guer-ra ancora addosso, lui stesso non faceva che ricordarequella notte passata accanto a un compagno, sul fianco diuna montagna, per scaldarsi col calore del corpo dopouna carneficina immane: soltanto al mattino si era accor-to che il compagno era morto, col buco di una pallottolain fronte].

In quei tempi non si faceva altro che pregare che finissepresto la guerra. Noi pregavamo sotto al nostro poverocamino, che era avvolto da un leggero calore e illuminatoda un piccolo lumicino a petrolio. Ma a quei tempi lagente mi sembrava più umile. Le mamme, quando aveva-no qualche cosa da mangiare come la polenta o la frutta,chiamavano i figli dei vicini di casa, e si passava la primasera giocando tra figli sotto la luce appena messa. Dopoaver cenato, tutte le sere si diceva il rosario. Qualchesera Meco scappava e diceva: “Io le dico doppo al letto”, ela mamma: “Nun t’addormi’!”. Quando si dicevano le lita-nie si stava in ginocchio voltati verso il quadro dellamadonna del Rosario, e si pregava sempre che prestofosse finita la guerra. Dopo, la mamma ci raccontava purequalche favola e così si passava la serata.Una sera la mamma ci disse che su per la via delle Capan-nelle tanti mettevano la luce in casa e si pensò di metter-

la anche noi. Non ci pareva vero. La mamma si mise innota e dopo pochi giorni toccò a noi. Per fare la festagrande all’arrivo della luce, la mamma comprò il fegato dipecora, che non s’era mai visto. La lampada fu messa sul-l’arco della porta tra la cucina e la stanza da letto. La seranon potete immaginare come i nostri occhi stessero vòltiverso la lampada che si doveva accendere. Finalmente laluce arrivò, e fu accolta con grande piacere e festa. Fu,questo, l’autunno dell’anno diciassette, e quel poverolumicino che ci aveva fatto compagnia per tutte le sereprima non si vide più.Del babbo avevamo sempre buone notizie. Il tempo pas-sava, ma era sempre del sapore di guerra. Io e Meco anda-vamo a scuola, e per quando partivamo, la mamma ciaveva preparato un po’ di patate lesse e un po’ di casta-gne. Per lei restavano solo un po’ di patate. Ma quandopartivamo l’ultima parola era sempre “Pregate la madon-na del Rosario che finisca presto la guerra”.Una bella mattina di novembre risplendeva un sole limpi-do che faceva sorridere la natura e sembrava prometterequalche cosa di tanto atteso. La mamma ci disse: “Oggequanno finisce la scòla annate da la nonna Rosa, ché io co’le zie annamo a ribatta al poggio de la nonna. Simentàmo‘l grano, e la Rosa e Nèno le porto là io”. “Ce viengo purio”, dissi. “No, ché tu hae d’ann’a la scòla”. Ma io reclama-vo e per fortuna le zie erano in mio favore: “Co’ ‘sta bellagiornata, sa’ quanto sta bene!”. Così partimmo, la mammacon le zie Chécca e Margherita. Che lavorara c’era lo zioLuigi detto la Giga. Il suo lavoro andava avanti, mentre iocoglievo le nespole, ché ce n’erano due belle piante.Era sul mezzogiorno quando arrivò il momento di gioiatanto desiderato. Era il quattro novembre del diciotto.Suoni di campane delle chiese e della scuola; più, si vede-va sventolare la bandiera sopra la torre e giungevano legrida della gente che vociava “E’ finita la guerra! E’ finitala guerra!”. La mamma con le zie buttarono le zappe e viaal paese, e per far più presto traversammo la valle di Peri-no. Quando rivammo al paese il corteo già era arrivato dapiedi, e tutti dicevano “E’ finita la guerra!... Viva la pace!”.Ora si stava piu tranquilli e si fece qualche giorno di festain santa pace...

Da “Quei morti ci servono” di Antonio Mattei

(Tip. Ceccarelli, 2001) pp. 153-157

Donne al lavoro nei campi durante la guerra