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Lo studio del «policy making» Capitolo 5 1. Prime definizioni 1.1. Passaggio di colonna Le ricerche di cui ci occupiamo in questo capitolo si pongono fi- nalità esplicative, predittive o, comunque, descrittive. Se ritorniamo alla figura 2.2, il passaggio al lato destro del nostro schema equivale allo spostamento dalle scienze per il policy making alle scienze del po- licy making [Lasswell 1951]. Conviene ribadire ancora una volta che questa distinzione è pragmatica, più che epistemologica. Alla sua base sta un dato di fatto: esistono gruppi di ricerche abbastanza distingui- bili per i problemi che si pongono, per le metodologie che adottano, per il pubblico cui si rivolgono, per le sedi in cui circolano. Sullo sfon- do si delineano due profili professionali diversi: nel primo caso, il rife- rimento è all’analista che, dall’intern o o dall’esterno delle istituzioni, lavora per orientare le loro prestazioni, e pertanto utilizza larga parte del suo tempo per comunicare con coloro che le politiche le fanno; nel secondo caso, la figura chiave è il ricercatore, che all’interno delle università e dei centri di ricerca, pubblici e privati, si confronta soprat- tutto con la comunità scientifica, da cui deriva i canoni per la valida- zione delle sue ipotesi [Etzioni 1971]. Gli ultimi due capitoli del libro sono pertanto dedicati agli studi che fanno delle politiche pubbliche un fattore centrale per capire come funziona il governo nelle democra- zie contemporanee: benché esistano tentativi di estendere la salienza del concetto anche a epoche e a regimi diversi, questo è infatti lo sfon- do della stragrande maggioranza degli studi. E tuttavia, se in generale è abbastanza facile tirare la riga di confi- ne tra studi per le politiche e studi delle politiche, nei casi concreti le cose sono più ingarbugliate. Innanzi tutto, in un’epoca in cui la produzione delle conoscenze è sempre più rapida, la loro circolazione sempre più facile, il loro peso

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Lo studio del «policy making» Capitolo 5

1. Prime definizioni

1.1. Passaggio di colonna

Le ricerche di cui ci occupiamo in questo capitolo si pongono fi-nalità esplicative, predittive o, comunque, descrittive. Se ritorniamoalla figura 2.2, il passaggio al lato destro del nostro schema equivaleallo spostamento dalle scienze per il policy making alle scienze del po-licy making [Lasswell 1951]. Conviene ribadire ancora una volta chequesta distinzione è pragmatica, più che epistemologica. Alla sua basesta un dato di fatto: esistono gruppi di ricerche abbastanza distingui-bili per i problemi che si pongono, per le metodologie che adottano,per il pubblico cui si rivolgono, per le sedi in cui circolano. Sullo sfon-do si delineano due profili professionali diversi: nel primo caso, il rife-rimento è all’analista che, dall’interno o dall’esterno delle istituzioni,lavora per orientare le loro prestazioni, e pertanto utilizza larga partedel suo tempo per comunicare con coloro che le politiche le fanno;nel secondo caso, la figura chiave è il ricercatore, che all’interno delleuniversità e dei centri di ricerca, pubblici e privati, si confronta soprat-tutto con la comunità scientifica, da cui deriva i canoni per la valida-zione delle sue ipotesi [Etzioni 1971]. Gli ultimi due capitoli del librosono pertanto dedicati agli studi che fanno delle politiche pubblicheun fattore centrale per capire come funziona il governo nelle democra-zie contemporanee: benché esistano tentativi di estendere la salienzadel concetto anche a epoche e a regimi diversi, questo è infatti lo sfon-do della stragrande maggioranza degli studi.

E tuttavia, se in generale è abbastanza facile tirare la riga di confi-ne tra studi per le politiche e studi delle politiche, nei casi concreti lecose sono più ingarbugliate.

Innanzi tutto, in un’epoca in cui la produzione delle conoscenze èsempre più rapida, la loro circolazione sempre più facile, il loro peso

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sempre più importante nel dirimere le controversie [Majone 1996], leteorie studiate nelle università e discusse nelle riviste scientifiche ten-dono a uscire dai circuiti accademici, per approdare ai corsi di forma-zione per funzionari e consulenti, magari appena riconoscibili, comealla fine del gioco a passaparola. Del resto, una migliore conoscenzadelle dinamiche del policy making permette di ridurre la delusione e lasorpresa. Se le aspettative circa i comportamenti degli attori si arric-chiscono di nuove e più precise ipotesi, si perde meno tempo a riag-giustare le previsioni. E non è detto che una più documentata cono-scenza di come vanno effettivamente le cose porti solo ad un ridimen-sionamento delle attese. Certo, è probabile che esca rimpicciolita lafiducia nell’automatica capacità della legge di imporsi, o nell’inclina-zione delle organizzazioni a farsi carico di interessi di lungo periodo:ma, nel contempo, si può scoprire che ci sono in giro molte risorsesottoutilizzate, o molti attori disposti a fare più di quel che è loro ri-chiesto, se solo trovano la molla giusta.

Se una qualche sovrapposizione tra finalità prescrittive e descrit-tive è rintracciabile in tutte le scienze sociali, compresa l’economia ela sociologia, l’imprinting pragmatico che segna il concetto di politicapubblica rende ancora più stretto l’intreccio. Per certi versi, il ricer-catore puro si trova a dover resistere alla tendenza del suo oggetto distudio a scendere in campo, per confrontarsi con le concrete possibi-lità di verifica anche sul piano applicativo. La scelta di presentareprima le ricerche con finalità prescrittive è un riconoscimento diquesta tensione: molti dei concetti di cui ci occuperemo nelle pagineseguenti – implementazione, negoziazione, garbage can, ecc. – sononati in contesti legati all’azione, anche se sopportano una declinazio-ne di tipo descrittivo. E sia l’analisi razionale delle politiche, sia lapolicy inquiry, ci hanno insegnato che le politiche sono fatte di diver-si passaggi, con la mobilitazione di svariate risorse e competenze,con punti di snodo pieni di incognite, con esiti di difficile lettura.Questi risultati fissano dei paletti che intendiamo rispettare anchenei due ultimi capitoli. Pertanto, in queste pagine ci concentreremosoprattutto su quelle teorie che utilizzano più a fondo l’originalitàdel concetto di politica pubblica e ne sfruttano meglio le specialiimplicazioni. L’esercizio che viene proposto intende mostrare a qualiesiti analitici possa portare una impostazione decisamente orientataalle politiche pubbliche. Parliamo di orientamento deciso per eviden-ziare un dato: nei modelli che le scienze sociali hanno elaborato lepolitiche possono entrare, e sono di fatto entrate, con ruoli più omeno accentuati e peculiari. In una ideale scala dal meno al più, sicollocano all’estremo «meno» tutte le definizioni che identificanouna politica pubblica con la riaggregazione per aree funzionali diuno o più di questi elementi:

• l’andamento della spesa in determinate «voci» dei bilanci pub-blici;

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• la ricostruzione della legislazione in determinati settori;• l’organizzazione di determinati comparti dell’amministrazione.

Tutti e tre questi punti di osservazione forniscono informazioni prezio-se su quello che i governi fanno. Ma, data l’impostazione di questovolume, noi concentreremo l’attenzione proprio su ciò che rende lepolitiche pubbliche qualcosa di diverso dalla mera somma di atti am-ministrativi, regolati da leggi e finanziati con risorse pubbliche. Piùprecisamente, le teorie che saranno considerate coltivano lo spazioanalitico che si pone tra le politiche e i processi per la loro produzio-ne: uno spazio talvolta ampio, talaltra angusto, fatto spesso di piccoliparticolari e pertanto difficile da sondare, ma comunque importanteper la comprensione del modo in cui i cittadini di una società cercanodi risolvere i problemi di rilevanza collettiva. La politica pensionisticaitaliana non è molto cambiata dal 1970 al 1992 per quanto riguarda itrend di spesa, la struttura dei diritti previdenziali, gli apparati per lasua amministrazione. Eppure, in quel periodo si è verificato un note-vole ricambio degli attori cruciali, delle sedi decisionali, degli stili ne-goziali, e non solo come semplice rispecchiamento delle trasformazioniin atto nel sistema politico [Regonini 1996a].

1.2. Il rapporto con la scienza politica

Gli studi che si propongono finalità descrittive e che adottano unmetodo induttivo, mirano a ricostruire l’effettivo svolgimento dei pro-cessi che portano alla formulazione, all’approvazione, all’implementa-zione e alla valutazione delle politiche pubbliche, perché ritengonoqueste attività decisive per la comprensione dei rapporti tra cittadini eistituzioni nelle democrazie contemporanee. Tali ricerche mostrano lacontinuità più evidente con i temi e i metodi della scienza politica (po-litical), la disciplina con il rapporto più diretto con il problema delgoverno della cosa pubblica [Heclo 1972, 83; Grumm 1975; Hansen1983, 218]. Gli interrogativi più ricorrenti riguardano infatti il pesopiù o meno determinante delle varie categorie di policy makers (politi-ci, burocrati, rappresentanti degli interessi, esperti, opinion leaders,ecc.), gli stili decisionali seguiti quando sono in gioco queste scelte, lerelazioni tra le varie fasi del policy making, l’influenza degli assetti isti-tuzionali, le dimensioni per formulare una tipologia dei problemi sultappeto.

Anche la ricerca politologica può essere più o meno decisamenteorientata alle politiche pubbliche. Nel polo «meno» possono esserecollocate le analisi che si limitano a considerarle come indicatori diqualcos’altro: dei rapporti di potere, dell’importanza dei risultati elet-torali, o delle culture civili. Queste impostazioni poggiano più o menoesplicitamente su una visione top-down del processo di produzionedelle politiche: le loro caratteristiche sono infatti indagate per trarre

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conclusioni circa la natura e il funzionamento dei classici centri di in-teresse della ricerca politologica: i partiti, il parlamento, l’esecutivo,l’opinione pubblica. Nella nostra presentazione, accenneremo a questericerche soprattutto per far emergere dal contrasto i tratti degli ap-procci decisamente orientati alle politiche, che anche storicamentehanno ricavato da questo confronto spunti per rafforzare la loro origi-nalità. In ogni caso, l’obiettivo non è la difesa del grado di purezza diun approccio, ma l’esplorazione di spazi che possono essere ispeziona-ti solo usando come mezzo di trasporto un concetto forte di politicapubblica.

1.3. Il problema della «singolarità»

«La “telenovela” ha un titolo: “Uno per tutti o tutto per uno” –L’estenuante rimpallo del rinnovo contrattuale [degli insegnanti] sem-bra non avere fine»1. In effetti la vicenda dell’attuazione dell’articolo38 del Contratto collettivo nazionale integrativo della scuola, conte-nente le norme per gli aumenti legati al merito, in un anno2 ha offertodiversi colpi di scena: manifestazioni vivacemente sostenute da orga-nizzazioni in genere su fronti opposti; sindacati che rinnegano accordiprima salutati con entusiasmo; prove per la verifica delle competenzesospese a pochi giorni dall’inizio; recriminazioni tra il ministro e lasegreteria del suo partito; rovesciamento degli obiettivi da parte delnuovo ministro. La prima impressione, ricostruendo gli eventi chehanno portato allo sviluppo o alla paralisi di una politica pubblica, èspesso quella di una telenovela con una sceneggiatura di bassa qualità,dove i colpi di scena sono continui e ingiustificati, dove la personalitàdei protagonisti è mal tratteggiata, dove la trama è ripetitiva e piena diincoerenze: morti che ricompaiono, improbabili riconciliazioni, cata-strofi a ripetizione.

Dato che il mondo reale delle politiche è spesso così distante dalleimmagini ufficiali, così ricco di elementi inattesi e coloriti, il maggiorpericolo da cui si deve guardare questo tipo di studi è lo scadere nel-l’aneddotico, nel racconto in cui ogni caso fa «storia a sé». Limitarsi aregistrare il fatto che ogni vicenda di policy è diversa dall’altra non faavanzare di molto la conoscenza cui aspira questo settore delle scienzesociali, qualunque sia l’obiettivo del ricercatore: la descrizione «densa»[Geertz 1973], la spiegazione di tipo causa-effetto [Sabatier 1999b], ola comprensione sorretta da categorie analitiche, secondo la lezioneweberiana.

Ma arrivare a conclusioni generalizzabili non è semplice. Innanzi

1 «Corriere della Sera», supplemento Scuola del 26 febbraio 1999.2 Il contratto è stato ratificato il 31 agosto 1999.

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tutto, categorie troppo ampie rischiano di trascurare la rilevanza diparticolari che invece contano. Nei due capitoli precedenti, abbiamoimparato che i grandi fallimenti spesso sono fatti di piccoli fraintendi-menti: rimuovere questi elementi a favore di spiegazioni più generali epiù ambiziose può stravolgere il profilo dei processi che segnano lepolitiche. In secondo luogo, anche il risalire a variabili con una solidareputazione scientifica non è impresa facile, non perché le loro traccescarseggino, ma, al contrario, perché ogni fattore studiato dalla scienzapolitica può legittimamente rivendicare un qualche ruolo nella deter-minazione delle politiche:

La gamma e il numero dei fattori che influenzano o determinano quelche i governi fanno o, quando è il caso, quel che scelgono di non fare, sonovirtualmente infiniti. Le politiche possono essere influenzate da precedentiimpegni di policy, da tensioni internazionali, dal clima nazionale, dalle risorseeconomiche, dal grado di conflitto etnico, dalle tradizioni storiche, dalla per-sonalità dei leader, dal livello di istruzione della popolazione, dalla natura delsistema partitico, dal fatto di essere governate da civili o da militari. L’elencopuò essere allungato in modo indefinito. Virtualmente qualsiasi cosa può in-fluenzare o determinare quello che i governi fanno [Leichter 1979, 38].

Larga parte degli studi riportati in questo capitolo possono essereletti come tentativi di trovare un passaggio tra questi due opposti pe-ricoli. Il problema analitico fondamentale è trovare le categorie percogliere la ricchezza di queste vicende, uscendo dalla padella dellamera ricostruzione storica, senza cadere nella brace di generalizzazionitroppo ampie.

1.4. La molteplicità dei punti di osservazione

Oltre ad avere profili singolari, le politiche pubbliche, a differenzadei programmi, hanno un’articolazione che rende possibile la loro os-servazione da punti di vista anche molto distanti tra loro. La storiellaindiana dei quattro ciechi che toccano l’elefante è spesso utilizzata persottolineare questo aspetto:

Uno sente la gamba dell’elefante, un altro la coda, il terzo un orecchio, el’ultimo il corpo. Come risultato di questo esperimento tattile, quello che cia-scuno ha sentito è descritto di volta in volta come un tronco, come una cor-da, come una ventola e come una parete. Gli studiosi di politiche pubblichesomigliano molto a questi quattro ciechi: ciascuno tende a esaminare una pic-cola parte di un animale molto grande [ibidem, 8].

Più che l’ampiezza, è la complessità a consentire l’utilizzazione didiversi codici per decifrare quel che succede quando si tratta di intro-durre criteri di merito nelle retribuzioni dei dipendenti pubblici, o dirafforzare il divieto di fumo, o di programmare il numero di posti

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negli asili nido. Per presentare uno dei testi di public policy più famosi,The Essence of Decision, di Graham Allison [1971], Barbara Nelson[1996, 568] fa riferimento al film giapponese Rashomon, che raccontaquattro ricostruzioni diverse di uno stesso tragico evento da parte diquattro testimoni, ciascuno spettatore di sequenze diverse, con diversicolpevoli. Questo tipo di consapevolezza segna uno scarto netto rispet-to all’ambito di discorso in cui si muove il politico, il giornalista, ilcommentatore. Mentre questi ultimi tendono a ridurre a uno il nume-ro delle variabili significative o degli attori cruciali, per spiegarci «checosa ha causato», «di chi è la colpa», lo studioso coltiva un forte scet-ticismo circa la possibilità di leggere il policy making in base a questimetri di giudizio.

E la conoscenza di come una stessa politica è stata gestita in mo-menti diversi nel tempo, o in luoghi diversi nello spazio, in genererafforza l’ipotesi della debolezza delle connessioni di causa-effetto,dell’instabilità degli esiti, della polivalenza delle condizioni di partenza.

La comparazione infatti rivela la straordinaria varietà delle rispostea uno stesso problema, e dei problemi per una stessa risposta. Se èdifficile trovare due popoli che fanno il caffè allo stesso modo, ledifferenze che si spalancano anche in politiche a bassa salienza ideolo-gica, quali il controllo del traffico o la distribuzione dei medicinali,offrono spunti analitici fondamentali per la comprensione dei processidi policy. Vedere come, dove, a opera di chi, in problemi o in soluzio-ni che all’osservatore paiono simili, compaiano i segni della diversità,dà una fondamentale opportunità per verificare lo spessore di assun-zioni che sembrano scontate, ma che invece non lo sono affatto, per-ché anche l’innervatura della più banale delle politiche pubbliche haramificazioni molto estese.

2. L’affermazione del paradigma

2.1. Stati Uniti

Nel primo capitolo, ci siamo soffermati sull’importanza del prag-matismo e del comportamentalismo per lo sviluppo della prima gene-razione dei policy studies. La nostra ricostruzione si fermava alle sogliedegli anni ’50. Occorre ora riprendere il racconto degli anni successivi,che sono stati cruciali per il consolidamento di una prospettiva orien-tata alle politiche nella scienza politica americana.

2.1.1. Il comportamentalismo

Come abbiamo più volte sottolineato in queste pagine, l’importan-za attribuita ai dati, l’interesse per la raccolta delle valutazioni dirette

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dei cittadini, la curiosità per le descrizioni libere da precoci inquadra-menti teorici, sono tratti che caratterizzano la preistoria dei policy stu-dies, a partire dalle ricerche di Charles Merriam, del suo allievo Ha-rold Lasswell e della Scuola di Chicago tra gli anni ’30 e ’40. All’iniziodegli anni ’50, queste caratteristiche acquistano più profondità teoricae più rigore metodologico, fino a configurare un vero e proprio para-digma, il comportamentalismo, destinato a diventare per quasi duedecenni il principale punto di riferimento della scienza politica ameri-cana, la sua dottrina ufficiale3. A caratterizzare questo approccio, e adaccomunare le ricerche politologiche a quelle sociologiche, psicologi-che, antropologiche, è l’attenzione per le azioni effettivamente registra-bili, per i comportamenti concreti dei singoli, per le loro opinioniespresse direttamente attraverso questionari e interviste. Nella scienzapolitica, questa impostazione portava a considerare gli individui e igruppi come le unità analitiche fondamentali, e le decisioni come i fe-nomeni più importanti del loro stare insieme. Per gli studiosi di politi-cs, questo orientamento poneva al centro della ricerca soprattutto ledecisioni relative al voto: la scelta tra partecipazione e astensione, lemotivazioni nella selezione del partito, la costanza o la volatilità deigiudizi, la loro autonomia o il loro condizionamento da parte dellafamiglia o dei media. Per gli studiosi delle amministrazioni e dei gover-ni, erano le effettive decisioni sulle singole questioni all’ordine delgiorno a diventare cruciali per la comprensione del funzionamentodelle istituzioni, solo genericamente descritto dai vincoli giuridici odalla storia costituzionale [Farr e Seidelman 1993]4. Come diventeràevidente nel prossimo paragrafo, da qui allo studio delle politichepubbliche, il passo è abbastanza breve5.

Negli anni ’50, sullo sfondo della rivoluzione comportamentalista,due altre correnti di ricerca si incaricano di accorciare ulteriormente ledistanze. La prima ha alla sua base la teoria del sistema politico elabo-rata da Robert Easton nel 1953; la seconda è il movimento per le po-licy sciences lanciato da Harold Lasswell nel 1951.

2.1.2. La teoria del sistema politico

Di teoria dei sistemi abbiamo già parlato nel terzo capitolo, indi-candola come fondamento di una particolare metodologia manageria-le: l’analisi dei sistemi. Torniamo a occuparcene ora, in un diverso

3 «Qualunque unità di misura si adotti, il più importante aspetto della scienzapolitica dopo la seconda guerra mondiale è stato lo sviluppo del comportamentali-smo» [Waldo 1975, 58].

4 E. Berdtson, Behavioralism: Origins of the Concept, 1997, in http://www.volt.helsinki.fi/vol/projects/behavior.htm (luglio 2000).

5 V. la 1ª ed. di Dye, Understanding Public Policy del 1972.

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contesto, perché negli anni ’50 il modello cibernetico basato su input-output-feedback viene considerato con sempre maggiore frequenzacome una rappresentazione adeguata a descrivere quello che avvienenella sfera politica. In un contesto democratico, le organizzazioni degliinteressi e i partiti politici «alimentano» il sistema, permettendo alleistituzioni di rilevare le domande dei cittadini, di elaborarle, e di ri-spondere con le politiche adeguate. La reazione al loro impatto daparte dei destinatari fornisce nuovi elementi per affinare l’input, conun processo di riaggiustamento continuo, che consente alle componen-ti del sistema – cittadini, organizzazioni, istituzioni elettive, apparatiamministrativi – di rimanere tra loro in un equilibrio dinamico.

La teoria del sistema politico ha svolto un ruolo fondamentale nelrichiamare l’attenzione degli scienziati politici su ciò che i governi fan-no per rispondere alle concrete richieste dei cittadini: «La conversionedell’input in output, attraverso l’utilizzazione delle risorse del sistema,fornisce un’approssimazione all’azione specifica nel processo di policy[...]. È questo continuo flusso senza fine di politiche, alimentato dalprocesso di feedback tra il sistema politico, dotato di autorità, e la so-cietà, che dà l’idea del processo di produzione delle politiche pubbli-che» [Curtis e Schoettle 1968, 169].

Il concetto di processo, già entrato nel bagaglio teorico della scien-za politica grazie ai lavori di Arthur Bentley [1908] e di David Tru-man [1951], sembra ora trovare una più compiuta definizione, saldan-dosi da un lato alla cibernetica [Deutsch 1963], dall’altro alla teoriadell’azione di Talcott Parsons [1966]6, e dischiudendosi alla ricercaempirica di matrice comportamentalista. Come scrive Truman,«L’obiettivo finale di uno studioso del comportamento politico è losviluppo di una scienza del processo politico, logicamente completa inse stessa [...]. Molti dei temi delle altre scienze comportamentiste nonsono rilevanti come questo» [1951, 39]. Il risultato è l’emergere diaspetti fino a quel momento considerati privi di rilevanza scientifica, senon vere e proprie patologie: le negoziazioni, i tentativi approssimativi,gli aggiustamenti «in corso d’opera», le pressioni e i ricatti sono oraconsiderati come elementi importanti per il raggiungimento di quel-l’equilibrio sempre diverso che costituisce la forza del modello.

2.1.3. Il movimento per le «policy sciences»

Nel 1951 Lasswell e Lerner, in un volume destinato a fare storia,coniano il termine «policy sciences» per definire un programma di ri-cerca capace di perseguire simultaneamente due obiettivi: «lo sviluppo

6 Il volume in cui compare il saggio di Parsons The Political Aspect of SocialStructure and Process è curato dallo stesso Easton.

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di una scienza della formazione e dell’esecuzione delle politiche [...] eil miglioramento del contenuto concreto delle informazioni e delleinterpretazioni a disposizione dei policy makers» [Lasswell 1951, 3]. Illoro progetto mantiene una stretta continuità con l’impostazione prag-matica di Dewey, ora chiamata a confrontarsi con le mutate esigenzedella società americana, dentro e fuori le università. Nella scienza po-litica, si trattava di innalzare la qualità dello studio delle concrete atti-vità dei governi, per poter competere con gli elevati standard che ilcomportamentalismo fissava alla conoscenza dei fatti sociali. Nel rap-porto con le istituzioni, occorreva dimostrare che le policy sciencessapevano effettivamente fornire un aiuto nella soluzione dei problemirilevanti per i cittadini, preoccupati per la scarsa qualità dell’istruzionedei figli o per l’incertezza della loro situazione economica.

Secondo Lasswell, propositi tanto ampi non potevano tradursi sol-tanto nell’avvio di una nuova scuola accademica, ma richiedevano lapromozione di un vero e proprio movimento, basato sulla fiducia nellacapacità della democrazia e della conoscenza di rafforzarsi a vicenda[1951]. Le scienze delle politiche sono infatti un «movimento interdi-sciplinare, al simultaneo servizio dei valori democratici, della costru-zione di teorie nell’accademia, e delle esigenze del governo» [Garson1986, 14].

Proprio per il rifiuto di trovare una nicchia lungo l’asse prescrizio-ne/descrizione, per coltivare invece «la conoscenza necessaria per mi-gliorare la pratica della democrazia» [Lasswell 1951, 15], le policysciences sono destinate a uscire rapidamente dalla scena del piano a,per approfondire i legami con correnti di ricerca di matrice europea,quali la sociologia della conoscenza e la teoria critica della società[Dryzek 1990]. Ma negli anni ’50 e ’60, la figura carismatica di HaroldLasswell, con il suo straordinario curriculum di ricercatore empirico e,insieme, di raffinato teorico, esercitava una grande influenza nell’orien-tare anche gli scienziati politici di formazione più tradizionale verso lostudio delle politiche pubbliche e del loro effettivo impatto sulla vitadella gente.

2.1.4 Un clima non ostile

Il giudizio sull’influsso che le grandi correnti degli anni ’50 e ’60hanno esercitato sullo studio delle politiche pubbliche è stato forte-mente influenzato dalla traumatica conclusione di quel rapporto, conla spietata autocritica di David Easton nel 1969, sulla quale torneremotra breve. Ma la proiezione di questo cono d’ombra non deve oscurareun dato: quel periodo è stato fondamentale per il decollo dei policystudies: molti degli interrogativi di ricerca avanzati nelle pagine se-guenti, molte delle opere citate, hanno la loro collocazione proprio inquell’arco di tempo.

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Nel capitolo precedente ci siamo soffermati su quattro idee, essen-ziali per la policy inquiry: le politiche come conoscenze in uso, comeinterazioni, come processi, come bidoni della spazzatura. Alla finedegli anni ’60, le basi per queste acquisizioni sono già gettate, e in al-cuni casi è già costruito l’intero edificio7.

Ma è interessante notare che in quegli stessi anni, grazie ai lavoridi Edelman sull’importanza dei simboli in politica [1960], di Bachrache Baratz sulle non decisioni8 [1963] e, soprattutto, grazie al citatissi-mo articolo di Lowi sulla capacità delle politiche pubbliche di strut-turare autonome arene di potere [1964], sono poste anche le premes-se per lo sviluppo di impostazioni nettamente critiche rispetto alcomportamentalismo e all’approccio sistemico, correnti verso le qualile ricerche di ispirazione pluralista mantenevano invece un atteggia-mento simpatetico, o quanto meno accomodante, come vedremo nelparagrafo seguente.

2.1.5 Il rapporto tra comportamentalismo e positivismo

Lo studioso che ricostruisce la storia di quegli anni rimane impres-sionato da un’incongruenza. Da un lato, stanno la grande ricchezza deldibattito teorico e la definitiva consacrazione delle politiche pubblichecome autonomi oggetti di studio nella scienza politica americana9.Dall’altro, nel giudizio dei contemporanei [Heclo 1972, 86; Van Dyke1968, 24] e, soprattutto, in quello di uno dei principali protagonisti,David Easton [1969], l’impostazione generale delle ricerche politologi-che di quel periodo è considerata un pesante ostacolo allo sviluppo diapprocci davvero orientati alle politiche, e il policy turn viene fattocoincidere con il tramonto delle grandi correnti di pensiero di queglianni.

7 Basti pensare ai seguenti lavori: Politics, Economics and Welfare [1953], di Dahle Lindblom, intorno al problema di come individui e gruppi riescono ad aggregare inmodo incrementale le loro preferenze in scelte collettive; Who Governs? [1961a], diDahl, considerato una pietra miliare da molti studiosi di politiche [Heclo 1972], edestinato a suscitare un largo dibattito sul potere nelle comunità locali [Clark 1968];The Science of «Muddling Through» [1959], di Lindblom, e A Strategy of Decision[1963], di Braybrooke e Lindblom, in cui è presentato il concetto di incremetalismosconnesso; American Business and Public Policy [1963], di Bauer, Pool e Dexter, incui, grazie a 1.400 interviste e dieci anni di lavoro d’équipe, è ricostruita l’evoluzionedelle politiche tariffarie statunitensi come chiave di volta per capire le trasformazionidell’intero sistema politico. Nel caso della metafora del bidone della spazzatura, la suaesplicita definizione è del 1972 [Cohen, March e Olsen 1972], ma la disarticolazionetra decisione e processo decisionale è già presente in March [1965].

8 Cioè sui problemi intenzionalmente esclusi dall’agenda politica, nonostante laloro rilevanza.

9 Tra il 1967 e il 1970, le principali università inaugurano corsi di public policy esi tengono i primi seminari ai convegni annuali dell’APSA [Hansen 1983].

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Noi crediamo che qualche lume per rischiarare questa contraddi-zione possa derivare dall’analisi dell’ambiguo rapporto che gli studiosidi policy hanno tenuto verso il comportamentalismo e la teoria dei si-stemi, utilizzati in modo un po’ opportunistico per ottenere una paten-te di scientificità, ma nel contempo guardati con sospetto per il rischiodi derive positiviste. Questa ambivalenza traspare dagli scritti di moltefigure chiave di quel periodo: Easton, Truman, Dahl, Eulau mostranospesso un distacco critico verso l’entusiasmo dei più convinti compor-tamentalisti, verso le loro grandi indagini orientate a cogliere gli atteg-giamenti degli elettori per il voto, così come un biologo potrebbe co-gliere gli atteggiamenti verso il cibo di una qualche specie animale.

E tuttavia, almeno all’epoca del suo decollo, il behavioralismo di-ventava un comodo ombrello per due motivi pratici. Innanzi tutto, legrandi fondazioni, e la Fondazione Ford in primo luogo, esigevano,quale condizione per l’elargizione dei finanziamenti, la presentazionedi progetti di ricerca con struttura e metodologie solide, il che signifi-cava analoghe a quelle utilizzate dalle scienze naturali [Dahl 1961b;Easton 1965; Farr e Seidelman 1993]. Inoltre, in anni pesantementesegnati dal maccarthismo10, le scienze sociali dovevano difendersi dallapericolosa assonanza tra «sociale» e «socialista», che induceva l’opinio-ne pubblica e i politici a guardare con diffidenza alla loro espansioneaccademica [Easton 1985]. Persino Harold Lasswell, che durante leseconda guerra mondiale aveva servito il suo paese con delicati compi-ti di intelligence, finì nell’elenco dei sospetti per le sue teorie sulla so-cietà globale e la pace tra i popoli11. Il rifugiarsi dietro indagini alme-no apparentemente limitate alla mera registrazione di dati e alla loroelaborazione statistica forniva un’efficace difesa verso i rischi di unapesante intrusione della politica nella ricerca.

Nonostante questi aspetti, sarebbe però riduttivo considerare l’am-biguo rapporto tra comportamentalismo e decollo dei policy studiessolo alla luce di esigenze pratiche: da questa relazione, prima coltivatae poi radicalmente negata, traspare un tipo di complicità più interes-sante, che potremmo definire come opportunismo analitico.

Innanzi tutto, il nuovo approccio permetteva un’emancipazionecompleta e quasi provocatoria da concezioni formalistiche delle istitu-zioni e delle politiche [Gunnell 1995]: ricostruendo i concreti processidi adozione e implementazione, gli scienziati politici avevano modo di

10 Dal nome del senatore Joseph McCarthy, che alla fine degli anni ’40 si fecepromotore di una violenta campagna per sradicare nel paese l’influenza del comuni-smo. La commissione d’inchiesta da lui presieduta adottò metodi intimidatori e for-mulò sentenze in seguito giudicate inique dallo stesso senato americano.

11 «Pertanto Lasswell dovette scrivere a Merriam per chiedergli una testimonian-za scritta del fatto che non era, e non era mai stato, membro del partito comunista, osimpatizzante dei comunisti e del comunismo» [Berndtson 1987, 97]. Una ricostruzio-ne del clima di quegli anni è fornita anche da Simon [1991, 186-194].

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dimostrare l’autonomia e la rilevanza del loro specifico punto di osser-vazione rispetto al diritto, all’economia, alla storia [Easton 1953, 187-188 trad. it.]. Ma soprattutto, comportamentalismo, teoria del sistemapolitico e policy sciences permettevano, ciascuno a suo modo, di tener-si alla larga dal conflitto epistemologico tra polo naturalistico e poloantinaturalistico nelle scienze sociali, tra fautori della spiegazione sullabase di macroleggi, finalizzate a sintetizzare il perché dei fenomenisociali, e fautori dell’interpretazione (Verstehen), secondo la lezioneweberiana.

Come vedremo meglio nelle prossime pagine, lo studio delle poli-tiche pubbliche fatica a reggere il confronto con un dibattito episte-mologico impostato in questi termini. Mentre il richiamo allo spiritoempirista di Locke12 appare in sintonia con la sua concretezza, con lacura per il dettaglio e per l’informazione di prima mano, la riletturaoperata dalla filosofia analitica europea, con l’equiparazione della ri-cerca scientifica all’individuazione delle cause generali, sta decisamentestretta a gran parte delle scienze sociali americane. Comportamentali-smo, teoria dei sistemi e policy sciences sono in fondo tre modi peraspirare a elevati standard di rigore scientifico senza impegnarsi indispute capaci di svuotare l’originalità del concetto di politica pubbli-ca. Infatti i comportamenti, o gli input, o i problemi non sono cause,o quanto meno non lo sono allo stesso modo in cui il calore è causadella trasformazione dell’acqua in vapore: e tuttavia sono elementi fon-damentali per capire la dinamica del policy making. Quando DavidEaston rivendica la continuità della sua impostazione, per difendersidalle critiche di chi considera la sua un’abiura dettata da circostanzetremende, ha buoni motivi per farlo: «Una lettura attenta del mio di-scorso presidenziale dovrebbe chiarire che non c’è stato nessun muta-mento radicale [...] Mai, neppure nel Sistema politico, sono stato ingrado di accettare un’interpretazione dei valori della scienza legata auna posizione di positivismo radicale» [Easton 1971, 385 trad. it.]13.

2.1.6. La svolta del ’69

Nel 1969 David Easton, divenuto presidente dell’American Politi-cal Science Association, tiene un discorso considerato l’inizio dell’epo-ca postcomportamentalista nella scienza politica, e soprattutto nellostudio delle politiche. Il periodo è tra i più convulsi della storia ame-ricana: «L’umanità oggi agisce in un senso di urgenza. Il tempo non èpiù dalla nostra parte» [Easton 1969, 355 trad. it.]. Come ribadirà due

12 Lasswell e Kaplan [1950] pongono in testa al loro volume sul potere questasua citazione: «Non sono le denominazioni che costituiscono il governo, ma l’uso el’esercizio di quei poteri che dovrebbero accompagnarsi ad esse».

13 Per una lettura opposta, v. Hawkesworth [1988].

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anni dopo, gli scienziati sociali erano «messi di fronte negli Stati Unitia una guerra disastrosa nel Vietnam, a bambini che muoiono di fame,a negri in collera, a bianchi spaventati, a cittadini d’ordine mobilitati,a tre gravissimi assassinii politici nel giro di cinque anni, a rivolte stu-dentesche nelle università e ai progetti di guerriglia» [Easton 1971,396 trad. it.]. In questo clima, Easton raccoglie le critiche più voltemosse al modello sistemico e alle ricerche sul policy making da essooriginate, accusate di coltivare un interesse solo formale per le politi-che, perché attente più ai processi decisionali e ai loro effetti sulle isti-tuzioni, anziché al loro impatto concreto sulle condizioni di vita dellagente [Van Dyke 1968; Heatwole, Keller e Wamsley 1976]. SecondoEaston, il movimento postcomportamentalista è chiamato a opporsi aquesta sterilizzazione del concetto di policy, attraverso «una ricerca piùrilevante, un orientamento verso il mondo che incoraggi gli scienziatipolitici, anche nella loro attività professionale, a prescrivere e ad agirein modo da migliorare la vita politica secondo i criteri umani» [Easton1969, 355 trad. it.].

Questa netta presa di posizione è destinata a rompere i tenui equi-libri su cui si era retta la crescita dei policy studies durante gli anni ’60.L’effetto è una più netta divisione di questo campo di indagine lungotre diverse direttrici, che potremmo tratteggiare in questi termini:

• l’uscita dal piano a, per esplorare inedite modalità di fare ricer-ca scientifica, prendendo come punto di riferimento la duplice valen-za, descrittiva e prescrittiva, dei concetti di politica pubblica e di de-mocrazia;

• una drastica riduzione della complessità del concetto di politicapubblica, fino a farlo coincidere con le scelte di spesa dei governi, peradeguare la ricerca a standard più elevati di formalizzazione delle ipo-tesi e di rigore statistico dell’analisi;

• l’ancoramento alla tradizione di ricerca avviata negli anni ’50 e’60, per fare studi in regola con i tradizionali standard dell’indagineempirica politologica, ma nel contempo più consapevoli della comples-sità del loro oggetto.

Vediamo più da vicino queste tre diverse alternative.

2.1.7. Il criterio della rilevanza e l’uscita dal piano a

«Una teoria non può essere vera nella scienza se non è anche rile-vante nella società (indipendentemente da come noi definiamo la veri-tà)» [Easton 1971, 400 trad. it.]. L’appello a una scienza sociale capa-ce di produrre conoscenze rilevanti per lo sviluppo economico e civilenon suonava certo nuovo in un convegno di politologi americani. Ineffetti, in quegli anni molti ricercatori, per riorientare il loro lavoro, sitrovavano ad attingere a una tradizione che conta figure quali Dewey,Merriam e Lasswell. Più precisamente, alcuni autori ritornano sul con-

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cetto di scienze delle politiche, così come definito da Lasswell nel1951, per farne un ponte capace sia di collegare la loro riflessione alpensiero politico europeo [Graham 1988], sia di valorizzare la teoriadei sistemi come vera e propria tecnologia sociale a servizio della de-mocrazia. Del resto, era lo stesso Easton a suggerire questa evoluzione:«L’analisi sistemica è un accostamento teorico che nel suo orientamen-to generale tende a facilitare la ricerca sulle questioni sociali pratiche.In realtà, questo modello analitico vede in un sistema politico un mec-canismo sociale fondamentale per impegnarsi nell’azione collettiva»[Easton 1971, 400 trad. it.]. Proprio nel 1970 nasce la rivista «PolicySciences», destinata a divenire un importante canale per la diffusionedi questo paradigma, dentro e fuori gli Stati Uniti.

A John Dewey e alle ricerche di ispirazione pluralista tornano in-vece a guardare gli autori che intendono evidenziare la distanza traquesta tradizione e il formalismo in voga in una parte dell’accademia.Anche questa evoluzione verso il neopragmatismo è in qualche modoanticipata e legittimata da Easton: «Con la tesi per cui la conoscenzacomporta una responsabilità per l’azione, il postcomportamentalismosi ricollega a una tradizione venerabile che fa capo a fonti tanto di-verse come la filosofia greca classica, Karl Marx, John Dewey e l’esi-stenzialismo moderno» [Easton 1971, 370 trad. it.]. Benché i riferi-menti al pensiero europeo abbiano trovato scarsissimo seguito nellascienza politica americana, larga parte dell’ultima elaborazione di Lin-dblom o di Wildavsky rivela numerosi punti di contatto con questaimpostazione.

Ma quella delle policy sciences e del neopragmatismo è un’altrastoria, che esula dall’orizzonte di questo volume.

2.1.8 Gli studi dell’output e la nuova economia politica

All’inizio degli anni ’60, cominciano a essere disponibili consistentiserie storiche di dati su molti aspetti del processo politico negli Statidell’Unione americana: sulle scelte di voto degli elettori, ma anchesugli impegni di spesa dei governi; sulle condizioni economiche e so-ciali, ma anche sulle caratteristiche dei diversi assetti istituzionali.L’approccio sistemico, con le sue categorie di input e output, con l’at-tenzione alle modalità di interscambio tra ambiente e sistema, fornivale ipotesi da applicare ai dati. Lo sviluppo dei calcolatori per il tratta-mento automatico delle informazioni forniva la tecnologia per elabo-rarli in fretta e a basso costo.

Dunque, come vedremo meglio tra breve, per tutto il decennio è ilparadigma sistemico a legittimare questo tipo di ricerche e a fornirel’intelaiatura per leggere i risultati [Salisbury e Heinz 1970, 39]. L’out-put dei sistemi politici, approssimativamente rappresentato dalle diver-se voci di spesa dei loro bilanci, è sensibile all’input, cioè alle variazio-

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ni degli orientamenti politici degli elettori? E quale ruolo ha l’ambien-te, cioè il grado di sviluppo socioeconomico e il tipo di risorse dispo-nibili, nel condizionare il processo?

Ma la svolta del 1969 espone queste ricerche a critiche moltodure: le accuse rivolte al primo modello eastoniano per la sua indiffe-renza rispetto alle concrete modalità di implementazione e all’effettivoimpatto sulle condizioni di vita dei destinatari valgono, a maggior ra-gione, per gli output studies. Infatti la dinamica della spesa è un indi-catore molto impreciso degli effetti delle politiche: basti ricordare ladifferenza tra output, outcome e impatto, che abbiamo evidenziato nelterzo capitolo.

Negli anni ’70, quando l’aggettivo «sistemico» suonava quasi comeun’offesa, le ricerche sull’andamento della spesa pubblica per le prin-cipali aree di policy sembrano quasi migrare alla ricerca di un altroparadigma. Molte indagini troveranno in effetti nella razionalità econo-mica la chiave per dare una risposta alle domande circa le scelte deigoverni nell’impostazione dei bilanci e delle politiche macroeconomi-che. I vecchi interrogativi saranno quindi riformulati in un contestoteorico diverso e ormai comunemente definito con il termine di nuovaeconomia politica. Di questo approccio, che ha rapporti solo nominalicon il nostro concetto originario di politica pubblica, torneremo aoccuparci all’inizio del prossimo paragrafo, per far emergere dal con-trasto i tratti analitici dell’impostazione che abbiamo privilegiato inquesto capitolo, e che coincide con la terza linea di sviluppo, qui diseguito richiamata.

2.1.9. Le politiche pubbliche nella scienza politica «normale»

Negli anni successivi alla svolta di Easton, la maggioranza dei po-litologi continuava a trovare nelle ricerche dei due decenni precedentii punti di riferimento fondamentali per l’accumulazione delle cono-scenze sul policy making. Per questi autori, sotto l’accogliente ombrel-lo del comportamentalismo e della teoria dei sistemi, si era di fattosviluppato un insieme di concetti e di metodi molto distanti dallo ste-reotipo indirettamente avallato dalla riflessione autocritica del 1969.Più precisamente, il fatto di poter considerare le politiche come cono-scenze in uso, come interazioni, come processi, come bidoni dellaspazzatura, conferiva a questo concetto la flessibilità e le articolazioninecessarie a esplorare la complessità delle scelte di governo nelle socie-tà democratiche contemporanee14. Del resto, in quegli stessi anni, i

14 Da questa specifica prospettiva, appare tutt’altro che infondata la tesi dellacontinuità tra il prima e il dopo l’evento simbolo del discorso di Easton [Beyme 1986,544; Torgerson 1995, 226].

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crudi resoconti sui fallimenti di larga parte dei programmi di riformasociale facilitavano il riconoscimento di aspetti quali l’ambiguità degliobiettivi, la vischiosità delle dinamiche del policy making, la tendenzaai compromessi e ai rinvii, la difficoltà di imporre dei costi, l’abilitàdei destinatari nel reinterpretare gli interventi nel modo a loro piùcongeniale.

I primi anni ’70 coincidono dunque con la piena istituzionalizza-zione dello studio delle politiche pubbliche e con la sua accettazionecome campo di ricerca autonomo nella corporazione dei politologi enei piani di studio delle principali università15, anche se alcuni lamen-tano, non a torto, il permanere di un pregiudizio negativo rispetto allavalidità analitica di questi studi [Hill 1997].

2.2. Europa

Nel primo capitolo, abbiamo fornito alcuni elementari indizi percapire il difficile rapporto tra il concetto di politica pubblica e le rap-presentazioni della sfera pubblica in circolazione nei diversi paesi eu-ropei. Anche all’interno della scienza politica, la diffusione di un ap-proccio policy oriented avviene con difficoltà, dato che ancora nel 1986Klaus von Beyme deve fare questa ammissione: «La nuova tendenza arivendicare la rilevanza della scienza politica spostando il fuoco del-l’analisi dal processo decisionale, dalla politics, ai prodotti e ai risultatidelle decisioni pubbliche, cioè alla policy, in generale non è stata accet-tata nelle altre nazioni come invece è avvenuto negli Stati Uniti, dovequesta tendenza ha avuto origine» [1986, 541].

Con l’eccezione della Gran Bretagna, più veloce nell’autonomoinserimento in questo dibattito scientifico16, nel contesto europeo l’in-teresse per l’analisi politologica delle politiche ha richiesto la mediazio-ne di due concetti più comprensivi e teoricamente più densi o, se sivuole, più ingombranti: i partiti e lo Stato. Per quanto riguarda i par-titi, i tre più importanti progetti di ricerca organizzati nell’ambito del-l’European Consortium for Political Research riguardano rispettiva-mente:

• «Le differenze di partito e le politiche pubbliche»; avviato nel

15 Nel 1971 nasce la «Policy Studies Organization», che dal 1972 pubblica il«Policy Studies Journal». Nel 1973, tra le categorie utilizzate per schedare i settori diricerca del «Biographical Directory» dell’American Political Science Association, com-pare la sezione «Politica pubblica: formazione e contenuto» [Greenstein e Polsby1975, xiii]. Una graduatoria degli autori considerati più significativi nel periodo 1970-76 vede in testa tre studiosi di politiche pubbliche: Lowi, Wildavsky e Dye [Lynn,1983, 106].

16 Il riferimento è soprattutto ai lavori realizzati negli anni ’70 da Richard Rose,Jeremy Richardson e Grant Jordan. Dal 1981 è pubblicato il «Journal of Public Poli-cy».

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1978, nel 1982 produce un primo volume, dal titolo significativo L’im-patto dei partiti, non delle politiche [Castles 1982];

• «Il futuro del governo di partito»; avviato nel 1980, producedue volumi, di cui torneremo a occuparci tra breve [Castles e Wilden-mann 1986; Katz 1987];

• «Il gruppo di ricerca sui programmi elettorali» cui si deve la piùvasta ricerca sui contenuti del mandato che i partiti sollecitano aglielettori [Klingemann, Hofferbert e Budge 1994].

In altri casi, invece, il passaggio a questo oggetto di studio è deri-vato dai tentativi di dare contorni più precisi al concetto di Stato: delbenessere, capitalista, o pianificatore. Grazie alle ricerche sull’originestorica del welfare state, l’elenco delle tradizionali variabili politiche,incentrate sul peso elettorale e sull’orientamento ideologico dei diversipartiti, si arricchiva di fattori quali la cultura e la disponibilità all’inno-vazione dei funzionari amministrativi, l’attività delle organizzazioni diispirazione religiosa, le reti di solidarietà promosse dai movimenti ope-rai [Burns 1953; Heclo 1974; Flora e Heidenheimer 1981]. Proprio aquesto settore di indagine si riferisce il più vasto progetto avviato perla raccolta di dati sulle politiche sociali, l’Historical Indicators of West-ern European Democracy, promosso da Peter Flora, con l’obiettivo diricostruire i tratti principali dell’evoluzione delle assicurazioni sociali inquindici paesi europei, risalendo fino alla loro origine nel diciannove-simo secolo [Flora e Heidenheimer 1981; Alber 1982; Ferrera 1984].Anche i tentativi di introdurre criteri di programmazione nelle politi-che economiche, in atto in molti paesi europei, comportavano trasfor-mazioni difficili da inquadrare con i tradizionali strumenti della scien-za politica [Nizard 1973]: ne è prova una vivace attività di ricerca,destinata a formare molti degli attuali studiosi di politiche pubbliche[Scharpf 1973; Hayward e Watson 1975].

Gli interrogativi circa il peso rispettivo delle variabili politiche e diquelle socioeconomiche, negli Stati Uniti ampiamente incanalati entroil paradigma sistemico, in Europa hanno spesso come punto di riferi-mento, positivo o negativo, le teorie marxiste; le alternative sono per-tanto riformulate in termini di «autonomia del politico», secondo lariflessione di Antonio Gramsci, oppure di «condizionamento dellastruttura», in genere identificata con i rapporti di classe tra capitale elavoro [Korpi 1983].

Per sfuggire a questa tenaglia, e per emancipare dal conflitto ideo-logico tra le diverse scuole marxiste il ruolo del movimento operaionel policy making, negli anni ’70 alcuni autori formulano il concetto dineocorporativismo [Schmitter 1974; 1977; Lehmbruch 1979; 1982].Nelle pagine seguenti definiremo meglio i contorni di questa forma diintermediazione tra organizzazioni del lavoro e governi. Qui importasolo evidenziare come l’uso di questa categoria analitica abbia indottomolti studiosi a guardare con maggiore attenzione ai contenuti dei sin-goli accordi e alla loro concreta implementazione: un passo importante

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per portare almeno alcune politiche – del lavoro, della riconversioneindustriale, della previdenza – al centro della ricerca [Jordan 1981;Cawson 1985; Lange e Regini 1987].

Infine, è interessante notare la coevoluzione dell’interesse per lepolitiche pubbliche e di quello per le dinamiche dell’unificazione eu-ropea. Come molti osservatori hanno notato, davanti a questo oggettoistituzionale non identificato, le categorie analitiche intrecciate nelconcetto di policy – conoscenza in uso, interazione, processo, bidonedella spazzatura – sembrano fornire strumenti abbastanza flessibili,capaci di riuscire là dove hanno fallito i tradizionali frames di riferi-mento delle discipline giuridiche, economiche, politologiche [Scharpf1986; 1994; Wallace et al. 1977; Mazey e Richardson 1993]. E l’ideadi fare leva su questi elementi per arrivare a una «governabilità oltre igoverni» affascina per le inedite valenze prescrittive [Rhodes 1997;Börzel 1998]. La nascita, nel 1994, del «Journal of European PublicPolicy», diretto da Jeremy Richardson, rappresenta la più importanteprova di questo legame.

3. Riferimenti teorici e metodologici

Se a livello prescrittivo le politiche pubbliche devono farsi largotra i concetti di capacità di governo (governance) e di management,così sul piano descrittivo devono aprirsi un varco tra impostazioni checomprimono la loro variegata e complessa valenza analitica. La ridu-zione delle politiche a output del sistema politico viene adottata comepunto di partenza del nostro itinerario per due motivi. Innanzi tutto,questo approccio è più familiare al pubblico italiano, visto che neldibattito, colto e non, è dato per scontato che le politiche siano il pro-dotto della politica: degli orientamenti ideologici delle coalizioni digoverno, degli assetti istituzionali, del numero dei partiti, delle lorocaratteristiche organizzative. In secondo luogo, storicamente la discus-sione degli studi dell’output ha svolto l’importante funzione di chiarirea chi non si riconosceva in questa impostazione quali dovessero esserei tratti fondamentali di una ricerca decisamente orientata alle politichepubbliche.

3.1. Gli studi incentrati sull’output

Gli studi incentrati sull’output costituiscono, nel loro insieme, un«quasi paradigma» [Torgeson 1995, 230] caratterizzato dalla ricerca dirisposte a questa domanda: i fattori economici e sociali che definisco-no la quantità e la qualità delle risorse che il sistema politico puòestrarre dall’ambiente, contano più o meno dei fattori politici, chedefiniscono gli obiettivi e le priorità dei governi?

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Questo interrogativo rivela una duplice ispirazione comportamen-talista. Dal lato delle variabili indipendenti, viene presa sul serio ancheun’ipotesi fino a quel momento non considerata esplicitamente daipolitologi americani: quella che la politica non conti, e che siano inve-ce le dinamiche socioeconomiche a determinare le scelte delle istitu-zioni. Dal lato della variabile dipendente, è promossa la raccolta didati più precisi e comparabili circa le decisioni degli esecutivi, al di làdelle loro dichiarazioni ufficiali o delle critiche dei loro avversari poli-tici: la spesa, i dollari passati dalle tasche dei cittadini alle varie vocidei bilanci pubblici, e da lì eventualmente tornati in altre tasche, sem-brano un indicatore rozzo, ma efficace.

Ma da questo impianto di ricerca traspare nettamente anche l’im-pronta sistemica, evidente nell’idea che il peso della politica equivalgaalla capacità delle istituzioni di rielaborare gli impulsi provenienti dal-l’ambiente, fino a produrre output capaci di far perdere le tracce delletensioni che li hanno originati: «La maggior parte, se non la totalità diquesti studi si collocano in uno schema che è quanto meno “quasi-eastoniano”. Al centro dell’interesse teorico stanno le decisioni di pol-icy, viste come gli output di un sistema politico che deve rispondere ainput fatti di risorse, domande, sostegni» [Salisbury e Heinz 1970, 39].

Negli anni ’60, la maggior parte delle indagini empiriche orientateda questa impostazione assume come ambito di studio i livelli di go-verno subnazionali all’interno della confederazione americana [Daw-son e Robinson 1963; Hofferbert 1966; Sharkansky e Hofferbert1969]. Per fissare una qualche gerarchia tra le variabili che influenza-no l’attività dei sistemi politici, è calcolata la forza delle correlazioniche emergono da larghe serie storiche di dati quantitativi. Le variabilisocioeconomiche più utilizzate fanno riferimento al reddito pro capite,al livello di industrializzazione, al grado di urbanizzazione, alla compo-sizione della popolazione per fasce di età. Le variabili politiche si ba-sano invece sulla competizione elettorale più o meno serrata, sul livellodella partecipazione al voto, sul partito al governo. La variabile dipen-dente, l’output, è in genere operazionalizzata con riferimento ai datidella spesa pubblica, assunta globalmente o considerata per grandi ca-tegorie, quali gli impieghi di bilancio per l’ordine pubblico e la sicu-rezza personale, contrapposti a quelli per gli interventi sociali.

Le prime elaborazioni statistiche, compiute negli anni ’60, con iloro controversi risultati, hanno impegnato un’intera generazione dipolitologi. E tuttavia l’ago della bilancia sembrava nel complesso pen-dere a favore dell’ipotesi che le dinamiche economico-sociali abbianoun potere esplicativo più forte rispetto alla competizione politica e aiprogrammi di governo [Dawson e Robinson 1963; Dye 1969; Salisbu-ry 1968].

È interessante osservare che i più attenti studiosi del policymaking [Hofferbert 1966; Dye 1966; Salisbury e Heinz 1970; Rose1980] non erano affatto stupiti o disturbati da questi dati, che arriva-

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vano a salutare con entusiasmo, perché capaci di mettere a nudo larozzezza del modello sistemico: «Considero questo insieme di risultaticome devastante: né si può minimizzarne la portata come se non si-gnificassero quello che ci dicono in modo chiaro: e cioè che l’analisidei sistemi politici non spiega le decisioni di policy adottate da queglistessi sistemi» [Salisbury 1968]. Che le roboanti promesse elettoralicedano poi il passo a valutazioni più rispettose delle condizioni socio-economiche e dei vincoli finanziari, appare a questi autori come unargomento a favore di uno studio più ravvicinato del policy making,il cui orientamento non può essere semplicemente desunto dalle di-namiche della competizione tra i partiti o dall’affiliazione politicadella maggioranza di governo. Se il rapporto tra politica (politics) epolitiche (policy) potesse essere davvero definito in termini di variabi-le indipendente e di variabile dipendente, non avrebbe senso investi-re energie intellettuali per ricostruire la concreta evoluzione delledecisioni dal momento in cui queste lasciano i palazzi, per confron-tarsi con le effettive situazioni in cui operano gli implementatori evivono i destinatari. Gli scostamenti dai progetti originari sarebberosolo distorsioni patologiche, come lo schermo difettoso di un compu-ter ne altera l’output. Ma questa tesi contrasta con tutto quello cheabbiamo imparato nel capitolo precedente sulle politiche come cono-scenze in uso, come processi, come interazioni, come bidoni dellaspazzatura.

3.1.1. La ricerca diventa comparata

Come abbiamo ricordato nel paragrafo precedente, quel che avvie-ne nei primi anni ’70 è un importante punto di snodo per capire leattuali tendenze nello studio delle politiche pubbliche. In questi annimatura l’esplicito riconoscimento che la comparazione costituisce ilprincipale problema analitico dei policy studies. Dalla comparative pol-icy, un vero «microcosmo di diversità concettuali, metodologiche eanalitiche» [Hancock 1983, 285], sono infatti uscite molte delle cate-gorie che presenteremo nel prossimo paragrafo. All’inizio del decen-nio, dunque, questo approccio abbandona i familiari confini degli StatiUniti, e diventa internazionale.

La sprovincializzazione procede in due sensi. Innanzi tutto, le in-dagini tendono a comprendere i principali paesi industrializzati, a par-tire dal Canada e dagli Stati europei. In secondo luogo, gli studiosiimpegnati provengono da varie nazioni e approdano a queste ricercheda itinerari teorici diversi. Vale la pena notare che la scienza dellapolitics aveva affrontato questa svolta già negli anni ’50, anche grazie alruolo che la potenza americana andava assumendo sul piano interna-zionale, con il conseguente bisogno di informazioni, di tipologie e dianalisi. La public policy approda alla dimensione internazionale in larga

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parte per impulsi diversi. Dal lato, per così dire, della domanda, cioèdell’evoluzione analitica interna, gli output studies avevano il problemadi come sopravvivere alla crisi del loro modello di riferimento. L’auto-critica di Easton toglieva infatti plausibilità teorica alle loro ipotesi:«Forse l’aspetto più interessante dello studio comparato delle politicheè il modo in cui hanno rimesso in discussione il paradigma convenzio-nale [quello sistemico] e ci hanno reso più sensibili ai suoi limiti»[Ashford 1983, 186].

Dal lato dell’offerta, la ricchezza dei dati disponibili e i costi dielaborazione sempre più contenuti permettono alle ricerche di esten-dere continuamente i loro confini [Castles 1989, 5]. In quegli anni, leorganizzazioni internazionali iniziano a pubblicare le serie storichedelle principali variabili demografiche, sociali, economiche dei paesimembri. E grazie allo sviluppo della comparative politics, le tradizionalicategorie di matrice vetero-istituzionalista, in passato utilizzate per dif-ferenziare i diversi sistemi politici – tipo di regime, forma di governo,sistema elettorale – possono essere integrate con dati sulla culturapolitica [Almond e Verba 1963] o sulle relazioni tra i partiti [Lijphart1968; Peters et al. 1977], e intrecciate con le informazioni sulle presta-zioni dei sistemi economici. Infine, lo straordinario sviluppo delle ri-sorse computazionali e la drastica riduzione del loro costo permettonodi testare facilmente anche i modelli più inediti.

3.1.2. Ma conta la politica?

Internazionalizzazione della ricerca significa anche reinterpretazio-ne delle ipotesi di base, mentre fuori dagli Stati Uniti cresce la rifles-sione intorno all’effettiva capacità delle forze della sinistra e del mo-vimento operaio di condizionare le politiche, una volta arrivate alla«stanza dei bottoni», cioè a posizioni di governo. Infatti in Europa ladelusione per le esperienze riformiste degli anni ’60 e per i tentatividi introdurre criteri di programmazione nelle politiche economichenon porta a un generale sviluppo delle ricerche sull’implementazione,ma induce gli studiosi ad interrogarsi sulla capacità della politica disvolgere un ruolo effettivo nell’indirizzare le dinamiche sociali. L’arcostorico per la verifica delle ipotesi si allunga, fino a comprendere l’in-tera evoluzione del welfare state. La domanda «Does politics mat-ter?», «Conta davvero la politica?» ricorre in centinaia di studi e di-viene il simbolo di questa impostazione [Sharpe e Newton 1984;Castles e Mc Kinlay 1979; Wilensky 1975]. Per la prima volta si pon-gono in dubbio affermazioni che il senso comune dà spesso perscontate: governi con orientamenti ideologici diversi adottano vera-mente politiche pubbliche tra loro così diverse? Le democrazie por-tano davvero a più uguaglianza sociale? Sistemi scolastici basati suivalori del pluralismo sono davvero più efficienti nell’addestramento

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alle professioni scientifiche rispetto ad altri, basati sull’osservanza deidogmi?17

Nel 1975 Harold Wilensky pubblica una ricerca destinata a segna-re un’epoca per la sua ampiezza e per i suoi risultati. L’elaborazione,basata sui dati relativi a 64 nazioni industrializzate, definisce la varia-bile dipendente come la percentuale del prodotto interno lordo desti-nata a spese per programmi sociali. Le variabili politiche sono basatesu una tipologia dei regimi (liberaldemocratici , totalitari, autoritari

oligarchici, autoritari populisti); le variabili economiche e sociali con-siderano, oltre alle tradizionali serie di dati, la percentuale di ultrases-santenni sul totale della popolazione. E proprio quest’ultima variabilerivela la più netta correlazione con la spesa per il welfare, sorpassandonettamente per potere esplicativo il peso delle variabili politico-istitu-zionali. La spiegazione evidenzia il fatto che lo sviluppo economicocomporta un mutamento nella struttura demografica della popolazio-ne, con l’aumento della porzione dei cittadini anziani, che sono i mas-simi consumatori di due tipi di prestazioni sociali, sanità e pensioni,cui si deve la lievitazione delle spese per il welfare. La conclusione èevidentemente destinata a suscitare vivaci reazioni: benché diversi perassetti istituzionali, per grado di democraticità e per ideologie, i gover-ni sono comunque condizionati da dinamiche demografiche e socio-economiche più profonde.

La ricerca di Wilensky può essere in un certo senso consideratacome il frutto più maturo di un’impostazione ancora sorretta dal com-portamentalismo e dalla teoria del sistema politico. Ma il dibattito chesegue evidenzia l’esigenza di basi teoriche ed empiriche diverse. Da unlato, sono sottolineati i problemi metodologici interni, legati all’impiegodi variabili per forza di cose piuttosto elementari, se non rozze, e al li-mitato numero dei casi, che conferisce precarietà ai tentativi di genera-lizzazione [Tufte 1974]. Ma è soprattutto la povertà analitica a esseremessa sotto accusa. Così è riassunto un dibattito ventennale nelle paro-le di un autore che pure ha dato un grande contributo a questo tipo diricerche: «Lo sviluppo del welfare state è in larga misura funzione del-lo sviluppo economico, della struttura demografica e di forze politichesocialdemocratiche [...]. Il problema con queste spiegazioni non è chesono imprecise: è che, per come stanno evolvendo, non ci raccontanomolte delle cose che invece vorremmo sapere» [Castles 1989, 6].

Il riorientamento segue varie direttrici. Innanzi tutto, l’analisiquantitativa si concentra sulla verifica di ipotesi con un più solido fon-damento nella teoria macroeconomica, quali il trade-off tra sostegnoall’occupazione e lotta all’inflazione [Hibbs 1977], o il ruolo della spe-

17 Occorre ricordare che i successi inizialmente conseguiti dall’Unione Sovieticanella corsa allo spazio avevano prodotto all’interno degli Stati Uniti un radicale ripen-samento dei principi su cui si reggeva la loro istruzione pubblica.

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sa pubblica in funzione anticiclica. Ma soprattutto i governanti, rap-presentati nel modello sistemico come una misteriosa scatola neradotata solo della possibilità di convertire l’input in output, diventanoora attori capaci di proprie strategie, attivamente impegnati a reinter-pretare le sfide dell’ambiente per piegarle ai loro progetti [Hansen1983; Alt e Alesina 1996]. Insomma, se negli anni precedenti le ricer-che miravano a evidenziare le caratteristiche delle domande che pre-mono sul sistema politico, ora i politici sono considerati come attorirazionali, interessati a strutturare l’offerta di politiche nel modo a loropiù conveniente.

I problemi che ora si aprono riguardano il peso specifico della co-erenza ideologica rispetto, ad esempio, a motivazioni puramente op-portunistiche, volte alla conservazione delle cariche ricoperte [Hibbs1977; Tufte 1978; Nordhaus 1975]. Ma altri problemi si chiudono:ambiente socioeconomico e sistema politico cessano di sfidarsi a duel-lo per la palma di variabile determinante e sono chiamati a una coesi-stenza pacifica, come due tavoli da gioco – il mercato e la politica –tra cui si devono destreggiare imprenditori-politici e cittadini-elettori-contribuenti: «Diversamente dall’economia o dalla scienza politicaprese isolatamente, l’economia politica positiva18 rimarca sia il compor-tamento “economico” nel processo politico, sia il comportamento “po-litico” nel mercato» [Alt e Alesina 1996, 645].

Come è evidente, nonostante il grande interesse per la ricerca po-litologica, per le sue categorie, per i suoi dati, le basi teoriche ultimedi questa nuova disciplina sono collocate in un altro paradigma, quellodella razionalità economica [Miller 1997]. Questa migrazione compor-ta il taglio del cordone ombelicale che nel modello sistemico collega,almeno formalmente, l’output – le politiche – all’input: si tratta del fe-edback, delle modalità di implementazione, dell’impatto, del concretorecapito delle politiche e delle reazioni dei destinatari. Vero è che l’im-pianto empirico delle ricerche aveva regolarmente trascurato questofattore: ma la sua importanza sopravviveva, almeno come tributo for-male. La nuova economia politica in genere non concede nemmenoquesto: il fatto che le politiche possano essere deformate e persinostravolte nel processo di implementazione non riveste un interesseanalitico in sé, così come non modifica la logica della domanda e del-l’offerta il fatto che i consumatori acquistino le enciclopedie per usarlecome soprammobili.

La new political economy concilia l’esigenza di solide tecniche diinferenza statistica con il rigore e l’eleganza del modello. E, contraria-mente alla prima impressione, questo paradigma per molti politologiha il grande merito di non richiedere abiure circa l’importanza della

18 Cioè senza finalità normative: spesso è utilizzata l’espressione «nuova econo-mia politica», per rimarcare la distanza dall’economia politica classica.

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politica. Anzi, per certi versi questi approcci sono più realisti del re,nel senso che ammettono la possibilità di un’influenza diretta deimodelli istituzionali sulle scelte di policy: un’evenienza, questa, chenemmeno lo studioso del policy making più attento al peso dei vincolinormativi, diciamo Ashford o Lowi, sarebbe disposto a considerare[Lowi 1992; Ashford 1978]. Ai suoi occhi, questo concetto di istitu-zione è sia troppo potente per efficacia, sia troppo ristretto per am-piezza: «C’è un sacco di comportamento istituzionalizzato che non haalcuna ovvia relazione con l’ampiezza degli input e degli output, mapiuttosto con la riconciliazione delle domande e delle risorse e con latrasformazione in routine dell’allargamento dell’attività dei governi»[Ashford 1983, 194].

Ma ora la distanza con gli approcci decisamente orientati alle po-litiche è talmente larga da obbligarci ad abbandonare questa pista, perritornare sulla traccia principale del nostro percorso, anche se occorre-rà riprendere alcune sue acquisizioni nel corso del prossimo capitolo.

3.1.3. Comparazione e causalità

A questo punto, nel lettore può sorgere il dubbio che, a forza diperdere pezzi per strada, l’impostazione decisamente orientata allepolitiche sia destinata ad arrivare nuda alla meta o, meglio, svuotatadal confluire di tanti rivoli diversi in altri bacini analitici. La realtà èdiversa, perché alla fine degli anni ’70 il suo profilo è molto più preci-so che all’inizio del decennio, e proprio grazie alle ricerche compara-te19. Se il rapporto con la scienza politica rimane prioritario, l’imposta-zione decisamente orientata alle politiche si sposta verso «gli affollatiincroci tra le scienze sociali» [Heclo 1975, 8] e, soprattutto, prova amettere a punto un diverso modo di intendere gli obiettivi della ricer-ca comparata.

Il grande potere di attrazione esercitato dalle indagini comparateche vanno alla ricerca delle determinanti delle politiche risiede nellaloro implicita ambizione a dare risposta al perché le vicende di policysono andate in un modo anziché in un altro, producendo certi risultatianziché altri: «La comparazione forniva al ricercatore una logica cau-sale – o almeno associativa – con cui fondare induttivamente l’argo-mento che le somiglianze derivavano da precedenti comuni fattori, e ledifferenze da precedenti diversità. L’uso della comparazione comestrumento per la spiegazione è stata una delle principali basi per ildecollo nel decennio precedente del campo di ricerca accademico del-l’analisi comparata delle politiche pubbliche» [Castles 1989, 4]. Il

19 Cfr. Heclo [1974]; Heclo e Wildavsky [1974]; Heidenheimer, Heclo e Adams[1975]; Ashford [1978]; Leichter [1979].

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fascino della spiegazione causale aveva dunque trasformato gli inputdel sistema politico eastoniano nei fattori capaci di dare un perché allesingole politiche, nonostante la decisa opposizione del suo inventore,che in una citatissima frase20 precisa: «Il mio approccio all’analisi deisistemi politici non intende aiutarci a capire perché certe specifichepolitiche sono adottate dai membri politicamente rilevanti di un siste-ma» [Easton 1965, 89].

Mentre gli input diventano determinant, e poi cause, sullo sfondosi delinea un modello in cui le variabili indipendenti sono collegate aquelle dipendenti da una relazione di tipo lineare. Ma il costo dellasemplificazione appare troppo alto a molti studiosi di politiche:

Un’analisi comparata delle politiche di fatto ristretta a variabili desuntedai conti pubblici, più qualche tassonomia molto semplice delle strutturepolitiche e sociali, implica una simultaneità causale che contrasta con tuttoquello che sappiamo sui processi di sviluppo, e cioè che gli individui, i grup-pi, e i leader interpretano la loro esperienza e intraprendono azioni finalizzatea mantenere o modificare il mondo in cui si trovano [Castles 1989, 11].

Nella ricostruzione storica del paragrafo precedente, abbiamo ac-cennato alla costante ricerca da parte della scienza politica di vie difuga da impostazioni appiattite sul modello delle scienze naturali. Perle ricerche decisamente orientate alle politiche, sottolineare la distanzache le separa dalla logica della causalità diventa essenziale:

Dobbiamo rinunciare all’accattivante linguaggio della causalità o quantomeno accantonarlo per un po’ [...]. Il primo compito della ricerca politica èessenzialmente descrittivo: speriamo che da qui derivi la capacità di lavorarea un più alto livello di astrazione, incorporando la complessità dello Statocontemporaneo [Ashford 1978, 144-145].

Le configurazioni di policy non saltano fuori dall’analisi delle correlazionigenerali tra variabili aggregate. Il processo di policy appare troppo delicatoper questo [Heclo 1974, 12].

Dunque, una ricerca autoconfinata nella descrizione, nella collezio-ne di informazioni, nell’elaborazione di dati fini a se stessi? Certo, unaricostruzione più precisa dei fattori in gioco, della dinamica delle de-cisioni, dei processi di implementazione può rivestire di per sé ungrande interesse. Ma non è solo questo. Gran parte della difficoltànella costruzione di un discorso scientifico sulle politiche pubblichederiva dal fatto che questo concetto è come trapassato dalle classichedicotomie su cui sono costruite le scienze sociali: micro e macro, atto-re e sistema, intenzionalità e causalità. Un approccio orientato alle

20 Eulau [1978]; Dallmayr [1986]; Salisbury [1968].

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politiche esce dilaniato se costretto a scegliere da che parte stare. Enon per un destino sfortunato, ma perché il concetto di policy, comequello di organizzazione, è maturato proprio per sfuggire alle gabbieconcettuali ereditate dalla tradizione delle scienze sociali. Se questo èvero, l’orizzonte della ricerca sulle politiche coincide con l’impegno ascongelare queste dicotomie per renderle, per così dire, navigabili neidue sensi.

3.2. Una prospettiva di intermediazione

Nel 1972, in una delle prime presentazioni dei policy studies com-parse su una rivista europea, Hugh Heclo scrive: «Rispetto al livello dianalisi, policy è un concetto piazzato più o meno a medio raggio»[1972, 84]. A noi sembra che questo riferimento non vada intesocome la ricerca di un inconsistente punto di equidistanza dai dueestremi di micro e macro, o di attore e di sistema, ma piuttosto comeuna prospettiva di collegamento e di riflessione sui limiti di questa po-larizzazione.

Per un verso, è possibile considerare le politiche come esiti delsistema. Ma simultaneamente, il sistema può essere visto, bottom-up,come nient’altro che la produzione delle politiche, come sottolinea giàEaston nel 1953: «In effetti stiamo affermando che tutti quei tipi diattività coinvolte nella formulazione e nell’esecuzione delle politichesociali21, che in modo ellittico sono chiamate in scienza politica il pro-cesso del policy making, costituiscono il sistema politico (political)»[Easton 1953, 129]. La reversibilità delle due prospettive analitiche èil tratto che caratterizza i contributi decisamente orientati alle politi-che, permettendo loro una rivisitazione originale delle classiche dico-tomie agente/struttura, o attore/sistema. A rendere flessibili questealternative è il fatto che le politiche sono, insieme, processi e prodotti:

Le politiche sono tanto processi quanto prodotti. L’uso di questo terminefa riferimento tanto al processo per l’adozione delle decisioni, quanto al pro-dotto di questo processo [Wildavsky 1992, 387].

La sfida non è scomporre il processo o il contenuto, ma è trovare la rela-zione che lega i due [Heclo 1972, 106].

Il richiamo al prodotto, al contenuto è, in fondo, un ancoramentoalla rilevanza dei risultati [Eulau 1978]. Se è vero che le politiche pub-bliche non possono esistere senza elaborazioni cognitive, senza intera-zioni, senza costruzioni sociali del significato, è anche vero che le in-tenzioni degli attori non bastano a fare le politiche, che devono pro-

21 Qui usato nel senso di public, cioè che riguarda l’intera società.

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durre effetti, perché sono cosa diversa dai programmi concordati emai realizzati, o dai movimenti collettivi coinvolgenti, ma autoconfinatinei libri dei sogni.

Questa duplice valenza – intenzionale e «produttiva» – può forsespiegare il rapporto tutto particolare che questi studi intrattengonocon la spiegazione causale. Chi studia le politiche deve prendere sulserio i modelli causali, perché chi fa le politiche li prende sul serio. Sele leggi generali22 non contassero, davanti a un problema di rilevanzacollettiva esisterebbero solo i riti propiziatori o la rassegnazione. Chel’aumento della quota di cittadini anziani tra la popolazione di unanazione porti, ceteris paribus, a un aumento della spesa previdenziale esanitaria, è una conclusione molto vicina a una «legge» nel senso neo-positivista del termine. Che per contrastare questa tendenza occorra,ad esempio, penalizzare i trattamenti previdenziali dei più giovani tragli anziani, è di nuovo una scelta basata su una precisa concatenazionecausale, sottoponibile a verifica empirica né più né meno della validitàdi un farmaco. Le politiche nascono da ipotesi del tipo causa-effetto,anche quando sono una scommessa sulle possibilità degli attori dimodificare il corso degli eventi, per fare in modo che quel che valeoggi non valga più domani.

Da questo punto di vista, dire che lo studio delle politiche si fondasu una teoria dell’attore è dire una mezza verità. Innanzi tutto, l’attoreè un plurale, e non solo nel senso, ovvio, che non sono le singole per-sone a costituire le unità analitiche, ma le loro aggregazioni più omeno strutturate: i burocrati di certi uffici, i rappresentanti di determi-nati interessi, i parlamentari di alcune commissioni. Plurale significache chi entra nel policy making deve mettersi immediatamente in rela-zione con chi svolge funzioni diverse dalle sue, ha risorse diverse, ap-partiene a organizzazioni diverse:

Noi non siamo così ingenui da chiedere «Chi fa le automobili negli StatiUniti?» [...]. Siamo abbastanza accorti da lasciar cadere la domanda «chi»sulle automobili, per porre invece questioni sul complesso sistema da cuiemerge quel prodotto attraverso il contributo di milioni di persone che inte-ragiscono l’un l’altra. Vogliamo lavorare per una simile comprensione delmodo in cui sono fatte le politiche [Lindblom 1980, 63].

Ma lo studio delle politiche tiene solo un piede nelle teorie dell’at-tore, perché l’altro è piantato nelle teorie che riconoscono al mondo –naturale o sociale – una sua autonoma consistenza, sostenuta da unastruttura fatta di «leggi», di nessi causali, con cui il policy maker devefare i conti, se vuole sfruttare i margini del possibile per risolvere, at-tenuare o camuffare problemi di rilevanza collettiva. Insomma, le po-

22 Il riferimento è alle leggi svelate dalla ricerca scientifica quando risponde alladomanda «perché?» in termini generali.

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litiche non sono solo scelte, decisioni, ma anche azioni e risultati23;non sono guidate solo dalle intenzioni, ma anche dall’esperienza, tal-volta drammatica, della serietà delle relazioni di causa-effetto.

E tuttavia anche il polo analitico opposto all’attore, l’altro cornodella dicotomia, nelle sue diverse declinazioni (il sistema, la struttura,ecc.), appena entra nello studio delle politiche, subisce un processo discongelamento e, da regno chiuso e ordinato, diventa un universoaperto e caotico.

In primo luogo, come la teoria del garbage can ci ha insegnato, ilcaso non è sradicabile dalle vicende di policy: «Le policy sciences diseconda generazione si occupano di scelte che interagiscono con lanecessità, la contingenza e il caso, e lo fanno in una varietà di modi,che di fatto costituiscono sempre un confuso azzardo» [Dror 1994,14]. Questo costringe sia il policy maker, sia il ricercatore a confrontar-si con la contemporanea influenza dell’imprevisto e del sovradetermi-nato, per cercare, con le parole di Ashford [1978, 90], «lo stretto sen-tiero tra l’incongruente e il trascendente», per essere, insieme,«anali-tici e realisti» [Heclo 1972, 106].

In secondo luogo, la Legge delle Ampie Soluzioni, formulata daWildavsky (quarto capitolo), mette in evidenza la sproporzione tra lecapacità degli attori di monitorare le conseguenze delle politiche e lavastità degli effetti che queste producono:

Quando le politiche proliferano, cominciano a urtarsi l’un l’altra in modiinattesi, moltiplicando il numero, la varietà e l’ampiezza delle conseguenze. Iprofessionisti delle politiche acquisiscono più conoscenze, ma la forbice traqueste e quello che avrebbero bisogno di sapere si allarga. Mentre la cono-scenza cresce aritmeticamente, le conseguenze delle politiche tra loro in col-lisione crescono geometricamente [Wildavsky 1981, 130].

In terzo luogo, il policy making è fortemente marcato da una pro-prietà conosciuta in letteratura come dipendenza dal percorso (pathdependency), che può essere sintetizzata in questi termini: dove si sta –la definizione della situazione – non dipende solo dalle caratteristichedel posto che si occupa, con i suoi problemi e le sue risorse, ma ancheda dove si viene, dall’esperienza che ha condotto a quel punto [Pierson2000]. Pertanto, l’efficacia delle scelte non dipende solo dal rapporto trail problema che le ha originate e le soluzioni adottate, ma dal modo incui si è arrivati ad abbinare quei problemi e quelle soluzioni: «Nonpossiamo asserire con sicurezza che “in circostanze comparabili” chi sicomporta in modo simile otterrà effetti simili» [Schön 1971, 233].

Infine, anche il sistema non è singolare, ma plurale. E, di nuovo,non nel senso banale che i sistemi politici sono tanti, come i sistemi

23 Ricordiamo ancora una volta che per Easton una policy è «una rete di decisio-ni e azioni che alloca valori» [1953, 130].

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urbani o i sistemi economici. Plurale significa che le diverse sfere del-l’attività umana, il diritto, l’economia, la religione, hanno la capacità diassorbire, filtrare e metabolizzare in modo originale e autonomo le tra-sformazioni operate dagli altri ambiti, per riaffermare il loro propriosenso dell’ordine [Brans e Rossbach 1997].

Pertanto un netto orientamento alle politiche porta a rifiutarecome inadeguato un programma di ricerca basato esclusivamente sul-l’individuazione delle cause ultime: «Quel che normalmente è conside-rato come variabile dipendente (l’output delle politiche) è anche la va-riabile indipendente. Le politiche sono invariabilmente costruite sullepolitiche, spostando in avanti ciò che è stato ereditato, o correggendo-lo, o ripudiandolo» [Heclo 1974, 315].

3.2.1. L’indeterminatezza e la complessità

A questo punto dovrebbe essere chiaro che un tal modo di inten-dere l’attore e il sistema introduce indeterminatezza da tutti e due gliestremi delle dicotomie in uso nelle scienze sociali: «Noi consideriamoil policy making come un processo estremamente complesso, senza uninizio o una fine, con confini che rimangono in gran parte incerti»[Lindblom 1980, 5].

Si può obiettare che il problema dell’indeterminatezza , lo studiodelle politiche pubbliche se lo va a cercare, adottando una definizionedi policy che pretende di salvare insieme la capra dell’intenzionalitàdell’attore e il cavolo della consistenza dei sistemi. È questo che co-stringe l’analisi a «ondeggiare tra la sovradeterminazione e la sottode-terminazione» [Ashford 1978, 91], tra il vedere le politiche come pro-dotti di forze esterne, e il vederle come processi dotati di una loropropria dinamica. Tale rilievo è assolutamente corretto. Il concetto dipolitica pubblica ha valenze che spiazzano il modo tradizionale di in-tendere la ricerca nelle discipline sociali. Come l’uso contemporaneodel concetto di organizzazione, che porta a «sostituire un ragionamen-to inevitabilmente deterministico con un ragionamento che trae tuttele conseguenze dal carattere radicalmente indeterminato dell’azionesociale e dei “quadri” entro cui si dispiega» [Crozier e Friedberg1977, 203]. O come l’uso che March e Olsen fanno del concetto diistituzione, sempre in bilico tra logica dell’appropriatezza e logica dellaconsequenzialità.

La riflessività, l’apprendimento, l’aggiustamento reciproco, l’incre-mentalismo sconnesso, l’ingegneria dell’intelligenza, sono risorse effet-tivamente in circolazione nel policy making. E non vengono immessesolo dall’intervento dell’analista, ma anche dall’iniziativa di produttorie destinatari intraprendenti, o spregiudicati, o lungimiranti [Greenberget al. 1977]. Questa constatazione ha almeno due conseguenze. Innanzitutto, quelli che normalmente sono considerati vincoli tenaci, e cioè le

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norme, le culture, le convenzioni sociali, diventano mobili e flessibili:«Non-linearità significa che l’atto del giocare il gioco dà modo di cam-biare le regole» [Gleick 1987, 24]. L’idea che quelli che sembranopaletti ben conficcati siano invece boe disancorate, è stata spesso illu-strata con il ricorso alla letteratura, quasi a rendere più lieve il peso delduro confronto con l’indeterminatezza. Karl Deutsch si rifà alla famosadescrizione della partita a croquet raccontata in Alice nel paese dellemeraviglie, dove «le palle erano dei porcospini vivi, le porte erano deisoldati piegati in due e i magli erano dei fenicotteri vivi» [Deutsch1963, 72 trad. it.]. Schön [1971, 211], e molti altri studiosi dopo di lui,ricordano come già Tolstoj in Guerra e pace avesse fornito una vividarappresentazione dell’indeterminatezza che pervade persino le decisionidi un comandante in capo impegnato sul campo di battaglia. Heclo[1975, 9] ricorre alla descrizione della spedizione di Il pellegrinaggio inOriente, di Herman Hesse. March [1994, 262] cita Sénancour...

La seconda conseguenza ha a che vedere con il concetto di coevo-luzione. Per l’approccio sistemico tradizionale, le varie componentidell’input e dell’output sono legate da un rapporto di interdipendenza.Pertanto, «l’impatto delle politiche pubbliche sugli individui e suigruppi è un dato politico tanto quanto l’impatto degli individui e deigruppi sulle politiche pubbliche» [Grumm 1975, 441]. Ma nel model-lo eastoniano il flusso dell’influenza scorre in una sola direzione. Così, adesempio, è ammessa la possibilità che le politiche vadano a incideresui rapporti che i partiti intrattengono tra loro: ma questo effetto passaattraverso il feedback, e pertanto prende corpo, per così dire, al girosuccessivo.

Per un approccio decisamente orientato alle politiche, l’interdipen-denza si manifesta invece come un processo di simultanea coevoluzio-ne, in cui perde significato la domanda su chi è il responsabile primodel cambiamento: «La prima cosa da notare nel paradigma evolutivo èche non chiede “che cos’è” una cosa in se stessa (come faceva il para-digma classico); ma chiede “come quella cosa (o persona, o evento) èdiventata quella che è ora”» [Laszlo e Laszlo 1997, 94]. Questa impo-stazione ha le più evidenti conseguenze nell’analisi del rapporto chelega i vari attori nel processo di policy. Heclo e Wildavsky, nella loroanalisi delle politiche di bilancio in Gran Bretagna, ricorrono a unametafora presa in prestito dalla biologia: «Il processo di potere nel-l’esecutivo inglese somiglia a un terrario con poca acqua, dove la cre-scita di ciascuno dipende dalle emissioni degli altri» [1974, 374].Come non ha senso chiedersi se nel terrario ha più potere chi consu-ma anidride carbonica e produce ossigeno, o chi invece fa l’inverso,così l’obiettivo della ricerca non può essere l’identificazione di chiesercita più influenza, ma la ricostruzione delle reti di reciproco con-dizionamento nella comune, continua trasformazione.

Ai lettori con curiosità transdisciplinari non dovrebbe essere sfug-gito un dato: molte delle osservazioni presentate in questo paragrafo

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evidenziano proprietà tipiche dei sistemi complessi. In effetti, oltre aquello di politica pubblica e di organizzazione, anche questo concettopuò legittimamente rientrare tra quelli nati, o reinventati, per scardina-re le classiche aporie ereditate dai precedenti paradigmi.

Se nelle ricerche tradizionali capita spesso che la complessità siainvocata come alibi per metodologie approssimative o per conclusionifumose, questo termine assume un preciso significato tecnico quandoè riferito alle teorie sistemiche di seconda generazione, sviluppate peranalizzare – in genere con linguaggio matematico – l’isomorfismo trafenomeni normalmente studiati in campi diversi, dalla biologia allameteorologia, dall’ecologia alla sociologia [Daneke 1989]: si pensi, adesempio, a una metropoli, al sistema immunitario, a un affollato rien-tro dalle ferie, alla borsa. Più precisamente, i sistemi complessi adatti-vi, o non deterministici, hanno alcune caratteristiche molto vicine aquelle che nelle pagine precedenti abbiamo attribuito alle politiche:

• possono essere analizzati sia bottom-up, sia top-down;• gli elementi che li compongono sono legati da relazioni non li-

neari, sicché uno stesso input può produrre conseguenze diverse e traloro sproporzionate;

• i flussi delle informazioni si diffondono in modo reticolare;• i ruoli dei diversi agenti sono diversificati e protetti in nicchie;• gli agenti sono in grado di apprendere e di replicare i compor-

tamenti che hanno funzionato [Holland 1995].Eppure, nonostante le evidenti analogie, gli studi decisamente

orientati alle politiche molto raramente fanno esplicito riferimento aquesto tipo di elaborazioni [Backoff e Mitnick 1986]. Il termine «siste-ma» appare irrimediabilmente compromesso, perché associato da unlato all’analisi dei sistemi di impronta manageriale e, dall’altro, aglioutput studies ispirati al modello di Easton. E le applicazioni dellateoria al campo dei fenomeni naturali, se da un lato hanno il merito diproteggere dagli effetti paralizzanti e dalle derive antisperimentali cheintuizioni analoghe hanno suscitato nel contesto del pensiero filosoficoeuropeo, dall’altro, agli occhi di molti politologi, continuano a evocareil rischio di un determinismo solo più sofisticato.

3.2.2. Comparazione e triangolazione

A conclusione del paragrafo, conviene considerare il sospetto chequesta idea di politica pubblica sia una specie di araba fenice, che in-carna l’aspirazione a una scienza sociale capace di tenere sotto control-lo le sue aporie. O, in un’interpretazione più malevola, un gioco diprestigio per far sparire sotto il tappeto della complessità contraddizio-ni che hanno le loro radici nello stesso pensiero moderno. Anche que-sti rilievi sono tutt’altro che ingiustificati. La nostra risposta è che puònon essere così, ma a determinate condizioni, per le quali si potrebbe

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parlare di un paradosso dello studioso di politiche pubbliche. Da unaparte, sta la convinzione che le politiche hanno la loro radice in pro-blemi e in opportunità che toccano la vita di molte persone: è la loronatura pratica, la loro tensione applicativa ad alimentare il continuo ri-chiamo ai particolari concreti, perché la lunghezza della fila a unosportello, o la collocazione dei cartelli «Vietato fumare» hanno una ri-levanza analitica che deve trovare riconoscimento. Dall’altra parte, ilricercatore è costretto a essere metodologicamente esigente, fino a sfio-rare il terreno della metateoria, perché continuamente richiamato allaconsapevolezza che «così come non ci sono pasti gratis, nessuna teoria(o disciplina) è invulnerabile in tutte le condizioni» [Wildavsky 1992,158]. Questa constatazione porta in primo piano il problema dell’im-postazione della ricerca. In modo non diverso da quel che l’incremen-talismo sconnesso consente di fare nel policy making, «le strategie per-mettono al ricercatore di scegliere il difetto della sua ricerca, anzichéinciampare inconsapevolmente in uno peggiore» [Lindblom 1990,270].

Secondo alcuni autori, tra i vantaggi di questa impostazione occor-re considerare anche il fatto che seguirla è più piacevole:

Partire dalla capacità dei governi di affrontare le conseguenze inattese edi apprendere dalle diverse esperienze nello sviluppo delle politiche rendel’oggetto di studio complesso, ma anche affascinante [Heclo 1975, 6].

Chi riesce a ricordare la contingenza ultima dei suoi propositi epistemo-logici operativi, chi riesce a sospendere la sua euristica negativa (le domandeche ha deciso di non essere in grado di porsi) abbastanza a lungo per apprez-zare le intuizioni e la conoscenza dischiuse dalle contese metodologiche, fa unlavoro migliore, contribuisce a un clima professionale e accademico più sano,e si diverte di più nel farlo [Lustick 1997, 176].

Se questo tipo di vantaggi è solo probabile, perché il divertimentoè questione di gusti, i costi sono certi, e possono essere riassunti nellanecessità di lavorare con categorie analitiche talmente solide, da regge-re sia la comparazione tra casi diversi, sia la triangolazione tra ipotesiinterpretative diverse.

La comparazione, non necessariamente basata su ambiti definiti dagiurisdizioni (gli Stati, le regioni, le aree metropolitane, ecc.), è una ri-sorsa fondamentale per cogliere la specificità dei profili dei diversicasi, salvandoli nel contempo da uno sterile isolamento. Come ci rac-conta Dalton, «Un vecchio proverbio ebraico esprime questa idea:“Domanda: chi ha scoperto per primo l’acqua? Risposta: Non so, madi sicuro non era un pesce”. Il rimanere immersi in un singolo am-biente rende le sue caratteristiche impercettibili e irriconoscibili» [Dal-ton 1996, 4].

La triangolazione può essere definita come il chiamare a confron-to, su evidenze empiriche riguardanti uno stesso fenomeno, diverse

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interpretazioni teoriche [Miles e Huberman 1984; Sabatier 1999b]24.Analogamente a quanto avviene in trigonometria, un buon modo perprendere le misure a un oggetto lontano consiste nello sfruttare leproprietà dei triangoli. Come nel caso della comparazione, anche latriangolazione è più questione di logica che di numeri: al ricercatorenon si chiede il ricorso a una miriade di fonti, di metodi, di teorie: glisi chiede però di sapere che questa pluralità esiste ed è una risorsa[Scharpf 1978; Patton 1990]. Come afferma Charles Anderson, «Ilprincipio ideale, per le scienze di policy di questa ispirazione, è l’affer-mazione di Charles Pierce, secondo il quale si deve sempre tenere laporta aperta per un’ulteriore indagine» [Anderson 1987, 43].

Il prossimo paragrafo è dedicato alla messa a punto di categorieanalitiche capaci di reggere il peso sia della comparazione, sia dellatriangolazione.

4. Linee di ricerca

4.1. Una mappa nella mappa

Come abbiamo più volte ripetuto, per chi studia le politiche pub-bliche è essenziale disporre di concetti, di immagini, di metafore [Ka-plan 1964, 265], capaci di togliere le specifiche vicende dall’isolamentodella singolarità, per analizzarle nei loro elementi costitutivi, per collo-carle in rapporto ad altre analoghe, per verificare la congruenza delleipotesi teoriche. Se l’esigenza di semplificazione e di standardizzazionedei termini usati è rilevante in tutte le scienze sociali [King, Keohanee Verba 1994, 43], il compito è particolarmente impegnativo in questocampo di ricerca: da una parte, ricondurre a uno schema unitario lamolteplicità dei concetti in circolazione può essere un’operazione bru-tale e arbitraria; dall’altra, la varietà è tale da rendere tangibile il ri-schio di una babele delle lingue.

I costi dell’operazione sono attenuati se i diversi concetti sonocollocati all’interno di poche, semplici, categorie, dotate di una chiaraconsistenza analitica. Queste categorie devono avere una duplice capa-cità: «Innanzi tutto, suggeriscono all’osservatore che cosa guardare,cioè quali fattori hanno la probablità di superare la soglia critica del-l’importanza, rispetto a quelli che possono essere ignorati senza peri-colo» [Sabatier 1999b, 4]. In secondo luogo, ci dicono come raggrup-pare questi fattori significativi.

Dunque: come individuare queste categorie? Heclo [1975] sottoli-nea come fin da Aristotele le classiche domande della ricerca politica

24 Probabilmente il più noto studio esplicitamente impostato secondo questastrategia è la ricerca di Allison sulla crisi dei missili cubani, cui abbiamo accennatonelle pagine precedenti.

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siano «Chi governa? Come governa? Con quali risultati?». Il famosotesto di Lasswell Politica [1936] ha per sottotitolo: Chi ottiene checosa, quando e come. Le questioni suggerite dai manuali di giornalismoper impostare un buon articolo sono «Che cosa? Come? Dove? Chi?Quando? Perché?».

Se l’ultima domanda merita, come abbiamo visto, l’incarico direggere la presentazione dei concetti in circolazione nelle ricerche èquindi affidato a cinque categorie.

Chi: come definire le caratteristiche degli attori più influenti e piùricorrenti?

Quando: come delineare la dinamica che distingue il ciclo di vitadi una policy?

Come: quali elementi permettono di individuare lo stile seguito nelpolicy making?

Dove: qual è il contesto istituzionale, qual è la scena, il campo digioco, e quali sono le sue regole?

Che cosa: in che cosa consiste il contenuto di una politica? perquali problemi è pensata? quali effetti produce? con quali tecnologiesociali?

Per ora, possiamo pensare a queste cinque categorie come a scato-loni capaci di contenere una gran varietà di concetti, perché per certiversi ogni autore «ha il suo modo di tagliare la torta», cioè ha il suomodo di scandire la complessità dei processi reali, ha le sue tipologie,le sue catalogazioni. Talvolta questi concetti sono sostenuti da preciseteorie: talaltra la loro rilevanza è soprattutto descrittiva. Per questopreferiamo per il momento parlare di immagini, o di metafore.

Come vedremo nella conclusione del paragrafo, anche le nostrecinque categorie di base possono legittimamente aspirare a un ruolopiù significativo rispetto a quello di mero contenitore. Ma questo èquello che ci serve ora, per cominciare.

4.2. Gli attori

Identificare le categorie di attori più rilevanti in un dato processodi policy significa innanzi tutto verificare chi davvero ha ricoperto ruo-li significativi nella fitta trama di consultazioni, pressioni, negoziazioni,conflitti, boicottaggi che accompagnano la produzione di una politicapubblica, dalla sua prima formulazione alla sua implementazione evalutazione. L’insistenza sulla necessità di non fermarsi alla ricostruzio- nedegli organigrammi e delle procedure formali, per arrivare a coloroche davvero hanno avuto nelle loro mani una qualche possibilità diorientare il corso delle vicende in una direzione anziché in un’altra,caratterizza già la giovinezza dei policy studies [Lasswell e Kaplan1950; Dahl 1961a]. In molti casi, infatti, la ricerca tende a smentire,più che a confermare, il peso delle posizioni formali.

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Per semplificare la nostra esposizione, raggrupperemo le varie im-magini elaborate per descrivere gli insiemi di attori in due grandi clas-si: le immagini basate sulla prevalenza e quelle basate sulla relazione.Rientrano nel primo tipo tutti quei concetti che si reggono sulla possi-bilità di indicare una categoria dominante di policy makers, sia essaidentificata con i politici, con le organizzazioni degli interessi, o con laburocrazia. All’interno del secondo tipo, l’obiettivo è invece la rico-struzione del reticolo di rapporti che controlla lo sviluppo di una po-litica. Le prime rappresentano un po’ l’anello di congiunzione con leclassiche categorie dell’analisi politologica, e ad esse si deve in largaparte il decollo dei policy studies in Europa. Le seconde hanno inveceun’origine per così dire autoctona, essendo nate proprio per spiegarespecifiche vicende di policy.

4.2.1. Modelli basati sulla prevalenza

Il governo di partito

I primi indiziati dell’origine e dello sviluppo delle politiche in unsistema democratico sono i partiti politici, e più precisamente le forzeche, avendo vinto le elezioni, siedono al governo, nominano i dirigentiamministrativi, conducono le trattative con gli interessi organizzati. Mal’accertamento empirico di quella che può sembrare un’ovvietà non èuna cosa semplice. Innanzi tutto, la stretta parentela tra il concetto digoverno di partito e il concetto di democrazia carica anche il primodelle valenze del secondo, che non sono solo descrittive, ma anchenormative.

Sul piano descrittivo, i partiti rappresentano il cardine del più an-tico e più popolare modello di democrazia parlamentare: infatti «ilsistema inglese di governo, il “modello Westminster” è stato conside-rato da molti come il modello del governo di partito» [Wildenmann1986, 2]. E la fondamentale importanza del loro ruolo è sostenuta dalconvergente impegno di tutti i politici: infatti candidati ed eletti spen-dono larga parte delle loro energie per convincere i cittadini che l’af-fermazione dell’uno o dell’altro partito, dell’una o dell’altra coalizione,produrrà effetti dirompenti nei principali settori dell’intervento pub-blico.

Sul piano prescrittivo, per molti autori, soprattutto europei, unademocrazia effettivamente funzionante richiede che i cittadini, infor-mati delle diverse piattaforme programmatiche dei partiti che si sfida-no nella competizione elettorale, con il loro voto scelgano, insieme, achi affidare il governo e quali politiche realizzare. La conformità tra lepromesse e le effettive realizzazioni entrerà poi nel loro giudizio sul-l’operato del governo, quando saranno richiamati a votare. Sulla basedi questa definizione, il duplice ruolo dei partiti – collettori di voti

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sulla base di programmi e ispiratori delle decisioni dei governi – staalla base del principio di responsabilità nella gestione della cosa pub-blica. Attraverso i partiti, infatti, i cittadini possono facilmente identi-ficare chi porta il merito o la colpa delle scelte dei governi, e possonopremiarlo o punirlo con il voto successivo [Pasquino 1986b].

Alla fine degli anni ’40, questa impostazione esce dai confini euro-pei per venire adottata da una parte della scienza politica americana[Schattschneider 1942; 1948; American Political Science Association’sCommittee on Political Parties, 1950]. Ma, come vedremo tra breve, ilcaso americano, con la bassissima vitalità delle sue organizzazioni par-titiche, rimarrà la più clamorosa smentita dell’equivalenza sostenuta daSchattschneider: «Nella misura in cui la democrazia è giusta, è giustoanche il governo di partito» [1948, 11].

Sul piano della ricerca, le indagini che si ispirano al concetto digoverno di partito sono interessate a controllare se esiste una relazionetra le preferenze di policy degli elettori e le scelte dei partiti o dellecoalizioni premiati dal voto: «Dal punto di vista della teoria politica, laverifica è: le dichiarazioni dei partiti, e dunque le informazioni a di-sposizione degli elettori, sono segnali attendibili dell’azione futura deigoverni?» [Hofferbert e Cingranelli 1996, 605]. Le questioni più fre-quentemente poste riguardano due punti:

1. Le piattaforme elettorali sono sufficientemente differenziate,riconoscibili e note?

2. Le piattaforme sono un buon indicatore di quel che i partitifanno, una volta vinte le elezioni?

1. Le differenze tra le piattaforme elettorali. L’idea che i program-mi elettorali contengano promesse abbastanza chiare e differenziate èsfidata da quanti vedono in atto, nelle democrazie di massa, la tenden-za verso partiti pigliatutto [Kirchheimer 1957], guidati dall’unicoobiettivo della raccolta dei voti, incuranti delle loro ideologie origina-rie e della tradizionale base sociale. Le dure leggi del marketing poli-tico e delle comunicazioni di massa porterebbero ad affidare la ricono-scibilità del prodotto partito a fattori diversi e più immediati rispettoalle proposte di policy, quali l’immagine del leader o la coreografiadelle manifestazioni pubbliche [Sabato 1981].

Alla verifica di queste ipotesi è dedicata la più importante iniziati-va di ricerca promossa in ambito europeo: il Manifesto ResearchGroup dell’European Consortium for Political Research25. Le conclu-sioni sono molto ampie [Klingemann, Hofferbert e Budge 1994]: ingenerale comunque confermano l’idea che esista una rilevante diffe-renza nelle piattaforme, espressa più dall’enfasi posta su determinati

25 A partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e per quasi tutti i paesiOCSE, è stata codificata ogni frase dei programmi pre-elettorali, sulla base di 54 cate-gorie tematiche, facilmente riferibili ad altrettanti settori di policy.

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problemi che dalla distanza tra le soluzioni. Mentre nel merito le pro-poste tendono a convergere, invece l’ordine di comparizione dei pro-blemi e lo spazio loro dedicato delineano profili non sovrapponibili.

2. Il rapporto tra le piattaforme e le scelte dei governi. Il tema dellacoerenza tra le promesse elettorali e le effettive decisioni dei governi siintreccia strettamente con il dibattito su «quanto conta la politica» econ i suoi incerti risultati [Castles 1982; Sharpe e Newton 1984; Sch-midt 1983]. Uno sguardo più ravvicinato su questa relazione è resopossibile dalla ricerca appena citata di Klingemann, Hofferbert e Bu-dge [1994]. In questo contesto, infatti, i dati sulle priorità indicate neimanifesti elettorali in dieci delle maggiori democrazie sono stati incro-ciati con le effettive scelte di bilancio dei governi, misurate in base allapercentuale della spesa per voci di bilancio riconducibili alle aree uti-lizzate per la codifica dei programmi. L’elaborazione dimostra che ef-fettivamente esiste una sensibile correlazione, e che la sua forza nonrisente né delle caratteristiche istituzionali, né della configurazione deisistemi partitici.

I dubbi teorici. L’impostazione che abbiamo finora discusso, sepuò suonare confortante ai nostri orecchi di studiosi europei, in con-testi diversi suscita non pochi problemi empirici e teorici. La reazionedi Morris Fiorina, dopo l’uscita del volume di Castles e Wildenmann[1986], è di sconcerto: «L’immersione in questi scritti lascia a uno stu-dioso americano l’impressione di vivere su un altro pianeta per quantoriguarda l’importanza del governo di partito» [Fiorina 1987].

Innanzi tutto, la contrapposizione tra contesto socioeconomico eintenzioni delle forze politiche, tipica del dibattito «Does politics mat-ter?», sottovaluta la capacità dei partiti di interpretare i vincoli dell’am-biente e di instaurare rispetto ad essi rapporti di apprendimento e dicoevoluzione: «Probabilmente i partiti non costruiscono i loro impegnio non presentano i loro programmi nonostante le condizioni obiettive,ma piuttosto per tali condizioni» [Hofferbert e Cingranelli 1996, 605].

In secondo luogo, i governi non deliberano in condizioni di vuoto,ma ereditano l’immane patrimonio costituito da tutte le politiche già inatto, con il loro carico di soluzioni più o meno riuscite [Rose e Davies1994]. Le trasformazioni di norma vanno a incidere su una quota mol-to piccola di tale lascito.

Infine, anche i cittadini cambiano idea nel corso del tempo, quan-do dall’astratta enunciazione del problema si passa alle misure concre-te: quando, ad esempio, la lotta all’inquinamento diventa un’onerosarevisione dell’impianto di riscaldamento del proprio condominio. Nelleelezioni presidenziali americane del 1992, il candidato vincente avevaindicato l’istituzione del servizio sanitario nazionale come il punto cen-trale del suo programma. Il rapido abbandono del progetto, in seguitoalle critiche suscitate dalla sua prima concreta presentazione, non gli hacomunque alienato le simpatie degli elettori alla successiva scadenza

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del voto. Come è noto, sul significato del mandato ricevuto con il votodai rappresentanti politici esiste un antico dibattito teorico26. Ma inquesto caso l’osservazione rinvia solo a un dato empirico, evidenziatodalle ricerche sulle fluttuazioni dell’opinione pubblica: non è detto chei cittadini considerino più affidabile chi si attiene ai programmi, a costodi ignorare le difficoltà impreviste e le obiezioni fondate, rispetto a chicon flessibilità reinterpreta il programma alla luce delle novità che sipresentano.

Per tutti questi motivi, il cambiamento delle politiche è spesso di-sallineato rispetto alle tornate elettorali: «Le politiche pubbliche pos-sono mutare senza cambiamenti dei partiti in carica, dato che le poli-tiche che non funzionano sono abbandonate, e gli eventi stimolanorisposte inedite» [Rose 1989, 170].

Ma a contenere le ambizioni norma delle ricerche basate sul trian-golo partiti-elezioni-scelte di policy dei governi è soprattutto il fattoche importanti democrazie non identificano la loro fonte di legittimitànella forza di questa relazione:

Se si riconosce che gli Stati Uniti sono una democrazia liberale in buonasalute e prospera, e non una curiosa anomalia, occorre considerare l’effettivapossibilità che i partiti non siano le istituzioni centrali e le condizioni neces-sarie per la democrazia liberale [...]. Importanti? Certamente sì. Condizionisine qua non? Probabilmente no [Fiorina 1987, 271].

Anche nella patria del governo di partito, la Gran Bretagna, secon-do alcuni autorevoli studiosi il modello teorico è ormai molto lontanodalla realtà, data la distanza minima delle posizioni dei partiti sullequestioni principali, con scarse concessioni alle fedeltà ideologiche:[Rose 1984; Richardson e Jordan 1979].

Questi due casi sono da soli sufficienti a riaprire la forbice tra ilconcetto di democrazia e quello di governo di partito: «La democrazialiberale e il governo di partito appartengono a categorie distinte [...]. Lademocrazia liberale non coincide con il governo di partito né concet-tualmente né istituzionalmente, e da un certo punto di vista il governodi partito si propone fini che sono collegati alla prima solo incidental-mente, o che forse non lo sono per niente» [Smith 1986, 206-207].

Se nell’Europa continentale il governo di partito «è il mito chelegittima le democrazie rappresentative di massa» [Katz 1987, 3],un’osservazione più attenta dei casi che non rientrano in questo qua-dro richiede di ammettere che questo rapporto si possa porre in mododiverso e addirittura opposto. Negli Stati Uniti, una parte importantedella teoria politica, sulla scorta dell’insegnamento di Madison, ritieneun pericolo per la democrazia l’idea che gli eletti considerino i loro

26 Per una sua rivisitazione cfr. Eulau e Wahlke [1978]; Budge e Hofferbert[1992].

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programmi come espressione della volontà popolare, perché questaconcezione, «versione contemporanea del diritto divino» [Riker 1982,261], dischiude la possibilità di una tirannia della maggioranza ai dan-ni delle minoranze. Un’impostazione analoga è proposta da Katz, chegiudica incoerente il governo di partito come ideale democratico, per-ché tende a fagocitare i principi su cui si regge. Se i partiti vincitorisono i legittimi policy makers, non li si può biasimare se privilegianopolitiche che consolidano le loro probabilità di continuare a governa-re, perseguendo scelte discriminatorie verso le minoranze, esercitandopotere nel campo dei media, remunerando il loro elettorato a spesedella totalità dei contribuenti [Katz 1987a, 23; v. anche Weede 1990].Non molto diversa è la preoccupazione espressa da Richard Rose:

Un sistema elettorale che assegna il seggio solo al primo arrivato, comequello inglese, non dà licenza di privare fino al 60% degli elettori27 dei bene-fici del buon governo [...]. In una democrazia, gli elettori chiedono di avereuna scelta di partiti per cui votare, ma le loro richieste complessive giustifica-no un approccio al governo di tipo consensuale anziché antagonista [1984,xxxii].

Per Giorgio Freddi [1986], il governo di partito responsabile ri-chiede una burocrazia che sappia efficacemente implementare le poli-tiche pubbliche: ma questo requisito destabilizza la tradizionale sepa-razione tra politica e amministrazione, su cui si basa la originaria defi-nizione del primato del mandato rappresentativo.

Dunque, nelle democrazie «i partiti sono necessari e importantiper determinare chi governa, ma da questo non deriva che essi sianougualmente importanti nel determinare quello che i governi fanno»[Rose 1984, 109]. Una volta liberata da implicazioni prescrittive, l’ideadel governo di partito può affrontare una radicale trasformazione, perpassare da modello unico o prevalente di democrazia a un insieme diindicatori capaci di cogliere le varie risorse che i partiti possono met-tere in campo per condizionare il policy making [Calise 1989].

Questa svolta riporta in primo piano la domanda «Chi?», offuscatadalle ricerche sui programmi elettorali e sulle scelte di bilancio [Katz1986], e richiama l’attenzione su tre serie di elementi.

Il primo riguarda le relazioni con altre categorie di attori, in gradodi sfidare il primato dei partiti nell’impostazione e nell’implementazio-ne delle politiche: come vedremo tra breve, funzionari amministrativi,rappresentanti degli interessi, esperti, magistrati, dirigenti delle agenzieindipendenti possono disporre di risorse capaci di piegare la «volontàpolitica» degli eletti anche nella più solida delle democrazie. Il fattoche i ministri debbano la loro carica alla militanza nei partiti che han-

27 Come è noto, in un sistema maggioritario la maggioranza dei seggi può andarea un partito minoritario in termini di voti.

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no vinto le elezioni – situazione che ad esempio non si verifica con igoverni tecnici – è condizione necessaria ma non sufficiente perché sipossa dire che sono i politici i principali policy makers:

Perché ci sia governo di partito, il partito deve riuscire a competere consuccesso con altre istituzioni tradizionalmente delegate a gestire il processoesecutivo. Un partito deve essere capace innanzitutto di indirizzare la produ-zione legislativa e diventare il principio ordinatore delle assemblee elettive,selezionando i contenuti delle leggi non meno che il personale politico, chia-mato a promuoverle. Il controllo istituzionale deve estendersi alla élite digoverno in senso stretto, che diventa un’espressione diretta dell’organizzazio-ne di partito. Ma deve anche includere il meccanismo di implementazioneburocratica, i livelli inferiori della piramide esecutiva [Calise 1989, 23].

Il secondo problema riguarda non le relazioni con l’esterno, ma lacoesione tra le diverse articolazioni che costituiscono un partito [Bow-ler, Farrell e Katz 1999]. Già nel 1948 Schattschneider notava: «Si hagoverno di partito quando la coesione del partito nelle elezioni è ac-compagnata dalla coesione del partito all’interno del governo» [1948,33]. Se la compattezza interna viene meno, risulta compromessa l’iden-tificazione delle specifiche linee di policy del partito. Innanzi tutto, iconflitti possono presentarsi all’interno stesso dell’esecutivo. Se in ge-nere la segmentazione delle competenze fa sì che i ministri prestinoscarsa attenzione alle proposte dei colleghi, le fratture possono esplo-dere su temi trasversali (le ritenute previdenziali degli immigrati, laregolamentazione delle cliniche universitarie, ecc.) o su questioni adalta salienza ideologica (le biotecnologie, l’aborto, ecc.) [Blondel 1989].

Ma è soprattutto il passaggio parlamentare delle leggi a rappresen-tare un’importante sede di verifica della coesione dei partiti [Stokes eMiller 1978; Rohde 1991]. La disponibilità di ampie serie di dati sulvoto dei singoli parlamentari nel Congresso americano ha fornito labase empirica per centinaia di ricerche, purtroppo non replicabili nelcontesto italiano, per l’assenza di dati completi sui comportamenti divoto dei singoli deputati e senatori. Quando sono possibili, le elabora-zioni consentono di capire in quali casi le appartenenze partitiche sonodecisive nel determinare la sorte di una legge, e in quali invece sonopoco significative, per la defezione di importanti settori della maggio-ranza o, più frequentemente, per l’ampio consenso pluripartitico.

Infine, la coesione all’interno di un partito richiede che i responsa-bili delle sue iniziative nei diversi settori di policy non siano regolar-mente contestati o smentiti dagli attivisti o dagli apparati centrali[Daalder 1983]. Un qualche grado di incomprensione è l’inevitabileconseguenza dei diversi ruoli ricoperti, e molti funzionari di partito diogni paese potrebbero sottoscrivere dichiarazioni di disagio come que-sta: «Ci sono poche occasioni di discussione, di analisi e confronto.Nelle scelte prevale il contingente. C’è troppa tattica e poca strategia.Ci vorrebbe più respiro ideale e culturale. Bisogna ritrovare le radi-

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ci»28. Ma quando l’imbarazzo diventa aperta ostilità verso specificheproposte di policy, ne risulta un sensibile indebolimento del poterenegoziale di un partito rispetto alle altre forze, politiche e non.

Il terzo problema riguarda invece le trasformazioni cui vanno in-contro i partiti quando sono direttamente coinvolti nel policy making:«Nella realtà del parlamentarismo moderno, i partiti sono agenziequasi-governative più che organizzazioni sociali» [Lehner e Keman1984b, 143]. Questa tendenza produce due effetti: una più stretta spe-cializzazione per aree di policy e la personalizzazione del rapporto traeletto ed elettore. Rispetto al primo risvolto, se è vero che la causadelle nuove politiche tende a risiedere sempre di più nei fallimenti onelle difficoltà delle vecchie [Wildavsky 1992], gli interventi di riformarichiedono una specifica competenza circa l’impianto normativo, i vin-coli economici, gli indicatori di impatto degli interventi in vigore [Katz1986]. Gli incarichi di governo e le commissioni parlamentari sono lasede più importante a disposizione di un politico nazionale per acqui-sire e far valere tali conoscenze. Ma questo patrimonio di informazio-ni, se da un lato consente un dialogo proficuo con i dirigenti ammini-strativi o con gli esperti, dall’altro rende più difficile e squilibrata lacomunicazione con gli organismi dirigenti del partito e, soprattutto,con i suoi attivisti.

Rispetto al cambiamento del rapporto con gli elettori, occorre ri-cordare che i politici sono spesso coinvolti direttamente non solo neldisegno delle politiche, attraverso la partecipazione al law making, maanche nel recapito dei benefici ai destinatari finali. Per certi versi,questa non è una novità, come dimostra l’ampiezza delle ricerche sulclientelismo [Eisenstadt e Lemarchand 1981; LaPalombara 1964]. Etuttavia alcuni autori hanno colto la crescente tendenza a una persona-lizzazione del rapporto tra eletto e elettore, a una «fidelizzazione» nondiversa da quella che un’azienda tenta di instaurare con i consumatoriattraverso la raccolta di punti o le carte-vantaggio [Cain, Ferejohn eFiorina 1987] (questa tendenza sarà ripresa nel sesto capitolo in chiavededuttiva).

Gli interessi al governo

Dalla scienza politica arriva una seconda importante traccia perrispondere alla domanda «Chi fa le politiche»? Da quasi cent’anni, dalvolume di Bentley, The Process of Government [1908], la risposta dimolti politologi è: coloro che hanno interessi da sostenere.

Questa affermazione ha due implicazioni. In primo luogo, la molla

28 Dall’intervista al senatore Gavino Angius, membro della direzione del PDS,«Corriere della Sera», 4 gennaio 1998.

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all’azione nelle arene di policy non va ricercata in impegni presi con glielettori, in fedeltà ideologiche, in spirito di servizio verso le istituzioni,ma nell’affermazione di un interesse: non necessariamente materiale omiope, perché ci sono gruppi che si battono contro la pena di morte oper la qualità dell’ambiente . In secondo luogo, la strategia per faravanzare queste richieste non esige necessariamente la diretta assunzio-ne di cariche politiche o di responsabilità di governo, perché a provareattrazione per queste forme di esercizio dell’influenza è in genere solouna piccola parte della popolazione [Dahl 1961a]. Invece, molto piùdiffusa è la pratica della pressione su chi ricopre ruoli istituzionali, perindurlo a concedere quel che sta a cuore: un orario diverso di entratae uscita dalle scuole; un piano dei trasporti più favorevole alla rotaiarispetto alla gomma; una diversa regolazione delle biotecnologie...

Come nel caso del governo di partito, anche per quanto riguarda igruppi d’interesse la lettura prevalente negli Stati Uniti fa riferimentoa modelli molto diversi da quelli europei. Anche in questo caso, sullosfondo sta un dissenso che non riguarda solo la precisione sul pianodescrittivo, ma anche le valenze sul piano della teoria politica e anchein questo caso, cruciale è il rapporto con il concetto di democrazia.Volendo risalire indietro nel tempo, si potrebbe riandare all’influenzaesercitata sulle due culture dalle figure di Madison e Marx. Le loroelaborazioni hanno fissato due modi opposti di pensare alle potenzia-lità e ai rischi collegati alla capacità degli uomini di coordinarsi perraggiungere obiettivi comuni, partendo dalla condivisione delle con-crete condizioni in cui si trovano a vivere. Per ritornare a tempi piùvicini, è sufficiente ricordare che il concetto di democrazia pluralista sibasa non su partiti coesi e vincolati da programmi, bensì sulla possibi-lità per i cittadini di dare vita a comunanze di interessi multiple, incro-ciate e sovrapposte, sicché nessuno è mai del tutto all’opposizione o algoverno rispetto a tutti i problemi che gli stanno a cuore, mai del tut-to impotente o onnipotente. Nella sua ricerca a New Haven, Dahl[1961a] trova a una società pluralista in cui le ineguaglianze sono di-sperse e non cumulate e in cui solo tre leader sono in grado di eserci-tare influenza in più di un settore di policy.

I gruppi d’interesse. Sul piano descrittivo, le ricerche sui gruppid’interesse sono caratterizzate da alcuni tratti che interessano da vicinolo studioso del policy making.

In primo luogo, la loro impostazione si basa su un empirismo an-tiformalistico, in aperta polemica con le ricostruzioni del processo digoverno edificate sulla base degli statuti, degli organigrammi, dellecompetenze formali. Come afferma in modo perentorio Bentley, «Ilgrande compito dello studio di qualsiasi forma di vita sociale è l’analisidi questi gruppi. Quando i gruppi sono adeguatamente presentati,tutto è presentato, e se dico tutto intendo tutto» [1908, 208].

Truman [1951] si propone di dimostrare che i gruppi d’interesse

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costituiscono la chiave di volta per capire il processo di governo nonsolo nella fase della esplicita contrattazione di un provvedimento conle associazioni e le categorie interessate, ma anche quando il fluiredelle decisioni entra all’interno delle istituzioni pubbliche e si amman-ta di criteri quali la legittimità, l’efficienza, la legalità:

Sia che si guardi a un singolo cittadino, al segretario esecutivo di un’asso-ciazione commerciale, al funzionario di un partito politico, al deputato, al-l’amministratore, al governatore o al giudice, non possiamo spiegare e neppu-re descrivere la sua partecipazione a una funzione statale salvo che in terminidi interessi con cui egli si identifica e di gruppi dei quali è membro o con iquali deve misurarsi [Truman 1951, 71 trad. it.].

Come abbiamo evidenziato nel quarto capitolo, e come del restodimostrano i titoli dei due volumi qui citati29, l’idea che persino ciòche avviene all’interno del parlamento, dell’amministrazione , dellamagistratura vada spiegato ricorrendo al concetto di interesse, ha unastretta relazione analitica con la definizione delle politiche come pro-cessi, cioè come giochi sempre aperti a ridefinizioni e a rinegoziazioni,perché tutti coloro che vi mettono mano non sono neutrali giunture diraccordo tra una fase e la successiva, ma attori che sono arrivati a quelpunto in virtù delle loro motivazioni e convenienze, che intendono farvalere non appena si presenta l’occasione: «Il pluralismo è l’abitoadottato da una generazione di studiosi del processo di policy, chel’hanno trovato più adeguato ai loro risultati rispetto all’immagine delpolicy making da album delle fotografie costruita sui programmi deipartiti e il parlamento» [Jordan 1990a, 58].

In secondo luogo, ad essere considerate preminenti sulla scena delpolicy making non sono solo le organizzazioni formalmente costituiteintorno a precisi interessi, quali un sindacato di categoria, un’associa-zione di quartiere, un movimento femminista. Sulla base di questaimpostazione, qualunque formazione (un partito, un’istituzione scien-tifica, una chiesa, un ufficio dell’amministrazione), richiederà, perchéle sue scelte diventino intelligibili, di essere considerata per gli interessiche difende.

Infine, l’indicazione è a non soffermarsi solo sulle aggregazioni cheesplicitamente hanno la loro ragion d’essere nella difesa di determinativantaggi, perché la corposità di un’organizzazione non è consideratacome prova necessaria dell’esistenza di un interesse: «Né l’esistenzadel gruppo, né quella dell’interesse dipende da un’organizzazione for-male [...]. L’organizzazione indica soltanto lo stadio o il grado dell’in-terazione» [Truman 1951, 36]. Un gruppo è infatti un insieme di indi-vidui con interessi comuni, in grado di coordinarsi per costituire

29 The Process of Government è il titolo del testo di Arthur Bentley; The Govern-mental Process quello di David Truman.

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un’effettiva organizzazione se e quando le circostanze lo richiedono: se,ad esempio, i loro interessi sono minacciati da altri gruppi.

Questa impostazione ha due importanti implicazioni, la prima nor-mativa, e la seconda analitica. Sul piano normativo, come nota Lowi[1971a, 32], in fondo per larga parte della teoria pluralista, a partireda Madison e da Tocqueville, i gruppi d’interesse sono più utili e si-gnificativi quando rimangono allo stato nascente che quando si tradu-cono in solide organizzazioni. A contare è il fatto che possa scattare lamolla dell’interesse comune, non il fatto che scatti effettivamente, per-ché in una democrazia i cittadini «di solito non cercano di influenzarei funzionari pubblici o i politici, ma i membri delle loro famiglie, gliamici, i colleghi, i dipendenti, i consumatori, le imprese, e altre perso-ne impegnate in attività non di governo» [Dahl 1961a, 305]30. Questalettura fa sì che il pluralismo possa essere invocato come principiocontro il potere della grandi corporations, contro l’invadenza delle asso-ciazioni di categoria, contro l’autonomia di cui godono le agenzie rego-lative.

Per quanto riguarda le implicazioni analitiche, occorre notare chela teoria dei gruppi d’interesse è più un paradigma che segnala qualiproprietà dell’interazione andare a studiare, che la carta d’identità diuna specifica categoria di attori. Infatti, di per sé non fornisce quelladefinizione empirica del suo oggetto che ne permetterebbe la traduzio- nein ipotesi di ricerca falsificabili [Sartori 1971]. Vedere negli interes-si la molla che porta tutte le categorie di policy maker ora a coordinar-si, ora a scontrarsi, ora a defilarsi, è un assunto che proietta la sua in-fluenza più sulla public choice e sulle teorie di cui ci occuperemo nelcapitolo seguente, che sullo studio di specifiche organizzazioni.

Le organizzazioni degli interessi. Fin qui, dunque, la prima genera-zione degli studi sui gruppi d’interesse. Ma il dato che presto colpiscegli studiosi, dalla fine degli anni ’40, è la concreta capacità di moltigruppi di passare dalla potenza all’atto, da un’influenza solo virtuale,quasi preventiva, all’efficiente e ostinata pressione proprio sui governi,i parlamenti, le burocrazie. Già durante il New Deal le grandi organiz-zazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori avevano assunto un ruolosignificativo nella negoziazione delle riforme sociali. E tuttavia la situa-zione di emergenza poteva giustificare una lettura di queste contratta-zioni in termini di eccezionalità. Trent’anni dopo, il dibattito tra plu-ralisti e antipluralisti deve fare i conti con una serie di indagini empi-riche che dimostrano l’influenza di grandi e piccole organizzazioni

30 Lowi nota acutamente come la metafora più adeguata sia quella del minute-man, il cittadino pronto a prendere le armi in caso di allarme e capace di passare im-mediatamente dalla sua normale occupazione a quella di soldato: come è noto, a que-sta figura si deve gran parte del vantaggio americano nella guerra d’indipendenza dalgiogo inglese.

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degli interessi nella concreta formulazione e gestione delle principalipolitiche pubbliche, dall’agricoltura alle norme tariffarie, dall’industriaall’urbanistica [Milbrath 1963; Lane 1964; Key 1964].

A questo punto, la riflessione sui gruppi d’interesse cambia impo-stazione: lascia la tranquilla New Haven e i suoi benevoli riferimenti aun gioco sostanzialmente equilibrato tra pressioni e contropressioni, eva a Washington, a confrontarsi con la realtà del lobbying31, con glistrumenti di pressione delle grandi corporations, con la litigiosità deglistudi legali e, talvolta, con la corruzione.

Non che questi aspetti fossero stati ignorati in passato [Schattsch-neider 1935]. Del resto, già nella riflessione dei Padri Fondatori l’azio-ne volontaria e coordinata, basata su interessi comuni, se da un lato èla base di una democrazia vitale, dall’altra può fare della cosa pubblicail terreno per scorribande di fazioni forti e ben organizzate ai dannidella gente comune. Tra gli anni ’60 e ’70, tuttavia, le ricerche portanoalla luce una serie di dati che suggeriscono letture più generali e piùpessimiste del fenomeno della pressione sulle istituzioni da parte degliinteressi organizzati [Graziano 1995].

Innanzi tutto, le grandi associazioni dimostrano di avere un’artico-lazione organizzativa, una continuità di iniziative e un ammontare dirisorse finanziarie tali da garantire stabilità alla loro azione. L’attivitàdi lobbying diventa più penetrante e più professionale, mirando a«giocare d’anticipo», e a condizionare le varie proposte fin dalla fasedi progettazione. Grazie anche al decollo dell’analisi delle politiche, idocumenti che circolano sono corredati da dati e previsioni; una note-vole cura viene posta nell’influenzare l’opinione pubblica, con la pre-sentazione sui media di ragioni ben argomentate [Berry 1989].

In secondo luogo, le organizzazioni degli interessi dimostrano unacapacità di presa su ogni fase del policy making. Infatti non si limitanoa piantonare i corridoi dei parlamenti e a promettere ai singoli legisla-tori sostegni elettorali e finanziamenti, ma avvolgono il governo e leagenzie regolative di una fitta rete di contatti, che consentono loro diconoscere in anteprima le bozze delle norme attuative, di influenzarela loro stesura, di avere in appalto ampi aspetti dell’implementazione,di uscire vincitrici nelle vertenze legali intentate all’amministrazione.Della commistione dei politici nel concreto recapito dei benefici dellepolitiche ai loro elettori abbiamo parlato nelle pagine precedenti. Oraoccorre sottolineare che spesso la fase di implementazione andrebbeincontro a difficoltà enormi senza l’attivo impegno delle organizzazioniche rappresentano i destinatari: si pensi al ruolo che le associazioni di

31 «La strategia del lobbying deriva il proprio nome dalla regola che impedisce achiunque non faccia parte del corpo legislativo [...] di entrare nelle aule parlamentari,così che chi vuole tentare di esercitare la propria influenza sui legislatori è costretto afarlo nei corridoi esterni ad esse» [Lowi 1991, 292 rist. 1999].

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categoria svolgono, con la loro stampa e con i loro consulenti, per dif-fondere le informazioni su scadenze fiscali, o per aiutare gli iscrittinella compilazione di moduli per accedere ai finanziamenti pubblici[Richardson e Jordan 1979; Navarro 1984].

Ma è soprattutto un terzo aspetto a suscitare il più vivace confron-to di dati e di idee: si tratta della sistematica discriminazione degliinteressi dei cittadini comuni a favore degli interessi economicamentee politicamente più forti. Per molti autori che non si riconoscono nel-l’impostazione pluralista, l’assunto della non sovrapposizione dell’in-fluenza nel passaggio da un settore all’altro di policy, è solo una piaillusione:

Il coro pluralista canta con un forte accento dei quartieri alti. Probabil-mente circa il 90% della gente non ha modo di entrare a far parte del siste-ma di pressioni. L’affermazione che il sistema delle pressioni è automatica-mente rappresentativo dell’intera comunità è quindi un mito alimentato dallatendenza universalizzante delle moderne teorie dei gruppi. La politica deigruppi di pressione è un processo selettivo disadatto a servire interessi diffusi.Il sistema è squilibrato e sbilanciato in favore di una frazione della minoran-za» [Schattschneider 1960, 82 trad. it.].

Infatti non tutti gli interessi hanno uguali opportunità o ugualiincentivi per organizzarsi e per avviare un’attività di pressione pressoi policy makers. Anche quando riescono in questo intento, non tuttisono accolti con la stessa condiscendenza e trattati con lo stesso ri-guardo. A soffrirne, oltre agli svantaggiati, sono i fondamenti stessidella democrazia liberale e il successo elettorale delle forze che ad essisi rifanno. Come denuncia Lowi in The End of Liberalism [1969], untesto destinato a divenire un punto di riferimento delle ricerche diorientamento antipluralista, a questo porta l’arbitrarietà che i funziona-ri delle agenzie regolative possono esercitare, promuovendo alcuniinteressi ai danni di altri, incoraggiando «bottini personali anzichéscelte pubbliche», «attuando il socialismo per gli organizzati, e il capi-talismo per i non organizzati» [1969, 278].

Ma sospendiamo per qualche pagina la ricostruzione del contribu-to americano, per passare dall’altra parte dell’Atlantico e ripercorrerei passaggi essenziali della riflessione europea.

Il contributo europeo. Le due chiavi di lettura fondamentali pro-dotte dalle scienze sociali europee per comprendere la rete di interessiche impronta il policy making sono il concetto di classe sociale e ilconcetto di élite: a fare da sfondo e a triangolare con queste idee ècomunque l’esperienza delle grandi organizzazioni che hanno segnatola vita politica europea del ventesimo secolo: i partiti di massa e i sin-dacati.

Cercare nelle politiche pubbliche i segni del conflitto di classe eusarli per spiegare i processi decisionali è un’impostazione che dà la

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prima grande prova di sé nella ricostruzione che Karl Marx compiedelle leggi per la liberalizzazione del prezzo del grano e per la limita-zione dell’orario della giornata lavorativa: «Nulla serve a definire lospirito del Capitale meglio della storia della legislazione inglese sullefabbriche dal 1833 al 1864» [Marx 1867-94, vol. I, t. 1, 304 trad. it.].Infatti «La legislazione sulle fabbriche, prima reazione consapevole epianificata della società alla figura spontaneamente assunta dal suoprocesso di produzione sociale, è, come abbiamo veduto, prodottonecessario della grande industria, quanto il filo di cotone, i self-actorse il telegrafo elettrico» [ibidem, t. 2, 193 trad. it.]. Benché la comples-sità dell’analisi marxiana del law making inglese sia destinata ad avererare imitazioni tra gli epigoni, che preferiscono invece assumere comeoggetto di indagine lo stato capitalista nel suo complesso, o le sue stra-tegie macroeconomiche, il conflitto radicato nel luogo di lavoro, lacontrapposizione di classe tra capitalisti e operai, ha per l’analisi poli-tica europea una rilevanza incomparabilmente superiore a quella asse-gnatale dagli studiosi americani. Sul piano normativo, anche autorimolto distanti dal marxismo individuano nelle relazioni in ambito pro-duttivo la base delle virtù pubbliche richieste dalla nuova società indu-striale. Come scrive Max Weber,

Uno stato che vuol fondare lo spirito del suo esercito popolare sull’onoree la solidarietà, non deve dimenticare che, anche quotidianamente, nelle lotteeconomiche del lavoro, il sentimento dell’onore e della solidarietà genera lesole forze morali decisive per l’educazione delle moltitudini, e che perciò bi-sogna lasciarle operare liberamente. Questo e niente altro significa, riguardatasotto l’aspetto puramente politico, la «democrazia sociale» in un’età capitali-stica che inevitabilmente sarà per durare ancora a lungo [Weber 1918, 16].

Il rafforzamento delle grandi organizzazioni sindacali e dei partitisocialisti e comunisti ha esercitato un palese influsso sul policy makingnei settori delle politiche economiche, del lavoro, della previdenza[Lipset e Rokkan 1968]. Nei paesi continentali, l’impronta professio-nale della protezione sociale, il coinvolgimento delle parti sociali neitentativi di programmazione economica, lo stretto legame tra partiti disinistra e forze sindacali, il loro ricorso allo sciopero generale controiniziative legislative ritenute ingiuste, sono tutti solidi indizi della per-meabilità del policy making da parte delle organizzazioni che basano laloro ragion d’essere sul conflitto tra datori di lavoro e lavoro dipen-dente.

È importante sottolineare una differenza tra queste impostazioni el’elaborazione americana. Come abbiamo visto nel paragrafo preceden-te, la originaria teoria dei gruppi d’interesse non richiede che la loroforza si manifesti attraverso strutture organizzative formali, perchéspesso è sufficiente il potenziale di aggregazione di un interesse comu-ne per esercitare un effetto di dissuasione nei confronti di eventualiantagonisti. La teoria marxista richiede invece che «la classe in sé»

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diventi «classe per sé» grazie a uno straordinario impegno organizza-tivo, capace di trasformare il comun sentire in strutture politiche e sin-dacali solide, diversificate, gerarchiche, vere macchine blindate capacidi resistere alla repressione e di consolidare le conquiste acquisite.

Nell’esperienza europea, dunque, la riflessione sulle organizzazionipolitiche e sindacali come strumento di emancipazione delle classisvantaggiate è costantemente intrecciata all’analisi delle tendenze oli-garchiche innescate da questa prospettiva sia al loro interno, per ilruolo giocato dai loro potenti apparati, sia al loro esterno, per la ten-denza ad affiancare alle istituzioni della democrazia parlamentare sedidecisionali in cui far valere non la forza dei voti, ma quella della mo-bilitazione – o del ricatto – sociale.

Come è noto, la prima faccia di questa tendenza è stata individua-ta e definita con grande efficacia dalla scuola elitista italiana, che contafigure quali Mosca, Pareto, Michels. Come scrive quest’ultimo,

Addestrandosi nei dettagli della vita politica, nei particolari della legisla-zione, delle questioni tributarie, delle questioni daziarie e nelle questioni dellapolitica estera, i capi acquistano un valore che – almeno finché la massa siattiene alla tattica parlamentare, ma forse anche se vi rinunzia – li rende indi-spensabili al partito [Michels 1909, 182 trad. it.].

La seconda faccia evidenzia l’instaurazione di arene decisionalibasate sulla rappresentanza funzionale degli interessi: lavoratori e da-tori di lavoro di un dato settore, coltivatori di prodotti agricoli e cor-rispondenti comparti dell’industria alimentare... Questa tendenza, ma-nifestatasi per la prima volta all’interno delle democrazie continentalinel decennio successivo alla prima guerra mondiale [Maier 1975],dopo la degenerazione del corporativismo di Stato fascista, negli anni’70 torna a catturare l’attenzione degli studiosi per il suo riemergeresotto forma di concertazione neocorporativa.

Il neocorporativismo. Questo concetto rappresenta il più importan-te contributo europeo alla comprensione del ruolo delle grandi orga-nizzazioni nel policy making [Cawson 1978; Lehmbruch e Schmitter1982; Maraffi 1981]. Già nel 1966 Stein Rokkan notava:

Le decisioni cruciali di politica economica sono prese raramente all’inter-no dei partiti o del parlamento: l’arena centrale è il tavolo negoziale dove leautorità di governo incontrano direttamente i leader dei sindacati, i rappre-sentanti degli agricoltori, i piccoli proprietari, i pescatori, i delegati delle as-sociazioni dei datori di lavoro. Nella vita dei cittadini medi, queste tornate dinegoziazioni lungo l’anno hanno acquisito di fatto un significato maggioredelle elezioni formali [cit. in Jordan 1990a].

In anni più recenti, è allo sviluppo di questo filone di ricerca chesi deve la rinnovata attenzione per le forme assunte dalle rappresen-

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tanze degli interessi, soprattutto nei paesi europei. La constatazioneche le organizzazioni su base produttiva e professionale non si limita-no a promuovere gli interessi che tutelano presso i partiti presenti inparlamento, ma invece tendono a instaurare tavoli negoziali in gradodi concludere accordi direttamente con i governi, può essere analizzatada due punti di vista. Innanzi tutto, può essere considerata per le logi-che associative che presuppone, basate su un rapporto esclusivo trarappresentanti e rappresentati:

Il corporativismo può essere definito come un sistema di rappresentanzadegli interessi in cui le unità costitutive sono organizzate in un numero limi-tato di categorie uniche, obbligatorie, non in competizione tra loro, ordinategerarchicamente e differenziate funzionalmente, riconosciute o autorizzate (senon create) dallo Stato, che deliberatamente concede loro il monopolio dellarappresentanza all’interno delle rispettive categorie in cambio dell’osservanzadi certi controlli sulla selezione dei loro leader e sull’articolazione delle do-mande e degli appoggi da dare [Schmitter 1974, 52 trad. it.].

Le condizioni qui poste in modo tanto netto riguardano il latodell’input, cioè le modalità organizzative delle associazioni e il lororapporto con la base, aspetti spesso regolati attraverso una legislazionesulla proclamazione degli scioperi, sulla nomina dei leader, sulla ratifi-ca dei contratti, con l’obiettivo di esorcizzare il rischio della contesta-zione e la sfida di nuovi raggruppamenti.

Ma il neocorporativismo può essere analizzato anche da un se-condo punto di vista, dal lato dell’output, cioè come un modo perapprodare alla selezione e all’implementazione di specifiche politichepubbliche, attraverso la negoziazione tra i governi e il cartello deigruppi organizzati [Lehmbruch 1979]. Alla fine degli anni ’70, questaimmagine del policy making sembrava particolarmente adeguata a de-scrivere le modalità attraverso le quali in alcuni paesi europei (Au-stria, Svezia, Olanda, Finlandia, Norvegia) erano gestite le principalipolitiche economiche: controllo dei prezzi e dei salari, interventi perl’occupazione, riconversione industriale, formazione professionale,politiche sociali. Questa versione liberale del corporativismo non sipone pregiudizialmente in competizione con il ruolo dei partiti edelle assemblee elettive32, anche se la sua continuità richiede formeistituzionalizzate di coordinamento, quali commissioni tripartitiche,consigli per l’economia, consultazioni obbligatorie, le cui deliberazio-ni pongono di fatto dei vincoli alla sovranità parlamentare. Attraversoquesti processi di decisione congiunta, si consolidano meccanismi di

32 Ma esistono anche pareri opposti: «Può darsi che il neocorporativismo noncostituisca un’alternativa secca alla democrazia parlamentare o al governo parlamenta-re; ma comunque i suoi valori sono radicalmente opposti a quelli pluralisti su cui sibasano i sistemi di partito competitivi» [Smith 1986, 224].

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scambio da cui tutti i contraenti escono rafforzati. I governi mirano aprevenire l’eventualità di duri e generalizzati scontri sociali, aumenta-no le probabilità di successo elettorale e si assicurano la collaborazio-ne di potenti macchine organizzative nella fase di implementazionedei provvedimenti [Lehmbruch 1982, 5-6]. A loro volta, le grandiassociazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro possono vantare laloro influenza nel condizionare il policy making, possono garantireagli associati un accesso privilegiato ai benefici dei programmi appro-vati, e talvolta possono ottenere risorse più tangibili, con la delega agestire direttamente attività quali i corsi di formazione o gli osserva-tori sul mercato del lavoro.

La segmentazione delle arene. Dunque, da tutte e due le parti del-l’Atlantico, sia le teorie che denunciano la fine del liberalismo, siaquelle, meno catastrofiche, incentrate sul concetto di neocorporativi-smo, sembrano in grado di rispondere alla domanda «Chi fa le politi-che pubbliche?» replicando: «Le grandi organizzazioni degli interessieconomici e professionali». Questa unica risposta non può natural-mente attenuare le fondamentali differenze tra il corporate pluralismamericano e il corporativismo liberale di alcuni Stati europei rispettoalla base sociale delle organizzazioni, al contesto istituzionale in cuioperano, alle risorse che utilizzano, alle politiche su cui si concentrano[Foner 1984; Schmitter e Grote 1997]. E tuttavia ad accomunare ledue teorie è un elemento importante: la tendenza delle organizzazionidegli interessi a non stare nel posto loro assegnato dalla teoria, che levorrebbe confinate nelle fasi iniziali del processo di formazione del-l’input, per cercare invece un attivo coinvolgimento in ogni tappa delpolicy making, dalle campagne di opinione all’approvazione delle leggi,dalla definizione dei dettagli attuativi alla gestione di aspetti dell’im-plementazione33 [Jordan 1990a; Martin 1983; Ginsberg, Mebane eShefter 1995].

Sul piano prescrittivo, questi aspetti hanno suscitato preoccupazio-ni per la sorte stessa della democrazia parlamentare e per i loro effettisociali, dati i rischi di politiche discriminatorie ai danni delle categoriecon poche risorse organizzative, quali i disoccupati o gli immigrati.

Ma l’aspetto che qui importa sottolineare è un altro. Cercare diinfluenzare ogni passaggio del policy making non è un impegno unatantum, ma richiede competenza, specializzazione, costanza, costruzio-ne di una rete di rapporti. Questi sono investimenti che tendono ad

33 La procedura nota come Negotiated Rulemaking, autorizzata dal Congressoamericano nel 1990, e definitivamente confermata nel 1996, autorizza esplicitamente leagenzie regolative a instaurare tavoli negoziali con le organizzazioni dei produttori edei consumatori e con i diversi gruppi interessati, anche al fine di prevenire il lororicorso alla magistratura.

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azzerare il loro valore nel passaggio da un settore di policy a un altro.La dirigente sindacale che si occupa di formazione professionale e chepertanto conosce la normativa dell’Unione europea, sa come ottenerei fondi e mantiene rapporti diretti con i funzionari regionali, deve ri-partire daccapo se viene mandata a seguire le politiche per la sicurezzasui luoghi di lavoro. Il risultato è una sempre più accentuata segmen-tazione della sfera del governo in tante diverse arene decisionali, cia-scuna caratterizzata da suoi canali di accesso, da sue regole del gioco,da sue logiche di contrattazione. Segmentazione è, in effetti, il termineche ricorre con maggiore frequenza nelle ricerche sul ruolo degli inte-ressi organizzati nel policy making [Cater 1964; Richardson e Jordan1979; Laumann e Knoke 1987]. Quando le grandi associazioni si im-mergono nel processo di produzione delle politiche, lo condizionano,ma ne escono condizionate: una più precisa segnalazione dei confinidelle diverse arene diventa infatti una necessità sia per le amministra-zioni pubbliche, che devono sapere con chi fare davvero i conti, siaper le associazioni stesse, per le quali generico è sinonimo di infruttuo-so [Heinz et al. 1993]. In queste condizioni, è molto difficile dire dovefinisce la cattura delle politiche da parte degli interessi organizzati, edove inizia la cattura di questi da parte delle politiche, con le lorospecifiche esigenze, il loro particolare linguaggio, le loro tacite regole.

Il governo della burocrazia

Nell’arco della sua storia, la scienza politica ha accumulato ungran numero di studi che propongono una terza categoria di attoricome fondamentali protagonisti del policy making: i burocrati. Conquesto termine non ci riferiamo agli impiegati che incontriamo aglisportelli, ma ai dirigenti e funzionari amministrativi. Il primato nel-l’elaborazione di una teoria capace di dare conto della loro straordina-ria importanza nell’epoca contemporanea spetta, come è noto, a uneuropeo, Max Weber:

In uno Stato moderno il potere reale, che non è esercitato né nei discorsiparlamentari, né nelle enunciazioni dei monarchi, bensì nel maneggio dell’am-ministrazione nella vita quotidiana, è necessariamente nelle mani della buro-crazia [...]. Come il così detto progresso al capitalismo dall’epoca medioevaleè la misura univoca della modernizzazione dell’economia , così il progressoall’impiego burocratico fondato sull’ufficio, lo stipendio, la pensione, l’avan-zamento, la scuola professionale e la divisione del lavoro, le competenze sta-bilite, l’autenticità degli atti, l’ordinamento gerarchico di superiori e subalter-ni, è parimente la misura univoca della modernizzazione dello Stato. Delmonarchico come del democratico [Weber 1918, 21 trad. it.].

La tendenza individuata da Weber non coglie soltanto il processodi crescita degli apparati statali. L’essenza della burocratizzazione è

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infatti rintracciata nella separazione tra gli affidatari di un compito, ei mezzi materiali per la sua realizzazione, nell’industria come nel setto-re pubblico, nei partiti come nelle università. L’organizzazione buro-cratica sorregge dunque l’intelaiatura di regole e di competenze su cuisi basa l’esercizio dell’autorità nelle società moderne, caratterizzate daiprincipi di legalità e di razionalità.

Se «in Europa il corpo specializzato dei funzionari, fondato sulprincipio della divisione del lavoro, è sorto a poco a poco attraversouno sviluppo di mezzo millennio» negli Stati Uniti alla fine del dician-novesimo secolo è ancora in vigore «il sistema dilettantesco di ammi-nistrazione per mezzo di politici predatori» [Weber 1922, vol. II,696]. In effetti il ruolo della burocrazia è quasi assente nella riflessioneteorica che accompagna la nascita della federazione americana [Still-man 1990]34. Occorre attendere il 1887 per trovare, con il testo diWoodrow Wilson, The Study of Administration, una riflessione com-plessiva sullo spazio che l’amministrazione deve rivendicare, per difen-dere la sua autonomia e la sua professionalità rispetto a un parlamentoche pretende di condizionarla per bassi motivi clientelari. Così, se perWeber il problema è il consolidamento di istituzioni politiche capacidi fare da contrappeso a una burocrazia consapevole delle risorse rap-presentate dalla competenza e dalla carriera, per Wilson e per i prota-gonisti della Progressive Era i termini sono opposti e speculari: comegarantire ai funzionari amministrativi la possibilità di resistere allepressioni dei politici e delle lobbies. Come abbiamo più volte sottoli-neato, la risposta, per oltre cinquant’anni, è stata trovata in due prin-cipi guida: la separazione tra politica e amministrazione, e l’applicazio-ne al management pubblico di criteri di efficienza ispirati al settoreprivato e richiamati nell’acronimo POSDCORB (terzo capitolo): Plan-ning, Organizing, Staffing, Directing, Coordinating, Reporting, Budge-ting. E tuttavia, come abbiamo visto nel capitolo precedente, questidue comandamenti non hanno avuto vita facile, né in ambito ammini-strativo, né in ambito scientifico. Infatti, negli anni successivi alla se-conda guerra mondiale, sia l’espansione delle burocrazie, sia il lorostudio, maturano con il sostegno di un concetto, quello di politicapubblica, capace di dissolvere il nucleo del POSDCORB.

Le politiche come spiegazioni del cambiamento. Sul piano pratico, glianni ’50 e ’60 hanno visto una straordinaria crescita delle burocrazienelle principali nazioni. Soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna,nei paesi scandinavi, questa espansione avviene all’insegna del continuoriferimento alle politiche pubbliche: l’estensione dello Stato sociale, la

34 «Se negli Stati Uniti un individuo ha qualche risorsa, si lancia nel commercioo si fa pioniere, mentre in altri paesi europei, appena è possibile, un uomo cerca unimpiego pubblico» [Tocqueville 1835, 253 trad. it.].

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crescita degli interventi macroeconomici, l’impegno per l’innalzamentodell’istruzione, comportano un enorme allargamento degli obiettivi del-l’intervento pubblico e un aumento della complessità dei programmi perperseguirli [Wood e Waterman 1994; Peters 1981; Lewis 1980; Page1985]. Problemi nel passato rimasti affidati alle scelte delle famiglie odei mercati, diventano oggetto di iniziative che richiedono più ammini-strazione. Se ai nostri bisnonni avessero detto che il comune avrebbeorganizzato gare di scopone per gli anziani o i loro soggiorni al mare,avrebbero stentato a crederlo. Questo cambiamento ha comportato unaumento del numero dei dipendenti pubblici, un incremento del poteredelle loro organizzazioni sindacali e professionali, una diversificazionedelle loro competenze, con lo spostamento del rapporto tra generalisti especialisti a favore di questi ultimi [Ronge 1974].

Ma in molti casi questa evoluzione richiede uno slittamento diidentità ai funzionari amministrativi, che passano da responsabili del-l’esecuzione delle scelte politiche, a componenti di un fitto reticolo dicommissioni e comitati, ciascuno dotato di poteri decisionali in speci-fiche aree di policy, e costituito proprio per mettere la dirigenza buro-cratica a contatto con gli stakeholders, cioè con quanti hanno delleposte in gioco, siano questi, ad esempio, le associazioni dei genitori, isindacati degli insegnanti o le case editrici scolastiche. Le valutazioniassunte in queste sedi sono di fatto destinate a condizionare le scelteformali degli organi di governo. Su di esse, i burocrati possono eserci-tare una notevole influenza, perché possiedono una specifica risorsa,essenziale in fasi di cambiamento: si tratta della competenza nella de-finizione di ciò che è fattibile, e nella stima dei suoi costi finanziari eorganizzativi. Quando il funzionario dice «Non si può fare», difficil-mente può essere sfidato, qualunque motivo adduca: finanziario, orga-nizzativo, giuridico.

Questo cambiamento ha sortito effetti deleteri per i principi delPOSDCORB, anche perché, a descriverlo, soprattutto negli Stati Uniti,c’era un’agguerrita schiera di studiosi dotati di un bagaglio concettualeormai molto distante da quello della scienza dell’amministrazione tra-dizionale. Come sottolinea uno dei protagonisti della svolta, DwightWaldo [1990, 76],

Una delle ragioni della scarsa reputazione della scienza dell’amministra-zione [...] è stata la sua incapacità di partecipare seriamente al movimentobehavioralista che ha dominato la scienza politica negli anni ’50 e ’60 [...]. Inqualche modo collegata a ciò è l’incapacità di rapportarsi all’area dei policystudies in modo rapido e deciso. Per qualcosa come due decenni, dopo chedivenne ben chiaro che gli amministratori pubblici sono inevitabilmente edecisamente impegnati in questioni di policy, sono state avanzate solo pochesignificative proposte [analitiche].

In effetti sul piano teorico, non appena vengono meno le esigenzedi monolitica compattezza della macchina bellica, nel giro di pochi

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anni i tre studi di Paul Appleby [1949], di Herbert Simon [1947] e diDwight Waldo [1948] contestano radicalmente i presupposti dell’orto-dossia amministrativa. Dalle loro pagine infatti apprendiamo che ilprocesso decisionale all’interno delle amministrazioni pubbliche èmolto diverso da quello adottato nelle imprese private [Appleby1949]; comunque, nell’uno e nell’altro caso, l’obiettivo dell’efficienzaattraverso la pianificazione non rispecchia il modo in cui sono presedavvero le decisioni da attori con razionalità limitata [Simon 1947]; ela separazione tra politica e amministrazione è un obiettivo irrealisticoe inadeguato [Waldo 1948].

Su questi principi, si fonda il decollo della «scuola politica (o rea-listica) dell’amministrazione» [Key 1964]. Suo obiettivo è leggere le di-namiche burocratiche con strumenti concettuali costruiti non intornoalle competenze formali, ma intorno a una mappa delle effettive rela-zioni di potere: anziché dare per scontata l’uniformità e la razionalitàdell’impianto organizzativo, questa impostazione tende a evidenziare iconflitti e gli accomodamenti tra i diversi comparti dell’amministrazio-ne, complicati da un sistema federale che rende insieme necessaria edifficile l’integrazione tra i livelli di governo nazionale, statale, locale[Selznick 1949; Kaufman 1960].

A partire dagli anni ’70, questo continuo flusso di scambi e dipressioni, condotti con notevole autonomia e persino con spregiudica-tezza dai diversi apparati statali, comincia a fare i conti con una nuovacategoria di attori in grado di imporre vincoli al monopolio delle com-petenze che il burocrate weberiano può far valere: si tratta dei consu-lenti esterni, nuove creature prodotte dallo sviluppo stesso della policyanalysis, che vanno ad aggiungersi alla già variegata fauna che popolai corridoi ministeriali:

Negli Stati Uniti, questo monopolio [delle competenze], che per altronon è mai stato totale in un sistema di pesi e contrappesi, è stato distrutto dalsuccesso della policy analysis. In ogni parte del paese, nelle think tanks, nellesocietà di consulenza, nelle scuole di policy analysis, negli esecutivi statali elocali, negli staff parlamentari, dappertutto stanno squadre rivali di analistiche sono appena stati, o che aspettano di entrare, nelle strutture di governo[Wildavsky 1990, xv; v. anche Light 1995; Davis 1997]35.

I consulenti di formazione economica, con il loro ingresso in cam-po, provocano di fatto la crisi dell’ortodossia burocratica, ma ne con-servano almeno il simulacro, riaffermando l’importanza della distinzio-ne tra fini e mezzi, tra politica e amministrazione. Quelli che si ispira-no alla policy inquiry fanno di più, perché rendono esplicite le conse-guenze della sostituzione del concetto di amministrazione con quellodi policy. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, sono soprattut-

35 Per considerazioni analoghe, riferite al caso inglese, cfr. Weller et al. [1997].

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to le analisi dell’implementazione a sfondare definitivamente la trabal-lante parete che separava i concetti di politica e di amministrazione:

[Nell’implementazione ] l’unico modo attraverso cui un comparto puòindurre gli altri a contribuire, fornendo gli elementi del programma, è attra-verso l’uso della persuasione e della contrattazione. Qualcuno può chiamarequesto processo «politics». E di fatto lo è. Ma l’implementation politics è untipo particolare di politics. È una forma di politica in cui la salda esistenza diun mandato di policy già definito, legalmente e legittimamente autorizzato inqualche precedente processo politico (political), influenza la strategia e la tat-tica della lotta [Bardach 1979, 37].

Se da molte pagine siamo preparati a considerare l’implementazio-ne come un’arena in cui i burocrati giocano le loro carte, accanto adaltre categorie, le ricerche comparate portano alla luce una loro inso-spettata capacità di intervenire con efficacia lungo tutte le fasi del pol-icy making. Come afferma Heclo, nello studio sulle politiche sociali inSvezia e Gran Bretagna,

Se i partiti e i gruppi d’interesse hanno assunto occasionalmente ruolimolto importanti, sono stati i funzionari pubblici a fornire le analisi più con-tinuative e le revisioni opportune per gran parte delle linee di azione dei go-verni. Di norma, i partiti e i gruppi d’interesse richiedono, per aumentare illoro impegno, stimoli straordinari, come un’impennata della disoccupazione,mentre l’attenzione degli amministratori rimane relativamente forte attraversoqueste fluttuazioni [Heclo 1974, 301].

Soprattutto, le analisi descrittive portano alla luce la straordinariaabilità di molte amministrazioni nell’assumere ruoli attivi nella media-zione tra gli interessi che gravitano intorno al loro settore:

I burocrati sono così efficaci nell’affrontare il management dei conflittiche il termine «gruppo di pressione» è spesso fuorviante, dato che implicache siano queste organizzazioni a esercitare la pressione. Chi ha osservato davicino l’interazione tra i funzionari governativi e i gruppi d’interesse, ha sco-perto che i primi esercitano influenza almeno tanto quanto la subiscono[Aberbach et al. 1981, 246].

Nel paragrafo precedente, abbiamo sottolineato come l’interscam-bio tra i funzionari delle agenzie regolative e le organizzazioni dei re-golati – associazioni sindacali e imprenditoriali toccate dalle normesulla sicurezza nei luoghi di lavoro, case farmaceutiche vincolate daiprotocolli sulla sperimentazione dei medicinali, ecc. – raggiunga talilivelli di simbiosi da comportare, secondo autorevoli studiosi, la finedella democrazia pluralista [Lowi 1969].

Se questo avviene ai piani alti dell’amministrazione , l’immaginefornita dai ricercatori che scendono a studiare la burocrazia a livello distrada rivela la capacità degli ultimi anelli della catena del comando di

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impostare con notevole autonomia le relazioni con i destinatari finali,per trarne elementi di forza da opporre alle direttive dei superiori ge-rarchici [Lipsky 1980]. Del resto, la loro opera spesso avviene in unquadro normativo di difficile decifrazione: «Oggigiorno le leggi sonocosì voluminose e cambiano così spesso che non sono capite dalla gen-te che le amministra, per non parlare della massa dei cittadini a cuivanno applicate» [Derthick 1990, 225].

Ma l’aspetto che più colpisce in queste analisi è la tendenza deiburocrati a occupare ruoli tradizionalmente riservati ai politici. Heclo,nella sua ampia ricerca comparata, riscontra una loro significativa pre-senza persino nella fase in cui acquistano forma i frames destinati asorreggere le specifiche proposte di riforma sociale:

Un «problema» di policy può talvolta richiedere domande da parte delpubblico e/o alternative contrastanti avanzate da partiti politici in competizio-ne tra loro, e/o la definizione da parte di un gruppo di un suo interesse leso;comunque sia, richiede sempre la concezione che la burocrazia di governo hadi quel che è stato fatto [Heclo 1974, 303].

Con riferimento alla politica previdenziale degli Stati Uniti, altriautori hanno messo in evidenza la capacità dei funzionari di interagiredirettamente con i membri del Congresso, arrivando a sfidarli sul loroproprio terreno, quello dell’aggregazione del consenso intorno alleproposte in agenda [Cobb, Ross e Ross 1976].

La presenza dei burocrati in stadi che, nei modelli più stilizzati sulfunzionamento del sistema politico, sono normalmente considerati dipertinenza dei partiti, induce un osservatore partecipante a dare unainedita lettura del ruolo dei programmi elettorali nelle democrazie:«L’importanza dei programmi non sta nel persuadere gli elettori.L’importanza dei programmi sta nel fatto di dare al politico un’ancoraquando i funzionari amministrativi cercano di non fargli mantenere laparola data. Se un politico entra a Whitehall senza un programma, èperduto» [Crossman36 1972, 24].

E tuttavia, definire il rapporto tra politici e burocrati come un gio-co a somma zero sembra controproducente sul piano prescrittivo[Lynn 1981] e semplicistico su quello descrittivo. Esistono infatti nu-merose situazioni in cui la coevoluzione e l’interdipendenza caratteriz-zano meglio questa relazione:

È nostra impressione che sia i politici sia i burocrati siano partecipantiinfluenti all’evoluzione delle politiche svedesi. Al contrario, in Italia, né ipolitici né i burocrati sembrano avere successo nella produzione di risposte dipolicy adeguate alle molteplici sfide che il sistema deve fronteggiare. In gene-rale, condividiamo l’idea di Heclo che considera i burocrati e i politici come

36 Ministro inglese dal 1964 al 1970.

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partecipanti interdipendenti al processo di policy, nel bene come nel male[Aberbach et al. 1981, 251].

La pluralità dei ruoli ricoperti da una stessa categoria di attori, lafragilità di giurisdizioni continuamente negoziate e ridefinite, la varietàdelle direzioni prese dall’esercizio dell’influenza, dall’alto, dal basso,dai lati, sono tratti che disegnano una diversa mappa non solo dell’am-ministrazione, ma anche dell’intera sfera pubblica. A caratterizzarlasono profonde spaccature che tendono a ricalcare gli irregolari confinidelle politiche pubbliche. Da una parte, la politica delle pari opportu-nità, con i suoi centri di interesse, il suo ministero, le sue amministra-zioni, le sue associazioni di categoria, la sua stampa, la sua commissio-ne parlamentare, i suoi interlocutori internazionali; dall’altra la politicasportiva, con il suo proprio seguito di organizzazioni, associazioni,agenzie, istituzioni, amministrazioni, singole personalità:

L’unità di analisi diventa [...] la policy stessa, uno spazio analitico al cuiinterno, e solo al cui interno, è possibile ricostruire il network degli attoririlevanti, le loro reciproche relazioni, e in definitiva gli esiti stessi della poli-tica, con ciò intendendo le modificazioni della realtà esterna che vengono daessa generate [Dente 1985, 267].

Questi sottogoverni37 che coinvolgono burocrati, rappresentanti degliinteressi, esperti e, occasionalmente, i politici, sono di norma decisamentesegmentati per aree funzionali – politica agricola, sanità, e così via [Aberbachet al. 1981, 247].

Sottogoverni, sottosistemi di policy, arene, reti, sono i termini piùusati per identificare gli insiemi di attori che una politica pubblica tie-ne aggregati all’interno, e disgiunti dall’esterno. Frammentazione, plu-ralità, segmentazione, sono gli effetti che non faticano a prevalere sulleimmagini del settore pubblico basate sull’omogeneità e l’organicità[Barzelay 1992].

Amministrare è fare politiche? Se politica (politics) e amministrazio-ne non possono essere separate nella pratica, e se molte delle rispettiveprerogative non lo possono nemmeno nella teoria, per diversi autori èormai giunto il momento di abbattere un altro muro, quello tra policye amministrazione, che ai loro occhi sembra sostenuto più da logicheaccademiche che da elementi analitici:

Se le politiche sono definite come ciò che viene effettivamente fatto, enon soltanto detto o auspicato, allora nella pratica è impossibile separare lapolitica (policy) dall’amministrazione [Kaufman 1977, 400].

37 Il significato di questo termine è qui notevolmente diverso dall’uso italiano,come vedremo tra breve.

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Un’altra implicazione [...] è che le politiche non sono solo un affare deiresponsabili politici di alto livello. Il policy making non è un’attività separatadall’amministrazione o dall’implementazione [Lynn 1981, 156].

Tutti questi uomini (e solo di uomini si tratta) sono qui come policymakers, e tutti accettano che i funzionari amministrativi siano legittimi parte-cipanti al processo di policy [Aberbach et al. 1981, 241].

Se lo Stato è disarticolato, se in concreto è tanto difficile dedurrele funzioni effettivamente svolte dai ruoli formalmente ricoperti, lepolitiche sembrano rappresentare l’unico elemento di coagulazionecapace di ridare un qualche senso, sia pure precario, alle svariate atti-vità che pullulano nella sfera pubblica [Wilson 1989].

Nel primo capitolo abbiamo sottolineato con forza la distanza ana-litica che separa il concetto di policy da quello di amministrazione.Dunque, un ripensamento? No: il fatto è che il primo, grazie al suoimprinting pragmatico e pluralista, riesce facilmente ad adattarsi al-l’evoluzione teorica e alle evidenze empiriche emerse dall’interno dellascienza politica americana nell’ultimo cinquantennio, mentre in questocontesto il secondo non riesce a giustificare la sua specificità e la suarilevanza. Insomma, quello che abbiamo chiamato il concetto radicaledi politica pubblica, prima o poi si mangia quello di amministrazione,che come il primo ha una duplice valenza, descrittiva e prescrittiva,come il primo fa riferimento tanto a una disciplina, quanto a un’attivi-tà, ma che, a differenza del primo, subisce, anziché promuovere, quel-la «perdita dello stato solido» in atto in una parte importante delleteorie della sfera pubblica.

Comunque, il percorso intellettuale che porta l’amministrazione afinire sotto l’accogliente ma esigente ombrello dei policy studies è piùaccidentato di quello seguito dalle altre categorie di attori. Mentre par-titi e organizzazioni degli interessi prestano in genere poca attenzione acome le scienze sociali li definiscono e a dove li collocano, quello trapublic management, politiche pubbliche, pubblica amministrazione è unconfine molto caldo, piantonato dal diritto e dalla giustizia amministra-tiva, ma anche dalle discipline accademiche, dalle società di consulenza,dalle associazioni professionali, dalle scuole di formazione. E gli stessifunzionari sono costantemente tenuti a esercitare una qualche forma diriflessività, per capire se sono dentro o fuori i confini loro assegnati.Questo spiega il lungo travaglio che ha portato al distacco di molti stu-diosi di pubblica amministrazione dall’APSA, tra il 1970 e il 1983 [Hen-ry 1990]: la motivazione è l’accusa alla scienza politica di fagocitare lapeculiarità della funzione amministrativa, ponendola sotto l’onnivoraetichetta di public policy. La «scuola politica» avrebbe infatti portato auna rappresentazione della burocrazia tutta sbilanciata sul lato dellapluralità dei fini e dei conflitti d’interesse. Questa impostazione finiscecol richiedere alle amministrazioni compiti che non sono i loro:

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In un assetto istituzionale con queste caratteristiche, ci sono molte proba-bilità che le cose prendano una brutta piega per la pubblica amministrazione.Tutto ciò che emerge come policy dalle disposizioni normative ha un’ambi-guità in genere basata su contrattazioni e compromessi. Al massimo, le normedefiniscono un intento, danno all’agenzia la direzione, ma è l’agenzia chedeve esporsi, a suo rischio e pericolo [Derthick 1990, 180].

Per diversi anni, l’incomunicabilità tra chi studiava l’amministrazio-ne all’interno dell’approccio politico, e chi invece ne rifiutava i presup-posti, è stata totale. In quegli stessi anni, del resto, per i sostenitori dellaspecificità della funzione burocratica, alle minacce teoretiche si aggiun-gevano preoccupazioni più mondane: soprattutto in Gran Bretagna enegli Stati Uniti, infatti, il loro oggetto di studio tendeva ad assottigliarsisempre di più, per il sistematico spostamento della produzione di benie servizi a imprese operanti secondo logiche di mercato [Rhodes 1994;Foster e Plowden 1996]. A torto o a ragione, molti studiosi individua-vano nei paradigmi prevalenti nella scienza politica i maggiori responsa-bili di questo «svuotamento dall’interno» dei concetti – e dei budget –di Stato e di amministrazione [Weller et al. 1997; Davis 1997]. A questeteorie, nella loro versione induttiva e deduttiva, veniva infatti imputatala colpa di avere buttato a mare i concetti di disinteresse, di dedizioneall’ufficio, di lealtà alla norma, contribuendo ad alimentare la diffidenzadell’opinione pubblica per tutto ciò che è istituzionale.

Quando, negli anni ’90, il dialogo sembra riprendere [Lynn e Wil-davsky 1990; Frederickson 1997], quando questo campo disciplinaretorna a fare la sua comparsa ufficiale all’APSA [Frederickson 1999],quella che riemerge è una scienza dell’amministrazione che ha impara-to la lezione della frammentazione, dei networks, del caos e della di-sarticolazione dello Stato, e che si candida a dare un senso a tuttoquesto, e a governarlo38:

Le teorie e i concetti dello scontro tra interessi, della competizione elet-torale e tra gruppi d’interesse, dei giochi, con vincitori e perdenti, hannodominato e continuano a dominare la scienza politica. La scienza dell’ammi-nistrazione si sta allontanando con decisione da queste teorie e concetti, perandare verso le teorie della cooperazione, della costruzione delle reti, dellagovernance, della costruzione e manutenzione delle istituzioni [...]. Insomma,la scienza dell’amministrazione è cambiata a tal punto da trovare una nuovacollocazione nella scienza politica. Nei termini più semplici, le [nuove] ipotesisostengono che la pubblica amministrazione è naturalmente inter-giurisdizio-nale, organizzata per reti, e a suo agio nel nuovo mondo della governance. Percome è praticata nelle nostre tradizionali istituzioni democratiche, è la politica(politics) a essere profondamente basata sulle giurisdizioni e confinata in esse.In queste nicchie di giurisdizioni, la politica è competitiva e preoccupata per

38 Un’anticipazione di questo approccio può essere trovata in Italia in Dente[1985].

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la vicinanza dello scontro tra interessi, con vincitori e perdenti. Dunque, è lapubblica amministrazione ad assumere il ruolo della politica (politics) nel-l’adattamento delle istituzioni pubbliche all’elevata frammentazione e alladisarticolazione dello Stato [Frederickson 1999, 710].

L’ambizioso tentativo di reintrodurre coerenza e coordinamento inattività di governo che lo studio del policy making descrive come fran-tumate da crepe profonde e irregolari, si sovrappone ampiamente conil progetto che in più punti del nostro percorso abbiamo identificatocon il termine governance. A caratterizzarne il profilo, è la rielabora-zione di concetti quali istituzione, network, sistema, per sfruttarne levalenze insieme esplicative e prescrittive; l’obiettivo è il potenziamentodella capacità di indirizzo e controllo della complessità nelle democra-zie contemporanee [Rhodes 1997; Agranoff e McGuire 1998]. Maproseguire lungo questa strada ci allontanerebbe non solo dalla colon-na dei contributi descrittivi, ma dallo stesso piano a.

4.2.2. Modelli basati sulla relazione

I modelli di cui ci occuperemo ora preferiscono rimanere ancoratia un’evidenza empirica che parla un linguaggio un po’ diverso:

È improbabile, se non impossibile, che una politica pubblica di qualchesignificato possa derivare dal processo di scelta di una singola categoria diattori. La formazione e l’implementazione delle politiche sono inevitabilmenteil risultato di interazioni tra una pluralità di attori separati, con i loro separatiinteressi, obiettivi, strategie [Scharpf 1978, 347].

Dunque, se le ripartizioni tradizionali della scienza politica e dellasociologia politica ci danno rappresentazioni delle varie categorie diattori per quadri distinti gli uni dagli altri – i partiti, i gruppi d’interes-se, la burocrazia, ecc. –, le metafore basate sulla relazione sottolineanoinvece le interazioni, la coevoluzione, la bidirezionalità di tutti i flussidi influenza [Ripley e Franklin 1984; Hamm 1986].

I triangoli di ferro

La metafora dei triangoli di ferro rappresenta il primo tentativo didare contorni e logiche di funzionamento più precisi alle arene (o sot-tosistemi, o sottogoverni) di policy. Questa immagine, elaborata conriferimento al policy making americano, si propone di dare conto dellafitta rete di contatti che normalmente si consolidano tra la commissio-ne parlamentare con specifiche competenze in un dato settore, i diri-genti burocratici responsabili della stessa area e le organizzazioni cherappresentano gli interessi che gravitano intorno ad essa.

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[I triangoli di ferro] si presentano così perché ognuno include personeche provengono da una commissione o sottocommissione parlamentare, daun comparto dell’amministrazione e dai responsabili del lobbying delle orga-nizzazioni degli interessi o di altri gruppi. A spingere i tre lati di ciascuntriangolo a interagire, apertamente o dietro la scena politica, è la comunepreoccupazione per la legislazione o l’amministrazione di qualche aspettodell’attività politica, quale l’ammontare delle agevolazioni per il cotone o letariffe dell’acciaio importato. Le informazioni su questioni di questo tiposono in genere così scarse e oscure che gli altri attori sono incapaci di parte-cipare a queste discussioni e negoziazioni triangolari [Ricci 1993, 8].

All’origine di questa definizione sta un’osservazione di Griffith[1939], giustamente considerata fondamentale da molti autori [Free-man 1965; Jordan 1990b]: «La relazione tra queste persone – legisla-tori, amministratori, lobbisti, studiosi – che sono interessate ad un co-mune problema, è una relazione molto più reale di quella tra parla-mentari in generale o tra amministratori in generale» [1939, 182].

Il tipo di relazioni che si consolidano tra queste tre categorie diattori non implica scambi di risorse politicamente cruciali, come nelmodello neocorporativo, ma piuttosto l’instaurarsi di una serie di at-tenzioni e di favori di mutua convenienza [Cater 1964]. Infatti, dallericerche condotte negli Stati Uniti, risulta che i responsabili ammini-strativi sono particolarmente attenti a una tempestiva implementazionedelle misure che pensano avvantaggiare l’elettorato di riferimento deiparlamentari membri delle commissioni competenti per il loro settore.Dalle scelte di questi ultimi, infatti, dipendono l’ammontare delle ri-sorse e l’estensione delle competenze che essi sono chiamati a gestire[McCormick e Tollison 1981]. Soprattutto al momento dell’approva-zione delle leggi finanziarie, diventa fondamentale l’aggressività e lacompattezza dei parlamentari nel rivendicare più stanziamenti per illoro settore, esibendo statistiche da cui risultano penalizzazioni, e mi-nacciando crisi catastrofiche o sollevazioni popolari.

A loro volta, i parlamentari tendono a produrre una legislazionefavorevole a quelle organizzazioni degli interessi che possono ricambia-re l’attenzione finanziando le loro campagne elettorali, o comunqueinfluenzando consistenti pacchetti di voti. Per un politico, il problemafondamentale è quello di far arrivare il suo messaggio a un target mi-rato, perché stringere le mani nei supermercati serve a poco, soprattut-to se sono in molti a farlo. Le associazioni degli stakeholders svolgonoun ruolo molto importante perché, ospitando un’intervista sulla lorostampa o organizzando un convegno, possono far arrivare le informa-zioni su una proposta di legge proprio agli orecchi più attenti e ricet-tivi. Ma i rappresentanti di queste associazioni mirano ad intrattenerebuoni rapporti anche con l’amministrazione, garantendo ai suoi fun-zionari sia cooperazione nella fase di implementazione, sia beni piùprivati, quali la possibilità di lucrose consulenze o di prestigiosi inca-richi a fine carriera, in cambio di informazioni «in anteprima» sui de-

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creti attuativi, sulle procedure per ottenere finanziamenti, su tutti iparticolari che agevolano l’accesso dei loro aderenti ai benefici previstidalle misure legislative.

In alcuni casi, la cooperazione informale può trasformarsi nella de-lega formale di vere e proprie funzioni governative alle organizzazionidegli interessi, come dimostrano i casi di autoregolazione dell’accessoalle professioni liberali, di accoglimento delle pratiche previdenziali, disponsorship nel settore dei beni culturali, di joint venture per il risana-mento di aree urbane [Salisbury 1968]. Il termine «porta girevole»intende sottolineare un fenomeno che spesso fa da corollario a questaunità di intenti: la ricomparsa delle stesse persone con ruoli diversi inuno stesso settore del policy making; oggi parlamentare, domani con-sulente di una associazione di categoria, dopodomani coordinatore diuna task force ministeriale [Heclo 1978].

La disarticolazione organizzativa dei grandi attori

A partire dagli anni ’70, la metafora dei triangoli di ferro è sfidatada rappresentazioni del policy making caratterizzate da quattro ele-menti:

• l’attenzione per le articolazioni organizzative interne delle grandicategorie di attori;

• l’allargamento del ventaglio dei policy maker significativi;• l’attenzione a forme di interazione diverse dalla pressione o dal- lo

scambio di favori;• il ricorso a figure non chiuse come i triangoli, bensì aperte come

le reti.Partiamo dal primo aspetto. Il nuovo problema di ricerca può es-

sere riassunto in questi termini: che cosa succede ai partiti, alle grandiorganizzazioni degli interessi, alle burocrazie, quando devono usciredalle loro sedi per incontrarsi, per contrattare l’indirizzo da imprimerea una politica pubblica? Una prima risposta è già stata data dal para-grafo precedente: si frammentano, secondo linee che grosso modo ri-calcano le diverse politiche. Le ricerche che approfondiscono le con-crete modalità di interazione tra queste diverse categorie danno nelcomplesso un’immagine basata su una grande e profonda disarticola-zione organizzativa.

Heinz, Laumann, Nelson e Salisbury [1993], al termine di una gi-gantesca ricerca sulle organizzazioni degli interessi nel policy makingamericano, concludono che il loro nucleo è vuoto, eroso dalla necessi-tà delle singole branche di ritagliarsi spazi di autonomia per aderirealla particolare configurazione delle diverse arene di policy. Con laparziale eccezione dei sindacati, nelle altre associazioni il capitale chepuò essere speso nelle contrattazioni di policy difficilmente è fornitodal fatto di avere alle spalle un gigante come un cartello di produttori

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o un’associazione di consumatori: la sua accumulazione dipende inve-ce «da chi si conosce e da che cosa si conosce». Con questa espressio-ne viene sottolineata l’importanza di due serie di fattori: i legami per-sonali stretti durante anni di frequentazione delle commissioni parla-mentari, dei ministeri, delle altre organizzazioni di stakeholders, e lacompetenza tecnica circa i risvolti giuridici, procedurali, finanziari,sociali e politici delle issues in discussione [Heinz et al. 1993].

Le ricerche condotte in Italia, pur con risorse di gran lunga infe-riori, dimostrano che radicali processi di disarticolazione sono all’ope-ra anche nei partiti politici, soprattutto nella fase del loro massimosplendore come policy makers, durante gli anni ’80 [Cotta e Isernia1996; Dente e Regonini 1987].

Nuove categorie

Il secondo contributo degli studi policy oriented riguarda l’allarga-mento delle categorie cui guardare per capire per quali mani e perquali menti passano le politiche:

Nei casi che abbiamo esaminato, compaiono quali policy makers non soloi politici eletti e i dirigenti delle agenzie pubbliche, ma anche i delegati deigruppi di interesse, i giudici, i rappresentanti di tutti quelli che hanno postein gioco, come i funzionari sindacali o i vertici delle associazioni professionalidei manager. Inoltre, i casi studiati portano a includere anche istituzioni nongovernative, come il MIT39 [Schön e Rein 1994, 190].

I magistrati. Dalla costituzione e dalla storia degli Stati Uniti civiene il diretto suggerimento di un nuova categoria da aggiungere allanostra lista: quella dei magistrati. Fiorina, nella sua analisi delle forzeche impediscono ai partiti americani di esercitare un qualche primato,cita al primo posto la magistratura. «La magistratura è senza dubbioun antagonista del governo di partito più importante negli Stati Unitiche in Europa e, probabilmente che in qualunque altro posto al mon-do» [Fiorina 1987, 286].

L’eccezionalità del caso americano è ammessa da tutti gli osserva-tori [Canon 1991]. Alla sua origine stanno, come è noto, un impiantoistituzionale basato sulla separazione e sulla uguale dignità dei poteri,e una dottrina del diritto che assegna un grande valore alle singolesentenze, che vanno a costituire dei precedenti cui ispirarsi. Ma dalnostro punto di vista è importante sottolineare il ruolo giocato da unacultura giuridica in cui il pragmatismo di John Dewey ha trovato piùdi qualche sparso estimatore40. L’esercizio della giustizia è pertanto

39 Massachusetts Institute of Technology, una delle principali università americane.40 Un ruolo molto importante nell’impostazione di quella che venne chiamata

«giurisprudenza sociologica» fu svolto da Roscoe Pound, preside della prestigiosaHarvard Law School dal 1916 al 1936 [Heineman et al. 1990, 143].

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concepito non come applicazione di principi, ma come attiva ricogni-zione delle condizioni che marcano il confine tra una situazione social-mente accettabile e una che non lo è: «Il giudizio finale non intendesuggerire che tutto quel che vale la pena di dire è stato detto, ma soloche è meglio, tutto considerato, non dire nient’altro per qualche tem-po» [Ackerman 1984, 41].

Sulla base di questa impostazione, un ruolo attivo nell’interpreta-zione e persino nell’integrazione della legge, quando questa risultapalesemente inadeguata, può diventare non solo inevitabile, ma anchedoveroso:

I giudici americani sono spesso nella posizione di un comandante di plo-tone. I comandi che arrivano dal potere legislativo non sono chiari, e i giudicinon possono chiedere chiarimenti ai legislatori. In questa situazione, i giudicinon possono considerarsi come archeologi falliti o antiquari41. Loro sonoparte di un’impresa vitale – l’impresa di governare gli Stati Uniti – e quandogli ordini dei loro superiori non sono chiari, ciò non li esime dalla responsa-bilità di dare un aiuto perché l’impresa abbia successo [Posner 1993, 105].

In effetti, almeno dal 1954, cioè da quando una sentenza dellaCorte Suprema, nel famoso procedimento Brown v. Board of Educa-tion, diede inizio alla desegregazione razziale nelle scuole, le politicheavviate o reindirizzate dalle decisioni della magistratura sono molte42.Rimarcare questa influenza può sembrare in contrasto con la differen-za tra politiche e leggi, che abbiamo sottolineato con forza nel primocapitolo. Se questo è vero in generale, è anche vero che esistono setto-ri di policy in cui le risorse pubbliche sono costituite prevalentementedalle norme e dalla loro interpretazione. Più precisamente, tre arenesono particolarmente sensibili alle decisioni prese dai magistrati:

• le politiche a difesa della libertà di parola e delle altre libertàcivili e politiche;

• le politiche sociali, e più precisamente le iniziative che tendonoa ridurre con azioni positive le differenze di opportunità tra gruppi dicittadini, come nel caso della sentenza del 1954;

• le politiche regolative, che vincolano la libertà di comportamen-to degli individui e delle imprese per tutelare beni pubblici quali laqualità dell’aria, la competizione nei mercati, la sicurezza delle strade,l’igiene degli alimenti.

Proprio su quest’ultimo gruppo di politiche si riversa la grandemaggioranza dell’attività giudiziaria significativa per il policy making[Wilson 1980]. Infatti a partire dagli anni ’30, cioè da quando il go-

41 Cioè cercare di ricostruire le originali intenzioni del legislatore.42 Questo ruolo è stato prontamente colto da Robert Dahl, in un famoso articolo

dal titolo Decision-making in a Democracy: The Supreme Court as a National Policy-maker [1957].

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verno americano scelse di ricorrere ad agenzie regolative indipendentidall’amministrazione per garantire il controllo dei mercati dei capitali,l’implementazione delle politiche regolative è spesso condizionata dauna selva di cause e di ricorsi, che ormai fanno dell’avvocato una figu-ra chiave delle organizzazioni degli interessi di ogni tipo, economici enon [Heinz et al. 1993]43. In molti casi, infatti, i magistrati diventanol’ancora di salvataggio dopo un lobbying parlamentare finito male[McCann 1992].

Questa tendenza suscita contrastanti valutazioni sul piano prescrit-tivo. Se alcuni autori vi scorgono i segni di quella democrazia giuridicaauspicata da Lowi [1969] come antidoto alla eccessiva discrezionalitàdelle contrattazioni dirette tra i dirigenti delle agenzie e le grandi orga-nizzazioni degli interessi, altri rimarcano i limiti di decisioni che sonopur sempre prese nella logica del caso singolo, e che mancano dellalegittimazione politica e del supporto tecnico per rappresentare veresvolte di carattere generale [Rosenberg 1991; Jackson e Tate 1992].

Nella valutazione dell’influenza che la magistratura esercita sulpolicy making, sarebbe comunque riduttivo fermarsi alla fase dell’im-plementazione, perché le sentenze sono anche una straordinaria levaper condizionare l’agenda pubblica [Perry 1992; Flemming et al.1997]. Infatti le corti godono di un’amplissima discrezionalità nellascelta dei criteri per definire le priorità nell’esame dei singoli casi, cioèper selezionare, tra le migliaia di apparenti difformità tra le pratiche ele norme, quelle meritevoli di immediata considerazione. Soprattuttoquando sono in gioco sentenze delle corti costituzionali, questa libertàpuò condizionare notevolmente l’agenda dei legislatori, costringendolia «correre ai ripari» con nuove leggi.

In Italia, le iniziative giudiziarie contro la corruzione, all’iniziodegli anni ’90, hanno reso evidente anche al grande pubblico il ruoloche la magistratura può giocare rispetto alla politics [Guarnieri e Pe-derzoli 1997; Morisi 1999]. Meno note sono le modalità di interventorispetto al policy making. Eppure, in molti settori le inchieste e le sen-tenze dei tribunali hanno profondamente condizionato il corso di alcu-ne politiche, soprattutto negli anni ’70. Basti pensare allo spazio occu-pato dalla magistratura del lavoro nelle relazioni industriali e nellepolitiche dell’occupazione, alle inchieste-battistrada di alcune procurecontro i reati ambientali, o alle indagini sulle pensioni di invaliditàabusive in alcune città del sud. E tuttavia la crisi organizzativa dellamacchina della giustizia, con i suoi tempi lunghi e la sua scarsa specia-lizzazione, tende oggi a ridurre l’incisività delle sue decisioni nel cam-po delle politiche pubbliche.

43 Negli anni ’90, l’agenzia per la protezione dell’ambiente stimava in circa l’80%la quota delle sue disposizioni contestate in tribunale. Per contrastare questa tendenza,nel 1990 è stato approvato il Negotiated Rulemaking Act, cui si è accennato nelle noteprecedenti.

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I media. Che giornali e televisioni siano canali di comunicazioneimportanti per le idee che danno forma alle proposte di policy, è datoper scontato dalla grande maggioranza delle ricerche. Che siano ingrado di intervenire autonomamente nel policy making, è invece que-stione più controversa. Per dare voce alle diverse ipotesi, convienescomporre il problema nei suoi diversi aspetti.

La prima questione è: sono i media in grado di condizionarel’agenda delle istituzioni pubbliche, inducendole a prendere decisionisu temi che altrimenti avrebbero ignorato? Rispetto a questo punto, sifronteggiano due scuole di pensiero. Per la prima, la risposta è sicura-mente affermativa: i media sono «la quarta branca del governo» [Ca-ter 1959]; considerati nel loro insieme, sono una vera e propria istitu-zione politica [Cook 1998]. Contro queste affermazioni, stanno altreevidenze empiriche, che indicano una loro debole influenza: «Nono-stante i buoni motivi per ritenere che i media abbiano un impatto no-tevole sull’agenda del governo, i nostri indicatori standard danno risul-tati deludenti. I mass media sono considerati importanti solo nel 26%delle interviste, molto al di sotto dei gruppi d’interesse (84%) o dei ri-cercatori (66%)» [Kingdon 1984, 61]. A risultati analoghi giunge laricerca di Light [1982] sulle fonti cui si rifanno i componenti dellostaff dei presidenti degli Stati Uniti nel determinare l’agenda del go-verno.

Se l’ipotesi del condizionamento presenta alcune lacune, una lettu-ra delle interazioni tra politici e media basata invece sulla mutua con-venienza a sostenersi reciprocamente coglie una parte importante dellarelazione:

I giornalisti devono trasmettere i loro articoli per riempire i giornali, equelli di Washington vogliono diffondere informazioni che favoriscano i lorofini. I due interessi vanno insieme, al punto che la maggior parte delle notizienazionali è basata su riunioni ufficiali, audizioni, conferenze stampa, comuni-cati e discorsi formali, sicché l’informazione passata apertamente alla stampaè autorevole, ma anche, in larga misura, conveniente per chi la passa [...]. Ilrisultato è che le notizie e i commenti su queste fonti di informazione sonodiventate un fattore importante nella vita di Washington. In città tutti sannoche tutti consultano i media per tenere il conto di chi ha fatto che cosa a chi[Ricci 1993, 99 e 138].

Il secondo problema ha a che fare non con i temi da sospingere inagenda, ma con le soluzioni da sostenere: i media praticano una siste-matica distorsione del dibattito a favore di alcune proposte e controaltre? E, nel caso di una risposta affermativa, quali interessi è possibileleggere in trasparenza nelle notizie di un giornale o di una televisione?Quelli dei loro proprietari? Quelli dei gruppi influenti nella società?[Kollman 1998]. Se si fa presto a dire che l’informazione è di parte,dimostrarlo con dati alla mano non è facile. Oggi l’analisi del testodispone di grandi risorse metodologiche e computazionali: ma la di-

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stanza tra la rozzezza dei dati necessari per dimostrare la tesi della di-storsione e la sofisticata abilità di un bravo giornalista è ancora in lar-ga parte incolmata.

Il terzo problema è anche il più spinoso: i media sono in grado distrutturare la percezione che i cittadini hanno dei problemi e di in-fluenzare le domande che rivolgono alle istituzioni? La risposta a que-sta domanda risente di tutte le incertezze che caratterizzano decenni diricerche su due grandi temi della scienza politica e della sociologia. Ilprimo riguarda la forza del condizionamento esercitato dai media sullescelte di voto; il secondo riguarda un argomento che sarà ripreso trapoche righe: il rapporto tra l’informazione e il peso di un’opinionepubblica autonoma e competente [Page 1996; Sartori 1999]. Nel casodelle politiche pubbliche, un lume proviene dalle ricerche che collega-no la maggiore o minore incisività dell’orientamento assunto dai mediaalle specifiche caratteristiche delle issues in discussione. I loro risultatici dicono che, in generale, la diretta esperienza di un problema dipolicy costituisce un potente antidoto al condizionamento da partedegli organi di informazione, perché per prima cosa la gente «si guar-da attorno e valuta le notizie alla luce di quello che già sa, e stabiliscese combaciano con la realtà di cui ha avuto esperienza, direttamente oindirettamente» [Graber 1988, 93]. Anche i temi con una forte caricaemotiva risultano relativamente impermeabili, mentre gli opinionistipossono risultare più convincenti quando sono in gioco problemicomplessi, con molteplici valenze, colte solo dagli esperti.

Oltre che dalle caratteristiche delle issues, il potere di persuasionedei media dipende dalle fonti privilegiate da chi è esposto ai loromessaggi: su temi quali l’aborto o l’istruzione dei figli, la famiglia, lacerchia degli amici, le associazioni culturali, le chiese sono infattiidentificate come testimoni più affidabili da una larga parte della po-polazione.

I cittadini. Come abbiamo più volte sottolineato, una delle implica-zioni normative collegate all’uso del concetto di politica pubblica ri-guarda proprio il riconoscimento del ruolo che i cittadini possono as-sumere nell’indirizzo e nel controllo delle specifiche iniziative dei go-verni, perché tutti, prima o poi, finiamo con l’esserne coinvolti: «A unqualche stadio del ciclo della vita, è probabile che tutti vengano a di-pendere dall’istruzione pubblica, dalla sanità, dalla previdenza socialeo da altri servizi pubblici» [Rose 1989, 7]. A dipendere, o a contare?

1. L’opinione pubblica. Il più importante concetto formulato dallateoria politica europea per il controllo in itinere dell’operato dei go-verni è quello di opinione pubblica, che implica la capacità di unasocietà civile attenta e ben informata di esercitare una costante vigilan-za critica sulle decisioni dell’autorità politica [Habermas 1969]. Neglianni ’20, dopo i primi segni delle tendenze plebiscitarie manifestatesiin Europa, e dopo la dimostrazione che negli Stati Uniti stampa e ra-

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dio davano del loro potere, Walter Lippmann, con due testi [1922;1925] destinati a suscitare un vasto dibattito, manifesta un totale scet-ticismo verso la sopravvivenza di un’opinione pubblica attenta, auto-noma e autorevole nelle società di massa44. Soltanto qualche annodopo, il concetto di opinione pubblica ricompare nelle scienze socia-li americane, privato di qualunque riferimento a un’elaborazione criti-ca collettiva, e riferito invece alla somma dei pareri individualmenteespressi da campioni rappresentativi della popolazione nelle grandiindagini demoscopiche di ispirazione comportamentalista.

A questo punto, l’agenda di ricerca cambia completamente. A es-sere portate in primo piano sono questioni del tipo:

• che cosa sanno davvero i cittadini dell’operato dei governi?• la loro ignoranza è un bene o un male per la democrazia?• le loro opinioni sono in accordo o in contrasto con le scelte

delle istituzioni politiche?• che cosa viene prima, l’uovo dell’opinione dell’uomo della stra-

da, o la gallina della legittimazione che delle loro decisioni danno igoverni?

Se la seconda domanda ha implicazioni normative che qui nonpossiamo affrontare, le risposte agli altri quesiti sono sufficientementeconvergenti da consentire una drastica sintesi. Per quanto riguardal’informazione, i risultati in genere sottolineano una drammatica in-competenza anche sui temi più «caldi»: «Di sicuro, il dato che emergepiù comunemente dalle indagini a campione in tutti i paesi è che illivello di informazione popolare sulle questioni pubbliche è, dal puntodi vista di un osservatore informato, incredibilmente basso» [Converse1975, 79]45.

La risposta alla domanda circa la congruità tra le opinioni dei cit-tadini e le scelte delle istituzioni è invece, e forse altrettanto sorpren-dentemente, decisamente ottimista46. Questa sintonia trova confermasia nei dati aggregati, sia nella relazione diadica tra il singolo parla-mentare e il suo collegio elettorale. Inoltre, le ricerche longitudinali suun significativo arco temporale hanno dimostrato che cambiamentiimportanti dell’opinione pubblica in genere precedono, anziché segui-re, la definitiva approvazione delle corrispondenti misure di policy[Page e Shapiro 1992].

Più complicata è invece la questione circa la direzione del flussodell’influenza che produce questo accordo. Le indagini sottolineano

44 In risposta a queste tesi, John Dewey scrive nel 1927 The Public and Its Prob-lems, che contiene un concetto completamente diverso di pubblico, cui abbiamo ac-cennato nel primo capitolo.

45 Da un’indagine svolta da Renato Mannheimer a ridosso dei lavori della Com-missione bicamerale per le riforme istituzionali, risulta che metà degli intervistati nonsi sono accorti della sua esistenza («Corriere della Sera», 10 novembre 1997).

46 Per una rassegna della letteratura, v. Jacobs e Shapiro [1994].

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infatti che sarebbe ingenuo dedurre da questi dati un qualche rappor-to di causa-effetto che faccia dei cambiamenti nell’opinione pubblica ilmotore immobile delle svolte impresse alle politiche pubbliche. Anchein questo caso, il termine coevoluzione descrive meglio la complessitàdella relazione. In primo luogo, gli elettori, più che scegliere i partitiin base alle loro piattaforme programmatiche, tendono ad attribuire aipartiti per cui hanno votano le loro proprie preferenze di policy. Insecondo luogo, i politici non sono meri barometri del favore popolare,ma cercano di modificare gli orientamenti dei cittadini con una vastaserie di strumenti, che vanno dal lancio di campagne di stampa, all’im-piego degli attivisti di partito e delle associazioni degli interessi. Que-sto flusso di influenza «dal politico al cittadino» è stato approfonditosoprattutto con riferimento al ruolo dei discorsi dei presidenti degliStati Uniti. Il quadro che esce da queste ricerche colloca la forte sinto-nia tra il presidente e l’opinione pubblica in un gioco a tre, in cui lostaff presidenziale si propone di sensibilizzare la cittadinanza per re-stringere i margini di manovra del Congresso [Cohen 1995]. L’accor-do che alla fine risulta esistere tra opinione pubblica e scelte di policyappare dunque più complicato di una mera dimostrazione di sensibi-lità democratica da parte dei leader politici.

2. I sostenitori di interessi pubblici. Dalla sua nascita, la democra-zia americana ha attirato l’attenzione degli osservatori per la capacitàdei suoi cittadini di autorganizzarsi per il raggiungimento di obiettivimetaindividuali, siano questi la tutela della libertà di parola, o lo spo-stamento di una fermata dell’autobus. In genere, con il termine «mo-vimento sociale» si fa riferimento alla difesa attiva di interessi in gradodi toccare larghissime fasce della popolazione: quelli delle donne, deiconsumatori, degli abitanti dell’ecosfera. Un «gruppo d’interesse pub-blico» è invece un’organizzazione nata per tutelare specifiche esigenze,non tenute in adeguata considerazione dalle politiche in atto: la difesadal rumore di un aeroporto, l’allontanamento degli spacciatori da unparco, la migliore pulizia di una strada.

Le ricerche condotte negli Stati Uniti registrano concordi una no-tevole crescita dei gruppi d’interesse pubblico negli ultimi decenni:«Oltre la metà dei gruppi di cittadini sono stati creati negli ultimi ven-ticinque anni, con uno spettacolare incremento che ha cambiato lanatura della politica (politics) dei gruppi d’interesse in America. Leorganizzazioni del settore economico non mostrano una simile impen-nata» [Walker 1991, 34].

Se la mobilitazione dell’opinione pubblica su problemi generali in-contra tutte le contraddizioni che abbiamo appena evidenziato, la spe-cifica focalizzazione dell’attenzione su precise decisioni da sostenere oda contrastare ha più probabilità di rivelarsi efficace [Berry 1989].

Tra le variabili che condizionano l’incisività di queste azioni dalbasso, un ruolo decisivo è giocato dalla capacità di curare la comuni-cazione con i media: «I sostenitori di interessi pubblici che sono sen-

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sibili sia alle esigenze operative e alle pratiche nel repertorio dellastampa, sia alla necessità di rendere i loro problemi comprensibili erilevanti per il pubblico, possono vincere l’inerzia implicita nel proces-so di policy e ottenere un sensibile cambiamento nelle politiche»[Cobb e Elder 1981, 411].

Al limite, anche la fama di «cliente intrattabile» [Hargrove e Gli-dewell 1990], affibbiata a gruppi di destinatari particolarmente esigen-ti, può diventare una risorsa efficace per ottenere dai responsabilipolitici e amministrativi un trattamento di riguardo.

3. I net-attivisti. Negli ultimi dieci anni, il modo di far valere in-teressi pubblici è radicalmente cambiato per effetto di Internet edelle straordinarie risorse tecnologiche disponibili a costi vicini allozero, quali siti web, posta elettronica, software per la gestione a di-stanza di gruppi di lavoro, per il coordinamento delle agende e lacondivisione di bookmarks, dati e documenti [Bimber 1998; Davis eOwen 1998].

Come sottolinea Russell Neuman, le interpretazioni sugli effettisociali di Internet coprono tutta la gamma dall’utopia alla distopia47.Dal punto di vista dell’influenza sul policy making, due fattori hannosvolto un ruolo cruciale nel determinare la crescita esponenziale diqueste forme di attivismo. Innanzi tutto, il crollo dei costi del coordi-namento interno, del proselitismo e della pressione verso l’esterno, intermini di personale, di tempo, di denaro, costituisce sicuramente ilfattore più importante della straordinaria crescita delle iniziative per ladifesa di interessi metaindividuali . In secondo luogo, la rete comestruttura fisica e la rete come metafora dei rapporti nelle arene di pol-icy crescono insieme e si sostengono a vicenda [Taylor e Van Every1993]48. La gerarchia tendenzialmente piatta, la comunicazione in tuttii sensi, la libertà di tagliare su misura il livello di profondità nella na-vigazione, sono caratteristiche insieme tecnologiche e sociali, comedimostra la difficoltà della loro importazione in un contesto qualequello dell’amministrazione italiana.

47 L’ironico elenco delle conseguenze che i media associano alla rete comprendequeste previsioni: «Indebolisce il sistema dei partiti; offre una nuova tribuna per inci-tare all’odio; stimola nuove potenzialità per la democrazia dal basso; permette al terzomondo di saltare il doloroso stadio dell’industrializzazione per accedere direttamenteall’economia dell’informazione; sottrae ai bambini la loro infanzia, e a tutti il radica-mento in un dato luogo; rende troppo veloce il processo di risposta dei governi allecrisi internazionali, precludendo deliberazioni ponderate; isola tra loro i membri dellefamiglie; stabilizza in modo permanente il ciclo economico; aumenta la distanza trachi ha l’informazione e chi non ce l’ha; limita la capacità dei regimi autoritari nel con-trollo del flusso delle informazioni dentro e fuori il loro dominio». R.W. Neuman,New Media, Public Knowledge and Political Behavior, Paper presentato al convegnoAPSA, Atlanta, 2-5 settembre 1999, p. 1.

48 V. anche G. Regonini, E se fosse Internet a cambiare le istituzioni?, Paper pre-sentato al convegno SISP, Urbino, giugno 1996.

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Come è noto, molti autori colgono nella connettività elettronica lostrumento per la realizzazione di quella democrazia comunitaria chetanto spazio occupa nel pensiero pragmatico americano, in contrappo-sizione alla democrazia plebiscitaria, top-down, legata alle potenzialitàdi manipolazione a senso unico dei «vecchi» media: stampa, radio,televisione: «I grandi perdenti, nell’attuale riformulazione e rilanciodell’influenza pubblica, sono le tradizionali istituzioni che hanno fun-zionato da principali intermediari tra il governo e i cittadini: i partitipolitici, i sindacati, le associazioni civiche, e i commentatori o i corri-spondenti della grande stampa» [Grossman 1995, 161]49.

I fornitori. Dopo questa immersione nel virtuale, a riportarci con ipiedi per terra provvedono le ricerche che cercano di ricostruire larete di relazioni tra chi disegna le politiche e chi fornisce i beni e iservizi per la loro attuazione. Da più di due decenni, ormai, in moltipaesi si è affermata l’idea che le amministrazioni possano conseguirerisultati migliori a costi più contenuti non provvedendo in prima per-sona alla gestione delle mense scolastiche, o all’organizzazione dei tra-sporti ferroviari, bensì fissando precise linee contrattuali che vincolinoal rispetto degli standard i fornitori, siano questi imprese che operanonel mercato o associazioni del cosiddetto terzo settore.

Per quanto riguarda le transazioni del primo tipo, cioè regolate dal-la logica del profitto, privatizzazioni, contract out, appalti, sono alcunedelle svariate forme attraverso cui possono passare le istituzioni, neltentativo di contenere la crescita del settore pubblico e di recuperareefficienza. Le ricerche sulla concreta implementazione di queste strate-gie rivelano le difficoltà che l’attore pubblico incontra nel vincolare leimprese al rispetto delle condizioni pattuite: se questo è un problemaendemico di tutte le transazioni che coinvolgono grandi corporations,quando a contrattare sono i responsabili dell’amministrazione, le pro-babilità di esiti insoddisfacenti sono elevate [Kettl 1993a; Rhodes1994]. Innanzi tutto, le imprese possono fare lobbying e possono eser-citare un qualche ruolo nella competizione politica, trasformandosi dameri strumenti per la fornitura di beni, in attori in grado di imporre leloro condizioni. Nei casi peggiori, possono ricorrere alla collusione, allatruffa e alla corruzione. Ma l’aspetto anche statisticamente più signifi-

49 In questo caso più che mai, la letteratura di riferimento va cercata nell’enormee mutevole serbatoio rappresentato dalle migliaia di siti web attivi nel campo della de-mocrazia dal basso, quali, ad esempio, A. Kraus, M. Stein e J. Clark, The Virtual Ac-tivist: A Training Course. Netaction. On-Line, http://www.netaction.org/training/(1988); L.A. Pal, Virtual Policy Networks: The Internet as a Model of ContemporaryGovernance?, http://www.botany.uwc.ac.za/mirrors/inet97/G7/g7_1.htm; Id., TheAdvocacy Group Guidelines to Effective Lobbying, http://www.advocacy.com/guidelines.html; Center for Democracy and Technology http://www.cdt.org/mission/(aprile 2000).

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cativo è la tendenza delle aziende ad adottare le logiche burocratichedel loro committente, ad imitarne le rigidità e le inefficienze [Richard-son e Dudley 1996]. Questa simbiosi ha portato alcuni autori ad inter-rogarsi sul reale significato della «cura dimagrante» che vent’anni diraccomandazioni del new public management dovrebbero aver applica-to al settore pubblico: «Con tutta la retorica e le iperboli della reinven-zione del governo, del “Contratto con l’America”, con l’assicurazioneche “l’era del governo largo è passata”, sembra che i nostri leader po-litici abbiano trovato un modo per salvare la burocrazia: nascondendo-la» [Frederickson 1999, 703; v. anche Light 1999].

A conclusioni non molto distanti giungono alcune indagini empiri-che sul ruolo delle organizzazioni non profit nell’implementazione[Milward 1994]. Il ricorso al loro contributo è in continua espansione,anche in Italia, soprattutto nei settori del welfare, dell’istruzione, del-l’accoglienza agli immigrati [Ranci 1999]. All’origine del loro crescentecoinvolgimento, in molti casi stanno le stesse ragioni che legittimano ilcontract out, e cioè la critica all’uniformità, alla burocratizzazione, allapassività, alla logica top-down che tendono a caratterizzare le presta-zioni delle amministrazioni pubbliche [Powell 1987]. Il dato che con-traddistingue le ricerche sull’attribuzione a queste associazioni di re-sponsabilità più o meno formalizzate, è la loro tendenza a non agire inisolamento, ma a raccogliersi sotto «organizzazioni ombrello», moltoefficaci nello sfruttare i vantaggi del coordinamento. Anche in questocaso, la rete è la metafora più utilizzata per descrivere un sistema direlazioni acefalo e basato sulla fiducia reciproca50. Lo stile esalta gliaccordi informali, la sostanza degli impegni, la missione, più che idettagli amministrativi. Di conseguenza, i rapporti che queste forma-zioni instaurano con le istituzioni competenti ad autorizzare il lorointervento le vedono più nel ruolo di attori politici che in quello divenditori di servizi [Smith e Lipsky 1993, 171].

I competenti. Come abbiamo sottolineato più volte, il concetto dipolitica pubblica ha nel suo codice genetico la fiducia in una più mar-cata influenza del sapere – comunque definito – nei problemi di rile-vanza collettiva. Tale aspirazione dà i risultati più vistosi nel contestoamericano, grazie all’esperienza accumulata dalle think tanks, dallecommissioni presidenziali, dagli studi professionali, dalle università:«Questa nuova stirpe di esperti di politiche rappresenta il culmine dicent’anni di sforzi per portare la conoscenza specialistica a pesare nellepolitiche pubbliche» [Smith 1991, 224]51.

50 Walter Powell, uno dei più noti studiosi del settore non profit americano[1987], è famoso anche per il suo rilevante contributo alla teoria delle reti [Powell edi Maggio 1991].

51 Per un’analisi del caso europeo v. Peters e Barker [1993].

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Ripercorrendo la tipologia tracciata da James Smith [1991], al ver-tice di questa nuova progenie troviamo i «consiglieri del principe»,una cerchia eletta di pochi, prestigiosi esperti, in genere con esperien-za accademica, nominati nelle commissioni che affiancano il presidenteper le decisioni in settori quali la politica estera o la politica economi-ca. Il loro ruolo richiede la capacità di adattamento a uno stile di lavo-ro convulso:

Non è di alcun aiuto avere una teoria brillante, o una buona preparazio-ne, o un paper ben scritto, se non è nel posto giusto al momento giusto e informato utilizzabile [...]. I policy makers sono talmente sotto pressione chepossono assorbire solo le informazioni che hanno un significato all’interno deiloro schemi. A Washington molta gente ha l’impressione di dire esattamentequello che i capi hanno bisogno di ascoltare52.

Gli specialisti – la nostra seconda categoria –, anche quando lega-no il loro nome a una specifica riforma, conservano comunque un ba-ricentro professionale sbilanciato verso l’attività di ricerca. La loro in-fluenza, più che nelle singole decisioni, diviene evidente guardandoalla lenta ma continua evoluzione delle idee che danno forma ai pro-blemi di policy [Hall 1989; Goldstein e Keohane 1993].

I consulenti sono invece legati all’amministrazione o a singole per-sonalità politiche da un rapporto contrattuale che lascia al committen-te la determinazione delle linee guida del loro intervento. In molti casi,il loro lavoro si svolge tramite l’intermediazione di studi professionalio di think tanks, che con il loro prestigio si fanno garanti della qualitàdel prodotto.

Grazie all’intraprendenza della policy analysis nell’imporre i suoistandard di valutazione, e grazie al ruolo svolto dalle organizzazioniinternazionali per l’accreditamento delle sue metodologie, oggi molteamministrazioni sono dotate di uffici studi o di gruppi tecnici interni,in grado di esprimere competenze di grande valore.

Infine, la tipologia di Smith [1991] riporta la figura dell’esperto«pronto per l’uso», disponibile per l’editoriale o l’intervista, sulla cartastampata o in televisione: «Da quando il giornalismo americano è pas-sato da un’informazione politica di corto respiro ad ampie analisi so-ciali, politiche e economiche, non solo è andato in cerca di giornalistipiù specializzati e più colti, ma ha iniziato ad appoggiarsi decisamenteagli esperti» [ibidem, 225].

Tuttavia sarebbe un errore pensare a queste categorie come a nic-chie separate: a caratterizzare il mondo dei produttori di competenzeè infatti la tendenza a «rimanere nel giro», pur cambiando ruolo:

52 Dalla testimonianza del professor E. Vogel, in «Sociology Lives», HarvardUniversity, Department of Sociology, vol. 12, n. 1, 1995, p. 5.

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Anche chi lavora nelle think tanks partecipa direttamente al processo diproduzione delle politiche. Innanzi tutto, diventa membro attivo di una dellereti impegnate sui più svariati temi di policy. Queste reti, deliberatamentecoltivate dagli istituti di ricerca con l’organizzazione di conferenze, simposi,incontri su problemi specifici, mettono il ricercatore a contatto con giornali-sti, dirigenti amministrativi, funzionari parlamentari, lobbisti, consulenti, giu-risti, educatori e altre categorie interessate in giro per Washington [Ricci1993, 165].

A quel punto, l’esperto entra a far parte del serbatoio di personequalificate cui un’amministrazione ricorre per gli incarichi di governo.Tutte insieme, le figure che traggono la loro legittimazione dalla com-petenza, si sostengono e crescono le une appoggiandosi alle altre, finoa formare una specie di articolatissima barriera corallina: «Come unafantastica formazione sottomarina, queste istituzioni hanno creato pon-ti tra i settori pubblico e privato e hanno riempito quasi tutti gli spaziaperti da un sistema di governo frammentato» [Smith 1991, 226]53.

Gli imprenditori di policy. La sommaria rassegna degli attori signi-ficativi nel policy making chiude con una categoria che fa riferimentonon a ruoli o a funzioni specifici, ma alla capacità di promuovere l’in-novazione partendo da una qualunque investitura formale:

Gli imprenditori di policy possono essere membri del parlamento, attivistiindipendenti, burocrati pubblici, funzionari parlamentari, professori universi-tari, lobbisti, scrittori. Di solito, non occupano posizioni di grande potereformale o visibilità. Piuttosto, acquistano influenza soprattutto per la lorocompetenza, costanza e abilità, sommate alla capacità di sviluppare una rela-zione di simbiosi con personaggi politici affamati di proposte operative [Con-lan et al. 1995, 135].

La prima qualità di un imprenditore di policy è dunque la creativi-tà, la capacità di trovare soluzioni inedite, di percorrere strade nonancora tentate. La seconda è l’abilità necessaria per portare avanti lasua idea, sfruttando tutte le occasioni e muovendosi tra le insidie dellapolitica, le pressioni degli interessi organizzati, la passività delle buro-crazie [Polsby 1984].

53 Può essere interessante contrapporre a questa immagine quella che GiuseppeDe Rita fornisce con riferimento alla situazione italiana: «Non abbiamo strutture so-lide ed aziendali, visto che solo un paio di centri di ricerca arrivano ai 30-35 ricerca-tori fissi; abbiamo una notevole confusione di ruoli (oggi dicono di far ricerca anchesocietà di consulenza, di informatica, di certificazione di bilancio); la trasparenza delmercato è ancora molto lontana, ed anche la grande innovazione delle “gare” è segna-ta dalla furbizia generalizzata [...]; ed infine non esiste o non funziona quel retroter-ra di solidità che in altri sistemi è garantito dalle università, dalle grandi fondazioni,dagli enti pubblici di finanziamento della ricerca» (in «Corriere della Sera», 1° novem-bre 1996).

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È interessante notare come la figura dell’imprenditore di policy siponga in un rapporto ambiguo con il quadro normativo che teorica-mente dovrebbe condizionarne le strategie:

Uno dei più abili amministratori che abbia avuto la fortuna di conoscerecredo non avesse mai letto, se non casualmente, le norme che traduceva inrealtà. Lui dava per scontato che gli dessero il potere di intervenire sui pro-blemi di fondo di un settore e, sulla base di questo assunto, elaborava le suesoluzioni [Landis 1966].

Gli imprenditori di politiche pubbliche raggiungono i loro risultati so-prattutto sfruttando le ambiguità, le contraddizioni e le complessità implicitenelle autorevoli decisioni dei politici eletti e dei magistrati. Fanno tesoro dellacapacità limitata che gli ordini legislativi, esecutivi e giudiziari hanno di segui-re le innumerevoli questioni in cui sono coinvolti e di controllare le organiz-zazioni che hanno creato per realizzare finalità pubbliche [Lynn 1987, 72].

Fare «come se» le norme dicessero quel che si vorrebbe, sfruttarela distrazione degli organi di controllo, sono condotte separate dall’il-legalità solo dalla forte legittimazione che possono dare concreti risul-tati di evidente interesse generale. A questi, e ai loro beneficiari, l’im-prenditore di policy si appella per garantire la sua impunità, contandosu un sistema giudiziario che, come abbiamo appena visto, fa dellastessa magistratura un attore coinvolto «nell’impresa di governare gliStati Uniti».

Oltre la pressione: i «network» per le politiche

Il nostro inventario degli attori, approssimato per difetto54, hapuntato i riflettori su personaggi che non rientrano nelle «classiche»categorie di politici, organizzazioni degli interessi, burocrati. Ma, nelfare questo, ha anche messo in evidenza modalità di interazione diver-se dalla mera pressione o dallo scambio, per sottolineare invece l’inter-dipendenza: «Virtualmente ogni punto di potenziale conflitto è ancheun punto di inevitabile mutua dipendenza. L’autolimitazione dell’au-tointeresse è presente praticamente in tutte le parti» [Heclo e Wilda-vsky 1974, 373].

Il ricorso a metafore biologiche – il terrario, la barriera corallina –sottolinea la complessità di queste formazioni e il rapporto di coevolu-zione che lega la crescita dei loro diversi elementi. Da circa trent’anni[Schön 1971], questi concetti sono riassunti nell’immagine della reteintessuta intorno a uno specifico settore di policy:

54 Si pensi al ruolo delle istituzioni religiose, o ai personaggi dello spettacolo chediventano testimoni di una causa.

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Un policy network comprende tutti gli attori coinvolti nella formulazione erealizzazione di una politica in uno specifico settore di intervento. È caratteriz-zato da interazioni preminentemente informali fra attori pubblici e privati coninteressi distinti, ma interdipendenti, che cercano di risolvere problemi di azio-ne collettiva ad un livello centrale non gerarchico [Börzel 1998, 401-402]55.

Gli elementi che caratterizzano questo «nuovo paradigma per l’ar-chitettura della complessità» [Kenis e Schneider 1991, 25] possonoessere così definiti:

La funzione costituente della singola politica. Le specifiche politi-che, siano il trasporto aereo, la formazione degli insegnanti, o la pro-mozione del vino italiano, hanno la capacità di funzionare come ad-densanti di relazioni facilmente distinguibili per la loro maggiore fre-quenza e stabilità. Sullo sfondo stanno quei processi di segmentazionedella sfera pubblica e di disarticolazione delle grandi organizzazionicui abbiamo più volte accennato:

Il nucleo di questa prospettiva è un concetto decentralizzato di organiz-zazione sociale e di governo: la società non è più controllata esclusivamenteda un’intelligenza centrale (ad esempio, lo Stato); piuttosto, i dispositivi dicontrollo sono dispersi, e l’intelligenza è distribuita tra una molteplicità diunità d’azione (o di elaborazione). II coordinamento di queste unità d’azionenon è più il risultato di un indirizzo centrale o di una qualche «armonia pre-stabilita» ma emerge dall’interazione intenzionale di attori individuali, da sestessi in grado di azione parallela, scambiando informazioni e altre rilevantirisorse [Kenis e Schneider 1991, 26].

La pressione esercitata dalla comune necessità di «andarcene fuo-ri» fa sì che chi si occupa di pari opportunità, o di norme sui fertiliz-zanti, impari a fare i conti con quanti, da ruoli diversi, e persino daposizioni opposte, sono immersi nel suo stesso problema. È infatti traloro, piuttosto che tra «i suoi», tra gli appartenenti alla sua stessa or-ganizzazione, che troverà orecchi sensibili alle sue preoccupazioni.Muovendosi in contesti inesplorati, in genere caratterizzati da grandeincertezza, i policy makers si tengono d’occhio l’un l’altro, per nonsbagliare da soli.

L’informalità delle relazioni. Il potere formale e le risorse materialisono solo due dei molti elementi che condizionano lo sviluppo di que-ste ragnatele di reciproca influenza. L’esigenza di garantire il fluiredelle informazioni scava suoi originali percorsi che non ricalcano gliorganigrammi ufficiali, così come in una famiglia la notizia di una na-scita o di un funerale non si propaga secondo i gradi di parentela, ma

55 Per una diversa concezione del termine, v. Rhodes e Marsh [1992].

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secondo contiguità basate sui più diversi motivi: «L’esperienza accu-mulata con i numerosi studi sull’implementazione e il policy makinginsegna una lezione fondamentale: la forza e la scala delle gerarchieamministrative formali non spiega nulla dei collegamenti funzionali trale varie unità» [Carlsson 1996, 532].

La continuità tra pubblico e privato. Nella formazione delle po-litiche, il sottile confine tra il diritto di accesso alle informazioni el’attiva partecipazione ai processi decisionali viene spesso superato[Powell 1991; Thompson et al. 1991; Kettl 1993]: imprese, organiz-zazioni degli interessi, gruppi di cittadini non sono solo consultati,ma sono coinvolti nella creazione e nell’investimento del consen-so56. Nella fase di implementazione, molte amministrazioni dovreb-bero dichiararsi impotenti, se venisse meno il supporto organizzati-vo delle associazioni dei destinatari:

I networks comprendono accordi di cooperazione tra agenzie, struttureper la gestione di programmi intergovernativi, complesse disposizioni contrat-tuali, partnership tra pubblico e privato. Comprendono anche sistemi di reca-pito dei servizi basati su gruppi di fornitori che possono riunire agenzie pub-bliche, imprese, associazioni non profit, unità di volontari, tutti legati da inter-dipendenza e dal comune interesse per un programma [O’Toole 1997, 446].

L’estensione variabile. Come i festoni a fisarmonica in carta, inetworks possono essere ora piatti, ora sviluppati in altezza o in lun-ghezza, cioè possono adattarsi alla sempre più stretta compenetrazionetra diversi livelli di governo: locale, regionale, nazionale, internazionale[Kenis e Schneider 1991]. Grazie alle loro propaggini, possono esserecolmati i vuoti o le discontinuità tra le diverse giurisdizioni, altamenteprobabili in un’epoca di perenne ridisegno delle competenze formali.

Questa caratteristica rende la metafora dei networks particolar-mente utile per studiare i sistemi federali: oltre che negli Stati Uniti, lasua rilevanza è stata infatti colta e utilizzata già negli anni ’70 per de-scrivere il policy making nella Repubblica Federale Tedesca [Hanf eScharpf 1978]. Negli stessi anni, i networks cominciavano a diventareil concetto più usato per studiare lo sviluppo delle relazioni tra le isti-tuzioni dell’Unione europea, i paesi membri e le unità politiche infra-nazionali. Quello europeo sembra infatti un caso esemplare, sia per lafunzione costituente assunta dalle singole politiche (si pensi alla poli-tica del carbone e dell’acciaio, alla politica agricola, a quella moneta-ria), sia per la compenetrazione tra attori pubblici e attori privati[Scharpf 1986; Mazey e Richardson 1993; Börzel 1998].

56 Su questo solo aspetto si concentra la riduttiva definizione di Jordan e Schu-bert: «Network è un’etichetta generica che comprende i differenti tipi di relazione traStato e gruppi d’interesse nel processo di determinazione dell’output di una specificapolitica» [1992, 10].

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A questo punto vale la pena sottolineare che l’Europa è legata allateoria dei networks non solo per essere il suo oggetto di studio, maanche come area culturale da cui deriva il principale impulso a questotipo ricerca. Proprio dal dibattito sulle valenze teoriche dei networkderiva infatti il più importante contributo europeo allo studio del pol-icy making57. In Germania, sono le analisi condotte fin dagli anni ’70al Max-Plank-Institut für Gesellschaftsforschung di Colonia, con Re-nate Mayntz, Fritz Scharpf, Vorker Schneider; in Austria, il fulcro è loEuropean Centre for Social Welfare Policy and Research di Vienna, conBernd Marin e Patrick Kenis58; in Gran Bretagna, il vivace dibattito haper protagonisti Grant Jordan, Jeremy Richardson, David Marsh,R.A.W. Rhodes, Patrick Dunleavy; in Italia, le ricerche sulle politicheindustriali [Trigilia 1992], sulle politiche di devolution [Dente 1985],sulle politiche sociali [Regonini 1985], sulle politiche ambientali [Diani1988], hanno utilizzato spesso questo concetto.

Le valenze prescrittive. Fin dal suo debutto nello studio delle poli-tiche pubbliche, l’immagine dei networks ha avuto valenze sia descrit-tive, sia prescrittive59. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, diquesta «architettura della complessità» si interessa da vicino la policyinquiry, che fonda larga parte delle sue risorse sul riconoscimento del-la rilevanza dei networks. Per questo approccio, le reti di policy richie-dono solo una manutenzione leggera, per lubrificare i loro punti disnodo, aumentare la velocità di connessione, gettare qualche leggeroponte [Schön 1971]. Qualunque ristrutturazione pesante si scontrereb-be infatti con le loro forti tendenze centrifughe: «L’alto grado di dif-ferenziazione funzionale e di frammentazione dell’organizzazione deigoverni [...] tende a produrre come esito caos e frustrazione più totalequando l’iniziativa del coordinamento non proviene in larga misuradal basso» [Scharpf 1978, 361]. Nell’esecutivo americano, ad esempio,«nessuno poteva trasformare agevolmente i molti networks di gentebene informata in una coalizione di azione condivisa» [Heclo 1978,104].

Dagli anni ’90, tuttavia, la metafora delle reti viene sempre piùspesso utilizzata anche in un contesto analitico diverso, quello della go-

57 Si veda ad esempio il numero monografico dello «European Journal of Politi-cal Research» del febbraio 1992 (vol. 21, n. 1-2). Europei sono anche la maggior partedei contributi al numero monografico del «Journal of Theoretical Politics» dell’otto-bre 1998 (vol. 10, n. 4).

58 Dalla collaborazione tra i due istituti nasce il volume curato da Marin e Mayn-tz [1991].

59 «L’analisi si propone di identificare i fattori che rendono alcuni networks piùefficaci di altri nel coordinamento delle attività delle organizzazioni che li compongo-no [...], e che pertanto rappresentano potenziali punti su cui far leva per migliorare leprestazioni del network» [Hanf 1978, 13].

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vernance, nella prospettiva di una guida consapevole e globale dellacomplessità sociale [Atkinson e Coleman 1992; LaPorte 1996]. All’in-terno di questa impostazione, le reti di policy sono invocate a sostegnodelle superstiti speranze di una qualche capacità di indirizzo e di con-trollo, per realizzare una governabilità senza governi [Rosenau eCzempiel 1992; Peters 1996] in formazioni politiche dai contorni isti-tuzionali incompleti, come le aree metropolitane, l’Unione europea, leorganizzazioni sovranazionali.

La formalizzazione fattibile. Il grande vantaggio operativo dellametafora delle reti per le politiche è il fatto di poter eventualmentecontare su una metodologia di ricerca e su una tecnica di visualizzazio-ne dei risultati insieme rigorose e flessibili. Quando il fuoco dell’inda-gine si sposta su dati relazionali, in qualunque campo delle scienzesociali, nello studio delle famiglie come in quello dei distretti indu-striali, da alcuni anni la network analysis costituisce il supporto meto-dologico fondamentale per organizzare le informazioni che riguardanole interazioni a livello micro [Scott 1991, 2; Piselli 1997]. In questocaso, dunque, il termine network è collegato a una precisa impostazio-ne per l’organizzazione dei dati empirici, in genere definita sociometrico «formal» network analysis [Schneider 1992, 110]. Con riferimento aquest’ultima espressione, vale solo la pena osservare che il termine«formale» si riferisce all’uso di tecniche standardizzate di rilevazione edi rappresentazione dei dati, e non alla natura delle relazioni studiate[Freeman 1979].

Anzi, obiettivo della network analysis è l’individuazione dell’interagamma delle interazioni sociali, dalle più strutturate alle più informali,dalle più accentrate alle più disperse: «Nella prospettiva formale, unnetwork non implica una specifica configurazione strutturale, ma ogniinsieme di legami tra punti può essere rappresentato come unnetwork, anche quando l’intera struttura appare piuttosto come unagerarchia (o un “albero”)» [Schneider 1992, 110]. Naturalmente, laverifica empirica della metafora dei policy networks richiede che l’ana-lisi dimostri proprio il loro effettivo decentramento e la disarticolazio-ne delle organizzazioni «madri», siano queste i partiti, gli interessi or-ganizzati, le gerarchie burocratiche.

Tipi di networks per le politiche. La letteratura sui policy networksfornisce alcuni modelli che possono tornare utili per rispondere alladomanda: «Chi fa le politiche?» Anche se l’originalità dei vari «proto-tipi» è difesa con decisione dai loro autori, per chi affronta per la pri-ma volta questi temi è difficile cogliere la rilevanza delle sfumature.Sembra dunque ragionevole partire dall’ipotesi che tipi di networksdiversi possano coesistere l’uno accanto all’altro, per concentrarsi sulleloro rispettive caratteristiche [Lehner e Schubert 1984].

1. Le comunità di policy. «L’idea di comunità fa riferimento alle

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relazioni personali tra i principali attori politici e amministrativi – tal-volta in conflitto, spesso in accordo, ma sempre in contatto e in azioneentro un frame condiviso. La comunità è il vincolo di coesione eorientamento che sta sotto ogni specifico tema» [Heclo e Wildavsky1974, xv]. I due autori non nascondono la loro simpatia per le meta-fore etnografiche, e quando parlano di comunità fanno riferimento allavita di un villaggio, con le sue tradizioni, i suoi dialetti, i suoi riti, con-divisi dagli abitanti e incomprensibili agli estranei [Jordan 1990b].

Nel mantenimento del senso della comunità, giocano un ruoloimportante anche le caratteristiche personali degli attori che la com-pongono: «L’esigenza di credibilità personale è elevata, perché ogniruolo richiede che la persona sia ritenuta accettabile e affidabile dadiverse organizzazioni e persone, ciascuna delle quali tende a difende-re i propri criteri di accettabilità» [Schön 1971, 200]. In effetti nel pol-icy making sono disseminati impliciti test di compatibilità, che richie-dono il rispetto di regole tacite quali la riservatezza, la non faziosità, epersino una certa autonomia critica dalle direttive della propria orga-nizzazione60. Talvolta, per preservare la capacità di «interfacciarsi» conattori che hanno alle spalle storie, sensibilità, interessi diversi, occorrerinunciare a prevalere, perché non è la mera convenienza materiale, loscambio puntuale di favori, a costituire il principale elemento capacedi aggregare una policy community, quanto piuttosto l’intenzione di«rimanere nel giro che conta», cioè di essere inseriti nella produzionee nello scambio delle informazioni utili per il rafforzamento del pro-prio settore [Regonini 1985]. In questo contesto, la risorsa più impor-tante che una policy community può mettere in campo rispetto agliesterni è la fiducia, il poter contare sul fatto che gli altri membri nonfaranno furberie e non sfrutteranno cinicamente un eventuale momen-to di difficoltà.

2. I networks a tema. In un appello pubblico con un’ampia inser-zione a pagamento pubblicata sui principali quotidiani61, il Consiglionazionale degli architetti e i presidenti degli Ordini degli architettid’Italia: «chiedono al parlamento di avviare subito il dibattito sul d.d.l.Costa-Bargone che recepisce il testo della cosiddetta Merloni-ter [...].

60 A volte questi tratti finiscono con l’emergere anche in sedi più politiche, qualiuna commissione d’inchiesta parlamentare: «È battaglia a Montecitorio per la sostituzio- ne

di Ottaviano Del Turco (nominato ministro delle Finanze) alla presidenza della com-missione Antimafia [...]. Molti sono però i pareri contrari alla nomina di un “esterno”.Per Nichi Vendola di Rifondazione sarebbe “una pesante ipoteca sul lavoro della com-missione, paragonabile alla sua sostanziale chiusura”. Gli fa eco il vicepresidente FilippoMancuso, di Forza Italia: “Un esterno alla commissione sarebbe una grave indelicatezza.Siamo insieme da oltre quattro anni, tra contrasti, consensi e lavoro in comune. L’inter-vento di qualcuno estraneo potrebbe determinare contraccolpi soprattutto se questa

sostituzione avesse un significato ispettivo, innovativo e censorio rispetto all’attività svol-ta finora dall’Antimafia”» in «Corriere della Sera», 28 aprile 2000.

61 V. «Corriere della Sera», 31 dicembre 1996.

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Chiedono inoltre al presidente del Consiglio dei Ministri di non firma-re il d.p.c.m. di cui all’art. 23 (comma 1, lettera b) del d.l. n. 157/95in quanto tradisce nella lettera e nello spirito la direttiva europea 92/50 sui pubblici servizi». Se un’organizzazione paga milioni per un ap-pello pubblico di questo tenore, è perché sa che c’è qualcuno in gradodi capirlo. Ma giusto qualcuno, perché è probabile che lo stesso pre-sidente del Consiglio debba informarsi per sapere di che si tratta.

Il concetto di network su specifici temi di policy è stato formulatoproprio per dare conto di questa estrema frammentazione degli inte-ressi, delle competenze, dei linguaggi [Heclo 1978]. Secondo questomodello le aggregazioni tra policy makers tendono a divenire più spe-cializzate, ma nello stesso tempo più instabili, poiché ridefinisconoconfini e struttura di volta in volta, a seconda dello specifico problemaportato al centro dell’agenda. Se rispetto ai temi tradizionali dellascienza politica (Stato, partiti, amministrazioni, ecc.) la disarticolazioneimplicita nel concetto di policy network suonava già sinistra, ora vieneevidenziato che «politica del trasporto aereo» è un mondo che diventasempre più difficile da identificare e governare, perché chi si occupadella regolazione degli scioperi dei controllori di volo non sa e nonvuole sapere delle norme doganali o degli standard per la sicurezzanegli aeroporti.

Ma la grande specializzazione porta al decentramento e alla molti-plicazione delle reti significative. In un ambiente caratterizzato daun’elevata complessità e dalla difficoltà di ragionare in termini di «achi giova?», essere riconoscibili è importante quanto conoscere:

I partecipanti vanno costantemente dentro e fuori. Al contrario dei grup-pi unificati dal predominio su un progetto, nessuna unità, se di unità si puòparlare, ha il controllo delle politiche o dei singoli problemi. Ogni interessemateriale diretto è spesso secondario rispetto al coinvolgimento intellettuale oemotivo. I membri del network considerano loro interesse rinforzare l’un l’al-tro il senso del problema, anziché farsi guidare dall’interesse nel prendereposizione sui problemi (come invece sostengono i modelli politici o economi-ci standard) [ibidem, 102].

3. Il potere delle idee: coalizioni di sostegno e comunità epistemiche.I modelli finora considerati sono in fondo basati su un senso di appar-tenenza che richiede la continua circolazione delle informazioni e lacondivisione di una cultura, di un linguaggio, di una «teoria in uso».Alcuni autori ritengono che l’accento posto sui fattori che unificano erafforzano la comune sensibilità all’interno dei policy networks finiscacon il dare di questi ultimi un’immagine troppo pacifica e unitaria. Ilfatto che cultura, idee, conoscenza siano elementi che comportano ac-cordo e convergenza viene considerata una mezza verità. L’apprezza-mento per questi valori ha infatti un duplice, contrastante effetto: dicoesione tra quanti si riconoscono nelle stesse analisi, ma anche di radi-calizzazione delle divisioni rispetto a chi sostiene teorie diverse. Pertan-

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to, la crescente importanza delle idee nel policy making può andare dipari passo con la polarizzazione delle posizioni e con l’instabilità:

La tradizionale politica basata sugli interessi è stabile, perché i rapportid’interesse che la sostengono cambiano lentamente con l’evoluzione dellasocietà, del governo e dell’economia. Le idee, invece, arrivano non solo sotto

forma di ideologie durevoli, ma anche di bizzarre mode. L’umore del pubbli- coe l’impegno degli intellettuali possono andare e venire rapidamente [Con-

lan, Beam e Wrightson 1995, 140].

Mentre i politici e i rappresentanti degli interessi economici tendo-no ad essere pragmatici, flessibili, ostentano una specie di agnostici-smo riguardo alle cause ultime delle loro proposte62, funzionari conelevate competenze, giornalisti, scienziati, associazioni con un soloobiettivo, tutti animati più da idee che da interessi, appaiono menopropensi alla mediazione e sensibili a principi di fondo il cui rispettoconsiderano irrinunciabile.

Comunità epistemiche e coalizioni di sostegno (advocacy coalitions)sono due metafore studiate per dare conto della capacità delle ideenon solo di unire, ma anche di dividere e di ricombinare secondo li-nee che non ricalcano né le afferenze organizzative formali, né i policynetworks. In comune, hanno il riconoscimento dell’importanza delleidee nel condizionare lo sviluppo delle politiche, non solo nel bene,ma anche nel male: «Spiegare i fallimenti delle politiche pubbliche intermini di qualità delle idee sembra funzionare almeno altrettantobene quanto lo spiegarli in termini di forze sociali che catturano ecorrompono il processo di implementazione» [Majone e Wildavsky1979, 168]. In contrasto con l’opinione corrente, che vuole gli studiosiassorti nella contemplazione delle teorie, le due metafore condividonoil riconoscimento della facilità con cui chi ha una forte identificazionedisciplinare può passare dal ruolo di competente a quello di militante.Gli esperti di politiche sociali che lavorano per le organizzazioni inter-nazionali condividono, oltre all’oggetto di studio, il senso di una co-mune missione [Haas 1992]. Nel settore delle politiche ambientali, ifronti che si contrappongono difficilmente potrebbero formulare leloro richieste senza il suggerimento e la sollecitazione degli specialisti.Il primo esempio può descrivere una comunità epistemica; il secondo,per la tendenza allo schieramento e alla contrapposizione, richiamapiuttosto una coalizione di sostegno:

62 Da un’intervista a Benedini, presidente della Federchimica: «Al Senato il grup-po Progressista Federativo ha presentato una proposta di legge che ha recepito ingran parte il nostro lavoro [un progetto per lo snellimento delle procedure]. E allaCamera, in sede di esame del disegno di legge governativo sulla semplificazione deiprocedimenti amministrativi è stato presentato un emendamento nella direzione dellanostra proposta da Forza Italia, liberaldemocratici e riformatori. Un successo, non lepare?» (in «Corriere della Sera», 27 dicembre 1995).

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 365

Una comunità epistemica è composta da professionisti (in genere reclutatitra alcune discipline) che condividono l’apprezzamento per uno stesso model-lo causale e per uno stesso insieme di valori politici. A tenerli uniti è la fidu-cia nella verità del loro modello e l’impegno a tradurre questa verità in poli-tiche pubbliche, nella convinzione che il loro risultato migliorerà il benessereumano [ibidem, 41].

Il modello della coalizione di sostegno considera che all’interno dei sotto-sistemi [di policy] gli attori possano essere aggregati in un certo numero (ingenere da uno a quattro) di «coalizioni di sostegno», ciascuna composta dapersone delle varie organizzazioni di governo e private che condividono uninsieme di convinzioni normative e causali, e si impegnano per un certo peri-odo di tempo con un livello notevole di attività coordinate [Sabatier eJenkins-Smith 1999, 120].

È importante sottolineare che gli effetti delle reti basate su ipotesiscientifiche emergono con tempi più lunghi rispetto alle tradizionaliattività di pressione fondate sugli interessi. Una prospettiva decennaleè proposta da Sabatier e Jenkins-Smith come orizzonte temporale con-gruo per cogliere trasformazioni che hanno la lentezza e la difficoltà divere e proprie conversioni.

4.3. La dinamica

Come abbiamo più volte ripetuto, il passaggio da ricerche impo-state sulla varianza, quali gli output studies, a ricerche impostate sulprocesso segna un salto analitico fondamentale [Rose 1976; May eWildavsky 1978]. La prima conseguenza della svolta è un esame piùravvicinato delle diverse fasi del policy making: l’emergere di una situa-zione percepita come problema che deve essere risolto con un inter-vento pubblico, il suo ingresso nell’agenda dei decisori, la formulazio-ne delle proposte, l’adozione di scelte vincolanti, la loro implementa-zione, la valutazione dei risultati, l’eventuale estinzione della politicaintrapresa. Ciascuno di questi stadi ha elevate probabilità di distin-guersi dagli altri per il tipo di attori dominanti, per gli sfondi istituzio-nali, per gli stili decisionali prevalenti.

Ma, come abbiamo sottolineato parlando di implementazione nelquarto capitolo, sarebbe un grave errore fermarsi a questo risultato,che rischierebbe di riproporre sotto nuove etichette le tradizionali di-visioni del processo politico: articolazione ed aggregazione degli inte-ressi, decisione delle istituzioni rappresentative, loro esecuzione daparte degli organi amministrativi [Hogwood e Peters 1983]. Qualun-que tentativo di analizzare questi processi facendoli «a fette di salame»[Heclo 1974, 307] finisce con l’impedire proprio la comprensionedell’aspetto più interessante: la possibilità di cortocircuiti e di rincorsetra fasi che sul piano logico appaiono non contigue. Il problema dun-que è cogliere i continui rimandi tra la definizione del problema, l’in-

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366 CAPITOLO 5

dividuazione delle soluzioni, la loro generale legittimazione, la loro ef-fettiva sperimentazione, la loro ridiscussione, perché questi aspettisono comunque presenti in ogni momento dello sviluppo di una poli-tica, sia pure in forme e proporzioni diverse: «Il processo di policyavanza con una serie di stadi interattivi e di connessioni per feedback[...]. È ormai diffusa l’idea che sia una rete senza cesure, piuttosto cheuna serie di singoli stadi o fasi separati tra loro» [deLeon 1988, 369].

La metafora del ciclo di vita di una politica vale dunque per quel-lo che è: un’utile approssimazione per distendere lungo la linea deltempo processi e relazioni che nella realtà avanzano raggomitolati gliuni addosso agli altri.

4.3.1. La formazione dell’agenda

Lungi dal voler essere un denigratore del nostro paese, mi chiedo comemai leggi e provvedimenti vengano presi solo a furor di popolo. Mi riferiscoai casi di morte a causa dell’ecstasy che hanno appassionato e tanto scandaliz-zato l’Italia intera e ora caduti nel dimenticatoio, oppure la legge sull’obbliga-torietà del casco che, assieme a quella sull’obbligo delle cinture, è da tuttiignorata, tanto che le stesse autorità preposte al controllo sembrano non inte-ressarsene più di tanto. La lista è assai lunga e costellata da episodi anchegravi, come le leggi fatte all’ultimo momento dopo le alluvioni. Possibile cheviviamo solo per passioni istantanee? (Lettera al «Corriere della Sera», 6 lu-glio 2000).

Portare un problema al centro dell’interesse dell’opinione pubblicae delle istituzioni competenti e tenercelo finché qualcosa viene decisoè un’impresa molto complicata. La prima credenza da sfatare è cheesista una qualche relazione tra la gravità di un tema e la facilità diingresso nell’elenco delle questioni che finiscono all’ordine del giornodegli organi decisionali pubblici [Elder e Cobb 1984]. Più precisa-mente, due caratteristiche incidono sull’accesso dei problemi all’agen-da pubblica: la loro capacità di suscitare attenzione e il loro presentar-si come risolvibili.

1. L’attenzione. Come abbiamo imparato dalla teoria del bidonedella spazzatura [March e Olsen 1976], l’attenzione è una risorsamolto scarsa e volubile. Le situazioni di disagio che premono sonoun’infinità, e solo poche riescono a catturare l’interesse dei policymakers [Jones 1994]. L’appeal dipende tanto da caratteristiche intrin-seche al problema, quali la concretezza e la netta delimitazione, quan-to dalle circostanze in cui viene a cadere la sua occasione di mettersiin mostra [Cobb e Elder 1972]. L’attenzione è soggetta a spostamenticiclici: nessun tema, per quanto grave, riesce a reggere le prime paginedei giornali o le conversazioni al bar per settimane e settimane. Dopouna fase di «montatura» [Kingdon 1984], i problemi avvizziscono,anche se eventi fortuiti con una forte valenza emotiva e simbolica,

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 367

quali sciagure o scandali, possono incidere sensibilmente sulla lororesistenza.

2. La risolvibilità. Soluzioni e problemi si sostengono a vicenda:«La formulazione del problema e la proposta di soluzione sono partedi una stessa ipotesi in cui si fondono pensiero e azione» [Wildavsky1992, 8363; v. anche March e Olsen 1976; Stone 1989].

Per fare un problema, occorrono soluzioni che «suonino bene»,cioè che siano in accordo con i valori di fondo di una società, con lesue conoscenze tecniche e con i suoi miti: «Le idee largamente diffuse[...] sono idee potenti per la formazione delle politiche pubbliche. Leloro principali caratteristiche sono: cambiano nel tempo; obbedisconoalla legge dei numeri bassi; restano indietro rispetto agli eventi, anchein modo drammatico» [Schön 1971, 123-124].

Come avviamo visto nel precedente paragrafo, gli attori con unnotevole bagaglio di competenze svolgono un ruolo importante nelprodurre le idee di cui i problemi hanno bisogno. Ma sarebbe un er-rore credere che questo dato introduca ordine e razionalità nella com-parsa delle soluzioni. Il caso e la serendipità, cioè la fortuita scopertadi nuove risposte a vecchie domande, hanno molto spazio nell’emer-sione delle idee. Ecco come Kingdon, in un famoso testo [1984], de-scrive l’affiorare delle soluzioni:

Si immagini una comunità di specialisti: ricercatori, funzionari del parla-mento, gente che lavora in uffici per la pianificazione, la valutazione, il bilan-cio; accademici, analisti dei gruppi d’interesse. Le idee fluttuano intorno a talicomunità [...] La germinazione di alternative e proposte in questa comunità èun processo simile alla selezione naturale biologica. Come le molecole fluttua-vano in quella che i biologi chiamano «la zuppa primordiale», prima checominciasse ad esserci vita, così le idee fluttuano in queste comunità [...].Alcune idee sopravvivono e prosperano; alcune proposte sono prese sul seriopiù di altre [Kingdon 1984, 122-123].

Tipi di agenda

Le ricerche operano in genere una distinzione tra tre tipi di agen-da: dei media, del pubblico, delle istituzioni. Alle prime due abbiamogià accennato parlando del ruolo dei mezzi di comunicazione e delloro rapporto con l’opinione pubblica. Qui è importante notare chenon tutti i problemi si presentano altrettanto bene su stampa o televi-sione [McCombs 1981]. Alcuni sono, per così dire, più fotogenici dialtri. L’offesa al diritto internazionale non suscita la stessa emozione

63 Qualcuno potrebbe ricordare la famosa asserzione di Wittgenstein: «Di una ri-sposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda» [Wittgen-stein 1961, 81 trad. it.].

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del cormorano con le ali sporche di petrolio, divenuto il simbolo deivalori da salvare durante la guerra del Golfo. Le difficoltà che devonoaffrontare i malati terminali per avere farmaci antidolore allontanano ilettori, mentre la questione del peso degli zainetti scolastici li attira.

Ma il vero salto di qualità è compiuto quando un problema, con ilsuo corredo di soluzioni, cioè di politiche possibili, riesce a entrarenella più ristretta cerchia dei provvedimenti all’ordine del giorno dellecompetenti istituzioni:

Nel dare a un tema lo status di agenda formale, i governi convoglianoimportanti messaggi circa chi e che cosa è socialmente importante, circa ciòche è o non è problematico, circa ciò che ricade o non ricade entro la legit-tima competenza del governo. Questi messaggi, poiché hanno l’imprimaturdell’autorità pubblica, servono a definire i vincitori e i vinti in senso sociale epolitico, così come l’allocazione dei beni economici da parte del governo lidefinisce in senso economico [Cobb e Elder 1983, 172].

Il controllo del conflitto. Le ricerche sulla formazione dell’agendaconvergono nel sottolineare l’estrema delicatezza di questa fase, dallaquale dipende l’assegnazione delle probabilità di successo alle varieparti in causa [Baumgartner e Jones 1993; Cobb e Elder 1983]. Ilmodo in cui sono individuate le opzioni sottoposte agli organi decisio-nali assegna vantaggi e penalizzazioni molto difficili da rimontare per-ché, come afferma Schattschneider, «la definizione delle alternative èlo strumento supremo del potere; difficilmente gli antagonisti possonoconcordare su qual è il problema, perché il potere è implicito nelladefinizione» [1960, 68].

Dunque la formulazione dell’agenda non è neutra rispetto alle al-ternative che propone, ma rappresenta uno strumento sofisticato per ilcontrollo o l’allargamento del conflitto.

Quando la strutturazione dei problemi e delle soluzioni gioca siste-maticamente per tenere alcune questioni lontane dalle arene decisiona-li, quando la distorsione è promossa esplicitamente e difesa con ognimezzo, allora siamo in presenza di una situazione che alcuni autorichiamano di «non decisione»:

Si può dire che esiste una situazione di non decisione quando i valoridominanti, le regole del gioco accettate, le relazioni di potere che esistono trai gruppi, gli strumenti di forza, da soli o congiuntamente, riescono a impedireche il malcontento si trasformi in un esplicito problema che a pieno titolosollecita una decisione [Bachrach e Baratz 1963, 641].

L’esclusione dall’agenda diventa in questi casi il segno di una piùgenerale esclusione dalle risorse a disposizione di una società. Chequesta sistematica discriminazione sia un’eventualità reale e uno stru-mento analitico adeguato per una democrazia liberale, è questione alcentro di un lungo dibattito, sul quale torneremo tra breve.

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Le finestre decisionali. La maggior parte degli studiosi si riconosceinvece in una rappresentazione dell’agenda setting istituzionale basatasul modello del bidone della spazzatura, per certi versi reso ancora piùprecario dall’aggiunta di un nuovo, autonomo flusso: le vicende dellapolitics, con le loro turbolenze e le loro scadenze.

È questo il momento in cui un abile imprenditore di policy puòsfruttare due elementi: il bisogno dei singoli politici di legare il loronome a nuove iniziative, e il conflitto latente tra i diversi comparti isti-tuzionali, ad esempio tra commissioni parlamentari, per marcare il ter-ritorio delle loro competenze, dimostrandosi più attivi dei loro colleghi[Elder e Cobb 1984; King 1997]. In questa fase, l’intraprendenza simanifesta soprattutto nella capacità di cogliere l’attimo, perché le fine-stre che aprono un’opportunità di scelta si richiudono con la stessarapidità:

Improvvisamente un tema diventa caldo. Sono prese delle iniziative, op-pure no, ma in entrambi i casi i policy makers volgono immediatamente laloro attenzione altrove. Così le occasioni passano, e se gli imprenditori dipolicy, che cercavano di abbinare la loro soluzione al tema caldo o alla situa-zione politica propizia, perdono l’opportunità, devono poi aspettare la pros-sima occasione [Kingdon 1984, 94].

4.3.2. L’implementazione

Nel quarto capitolo abbiamo già parlato a lungo dell’importanzadell’implementazione , dei suoi tratti caratterizzanti, delle sue risorse edei suoi problemi. Sul piano descrittivo, importa sottolineare ancorauna volta la distanza che separa questo concetto da quelli di ammini-strazione o di esecuzione:

Se implementazione ha un qualche rilevante significato, è perché fa rife-rimento a un complesso di attività che stanno tra la policy originaria (un pro-gramma, un piano, un’idea, un desiderio) per fare qualcosa rispetto a un«problema», e qualunque cambiamento si manifesti nella natura, nella dimen-sione e nell’intensità di quel problema in un tempo successivo [Jordan 1982,127].

A caratterizzare l’idea di implementazione è soprattutto la com-plessità delle reti degli attori e dei flussi di influenza che vengono por-tati alla luce:

Per studiare l’implementazione , occorre capire che sequenze di eventi inapparenza semplici dipendono da complesse catene di interazioni reciproche[Pressman e Wildavsky 1973, xxv].

Una struttura di implementazione è un insieme di persone che cercano dirisolvere un problema di policy [...]. Le strutture di implementazione possono

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essere considerate come creature dalle molte facce: talvolta appaiono comeoggetti «tangibili» (le istituzioni formali), ma tal altra si presentano comegruppi di persone che formano una struttura visibile solo agli occhi del ricer-catore [Carlsson 1996, 537].

La complessità del gioco del potere nel policy making – le sua obliquità,le imprevedibilità, le frustrazioni, i capovolgimenti, e gli inevitabili parzialifallimenti – si moltiplica nell’implementazione delle politiche [Lindblom1980, 64].

Da un lato, l’avanzare di una politica richiede uno straordinarioimpegno e un grande coordinamento da parte di gruppi di attori, isti-tuzionali e no, che si riconoscono nei suoi obiettivi. Dall’altro lato, inquesta fase hanno uno spazio enorme la passività o l’attiva opposizionedietro cui possono trincerarsi i destinatari riottosi. Anche per il più di-sincantato studioso, è difficile immaginare i margini di difformità dallanorma che gli attori, pubblici o privati, riescono a esibire tranquilla-mente: «L’effetto dominante è il netto carattere difensivo della politi-cs64 dell’implementazione . Gran parte delle energie vanno in manovreper evitare responsabilità, esami, recriminazioni» [Bardach 1977, 37].

Gli incentivi ufficiali, i premi e le sanzioni sono una leva che fapoca impressione al destinatario esperto, che sa quanto siano difficilida assegnare. Innanzi tutto possono avere un effetto negativo sullacompattezza della policy community; poi hanno elevati costi ammini-strativi e umani; infine perché i penalizzati possono usare le loro ap-partenenze politiche o sindacali per accedere agli organi che hanno fis-sato le regole affinché le cambino:

Non c’è mai una diretta corrispondenza tra l’idea degli incentivi che hachi li progetta e quella di chi ne dispone. Il più grande problema è la man-canza di determinazione nell’imporre sanzioni o nell’assegnare premi da partedei funzionari incaricati della loro gestione [Stone 1988, 218].

Le agenzie tendono a non utilizzare appieno gli strumenti di coercizionelegale disponibili per le organizzazioni che devono far rispettare la legge [...].Il numero delle violazioni alle norme che è stato scoperto eccede di gran lun-ga il numero dei casi in cui le sanzioni sono state effettivamente usate o av-viate dalle agenzie [Mayntz 1978, 212]65.

E anche gli incentivi, positivi o negativi, subiscono la legge dellavolatilità dell’attenzione:

Non esiste una regola generale per predire come un incentivo modificheràil comportamento di qualcuno, ma uno scaltro analista deve ricordare che ogni

64 Cioè delle relazioni tra gli attori.65 La citazione si riferisce a un paese non lassista quale la Repubblica Federale

Tedesca degli anni ’70.

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 371

nuovo incentivo deve lottare contro la vasta serie di penalità e di compensazio-ni già esistenti per richiamare l’attenzione; e dovrà comunque passare attraversoil filtro della percezione della gente cui si rivolge [Stone 1988, 224].

Infine, i rami bassi dell’amministrazione, la burocrazia a livello distrada [Lipsky 1980] detengono e sfruttano ampi margini di autono-mia rispetto al mandato che ricevono dall’alto. È pur sempre nelleloro mani la scelta tra l’applicazione rigida e quella tollerante: far fintadi non sapere della signora che esce con un modulo e rientra dopocinque minuti con la firma del marito in calce; prendere una domandaincompleta il giorno della scadenza dei termini e tenerla sotto il bancoperché sia integrata il giorno dopo; iscrivere un ragazzo straniero inuna classe superiore evitandogli la prova di italiano. Come abbiamopiù volte sottolineato, questo continuo reciproco adattamento tra im-plementatori e destinatari può portare a un radicale reindirizzo di unapolitica pubblica.

4.3.3. La valutazione

Della valutazione come fase dell’analisi razionale delle politiche, edei valutatori come specifica categoria di attori abbiamo già parlatonelle pagine precedenti. Qui aggiungiamo che le pratiche che caratte-rizzano la fase di implementazione possono erodere la base scientificacui cercano di appoggiarsi gli analisti. Dato che il significato di unapolitica pubblica è di norma multiplo e ambiguo, la valutazione con-dotta da attori esterni deve innanzi tutto decidere a quali obiettivi ri-farsi. Una definizione troppo generica porta a concludere che «tuttova bene»: ma questi rassicuranti resoconti privano gli attori della per-cezione delle nuove sfide affrontate. Una definizione troppo ristrettarischia di suscitare conflitti insanabili tra gli stessi policy makers: «Lediscussioni su quali sono realmente, ma realmente e veramente, gliobiettivi dell’organizzazione possono mettere in ridicolo tutte le azionifuture» [Wildavsky 1992, 216]. In questo modo, «le istituzioni politi-che sono condannate a un ciclo infinito di nuove riforme e di sconten-to» [March e Olsen 1995, 216].

Mettere la parola fine all’analisi degli obiettivi, dei risultati e dellecause dei fallimenti è di fatto impossibile, perché qualunque politica diuna certa rilevanza è un poliedro con un numero altissimo di facce:«Ci sono sempre spiegazioni alternative sul perché le politiche fallisco-no e questo può lasciare i decisori nell’incertezza circa il loro eventua-le abbandono» [Wildavsky 1992, 218]. Prendere tempo, richiederenuovi dati, aspettare che le circostanze scelgano per loro, sono le stra-de che i responsabili in genere percorrono per cavarsi d’impaccio [Pa-lumbo 1987].

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372 CAPITOLO 5

4.4. Gli stili

Se le immagini che descrivono gli attori più influenti cercano dirispondere alla domanda: «chi?», gli stili decisionali cercano di affron-tare la questione: «come?».

In pratica, noi crediamo che spesso i policy makers (siano essi politici ofunzionari) cerchino di sviluppare procedure operative standard per gestire iproblemi che arrivano all’agenda politica. Il flusso dei problemi è inarrestabi-le e occorre pensare a procedure per trattarli. Per quanto difficile, noi credia-mo che alla fine sia possibile per uno scienziato politico identificare le prin-cipali caratteristiche del modo in cui una data società formula e implementale sue politiche pubbliche [Richardson 1982, 2-3].

Se, come vedremo tra breve, le regole istituzionali sono un’autono-ma fonte di vincoli e di risorse, tuttavia esse lasciano in genere ampimargini per il consolidamento di procedure che, pur senza avere taledignità, in pratica finiscono col godere di un universale rispetto. Eccoad esempio come Morris Fiorina descrive il policy style americano:

«Decidere» è un verbo troppo intenzionale se riferito alla formazionedelle politiche americane. Le politiche pubbliche sono «compromessi impac-chettati delicatamente», o «strutture costruite al risparmio con proposte traloro in conflitto». Le politiche «emergono» come «minimo comun denomina-tore»; sono quel che «sopravvive» dopo che gli «specifici interessi» hannodetto la loro. Il linguaggio del policy making americano è così ricco e coloritoproprio perché verbi come «decidere» non descrivono come «capitano» lepolitiche [Fiorina 1987, 283].

L’analisi comparata si trova spesso a dover prendere atto che in uncerto luogo, o in un certo settore, «lo fanno diverso», anche se poi èin difficoltà a dare contorni precisi a queste peculiarità: espressioniquali «il rito ambrosiano», o «la democrazia Italian style»66 fanno rife-rimento all’esigenza di disporre di categorie sintetiche ma sottili perdescrivere e classificare vicende apparentemente non confrontabili,quali, ad esempio, la localizzazione di una discarica o la riforma deglistudi universitari.

Questi schemi di riferimento facilitano il decision making perché permet-tono agli individui di seguire procedure operative standard per le decisioni el’implementazione delle politiche, anziché negoziare su tutto ogni volta chec’è l’esigenza di nuova regolazione67.

66 Il riferimento è al titolo del volume di La Palombara [1987].67 M.S. Andersen, Economic Instruments and Clean Water: Why Institutions and

Policy Design Matter , OCSE, 2001, http://www1.oecd.org/puma/regref/pubs/CleanWater.pdf (agosto 2001).

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 373

Della loro importanza capita di accorgersi nel momento in cuil’importazione di politiche che altrove hanno funzionato finisce conl’evidenziare microcosmi di discordanze.

Fin qui, dunque, i vantaggi. Ma il concetto di policy style compor-ta anche complicazioni non facili da sciogliere.

Il primo grosso problema è l’ambito per la sua applicazione. Piùquesto viene a coincidere con le nazioni, o comunque con i livelli digoverno, più il suo spazio analitico è insidiato da altre categorie, conuna ben più solida tradizione di ricerca, quali cultura politica e regime[Peters et al. 1977]. Sullo sfondo, a incutere un certo timore, sta lacontroversa idea di carattere nazionale, che tuttavia qualche base em-pirica deve avere, se la descrizione di quello italiano, fatta da Leopardiquasi due secoli fa, sembra scritta appena ieri68.

Alcuni autorevoli studiosi, quali Aaron Wildavsky, non sembranoimpressionati da questa concorrenza e perseguono un loro disegno diricerca che mira a collegare il modo con cui sono fatte le politiche adalcuni fondamentali stili di vita, che le grandi civilizzazioni traduconoin compatte organizzazioni sociali ma che, in miscugli diversi, sonopresenti in ogni società. Secondo Douglas e Wildavsky [1982], esisto-no quattro culture elementari, capaci di sostenere e giustificare ilmodo in cui è organizzata la vita collettiva: egualitaria, individualistica,gerarchica e fatalistica. Le politiche sono selezionate in base alla sensi-bilità che deriva dal riconoscersi nell’una o nell’altra cultura.

Il secondo grande problema legato all’uso di questo concetto ri-guarda la difficoltà dell’operazionalizzazione, che ne tradisce le originiestetiche. Come in architettura, in cui talvolta è una colonna talaltra èun arco a fondare l’attribuzione, così anche per le politiche pubblicheè difficile dire a quali elementi occorra rifarsi per definire uno stile.Come è evidente, le complicazioni del primo e del secondo tipo sonotra loro collegate, perché più il disegno della ricerca è inclusivo, fino acomprendere gli stati o addirittura le civilizzazioni, più diventa difficilepresentare i risultati in un formato replicabile.

Per questi motivi, il concetto di stile sembra dare frutti più certiquando ridimensiona le sue pretese, tenendosi ancorato a precisi am-biti di policy e a prospettive di medio raggio, ad esempio con la com-parazione di politiche circa uno stesso problema, ma in contesti istitu-zionali diversi [Gormley e Peters 1992; Vogel 1986; Zahariadis, 1995].

4.4.1. Le diverse dimensioni

Se la prospettiva è questa, una prima, elementare tipologia deglistili di policy (tab. 5.1) non può che essere basata sulla griglia che nel

68 Giacomo Leopardi, Dei costumi degli Italiani, 1824.

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374 CAPITOLO 5

TAB. 5.1. Gli stili delle politiche

Policy inquiry Preoccupazione Analisi razionale

Minima: Massima:Pratica sociale riflessiva Oggettività del giudizio Importanza dei datiMassima: Minima:Aggiustamento reciproco Necessità della mediazione Validità scientifica delle ipotesiMinima: Massima:Incrementalismo sconnesso Completezza del disegno Analisi sistematicaMinimo: Massimo:Garbage can/ingegneria Controllo del tempo e del caso Valutazione ex antedell’intelligenza

quarto capitolo abbiamo proposto per l’analisi dei processi attraversocui si affermano le politiche pubbliche. Nella tabella 5.1, le dimensionisu cui si fonda la policy inquiry sono riprese e contrapposte al loro «al-tro», cioè alle linee guida dell’analisi razionale delle politiche.

Pratica sociale riflessiva/importanza dei dati

• Gli elementi su cui si basano le politiche sono considerati comecostrutti sociali o come dati oggettivi?

• I problemi inediti sono affrontati ricorrendo alla sperimentazio-ne (exploration) o confidando sulla razionalità strumentale (exploita-tion)?

• I problemi di identità degli attori hanno risalto oppure no[Schön e Rein 1994]?

Aggiustamento reciproco/validità scientifica delle ipotesi

• I conflitti sono trattati ricorrendo alla negoziazione o invocandocriteri di efficienza?

• I compromessi tra gli interessi in gioco sono considerati un pas-so avanti o un cedimento?

• Gli esperti di politiche si ispirano alla policy inquiry o allarational policy analysis [Leman 1980; Richardson 1982]?

Incrementalismo sconnesso/analisi sistematica

• I processi decisionali avanzano con la logica del passo dopopasso o con la logica della massima comprensività del disegno di rife-rimento?

• Esistono molti tavoli decentrati di negoziazione, o i contrasti siaddensano intorno a poche ma profonde contrapposizioni?

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 375

• I risultati maggiori sono conseguiti con piccoli aggiustamenti ocon svolte drammatiche [Richardson 1982]?

«Garbage can»/valutazione «ex ante»

• Il caso è considerato una fonte di innovazione o un elemento didisturbo?

• Proiettare le conseguenze delle scelte su un ampio orizzontetemporale è visto come un esercizio di retorica o di programma-zione?

• Le opportunità di scelta vanno colte o costruite [Kingdon 1984;Zahariadis 1995]?

4.5. Le regole

La categoria che presentiamo ora deve dare risposte alla domanda:qual è il contesto istituzionale che fa da sfondo al policy making, qualè la scena, il campo da gioco, e quali sono le sue regole?

Delle nostre cinque categorie di base, questa probabilmente è lapiù difficile da definire e da trattare. In primo luogo, mentre le altrequattro sono state autonomamente impostate all’interno dei policy stu-dies, questa dipende largamente, per la sua definizione, da un dibattitoesterno alla disciplina: dal diritto, dalla scienza della politics e, più re-centemente, dalla sociologia. In secondo luogo, lo studio delle politi-che ha nel suo patrimonio genetico una diffidenza di fondo verso lespiegazioni delle decisioni pubbliche in termini di assetti istituzionaliformali. In generale, come abbiamo visto nel quarto capitolo, condivi-de l’idea che non tutto ciò che si rivela capace di facilitare il coordina-mento è necessariamente scelto e progettato in modo deliberato[Hayek 1952]. Infine, gli approcci decisamente orientati alle politichefanno propria la logica del processo, non quella dell’algoritmo: pertan-to sono attenti ai margini per la continua reinterpretazione di tutti ivincoli, compresi quelli istituzionali.

Detto questo, occorre aggiungere che, paradossalmente, il concettodi istituzione è stato più facile da dominare quando la definizione deltermine rinviava a componenti tradizionali quali la giurisdizione, lecompetenze, la consistenza territoriale [DiMaggio e Powell 1991]. Sesi pensa alle istituzioni come a un parlamento, a una corte costituzio-nale, a un’amministrazione locale, lo studio delle politiche pubblichepuò facilmente ricorrere a due solide categorie: quella di attore, equella di contenuto.

Le istituzioni come attori. Da questa prospettiva, il tema della ri-cerca viene definito nei seguenti termini: si può sostenere che le isti-

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tuzioni intervengono nel policy making con criteri di azione autono-mi, che ne fanno dei veri e propri attori, al pari di un partito o diun’organizzazione degli interessi? Dagli anni ’40, la risposta è, inva-riabilmente, sì.

Innanzi tutto, le istituzioni si ribellano a chi vorrebbe decretarne lamorte: come dimostrano le vicende italiane delle province o del mini-stero dell’agricoltura , la loro tendenza è all’immortalità [Kaufman1976]. Inoltre, le istituzioni hanno loro interessi e sono in grado didifenderli con adeguate strategie. Quando amministrazioni locali, re-gioni, università, corpi delle forze armate, branche della magistraturavedono minacciate le loro competenze, o i loro budget, si impegnanoin una pressione che non ha niente da invidiare ai grandi gruppi eco-nomici per tenacia, insistenza e spregiudicatezza [Salisbury 1984]. In-fine, le istituzioni non rinunciano alle loro aggressive iniziative nemme-no quando si trovano davanti ad altre istituzioni. Le ricostruzioni deinetworks per le politiche trovano spesso, in gangli centrali, corpi delloStato attivamente impegnati gli uni contro altri nella promozione dialcune soluzioni. Come dimostrano gli studi sulle relazioni intergover-native69, la competizione può anche essere molto serrata, se ad esem-pio sono in gioco le localizzazioni di imprese o di opere pubbliche cheportano occupazione certa e voti probabili [Stoker 1991; Marando eFlorestano 1990].

Il cambiamento istituzionale come politica pubblica. Come vedremomeglio nel prossimo paragrafo dedicato ai contenuti, molti autori con-siderano le politiche istituzionali come una specifica arena di policy,con i suoi attori preminenti, le sue peculiari risorse, i suoi stili, la suadinamica. In effetti chi studia questo settore sottolinea la peculiaritàdei processi decisionali che hanno per oggetto non l’allocazione di ri-sorse o la prescrizione di specifici comportamenti, ma le regole chedevono servire per prendere in futuro queste decisioni. Le scelte diquesto tipo sono strutturate da coalizioni di sostegno animate da giu-risti e politologi. Queste iniziative devono inoltre confrontarsi con ilproblema del frequente collasso del ruolo di policy maker in quello dipolicy taker, come avviene nel caso delle decisioni parlamentari sulleriforme elettorali: tanto più chiare sono le conseguenze in termini dichi guadagna e chi perde, tanto più probabili sono conflitti e tattichedilatorie. Quando invece eventi eccezionali intervengono a scombinarele capacità previsionali degli attori, i margini per l’accordo tornano adaprirsi [Lane 1990; Lijphart e Grofman 1984].

69 Concetto inizialmente utilizzato per descrivere le relazioni tra unità centrali,statali e locali in un sistema federale, con riferimento soprattutto alle politiche fiscali,ma ormai esteso a ogni rapporto tra istituzioni politiche.

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4.5.1. Il nuovo istituzionalismo

Il vecchio istituzionalismo induceva a dare per scontato il peso chegli assetti organizzativi interni al settore pubblico e le regole formalihanno nel condizionare il processo di policy. Decidere il tracciato diuna metropolitana in una città con strutture decisionali accentrate econ ampia delega di funzioni ai ruoli manageriali non è come fare lastessa operazione in un comune con consigli di quartiere potenti e conuna giunta composta da politici gelosi delle loro prerogative. Comeabbiamo più volte ripetuto, lo studio delle politiche pubbliche porta aconsiderare tutt’altro che automatica questa conclusione [Ashford1982; Vogel 1986].

Ma negli anni ’80, il concetto di istituzione subisce una mutazionegenetica e allarga il suo significato, fino a comprendere tutti i vincoliche gli attori condividono per il fatto stesso di vivere in una determi-nata società: le culture, i valori, i frames cognitivi:

Nella teoria delle organizzazioni e in sociologia, il nuovo istituzionalismocomprende il rifiuto dei modelli dell’attore razionale, l’interesse per le istitu-zioni come variabili indipendenti, una svolta a favore delle spiegazioni cogni-tive e culturali e un interesse per le proprietà delle unità di analisi sovraindi-viduali, che non possono essere ridotte all’aggregazione delle conseguenzedirette delle caratteristiche o delle motivazioni individuali [DiMaggio ePowell 1991, 272].

Per «regole» noi intendiamo le routine, le procedure, le convenzioni, iruoli, le strategie, le forme organizzative e le tecnologie intorno a cui vienecostruita l’attività politica. Intendiamo anche le credenze, i paradigmi, i codi-ci, le culture e le conoscenze che circondano, sostengono, elaborano e con-traddicono quei ruoli e quelle routine [March e Olsen 1989, 48 trad. it.].

A questo punto, il concetto di istituzione diventa potente e com-plesso come quello di politica pubblica o di organizzazione: al pari diquesti suoi concorrenti, si presenta come il nuovo paradigma alterna-tivo alla razionalità economica; come loro, ridefinisce il confine tral’ordine e il disordine, e si candida a piantonarlo in modo più efficien-te [Lanzalaco 1995].

Riassumere in poche righe questa svolta non avrebbe senso. Duedati meritano comunque di essere evidenziati. In primo luogo, vecchioe nuovo istituzionalismo condividono l’idea che sono le istituzioni –comunque definite – a determinare le politiche. In secondo luogo, daquesto momento, quando nelle scienze sociali si parla di istituzioni odi regole, si fa riferimento a concetti che si sono completamente libe-rati delle loro componenti tradizionali: la giurisdizione, le competenze,la delimitazione territoriale.

Per certi versi, da queste impostazioni deriva un notevole migliora-mento d’immagine delle logiche all’opera nelle istituzioni: non più solo

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interessi, potere e rivalità, ma anche il senso di un’identità metaindivi-duale, l’impegno ad affermare valori e convinzioni. E tuttavia, comemolti hanno sottolineato [Peters 1999; Sjoblom 1993; Jordan 1990c],da queste fonti arrivano non solo nuove idee, ma anche suggestioniconfuse e contraddittorie: quali fattori sono significativi per la dinami-ca del policy making? le istituzioni? le regole? le culture? i contesti or-ganizzativi? i frames cognitivi? E se è di tutto un po’, come va dosatoil mix?

La contrapposizione tra vecchio e nuovo istituzionalismo schiudenuove prospettive analitiche. Per le teorie tradizionali di matrice poli-tologica, le istituzioni sono qualcosa «là fuori» che interviene a vinco-lare le scelte dei policy makers, come le regole del poker condizionanole scelte dei giocatori intorno a un tavolo, dando loro elementi per cal-coli strategici e fornendo la base per le negoziazioni che prima dellapartita si possono aprire, per integrare con accordi locali i punti con-troversi, per stabilire il tetto alle giocate o il tempo a disposizione.

Per le nuove teorie di matrice sociologica, le istituzioni hanno in-zuppato gli attori, ne hanno plasmato le identità, le preferenze, a unaprofondità che lascia poco scampo per comportamenti strategici, peraccordi negoziati, e magari per furberie: pagare il biglietto sul tram,per chi è cresciuto nei valori della legalità e della città come grandefamiglia, è un comportamento che non dipende dalla frequenza deicontrolli o dall’ammontare delle multe. Da questo punto di vista, dun-que, «è pressoché impossibile sradicare una vecchia identità. Da que-sta prospettiva il mondo appare come un “museo vivente” di identitàe lealtà» [Ferguson e Mansbach 1996, 36].

Rispetto a queste due impostazioni, la prospettiva di medio raggiodelle ricerche decisamente orientate alle politiche permette di conside-rare le istituzioni come fenomeni né solo «là fuori», come vincoli dati,che possono al massimo essere erosi o rafforzati a seconda delle situa-zioni, né solo «qui dentro», calati così in profondità nelle culture degliattori e sepolti sotto tali cumuli di valori, conoscenze, emozioni, chel’intenzionalità difficilmente può scalfire.

4.5.2. Le istituzioni viste dalle politiche

Lo specifico contributo che lo studio delle politiche ha autonoma-mente portato alla conoscenza delle istituzioni si basa sulle seguentidimensioni.

Formali/informali. È questa la paratia più facile da sfondare, per-ché dalla sua nascita lo studio del policy making dimostra che il rap-porto tra regole formali e regole informali può essere totalmente squi-librato a vantaggio di queste ultime. Come è noto, i compleanni deibambini sono afflitti da una grande omogeneità, anche se nessuna

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norma esplicita interviene a regolarli. Quando sono in gioco le policy,i divieti, le prescrizioni, i limiti difficili da scalfire non sono prodottisolo dalle istituzioni politiche, ma da una serie molto più ampia di vin-coli, capaci di condizionare la libertà di azione degli attori, pur senzaobblighi formali:

Oltre alle leggi e ai regolamenti formali, le società hanno molti altri tipidi regole per coordinare il comportamento: costumi e tradizioni sociali, nor-me informali delle famiglie e dei piccoli gruppi, regole e principi morali, re-golamenti e statuti delle associazioni private. Queste regole non ufficiali spes-so hanno la forza della legge, quanto meno per il potente impatto sulla vitadella gente, e possono rinforzare o minacciare le regole ufficiali. L’aspetto piùimportante è che le regole non ufficiali modellano sia le categorie e le classi-ficazioni utilizzate nelle regole ufficiali, sia le loro interpretazioni e le applica-zioni pratiche. L’analisi delle politiche è incompleta se non considera il modoin cui interagiscono gli aspetti formali e informali delle regole [Stone 1988,231].

Nella nostra società contemporanea fatta di molteplici attori, i processi dipolicy operano in diverse arene. In questa società, non ci sono evidenti eunivoche relazioni tra le decisioni politiche formali e gli esiti nei singoli cam-pi. Dunque non si può dare per scontato che le gerarchie politiche formalisiano rilevanti per un determinato problema [Carlsson 1996, 542].

È importante notare che, di per sé, l’esistenza di una costante sfa-satura tra le regole e le pratiche può essere facilmente incorporataanche nella teoria istituzionale classica, come ci ricorda, ad esempio, ilconcetto di costituzione materiale. Il dato nuovo è la crescente, siste-matica incongruenza tra l’architettura delle giurisdizioni, continuamen-te alle prese con l’inadeguatezza e la porosità dei loro confini, e l’effi-cacia delle politiche, sempre più spesso basata sul loro scavalcamento.

Cogenti/indeterminate. Nelle pagine precedenti abbiamo già tocca-to il tema dell’indeterminatezza e della complessità da un punto di vi-sta generale. Ritorniamo ora su questo tema per sottolineare come allasua origine non stia solo la folla degli attori stipati anche nelle più mo-deste aree di policy, ma anche la ressa delle sedi istituzionali autorizza-te a intervenire in un momento o nell’altro del processo decisionale.Lo straordinario affollamento non è più solo una caratteristica di siste-mi federali, quale quello americano, che fanno della «cacofonia dellevoci» un esplicito criterio costituzionale, ma accomuna anche ordina-menti nati da un’architettura più razionalistica, e tuttavia obbligati afare i conti con appartenenze sovranazionali multiple e con il continuopullulare di nuove istanze infranazionali [Schmitter 1996].

Pluralità significa esplosione delle possibilità combinatorie; signifi-ca un tale incremento delle interazioni tra sedi che «hanno titolo perintervenire», da rendere imprevedibili i loro effetti.

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Secondo una logica non dissimile da quella all’opera per il plurali-smo degli attori, l’elevato numero delle combinazioni e la loro conti-nua coevoluzione rendono il pluralismo delle istituzioni più incline al-l’indeterminatezza che al sistematico condizionamento [Lindblom1980]. Di nuovo, le metafore per illustrare questi processi sono presepiù dalla biologia che dalla meccanica:

Le regole in vigore oggi non sono semplicemente la soluzione di qualcheproblema di ottimizzazione rispetto all’ambiente attuale, ma sono una rappre-sentazione interattiva e path dependent di una storia di co-evoluzione tra re-gole [March 1994, 96].

Questa impostazione porta March e Olsen a parlare di «ecologiadelle regole»70.

Una frequente dimostrazione di questo effetto è il fenomeno degliincentivi perversi: «Gli incentivi perversi sono involontariamente gene-rati da regole la cui osservanza crea nuovi problemi o esaspera proprioquelli che intendeva curare» [Stone 1988, 239]. Il più semplice esem-pio è fornito dalle conseguenze impreviste della densità normativa.Come il caso italiano dimostra, i margini di autonomia per i policymaker si allargano quando su un settore gravano centinaia di norme.Con il crescere del loro numero e della loro complessità, infatti:

• aumentano le probabilità di interpretazioni contraddittorie e diconflitti;

• diminuisce lo stigma verso l’illegalità; tutti possono farsi schermodel fatto che «facendo qualsiasi cosa si violano una decina di norme»;

• diminuisce la propensione a investire energie per informarsi suiloro contenuti; in genere, si fa appello a «quello che conosce la legisla-zione», senza verificare la fondatezza del suo sapere;

• diminuiscono i controlli, perché gli uffici deputati sono oberatida problemi interpretativi.

Esogene/endogene. Gli attori che si muovono in arene di policynon sono bersagli passivi di norme decise da chi sta sopra di loro, masono essi stessi produttori di regole e disegnatori di campi da gioco.Innanzi tutto, gli attori sono portatori di codici di comportamento, enon solo destinatari, perché hanno alle spalle delle organizzazioni«madri» da cui ricevono, in modo più o meno selettivo, principi, san-zioni, rappresentazioni del loro ruolo [Hall 1986]. Se per il cristiano èun’opera di misericordia andare in soccorso a un immigrato, è proba-bile che i volontari di organizzazioni religiose che operano in questosettore vaglino le norme giuridiche sugli obblighi di denuncia o di

70 Come molti autori hanno rilevato, il contributo di March e Olsen allo studiodelle istituzioni ha tali e tante facce da poter essere collocato in più di un settore dellanostra mappa. Ma forse questo è proprio il risultato voluto.

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espulsione alla luce dei loro propri criteri, diversi da quelli della poli-zia e della magistratura. Per tornare all’esempio del tracciato di unametropolitana, non è detto che l’ampiezza delle competenze giochisempre a favore della capacità di intervento dei consigli di quartiere.La continua sollecitazione di decisioni può anche portare alla sclerosi,alla riduzione al ruolo di passacarte, se le organizzazioni che esprimo-no i loro membri in questi organismi non sanno o non vogliono valo-rizzare questa prerogativa.

Ma è soprattutto quando sono collegati in un policy network chegli attori diventano autonome fonti di principi, norme, sanzioni.

Ogni decisore si adatta a un ambiente che comprende altri decisori infase di apprendimento, ciascuno situato in organizzazioni in cui interagisconoindividui e sottogruppi in fase di apprendimento. Pertanto la dinamica delcambiamento delle regole non può essere compresa semplicemente mettendoa fuoco lo sviluppo delle regole da parte di un singolo decisore o di una sin-gola istituzione decisionale. L’esito di ogni particolare azione dipende da ciòche fanno gli altri decision makers [March 1994, 97].

Molte azioni, pur rientrando perfettamente nella legalità, sonoescluse perché considerate sfide inaccettabili. Altri comportamenti,eticamente o giuridicamente più dubbi, sono approvati perché com-piuti nel tentativo di dare soluzione a un problema.

In determinate situazioni, i policy networks possono assumere un’au-torevolezza tale da fare di essi gli unici affidabili referenti. Dalla lorohanno alcuni argomenti di sicuro effetto. In primo luogo, i networkscercano di «andarsene fuori», hanno una tensione verso i risultati e unasensibilità per il modo in cui sono raggiunti che legittimano la loro in-traprendenza, anche quando si fanno da sé le regole [O’Toole 1997].

In secondo luogo, i networks possono riconoscere e trattare il pro-blema della discrezionalità e dell’interpretazione [Hawkins 1992]. San-no che queste facoltà sono distribuite ovunque, dall’impiegato allosportello delle poste, all’esperto con una ricca consulenza, perché «lavarietà delle situazioni umane è sempre più grande della varietà dellecategorie della regola, anche della più precisa» [Stone 1988, 239].Baldwin e Hawkins [1984 cit. in Black 1997] parlano della discrezio-nalità come del dentifricio nel tubetto: lo si comprime da una parte, esi gonfia da un’altra. I partecipanti al policy network sanno quanto siaimportante indirizzare questi margini di autonomia, per alimentareuna comune interpretazione della situazione, delle sue risorse e deisuoi vincoli, compresi quelli normativi.

Infine, talvolta gli aggiustamenti sperimentati all’interno di un po-licy network possono vincere la forza di gravità e risalire dal basso diun singolo settore a livelli istituzionali più ampi e più alti, per gliaspetti positivi come per quelli negativi. Così, ad esempio, le soluzionitecnologiche e organizzative sperimentate in alcuni comuni per il rila-scio di documenti via Internet dischiudono scenari capaci di incidere

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sulla filosofia generale della riforma amministrativa. E l’implementationnetwork [Carlsson 1996] saldatosi all’interno della politica previden-ziale italiana degli anni ’70 ha condizionato non solo l’evoluzione diquesto settore, ma anche i giochi nell’arena della politica nazionale[Regonini 1996a].

4.6. I contenuti

L’ultima domanda che affrontiamo è anche la più importante:«che cosa?», cioè quali contenuti una politica propone? quali modifi-cazioni introduce nello status quo? Tra le categorie analitiche che con-sideriamo essenziali, questa occupa indubbiamente un posto centrale.

Come abbiamo più volte ripetuto, i problemi da trattare hanno lacapacità di attirare attori, di promuovere certe procedure operativestandard, di adattarsi meglio a certi stili. Insomma, le politiche sono ilnucleo intorno a cui si addensano microcosmi dotati delle loro culture,delle loro regole, della loro rete di interazioni. Con un’espressionecausa di grandi problemi di traduzione, ogni policy ha la sua politics,cioè le sue relazioni tra gli attori, le sue leve per la distribuzione del-l’influenza.

Se questo è il primo passaggio, il secondo è: si può pensare a unatipologia che permetta di ricondurre la grande diversità tra le politichea pochi, elementari modelli che agevolino il riconoscimento o l’antici-pazione delle loro diverse componenti? In questo caso, il problema,come scrive Fritz Scharpf, è «ridurre l’infinita varietà dei casi delmondo reale a in insieme più piccolo di descrittori, capaci di condurrea una sistematica tipologia delle situazioni problematiche, degli stru-menti di policy, delle strategie di implementazione e delle variabili distruttura e di processo che influenzano la sostanza del processo diformazione e di implementazione delle politiche» [Scharpf 1977, 336].

Le risposte che sono state date a questa esigenza, esse stesse moltovarie, ci obbligano a una drastica selezione. Innanzi tutto, alcuni tipi dipolitiche emergono per la loro difformità rispetto alle attese che anche illettore dovrebbe nutrire, arrivato a questo punto del libro. Infatti ci stu-piscono perché non si adeguano a due probabili aspetti del policymaking: il suo procedere per aggiustamenti incrementali e il tendere arisultati concreti. Da queste due caratteristiche si discostano, rispettiva-mente, le politiche radicalmente innovative e le politiche simboliche.

4.6.1. Continuità/innovazione

Questa dimensione è stata evidenziata per dare conto del diversogrado di tenuta del modello incrementale. Lo stesso Lindblom [1959],infatti, riconosce che la rappresentazione dei processi decisionali basa-

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ta sul partisan mutual adjustment non ha validità universale e viene tal-volta smentita dai fatti.

Lo studio dell’innovazione nelle politiche attinge a un vasto baga-glio teorico, che si estende dagli approcci macro a quelli micro. I pri-mi sono interessati a misurare gli esiti finali dei processi di innovazio-ne, valutandoli in base alla distanza dalle situazioni di partenza o algrado di convergenza con le risposte date in altri contesti a problemianaloghi. La crisi dei sistemi previdenziali è fronteggiata con interventianaloghi per ampiezza e contenuti, o i diversi paesi procedono in or-dine sparso? Una volta misurato l’output, è possibile la verifica delleipotesi circa la rilevanza dei diversi insiemi di variabili indipendenti,secondo una strategia di ricerca non diversa da quella utilizzata perindividuare le determinanti della spesa pubblica: gli orientamenti po-litici dei governi incidono sulla loro maggiore o minore propensioneall’innovazione? e le caratteristiche istituzionali? L’idea che i contestidemocratici tendano a rafforzare l’ipoteca del vecchio sul nuovo è sot-tolineata già da Tocqueville:

Non è facile che una persona concepisca in una democrazia, d’un tratto,un sistema di idee del tutto nuovo, come pure è difficilissimo che qualcunoriesca a convincere un altro su un argomento nuovo. [...] Se Lutero fosse vis-suto in un secolo d’eguaglianza e non avesse avuto per uditori principi e si-gnori, forse avrebbe trovato maggiore difficoltà a cambiare la faccia dell’Eu-rop» [Tocqueville 1835, 256 trad. it.].

Gli studi micro considerano invece le innovazioni per i loro risvolticognitivi, dato che il passaggio da una linea d’intervento a un’altra ri-chiede l’abbandono delle teorie implicite che sorreggono una politica.Come abbiamo visto parlando dei policy frames, la tenacia di questecostruzioni le rende capaci di resistere con successo anche alle eviden-ze contrarie:

Le teorie implicite riflettono e organizzano gli orientamenti collettivi.Indifferenti a tutte le contraddizioni e le ambiguità insite nella realtà, essestabilizzano pensiero e azione in un particolare contesto sociale. Grazie allaloro capacità di conferire significati plausibili, questi costrutti teorici produ-cono effetti diretti e pratici [Hoffman 1995, 140].

Un approccio decisamente orientato alle politiche utilizza questedue serie di ricerche per approfondire le condizioni della disponibilitàalla sperimentazione, all’apprendimento, alla riflessività che, comeabbiamo visto nel quarto capitolo, costituiscono passaggi fondamentaliper l’avvio e il consolidamento dei cambiamenti di policy [Wildavsky1992]. Inoltre, questo tipo di ricerche si interroga sulle categorie diattori capaci di dare un contributo a queste svolte. Se si eccettuanostraordinari periodi di riforma, quali il New Deal negli Stati Uniti o laricostruzione postbellica in Europa, l’innovazione di policy passa attra-

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verso reti «dedicate» e si propaga attraverso complessi processi di tra-sferimento del know how [Dolowitz e Marsh 1996; Mintrom 1997].Le idee svolgono un ruolo fondamentale nell’addensare i gruppi dipolicy makers capaci di promuovere il cambiamento. Pertanto, comu-nità epistemiche e coalizioni di sostegno [Sabatier e Jenkins-Smith1993] sono le due metafore più usate per descrivere le relazioni tra gliattori. Il loro anello più delicato è quello che congiunge gli studiosi aifunzionari amministrativi, chi deve pensare a chi deve fare. A livelloinfranazionale, le associazioni professionali dei dirigenti pubblici e lescuole per il loro aggiornamento rappresentano sedi di raccordo fon-damentali, grazie ai corsi di formazione, ai convegni, alle pubblicazio-ni, ai siti Internet [Berry e Berry 1999]. A livello internazionale, questoruolo è in genere svolto da organizzazioni quali la Banca mondiale,l’OCSE, l’ONU [Haas 1990]. Si pensi ad esempio all’importanza chel’Organizzazione mondiale della sanità ha avuto nel promuovere mo-dalità organizzative completamente nuove per fronteggiare l’epidemiadell’AIDS. L’innovazione infatti cresce più per propagazione che perautonoma germinazione. L’esistenza di casi da imitare [Walker 1969]o di lezioni da imparare [Rose 1993] aumenta sensibilmente la velocitàdel cambiamento e riduce i costi del suo consolidamento.

4.6.2. Risultati/simboli

Un posto di rilievo nelle tipologie di policy è occupato dalla di-stinzione tra politiche «sostanziali» e politiche simboliche. Normal-mente, le politiche sono considerate come catene di interventi perarrivare a tangibili modificazioni di uno stato di cose consideratofonte di problemi: pertanto la loro riuscita dipende dall’effettivo ot-tenimento degli scopi prefissi. Alcuni autori [Edelman 1964; Gus-tafsson 1983] hanno messo in evidenza l’esistenza di politiche chedevono la loro ragion d’essere al fatto di non produrre tangibili ef-fetti. La controversa classe delle politiche simboliche è il prototipo diquesta categoria. Come abbiamo visto a proposito dell’implementa-zione, l’eventualità che i propositi restino sulla carta è tutt’altro cheimprobabile. E tuttavia, per gli approcci di ispirazione pluralista,molti interventi rimangono senza conseguenze per due ordini dimotivi. Innanzi tutto, sono i molteplici, contrastanti, instabili giochidi pressioni e contropressioni a condannare le proposte a questodestino. In secondo luogo, le politiche si riducono a buoni propositiper il mancato riconoscimento dei loro limiti: promesse quali miglio-rare la salute della gente, ridurre la criminalità, migliorare l’istruzio-ne, sono tanto nobili quanto solo parzialmente nel controllo dell’in-tervento pubblico [Wildavsky 1992, 47].

Alcuni studiosi colgono invece nella mancata implementazione unamaggiore malizia e intenzionalità. In questi casi, l’aspetto simbolico

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costituisce l’unico effettivo contenuto di una proposta, sicché la suacarente attuazione non è da attribuire a imprevisti ostacoli di percorso,ma è parte integrante della struttura del provvedimento, progettato evoluto proprio per la sua intrinseca vaghezza. La mancata definizionedei responsabili dei controlli, le procedure nebulose, i tempi indefiniti,l’assenza di sanzioni sono utili tracce per identificare il deliberato de-potenziamento di una politica. Molti casi di regolazione, dai divieti difumo all’impegno didattico dei docenti universitari, sono soggetti aqueste debolezze.

In altri casi, invece, la compensazione simbolica può rivelarsi unutile sostituto di beni materiali non disponibili nella misura necessariaper soddisfare le richieste di ampi gruppi. Per Edelman, uno dei modipiù utilizzati per comporre conflitti tendenzialmente irriducibili consi-ste nel «dare agli uni la retorica, e agli altri la decisione» [1964, 39].In queste circostanze, possono essere ad esempio sfruttate le gratifica-zioni che dovrebbero derivare a una categoria dal fatto di cambiarenome e di passare da spazzino a operatore ecologico, o da preside adirigente scolastico.

Questa impostazione riporta al centro dell’analisi l’importanza deirapporti di potere nella configurazione del policy making:

L’ambiguità dei simboli facilita la trasformazione degli sforzi individualiin decisioni collettive. I simboli sostengono le coalizioni mentre i puri interes-si materiali dividono la gente. Consentono ai leader di aggregare ampie basidi sostegno per politiche circoscritte. Facilitano la negoziazione. Permettonoai policy makers di ritirarsi a realizzare i loro obiettivi in arene più ristrette emeno visibili. Rintuzzano le resistenze con le rassicurazioni, quando invece lepolitiche comportano effettive privazioni [Stone 1988, 126].

Per Edelman e per quanti si riconoscono nella sua teoria, l’incon-gruenza e l’inefficacia delle politiche è direttamente funzionale allaconservazione di precise gerarchie di interessi: «Una policy dunque èun insieme di cangianti, diverse e contraddittorie risposte a uno spet-tro di interessi politici» [Edelman 1988, 16].

Negli anni ’80, anche per effetto della svolta neoistituzionalista, ilrapporto tra politiche e simboli va incontro a un riorientamento. Lericerche tendono infatti a sottolineare come in ogni decisione degliorgani di governo sia insito un aspetto espressivo, non solo in sostitu-zione di quello strumentale, ma a sua integrazione [Douglas e Wilda-vsky 1982; Miller 1993]. Infatti le politiche, oltre a proporsi di modi-ficare l’ambiente o i comportamenti, comunicano valori e intenzioni,affermano la sintonia tra le preoccupazioni dei policy makers e quelledella gente, danno giustificazioni in armonia con i modelli culturaliprevalenti:

I dati empirici ci dicono fondamentalmente che i simboli della riformaamministrativa sono importanti per i politici, non solo come strumenti per

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imbrogliare gli elettori, ma anche come riflessi delle loro credenze. Le ammi-nistrazioni rinnovate al pari dei loro sostenitori, credono nella possibilità diessere realmente diverse; il ricorrere poi di grandi tentativi di riorganizzazioneè connesso proprio a questa credenza [March e Olsen 1989, 141 trad. it].

Le conseguenze per la politics del policy making diventano piùcomplicate. Se le politiche simboliche del primo tipo sono un po’ ungioco di bussolotti capace di catturare la credulità e il consenso popo-lare, la dimensione simbolica di cui sono intrise le varie politiche puòrendere più difficile l’accordo, se le parti in causa si consideranoorientate da una missione basata su principi generali. Nel caso dimolte issues ambientali, ad esempio, il richiamo al valore del mercatoda un lato, e a quello dell’ecosostenibilità dall’altro, può dar luogo asituazioni di stallo difficilmente aggirabili [Pouncy 1988; Wilkins ePatterson 1991].

4.6.3. La tipologia di Lowi

Il più organico tentativo di abbinare entro un modello rigoroso ildiverso significato delle politiche pubbliche alle varie configurazioni diattori, processi decisionali, luoghi istituzionali è stato compiuto daLowi [1964; 1972]. La sua tipologia è importante per tre ordini dimotivi: innanzi tutto, per il numero limitato (quattro) di tipi, o arene,tratteggiati con una precisa fisionomia; in secondo luogo, per la forzadella relazione individuata tra tipi di politiche e tipi di politica; infine,per le dimensioni che stanno alla base della sua matrice.

Lowi riconduce la grande varietà delle politiche a quattro configu-razioni di base, storicamente e funzionalmente distinte.

1. Le politiche distributive. Rientrano in questo genere le politicheche forniscono precisi benefici a ben delimitati gruppi sociali o ambititerritoriali: sussidi a sostegno di certe attività economiche, agevolazionifiscali a particolari professioni o aree geografiche, programmi per ope-re pubbliche localizzati in determinate zone. La loro caratteristica fon-damentale è la disaggregabilità, cioè la possibilità di ritagliare al lorointerno insiemi sempre più piccoli di destinatari. La politics che carat-terizza queste politiche è basata sul log-rolling71, cioè sul compromessoe sullo scambio di favori. Infatti le coalizioni che sostengono questiinterventi non sono fondate su interessi comuni, ma sulla sommatoriadi richieste e sulla non interferenza reciproca. Il conflitto è quasi as-sente, perché queste «sono politiche in cui non vi è mai bisogno di unconfronto diretto tra chi viene beneficiato e chi viene penalizzato, trachi riceve e chi ci rimette» [Lowi 1964, 20 trad. it.]. In genere le com-

71 Talvolta sostituito dal termine pork-barrel, espressione colloquiale traducibilecon «mercato delle vacche».

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missioni parlamentari competenti sono le sedi istituzionali che fannoda sfondo a decisioni che richiedono discrezione e volontà di arrivareall’accordo.

2. Le politiche regolative. Queste politiche mirano a condizionarei comportamenti di determinate categorie, imponendo con sanzioni ilrispetto di codici, di standard, di vincoli alla libera iniziativa. Un codi-ce stradale, una legislazione per la difesa dei consumatori o per la limi-tazione del potere dei monopoli, una normativa contro l’inquinamentoatmosferico sono esempi di politiche di questo tipo:

Ciò che tutti questi sforzi regolatori hanno in comune è che essi dichiara-no certe azioni buone o cattive, e prospettano l’applicazione di sanzioni po-sitive o negative rispetto alla condotta in questione. Vi è sempre qui un prin-cipio di esclusione, anche se è spesso espresso in modo vago. Vi è sempre unprincipio morale, e la sensazione che alcune cose sono di interesse pubblicoed altre no [Lowi 1971b, 76 trad. it.].

Le politiche regolative tendono ad innescare processi decisionalipiù conflittuali, più visibili, e comunque più vicini all’immagine corren-te della democrazia parlamentare. Infatti l’aula del parlamento rappre-senta la sede più adeguata per pesare, attraverso votazioni in sedutaplenaria, la forza di chi è a favore e di chi si oppone.

3. Le politiche redistributive. Queste politiche si propongono difornire benefici a larghe fasce sociali, modificando gli equilibri alloca-tivi tra i grandi gruppi che costituiscono la società. Esempi possonoessere rintracciati nelle riforme della sanità pubblica e della previdenzaobbligatoria, o nelle misure che modificano la progressione delle im-poste sui redditi. Le politiche redistributive sono giocate attraversocomplesse negoziazioni centralizzate tra le grandi organizzazioni degliinteressi (sindacati, associazioni degli imprenditori, ecc.) e i responsa-bili dell’esecutivo, mentre «il ruolo del Congresso sembra in largaparte essere stato quello di ratificare gli accordi presi direttamentedalle burocrazie con gli interessi lì rappresentati» [Lowi 1964, 31 trad.it.]. Governo e vertici delle associazioni sono chiamati direttamente incausa dall’esigenza di stabilizzare il conflitto su temi che rischiano dispaccare la società, perché «le issues di tipo redistributivo si avvicina-no più di qualunque altra alle divisioni di classe e attivano interessipiù o meno in termini di classe» [ibidem, 31-32].

4. Le politiche costituzionali. «Il termine costituente è usato qui nelsenso europeo, che ha a che fare con la costruzione di qualcosa, comenel caso delle assemblee costituenti. Esso riguarda tutte le politichestatali che stabiliscono strutture, regole del gioco, e attribuiscono sferedi autorità dentro i cui confini potranno essere create le future politi-che governative» [Lowi 1971b, 63 trad. it.]. Benché Lowi sia decisa-mente avaro di particolari a proposito di questa arena, i corpi dellostato chiamati a vigilare sul rispetto di queste deliberazioni sono rap-presentati come generali senza truppa, tenuti a garantire non specifi-

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che prestazioni, ma l’instaurazione di linee di autorità e di comunica-zione con gli altri comparti dell’amministrazione [Lowi 1985].

Le politiche determinano la politica

La tesi di Lowi è che a ciascuno di questi tipi di policy corrispon-da una diversa arena di potere, cioè una diversa rete di attori, unadiversa struttura dei processi decisionali, un diverso sfondo istituziona-le: «Ogni arena tende a sviluppare la propria caratteristica strutturapolitica, il suo processo politico, le sue élite e i suoi tipi di rapporti tragruppi» [Lowi 1964, 20 trad. it.]. Questo concetto è sintetizzato nel-l’espressione, peraltro intraducibile, policy determines politics [Lowi1972], che segna un chiaro ribaltamento delle ricerche di derivazionesistemica, che vedono nelle politiche la variabile dipendente dalla po-litica.

La prima conseguenza di questa impostazione è che anche la poli-tics diventa plurale:

Non vi è un singolo sistema politico con un singolo insieme di proposi-zioni che possa descrivere «la distribuzione del potere», «il rapporto tra legi-slativo ed esecutivo», «il potere delle commissioni», «il sistema partitico». Cisono almeno quattro sistemi politici, ed almeno quattro insiemi di generaliz-zazioni sono necessari per rendere giustizia dell’universo politico americanodal New Deal in poi. Di nuovo, se la società moderna è differenziata, perchéla politica moderna dovrebbe essere diversa? [Lowi 1971b, 88-89 trad. it.].

Le basi della matrice

La tipologia di Lowi è originale non solo perché presenta configu-razioni ben delineate, con una chiara linea di saldatura tra policy epolitics, ma anche perché è ancorata a una grandezza finora rimastanell’ombra: la coercizione.

La coercizione, per seguire Weber, è fondamentale per qualunque azionestatale. Diversamente dalle istituzioni private, le istituzioni dello Stato nonsono meri attori nel loro ambiente [...]. Una politica pubblica è, dunque, unanorma formulata da una qualche autorità governativa che esprime una inten-zione di influenzare il comportamento dei cittadini, individualmente o collet-tivamente, attraverso l’uso di sanzioni positive o negative [Lowi 1985, 230trad. it.].

Sul diverso campo di applicabilità della coercizione e sulla suaprobabilità è infatti costruita la matrice della tipologia, come evidenziala figura 5.1.

A questo punto, grazie al loro incardinamento nei diversi modi diapplicare la coercizione, i tipi di politiche acquistano un’investitura

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 389PR

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APPLICABILITÀ DELLA COERCIZIONE

all’azione individuale all’ambiente dell’azione

DISTRIBUTIVA

Individuo, impresa, corporationScambio e reciproca non interferenzaCommissioni del parlamento, agenzie

COSTITUENTE

Creazione delle regole del gioco e dinuovi organismi

Definizione di nuovi ambiti

REGOLATIVA

Gruppo«Coalizioni», concreti interessi condivisi

TrattativaParlamento nel suo ruolo classico

REDISTRIBUTIVA

Vertici delle associazioni«Incontri al vertice», classe, scontro

ideologicoEsecutivo e vertici associativi

FIGURA 5.1. Matrice della tipologia.

Fonte: Adattato da Lowi [1964; 1972].

istituzionale tale da trasformarli in tipi di Stato o di regime: «La miaassunzione operativa di base è che ogni categoria di politica pubblica,una volta considerata nel tempo, sia, per importanti aspetti, un regime,e che ogni regime tenda a creare una politics in consonanza con sestesso» [Lowi 1988, 726]. Un primo tipo di applicazione di questateoria fornisce una nuova chiave per interpretare i cambiamenti nellasfera pubblica. La storia istituzionale degli Stati Uniti può ad esempioessere riletta come un passaggio dalle politiche distributive, prevalentifino al 1890, a quelle regolative e poi, con le riforme sociali promossedal New Deal, a quelle redistributive.

Un secondo tipo di applicazione è di genere prescrittivo, perchél’idea che siano le politiche a determinare la politica fa delle prime leleve più efficaci per un intenzionale intervento di ingegneria istituzio-nale. Scegliendo il tipo di politiche da promuovere, i legislatori optanoanche per il consolidamento di uno specifico sistema di relazioni tragovernanti e governati:

Se desideriamo una politica (politics) aperta e pubblica, dobbiamo limi-tarci a determinati tipi di politiche pubbliche – indipendentemente dal fattoche gli obiettivi manifesti di queste politiche vengano o no raggiunti. Di nuo-vo, cercheremo di evitare politiche distributive, perché nulla di aperto e didemocratico può venire da esse [Lowi 1972, 57 trad. it.].

Le politiche pubbliche sono un tipo di istituzione che fornisce non soloincentivi e disincentivi, ma che distribuisce anche simboli e valori [...]. Lepolitiche pubbliche sono agenti attivi del cambiamento sociale e la scienzapolitica dovrebbe considerarle con un interesse di gran lunga maggiore diquello riservato a concetti più generali e più deterministici, quali le istituzionie la storia [Ingram e Schneider 1995, 443].

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Leggi e politiche

Il modello di Lowi ha avuto un’importanza enorme nel consolida-re l’autonomo terreno di ricerca dei policy studies, perché ha eviden-ziato in tre parole la possibilità di capovolgere il modo tradizionale dipensare al rapporto tra politica e politiche. E tuttavia l’integrazione diquesto approccio con gli altri, analizzati precedentemente, è rimasta inlarga parte una promessa irrealizzata. I limiti in genere evidenziati ri-guardano le difficoltà di rendere operativa la tipologia attraverso unelenco di indicatori univoci [Greenberg et al. 1977; Sabatier 1999b].A nostro avviso, l’isolamento in cui è rimasta confinata questa istitu-zione non ha solo cause tecniche, ma ha ragioni teoriche. Infatti le po-litiche che fanno da perno alla teoria di Lowi sono costrutti analiticimolto diversi da quelli che abbiamo preso a riferimento, parlando diapprocci decisamente orientati alle politiche:

Poiché questo approccio è basato su una concezione formale delle fun-zioni dello Stato, le nostre classificazioni hanno a che fare con il linguaggioformale della legge (o di altre espressioni formali delle politiche pubbliche).Esse non si occupano minimamente dei concreti impatti delle politiche sullasocietà, sul mondo politico, o sull’economia [...]. Così una legge può essereclassificata, diciamo, come redistributiva, anche se dopo vent’anni dalla suaemanazione essa non ha dato luogo ad alcun effetto redistributivo [...]. Laclassificazione e l’analisi che ne discende richiedono che le categorie di poli-tiche pubbliche, vale a dire le variabili indipendenti, siano intese come unosforzo di afferrare le intenzioni dei governanti così come esse sono espressenel linguaggio formale del governo [Lowi 1985, 236 trad. it.].

In effetti, viste da vicino, queste politiche parlano più il linguaggiodel diritto pubblico che quello del policy making [Lowi 1972, 38 trad.it.]. Lo stesso Lowi del resto ammette che il rapporto tra politiche epolitica va inteso come rapporto tra l’aspetto più formalistico e legali-stico dell’attività di un sistema politico, e tutto il resto, cioè la politics[Lowi 1985, 228 trad. it.]. Come spiega Calise, «l’opera di Lowi rap-presenta, forse, lo sforzo più significativo per tenere insieme, entro unmedesimo quadro interpretativo, teoria del diritto e analisi delle poli-tiche pubbliche» [1999, xxxix].

Coercizione, Stato, potere, norma, formalità, sono concetti che nonhanno larga circolazione nel corpo principale dei policy studies. Comeil modello di Lowi, questi approcci rivendicano la capacità delle poli-tiche di strutturare le arene entro cui si giocano i processi decisionaliche le riguardano. Ma a differenza del primo, all’origine di questa lorointuizione non c’è la coercizione: c’è il problema. Come affermaDewey, «Che cosa determina la selezione delle operazioni che devonoessere compiute? La risposta è una sola: la natura del problema cheoccorre affrontare» [1929, 123, cit. in Dery 1984].

Lo studio delle politiche ha sviluppato questa idea soprattutto

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 391

analizzando i passaggi attraverso i quali i problemi, da vaghe esigenze,diventano precise giustificazioni per un intervento pubblico. Comeabbiamo visto, alcuni autori, sulla base dell’insegnamento di Schattsch-neider, attribuiscono a questa fase uno statuto tutto speciale, per lasua capacità di assegnare quote di potere fissando le caratteristiche deidestinatari:

La definizione del nome del problema è di per sé un processo politicoche coinvolge una varietà di definizioni alternative. Infatti, il nome comportaquestioni di secondo livello: quale tipo di comunità si viene a costituire inbase alla struttura dell’autorità utilizzata per «risolvere» il problema? Qualivoci contano nella scelta dei leader e in quella delle politiche? Chi è subordi-nato a chi? Che tipo di gerarchia interna è creata? Chi è alleato a chi? Comela struttura di autorità va a creare lealtà e antagonismi in una comunità? [Sto-ne 1988, 291].

I problemi arrivano nei discorsi e quindi cominciano a esistere in quantorafforzano ideologie, e non semplicemente perché stanno lì o perché sonoimportanti per il benessere. Essi segnalano chi sono i virtuosi e i validi, e chisono i pericolosi o gli inadeguati, quali azioni saranno premiate e quali pena-lizzate [...]. I problemi sono cruciali nel determinare chi esercita l’autorità echi l’accetta [Edelman 1988, 12].

A questa lettura si oppongono quanti considerano la definizionedel problema un processo senza fine, legato al profilo del policymaking da un rapporto di interdipendenza e di coevoluzione, piutto-sto che da una dipendenza deterministica72. Per Wildavsky, gli obiet-tivi di una politica pubblica hanno di norma tre caratteristiche: sonomolteplici, in conflitto tra loro e vaghi [1992, 215]. A conclusioni si-mili arrivano quanti studiano il processo di delimitazione dell’agendacome una tappa intermedia in una corsa che non ha traguardi finali,perché la definizione dei contenuti di una politica coinvolge tutto l’ar-co della sua vita:

Col riconoscere che le politiche sono questione non solo di quello che ilgoverno dice e fa, ma delle inferenze tratte da quel che viene detto e fatto,intendiamo richiamare l’attenzione sulla diversità delle poste in gioco e sullamolteplicità delle funzioni svolte da una politica pubblica [Cobb e Elder1981, 394].

Dobbiamo considerare l’ambiguità non come un limite alla comprensionema, piuttosto, come una caratteristica centrale e ineluttabile delle politichepubbliche. Il fatto che una politica sia elusiva non deve essere considerato un

72 Questa prospettiva è esplicitamente respinta da Lowi: «Quel che rimpiango èl’accento che ho posto nei miei primi articoli sulle aspettative e le percezioni dei par-tecipanti politici. Queste cose contano, ma sono secondarie rispetto alla “natura” delleproposte o delle politiche ormai formalizzate» [Lowi 1988, 727].

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fattore di disturbo, un ostacolo sulla via di una solida analisi. Piuttosto, deveessere visto come un elemento fondamentale per la sua definizione. In gene-rale, le politiche non si spiegano da sole [Steinberger 1980, 29 rist. 1981].

Per queste impostazioni, se l’approccio di Lowi ha avuto il meritodi rendere immediatamente evidente con uno slogan la distanza chesepara gli studi decisamente orientati alle politiche dalle ricerche suideterminants, tuttavia il prezzo pagato alla loro logica algoritmica,basata sulla varianza e non sul processo, appare troppo alto.

4.7. Oltre la descrizione

Arrivati a questo punto, occorre tirare le somme del lavoro di ca-talogazione fatto, per passare a problemi di ricerca di carattere piùgenerale. La raccolta dei dati sul policy making dovrebbe avere giàfornito una risposta a ciascuna di queste cinque domande.

Quali sono le metafore che descrivono meglio le relazioni tra gliattori? Il governo di partito, il governo degli interessi, il governo dellaburocrazia, i triangoli di ferro, le comunità di policy, i networks atema, le coalizioni di sostegno o le comunità epistemiche? Nel corsodella politica studiata, c’è stato un passaggio da una configurazionedegli attori a un’altra?

Come è evoluto il ciclo di vita della politica? Quali sono stati glisnodi più controversi o più significativi? La formazione dell’agenda, ildisegno delle soluzioni, la creazione del consenso, la decisione formale,l’implementazione, la valutazione, il ridisegno o la soppressione finale?

Come definire lo stile decisionale prevalente? Quali preoccupazio-ni hanno dominato il policy making? L’oggettività dei giudizi, la neces-sità della mediazione, la completezza del disegno, il controllo del tem-po e del caso?

Come le regole hanno influenzato il policy making? In modo for-male o informale? in modo cogente o indeterminato? in modo esoge-no o endogeno?

Nella selezione degli strumenti dal repertorio dei possibili tipi diintervento, quali leve per il cambiamento sono state utilizzate? la con-tinuità o l’innovazione? i risultati o i simboli? la distribuzione, la redi-stribuzione, la regolazione o il disegno statutario?

A questo punto, una volta completato il lavoro per dare una pre-cisa fisionomia ai cinque «tratti somatici» che identificano una politicapubblica, una volta definita la sua carta d’identità, la ricercatrice o ilricercatore possono affrontare una serie di domande di livello più ge-nerale.

La prima riguarda il tipo di relazione che tiene insieme questecinque caratteristiche. Le ipotesi alternative possono essere riassunte inquesto modo:

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 393

• nella ricostruzione del policy making, emerge la forza preponde-rante di uno di questi blocchi di variabili, che dimostra la capacità diimporsi come determinante rispetto alla configurazione assunta daglialtri, autorizzandoci a ragionare in termini di causa/effetto;

• oppure il processo si è dipanato all’insegna della coevoluzione edell’interdipendenza, in una serie di microaggiustamenti reciproci, sen-za l’egemonia di alcun fattore specifico?

Queste due ipotesi di ricerca sono entrambe legittime, perché cia-scuna è suffragata da numerosi esempi. Le ricostruzioni dello sviluppodelle politiche sociali nel secolo scorso hanno in genere evidenziatol’importanza delle reti degli attori nel condizionare i diversi tipi diwelfare sperimentati nei vari paesi [Heclo 1974; Ferrera 1984]. Sem-pre in questo campo, alcune analisi condotte nel contesto americanohanno messo invece l’accento sull’importanza di una fase, quella del-l’implementazione, cruciale nel ridirigere il significato complessivo diuna politica pubblica [Pressman e Wildavsky 1973]. Con riferimentoalle politiche regolative nei paesi europei, alcuni autori hanno sottoli-neato l’influenza di fattori impalpabili, ma tenaci, riferibili al concettodi policy style [Vogel 1986; Majone 1994]. Molte ricerche di policy,ben prima della svolta neoistituzionalista, hanno richiamato l’attenzio-ne sul ruolo cruciale giocato dalle regole, formali o informali [Selznick1949; Kaufman 1976].

Ma anche la tesi opposta, quella della coevoluzione e del lentoassestamento reciproco tra le caratteristiche che rivelano il profilo diuna politica pubblica, può vantare numerose evidenze empiriche insettori non marginali, quali le politiche fiscali o la difesa dell’ambien-te [Heclo e Wildavsky 1974; Ostrom 1990; Elliott e Kiel 1999]. Inquesti casi, i diversi aspetti di una politica pubblica – gli attori, la di-namica, gli stili, le regole, i contenuti – sembrano capaci di condizio-narsi a vicenda, mediante processi che richiamano equilibri più biolo-gici che meccanici, che impediscono l’assegnazione di primati o pri-mogeniture.

Poche righe fa, abbiamo usato la metafora dei tratti somatici edella carta d’identità: talvolta, il colore della pelle può avere caratteritali da dominare la configurazione di altri aspetti fisici, quali il tipo dicapelli o la forma del naso. Ma esistono molti casi in cui il colore dellapelle non è di alcun aiuto per fissare gli altri tratti salienti, ad esempioperché la persona in esame è all’incrocio tra più razze.

Passiamo ora a esaminare un terzo livello di ricerca, che riguarda ilrapporto tra la politica pubblica e i problemi che l’hanno suscitata. Leipotesi concorrenti possono essere riassunte così:

• le crisi nell’ambiente che fa da sfondo alla politica hanno unapresa diretta sull’assetto di quest’ultima, rappresentano effettivamentele molle della trasformazione ed esercitano il loro influsso in modolineare;

• oppure la politica pubblica analizzata intrattiene con i problemi

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che l’hanno giustificata un rapporto contorto, complesso, ambiguo,dato che non solo la politica dipende dal problema, ma il problemadipende dalla politica?

Anche in questo caso, esistono numerosi esempi a sostegno di en-trambe le ipotesi. Gli shock petroliferi degli anni ’70 hanno esercitatouna decisiva influenza sulle politiche energetiche dei principali paesieuropei. Le politiche per la riforma amministrativa possono invece per-mettersi grandi margini di libertà nell’interpretare il disagio cui dovreb-bero porre rimedio [March e Olsen 1989].

Nel primo caso, le ricerche aggregate intorno al paradigma dellanew political economy possono aggiungere elementi fondamentali allanostra conoscenza del policy making, perché ci danno una rappresenta-zione sintetica dei vincoli che hanno condizionato l’evoluzione delle de-cisioni. Nel secondo caso, questo esercizio è di scarsa utilità, dati i gradidi libertà di cui dispongono gli attori nel leggere le sfide che provengo-no dall’ambiente.

Come è evidente, il secondo e il terzo livello di analisi riprendo-no in chiave empirica le alternative teoriche che abbiamo presentatonel terzo paragrafo, per scongelarle dal dibattito epistemologico, chetende a farne paradigmi tra loro incompatibili , e rileggerle invececome tipi di relazioni più o meno confermate dalla raccolta dei dati.Dunque, causa/effetto o coevoluzione, sistema chiuso o sistema aper-to non sono solo opzioni in astratti dibattiti metodologici, ma sonoanche modelli di sviluppo del policy making, entrambi documentatida precise vicende storiche. La scelta tra queste alternative rinvia allaverifica dei dati, consapevolmente organizzati entro solide categorieanalitiche.

5. Questioni aperte

La conclusione del paragrafo precedente può fornire la base perun bilancio critico. Infatti le valutazioni circa i risultati degli studi delpolicy making difficilmente mettono in dubbio la rilevanza delle cin-que categorie che abbiamo presentato e la loro utilità per la ricercaempirica. Le questioni invece sorgono rispetto all’utilizzazione di que-sti concetti e delle loro articolazioni interne: quali disegni di ricercapossono sostenere? a quali interrogativi teorici possono fare fronte?

Come abbiamo sottolineato, la prima e più tranquilla risposta rin-via all’uso di queste classificazioni per arrivare a una descrizione «den-sa» delle particolari configurazioni assunte dalle politiche pubbliche inun dato settore, o a un dato livello istituzionale, o in un dato periodo.In questa prospettiva, le difficoltà metodologiche riguardano soprattut-to la delimitazione dell’ambito geografico, settoriale e temporale piùadeguato per verificare la rispondenza alle diverse immagini presentatenel paragrafo precedente.

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LO STUDIO DEL «POLICY MAKING» 395

La seconda risposta rimanda alla validità di un impianto di ricercaeclettico ed elastico, basato sulla comparazione dei casi e la triangola-zione delle metodologie, capace di sciogliere in termini empirici i di-lemmi teorici che hanno marcato l’evoluzione dei policy studies.

E tuttavia queste risposte soddisfano solo una parte degli studiosidi politiche pubbliche [per un dibattito tra le varie posizioni v. Dudleyet al. 2000]. Le critiche più significative muovono da tre diverse ango-lazioni:

• dall’interno di altre impostazioni, pure collocate nell’ambitodegli studi che adottano metodologie induttive;

• come premessa per il passaggio alle teorie deduttive della sceltapubblica;

• come riflessione sui limiti delle coordinate che individuano ilpiano a, in vista dello spostamento verso il piano 3.

5.1. L’assenza di una chiara scelta a favore della spiegazione causale

La nostra presentazione ha considerato il ricorrere di chiari nessicausali tra le variabili solo come uno dei possibili risultati della ricerca,di per sé né più valido né più profondo della scoperta di relazionispurie, non lineari, non deterministiche. Questa impostazione è dura-mente criticata dalle correnti di ricerca che si danno l’obiettivo di in-dividuare chiari modelli causali, in grado di identificare le variabiliindipendenti, le leve del cambiamento, gli elementi capaci di innescarela reazione a catena. Secondo questi approcci, ammettere la possibilitàdi mancare questo obiettivo equivale alla resa a una concezione dellascienza mutilata della sua dimensione teorica [Hill 1997]. Come scrivePaul Sabatier,

Quali sono esattamente i meccanismi attraverso i quali A influisce su B,che a sua volta influisce su C? L’incapacità di sviluppare chiare catene direlazioni causali è probabilmente una delle ragioni della caduta di attenzioneper alcuni degli schemi popolari negli anni ’70 [...].

[Una teoria] deve avere chiare guide causali e la capacità di discernere iprocessi causali. Le teorie scientifiche sono teorie causali che cercano di spie-gare come si verificano certe regolarità nei fenomeni. Identificano i nessi cau-sali critici, che vanno considerati fondamentalmente come gli eventi che dan-no impulso al sistema, e identificano i processi o i meccanismi attraverso cuiquesti elementi motori influenzano le altre variabili [Sabatier 1999, 5, 262].

La teoria della coalizione di sostegno, proposta come modellopositivo nel testo appena citato, fornisce un chiaro esempio degli ele-menti che caratterizzano questa impostazione. In fondo, a fare la dif-ferenza, è il diverso concetto di sistema, che per gli studi da noi privi-legiati può essere una configurazione complessa, adattiva, non deter-ministica, mentre per i ricercatori affascinati dall’individuazione delle

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leggi causali è una architettura chiusa e deterministica. Così, ad esem-pio, l’analisi di Sabatier e Jenkins-Smith incorpora larga parte delleacquisizioni sul ruolo dell’apprendimento e sull’importanza dell’imple-mentazione nei processi di policy73. Ma questi concetti non produconoeffetti corrosivi sul tradizionale impianto causale, bensì vengono inqua-drati come relazioni tra «condizioni esterne» e «condizioni interne»,tra «aspetti cognitivi» e «mondo reale», e vengono gestiti aggiungendovariabili, frecce bidirezionali e circuiti laterali ai principali elementi delsistema:

L’apprendimento è solo una delle forze che influenzano il cambiamentodelle politiche. In aggiunta a questa attività cognitiva, stanno altre due sor-genti. La prima riguarda i cambiamenti nel mondo reale. I cambiamenti nellecondizioni socioeconomiche rilevanti e nelle coalizioni di governo del sistema– come il boicottaggio del petrolio arabo nel 1973 o la vittoria dell’alathatcheriana al congresso del 1974 del partito conservatore inglese – possonoalterare sensibilmente la composizione e le risorse delle varie coalizioni e, aloro volta, le politiche all’interno del sottosistema di policy. Il turnover delpersonale – che talvolta deriva da condizioni esterne, talvolta semplicementeda morti e pensionamenti – costituisce una seconda fonte non cognitiva dicambiamento, capace di modificare sostanzialmente le risorse politiche dellevarie coalizioni, e quindi le decisioni di policy [Sabatier e Jenkins-Smith 1999,123].

Questa impostazione è veramente un arricchimento della ricercaempirica e un avanzamento nella costruzione di una teoria generale, oè solo un modo più complicato per far sparire i nodi insoluti sotto lospesso tappeto dei vari sottosistemi? La maggiore precisione dell’im-pianto è reale o solo apparente, in assenza di modelli matematici chefissino le relazioni tra le diverse variabili? Queste sono questioni chelasciamo dirimere ai lettori con maggiori curiosità teoriche, ovviamentenon sulla base di due citazioni.

5.2. Verso le teorie della scelta pubblica

L’accusa di ateoreticità che dal versante deduttivo è mossa agli stu-di di policy, nelle loro varie declinazioni, ha altre ragioni, certo nonscalfite dalle integrazioni proposte da Sabatier e Jenkins-Smith, masemmai esasperate da un impianto analitico che procede per aggiuntadi variabili e di frecce causali:

L’insoddisfazione deriva dalla natura ad hoc della teoria di policy. Perspiegare ogni nuovo fenomeno, si tende a generare una nuova teoria, con il

73 Sabatier e Jenkins-Smith [1999] si rifanno esplicitamente a Heclo [1974] eall’approccio bottom-up.

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suo proprio insieme di assunzioni; oppure, in momenti diversi lo stesso feno-meno è spiegato con diverse teorie, senza dare elementi per scegliere al lorointerno. Dunque, l’insoddisfazione nell’analisi delle politiche riguarda la man-canza di una teoria generale che fornisca modelli predittivi applicabili a diver-se situazioni, grazie a piccoli aggiustamenti o estensioni delle assunzioni fon-damentali [Blair e Maser 1978, 5].

Da questa angolazione, ad essere lamentata è l’assenza di una teo-ria dell’attore, che sciolga una volte per tutte le ambiguità e le oscilla-zioni che rendono i policy makers ora condizionati dai frames cognitivi,ora sensibili agli interessi e al potere, ora casuali ingredienti di bidonidella spazzatura che vanno e vengono.

Ma con l’avanzare della nostra presentazione, il cerchio si stringe,e le critiche a un paradigma diventano i punti di forza di un altro.Alla presentazione delle risorse analitiche su cui si basano le teoriededuttive è infatti dedicato il prossimo capitolo.

5.3. Verso il piano 3

Gli studi che abbiamo presentato in questo capitolo si tengonoancorati a un modo di intendere le scienze sociali fondamentalmenterispettoso dei canoni tradizionali della ricerca empirica, sia questa ditipo quantitativo o qualitativo.

Questa collocazione è divenuta più difficile negli ultimi anni, per-ché tale vincolo è esplicitamente infranto dagli autori che sottolineanodue tipi di problemi. In primo luogo, la scelta degli strumenti e deimetodi per condurre l’indagine esercita un’ineliminabile influenza suisuoi risultati. Così ad esempio, se di per sé la network analysis può in-dividuare anche sistemi di relazione gerarchici, tuttavia la sua stessaimpostazione può facilmente portare alla sovrastima delle reti piatte einformali.

Più in generale, «la definizione delle categorie determina il risulta-to della loro utilizzazione. Le categorie sono costrutti mentali umani inun mondo che ha solo delle continuità [...]. Le politiche riguardanosoprattutto classificazioni e differenziazioni, come si usano o si devo-no usare le categorie in un mondo in cui le categorie non sono date»[Stone, 1988, 307].

Questo fa sì che il punto di osservazione e il bagaglio cognitivodell’osservatore incidano sui risultati dell’osservazione. Nel paragrafoprecedente abbiamo utilizzato la metafora della carta d’identità e deitratti somatici prevalenti. Ma, come è noto, la razza di appartenenzadell’osservatore è in genere strettamente correlata al suo giudizio cir-ca la gerarchia dei particolari rilevanti. Se un bianco descrive unbianco, pone attenzione alla forma del naso, della bocca, degli occhi.Se descrive un nero, gli sembra che questo aspetto da solo riduca

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enormemente la varianza dei tratti significativi. Nel primo capitoloabbiamo citato la teoria di Kaufman [1981], secondo la quale il po-tere è una variabile che tende a perdere importanza via via che l’os-servatore si avvicina a una conoscenza più circostanziata del policymaking.

Arriviamo così a un secondo ordine di problemi: se ciò che si vededipende da dove si è, dai riferimenti che si hanno e dagli strumenti diosservazione che si adottano, la distinzione tra finalità descrittive e fi-nalità prescrittive o valutative tende a diventare più ingarbugliata.

Nonostante le tensioni reali tra gli aspetti comportamentali e quelli pre-scrittivi nei policy studies, entrambi costituiscono facce di un intero, con stret-te interdipendenze. Dunque, la formulazione del problema e la percezionedei fatti dipendono da mappe cognitive basate sugli interessi prescrittivi de-gli studi delle politiche; le applicazioni prescrittive rappresentano un labora-torio essenziale per avanzare nella comprensione delle realtà di policy [Dror,1983, 5].

È impossibile descrivere il contare senza parlare di inclusione e esclusione(termini che di per sé richiamano comunità, confini, alleati e nemici); selezio-ne (un termine che implica privilegio e discriminazione) e importanti caratte-ristiche (un termine che richiama giudizi di valore e gerarchia) [Stone 1988,128].

E tuttavia, di per sé queste constatazioni non comportano la de-molizione dei risultati cui pervengono le ricerche condotte secondo itradizionali metodi dell’indagine politologica e sociologica. Infatti an-che all’interno del piano convivono teorie che considerano l’intrecciotra aspetti descrittivi e aspetti normativi come una prova del carattereintrinsecamente manipolatore della ricerca sulle politiche, e altre cheinvece non rinunciano alla speranza di conoscere meglio quel che suc-cede nelle nostre società, quando un insieme di persone avverte unproblema che non può risolvere da solo.

Come abbiamo più volte sottolineato, rientrano in quest’ultimogruppo le impostazioni che riprendono in chiave postcomportamenta-lista il nucleo centrale del pragmatismo americano. In questa prospet-tiva, i limiti della singola strategia di ricerca sono distruttivi solo se ilricercatore coltiva l’aspirazione a raggiungere da solo la verità, al sin-golare. Se invece la ricerca è concepita come un’impresa collettiva, incui i difetti di un approccio sono colti e compensati da un altro, alloraquesta consapevolezza permette di non rimanere schiacciati dalla ine-vitabile parzialità del proprio punto di vista. Come spiega Peirce, laricerca filosofica pragmatica si basa

più sulla fiducia nella molteplicità e varietà degli argomenti che sul carattereconclusivo di uno solo. Il suo modo di ragionare forma non una catena, chenon può essere più forte del suo anello più debole, ma una corda, le cui fibre

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possono essere anche fragili, purché siano sufficientemente numerose e inti-mamente intrecciate [Peirce 1868, rist. 1931, 157]74.

Come forse qualche lettore ha notato, questa citazione è straordi-nariamente simile a quella di Wittgenstein75, che abbiamo posto all’ini-zio del volume.

74 La numerazione delle pagine si riferisce alla ristampa del 1931.75 Che tuttavia non fa riferimento a Peirce.