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Filosofia teoretica 2 a.a. 2004-5 Richard Davies Lo schermo della filosofia Modulo A (24026) primo semestre Corpo e anima Dispensa per frequentanti e per non-frequentanti

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Filosofia teoretica 2

a.a. 2004-5

Richard Davies

Lo schermo della filosofia

Modulo A (24026)

primo semestre

Corpo e anima

Dispensa

per frequentanti e per non-frequentanti

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Indice

Introduzione Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 3 L’approccio alla filosofia attraverso il cinema 4 Programma delle lezioni 6

Testi (in ordine cronologico) Platone Teeteto, 169-72 9 Repubblica, VII, 514A-20A 14 Aristotele Fisica, II, iv-vi 21 Etica nicomachea, III, i 27 Lucrezio Sulla natura delle cose, II, 218-91 31 Sesto Empirico Schizzi pirroniani, I (selezioni) 34 Renato Cartesio Meditazioni metafisiche, I, II e conclusione di VI 38 Cartesio e Hobbes Obiezioni e Risposte, III, ult. 55 John Locke Saggio, II, xxvii 56 George Berkeley Dialoghi tra Hylas e Philonous, I init. 75 Princìpi della conoscenza umana, 1-16 80 Joseph Butler Dissertazione sull’identità personale 87 David Hume Trattato, I, 4, vi 93 Ricerche, I, 2 103 G.E. Moore ‘Dimostrazione di un mondo esterno’ (parti) 108 D. Wooldridge Il comportamento dello Sphex ichneumoneus 114 Robert Nozick Anarchia, stato e utopia, cap 3 §6 115 Thomas Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello’ 118

Sinossi dei film P. Verhoeven Atto di forza 133 S. Jonze Essere John Malkovich 137 Fratelli Wachowski Matrix 139

Letture autonome Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti 145 Suggerimenti di lettura

Strumenti di consultazione 148 Introduzioni alla filosofia 149 ‘Parafilosofia’ 149

Prontuario per la stesura di una tesina 151

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Introduzione

3

Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti

(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi)

Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con:

(i) i capitoli 3 e 5 di R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 (pp. 139-

200 e 239-308)

(ii) R. Casati e A Varzi, Le semplicità insormontabili, Laterza, Milano, 2004; e

(iii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 9-132

Le letture di (i) e di (ii) forniscono un vocabolario e una gamma di esempi che fungono da

sfondo per inquadrare i testi in (iii). Perciò nessuna delle letture da sola o in combinazione

con solo una delle altre costituisce preparazione adeguata all’esame.

(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)

Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo,

inclusa la visione di tutti e tre i film del modulo (o in aula o privatamente). L’esame orale

verterà sugli argomenti discussi in aula in connessione con i film e i testi di cui sopra

(‘Obblighi comuni’).

In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre

modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.

La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in

una scelta di tre domande delle sei proposte per quanto riguarda il contenuto delle lezioni; in

più, c’è una domanda specificamente sui temi trattati nel seminario tenuto dalla Dott.ssa

Manzoni. (le Meditazioni di Cartesio).

La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una

tesina in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di

una tesina’, pp.151-7). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i non-

frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp.145-7) o proporre un percorso personale

inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo

sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti

universitari (CFU).

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Introduzione

4

(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)

I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno

degli approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 145-7). Per la

preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione

orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.

Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono

elaborare una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario

per la stesura di una tesina’ pp. 151-7) o su uno degli argomenti proposti o proponendo un

percorso personale inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato

previo accordo sulle letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti

formativi universitari (CFU)

L’approccio alla filosofia attraverso il cinema

Da diversi anni nel mondo anglofono si è consolidata la prassi di insegnare la filosofia

attraverso la visione e il commento di film, facendo riferimento principalmente al cinema

popolare1. Per quanto se ne sappia, in Italia questo approccio è tutt’ora agli albori; perciò il

presente corso si configura come in qualche modo sperimentale, con tutti i rischi annessi e

connessi.

È luogo comune che in questi decenni stiamo assistendo ad un cambiamento nel sistema

delle comunicazioni paragonabile (i) alla transizione da una cultura orale a quella della

scrittura contro cui Platone faceva azione di retroguardia nel quarto secolo avanti Cristo2; e

(ii) alla rivoluzione iniziata dal perfezionamento tecnologico della stampa mobile a metà del

1400 ad opera di Johannes Gutenberg ed altri. Il luogo comune vuole, più specificamente, che

oggi la cultura del libro sta cedendo terreno davanti al progresso di una cultura dell’immagine

– della televisione e della multimedialità computerizzata - e, quindi, che ‘non si legge più’.

Come in tutti i luoghi comuni, c’è del vero e del falso in questa diagnosi. Ma non ci

1 Tra i testi consultati si possono segnalare: Mary M. Litch, Philosophy through film, Routledge, Londra, 2002; William Irwin (a cura di) The Matrix and philosophy, Open Court, Chicago, 2002; Christopher Falzon, Philosophy goes to the movies, Routledge, Londra, 2002; Mark Rowlands, The philosopher at the end of the

universe, Random House, New York, 2003. Per il momento, non sembra esserci un libro simile in italiano. 2 Si veda in proposito i capp. III e IV di G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano, 1997.

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Introduzione

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proponiamo di approfondire la questione in questa sede perché il nostro scopo nel citarla è

primariamente quello di metterla da parte. Anche se fosse vero che oggi il cinema fornisce

una cultura comune così come la letteratura costituiva un punto di riferimento condiviso

nell’800 (entrambe affermazioni discutibilissime), un tale fatto sarebbe stato del tutto

irrilevante nella scelta di affrontare la filosofia utilizzando alcuni film di successo degli ultimi

anni. Vale a dire, non è perché questi testi filmici sono già largamente conosciuti, soprattutto

tra i giovani, che li abbiamo adottati; è quasi nonostante la loro popolarità che li

commentiamo come contributo alla comprensione di alcuni ricorrenti problemi filosofici.

Dopotutto, nello stesso modo in cui si rovina una barzelletta se la si deve spiegare, anche la

visione di un bel film può essere guastata dalla pedanteria profusa nei suoi confronti.

In chiave più positiva, possiamo sperare in qualche buon esito alla nostra impresa

constatando un tratto cospicuo della filosofia e uno altrettanto ovvio del cinema.

Il fatto riguardo alla filosofia è che troppo di frequente, in Italia ma non solo, essa viene

vista come una disciplina astratta e eccessivamente preoccupata delle parole. Ed è vero che i

filosofi professionisti si cimentano non poco su princìpi generalissimi, ma di difficile

applicabilità, ed espressi in un linguaggio oscuro - e spesso inventato - tale da escludere o

intimidire i non-addetti ai lavori. La conseguenza più evidente di questo fatto è che la

didattica della filosofia facilmente si riduce o alla divulgazione poco precisa o alla ripetizione

di slogan mal compresi (o ad una malsana miscela di entrambe le cose). In questo senso, gli

esempi concreti forniti dall’azione dei film servono da antidoto all’astrazione e al nozionismo.

Ovviamente lo stesso può dirsi della letteratura; e molti filosofi si servono di essa in modo più

o meno sistematico per dare sostanza ai loro discorsi. In questa direzione, i racconti nel

volume Casati-Varzi - anche se non presentati come ‘letteratura’ - fungono da serbatoio di

casi esemplari.

D’altro canto, il fatto riguardo al cinema si può esprimere in modo sintetico dicendo che,

come medium, esso è poco esplicito, almeno nel senso che non descrive ciò che mostra: lo

mostra e lascia a noi descriverlo. Questo significa che le descrizioni che diamo dell’azione dei

film sono spesso intrise dei nostri presupposti più o meno filosofici, che possono poi

diventare oggetti di indagine filosofica. In qualche misura, il fatto che si possa guardare un

film, come quelli scelti per i nostri scopi, senza porsi esplicitamente domande filosofiche è

confortante: implica almeno che i film stessi si presentano in un certo modo ‘innocenti’ dei

quesiti più teorici, e che ci permettono di formulare la nostra interpretazione in modo

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Introduzione

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relativamente libero. Le questione che verranno ventilate a lezione non potranno mai esaurire

i problemi che possono sorgere dalle vicende narrate da un film come Matrix; e le sinossi

fornite in questa dispensa si presentano in prevalenza come un modo di riferirsi allo

svolgimento dell’azione attraverso un conteggio dei minuti trascorsi.

Durante le lezioni, avremo occasione di riflettere più approfonditamente sull’opportunità di

ripetere, e sulle eventuali modalità di raffinare, l’esperimento di quest’anno.

Programma delle lezioni

N° lezione

Argomento trattato Testo di riferimento

Disp. pp.

1 Materiali e modalità del corso

- perché ‘filosofia attraverso il cinema’?

2 Il riempimento dei sensi: un’antropologia ‘naturalizzata’

– la distinzione tra impressioni e idee

Hume, Ricerche, I, 2

93-102

3 Visione del film Matrix (Sinossi del film) 139-44

4 Rassegna dei temi del film: livelli narrativi e livelli di realtà

(Sinossi del film) 139-44

5 L’esperienza e i suoi simulacri: memoria, aspettativa e fantasia

– l’“immagine immagine” e i suoi inganni

6 La relatività dei sensi: i tropi scettici e la sconfitta delle certezze

Sesto, Schizzi, I, x-xiii

34-7

7 Le attrattive del relativismo: schemi concettuali e punti di vista

8 La confutazione del relativismo

– il ‘peso’ degli indizi

Platone, Teeteto, 169-72

9-13

9 Che cosa manipola Neo quando impara a schivare le pallottole?

Platone, Repubblica, VII

14-20

10 Ipotesi cartesiane sulla fallibilità dei sensi (I)

– gli oggetti piccoli e distanti

(–l’intossicazione)

Cartesio, Meditazioni, I

41-2

11 Ipotesi cartesiane sulla fallibilità dei sensi (II)

– il sogno

Cartesio, Meditazioni, I

42-5

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Introduzione

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– il dèmone (=la matrix/ Rekall?)

12 Visione del film Atto di forza (Sinossi del film) 133-5

13 Dobbiamo poter escludere le ipotesi per sapere qualcosa riguardo al mondo esterno?

– una prova del ‘senso comune’

Moore, ‘Dimostrazione’

108-13

14 Può l’esperienza corrispondere alla realtà (I)

– cercare di andare ‘dietro’ le nostre idee

Berkeley, Princìpi,1-13; Dialoghi, I

75-86

15 Può l’esperienza corrispondere alla realtà (II)

– qualità primarie e secondarie

Cartesio, Meditazioni, II

45-52

16 Può l’esperienza corrispondere alla realtà (III)

– il criterio della coerenza vs. la connessione vera

Cartesio, Meditazioni, VI e (con Hobbes) Obj e Resp, III

53-6

17 La scelta di Quaid di aver l’avventura su Marte e quella di Cypher di tornare nella matrix

– perché la realtà dell’esperienza conta

Nozick, Anarchia, Stato e

Utopia, cap. 3, §6

115-7

18 Mettersi alla mercè delle macchine: arrendersi al fatalismo o al determinismo

– programmi che fissano il futuro

– leggi che incatenano gli eventi (il diavolo di Laplace)

Casati e Varzi ‘L’artista da giovane’

19 Causalità cieca e casuale

– perché indeterminatezza non conferisce libertà

Lucrezio, DRN, II, 218-91

31-3

20 Che cos’è la contingenza?

– l’accidentale, il ‘da sé’ e il ‘come se’ per uno scopo

Aristotele, Fisica II iv-vi

21-6

21 Visione del film Essere John Malkovich (Sinossi del film) 137-8

22 Causalità e comportamenti coatti

– il burratino

Wooldridge, Sphex

114

23 Che cosa si compra da JM Inc. per $200?

– ‘accesso’ alle esperienze proprie e a quelle altrui

24 La dimostrazione della propria esistenza e quanto (poco) si dimostra

Cartesio, Med, II; Hume, Trattato, I, 4, vi

45-8, 103-7

25 L’irriducibilità del punto di vista

– la vita interiore di Elijah

Nagel, ‘Che effetto fa’

118-32

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Introduzione

8

26 Sopravvivenza e responsabilità: chi ha il controllo sul corpo di JM?

Casati e Varzi, ‘Amnesia parziale’

27 Continuità psicologica come criterio di identità personale

Locke, Saggio, II, xxvii; Casati e Varzi, ‘Trapianto di persona’

56-74

28 Obiezioni alla teoria lockeiana

– la priorità dell’identità

– la transitività dell’identità

– la non-divisibilità dell’identità

Butler, Dissertazione

87-92

29 Identificare l’agente: le fonti interne della volontarietà

Aristotele, EN, III, i

27-30

30 Sinossi delle tappe percorse

Si prevede che il paper si svolgerà il 17 dicembre, l’ultimo venerdì prima della pausa per Natale. I risultati saranno pubblicati prima del primo appello di gennaio.

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Testi in ordine cronologico

Platone di Atene (427-347 a.C)

Teeteto

Traduzione Gino Giardini

Sottotitoli in grassetto seguendo Giovanni Reale

[Stephanus, vol. I, p. 169d]

(Socrate sta discutendo la natura della scienza e prende in esame la dottrina di Protagora

secondo cui ‘l’uomo è misura di tutte le cose’)

La dottrina di Protagora

SOCRATE: Per prima cosa, dunque, riesaminiamo il problema allo stesso punto di prima e

consideriamo se eravamo malcontenti, a ragione o a torto, biasimando il ragionamento che

presupponeva che ciascuno è autosufficiente a se stesso rispetto alla conoscenza. Ma

Protagora non convenne con noi che quanto alla conoscenza del meglio e del peggio alcuni

si distinguono di gran lunga e questi proprio sono i sapienti. Non è così?

TEODORO: Sì.

SOCRATE: Se dunque egli, essendo presente, ce lo avesse concesso, e non avessimo invece

dovuto ammetterlo noi, prendendo la sua difesa, non ci sarebbe affatto bisogno di

riprendere la questione per renderla consolidata. Ora, forse, qualcuno potrebbe giudicarci

senza diritto di fare questa ammissione in vece sua. Per questo motivo è cosa migliore

concordare in maniera più chiara su questo stesso problema. Infatti non è che cambi poco

se a cosa sta così o in maniera diversa.

TEODORO: È vero.

SOCRATE: Dunque [pag. 170] non con il concorso di altri, ma del suo ragionamento, nel

modo più breve, cerchiamo di comprendere quello che è il suo assenso.

TEODORO: Come?

SOCRATE: Così: dice egli che quel che pare a ciascuno questo anche è per colui al quale

pare?

TEODORO: Lo dice, sì.

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Platone, Teeteto

10

L’apparente esclusione dell’opinione falsa

SOCRATE: E dunque, Protagora, anche noi manifestiamo il pensiero di un uomo, o meglio di

tutti gli uomini, quando affermiamo che per certe questioni non c’è nessuno che non

consideri se stesso più sapiente degli altri, per altre questioni invece non stimi gli altri

migliori di sé, e che in mezzo a grandissimi pericoli, come quando sono esposti a guerre e

malattie, al mare in tempesta, come a degli dèi si tengono vicini a quelli che in ciascuna di

queste circostanze hanno il potere, perché sembrano loro dei salvatori, mentre non sono

diversi in altro da loro, se non per il sapere. E ogni condizione umana è piena di persone

alla ricerca dei maestri e comandanti o per sé o per altri esseri viventi, o per iniziative che

intendono compiere, ma lo è di individui che ritengono di essere capaci di insegnare e di

esserlo altrettanto a comandare. E in questi atteggiamenti cosa diremo, se non che gli stessi

uomini pensano che esista, in loro, sapienza e ignoranza?

TEODORO: Niente altro.

SOCRATE: Gli uomini dunque non considerano la sapienza vero pensiero e l’ignoranza

opinione falsa?

TEODORO: Ebbene?

Può Protagora contraddire qualcuno che lo contraddice?

SOCRATE: Dunque, Protagora, che ne faremo del tuo ragionamento? Diciamo dunque che gli

uomini nutrono talvolta opinioni vere e talvolta opinioni false? Da ambedue le ipotesi ne

viene che non sempre gli uomini nutrono opinioni vere, ma vere e false. Considera infatti

tu stesso, Teodoro, se qualcuno dei seguaci di Protagora, o tu stesso, volessi affermare con

forza che nessuno considera un altro ignorante e nutre pure false opinioni?

TEODORO: Ma è incredibile, Socrate.

SOCRATE: Ma giunge a tal punto di necessità chi sostiene che l’uomo è misura di tutte le

cose.

TEODORO: E come?

SOCRATE: Ma quando tu dai un giudizio di per te stesso su una cosa, e poi manifesti a me su

quella stessa cosa il tuo parere, questo per te, secondo il ragionamento di Protagora, sarà

vero, ma per noi e tutti gli altri non è forse possibile divenire giudici, o dobbiamo sempre

giudicare che tu hai opinioni vere? Oppure sono una infinità gli uomini che ogni volta si

contrastano pensandola all’opposto, ritenendo che tu giudichi e pensi il falso.

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Platone, Teeteto

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TEODORO: Ma, per Zeus, Socrate, sono ‘migliaia di migliaia’ gli uomini, come dice Omero,

che mi cagionano ogni sorta di difficoltà.

SOCRATE: E dunque, vuoi che diciamo che allora tu per te stesso, hai opinioni vere, ma false

per tutte queste migliaia di uomini?

TEODORO: Pare sia necessario a seguito di questo ragionamento.

SOCRATE: E cosa ne è per Protagora in persona? Se neppure Protagora avesse mai creduto

che l’uomo è misura di tutte le cose, né la maggioranza degli uomini, come del resto non la

pensano neppure, non sarebbe forse necessario che quella “verità” [pag. 171] che egli

delineò non esistesse per nessuno? Se invece egli la credette realmente, ma la maggioranza

degli uomini non la crede, sai bene che quanto più numerosi sono quelli a cui pare rispetto

a quelli cui non pare, tanto più che essa non è rispetto a quelìa che è.

TEODORO: È giocoforza se essa sarà a seconda di ciascuna opinione o non sarà.

La verità per il relativista della tesi anti-relativista

SOCRATE: C’è poi questo secondo punto che è ancor più simpatico: egli, Protagora, rispetto

alla sua opinione siccome ammette come vere anche tutte quelle che pensano gli uomini,

riconosce che sia vera l’opinione di quelli che la pensano in modo opposto al suo e per il

quale pensano che egli abbia affermato il falso.

TEODORO: Proprio così.

SOCRATE: E non concederà dunque che sia falsa la propria opinione, dal momento che

riconosce come vera quella di coloro che pensano che egli abbia sostenuto il falso?

TEODORO: Necessariamente.

SOCRATE: Ma questi altri non ammettono certo con se stessi di nutrire false opinioni.

TEODORO: Certamente no.

SOCRATE: Egli invece Protagora dal canto suo riconosce che sia vera anche questa opinione

in conseguenza di ciò che ha scritto.

TEODORO: Pare.

SOCRATE: Cominciando da tutti questi, dunque, fin dallo stesso Protagora, ci sarà un

dilemma: ancora più quando egli ammette, che chi va predicando il contrario di lui, questo

può nutrire una opinione vera, allora lo stesso Protagora dovrà concedere che né un cane,

né il primo uomo che capita, sia misura neppure di una sola cosa che non abbia imparato.

Non è così?

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Platone, Teeteto

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TEODORO: È così.

SOCRATE: Dunque, siccome ci si trova a dubitare da parte di tutti, per nessuno la verità di

Protagora può essere vera, né per alcun altro, né per lui stesso.

TEODORO: Socrate, noi incalziamo anche troppo l’amico mio.

Conseguenze etico-politiche della dottrina di Protagora

SOCRATE: Forse, mio caro, ma non è chiaro se lo incalziamo correttamente. è probabile

però, che lui, dato che è più vecchio, sia anche più saggio di noi. E se di qui,

all’improvviso, balzasse fuori fino al collo, è molto probabile che molte cose avrebbe da

dire contro di me che vado disseminando frottole e contro di te che le accetti, poi,

calandosi giù di nuovo, se ne andrebbe via a gambe levate. Ma per noi, è necessario, io

penso, servirci di noi stessi, così come siamo e ribattere il nostro modo di pensare, sempre

alla stessa maniera. E, anche ora, cos’altro possiamo dire che chiunque riconosce questo,

cioè che uno è più sapiente di un altro, e un altro più ignorante?

TEODORO: A me pare così.

SOCRATE: E possiamo affermare anche che il ragionamento poggia soprattutto su questo

punto che noi abbozzammo, correndo in aiuto a Protagora, che la maggior parte delle cose,

le calde, le aride, le dolci e tutte le altre di questa sorta, quali sembrano, tali sono anche per

ciascuno. Ma se poi si conviene che in certe cose vi è una certa qual differenza tra l’una e

l’altra, come quello che è salutare e nocivo al nostro corpo, Protagora dovrà pur concedere

che non ogni donnetta, o ragazzotto, o animale sono in grado di curare se stessi,

conoscendo bene ciò che è giovevole alla loro salute, ma proprio in queste faccende, se

pure in altre mai, c’è differenza tra l’uno e l’altro.

TEODORO: A me pare così. [pag. 172]

SOCRATE: Parimenti nella sfera politica il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il santo e il

non santo, sono quali in ogni città, pensando che siano, pone nelle proprie leggi a suo

beneficio; ed in queste nessuno è più sapiente di un altro, né privato cittadino di cittadino,

né città di città. Ma nel porre una città provvedimenti di legge utili o non utili, in questo

caso Protagora, se in altri mai, concederà ancora una volta che esiste diversità tra

consigliere e consigliere, tra una città e l’altra nella loro valutazione del vero e non avrà

certo il coraggio di sostenere che quei provvedimenti che una città vara, ritenendoli utili a

sé, questi lo dovranno essere a tutti i costi. Ma a proposito di quello di cui parlavo, del

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Platone, Teeteto

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giusto e dell’ingiusto, del santo e del non santo, chi segue Protagora si ostina ad affermare

che non c’è in natura nessuna di queste cose che abbia una sua essenza, ma che la

valutazione che si dà in comune diventa essa appunto vera, proprio allora mentre pare

valida e per tutto il tempo in cui lo pare. E quanti non abbiano in maniera assoluta il

ragionamento di Protagora, orientano la propria sapienza un presso a poco così. Ma da un

ragionamento, Teodoro, ci sopravviene un altro ragionamento e, da uno più piccolo, un

altro più grande.

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Platone di Atene (427-347 a.C)

Repubblica, libro VII

Traduzione Giovanni Caccia

Sottotitoli in grassetto seguendo Giovanni Reale

[Stephanus vol II, p. 514]

(Socrate, che narra il dialogo sta discutendo con Glaucone la natura dell’educazione adatta ai

guardiani [i ‘filosofi re’] della città)

La condizione dei prigionieri nella caverna rappresenta la conoscenza delle realtà

sensibili

‘Ora’, seguitai, ‘paragona la nostra natura, per quanto concerne l’educazione e la mancanza

di educazione, a un caso di questo genere. Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna

sotterranea, che abbia l’ingresso aperto alla luce per tutta lalunghezza dell’antro; essi vi

stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare

solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana,

brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale

immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i paraventi sopra i quali i burattinai,

celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli’.

‘Li vedo’, disse.

‘Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d’ogni genere

sporgenti dal margine, e statue [p. 515] e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse

fogge; alcuni portatori, com’è naturale, parlano, altri tacciono’.

‘Che strana visione’, esclamò, ‘e che strani prigionieri!’.

‘Simili a noi’, replicai: ‘innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e dei

compagni qualcos’altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a

loro?’

‘E come potrebbero’, rispose, ‘se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo

immobile?’

‘E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?’

‘Sicuro!’.

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Platone, Repubblica

15

‘Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che

vedono?’

‘È inevitabile’.

‘E se nel carcere ci fosse anche un’eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che

uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole

all’ombra che passa?’

‘Certo, per Zeus!’.

‘Allora’, aggiunsi, ‘per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli

oggetti’.

‘È del tutto inevitabile’, disse.

La conversione verso la luce e la visione delle realtà intelligibili

‘Considera dunque’, ripresi, ‘come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e

dall’ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero

venisse liberato e costretto d’un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso

la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l’abbaglio fosse incapace di scorgere quelle cose di

cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva

vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo

sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che

passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos’è? Non credi che si

troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono

mostrate adesso?’

‘E di molto!’, esclamò.

‘E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non

fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente

più chiari di quelli che gli vengono mostrati?’

‘È così’, rispose.

‘E se qualcuno’, proseguii, ‘lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo

lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere

trascinato [p. 516], e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non

potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?’

‘No, non potrebbe, almeno tutto a un tratto’, rispose.

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Platone, Repubblica

16

La visione del mondo fuori della caverna culmina nella contemplazione del Sole

‘Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo.

Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e

degli altri oggetti riflesse nell’acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe più facile

osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno il

sole e la luce solare’.

‘Come no? ‘

‘Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa nell’acqua o

in una superficie non propria, ma così com’è nella sua realtà e nella sua sede’.

‘Per forza’, disse.

‘In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare tutto

quanto è nel mondo visibile, e he in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri

vedevano’.

‘È chiaro’, disse, ‘che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni’.

‘E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei

vecchi compagni di prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di condizione e

non avrebbe compassione di loro?’

‘Certamente’.

‘E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più acutamente

gli oggetti che passavano e si ricordasse meglio quali di loro erano soliti venire per primi,

quali

per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse con la più grande abilità quello che

stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e invidierebbe chi tra loro fosse

onorato e potente, o si troverebbe nella condizione descritta da Omero e vorrebbe

ardentemente “lavorare a salario per un altro, pur senza risorse” e patire qualsiasi sofferenza

piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere in quel modo?’

‘Io penso’, rispose, ‘che accetterebbe di patire ogni genere di sofferenze piuttosto che

vivere in quel modo’.

‘E considera anche questo’, aggiunsi: ‘se quell’uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo

posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all’improvviso dal sole?’

‘Certamente’, rispose.

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Platone, Repubblica

17

‘E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre

prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, [p. 517] e gli occorresse

non poco tempo per riacquistare l’abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che

torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a

salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo

tra le mani e ucciderlo?’

‘E come!’, esclamò.

Il significato complessivo del mito: l’Idea del Bene è principio ontologico, epistemologico

e normativo

‘Questa similitudine’, proseguii, ‘caro Glaucone, dev’essere interamente applicata a quanto

detto prima: il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere,

la luce del fuoco che qui risplende all’azione del sole; se poi consideri la salita e la

contemplazione delle realtà superiori come l’ascesa dell’anima verso il mondo intellegibile

non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri conoscerla. Lo saprà un

dio se essa è vera. Questo è dunque il mio parere: l’idea del bene è il limite estremo del

mondo intellegibile e si discerne a fatica, ma quando la si è vista bisogna dedurre che essa è

per tutti causa di tutto ciò che è giusto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il suo

signore, in quello intelligibile essa stessa, da sovrana, elargisce verità e intelletto, e chi vuole

avere una condotta saggia sia in privato sia in pubblico deve contemplare questa idea’.

‘Sono d’accordo con te’, disse, ‘nei limiti delle mie facoltà’.

‘Allora’, continuai, ‘condividi anche questo punto e non meravigliarti che chi è giunto fin

qui non voglia occuparsi delle faccende umane, ma la sua anima tenda sempre a dimorare in

alto; ciò è ragionevole, se la similitudine fatta prima è ancora valida’.

‘Sì, è ragionevole’, disse.

Il disagio del filosofo nella vita politica, spiegato alla luce del mito della caverna

‘Ebbene, credi che ci sia qualcosa di strano se uno, passando dagli spettacoli divini alle

cose umane, fa delle brutte figure e appare del tutto ridicolo, in quanto si muove a tentoni e

prima di essersi ben abituato all’oscurità di quaggiù è costretto a difendersi nei tribunali o

altrove dalle ombre della giustizia o dalle immagini che queste ombre proiettano, e a

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Platone, Repubblica

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contestare il modo in cui esse sono interpretate da coloro che non hanno mai veduto la

giustizia in sé?’

‘No, non è affatto strano’, rispose. [p. 518]

‘Ma una persona assennata’, ripresi, ‘si ricorderebbe che i disturbi agli occhi sono di due

tipi e duplice è la loro causa: il passaggio dalla luce all’oscurità e dall’oscurità alla luce.

Considerando che la stessa cosa accade all’anima, qualora ne vedesse una turbata e incapace

di vedere non riderebbe sconsideratamente, ma esaminerebbe se è ottenebrata dalla mancanza

d’abitudine perché proviene da una vita più luminosa, o è rimasta abbagliata da una luce più

splendida perché procede verso una vita più luminosa da una maggiore ignoranza, e allora

stimerebbe felice l’una per ciò che prova e per la vita che conduce, e avrebbe compassione

dell’altra; e quand’anche volesse ridere di questa, il suo riso riuscirebbe meno inopportuno

che se fosse riservato all’anima proveniente dall’alto, alla luce’.

‘Hai proprio ragione!’, esclamò.

L’educazione della intelligenza è una conversione all’Idea del Bene

‘Se questo è vero’, dissi, ‘dobbiamo concludere che l’educazione non è come la

definiscono certuni che si professano filosofi. Essi sostengono di instillare la scienza

nell’anima che non la possiede, quasi infondessero la vista in occhi che non vedono’.

‘In effetti sostengono questo’, confermò.

‘Ma il discorso attuale’, insistetti, ‘rivela che questa facoltà insita nell’anima di ciascuno e

l’organo che permette di apprendere devono essere distolti dal divenire assieme a tutta

l’anima, così come l’occhio non può volgersi dalla tenebra alla luce se non assieme all’intero

corpo, finché non risultino capaci di reggere alla contemplazione dell’essere e della sua parte

più splendente; questo, secondo noi, è il bene. O no?’

‘Sì’.

‘Può quindi esistere’, proseguii, ‘un’arte della conversione, che insegni il modo più facile

ed efficace di girare quell’organo. Non si tratta di infondervi la vista, bensì, presupponendo

che l’abbia, ma che non sia rivolto nella giusta direzione e non guardi là dove dovrebbe, di

adoperarsi per orientarlo da questa parte’.

‘Pare di sì’, disse.

‘Pertanto le altre cosiddette virtù dell’anima sono probabilmente vicine a quelle del corpo:

in effetti, se all’inizio mancano, è facile che poi vengano infuse con l’abitudine e l’esercizio.

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Platone, Repubblica

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Invece la virtù dell’intelletto, a quanto pare, riguarda più d’ogni altra un qualcosa di più

divino, che non perde mai il suo potere e per effetto della conversione diventa utile e

giovevole [p. 519] o viceversa inutile e dannoso. Non hai ancora notato come l’animuccia di

quelli che sono considerati malvagi, ma in gamba, abbia uno sguardo penetrante e discerna

con acutezza ciò a cui si rivolge, poiché la sua vista non è scarsa, ma è costretta a servire la

malvagità, al punto che quanto più acutamente vede, tanto maggiori sono i mali che produce?’

‘Proprio così’, rispose.

‘Tuttavia’, aggiunsi, ‘se a una natura simile fossero amputati sin dall’infanzia quella sorta

di pesi di piombo congeniti al divenire, che si attaccano a lei con i cibi, i piaceri della gola e le

leccornie e torcono la vista dell’anima verso il basso; se, liberatasi di essi, si convertisse alla

verità, la stessa natura di queste persone vedrebbe la realtà con la massima acutezza, come

vede ciò cui ora è rivolta’.

‘È logico’, disse.

Il filosofo deve tornare nella caverna per aiutare gli altri a liberarsi

‘E allora’, domandai, ‘non è una conseguenza 1ogica, anzi inevitabile delle nostre

premesse, che né gli uomini incolti e ignari della verità, né quelli cui viene permesso di

passare tutta la loro vita nello studio potranno mai governare una città in modo adeguato, gli

uni perché non hanno nella vita un unico scopo cui deve mirare ogni loro azione privata e

pubblica, gli altri perché non lo faranno di loro volontà, ritenendo di essersi trasferiti ancora

vivi nelle Isole dei beati?’

‘Vero’, rispose.

‘Il nostro compito di fondatori’, continuai, ‘è dunque quello di costringere le migliori

nature ad apprendere ciò che prima abbiamo definito la cosa più importante, cioè vedere il

bene e compiere quell’ascesa, e di non permettere loro, una volta che siano salite e abbiano

visto a sufficienza, ciò che ora è concesso’.

‘Che cosa?’

‘Di rimanere là’, risposi, ‘e non voler ridiscendere tra quei prigionieri e partecipare alle loro

fatiche e ai loro onori, che siano più o meno seri’.

‘Allora’, chiese, ‘useremo loro ingiustizia e li faremo vivere peggio, quando hanno la

possibilità di vivere meglio?’

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Platone, Repubblica

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‘Ti sei dimenticato di nuovo, mio caro’, replicai, ‘che la legge non si prefigge l’obiettivo di

procurare un particolare benessere a una sola classe della città, ma si adopera perché ciò si

verifichi nella città intera, armonizzando i cittadini con la persuasione e la costrizione e

obbligandoli a mettere in comune [p. 520] tra loro l’utile che ciascuno è in grado di fornire

alla collettività; la legge stessa forgia cittadini simili non per lasciarli liberi di volgersi dove

ciascuno vuole, ma per creare tramite loro il vincolo che tenga la città unita’.

‘È vero’, ammise: ‘me n’ero dimenticato’.

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Fisica II

Traduzione Antonio Russo

[Bekker pagina 195b]

Capitolo 4.

Si suol dire che sono cause anche la fortuna e il caso1, e che molte cose sono e divengono

mediante la fortuna e il caso. Bisogna, perciò, esaminare in che senso, fra le cause su

indicate2, siano la fortuna e il caso, e se la fortuna e il caso siano la stessa cosa o cose diverse,

e, insomma, che cosa sia la fortuna, che cosa il caso.

Alcuni3, infatti, dubitano anche dell’esistenza di queste cose e dicono che nulla deriva

dalla fortuna, ma che di ogni cosa che noi diciamo derivar dalla fortuna o dal caso, [pag.

196a] esiste qualche causa determinata: ad esempio, dell’andar fortuitamente in piazza e

dell’incontrar chi si voleva, ma non si supponeva di incontrare, è causa il voler andare in

piazza per affari; parimenti anche a proposito delle altre cose che si dicono dovute alla

fortuna, bisogna sempre prendere come causa qualcosa di determinato, ma non la fortuna:

ché se la fortuna fosse qualcosa, sembrerebbe davvero assurdo e inspiegabile perché mai

nessuno degli antichi sapienti, accennando alle cause della generazione e della corruzione,

non abbia dato alcuna definizione della fortuna; anzi, come sembra, essi non reputavano

affatto che alcuna cosa derivi dalla fortuna.

Ma anche questo ci stupisce: difatti accadono e sono per fortuna e per caso molte cose

che tutti, pur non ignorando che bisogna riportarle singolarmente a qualcuna delle cause da

1 Questi capitoli costituiscono una riflessione che parte da due parole greche, tuche e to automaton per cui non ci sono corrispettivi esatti in italiano. La prima porta un significato valutativo in positivo o negativo (forse come ‘sorte’, che deve essere o buona o cattiva); mentre la seconda ha la valenza di ciò che accade senza un’unica causa individuabile. (nota di Davies). 2 Nei capitoli precedenti, Aristotele distingue i diversi modi in cui si spiegano i fenomeni naturali. La scolastica medievale ha adottato le etichette per ‘le quattro cause’: ‘efficiente’, ‘materiale’, ‘formale’ e ‘finale’; ma non è il caso usare le etichette senza capire a cosa si riferiscono (nota di Davies). 3 Forse Aristotele si riferisce alla dottrina degli atomisti greci, i precursori di Epicuro e Lucrezio, che, a differenza di loro, non contemplavano la deriva atomica di cui parla il brano portato dal Sulla natura delle cose più sotto (nota di Davies).

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Aristotele, Fisica

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noi riscontrate (proprio come diceva il vecchio ragionamento che toglieva di mezzo la

fortuna), tuttavia affermano che alcune di esse sono per fortuna, altre non per fortuna.

Perciò, anche se in una maniera qualunque, gli antichi avrebbero dovuto farne cenno. Ma

essi stimavano che la fortuna non fosse neppure qualcuna di queste altre cose, quali, ad

esempio, l’amicizia o l’odio o la mente o il fuoco o altro di tal genere. E’ strano, intanto, che

essi o non abbiano supposto che la fortuna sia o, pur credendo nella sua esistenza, non ne

abbiano parlato, quantunque se ne servano talvolta, come fa Empedocle, il quale afferma che

l’aria sta, ben distinta, nel luogo più alto, però non sempre, ma secondo che càpiti. Egli dice,

pertanto, nella sua Cosmogonia: ‘Talora essa corre in tal modo, ma spesso corre anche

altrimenti’, e sostiene che, per lo più, le parti degli animali si generano fortuitamente.

Vi sono alcuni4, al contrario, che considerano il caso come causa di questo cielo e di

tutti i mondi: ché dal caso deriverebbero il vortice e il movimento che separa e dispone il

tutto secondo quest’ordine. E proprio questo è stranissimo: difatti, da una parte essi dicono

che gli animali e le piante né sono né nascono fortuitamente, ma che la natura o la mente o

qualche altra cosa di tal genere ne è la causa (infatti dal seme particolare non nasce ciò che

capita a caso, ma da questo seme qui un olivo, da quest’altro qui un uomo), dall’altra parte,

invece, sostengono che il cielo e i fenomeni più divini derivano dal caso e che non hanno

alcuna causa che si possa ritenere della stessa sorta di quella che genera gli animali e le

piante. Eppure, se. è così, questo proprio merita attenzione ed è bene che se ne discuta un

poco. [pag. 196b] Questa teoria, infatti, oltre ad essere assurda anche per altre ragioni, è

ancora più assurda perché noi osserviamo che nel cielo nulla avviene per caso, mentre nelle

cose che, secondo loro, non avvengono fortuitamente, molte ne capitano accidentalmente

per fortuna: eppure, evidentemente, si sarebbe dovuto riscontrare appunto il contrario!

Vi sono, inoltre, alcuni5 ai quali pare che la fortuna sia una causa, ma che si celi al

pensiero umano, perché è qualcosa di divino e di troppo demoniaco.

Sicché bisogna esaminare che cosa siano ciascuno in particolare il caso e la fortuna, e se si

identifichino o siano diversi, e in che senso vengano a trovarsi tra le cause già da noi

determinate.

4 L’atomista Democrito di Abdera (nota di Davies) 5 Forse Anassagora o Platone; ma non è escluso che il riferimento sia alla ‘credulità popolare’ (nota di Davies)

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Aristotele, Fisica

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Capitolo 5.

Anzitutto, ora, poiché vediamo che alcune cose avvengono sempre allo stesso modo e altre

per lo più, è chiaro che di nessuno di questi due gruppi di cose, ossia né di ciò che avviene

per necessità e sempre, né di ciò che avviene per lo più, si può affermare che siano causa la

fortuna o il fortuito. Ma poiché, oltre a questi, si verificano anche altri accadimenti e tutti

dicono che essi sono fortuiti, è ovvio che la fortuna e il caso sono pur qualche cosa: difatti,

noi sappiamo che le cose di tal genere sono per fortuna, e che tali cose fortuite sono appunto

di tal genere.

Orbene: degli accadimenti alcuni avvengono per una causa finale, altri no (e tra i primi

alcuni per scelta, altri non per scelta, quantunque entrambi siano tra quelli che avvengono in

virtù di una causa finale), sicché è evidente che, fra quelli che si verificano non per

necessità né per lo più, ve ne sono alcuni a proposito dei quali si ammette la presenza della

causa finale. E sono in virtù di quest’ultima tutte le cose prodotte dal pensiero o dalla

natura. Quando, però tali accadimenti si verificano per accidente, noi diciamo che sono per

fortuna (come, infatti, non solo ciò che è di per sé, ma anche ciò che è per accidente è pur

bene una cosa che esiste, così anche si può affermare a proposito della causa: ad esempio, di

una casa è causa di per sé il costruttore, ma per accidente il bianco o il musico; e la causa-

di-per-sé è determinata, quella che è per accidente è indeterminata, giacché infinite cose

possono capitare ad una sola).

Pertanto, come si disse, quando nelle cose che avvengono secondo una causa finale, si

verifichi un fatto accidentale, allora si dice che ciò avviene per caso o per fortuna (la

differenza, però, fra queste due cose si determinerà in appresso; ora, invece, sia chiaro

questo: che entrambe si inseriscono in ciò che ha una causa finale); ad esempio: un tale

sarebbe potuto andare in un dato luogo per riscuotere del denaro, magari da parte di un suo

debitore, sol che lo avesse saputo; in realtà, però, vi è andato, ma non con questo preciso

fine, bensì gli è capitato di andare e di raggiungere, così facendo, il suo fine, ossia la

riscossione del danaro; e ciò gli è capitato non perché egli sia solito frequentare quel luogo

per lo più o per necessità: [pag. 197a] il fine, cioè il rimborso del denaro, non fa parte delle

cause di per sé, ma di quelle che provengono dalla scelta e dal pensiero: in tal caso si dice

che ci è andato per fortuna; se, invece, egli ci fosse andato premeditatamente e per quello

scopo, sia che frequentasse quel luogo sempre sia che per lo più egli stesse lì a riscuoter

danaro, il fatto non sarebbe accaduto fortuitamente.

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Aristotele, Fisica

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È chiaro, dunque, che la fortuna è una causa accidentale nelle cose che avvengono per

scelta in vista di un fine. Perciò si riferiscono allo stesso oggetto il pensiero e la fortuna,

giacché la scelta non si fa senza pensarci su.

Necessariamente, quindi, sono indeterminate le cause da cui potrebbe derivare il

fortuito. Onde, da una parte sembra che la fortuna partecipi dell’indeterminato e sia

impenetrabile all’uomo, dall’altra è anche possibile che nulla sembri avvenire per fortuna. E

tutte e due queste cose si dicono giustamente, perché in conformità con la ragione. È

possibile, invero, che avvengano per fortuna, giacché avvengono per accidente, e la fortuna

è causa accidentale; ma in senso assoluto la fortuna è causa di nulla. Così, ad esempio, la

causa di una casa è il costruttore, ma per accidente può esserlo il flautista, e per chi si è

recato in piazza pur senza l’intenzione di riscuotere danaro, le cause della riscossione sono

di numero infinito, ad esempio la voglia di vedere un tale o di accusare o di difendersi o

anche di stare lì a guardare.

Anche l’affermazione secondo cui la fortuna è qualcosa d’irrazionale è esatta. Difatti, la

ragione è propria delle cose che sono sempre o per lo più, mentre la fortuna rientra nelle

cose che non si inquadrano in quelle. Onde, poiché le cause in tal senso sono indeterminate,

anche la fortuna è indeterminata. Parimenti, per alcuni casi, ci si potrebbe chiedere se le

cause accidentali possano essere causa della stessa fortuna, come per la salute il vento o il

caldo, e non il taglio dei capelli: ché tra le cause accidentali alcune sono più prossime di

altre.

La fortuna, poi, si dice buona, quando ce ne viene qualcosa di buono; cattiva, quando

qualcosa di cattivo; e si parla di prosperità o di sfortuna quando il buono o il cattivo hanno

una certa importanza; perciò anche il ricever ‘quasi quasi’ un gran bene o un gran male è

come prosperare o essere sfortunato, perché il pensiero vi si sofferma come su di una cosa

reale. Infatti, ciò che è ‘quasi quasi’ accaduto, pare realmente accaduto.

Giustamente, inoltre, si dice che la prosperità è incostante: la fortuna stessa è incostante;

infatti non è possibile che alcuna cosa fortuita sia sempre o per lo più.

Dunque, come dicevamo, la fortuna e il caso sono entrambi cause accidentali nelle cose

che non possono prodursi né in senso assoluto né per lo più, ma che, comunque, possono

prodursi in vista di un fine.

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Aristotele, Fisica

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Capitolo 6.

Fortuna e caso differiscono, in quanto il caso ha un maggior numero di accezioni. Tutto ciò

che avviene per fortuna, infatti, avviene per caso, ma non tatto ciò che avviene per caso

avviene per fortuna. [pag. 197b]

Infatti, la fortuna (tuche) e il fortuito sono propri di quelle cose cui si potrebbe attribuire

il successo o, comunque, un pratico risultato. Perciò è anche necessario che la fortuna sia

limitata ai fatti pratici (ne è prova il fatto che sembrano essere la medesima cosa, o quasi, la

prosperità e la felicità; e la felicità è un fatto pratico, un ottimo fatto pratico), sicché quanti

non possono agire, non possono neppure far qualcosa di fortuito. E perciò nessun essere

privo di anima, nessuna bestia, nessun fanciullino fa nulla per fortuna, perché non ha la

facoltà della scelta; e per costoro non c’è né prosperità né sfortuna, a meno che non si voglia

parlare per similitudine, come diceva Protarco6: che son fortunate le pietre da cui si cavano

gli altari, perché sono venerate, mentre le loro consorelle vengono calpestate! In realtà

anche queste cose sono, in un certo senso, sottoposte alla fortuna, ma solo quando colui che

fa qualcosa a loro attinente, agisce fortuitamente; in ogni altro senso, però, non le sono

affatto sottoposte.

Il caso (to automaton), invece, si verifica anche per gli altri animali e per molte cose

inanimate: ad esempio, noi diciamo: “la venuta del cavallo è stata un caso”, perché con la

sua venuta quell’animale, magari, si è salvato, senza che egli, però, sia venuto affatto con lo

scopo di salvarsi; e diciamo anche: “il tripode è caduto per caso”: esso, infatti, si trovava lì,

perché ci si sedesse; ma non è caduto affatto per farci sedere!

Da quel che si è detto consegue chiaramente che noi parliamo di caso allorquando - tra

ciò che in senso assoluto pur avviene in vista di un fine - sono venute fuori, senza aver per

fine quello che è accaduto, cose la cui causa finale è esterna ad esse; parliamo, invece, di

fortuna a proposito di quelle cose che, pur comprese fra quelle che avvengono a caso,

possono essere scelte da quelli che hanno facoltà di scegliere.

Ne è prova l’espressione ‘ invano’ (to automaton), la quale si suol pronunciare quando

non si realizza un fine, ma solo ciò che si fa per esso: ad esempio, se si fa una passeggiata

per evacuare e se colui che passeggia non riesce nel suo intento, noi diciamo che egli

‘invano’ ha passeggiato e che la passeggiata è stata ‘ vana ‘, giacché l’espressione ‘ invano ‘

sta proprio ad indicare ciò che è naturalmente disposto verso un fine esterno, ma poi non

6 Un sofista che forse dà il suo nome ad un personaggio nel dialogo platonico Filebo (nota di Davies).

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Aristotele, Fisica

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consegue ciò che era il fine della propria esistenza e della propria disposizione naturale.

Perciò, se un tale dicesse di aver fatto il bagno invano, perché il sole non si è poi eclissato,

direbbe una goffaggine, perché una cosa non aveva per fine l’altra. In tal modo il caso,

anche in conformità con la sua etimologia7, si ha quando una causa si produce invano: ad

esempio, la pietra che cade senza aver lo scopo di colpire, cade per caso, perché altrimenti

sarebbe caduta per opera di qualcuno e con lo scopo di colpire.

Specialmente nella generazione naturale il casuale è ben distinto dal fortuito. Quando,

infatti, si genera qualcosa non secondo natura, allora noi diciamo che esso si è generato non

fortuitamente (tuche), ma a caso (apo automatou). Quantunque vi sia anche questa diversità:

che la causa dell’accadimento casuale è esterna, quella della generazione in quanto tale è

interna.

[pag. 198a] Abbiamo, dunque, determinato che cosa sia la fortuna e che cosa sia il caso

e, anche, in che queste due cose differiscano tra loro. Circa, poi, la causa dei loro modi,

bisogna tener presente che tanto la fortuna quanto il caso rientrano nel novero delle cause

onde è il principio del movimento; sempre, infatti, opera qualcuna o delle cause naturali o di

quelle del pensiero; tuttavia il numero di quelle cause resta indeterminato.

Ma poiché il caso e la fortuna sono causa di accadimenti di cui potrebbero esser causa

l’intelletto o la natura, ed operano quando questi stessi accadimenti si producono secondo

una qualche causa accidentale, e poiché nulla è per accidente prima di essere per sé, è

evidente che neppure la causa accidentale è prima della causa per sé. E allora il caso e la

fortuna sono posteriori alla mente e alla natura. E se pure il caso fosse, per estrema

concessione, la causa del cielo, sarebbe necessario che la mente e la natura fossero, ancor

prima di esso, la causa di tante altre cose e di tutto questo universo.

7 La parola greca è automaton, che, come ‘automobile’, significa una cosa che va da sé e senza essere spinta dall’esterno (nota di Davies)

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Aristotele di Stagira (384-22 a.C)

Etica nicomachea

Traduzione Claudio Mazzarelli

Libro III

[Bekker pag. 1109b]

Capitolo i (La valutazione morale verte sulle azioni volontarie, che non si compiono quando

non si è costretti né quando non si ha conoscenza delle circostanze)

Poiché, dunque, la virtù ha a che fare sia con passioni sia con azioni, e poiché per le passioni e

le azioni volontarie ci sono la lode e il biasimo, mentre per le involontarie c’è il perdono, e

talora anche la pietà, definire il volontario e l’involontario è senza dubbio necessario per

coloro che studiano la virtù, e utile anche ai legislatori per stabilire le ricompense onorifiche e

le punizioni.

Si ammette, dunque, comunemente, che sono involontari gli atti [pag. 1110a] compiuti per

forza o per ignoranza. Forzato è l’atto il cui principio è esterno, tale cioè che chi agisce,

ovvero subisce, non vi concorre per nulla: per esempio, se si è trascinati da qualche parte da

un vento o da uomini che ci tengono in loro potere.

Le azioni che si compiono per paura di mali più grandi oppure per qualcosa di bello (per

esempio, nel caso in cui un tiranno ci ordinasse di compiere qualche brutta azione tenendo in

suo potere i nostri genitori e i nostri figli, sì che se noi la compiamo essi si salveranno, se no,

morranno) è discutibile se siano involontarie o volontarie. Qualcosa di simile accade anche

quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste, giacché in generale nessuno

butta via volontariamente, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri.

Simili azioni, dunque, sono miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacché sono

fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine dell’azione

dipende dalle circostanze.

Per conseguenza, anche il volontario e l’involontario devono essere determinati in

riferimento al momento in cui si agisce. In questo caso si agisce volontariamente, giacché il

principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell’uomo stesso: e le

cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni, dunque,

sono volontarie, anche se in assoluto forse sono involontarie, giacché nessuno sceglierebbe

alcuna delle azioni di tal genere per se stessa.

Per azioni simili talora si è anche lodati, quando si sopporta qualcosa di brutto o di

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Aristotele, Etica Nicomachea

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doloroso in cambio di cose grandi e belle; in caso contrario si è biasimati, giacché sopportare

le cose più vergognose per niente di bello o di proporzionato è da uomo miserabile. In alcuni

casi, poi, non si dà lode, ma perdono quando uno compie un’azione che non deve, ma per

evitare mali che oltrepassano l’umana natura e che nessuno potrebbe sopportare. Ma ad alcuni

atti, senza dubbio, non è possibile lasciarsi costringere, ma piuttosto bisogna morire pur tra

terribili sofferenze: infatti, i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di Euripide ad uccidere la

propria madre sono manifestamente risibili. E difficile, talvolta, discernere che cosa ed a

quale costo si deve scegliere e che cosa e per qual vantaggio si deve sopportare, ma ancor più

difficile perseverare nelle decisioni prese: come, infatti, per lo più, ciò che ci aspetta è

doloroso, ciò cui si è costretti è vergognoso, ragion per cui si meriterà lode o biasimo a

seconda che ci si sia lasciati costringere oppure no.

[pag. 1110b] Quali azioni, dunque, si devono chiamare forzate? Non dovremo dire che in

senso assoluto lo sono quando la causa risiede in circostanze esterne e quando chi agisce non

vi concorre per niente? Le azioni che per se stesse sono involontarie, ma che in un

determinato momento ed in cambio di determinati vantaggi sono fatte oggetto di scelta, ed il

cui principio è interno a chi agisce, per se stesse sono, sì, involontarie, ma, in quel

determinato momento e per quei determinati vantaggi, sono volontarie. E assomigliano di più

a quelle volontarie, poiché le azioni fanno parte delle cose particolari, e queste sono,

volontarie. D’altra parte, quali cose bisogna scegliere ed in cambio di quali altre non è facile

stabilire, giacché nei casi particolari ci sono molte differenze.

Se si dicesse che le cose piacevoli e le cose belle sono costrittive (in quanto costringono

dall’esterno), tutte le azioni sarebbero, da quel punto di vista, forzate, giacché è in vista del

piacevole e del bello che tutti gli uomini fanno tutto quello che fanno. E quelli che agiscono

per forza e contro voglia agiscono con sofferenza, mentre quelli che agiscono per il piacevole

ed il bello lo fanno con piacere. D’altra parte, è ridicolo accusare le circostanze esterne e non

se stessi se si è facile preda di cose ditale natura, e anzi considerare causa delle belle azioni se

stessi, delle brutte, invece, l’attrattiva dei piaceri. Dunque, sembra che l’atto forzato sia quello

il cui principio è esterno, senza alcun concorso di colui che viene forzato.

Ciò che si compie per ignoranza è tutto non volontario, ma è involontario quando provoca

dispiacere e rincrescimento. Infatti, l’uomo che ha fatto una cosa qualsiasi per ignoranza,

senza provare alcun disagio per la’s ua azione, non ha agito volontariamente, in quanto,

almeno, non sapeva quello che faceva, ma neppure involontariamente, in quanto, almeno, non

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Aristotele, Etica Nicomachea

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prova dispiacere. Dunque, di coloro che agiscono per ignoranza, quello che non prova

rincrescimento può essere chiamato, poiché è diverso, agente non volontario; infatti, poiché il

secondo differisce dal primo, è meglio che abbia un suo nome proprio. D’altra parte sembra

che vi sia differenza anche tra agire per ignoranza e agire ignorando: infatti, chi è ubriaco o

adirato non si ritiene che agisca per ignoranza ma per ubriachezza o per ira, tuttavia senza

sapere ciò che fa, ma ignorandolo.

Dunque, ogni uomo malvagio ignora quel che deve fare e ciò da cui si deve astenere, ed è

per questo errore che si diventa ingiusti e, in generale, viziosi. Ma il termine “involontario”

non vuole essere usato nel caso in cui uno ignora ciò che gli conviene: infatti, l’ignoranza

nella scelta non è causa dell’involontarietà dell’atto, ma della sua perversità, e neppure

l’ignoranza dell’universale (per questa, anzi, si è biasimati); ma causa dell’involontarietà

dell’atto è l’ignoranza delle circostanze particolari [pag. 1111a] nelle quali e in relazione alle

quali si compie l’azione: in questi casi, infatti, si trovano pietà e perdono, perché è ignorando

qualcuno di questi particolari che si agisce involontariamente.

Dunque, non sarà certo male definire la natura ed il numero di questi particolari: chi è che

agisce, che cosa fa, qual è l’oggetto o l’ambito dell’azione, e talora anche con quale mezzo

(per esempio, con quale strumento) agisce, in vista di qual risultato (per esempio, per salvare

qualcuno), e in che modo (per esempio, pacatamente oppure violentemente). Tutte queste

cose, dunque, nessuno, se non è pazzo, potrebbe ignorarle; ed è chiaro che non si può ignorare

l’agente: infatti, come si può ignorare, se non altro, se stessi? Uno potrebbe ignorare ciò che

sta facendo: per esempio, quando dicono che qualcosa è loro scappato di bocca parlando,

oppure che non sapevano che erano dei segreti, come disse Eschilo dei misteri, oppure che,

volendo solo fare una dimostrazione, hanno lasciato andare lo strumento, come diceva quello

che aveva lasciato scattare la catapulta. Potrebbe anche capitare che uno scambi il proprio

figlio per un nemico, come Merope, e che prenda per smussata una lancia appuntita, oppure

per pietra pomice la pietra dura; e che facendo bere qualcuno per salvarlo lo faccia morire; e

che volendo afferrare la mano dell’avversario, come coloro che lottano con le sole mani, lo

ferisca.

Per conseguenza, poiché l’ignoranza può riguardare tutte queste circostanze di fatto in cui

si attua l’azione, si ritiene comunemente che chi ne ignora qualcuna agisca involontariamente,

e soprattutto se ne ignora le più importanti; e si ritiene che le più importanti circostanze di

fatto in cui si attua l’azione siano il ciò che si fa ed il risultato in vista di cui lo si fa. Tale è,

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Aristotele, Etica Nicomachea

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dunque, l’ignoranza per cui un atto si chiama involontario; ma bisogna, inoltre, che l’atto sia

spiacevole ed increscioso.

Poiché è involontario ciò che si fa per forza e per ignoranza, si dovrà ritenere che il

volontario è quello il cui principio sta in colui stesso che agisce, conoscendo le circostanze

particolari in cui si attua l’azione. Infatti, senza dubbio, non è giusto dire che sono involontari

gli atti compiuti per impulsività o per desiderio. In tal caso, infatti, ne deriverebbe innanzi

tutto che nessuno degli altri animali agirebbe spontaneamente, né lo potrebbero i fanciulli; in

secondo luogo, non facciamo volontariamente nessuna delle azioni che hanno come causa

impulsività e desiderio, oppure quelle belle le facciamo volontariamente e quelle brutte

involontariamente? O non è ridicolo, dal momento che una sola e la causa di tutte? Ma è certo

assurdo dire involontarie quelle azioni che dobbiamo appetire: e noi abbiamo il dovere di

adirarci per certe cose e di desiderare certe altre, per esempio salute e istruzione. D’altra parte,

si riconosce anche che gli atti involontari sono penosi, mentre quelli compiuti per assecondare

un desiderio sono piacevoli.

Inoltre, che differenza c’è, quanto alla involontarietà, tra gli errori commessi per calcolo e

quelli commessi per impulsività? Si devono, infatti, evitare sia gli uni sia gli altri; [pag.

1111b] d’altra parte si riconosce che le passioni irrazionali non sono meno umane, sicché

sono proprie dell’uomo anche le azioni che derivano da impulsività e da desiderio. E, dunque,

assurdo porle come involontarie.

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Tito Lucrezio Caro (c. 98-c. 54 a.C.) Sulla natura delle cose

Traduzione F. Giancotti

Libro II 216 A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:

che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti

.in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato

e in un luogo indeterminato, deviano un po’ dal loro cammino:

220 giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento.

Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso,

come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,

né sarebbe nata collisione, né urto si sarebbe prodotto

tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla:

225 Ma, se per caso qualcuno crede che i corpi più pesanti;

I.più celermente movendosi in linea retta per il vuoto,

cadano dall’alto sui più leggeri e così producano urti

capaci di provocare movimenti generatori,

forviato si discosta lontano dalla verità.

230 Difatti tutte le cose che cadono per le acque e l’aria sottile,

esse, sì, bisogna che accelerino le cadute in proporzione dei pesi,

perché il corpo dell’acqua e la tenue natura dell’aria

non possono egualmente ritardare ogni cosa,

ma più celermente cedono se son vinti da cose più pesanti.

235 Per contrario, da nessuna parte e in nessun tempo.

lo spazio vuoto può sussistere quale base sotto alcuna cosa,

senza continuare a cedere, come esige la sua natura:

perciò attraverso l’inerte vuoto tutte le cose devono muoversi

con eguale velocità, quantunque siano di pesi non eguali.

240 Giammai, dunque, le più pesanti potranno cadere dall’alto

sulle più leggere, ne potranno per se stesse generare urti

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Lucrezio, Sulla natura delle cose

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che mutino i movimenti con cui la natura compie le sue operazioni.

Perciò, ancora e ancora, occorre che i corpi primi declinino

un poco; ma non più del minimo possibile, perché non sembri

245 che immaginiamo movimenti obliqui: cosa che la realtà confuterebbe.

Infatti ciò vediamo che e alla portata di tutti e manifesto:

c che i corpi pesanti, per quanto e in loro,

non possono muoversi obliquamente,

250 quando precipitano dall’alto, almeno fin dove e dato scorgere.

Ma, che essi non declinino assolutamente dalla linea retta

nella loro caduta, chi c’e che possa scorgerlo?

Infine, se sempre ogni movimento e concatenato

e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,

255 né i primi principi deviando producono qualche inizio

di movimento che rompa i decreti del fato,

sì che causa non segua causa da tempo infinito,

donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà,

donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati,

260 per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi

e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato,

ne in un determinato punto dello spazio,

ma quando la mente di per sé ci ha spinti?

265 Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni

la sua propria volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra.

Non vedi anche come, nell’attimo in cui i cancelli del circo

sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli

270 prorompere così di colpo come la mente stessa desidera?

Tutta infatti, per l’intero corpo, la massa della materia

deve animarsi, sì che, una volta animata, per tutte le membra

segua con unanime sforzo il desiderio della mente.

Quindi puoi vedere che l’inizio del movimento si crea dal cuore,

2 7 5 e dalla volontà dell’animo esso procede primamente,

e di là si propaga poi per tutto il corpo e gli arti.

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Lucrezio, Sulla natura delle cose

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Né ciò e simile a quel che accade quando procediamo spinti da un urto

per la forza possente e la possente costrizione di un altro.

Infatti allora è evidente che tutta la materia dell’intero corpo

si muove ed e trascinata contro il nostro volere,

finché non l’abbia raffrenata per le membra la volontà.

Non vedi dunque ora che, sebbene spesso una forza esterna

molti spinga e costringa a procedere senza che lo vogliano,

e a lasciarsi trascinare a precipizio, tuttavia c’è nel nostro petto

280 qualcosa che può lottar contro ed opporsi?

E pure a suo arbitrio che la massa della materia

è costretta talora a piegarsi per le membra, per gli arti,

e nel suo slancio è raffrenata, e torna indietro a star ferma.

Perciò anche negli atomi occorre che tu ammetta la stessa cosa,

285 cioè che, oltre agli urti e ai pesi, c’e un’altra causa

dei movimenti, donde proviene a noi questo innato potere,

giacché vediamo che nulla può nascere dal nulla.

Il peso infatti impedisce che tutte le cose avvengano per gli urti,

quasi per una forza esterna. Ma, che la mente stessa,

290 non abbia una necessità interiore nel fare ogni cosa,

né, come debellata, sia costretta a sopportare e a patire,

ciò lo consegue un’esigua declinazione dei primi principi,

in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato.

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Sesto Empirico (c. 180-c. 220 d.C)

Schizzi pirroniani

Libro I

Traduzione Richard Davies

Capitolo iv La natura dello scetticismo

Lo scetticismo è una capacità o atteggiamento mentale che contrappone le apparenze ai

giudizi in qualunque modo, con il risultato che, in forza dell’equipollenza degli oggetti e le

ragioni così contrapposti, siamo portati in primo luogo ad uno stato di sospensione mentale e

dopo ad uno stato di imperturbabiltà. Ora, parliamo di una ‘capacità’ non in un senso astruso

ma semplicemente come l’essere in grado. Con le ‘apparenze’ intendiamo gli oggetti di

percezione sensoriale, per cui li contrapponiamo agli oggetti del pensiero o ai ‘giudizi’. La

frase ‘in qualunque modo’ può qualificare o la parola ‘capacità’, in modo tale da rendere il

senso semplice della parola ‘capacità’ di cui abbiamo detto, o alla frase ‘contrapponendo le

apparenze ai giudizi’, perché nella misura in cui contrapponiamo questi in vari modi – le

apparenze alle apparenze, i giudizi ai giudizi e vice versa le apparenze ai giudizi – per

includere tutte le contrarietà possibili, utilizziamo la frase ‘in qualunque modo’. Oppure,

aggiungiamo la frase ‘in qualunque modo’ a ‘apparenze e giudizi’ per non dover indagare

come appaiono le apparenze o come vengono giudicati gli oggetti dei giudizi, ma invece per

poter prendere questi termini nel loro senso più semplice. Non utilizziamo la frase ‘giudizi

opposti’ solo nel senso di negazioni ed affermazioni, ma semplicemente come ‘giudizi

contraddittori tra loro’. Per ‘equipollenza’ intendiamo quella uguaglianza in fatto di

probabilità o improbabilità che indica che nessun giudizio ha la precedenza rispetto ad un

altro per quanto riguarda la credibilità. ‘Sospensione’ è uno stato di quiete mentale grazie al

quale non neghiamo e non affermiamo niente. L’’imperturbabilità’ è una condizione calma e

tranquilla dell’anima. Il modo in cui l’imperturbabilità sorge nell’anima in conseguenza della

sospensione, lo spiegheremo nel capitolo sul fine <dello scetticismo (cap xii)>.

Capitolo v Dello scettico

Nella definizione del sistema scettico, includiamo anche il filosofo pirroniano: è colui che

partecipa della capacità.

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Sesto Empirico, Schizzi pirroniani

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Capitolo vi Dei princìpi dello scetticismo

Diciamo che il principio dello scetticismo è la speranza di arrivare all’imperturbabilità.

Uomini di grande talento, che erano turbati dalle contraddizioni nelle cose e in dubbio

riguardo all’alternativa da accettare, sono stati portati ad indagare sulla verità delle cose nella

speranza di arrivare all’imperturbabilità. Il principio basilare dello scetticismo è quello di

contrapporre ad ogni ragionamento un ragionamento dello stesso peso, perché ci sembra che,

come risultato di questo, finamo per cessare di essere dogmatici.

-–ooOoo–-

Capitolo xii Qual’è il fine dello Scetticismo.

A quanto abbiamo detto dovrebbe seguire l’esposizione del fine dell’indirizzo scettico. Per

fine intendiamo ciò a cui si riferisce tutta la nostra attività pratica o teoretica, mentre esso non

si riferisce a nulla. Oppure: il fine è il termine del1e cose appetibili. Diciamo fin d’ora che il

fine dello scetticismo è l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni

che sono per necessità. Avendo, infatti, lo scettico cominciato a filosofare circa la maniera di

comprendere e distinguere quali delle apparenze sensibili fossero vere, quali false, in modo da

conseguire la imperturbabilità, s’abbatté a un disaccordo di ragioni contrarie di ugual peso, e,

non riuscendo a dirimerlo, ha sospeso il proprio giudizio; e a questa sua sospensione casuale

tenne dietro la imperturbabilità nelle cose opinabili. Chi, infatti, crede nell’esistenza di

qualche cosa che sia bene o male per natura, si conturba continuatamente, e quando non

possiede quello ch’egli ritiene esser bene, e quando crede d’essere perseguitato da quello che

ritiene essere male per natura, e persegue i beni, come egli li considera. I quali se egli

consegue, crescono i suoi turbamenti, e perché s’imbaldanzisce fuor di ragione e misura, e

perché, temendo un cambiamento, fa di tutto per non perdere quelli ch’egli considera beni.

Chi, invece, dubita se una cosa sia bene o male per natura, né fugge né persegue nulla con

ardore: perciò è imperturbato. Pertanto allo scettico è accaduto quello che si narra del pittore

Apelle. Dicono che Apelle, dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma.

Non riuscendovi in nessun modo, vi rinunciò, e scagliò contro il dipinto la spugna, nella quale

puliva il pennello intinto di diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, vi lasciò un’impronta

che pareva schiuma. Anche gli scettici speravano di conseguire la imperturbabilità dirimendo

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Sesto Empirico, Schizzi pirroniani

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la disuguaglianza che si trova tra le apparenze del senso e quelle della ragione; ma non

potendo riuscirvi, hanno sospeso il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, ne è

conseguita la imperturbabilità, quale l’ombra al corpo. Non, perciò, riteniamo che lo scettico

vada del tutto esente da turbamenti, ma diciamo che egli è turbato da fatti che sono per

necessità, giacchè ammettiamo che talora egli soffra il freddo e la fame e simili affezioni. Ma

in questi fatti il volgo soffre doppiamente, e per le affezioni stesse e, nello stesso tempo,

perché questi stati penosi giudica mali per natura. Lo scettico, invece, sopprimendo

quell’opinamento che gli altri aggiungono all’affezione, cioè che ciascuno di questi stati è un

male per natura, se ne libera con turbamento minore. Per questo, dunque, diciamo che il fine

dello scettico è la imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni che

sono per necessità. Alcuni scettici degni di considerazione, hanno aggiunto a queste due cose

la sospensione del giudizio nelle investigazioni.

-–ooOoo–-

Capitolo xxvii Della frase ‘ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso’

Quando diciamo ‘ad ogni ragionamento si contrappone un altro di ugual peso’ intendiamo ‘ad

ogni ragionamento’ da noi indagato, e la parola ‘ragionamento’ la utilizziamo non nel suo

senso semplice, ma per indicare uno che sostiene un dogma, vale a dire, che ha a che fare con

le cose non-evidenti, e che lo sostiene in qualsiasi modo e non necessariamente in termini di

premesse e conclusioni. Diciamo ‘uguale’ in rapporto alla credibilità o incredibilità, e

utilizziamo la parola ‘contrapposto’ nel senso di ‘contraddittorio’, a cui aggiungiamo

mentalmente ‘a quanto mi pare’. Quindi, quando dico ‘ad ogni ragionamento si contrappone

un altro di ugual peso’ quello che voglio dire è ‘ad ogni ragionamento da me indagato che

sostiene una tesi dogmaticamente, mi sembra che ci sia un altro, volto a sostenere una tesi

dogmaticamente, che è di ugual peso al primo per quanto riguarda la credibilità o la

incredibilità’; in questo modo, il proferimento di questa frase non è dogmatico, ma l’annuncio

dello stato mentale umano della persona che lo vive.

Ma altri <scettici> proferiscono l’espressione nella forma, ‘ad ogni ragionamente è da

contrapporre un altro di ugual peso’, intendendo l’ingiunzione, ‘contrapponiamo ad ogni

ragionamento che sostiene una tesi dogmatica un altro che indaga dogmaticamente, che di

ugual peso al primo per quanto riguarda la credibilità e l’incredibilità, e che risulta in conflitto

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Sesto Empirico, Schizzi pirroniani

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con esso’; perché indirizzano le loro parole ad uno scettico nonostante usino la forma infinita

‘da contrapporre’ invece di quella imperativa ‘contrapponiamo’. E rivolgono questa

ingiunzione allo scettico per evitare che egli venga fuorviato dal dogmatico a cessare

l’indagine scettica e, a causa della fretta, a perdere quella imperturbabilità che gli scettici

approvano e che – come abbiamo detto – suppongono sia effetto della sospensione universale

di giudizio.

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Renato Cartesio (1596-1650)

Meditazioni di prima filosofia (1641)

Traduzione Adriano Tilgher

SINOSSI

DELLE SEI MEDITAZIONI CHE SEGUONO

Nella prima, espongo le ragioni per le quali possiamo dubitare generalmente di tutte le cose, e

particolarmente delle cose materiali, almeno fino a che non avremo altri fondamenti nelle

scienze, che quelli che abbiamo avuti fin qui. Ora, l’utilità di un dubbio così generale, benché

non appaia manifesta a prima vista, tuttavia è grandissima in questo, che quel dubbio ci libera

da ogni sorta di pregiudizi, e ci prepara un cammino facilissimo per assuefare il nostro spirito

a distaccarsi dai sensi; ed infine, grazie ad esso, non potremo più avere alcun altro dubbio su

quel che scopriremo in appresso esser vero.

Nella seconda, lo spirito che, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le

cose, della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce

essere assolutamente impossibile che, frattanto, non esista egli stesso. Ed anche ciò è di

una grandissima utilità, poiché per questo mezzo egli distingue facilmente le cose che

appartengono a lui, cioè alla natura intellettuale, e quelle che appartengono al corpo. Ma

poiché può accadere che alcuni attendano da me in quel luogo delle ragioni per provare

l’immortalità dell’anima, io credo doverli adesso avvertire che, avendo cercato di non

scrivere niente in questo trattato, di cui non avessi delle dimostrazioni esattissime, mi

sono visto obbligato a seguire un ordine simile a quello di cui si servono i geometri, e

cioè a premettere tutte le cose, dalle quali dipende la proposizione che si cerca, prima di

concluder qualcosa. Ora, la prima e principale cosa che si richiede per conoscere

l’immortalità dell’anima, è di formarne un concetto chiaro e lucido, e interamente

distinto da tutti i concetti che si possono avere del corpo: il che è stato fatto in quel

luogo. 1: richiesto, oltre ciò, di sapere che tutte le cose che noi concepiamo chiaramente

e distintamente sono vere, secondo che noi le concepiamo: e questo non ha potuto essere

provato prima della quarta Meditazione. Di più, bisogna avere un concetto distinto della

natura corporea, il quale si forma in parte nella seconda, in parte nella quinta e sesta

Meditazione. Ed infine si deve concludere da tutto.ciò, che le cose che concepiamo

chiaramente e distintamente come sostanze differenti, quali lo spirito e il corpo, sono in

effetto delle sostanze diverse, e realmente distinte le une dalle altre: e questo si conclude

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Cartesio, Meditazioni

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nella sesta Meditazione. Ed in questa stessa Meditazione ciò si conferma anche per il

fatto che noi non concepiamo nessun corpo se non come divisibile, mentre lo spirito, o

l’anima dell’uomo, non si può concepire che come indivisibile: ed in effetti non

possiamo concepire la metà dl nessun’anima, come invece possiamo fare del più piccolo

di tutti i corpi, si che le loro nature: non sono solamente riconosciute come diverse, ma

anche, in certo snodo, come contrarie. Ora è necessario si sappia che io non mi sono

impegnato a dirne di più nel presente trattato, sia perché ciò basta a mostrare

chiaramente che dalla corruzione del corpo non segue la morte dell’anima, e così a dare

agli uomini la speranza di una seconda vita dopo la morte; sia anche perché le premesse,

dalle quali si può conchiudere l’immortalità dell’anima, dipendono dalla spiegazione di

tutta la Fisica. In primo luogo, per sapere che generalmente tutte le sostanze, cioè tutte

le cose che non possono esistere senza essere create da Dio, sono di for natura

incorruttibili, e non possono mai cessare di essere, se non sono ridotte a niente da quello

stesso Dio, che voglia negare for il suo concorso ordinario. Ed in séguito, affinché si

noti che il corpo, preso in generale, è una sostanza, e per questa ragione anch’esso non

perisce; ma che il corpo umano, in quanto differisce dagli altri corpi, non è formato e

composto che da una configurazione di membra e di altri simili accidenti, e l’anima

umana, al contrario, non è composta di nessun accidente, ma è una pura sostanza.

Poiché, sebbene tutti i suoi accidenti si cangino, e, per esempio, essa concepisca certe

cose, ne voglia altre, ne senta altre ecc. è sempre tuttavia la medesima anima: mentre il

corpo umano non è più lo stesso, per ciò solo che la figura di alcune delle sue parti si

trova cambiata. Dal che segue che il corpo umano può facilmente perire, ma che lo

spirito, o l’anima dell’uomo (cose che io non distinguo), è immortale di sua natura.

Nella terza Meditazione, mi sembra di avere spiegato abbastanza lungamente il

principale argomento di cui mi servo per provare l’esistenza di Dio. Tuttavia, affinché lo

spirito del lettore si potesse più facilmente astrarre dai sensi, non ho voluto servirmi in

quel luogo di nessuna comparazione tratta dalle cose corporee, sì che forse vi sono

rimaste molte oscurità, le quali, come spero, saranno interamente spiegate nelle risposte

da me fatte alle obbiezioni, che poi mi sono state proposte. Così, per esempio, è assai

difficile intendere come l’idea di un essere sovranamente perfetto, la quale si trova in

noi, contenga tanta realtà oggettiva, cioè partecipi per rappresentazione a tanti gradi di

essere e di perfezione da dover necessariamente venire (la una causa sovranamente

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Cartesio, Meditazioni

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perfetta. Ma io l’ho spiegato in quelle risposte con la comparazione di una macchina

assai ingegnosa, l’idea della quale si trovi nello spirito di qualche operaio; poiché, come

l’artificio oggettivo di questa idea deve avere qualche causa, e cioè la scienza

dell’operaio o di qualche altro dal quale egli l’abbia appresa, è egualmente impossibile

che l’idea di Dio, che è in noi, non abbia per causa Dio stesso.

Nella quarta, è provato che le cose che noi concepiamo chiaramente e distintamente

sono tutte vere; ed insieme è spiegato in che consista la ragione dell’errore o falsità: ciò

che deve necessariamente essere saputo, tanto per confermare le verità precedenti,

quanto per meglio intendere quelle che seguono. Ma tuttavia è d’uopo notare che in quel

luogo io non tratto in niun modo del peccato, e cioè dell’errore che si commette nella ricerca

del bene e del male, ma solo di quello che si produce nel giudizio e nel discernimento del

vero e del falso; e che non intendo parlare delle cose che appartengono alla fede, o alla

condotta della vita, ma solo di quelle che riguardano le verità speculative, conosciute con

l’aiuto del solo lume naturale.

Nella quinta, oltre ad essere spiegata la natura corporea presa in generale, l’esistenza di Dio

è ancora dimostrata da nuove ragioni, nelle quali tuttavia si possono trovare alcune difficoltà,

che saranno risolte nelle risposte alle obbiezioni che mi sono state fatte; c così ai %copre in

qual modo è vero che la certezza stessa delle dimostrazioni geometriche dipende dalla

conoscenza di un Dio.

Infine, nella sesta, distinguo l’azione dell’intelletto da quella dell’immaginazione e descrivo

i caratteri di questa distinzione. Mostro che l’anima dell’uomo è realmente distinta dal corpo,

e tuttavia gli è così strettamente congiunta ed unita, che quasi compone una sola cosa con lui.

Tutti gli errori che procedono dai sensi sono esposti, con i mezzi di evitarli. Ed infine porto

tutte le ragioni, dalle quali si può concludere l’esistenza delle cose materiali: non che io le

giudichi molto utili per provare ciò che esse provano, cioè che vi è un mondo, che gli uomini

hanno dei corpi, ed altre cose simili, che non sono mai state messe in dubbio da nessun uomo

di buon senso; ma perché considerandole da vicino, si viene a conoscere che esse non sono

così ferme, né così evidenti come quelle che ci conducono alla conoscenza di Dio e della

nostra anima; di guisa che queste sono le più certe e le più evidenti che possano cadere sotto

la conoscenza dello spirito umano. Ed è tutto quello che ho voluto provare in queste sei

meditazioni, il che è causa che io ometta qui molte altre questioni, di cui ho anche parlato

occasionalmente in questo trattato.

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PRIMA MEDITAZIONE

DELLE COSE CHE SI POSSONO REVOCARE IN DUBBIO

Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come

vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così

mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere

seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia

credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di

fermo e di durevole nelle scienze. Ma poiché quest’impresa mi sembrava grandissima, ho

atteso di aver raggiunto un’età così matura, che non potessi sperarne dopo di essa un’altra più

adatta; il che mi ha fatto rimandare così a lungo, che, ormai, crederei di commettere un errore,

se impiegassi ancora a deliberare il tempo che mi resta per agire.

Ora, dunque, che il mio spirito, è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo

sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione

generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare

che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione

mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose

che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono

manifestamente false, il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte

rifiutare. E perciò non v’è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che

richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la ruina delle fondamenta trascina

necessariamente con sé il resto dell’edificio, io attaccherò dapprima i princìpi sui quali tutte le

mie antiche opinioni erano poggiate.

Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai

sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori,

ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.

Ma, benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto

lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare,

benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al

fuoco, vestito d’una veste da carnera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa

natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei ? a meno che, forse,

non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri

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vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di

essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle

brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi

regolassi sul loro esempio.

Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di

dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili

ancora, che quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte,

che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato

dentro il mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo

questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di

deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra

certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere

stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo

pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza

certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito;

ed il mio stupore è tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo.

Supponiamo, dunque, ora, che noi siamo addormentati, e che tutte queste particolarità, cioè

che apriamo gli occhi, moviamo la testa, stendiamo le mani, e simili, non siano se non delle

false illusioni; e pensiamo che forse le nostre mani e tutto il nostro corpo non siano quali noi

li vediamo. Tuttavia bisogna almeno confessare che le cose, le quali ci sono rappresentate nel

sonno, sono come dei quadri e delle pitture, che non possono essere formate se non a

somiglianza di qualche cosa di reale e di vero; e che così, almeno, queste cose generali, cioè

degli occhi, una testa, delle mani, e tutto il resto del corpo, non sono cose immaginarie, ma

vere ed esistenti. E, a dir vero, gli stessi pittori, anche quando si sforzano con il maggior

artificio di rappresentare Sirene e Satiri in forme bizzarre e straordinarie, non possono tuttavia

attribuire loro forme e nature interamente nuove, ma fanno soltanto una certa mescolanza e

composizione delle membra di diversi animali; ovvero, se per avventura la loro

immaginazione è abbastanza stravagante da inventare qualche cosa di così nuovo, che mai noi

non abbiamo visto niente di simile, in modo tale che la loro opera ci rappresenti una cosa

puramente finta ed assolutamente falsa, certo almeno i colori di cui la compongono debbono,

essi, essere veri.

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E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani,

e simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose ancora più

semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle quali, né più

né meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle cose, che

risiedono nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono formate.

Di questo genere di cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così pure la

figura delle cose estese, la loro quantità o grandezza, e il loro numero; come anche il luogo

dove esse sono, il tempo che misura la loro durata, e simili.

Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la

medicina e tutte le altre scienze, che dipendono dalla considerazione delle cose composte,

sono assai dubbie ed incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo,

le quali non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero

se esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile. Perché, sia

che io vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il

quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così

manifeste possano essere sospettate di falsità o d’incertezza.

Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è

un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può

assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun

corpo esteso, niuna figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste

cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? Ed inoltre, come io

giudico qualche volta che gli altri s’ingannino anche nelle cose che credono di sapere con la

maggior certezza, può essere che Egli abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo

l’addizione di due e di tre, o che enumero i lati di un quadrato, o che giudico di qualche altra

cosa ancora più facile, se può immaginarsi cosa più facile di questa. Ma forse Dio non ha

voluto che io fossi ingannato in tal guisa, perché di lui si dice che è sovranamente buono.

Tuttavia, se repugna alla sua bontà l’avermi fatto tale che io m’inganni sempre, sembrerebbe

esserle contrario anche il permettere che io m’inganni qualche volta; e tuttavia io non posso

mettere in dubbio che egli lo permetta.

Vi saranno forse qui delle persone, che preferirebbero negare l’esistenza di un Dio così

potente, piuttosto che credere incerte tutte le altre cose. Ma per adesso non resistiamo loro, e

supponiamo, in loro favore, che tutto ciò che è detto qui di Dio sia una favola. Tuttavia, in

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qualunque maniera essi suppongano che io sia pervenuto allo stato e all’essere che possiedo,

sia che l’attribuiscano a qualche destino o fatalità, sia che lo riferiscano al caso, sia che

sostengano che ciò accade per un continuo concatenamento e legame delle cose, è certo che,

poiché errare ed ingannarsi è una specie d’imperfezione, quanto meno potente sarà l’autore

che essi attribuiranno alla mia origine, tanto più probabile sarà che io sia talmente imperfetto

da ingannarmi sempre. Alle quali ragioni io non ho certo nulla da rispondere, ma sono

costretto a confessare che, di tutte le opinioni che avevo altra volta accolte come vere, non ve

n’è una della quale non possa ora dubitare, non già per inconsideratezza o leggerezza, ma per

ragioni fortissime e maturamente considerate: di guisa che è necessario che io arresti e

sospenda oramai il mio giudizio su questi pensieri, e che non dia loro più credito di quel che

darei a cose, che mi paressero evidentemente false, se desidero di trovare alcunché di costante

e di sicuro nelle scienze.

Ma non basta aver fatto queste osservazioni, bisogna che io prenda anche cura di

ricordarmene; perché quelle antiche e ordinarie opinioni mi ritornano ancora spesso nel

pensiero, poiché il lungo e familiare uso dà loro il diritto di occupare il mio spirito contro il

mio volere, e di rendersi quasi padrone della mia credenza. Ed io non mi disabituerò mai di

aderire loro e di aver confidenza in esse, finché le considererò quali sono in effetti, cioè in

qualche modo dubbie, come testé ho mostrato, e tuttavia probabilissime, di guisa che si ha

molto più ragione di credervi che di negarle. Ecco perché io penso di farne un uso più

prudente, se, prendendo un partito contrario, impiego tutte le mie cure ad ingannare me stesso,

fingendo che tutti questi pensieri siano falsi e immaginari; finché, avendo talmente posto in.

equilibrio i miei pregiudizi, che essi non possano fare inclinare il mio parere più da un lato

che da un altro, il mio giudizio non sia più oramai dominato da cattivi usi e distolto dal retto

camtnino che può condurlo alla conoscenza della verità. Io sono sicuro, infatti, che non può

esserci pericolo né errore in questa via, e che non saprei oggi conceder troppo alla mia

diffidenza, poiché ora non si tratta d’agire, ma solo di meditare e di conoscere.

Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un

certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che

possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo,

l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che

illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso

come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur

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credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo

pensiero; se, con questo mezzo, non e in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità

alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò

accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le

astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai

imporre nulla.

Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente

nel corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno

d’una libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un

sogno, teme d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più

lungamente ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni,

ed ho paura di risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che

succederebbero alla tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche

rischiaramento nella conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti per

illuminare le tenebre delle difficoltà che sono state agitate testé.

SECONDA MEDITAZIONE

DELLA NATURA DELLO SPIRITO UMANO E CHE QUESTO P PIÙ FACILE A

CONOSCERSI CHE IL CORPO

La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più

in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a

un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né

poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi

sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello

in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi

assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato

qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta

certezza che al mondo non v’è nulla di certo.

Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava

un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò

abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile.

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Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che

nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta;

penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il

luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimeræ]. Che cosa, dunque, potrà essere

reputato vero ? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo.

Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testé ho giudicato incerte,

della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra

potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono

capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di

avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io

talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono

convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti,

né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo ? No, certo; io

esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa.

Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo

nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni

fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche

cosa. Di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna

infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: lo sono, io esisto, è

necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito.

Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere;

di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere

imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che

io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto per lo innanzi.

Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in

questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere

combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è intieramente

indubitabile. Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato

di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo:

perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da

una sola questione, cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed

avviluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a

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sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che

nascevan prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola

natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. Io mi consideravo dapprima

come avente un viso, delle mani, delle braccia, e tutta questa macchina composta d’ossa e di

carne, così come essa appare in un cadavere: macchina che io designavo con il nome di corpo.

Io consideravo, oltre a ciò, che mi nutrivo, che camminavo, che sentivo e che pensavo: e

riportavo tutte queste azioni all’anima; ma non mi fermavo a pensare che cosa fosse

quest’anima, oppure, se mi ci fermavo, immaginavo che essa fosse qualcosa di estremamente

rado e sottile, come un vento, una fiamma, o un’aria delicatissima, insinuata e diffusa nelle

parti più grossolane di me. Per ciò che riguardava il corpo, non dubitavo per nulla della sua

natura; perché pensavo di conoscerla molto distintamente, e, se avessi voluto spiegarla

secondo le nozioni che ne avevo, l’avrei descritta in questa maniera: per corpo intendo tutto

ciò che può esser determinato in qualche figura; che può- essere compreso in qualche luogo, e

riempire uno spazio in maniera tale, che ogni altro corpo ne sia escluso; che può essere sentito

o col tatto, o con la vista, o con l’udito, o col gusto, o con l’odorato; che può essere mosso in

più maniere, non da se stesso, ma da qualcosa di estraneo, da cui sia toccato e di cui riceva

l’impressione. Poiché non credevo in alcun modo che si dovesse attribuire alla natura

corporea il privilegio d’avere in sé la potenza di muoversi, di sentire e di pensare; al contrario,

mi stupivo piuttosto di vedere che simili facoltà si trovassero in certi corpi.

Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se

oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad

ingannarmi? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho

attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro

tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non

v’è bisogno che mi fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e

vediamo se ve ne sono alcuni, che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è

vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro

attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho

creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho

riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è

attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. lo sono, io esisto:

questo è certo; ma per quanto tempo ? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse

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mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o d’esistere. lo

non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar

con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i

quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. Ora, io sono una cosa vera, e

veramente esistente; ma quale cosa ? L’ho detto: una cosa che pensa. E che altro ? Ecciterò

ancora la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa di più. Io non sono

quest’unione di membra che si chiama il corpo umano; io non sono un’aria sottile e

penetrante, diffusa in tutte queste membra; io non sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla

di tutto ciò che posso fingere e immaginare, poiché ho supposto che tutto ciò non fosse niente;

eppure, senza cambiare questa supposizione, io continuo ad essere certo che sono qualcosa.

Ma egualmente può accadere che queste stesse cose, che io suppongo non esistere, poiché

mi sono sconosciute, non siano di fatto differenti da quel me, che io conosco. Io non ne so

niente; per ora non discuto di ciò; io non posso dare il mio giudizio che sulle cose che mi son

note: io ho riconosciuto di esistere, e ricerco chi sono io, io che ho riconosciuto di esistere.

Ora è certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non

dipende dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota, ‘né, per conseguenza, ed a più

forte ragione, da alcuna di quelle: che sono finte ed inventate dall’immaginazione. Ed anche

questi termini di fingere ed immaginare mi avvertono del mio errore: io fingerei in effetti, se

immaginassi di essere qualcosa, poiché immaginare non è se non contemplare la figura o

l’immagine d’una cosa corporea. Ora io so con certezza di esistere, e, a un tempo, che tutte

quelle immagini, ed in generale tutte le cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono

non essere altro che sogni o chimere. In conseguenza di che, vedo chiaramente che avrei tanto

poco ragione dicendo: - io ecciterò la mia immaginazione per conoscere più distintamente chi

sono -, che se dicessi: - io sono adesso sveglio, e percepisco qualcosa di reale e di vero; ma,

poiché non la percepisco ancora abbastanza nettamente, m’addormenterò a bella posta,

affinché i miei sogni mi rappresentino quella stessa cosa con maggior verità cd evidenza. E,

così riconosco con certezza, che nulla di tutto ciò che posso comprendere per mezzo

dell’immaginazione appartiene a quella conoscenza che ho di me stesso, e che è necessario

richiamare e distogliere il proprio spirito da questa maniera di concepire, affinché possa esso

stesso riconoscere con la massima distinzione la sua natura.

Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una

cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che

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immagina anche, e che sente. Certo non è poco, se tutte queste cose appartengono alla mia

natura. Ma perché non vi apparterrebbero esse? Non sono io ancora quel medesimo, che

dubito quasi di tutto, che, nondimeno, intendo e concepisco certe cose, che assicuro ed

affermo quelle sole esser vere, che nego tutte le altre, che voglio e desidero conoscerne di più,

che non voglio essere ingannato, che immagino molte cose, qualche volta anche contro la mia

volontà; che molte cose sento come se mi venissero attraverso gli organi del corpo? V’è

qualcosa in tutto ciò che non sia tanto vero, quanto è certo che io sono ed esisto, quand’anche

dormissi sempre, e colui che m’ha dato l’essere si servisse di tutte le sue forze per

ingannarmi? V’è anche alcuno di questi attributi, che possa essere distinto dal mio pensiero, o

del quale si possa dire ch’esso è separato da me stesso? Poiché è di per sé così evidente che

sono io che dubito, che intendo e che desidero, che non v’è qui bisogno di aggiunger nulla per

spiegarlo. E con eguale certezza io ho la facoltà d’immaginare; poiché sebbene possa

accadere (come ho supposto per lo innanzi) che le cose che immagino non siano vere, tuttavia

questa facoltà d’immaginare non cessa d’essere realmente in me, e fa parte del mio pensiero.

Infine io sono lo stesso che sente, cioè che riceve e conosce le cose come per mezzo degli

organi dei sensi, poiché di fatto vedo la luce, odo il rumore, sento il calore. Ma mi si dirà che

queste apparenze sono false e che io dormo. Sia pure; tuttavia è certissimo almeno che mi

sembra di vedere, di udire, di scaldarmi; e questo è propriamente quel che in me si chiama

sentire, e che, preso così precisamente, non è null’altro che pensare. Da tutto ciò comincio a

conoscere chi sono, con un po’ più di luce e di distinzione.

Ma non posso trattenermi dal credere che le cose corporee, le immagini delle quali si

formano per mezzo del mio pensiero, e che cadono sotto i sensi, non siano conosciute più

distintamente di quella non so qual parte di me stesso, che non cade sotto l’immaginazione:

benché, in effetti, sia una cosa molto strana che cose che io trovo dubbie e lontane, siano più

chiaramente e più facilmente conosciute da me di quelle che sono vere e certe, e che

appartengono alla mia propria natura. Ma io vedo bene di che si tratta: il mio spirito si

compiace di smarrirsi, e non può contenersi ancora nei giusti limiti della verità.

Abbandoniamogli, dunque, ancora una volta le briglie, affinché, venendo dopo a ritrargliele

dolcemente ed a proposito, possiamo più facilmente regolarlo e condurlo.

Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di

comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. lo non intendo

parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma

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di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato

proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che

conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore,

la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite,

darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo,

s’incontrano in questo.

Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala,

l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si

riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la

cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può

negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di

cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le

cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovan cambiate, e

tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella

dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura,

né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che

adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino,

quando la concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte

le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che

qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole?

Non significa forse che io immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir

quadrata, e di passare dal quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché

io la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia,

percorrere quest’infinità con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che

ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare.

Ma che cos’è questa estensione ? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si

fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più

grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo

verità che cosa è la cera, sé non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di

variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque,

che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che

non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare,

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Cartesio, Meditazioni

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poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual’è questa cera, che non

può essere concepita se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco,

immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione,

o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né

un’immaginazione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente

una visione della mente [solius mentis inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa,

come era prima, oppure chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti

più o meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta.

Tuttavia non saprei troppo meravigliarmi, quando considero quanto il mio spirito sia debole

ed incline a scivolare insensibilmente nell’errore. Poiché, sebbene senza parlare io consideri

tutto ciò in me stesso, le parole, tuttavia, m’arrestano, e sono quasi ingannato dai termini del

linguaggio ordinario; noi diciamo infatti di vedere proprio la cera, se ci è presentata, e non già

di giudicare che essa c’è, inferendolo dal colore e dalla figura: donde quasi concluderei che si

conosce la cera per mezzo della visione degli occhi, e non per la sola ispezione dello spirito,

se per caso non guardassi da una finestra degli uomini che passano nella strada, alla vista dei

quali non manco di dire che vedo degli uomini, proprio come dico di veder della cera. E,

tuttavia, che vedo io da questa finestra, se non dei cappelli e dei mantelli, che potrebbero

coprir degli spettri o degli uomini finti, mossi solo per mezzo di molle? Ma io giudico che

sono veri uomini, e così comprendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nel

inio spirito, ciò che credevo di vedere con i miei occhi.

Un uomo che cerca di elevare la sua conoscenza al di là del comune, deve aver vergogna di

trarre delle occasioni di dubbio dalle forme e dai termini di parlare del volgo; io preferisco

passar oltre, e considerare se concepivo con maggior evidenza e perfezione la cera, quando

l’ho dapprima percepita ed ho creduto conoscerla per mezzo dei sensi esteriori, o almeno del

senso comune, come lo chiamano, e cioè della facoltà immaginativa, di quel che non la

concepisca adesso, dopo avere più esattamente esaminato ciò che essa è, ed in quale maniera

può essere conosciuta. Certo, sarebbe ridicolo mettere ciò in dubbio. Poiché che cosa vi era in

quella prima percezione, che fosse distinto ed evidente, e che non potesse cadere in egual

guisa sotto il senso del più piccolo fra gli animali? Ma quand’io distinguo la cera dalle sue

forme esteriori, e, come se le avessi tolto i suoi vestimenti, la considero tutta nuda, certo,

benché si possa ancora incontrare qualche errore nel mio giudizio, non la posso concepire in

questa maniera se non con mente umana.

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Cartesio, Meditazioni

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Ma, infine, che dire di questa mente, e cioè di me stesso? Poiché fin qui non ammetto in me

altra cosa che uno spirito. Che pronunzierò io, dico, di me, che sembro concepire con tanta

distinzione questo pezzo di cera? Non conosco io me stesso, non solamente con molto

maggior verità e certezza, ma ancora con molto maggior distinzione e nettezza ? Poiché, se io

giudico che la cera è, o esiste, dal fatto ch’io la vedo, certo dal fatto ch’io la vedo segue molto

più evidentemente ch’io sono, o che esisto io stesso. Poiché può essere che ciò ch’io vedo non

sia in effetti cera; può anche accadere ch’io non abbia neppure degli occhi per vedere alcuna

cosa; ma non è possibile che, quando io vedo, o (ciò che non distinguo più) quando penso di

vedere, io che penso non sia qualche cosa. Egualmente, se io giudico che la cera esiste dal

fatto che la tocco, ne seguirà ancora la stessa cosa, e cioè che io sono; e se io traggo quel

giudizio dal fatto che la mia immaginazione me ne persuade, o da qualunque altra causa,

concluderò sempre la stessa cosa. E ciò che ho notato qui della cera, si può applicare a tutte le

altre cose che mi sono esteriori, e che si trovano fuori di me.

Ora, se la nozione e la conoscenza della cera sembra essere più netta e più distinta, dopo

clic essa è stata scoperta non solamente dalla vista o dal tatto, ma anche da molte altre cause,

con quanto maggior evidenza, distinzione e nettezza non debbo io conoscere me stesso,

poiché tutte le ragioni che servono a conoscere ed a concepire la natura della cera, o di

qualche altro corpo, provano molto più facilmente ed evidentemente la natura del mio spirito

? E nello spirito stesso si trovano ancora tante altre cose, capaci di contribuire a spiegarne la

natura, che quelle dipendenti dal corpo, non meritano quasi d’essere enumerate.

Ma, infine, eccomi insensibilmente ritornato dove volevo; poiché, siccome adesso conosco

che, a parlar propriamente, noi non concepiamo i corpi se non per mezzo della facoltà

d’intendere che è in noi, e non per l’immaginazione, né per i sensi; e che non li conosciamo

pel fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente pel fatto che li concepiamo per mezzo

del pensiero, io conosco evidentemente che non v’è nulla che mi sia più facile a conoscere del

mio spirito. Ma, poiché è quasi impossibile disfarsi così prontamente di un’antica opinione,

sarà bene che mi fermi un poco su questo punto, affinché, con la lunghezza della mia

meditazione, imprima più profondamente nella mia memoria questa nuova conoscenza.

(La conclusione della1)

SESTA MEDITAZIONE 1 Oltre al titolo della meditazione, vedi la Sinossi per una descrizione degli altri argomenti trattati in questa meditazione

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Cartesio, Meditazioni

53

DELL’ESISTENZA DELLE COSE MAERIALE E DELLA

REALE DISTINZIONE TRA L’ANIMA E IL CORPO

DELL’UOMO

[…]

Dal che è interamente manifesto che, nonostante la sovrana bontà di Dio, la natura

dell’uomo, in quanto esso è composto dello spirito e del corpo, non può non essere qualche

volta fallace e ingannatrice.

Poiché, se vi è qualche causa che eccita, non nel piede, ma in una delle parti del nervo che è

teso dal piede fino al cervello, od anche nel cervello, lo stesso movimento che si produce

ordinariamente quando il piede è lnal disposto, si sentirà dolore nel piede, e il senso sarà

naturalmente ingannato, perché uno stesso movimento nel cervello non potendo produrre

nello spirito se non una stessa sensazione, e questa sensazione essendo molto più spesso

eccitata da una causa che ferisce il piede che da una altra che sia altrove, è molto più

ragionevole che essa rechi allo spirito il dolore del piede che quello di qualunque altra parte. E

sebbene l’aridità della gola non venga sempre, come d’ordinario, dal fatto che il bere è

necessario per la salute del corpo, ma qualche volta da una causa affatto contraria, come

sperimentano gl’idropici, tuttavia è molto meglio che essa inganni in quell’occasione, che se,

al contrario, ingannasse sempre quando il corpo è ben disposto; e così è negli altri casi.

E certo, questa considerazione mi serve molto, non solamente per riconoscere tutti gli errori

ai quali la mia natura è soggetta, ma anche per evitarli, o per correggerli più facilmente;

perché, sapendo che tutti i miei sensi mi significano ordinariamente più il vero che il falso

rispetto alle cose che riguardano i comodi o gl’incomodi del corpo, e potendo quasi sempre

servirmi di parecchi tra essi per esaminare una stessa cosa, ed oltre ciò potendo usare della

mia memoria per legare e congiungere le conoscenze presenti alle passate, e del mio intelletto

che ha già scoperto tutte le cause dei miei errori, non debbo più temere, oramai, che si trovi

della falsità nelle cose più spesso rappresentate dai miei sensi. Ed io debbo rigettare tutti i

dubbi dei giorni passati come iperbolici e ridicoli, e particolarmente quella incertezza così

generale riguardante il sonno che non potevo distinguere dalla veglia: perché adesso vi trovo

una notevolissima differenza, in quanto la nostra memoria non può mai legare e congiungere i

nostri sogni gli uni agli altri e con tutto il séguito della nostra vita, come, invece, è solita

congiungere le cose che ci accadono stando svegli. Ed in effetti se qualcuno, quando io

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Cartesio, Meditazioni

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veglio, m’apparisse d’un tratto e scomparisse subito, come fanno le immagini che vedo

dormendo, di guisa che non potessi osservare né donde venisse né dove andasse, non senza

ragione lo stimerei uno spettro o un fantasma formatosi nel mio cervello, e simile a quelli che

vi si formano quando dormo, piuttosto che un vero uomo. Ma quando percepisco cose di cui

conosco distintamente, e il luogo donde vengono, e quello dove sono, e il tempo in cui

m’appariscono: cose di cui, senza alcuna interruzione, posso legare la sensazione con il resto

della mia vita, io sono interamente certo di percepirle vegliando e non già nel sonno. E non

debbo in nessun modo dubitare della verità di quelle cose, se, dopo aver fatto appello a tutti i

miei sensi, alla mia memoria e al mio intelletto per esaminarle, da nessuno di essi mi è

riportato nulla che ripugni con ciò che mi è riportato dagli altri. Dalla veracità di Dio segue

infatti che io non sono affatto ingannato.

Ma poiché la necessità della pratica ci obbliga spesso a deciderci prima di aver avuto il

tempo di un così attento esame, bisogna confessare che la vita dell’uomo’ è soggetta ad errare

spessissimo nelle cose particolari; ed infine bisogna riconoscere la infermità e la debolezza

della nostra natura.

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Thomas Hobbes (1588-1679) e

Renato Cartesio (1596-1650)

Obiezioni e Risposte sulle Meditazioni metafisiche di Cartesio (1641)

Traduzione Adriano Tilgher

OBBIEZIONE ULTIMA (Hobbes)

“Poiché io riconosco adesso che vi è tra l’uno e l’altra (cioè fra la veglia e il sonno) una

notevolissima differenza, nel fatto che la nostra memoria non può mai legare e congiungere i

nostri sogni gli uni agli altri, e con tutto il seguito della nostra vita, come, invece, suole

congiungere le cose che ci accadono stando svegli”1.

lo chiedo se è una cosa certa che una persona, sognando di dubitare se sogna o no, non

possa sognare che il suo sogno è congiunto e legato con le idee di un lungo seguito di cose

passate. Se lo può, le cose che a una persona che dorme sembrano essere le azioni della vita

passata possono essere ritenute vere, proprio come se fosse sveglia. Di più, poiché, come dice

egli stesso, tutta la certezza della scienza e tutta la sua verità dipendono dalla sola conoscenza

del vero Dio, o un ateo non può riconoscere che veglia per mezzo della memoria della sua vita

passata, o una persona può sapere ch’essa veglia senza la conoscenza del vero Dio.

RISPOSTA (Cartesio)

Colui che dorme e sogna non può congiungere e unire perfettamente e con verità i suoi

sogni con le idee delle cose passate, benché possa sognare di unirli. Poiché chi nega che colui

che dorme si possa ingannare? Ma dopo, essendo sveglio, conoscerà facilmente il suo errore.

Ed un ateo per mezzo della memoria della sua vita passata può riconoscere di vegliare, ma

non può sapere che questo segno è sufficiente per renderlo certo che egli non s’inganna, se

noti sa che è stato creato da Dio, e che Dio non può essere ingannatore.

1 Hobbes cita dalla conclusione di Meditazione VI, riportata sopra.

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John Locke (1632 - 1704)

Saggio sull’intelletto umano (1689)

Traduzione Marian e Nicola Abbagnano

Libro II capitolo xxvii (Dell’identità e della diversità)1

1. Lo stesso essere delle cose è un’altra occasione che lo spirito prende sovente per fare un

confronto, cioè quando consideriamo qualsiasi cosa in quanto esiste ad un determinato tempo

e luogo, e la confrontiamo con la stessa cosa che esiste ad un altro tempo, e con ciò formiamo

le idee di identità e diversità. Quando vediamo qualcosa che sta in un posto in un certo istante

del tempo, siamo sicuri (di qualunque cosa si tratti) che è quella cosa stessa, e non un’altra

che in quell’istante esista in altro luogo, per simile e indistinguibile che questa possa essere

sotto ogni altro rispetto; e in ciò consiste l’identità, quando le idee cui si attribuisce non sono

affatto diverse da ciò che erano in quel momento in cui consideravamo la loro esistenza

precedente, e con le quali confrontiamo quella presente. Infatti, poiché non troviamo mai, ne

concepiamo che sia possibile, che due cose della stessa specie esistano nello stesso luogo allo

stesso tempo, concludiamo correttamente che, qualunque cosa esista ovunque a un dato

tempo, esclude tutto ciò che è della stessa specie ed è quindi se stessa e solo se stessa. Perciò

quando domandiamo se qualcosa sia la stessa o no, la domanda si riferisce sempre a qualcosa

che esisteva in un dato tempo e luogo e di cui era certo che, in quell’istante, era identica con

se stessa e con nessun’altra. Da ciò segue che una cosa non può avere due inizi di esistenza ne

due cose un solo inizio, giacché è impossibile che due cose della stessa specie siano o esistano

nello stesso istante nello stesso luogo, o che la stessa cosa esista in luoghi diversi. Quindi ciò

che ha avuto un solo inizio è la stessa cosa e ciò che ha avuto un inizio diverso da quello, nel

tempo e nello spazio, non è la stessa ma una cosa diversa. La difficoltà che è sorta intorno a

questa relazione deriva dalla scarsa cura e attenzione adoperate per avere nozioni precise delle

cose alle quali si attribuisce.

2. Abbiamo le idee solo di tre specie di sostanze: 1) Dio; 2) Intelligenze finite; 3) Corpi.

In primo luogo, Dio è senza principio, eterno, inalterabile e ovunque, quindi non ci può

essere dubbio circa la sua identità. In secondo luogo, poiché gli spiriti finiti hanno avuto

1 Questo capitolo è stato aggiunto all’edizione del 1693 (nota di Davies).

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Locke, Saggio

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ciascuno il suo determinato tempo e luogo in cui è incominciato ad esistere, la relazione con

quel tempo e luogo determinerà sempre, per ciascuno di essi finché esiste, la sua identità.

In terzo luogo, lo stesso varrà per ogni particella di materia, che è la stessa quando nessuna

addizione o sottrazione di materia le viene fatta. Infatti, sebbene queste tre specie di sostanze,

come le chiamiamo, non si escludano a vicenda dal medesimo luogo, tuttavia non possiamo

non concepire che debbano necessariamente escludere dallo stesso luogo qualsiasi sostanza

della stessa specie: altrimenti le nozioni e i nomi di identità e diversità sarebbero vani, e non

ci potrebbe essere distinzione fra sostanze e neppure fra cose qualsiasi. Per esempio, se due

corpi potessero essere nello stesso luogo allo stesso tempo, quelle due particelle di materia

devono essere una sola e medesima, siano grandi o piccole; anzi, tutti i corpi devono essere un

solo e medesimo corpo. Se infatti due particelle di materia potessero stare in uno stesso luogo,

per la stessa ragione tutti i corpi potrebbero stare in un solo luogo: il che, se lo si può

supporre, toglie la distinzione di identità e diversità dell’uno e dei più, e la rende ridicola. Ma

poiché è una contraddizione che due o più siano uno, l’identità e la diversità sono relazioni e

modi di confronto ben fondati, e utili all’intelletto.

3. Poiché tutte le altre cose sono modi o relazioni che da ultimo terminano nelle sostanze,

l’identità e la diversità di ciascuna loro esistenza particolare sarà anche determinata alla stessa

maniera. Soltanto per le cose la cui esistenza è in successione, quali sono le azioni di enti

finiti, come per esempio il movimento e il pensiero, che consistono entrambi in una serie

continua di successioni, non può esserci dubbio circa la loro diversità: giacché ciascuna

perisce nel momento stesso in cui comincia, e non possono esistere in diversi tempi o in

diversi luoghi, come invece gli enti permanenti possono, in tempi diversi, esistere in luoghi

diversi. Perciò nessun movimento o pensiero, considerato come esistente in diversi tempi, può

esser lo stesso giacché ciascuna parte di esso ha un diverso inizio di esistenza.

4. Da quanto è stato detto, è facile scoprire ciò su cui si è tanto indagato, cioè il principium

individuationis, il quale, è chiaro, è l’esistenza stessa; essa determina un ente di una certa

specie ad un tempo e luogo particolari, che non sono comunicabili a due enti della stessa

specie. Sebbene sembri più facile concepire questo nelle sostanze semplici o nei modi,

tuttavia, se ci si riflette, non è più difficile in quelli composti purché si abbia cura a che cosa

venga applicato: per esempio, supponiamo un atomo, cioè un corpo continuo sotto una

superficie immutabile, che esista in un determinato tempo e luogo; è evidente che, considerato

in qualsiasi istante della sua esistenza, è in quell’istante identico con se stesso. Infatti, essendo

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in quell’istante quello che è, e niente altro, è lo stesso e tale deve continuare finché continua la

sua esistenza; per quel tempo sarà lo stesso, e non altro. Analogamente, se due o più atomi

sono congiunti in un’unica massa, secondo la regola appena detta, ciascuno di quegli atomi

sarà lo stesso; e finché esistono uniti assieme la massa, che consiste degli stessi atomi,

dev’essere la stessa massa, o lo stesso corpo, per quanto le parti possano essere diversamente

agglomerate. Ma se si toglie uno di quegli atomi o se ne aggiunge uno nuovo, non è più la

stessa massa o lo stesso corpo. Nello stato delle creature viventi, la loro identità non dipende

dalla massa delle stesse particelle, ma da qualcosa d’altro. Infatti, in esse la variazione di

grandi quantità di materia non altera l’identità: una quercia che cresce da una paanticella fino

a diventare un grande albero, e che venga poi potata, è sempre la stessa quercia. E un puledro

che diventa un cavallo anche se talvolta è grasso, talvolta è magro, è tuttavia sempre lo stesso

cavallo, sebbene in entrambi questi casi possa esserci un cambiamento manifesto delle parti,

sicché nessuno dei due è in verità la stessa massa di materia, sebbene la prima sia realmente la

stessa quercia e l’altra lo stesso cavallo. La ragione di ciò è che, in entrambi questi casi - per

la massa di materia e per il corpo vivente - l’identità non è applicata alla stessa cosa.

5. Dobbiamo dunque considerare in che cosa una quercia differisca da una massa di

materia, e a me sembra che sia in questo, che l’una è solamente una coesione di particelle di

materia messe assieme comunque, l’altra è quella loro disposizione che costituisce le parti di

una quercia, nonché un’organizzazione di quelle parti adatta a ricevere e distribuire il

nutrimento, in modo da continuare a formare il legno, la corteccia, le foglie ecc. di una

quercia, in cui consiste la vita vegetale. Si tratta dunque di una sola pianta, che ha le sue parti

organizzate in un solo corpo coerente, che partecipa ad una sola vita comune, e continua ad

essere la stessa pianta finché partecipa della stessa vita, sebbene questa vita sia comunicata a

nuove particelle di materia che sono unite in modo vitale alla pianta vivente, in una

organizzazione continua conforme a quella specie di piante. Infatti questa organizzazione,

poiché si trova ad un dato istante in una data collezione di materia, è in quel particolare

concreto distinta da ogni altra, ed è quella vita individuale che esiste costantemente da quel

momento, sia verso il passato che verso il futuro, nella stessa continuità di parti

insensibilmente succedentisi unite al corpo vivente della pianta; ha quindi quell’identità che fa

si che la stessa pianta, e tutte le sue parti, siano parti della stessa pianta per tutto il tempo in

cui esistono unite in quell’organizzazione continua, la quale è atta a portare la vita comune a

tutte le parti così unite.

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6. Il caso non è tanto diverso per i bruti, e ciascuno può vedere da quanto si è detto, che

cosa costituisce un animale e lo fa continuare ad essere lo stesso. Abbiamo qualcosa di

analogo nelle macchine, e forse servirà a illustrare questo punto. Per esempio, che cos’è un

orologio? È chiaro che non è altro che un’organizzazione o costruzione di parti adatta ad un

certo fine che, quando si aggiunge una forza sufficiente, è capace di raggiungere. Se

supponessimo che questa macchina fosse un solo corpo continuo, le cui parti organizzate sono

riparate, aumentate o diminuite da una costante addizione o separazione di parti impercettibili,

e che avesse una sola vita in comune, avremmo qualcosa di molto simile al corpo di un

animale; con questa differenza, che nell’animale l’idoneità dell’organizzazione e il

movimento in cui consiste la vita cominciano assieme, giacché il movimento viene

dall’interno, mentre nelle macchine la forza viene visibilmente dall’esterno e spesso manca

quando l’organo è in ordine e perfettamente idoneo a riceverla.

7- Questo mostra anche in che cosa consiste l’identità dello stesso uomo: cioè nella

partecipazione alla stessa vita continua di particelle sempre fuggevoli di materia, unite allo

stesso corpo organizzato in una successione vitale. Chi vorrà situare l’identità dell’uomo in

qualunque altra cosa che non sia, come per quella degli animali, in un corpo organizzato in

modo idoneo, preso in un istante qualsiasi e da li continuato in una sola organizzazione di vita

con varie particelle succedentisi fuggevolmente e unite ad esso, troverà difficile far si che un

embrione, un uomo adulto, un pazzo e un savio, siano lo stesso uomo in base a qualsiasi

ipotesi che non renda possibile che Seth, Ismaele, Socrate, Pilato, Sant’Agostino e Cesare

Borgia siano lo stesso uomo. Infatti, se l’identità della sola anima fa si che un uomo sia lo

stesso uomo, e se non c’ e nulla nella natura della materia per cui lo stesso spirito individuale

non possa essere unito a diversi corpi, sarà possibile che quegli uomini, che hanno vissuto in

tempi diversi e che avevano temperamenti diversi, fossero lo stesso uomo: un modo di parlare

che deve derivare da un uso molto strano della parola uomo, applicata ad un’idea dalla quale

sono esclusi il corpo e la forma. E questa maniera di parlare si accorderebbe ancora peggio

con le nozioni di quei filosofi che ammettono la trasmigrazione e credono che le anime degli

uomini, per i loro cattivi comportamenti, possano essere declassate e occupare corpi di bestie,

quale dimora a loro adatta, con organi adatti alla soddisfazione delle loro inclinazioni brutali.

Tuttavia non credo che nessuno, anche se potesse essere sicuro che l’anima di Eliogabalo

fosse in uno dei suoi maiali, potrebbe tuttavia dire che quel maiale è un uomo oppure

Eliogabalo.

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Locke, Saggio

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8. Non è dunque l’unità di sostanza che comprende ogni sorta di identità o che la

determinerà in ogni caso; ma per concepirla e giudicarla rettamente dobbiamo considerare ciò

per cui sta l’idea cui la parola viene applicata: infatti, una cosa ò la stessa sostanza, un’altra lo

stesso uomo, e una terza la stessa persona, se persona, uomo, e sostanza sono tre nomi che

stanno per tre idee diverse. Infatti quale è l’idea che appartiene a quel nome, tale deve essere

l’identità; e se si fosse prestato a questo un poco più di attenzione, forse si sarebbe evitata

gran parte di quella confusione che spesso si produce intorno a questa faccenda, con alcune

difficoltà apparenti non lievi, specialmente riguardo all’identità personale, che perciò

esamineremo più appresso.

9. Un animale è un corpo vivente organizzato; di conseguenza, come abbiamo osservato, lo

stesso animale è la stessa vita continua che si comunica a diverse particelle di materia, man

mano che vengono unite a quel corpo vivente organizzato. E qualunque cosa si dica di altre

definizioni, un’osservazione attenta stabilisce al di là di ogni dubbio che l’idea nel nostro

spirito, di cui il suono “uomo” sulle nostre labbra è un segno, non è altro che l’idea di un

animale di una data forma. Credo infatti di poter dire con fiducia che chiunque veda una

creatura fatta come lui, anche se non avesse in tutta la sua vita più raziocinio di un gatto o di

un pappagallo, lo chiamerebbe ancora uomo; e chiunque sentisse un gatto o un pappagallo

discorrere, ragionare o filosofare, lo chiamerebbe tuttavia e lo considererebbe null’altro che

un gatto o un pappagallo; e direbbe che l’uno è un uomo ottuso e irrazionale, e l’altro un

intelligentissimo pappagallo razionale. Un rapporto che abbiamo in un autore di grande fama

è sufficiente per giustificare l’ipotesi di un pappagallo razionale2. Ecco le sue parole

“Avevo in mente di farmi raccontare, dalla bocca stessa del principe Maurizio, una storia

molto comune ma cui si presta molto credito, che avevo sentito sovente anche da altri, a

proposito di un vecchio pappagallo che aveva mentre era governatore in Brasile, il quale

parlava e faceva domande e rispondeva a domande come una creatura ragionevole: sicché

quelli del suo seguito ritenevano generalmente che si trattasse di stregoneria o che il

pappagallo fosse posseduto dagli spiriti, e uno dei suoi cappellani, che visse a lungo dopo di

allora in Olanda, da quel tempo non sopportava più i pappagalli ma diceva che erano tutti

indemoniati. Avevo sentito molti particolari di questa storia, testimoniati da persone cui era

difficile non dar credito, per cui chiesi al principe Maurizio quanto c’era di vero. Egli disse,

col suo solito tono semplice e asciutto, che qualcosa di vero c’era, ma anche molto di falso in 2 Locke cita dalle Memorie di William Temple (1692), p. 66; questa lunga citazione è un’aggiunta alla quarta edizione, del 1700 (nota di Davies)

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Locke, Saggio

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ciò che si era raccontato. Lo pregai di dirmi quanto c’era di vero. Egli mi disse, in modo breve

e freddo, che quando era in Brasile aveva sentito parlare di questo vecchio pappagallo e,

sebbene non credesse alla storia, e il pappagallo fosse piuttosto lontano, la sua curiosità era

tale che lo mandò a prendere. Disse che era un pappagallo grandissimo e molto vecchio, e che

appena fu portato nella stanza dove si trovava il principe, con molti olandesi intorno a lui,

disse subito: Quanti uomini bianchi ci sono qui dentro! Essi gli chiesero che cosa pensasse

che fosse quell’uomo, indicando il principe. Rispose: Un generale o qualcosa di simile.

Quando lo portarono vicino al principe egli gli chiese: D’où venez-vous? Esso rispose: De

Marinnam. Disse il principe: A qui estes-vous? Il pappagallo: A un Portugais. Il principe: Que

fais-tu là? Il pappagallo: Je garde les poulles. Il principe rise e disse: Vous gardez les

poulles? Il pappagallo rispose: Oui, moi; et je sçai bien faire; e fece quattro o cinque volte il

verso per chiamare le galline. Riporto le parole di questo notevole dialogo in francese, così

come il principe Maurizio le disse a me. Gli chiesi in quale lingua parlasse il pappagallo, e

disse che era brasiliano. Gli domandai se capiva il brasiliano e rispose di no, ma aveva avuto

cura di munirsi di due interpreti che gli stavano accanto, un olandese che parlava il brasiliano

e un brasiliano che parlava l’olandese; che li aveva interrogati separatamente e privatamente

ed entrambi furono d’accordo nel dirgli che il pappagallo aveva pronunciato le stesse parole.

Non potevo fare a meno di raccontare questa storia bizzarra, perché è così fuori dell’ordinario

e perché l’ho avuta di prima mano e da fonte che può ritenersi autorevole; giacché ritengo che

questo principe credesse egli stesso a ciò che mi ha raccontato, poiché è sempre stato

considerato un uomo onestissimo e pio. Lascio poi ai naturalisti di ragionarci sopra e agli altri

di credere ciò che vogliono di esso. Comunque, non è forse inopportuno alleviare o ravvivare

un momento affacendato con simili digressioni, siano esse a proposito o no”.

10. Ho avuto cura che questa storia giungesse al lettore in dettaglio e con le parole stesse

dell’autore, perché mi sembra che egli non l’abbia considerata incredibile; infatti non si può

immaginare che un uomo capace qual era, che poteva giustificare ampiamente tutte le

testimonianze che dava di se, si prendesse tanta pena di attribuire, in un posto in cui non

c’entrava per nulla, non solamente ad un uomo cui accenna come amico ma ad un principe al

quale riconosce grande onestà e pietà, un racconto che, se egli stesso lo ritenesse incredibile,

non potrebbe fare a meno di trovare ridicolo. È chiaro che il principe, il quale si rende garante

di questa storia, e il nostro autore che la racconta avendola ricevuta da lui, chiamano entrambi

questo parlatore un pappagallo: e chiedo a chiunque altro ritenga tale storia degna d’essere

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Locke, Saggio

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raccontata se, qualora questo pappagallo e tutti quelli della sua specie avessero sempre

parlato, come ci dice la parola di un principe che faceva quello, se, dico, non sarebbero passati

per una razza di animali razionali e se, tuttavia, si sarebbe concesso che fossero uomini e non

pappagalli. Infatti suppongo che non sia soltanto l’idea di un essere pensante o razionale che

costituisca l’idea di un uomo nel senso in cui l’intende la maggior parte della gente: ina dl un

corpo, foggiato cos? e così, unito ad esso; e se questa è l’idea di un uomo, lo stesso corpo

successivo che non cambi tutto in una volta deve, insieme allo stesso spirito incorporeo,

contribuire a costituire lo stesso uomo.

11 . Posto ciò, per trovare in che cosa consista l’identità personale, dobbiamo considerare

per che cosa sta la parola persona; e sta, credo, per un essere pensante intelligente, dotato di

ragione e di riflessione, che può considerare se stessa come se stessa, cioè la stessa cosa

pensante, in diversi tempi e luoghi, il che accade solamente mediante quella coscienza che è

inseparabile dal pensare e, a me risulta, essenziale ad esso, giacché e impossibile che

qualcuno percepisca senza percepire che percepisce. Quando vediamo, udiamo, odoriamo,

gustiamo, sentiamo, meditiamo o vogliamo qualcosa, sappiamo di farlo. Così avviene sempre

per ciò che riguarda le nostre sensazioni e percezioni presenti, e così ciascuno è per se stesso

ciò che chiama io : poiché non si considera in questo caso se lo stesso io continui nella stessa

sostanza o in sostanze diverse. Infatti, poiché la coscienza accompagna sempre il pensare ed è

ciò che fa si che ognuno sia quello che egli chiama io, distinguendo con ciò se stesso da tutti

gli altri esseri pensanti, in questo solo consiste l’identità personale, cioè nel fatto che un

essere razionale è sempre lo stesso. E fin dove questa coscienza può essere estesa indietro ad

una qualsiasi azione o pensiero del passato, fin li giunge l’identità di quella persona; si tratta

dello stesso io ora e allora ed è dallo stesso io - lo stesso di quello attuale che ora riflette su di

esso - che quell’azione venne compiuta.

12 Ma si chiede, inoltre, se si tratta della stessa identica sostanza. Pochi crederebbero di

aver ragione di dubitarne, se queste percezioni, insieme alla coscienza di esse, rimanessero

sempre presenti nello spirito, per cui lo stesso essere pensante sarebbe sempre coscientemente

presente e, come si penserebbe, evidentemente lo stesso per se stesso. Ma ciò che sembra

costituire una difficoltà è che quella coscienza viene sempre interrotta dall’oblio e che non

c’e nessun momento nella nostra vita in cui abbiamo l’intera successione di tutte le nostre

azioni passate davanti agli occhi in una visuale unica, giacché persino la migliore memoria

perde di vista una parte mentre ne contempla un’altra; inoltre, per la maggior parte della

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nostra vita, non riflettiamo sul nostro io passato perché siamo occupati con i nostri pensieri

presenti, e nel sonno profondo non abbiamo affatto pensieri, o almeno non di quelli coscienti

come i nostri pensieri da svegli. In tutti questi casi, dico, poiché la nostra coscienza è

interrotta e perdiamo di vista il nostro io passato, si sollevano dubbi se siamo o meno la stessa

cosa pensante, cioè la stessa sostanza. Ma questo dubbio, ragionevole o no, non concerne

affatto l’identità personale. Infatti la domanda e: che cosa costituisce la stessa persona; non

se si tratta della stessa identica sostanza che pensa sempre nella stessa persona, il che, in

questo caso, non importa proprio niente. Infatti sostanze diverse sono unite da una medesima

coscienza (là dove partecipano di essa) in una persona sola, come corpi diversi sono uniti da

una medesima vita in un animale solo, la cui identità e conservata in quel cambiamento di

sostanze dall’unità di una sola vita continua. Poiché e la stessa coscienza che fa si che un

uomo sia se stesso per se stesso, l’identità personale dipende proprio e solamente da questa,

sia essa connessa ad una sostanza individuale sia che possa continuarsi in una successione di

varie sostanze. Infatti, nella misura in cui un essere intelligente può ripetere l’idea di

un’azione passata con la stessa coscienza che ne aveva in principio e con la stessa coscienza

che ha adesso di qualsiasi azione presente, in questa misura si tratta dello stesso io personale.

Giacché solo per mezzo della coscienza che ha dei propri pensieri e azioni presenti, l’io è ora

un io per se stesso, e così sarà lo stesso finché la stessa coscienza può estendersi ad azioni

passate o a venire. E la distanza di tempo o il cambiamento di sostanza non ne farebbero due

persone più di quanto un uomo diventerebbe due uomini portando oggi vestiti diversi da

quelli che portava ieri, con un sonno lungo o breve nel mezzo: è la stessa coscienza che unisce

le azioni distanti nella stessa persona, qualunque siano le sostanze che hanno contribuito alla

loro produzione.

13- Che le cose stiano così, abbiamo una testimonianza nel i s nostro stesso corpo, le cui

particelle, mentre sono vitalmente unite a questo stesso io cosciente e pensante in modo tale

che sentiamo quando vengono toccate e siamo coscienti e colpiti quando un bene o un male le

colpisce, sono tutte parti di noi stessi, cioè del nostro io cosciente e pensante. Così, gli arti del

suo corpo sono per ognuno parte di lui stesso; egli sente con loro e se ne preoccupa. Tagliate

una mano, separandola così dalla coscienza che l’uomo aveva del caldo, del freddo e di altre

affezioni che essa provava, e allora non e più parte di ciò che è lui stesso, più che non ne sia il

pezzo più remoto di materia. Così vediamo che la sostanza in cui consisteva in un tempo l’io

personale può variare in un altro tempo, senza che cambi l’identità personale; infatti non c’e

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dubbio che si tratti della stessa persona, sebbene gli arti che fino a poco fa ne facevano parte

siano stati tagliati.

14. Ma la questione è: se cambia la stessa sostanza che pensa, può trattarsi della stessa

persona; oppure, rimanendo la stessa sostanza, può trattarsi di persone diverse?

A ciò io rispondo: In primo luogo, questa non è una domanda per coloro che pongono il

pensiero in una costituzione animale del tutto materiale, priva di sostanza incorporea. Infatti,

che la loro ipotesi sia vera o falsa, è chiaro che essi concepiscono l’identità personale come

conservata in qualcosa d’altro che non l’identità della sostanza; come l’identità animale viene

conservata nell’identità della vita e non della sostanza. Quindi coloro che pongono il pensiero

soltanto in una sostanza incorporea, prima di poter trattare con gli altri, devono mostrare

perché l’identità personale non possa essere conservata nel mutamento delle sostanze

incorporee o nella varietà delle particolari sostanze incorporee, come è conservata l’identità

animale nel mutamento delle sostanze materiali o nella varietà dei corpi particolari. A meno

che non vogliano dire che lo stesso spirito incorporeo costituisce la stessa vita nei bruti, come

lo stesso spirito incorporeo costituisce la stessa persona negli uomini; e questo i Cartesiani,

per lo meno, non vogliono ammetterlo, per timore di fare esseri pensanti anche i bruti.

15. Ma ora, per quanto riguarda la prima parte della domanda, cioè se cambiando la stessa

sostanza pensante (supponendo le che soltanto le sostanze incorporee pensino), possa trattarsi

della stessa persona: rispondo che la questione può essere risolta solamente da coloro che

sanno quali sono le specie di sostanze che pensano, e se la coscienza delle azioni passate

possa trasferirsi da una sostanza all’altra. Riconosco che se la stessa coscienza fosse la stessa

azione individuale, ciò non sarebbe possibile: ma poiché si tratta della rappresentazione

presente di un’azione passata, rimane da vedere perché non sia possibile che possa venire

rappresentato allo spirito l’essere stato ciò che in realtà non è mai stato. Perciò ci sarà difficile

determinare la misura in cui la coscienza delle azioni passate e connessa ad un agente

individuale in modo che un altro non possa averla, finché non sapremo quale specie di azione

non possa essere compiuta senza che l’accompagni un atto riflessivo di percezione, e la

maniera in cui sia compiuta da sostanze pensanti, che non possono pensare senza esserne

coscienti. Ma poiché quello che chiamiamo la stessa coscienza non è lo stesso atto

individuale, sarà difficile escludere, in base alla natura delle cose, che ad una sostanza

intellettuale possa essere rappresentato come compiuto da essa ciò che essa non ha mai fatto,

e fu forse fatto da qualche altro agente, e che una tale rappresentazione non possa esserci

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come realtà di fatto, come lo sono varie rappresentazioni nel sogno che tuttavia, mentre

sogniamo, prendiamo per vere. E che le cose non stiano mai così finché non avremo vedute

più chiare sulla natura delle sostanze pensanti, faremo meglio ad attribuirlo alle bontà di Dio;

il quale, per ciò che riguarda la felicità o l’infelicità di una delle sue creature sensibili, non

trasferirà, per un fatale errore di una di queste creature, dall’una all’altra quella coscienza che

porta con sé la ricompensa o il castigo. Lascio ad altri di considerare fino a che punto questo

possa essere un argomento contro coloro che vogliono porre il pensiero in un sistema di

fuggevoli spiriti animali. Ma, per tornare alla questione che ci sta innanzi, si dovrà

riconoscere che, se la stessa coscienza (la quale, com’è stato mostrato, è una cosa affatto

diversa dalla stessa cifra numerica o movimento nel corpo) può essere trasferita da una

sostanza pensante all’altra, sarà possibile che due sostanze pensanti costituiscano una sola

persona. Infatti, quando la stessa coscienza è conservata, nella stessa o in altre sostanze,

l’identità personale è conservata.

16. Quanto alla seconda parte della domanda, cioè se posaa, sono esserci due persone

distinte quando rimane la stessa sostanza incorporea, mi pare che si fondi su questo: se lo

stesso essere incorporeo, essendo cosciente della sua azione nella sua durata passata, possa

essere interamente privato di tutta la coscienza della sua esistenza passata e perderla senza

alcuna possibilità di ricuperarla: e cominciare, per così dire, un nuovo conto a partire da un

nuovo periodo con una coscienza che non possa spingersi al di là di questo nuovo stato. Tutti

quelli che sostengono la pre-esistenza sono evidentemente di questo parere, poiché

ammettono che all’anima non sia rimasta alcuna coscienza di ciò che fece nello stato pre-

esistente, nel quale o era tutta separata dal corpo o informava di sé un altro corpo; se non

l’ammettessero, è chiaro che l’esperienza sarebbe contro di loro. Poiché l’identità personale

non si estende più in là di quanto faccia la coscienza, lo spirito pre-esistente che non si è

continuato per tanti secoli in uno stato di silenzio, deve necessariamente costituire persone

diverse. Supponiamo che un platonico cristiano oppure un pitagorico immaginasse, per il fatto

che Dio ha terminato tutta la sua opera di creazione il settimo giorno, che la sua anima sia

sempre esistita da allora, e che si sia trasferita a turno in vari corpi umani; allo stesso modo di

un uomo che ho incontrato una volta, il quale era persuaso che la sua fosse stata l’anima di

Socrate (non discuterò con quanta ragione; questo però so, che nel posto che occupava, il

quale era tutt’altro che insignificante, egli passava per un uomo assai razionale, e la stampa ha

mostrato che non gli mancavano ne competenza ne cultura); direbbe qualcuno che egli, non

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essendo cosciente di alcuna delle azioni o dei pensieri di Socrate, potesse essere la stessa

persona di Socrate? Che chiunque rifletta su se stesso e concluda di avere in se uno spirito

incorporeo, che è poi quello che pensa in lui e, nel cambiamento costante del suo corpo, fa si

che egli sia lo stesso, ed è ciò che egli chiama se stesso: che supponga anche che questa sia la

stessa anima che era in Nestore o Tersite all’assedio di Troia (poiché le anime, per quanto ne

sappiamo, sono nella loro natura indifferenti a qualsiasi particella di materia, l’ipotesi non ha

in sé alcuna assurdità apparente), il che potrebbe darsi, per lui come per l’anima di qualunque

altro uomo; poiché egli non ha alcuna coscienza di nessuna delle azioni di Nestore o di

Tersite, pensa egli forse, o può pensare, che sia la stessa persona dell’uno o dell’altro? Può

essere interessato nelle azioni dell’uno o dell’altro? Attribuirle a se stesso o pensare che siano

sue più delle azioni di qualsiasi altro uomo che sia mai esistito? Poiché questa coscienza non

si estende a nessuna delle azioni di questi due uomini, l’io dell’uno e dell’altro non è lo stesso

più che se l’anima o lo spirito incorporeo che ora lo informa fosse stato creato e avesse

cominciato ad esistere quando informò il suo corpo attuale, anche se fosse verissimo che lo

spirito che informò il corpo di Nestore o di Tersite fosse numericamente lo stesso che ora

informa il suo. Questo non farebbe di lui la stessa persona di Nestore più di quanto

accadrebbe se alcune particelle di materia che furono una volta parte di Nestore fossero ora

parte di quell’uomo; giacché la stessa sostanza incorporea, senza la coscienza, non costituisce

la stessa persona per il fatto di essere unita ad un corpo, più di quanto la stessa particella di

materia, senza coscienza, unita ad un corpo, costituisca la stessa persona. Ma se egli si trova

anche una sola volta cosciente di una qualsiasi delle azioni di Nestore, si troverà ad essere

allora la stessa persona di Nestore.

17. E tosi possiamo, senza alcuna difficoltà, concepire che fa : una persona sia la stessa al

momento della resurrezione, sebbene si trovi in un corpo che non sia esattamente lo stesso

nella struttura o nelle parti di quello che aveva quaggiù - giacché la stessa coscienza

accompagna l’anima che abita in quel corpo. Tuttavia la sola anima, nel cambiamento dei

corpi, non sarebbe sufficiente per costituire lo stesso uomo se non per chi faccia dell’anima

tutto l’uomo. Infatti se l’anima di un principe, che avesse la coscienza della vita passata del

principe, entrasse nel corpo di un calzolaio e lo informasse non appena l’anima sua l’avesse

abbandonato, sarebbe la stessa persona del principe, responsabile solo delle azioni del

principe; ma chi direbbe che si tratta dello stesso uomo? Anche il corpo contribuisce a

costituire l’uomo e, credo che in questo caso determinerebbe l’uomo agli occhi di chiunque,

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per cui l’anima, con tutti i suoi pensieri principeschi, non costituirebbe un altro uomo: ma agli

occhi di tutti, tranne che ai suoi, sarebbe lo stesso calzolaio. So che, nel modo di parlare

corrente, la stessa persona e lo stesso uomo rappresentano una cosa sola. E in verità ognuno

avrà sempre libertà di parlare come meglio gli piace e di applicare quei suoni articolati alle

idee che gli sembrano più adatte e di mutarle quanto vuole. Ma se vogliamo indagare intorno

a ciò che fa lo stesso spirito, lo stesso uomo o la stessa persona, dobbiamo fissare nella nostra

mente le idee di spirito, uomo o persona; e una volta che abbiamo deciso ciò che intendiamo

con esse, non sarà difficile determinare in ognuna di esse o in altre simili quando si tratta della

stessa e quando no.

18. Ma sebbene la stessa sostanza incorporea o anima da sola, ovunque si trovi e in

qualsiasi stato, non costituisca lo stesso uomo, e chiaro che la coscienza per lontano che possa

estendersi - fosse anche nei secoli passati - unisce esistenze e azioni assai distanti nel tempo

per formarne la stessa persona, al modo in cui unisce le esistenze e le azioni del momento

immediatamente precedente: sicché chiunque abbia la coscienza di azioni presenti e passate è

la stessa persona cui appartengono entrambe. Se io avessi la coscienza di aver visto l’arca di

Noè e il diluvio universale come ho quella di aver visto lo straripamento del Tamigi l’inverno

scorso, o che ho ora di scrivere, non potrei dubitare che l’io che sta scrivendo ora, che ha visto

straripare il Tamigi l’inverno scorso e che ha visto il diluvio universale, sia lo stesso io - in

qualsiasi sostanza si ponga quell’io - più di quanto possa dubitare che io che scrivo sono lo

stesso me stesso ora mentre scrivo (che io consista o meno di tutta la stessa sostanza, corporea

o incorporea) di quello che ero ieri. Infatti, quanto all’essere lo stesso io, non importa se l’io

attuale sia costituito dalle stesse sostanze o da altre, giacché sono altrettanto interessato e

altrettanto giustamente responsabile per qualsiasi azione compiuta mille anni fa ma

appropriata a me ora da questa auto-coscienza, come lo sono per ciò che ho fatto un momento

fa.

19. L’io è quella cosa pensante cosciente - di qualunque sostanza sia fatta (spirituale o

materiale, semplice o composta, non importa) - che è sensibile o cosciente del piacere e del

dolore, capace di felicità o infelicità, e perciò si preoccupa di se stessa fin dove giunge quella

coscienza. Così ognuno trova che, finché è compreso in quella coscienza, il suo mignolo è

altrettanto parte di sé quanto una sua parte massima. Se si separasse questo mignolo dalla

persona, e se la coscienza accompagnasse il mignolo abbandonando il resto del corpo, è

evidente che sarebbe il mignolo ad essere la persona, la stessa persona; e l’io non avrebbe

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niente a che fare, in tal caso, col resto del corpo. Come in questo caso è la coscienza che

accompagna la sostanza, quando l’una è separata dall’altra, a costituire la stessa persona e l’io

inseparabile, così accade in riferimento a sostanze remote nel tempo. Ciò con cui può unirsi la

coscienza di questa cosa pensante e presente costituisce la stessa persona, ed è con essa un io

solo, e con niente altro; e tosi attribuisce a se stessa e riconosce come proprie le azioni di

quella cosa pensante, fin dove si estende la coscienza e non oltre; come vedrà chiunque ci

riflette.

20 . Su questa identità personale è fondato tutto il diritto e a la giustizia della ricompensa e

del castigo; infatti la felicità e l’infelicità sono le cose delle quali ciascuno si preoccupa

riguardo a se stesso, e non importa ciò che accade a qualunque sostanza che non sia unita a

quella coscienza o non ne sia toccata. Infatti, com’è chiaro nell’esempio che ho appena dato,

se la coscienza accompagnasse il mignolo quando questo è tagliato, si tratterebbe dello stesso

io che ieri si preoccupava dell’intero corpo in quanto faceva parte di se stesso e le cui azioni

non può ora non riconoscere come proprie. Tuttavia, se lo stesso corpo dovesse continuare a

vivere e subito dopo la separazione del mignolo avere una sua coscienza peculiare, di cui quel

mignolo non sapesse nulla, quel corpo non si preoccuperebbe affatto del mignolo come parte

di se, ne potrebbe riconoscere come propria alcuna delle sue azioni, e subirne l’imputazione.

21 . Questo ci può mostrare in che consista l’identità personale: non nell’identità della

sostanza ma, come ho detto, nell’identità della coscienza, per cui se Socrate e l’attuale sindaco

di Queinborough3 si trovano d’accordo, sono la stessa persona; se lo stesso Socrate da sveglio

e da addormentato non partecipa della stessa coscienza, Socrate sveglio e Socrate

addormentato non sono la stessa persona. E punire il Socrate sveglio per ciò che ha pensato il

Socrate addormentato - e di cui il Socrate sveglio non ebbe mai coscienza - non sarebbe più

giusto che punire un gemello per ciò che l’altro gemello fece, e di cui prima non sapeva nulla,

solo perché il loro aspetto esteriore è così simile da non poterli distinguere; gemelli identici

infatti si sono visti.

22 . Ma forse si potrà ancora obbiettare : supponiamo che io perda interamente la memoria

di alcune parti della mia vita, al ma di là di ogni possibilità di ricuperarla, in modo tale che

non ne no . sarò forse mai più conscio; non sono io tuttavia la stessa persona che commise

quelle azioni, ebbe quei pensieri di cui una volta ero conscio, sebbene le abbia ora

dimenticate? Al che io rispondo che dobbiamo stare attenti a ciò cui viene applicata la parola

3 Per dire una persona scelta a caso, come lo è d’altronde Socrate (nota di Davies).

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io; in questo caso, è soltanto all’uomo. E poiché si presume che lo stesso uomo sia la stessa

persona, facilmente si suppone anche che l’io, in questo caso, rappresenti la stessa persona.

Ma se fosse possibile per lo stesso uomo avere, in tempi diversi, coscienze distinte

incomunicabili, è fuor di dubbio che lo stesso uomo in tempi diversi costituirebbe persone

diverse; il che, vediamo, è il senso dell’umanità nelle dichiarazioni più solenni delle sue

opinioni, poiché la legge umana non punisce il pazzo per le azioni commesse da savio ne il

savio per ciò che ha fatto il pazzo, e con ciò ne fa due persone. La qual cosa è in qualche

modo spiegata dal nostro modo di dire quando diciamo che un tale “non è in sé” oppure è

“fuori di sé”; in queste frasi sembra implicito, a coloro che le usano adesso o almeno le

usarono per primi, il pensiero che l’io sia cambiato; in quell’uomo, non c’era più la stessa

persona.

23 . Tuttavia è difficile concepire che Socrate, lo stesso uomo individuale, sia due persone.

Qui ci sarà di aiuto il considerare che cosa s’intende per Socrate o per lo stesso uomo

individuale.

In primo luogo, deve trattarsi o della stessa sostanza pensante individuale e incorporea, in

breve, dell’anima numericamente identica e di null’altro;

Oppure, in secondo luogo, dello stesso animale senza alcun riguardo per l’anima

incorporea;

Oppure, in terzo luogo, dello stesso spirito incorporeo unito allo stesso animale.

Ora, che si assuma l’una o l’altra di queste supposizioni, è impossibile far consistere

l’identità personale in altro che non sia la coscienza o farla giungere più in là di quanto giunga

la coscienza.

Infatti, secondo la prima di esse, si dovrà riconoscere come possibile che un uomo nato da

donne diverse e in tempi lontani, sia lo stesso uomo. Chi ammette questo modo di parlare,

deve riconoscere come possibile che lo stesso uomo sia due persone distinte, come lo sono

due persone che hanno vissuto in età diverse senza conoscere l’uno i pensieri dell’altro.

In base alla seconda e alla terza supposizione, Socrate in questa vita e dopo di essa non può

essere lo stesso uomo se non per mezzo della stessa coscienza; e facendo tosi consistere

l’identità umana nella stessa cosa in cui poniamo l’identità personale, non ci sarà alcuna

difficoltà a riconoscere che lo stesso uomo è la stessa persona. Tuttavia coloro che pongono

l’identità umana nella sola coscienza, e non in qualcosa d’altro, dovranno considerare come

Socrate fanciullo sarà lo stesso Socrate uomo dopo la resurrezione. Ma quale che sia ciò che

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costituisce l’uomo, e di conseguenza lo stesso uomo individuale - e in ciò pochi si trovano

d’accordo - l’identità personale non può essere posta da noi se non nella coscienza (che sola

costituisce ciò che chiamiamo io), se non vogliamo trovarci impegolati in grandi assurdità.

24. Ma un uomo ubriaco non è forse la stessa persona di quando è sobrio? Per quale altro

motivo lo si punisce per ciò che commise quando era ubriaco, anche se non ne ha mai più

coscienza? Lo è altrettanto dell’uomo che cammina e compie altri atti nel sonno, che deve

rispondere delle malefatte compiute in quello stato. Le leggi umane puniscono entrambi con

una giustizia idonea al loro modo di conoscere giacché, in questi casi, non possono

distinguere con certezza ciò che è reale da ciò che è contraffatto, e così nell’ubriachezza o nel

sonno l’ignoranza non è ammessa come scusante.

Infatti, sebbene il castigo sia connesso con la personalità e la personalità con la coscienza, e

sebbene forse l’ubriacone non è cosciente di ciò che ha fatto, i tribunali umani tuttavia lo

puniscono giustamente; perché il fatto a’suo carico è provato, ma la mancanza dl coscienza, a

suo discarico, non può essere provata. Ma nel Gran Giorno in cui verranno aperti i segreti di

tutti i cuori, sarà forse ragionevole pensare che nessuno verrà chiamato a rispondere di ciò di

cui non sa nulla; ma riceverà quello che gli è dovuto, e sarà la sua coscienza ad accusarlo o

scusarlo.

25. Null’altro che la coscienza può unire esistenze remote nella stessa persona: l’identità

della sostanza non può farlo giacché qualunque sostanza ci sia, comunque foggiata, senza

coscienza non c’e persona; e un cadavere può essere una persona quanto qualsiasi altra specie

di sostanza senza coscienza.

Se potessimo supporre due coscienze distinte e incomunicabili che agiscono nello stesso

corpo, l’una sempre di giorno, l’altra di notte e, d’altra parte, la stessa coscienza che agisce ad

intervalli in due corpi distinti, mi domando, nel primo caso, se l’uomo di giorno e quello di

notte non sarebbero due persone distinte quanto Socrate e Platone. Né è rilevante dire che

questa medesima coscienza e quella distinta, nei casi menzionati sopra, sia dovuta alla stessa

sostanza incorporea distinta che la porta con se a quei corpi; il che, vero o no, non cambia

nulla al caso, poiché, è evidente che l’identità personale sarebbe ugualmente determinata dalla

coscienza, che quella coscienza sia connessa o no a qualche sostanza individuale incorporea.

Infatti, ammettendo che la sostanza pensante nell’uomo debba necessariamente ritenersi

incorporea, è ovvio che la cosa pensante incorporea deve talvolta dipartirsi dalla sua

coscienza passata per esserle, poi, restituita di nuovo; ciò è evidente nella smemoratezza che

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gli uomini hanno sovente circa le loro azioni passate, e molte volte lo spirito ricupera la

memoria di una coscienza passata che era stata perduta per vent’anni di seguito. Basta far si

che questi intervalli di memoria e di smemoratezza si alternino regolarmente col giorno e la

notte, e si hanno due persone con lo stesso spirito incorporeo, come prima si avevano due

persone con lo stesso corpo. Sicché l’io non è determinato dall’identità o dalla diversità della

sostanza, cosa di cui non può esser sicuro, ma solo dall’identità della coscienza.

26. Anzi, l’io può concepire che la sostanza di cui è ora composto sia esistita in precedenza,

unita nello stesso essere cosciente; ma tolta la coscienza, quella sostanza non è più l’io, ne fa

più parte dell’io di qualsiasi altra sostanza, com’è evidente nell’esempio che abbiamo già dato

di un arto tagliato via, del cui caldo o freddo o altri patimenti l’io non ha più coscienza e che

quindi non fa parte dell’io più di qualsiasi altra materia dell’universo. Accadrà in maniera

analoga per qualsiasi sostanza incorporea che sia priva di quella coscienza per cui sono me

stesso per me stesso: Se c’è una parte qualsiasi della sua esistenza che io non posso unire

mediante il ricordo alla coscienza presente per cui sono ora me stesso essa non è, in quella

parte della sua esistenza, me stesso più di qualsiasi altro essere incorporeo. Infatti, qualsiasi

cosa che una sostanza abbia pensato o fatto, che io non possa ricordare e far si che mediante la

mia coscienza sia un mio pensiero e una mia azione, non apparterrà a me, anche se parte di

me stesso l’ha pensato o fatto, più che se fosse stato pensato o fatto da qualsiasi altro essere

incorporeo esistente in qualunque luogo.

27. Riconosco che l’opinione più probabile è che questa cono scienza sia connessa ad una

sostanza individuale incorporea, e ne sia un’affezione.

Ma lascio che ognuno risolva questo punto come meglio gli piace, secondo le diverse

ipotesi. Ma ogni essere intelligente, sensibile alla felicità o all’infelicità, deve concedere che

c’è qualcosa che è se stesso, di cui egli si preoccupa e che vorrebbe felice; che questo io è

esistito in una durata continua per più di un istante ed è quindi possibile che possa esistere,

come ha già fatto, per mesi e anni a venire, senza che siano posti limiti certi alla sua durata; e

che possa trattarsi dello stesso io, continuato nel futuro mediante la stessa coscienza. E così,

per il tramite della coscienza, egli si trova ad essere lo stesso io che qualche anno fa commise

questa o quest’altra azione, per la quale ora viene ad essere felice o infelice. In tutto questo

resoconto dell’io, la sostanza numericamente identica non è considerata come costituente l’io;

ma lo è invece la coscienza continua, nella quale varie sostanze possono essere state unite e

poi separate di nuovo. Finché perdurava una unione vitale fra quelle sostanze e ciò in cui

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Locke, Saggio

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allora risiedeva la coscienza, esse facevano parte dello stesso io. Così qualsiasi parte del

nostro corpo che si trovi unito in modo vitale a ciò che è cosciente in noi, fa parte di noi

stessi: ma con la scissione dell’unione vitale mediante la quale la coscienza è comunicata, ciò

che un momento fa era parte di noi stessi non lo è più, proprio come la parte di un altro uomo

non è parte di me stesso; e non è impossibile che dopo un po’ di tempo esso diventi una parte

reale di un’altra persona. E così abbiamo una sostanza numericamente identica che diventa

parte di due persone diverse; e che la persona si conserva la stessa pur con il cambiamento di

varie sostanze. Se potessimo supporre uno spirito interamente privo di ogni memoria o

coscienza delle azioni passate, come troviamo che la nostra mente è spesso priva del ricordo

di gran parte delle nostre azioni passate e talvolta di tutte, l’unione o la separazione di tale

sostanza spirituale non porterebbe alcuna variazione nell’identità personale, più di quanto lo

faccia una particella di materia. Qualsiasi sostanza unita in modo vitale all’essere pensante

attuale è parte di quello stesso io che ora è; qualsiasi cosa unita ad esso mediante la coscienza

di azioni precedenti, fa anche parte dello stesso io, che è lo stesso allora come ora.

28. Persona, a quanto pare, è dunque il nome di questo io. Ovunque un uomo trovi ciò che

egli chiama se stesso, credo, un altro può dire che si trova la stessa persona. È un termine

forense, che attribuisce le azioni e i loro meriti, e così appartiene solamente ad agenti

intelligenti, capaci di una legge nonché di felicità e d’infelicità. Solo mediante la coscienza la

personalità si estende al di là dell’esistenza presente fino al passato, e con ciò ne viene

coinvolta e ne diventa responsabile; riconosce come sue e imputa a se stessa azioni passate

sulla stessa base e per la stessa ragione per cui lo fa per azioni presenti. Tutto ciò è fondato

sulla preoccupazione della felicità, che è la concomitante inevitabile della coscienza: infatti

ciò che ha coscienza del piacere e del dolore desidera che l’io che è conscio sia felice. E

quindi delle azioni passate che non può riconciliare o attribuire all’io presente mediante la

coscienza, esso non si preoccupa più che se non fossero mai state fatte; e ricevere, per causa

di tali azioni, piacere o dolore, cioè ricompensa o castigo, è lo stesso come essere reso felice o

infelice in prima istanza, senza alcun demerito. Infatti, supponiamo che un uomo venga punito

ora per ciò che ha fatto in un’altra vita e di cui non si può in alcun modo renderlo cosciente;

quale differenza ci sarebbe tra quel castigo e l’essere creato infelice? Perciò, conformemente

l’apostolo ci dice che nel gran giorno in cui “ognuno riceverà a seconda delle sue azioni, i

segreti di tutti i cuori verranno messi allo scoperto”. La sentenza sarà giustificata dalla

coscienza che tutti avranno che essi stessi, in qualsiasi corpo appaiano o a qualsiasi sostanza

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Locke, Saggio

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quella coscienza aderisca, sono quei medesimi che commisero quelle azioni e meritano quella

punizione.

29. Sono portato a credere di aver fatto, nel trattare questo argomento, alcune supposizioni

che sembreranno strane a qualche lettore, e forse sono tali in se stesse. Tuttavia ritengo che

siano scusabili, in quest’ignoranza in cui ci troviamo circa la natura della cosa pensante che è

in noi e che consideriamo come noi stessi. Se sapessimo che cos’è, o in quale maniera e

collegata ad un certo sistema di fugaci spiriti animali, o se possa o meno compiere le proprie

operazioni di pensiero e di memoria senza un corpo organizzato come il nostro, e sia piaciuto

a Dio che nessun altro spirito simile venga mai unito a un corpo simile, dalla retta

costituzione dei cui organi la sua memoria dovrebbe dipendere, - se sapessimo tutto ciò,

potremmo vedere l’assurdità di qualcuna delle supposizioni che ho fatto. Ma assumendo,

come solitamente facciamo (poiché siamo all’oscuro circa queste faccende), che l’anima di un

uomo sia una sostanza incorporea, indipendente dalla materia e indifferente ad essa, nella

natura stessa delle cose non c’è nessuna assurdità nel supporre che la stessa anima sia in tempi

diversi unita a corpi diversi, e che per quel tempo costituisca con essi un uomo. Allo stesso

modo supponiamo che parte del corpo di una pecora di ieri diventi parte del corpo di un uomo

di domani, e che in quell’unione costituisca una parte vitale di Melibeo in persona, così come

faceva parte del suo montone.

30. Per concludere: qualunque sostanza cominci ad esistere, deve, durante la sua esistenza,

necessariamente essere la stessa; qualunque composizione di sostanze cominci ad esistere,

durante l’unione di queste sostanze, il concreto dev’essere lo stesso; qualunque modo cominci

ad esistere, durante la sua esistenza è lo stesso; e tosi se la composizione risulta di sostanze

distinte e modi diversi, la stessa regola vale. Da ciò si vedrà che la difficoltà o l’oscurità che

c’è stata intorno a questa faccenda nasce piuttosto dai nomi male usati che dall’oscurità delle

cose. Infatti, qualunque cosa costituisca l’idea specifica alla quale il nome viene applicato, se

si mantiene saldamente l’idea, si potrà facilmente concepire la distinzione fra lo stesso e il

diverso riguardo a qualunque cosa, e non potranno sorgere dubbi intorno ad essa.

31. Supponendo che uno spirito razionale sia l’idea di un uomo, è facile sapere che cos’è

lo stesso uomo: lo stesso spirito - sia esso in quel corpo o separato da esso - sarà lo stesso

uomo. Supponendo che uno spirito razionale sia unito in modo vitale ad un corpo con una

certa conformazione delle sue parti per costituire un uomo, mentre rimane quello spirito

razionale, con quella conformazione vitale delle parti, anche se continuato in un fuggevole

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Locke, Saggio

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corpo successivo, si tratterà dello stesso uomo. Ma se per qualcuno l’idea di un uomo non è

altro che l’unione vitale di parti in una certa forma, finché quell’unione vitale e quella forma

rimangono in un concreto che non è lo stesso se non per una continua successione di particelle

fugaci, si tratterà dello stesso uomo. Infatti, qualunque sia la composizione di cui l’idea

complessa è fatta, quando l’esistenza ne fa una cosa particolare, sotto una qualunque

denominazione, la stessa esistenza continua fa si che si mantenga come lo stesso individuo

sotto la stessa denominazione.

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George Berkeley (1685-1753)

Tre dialoghi tra Hylas e Philonous (1713)

Traduzione M.M. Rossi

PRIMO DIALOGO

1a PHILONOUS. - Buongiorno, Hylas. Non mi aspettavo di vederti fuori di casa così presto.

HYLAS. - È davvero una cosa insolita, ma la mia mente era così presa da un argomento del

quale stavo discorrendo la notte scorsa che, vedendo che non riuscivo ad addormentarmi,

mi son deciso ad alzarmi ed a fare un giretto nel giardino.

2 Ph. - Una bella cosa: così hai potuto vedere quali piaceri innocenti e gradevoli tu perda tutte

le altre mattine. Non c’e momento del giorno che sia più piacevole di questo e stagione più

deliziosa dell’anno. Questo cielo purpureo, questi canti liberi ma dolci degli uccelli, i bocci

fragranti sugli alberi e sui fiori, il tepore del sole nascente, tutto questo e mille altre

bellezze indicibili della natura ispirano estasi segrete all’anima. Anche le facoltà di essa,

che in questo momento del giorno sono fresche e vivaci, sono adatte a quelle meditazioni

alle quali ci porta naturalmente la solitudine di un giardino e la tranquillità del mattino. Ma

temo di interrompere le tue meditazioni: mi sembrava che tu fossi tutto preso da qualche

riflessione.

H. - Lo ero davvero, e ti sarei grato se mi permettessi di proseguire con le stesse riflessioni.

Non vorrei per questo privarmi della tua compagnia perché i miei pensieri scorrono sempre

più facilmente quando io converso con un amico che non quando sono solo, e vorrei che

mi permettessi di farti partecipe delle mie riflessioni.

3 Ph. - Ben volentieri: te lo avrei chiesto io stesso se tu non mi avessi prevenuto.

H. - Stavo pensando allo strano destino di quelli che, in tutte le epoche, per darsi l’aria di

essere diversi dal volgo o per qualche incomprensibile stortura del loro pensiero, hanno

preteso di non credere assolutamente a nulla ovvero di credere alle cose più stravaganti che

si possano immaginare. Non sarebbe un gran danno, se i loro paradossi e il loro scetticismo

non portassero a conseguenze dannose per tutta l’umanità. È proprio qui che sta il male:

che quando gli altri, che hanno meno tempo da perdere, vedono che chi sembra aver spesa

a I numeri aggiunti prima del nome di Philonous facilitano il riferimento allo scambio di tesi tra i partecipanti al dialogo. Il nome ‘Philonous’ significa ‘amante della mente’; ‘Hylas’ deriva da una parola greca per il legname adottata da Aristotele per indicare la materia. (nota di Davies)

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Berkeley, Hylas e Philonous

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tutta la vita nella ricerca della conoscenza, si proclama ignorante di tutto ovvero sostiene

nozioni che sono in contrasto con princìpi evidenti, accettati da tutti, potranno esser tentati

a dubitare di verità importantissime, che fino ad allora avevano ritenute sacre é

indiscutibili.

4 Ph. - Son proprio d’accordo con te su questa insana tendenza di alcuni filosofi a dubbi

ostentati e a concezioni fantastiche di altri. Anzi sono ormai arrivato a un punto tale da

aver abbandonato molte di quelle nozioni sublimi che avevo appreso nelle loro scuole per

ritornare alle opinioni del volgo. E ti posso assicurare onestamente che essendo così

ritornato dalle nozioni metafisiche ai semplici dettami della natura e de] senso comune

trovo che il mio intelletto si è illuminato inusitatamente, tanto che oggi comprendo

facilmente molte cose che prima d’ora erano per me un mistero e un enigma.

H. - Mi fa piacere sentire che non eran vere le storie che avevo udite su di te.

5 Ph. - Guarda un poco! O che cosa si diceva?

H. - Nella conversazione della scorsa notte si raccontava che tu sostenessi l’opinione più

stravagante che sia mai entrata nella mente di un uomo, e cioè che non esista nel mondo

qualcosa come la sostanza materiale.

6 Ph. - Sono sul serio persuaso che non esista nulla di simile a ciò che i filosofi chiamano

sostanza materiale, ma se mi si mostrasse che c’è qualcosa di assurdo e di scettico in

questa idea, avrei tanta buona ragione di rinunciare ad essa, come ho ora, mi sembra, per

respingere l’opinione contraria.

H. - Ma come? Ci può essere qualcosa di tanto fantastico, di tanto contrario al senso comune,

ci può essere una maggiore manifestazione di scetticismo, come il credere che non vi sia

qualcosa come la materia?

7 Ph. - Andiamo adagio, caro Hylas. Che diresti se fosse provato che tu, che sostieni che c’è,

sei proprio in virtù di questa opinione molto più scettico di me e sostieni più paradossi, più

opinioni ripugnanti al senso comune di me che non credo a tale cosa?

H. - Ti sarebbe più facile persuadermi che una parte e maggiore del tutto piuttosto che per non

cadere nell’assurdo e nello scetticismo io sia obbligato a rinunciare alla mia opinione su

questo.

8 Ph. - E va bene. Sei disposto ad ammettere per vera quell’opinione che, esaminata

accuratamente, si accordi meglio col senso comune e sia più lontana dallo scetticismo?

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Berkeley, Hylas e Philonous

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H. - Certamente. Dato che vuoi porre in discussione le cose più evidenti in Natura, sono

pronto ad ascoltare, almeno questa volta, quello che hai da dire.

9 Ph. - E allora, Hylas: che cosa intendi per scettico?

H. - Intendo quello che tutti intendono: uno che dubita di tutto.

10 Ph. - Allora, uno che non ha dubbi su una certa questione, riguardo a questa questione non

può essere considerato scettico.

H. - Sono d’accordo.

11 Ph. - Forse che dubitare consiste nel far propria la tesi affermativa o quella negativa di una

questione?

H. - No, non significa decidere per l’una o per l’altra: chiunque capisca l’inglese, sa bene che

dubitare significa restare in sospeso fra le due.

12 Ph. - Allora, non si può dire che uno che neghi qualcosa, resti in dubbio più di quanto non

vi resti colui che l’afferma con la stessa decisione.

H. - Questo e vero.

13 Ph. - Quindi, se lo nega, non si deve per questo ritenerlo scettico più dell’altro.

H. - È giusto.

14 Ph. - Ed allora, come avviene che tu mi tacci di essere uno scettico perché nego quello che

tu affermi, cioè la esistenza della materia? Infatti, per quanto tu possa dire, io sono

perentorio nella mia negazione così come tu lo sei nella tua affermazione.

H. - Un momento, Philonous. La mia definizione di uno scettico non era forse esatta, ma non

si dovrebbe insistere su ogni piccolo sbaglio che uno può commettere nel corso d’una

discussione. Ho detto, e vero, che scettico e uno che dubita di tutto, ma avrei dovuto

aggiungere che e scettico anche uno che nega la realtà e la verità delle cose.

15 Ph - Ma di quali cose? Intendi parlare dei princìpi e dei teoremi delle scienze? Ma questi,

lo sai bene, sono nozioni universali intellettuali e quindi sono indipendenti dalla materia.

Quindi negare l’esistenza della materia non implica che si neghino quelle nozioni.

H. - Hai ragione. Ma non ci sono altre cose? Come definisci tu chi diffida dei propri sensi, chi

nega l’esistenza reale delle cose sensibili, o pretende di non saper nulla di esse? Non basta

questo per dirlo scettico?

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Berkeley, Hylas e Philonous

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16 Ph. - Vuoi allora che esaminiamo chi sia, di noi due, quello che nega la realtà delle cose

sensibili, o che professa la più grande ignoranza di esse? Infatti, se ho capito bene quel che

volevi dire, è lui che dovrà venir considerato come più scettico dell’altro.

H. - È proprio questo che vorrei facessimo.

17 Ph. - Che cosa intendi per cose` sensibili?

H. - Quelle cose che vengono percepite dai sensi. Come puoi immaginare che io intenda

qualcosa d’altro?

18 Ph. - Abbi pazienza, Hylas, ma io vorrei comprendere esattamente quali siano le tue

nozioni, perché questo renderti più rapida la nostra ricerca. Quindi, permettimi anche di

domandarti un’altra cosa: quelle cose percepite dai sensi sono solo quelle percepite

immediatamente? O possono esser dette propriamente sensibili quelle cose che sono

percepite mediatamente, ovvero con l’intervento di altre?

H. - Non capisco bene quello che vuoi dire.

19 Ph. - Leggendo un libro, quello che io percepisco immediatamente sono le lettere, ma

mediatamente, ossia per mezzo di queste, vengono suggerite al mio pensiero le nozioni di

Dio, della virtù, della verità, ecc. Ora, è certo che le lettere sono davvero cose sensibili,

ossia percepite dal senso. Ma vorrei sapere se tu credi che anche le cose suggerite dalle

lettere siano cose sensibili.

H - No, certo: sarebbe assurdo pensare che Dio e virtù siano cose sensibili anche se possono

venire significate e suggerite alla mente da segni sensibili con i quali esse hanno una

connessione arbitraria.

20 Ph. - Sembra dunque che per cose sensibili tu intenda soltanto quelle che possono venir

percepite immediatamente dal senso.

H. - Proprio così.

21 Ph. - Ma allora, non ne consegue che benché io veda il cielo da una parte rosso e dall’altra

azzurro, e che da ciò la mia ragione debba evidentemente concludere che ci deve essere

una causa di tale diversità di colori, tuttavia questa causa non si può dire che sia una cosa

sensibile, ossia che venga percepita dal senso della vista?

H. - E’ vero.

22 Ph - Nello stesso modo, benché io possa udire suoni diversi, tuttavia non si può dire che io

oda le cause di questi suoni.

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Berkeley, Hylas e Philonous

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H. - No, non si può dire che tu le oda.

23 Ph. - E quando col tatto percepisco che una cosa è calda e pesante, non sarebbe però vero

ed esatto dire che io senta la causa del suo calore e del suo peso.

H. - Per evitare altre domande di questo genere, ti dirò una volta per tutte che con il termine

cose sensibili intendo soltanto quelle cose che vengono percepite dal senso e che in realtà i

sensi non percepiscono null’altro che ciò che percepiscono immediatamente perché 5 essi

non operano inferenze. Quindi dedurre le cause o le occasioni di quegli effetti e di quelle

apparenze che sono tutto ciò che viene percepito dal senso, é dovuto soltanto alla ragione.

24 Ph. - Siamo dunque d’accordo che sono cose sensibili soltanto quelle che vengono percepite

immediatamente dal senso. Adesso, mi dirai se possiamo percepire immediatamente con la

vista qualcosa che non sia luce e colori e figure, o con l’udito qualcosa che non sia suoni, o

col palato qualcosa che non sia sapori, o con l’odorato qualcosa che non sia odori o col

tatto qualcosa di più che le qualità tangibili delle cose.

H. - Non percepiamo altro.

25 Ph. - Sembra perciò che se si tolgano tutte le qualità sensibili, non resta nulla di sensibile.

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George Berkeley (1685-1753)

Princìpi della conoscenza umana (1710)

Traduzione Paolo Francesco Mugnai PARTE PRIMA

§ 1. È evidente per chiunque esamini gli oggetti della conoscenza umana, che questi sono:

o idee impresse ai sensi nel momento attuale; o idee percepite prestando attenzione alle

emozioni e agli atti della mente; o infine idee formate con l’aiuto della memoria e

dell’immaginazione, riunendo, dividendo o soltanto rappresentando le idee

originariamente ricevute nei [due] modi precedenti. Dalla vista ottengo le idee della luce e

dei colori, con i loro vari gradi e le loro differenze. Col tatto percepisco il duro ed il

soffice, il caldo ed il freddo, il movimento e la resistenza, ecc., e tutto questo in quantità o

grado maggiore o minore. L’odorato mi fornisce gli odori; il gusto mi dà i sapori; l’udito

trasmette alla mente i suoni in tutta la loro varietà di tono e di combinazioni. E poiché si

vede che alcune di queste sensazioni si presentano insieme, vengono contrassegnate con

un solo nome, e quindi considerate come una cosa sola. Così, avendo osservato, per

esempio, che si accompagna un certo colore con un certo sapore, un certo odore, una certa

forma, una certa consistenza, tutte queste sensazioni sono considerate come una cosa sola

e distinta dalle altre, indicata col nome di “mela”; mentre altre collezioni di idee

costituiscono una pietra, un albero, un libro e simili cose sensibili che, essendo piacevoli o

spiacevoli, eccitano in noi i sentimenti d’amore, di odio, di gioia, d’ira, ecc.

§ 2. Ma oltre a questa infinita varietà di idee, o di oggetti della conoscenza, v’è poi

qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, ed esercita su di esse diversi atti come il

volere, l’immaginare, il ricordare, ecc. Questo essere che percepisce ed agisce è ciò che

chiamo “mente”, “spirito”, “anima”, “io”. Con queste parole io non indico nessuna mia

idea, ma una cosa interamente diversa da tutte le mie idee e nella quale esse esistono,

ossia dalla quale esse vengono percepite: il che significa la stessa cosa perché l’esistenza

di una idea consiste nel venir percepita.

§ 3. Tutti riconosceranno che né i nostri pensieri né i nostri sentimenti né le idee formate

dall’immaginazione possono esistere senza la mente. Ma per me non è meno evidente che

le varie sensazioni ossia le idee impresse ai sensi, per quanto fuse e combinate insieme

(cioè, quali che siano gli oggetti composti da esse), non possono esistere altro che in una

mente che le percepisce. Credo che chiunque possa accertarsi di questo per via intuitiva,

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Berkeley, Princìpi

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se pensa a ciò che significa la parola “esistere” quando vien applicata ad oggetti sensibili.

Dico che la tavola su cui scrivo esiste, cioè che la vedo e la tocco; e se fossi fuori del mio

studio direi che esiste intendendo dire che potrei percepirla se fossi nel mio studio, ovvero

che c’è qualche altro spirito che attualmente la percepisce. C’era un odore, cioè era

sentito; c’era un suono. cioè era udito; c’era un colore o una forma, e cioè era percepita

con la vista o col tatto: ecco tutto quel che posso intendere con espressioni di questo

genere. Perché per me e del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di

cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse

delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza

fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono.

§ 4. E’ infatti stranamente diffusa l’opinione che le case, le montagne, i fiumi, insomma

tutti gli oggetti sensibili abbiano un’esistenza, reale o naturale, distinta dal fatto di venir

percepiti dall’intelletto. Ma per quanto sia grande la certezza e il consenso con i quali si e

finora accettato questo principio, tuttavia chiunque si senta di metterlo in dubbio, troverà

(se non sbaglio) che esso implica una contraddizione evidente. Infatti, che cosa sono,

ditemi, gli oggetti sopra elencati se non cose che percepiamo con il senso? e che cosa

possiamo percepire oltre alle nostre proprie idee o sensazioni? e non è senz’altro

contraddittorio che una qualunque di queste, o una qualunque combinazione di esse, possa

esistere senza essere percepita?

§ 5. Se esaminiamo accuratamente questo principio, vedremo forse che dipende in fondo

dalle idee astratte. Vi può essere infatti uno sforzo d’astrazione più elegante di quello che

riesce a distinguere l’esistenza di oggetti sensibili dal fatto che essi sono percepiti, sì da

pensare che essi non vengano percepiti? Che cosa sono la luce e i colori, il caldo e il

freddo, l’estensione e le forme, in una parola tutto ciò che vediamo e tocchiamo, se non

tante sensazioni, nozioni, idee od impressioni del senso? Ed è possibile separare, anche

solo mentalmente, una qualunque di esse dalla percezione? Per conto mio, troverei

altrettanto difficile separare una cosa da se stessa. Posso infatti dívidere nei miei pensieri,

ossia concepir separate l’una dall’altra, certe cose che non ho forse mai percepite con il

senso divise in tal modo. Così immagino il busto di un uomo senza le gambe, così

concepisco il profumo d’una rosa senza pensare anche alla rosa. Non negherò che sia

possibile astrarre fino a questo punto: se pure si può correttamente chiamare “astrazione”

un atto che si limita esclusivamente a concepire separatamente certi oggetti che possono

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realmente esister separati ovvero esser effettivamente percepiti separatamente. Ma il mio

potere di concezione o immaginazione non va più in là della possibilità reale di esistenza

o percezione: quindi, poiché mi è impossibile vedere o toccare qualcosa se non sento

attualmente quella cosa, mi è anche impossibile concepire nei miei pensieri una cosa od

oggetto sensibile distinto dalla sensazione o percezione di esso. In realtà, oggetto e

sensazione di esso sono la stessa identica cosa, e non possono dunque venir astratti l’uno

dall’altro.

§ 6. Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprir gli occhi per

vederle. Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le

cose che riempiono la terra, che insomma tutti quei corpi che formano l’enorme

impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse

consiste nel venir percepiti o conosciuti. E di conseguenza, finché non vengono percepiti

attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente ne in quella di qualunque altro

spirito creato, non esistono affatto, o altrimenti sussistono nella mente di qualche Eterno

Spirito: poiché sarebbe assolutamente incomprensibile, e porterebbe a tutte le assurdità

dell’astrazione, l’attribuire a qualunque parte dell’universo un’esistenza indipendente da

ogni spirito. Per dare a questo l’evidenza luminosa di verità assiomatica, sembra

sufficiente che io cerchi di provocare la riflessione del lettore così che egli consideri

spassionatamente il significato [delle parole che adopera] e rivolga direttamente a questo

problema il suo pensiero, liberato e sbarazzato da ogni impaccio di parole e da ogni

prevenzione in favore di errori comunemente accettati.

§ 7. Da ciò che si e detto risulta evidente che non esiste altra sostanza fuorché lo “spirito”,

ossia ciò che percepisce. Ma per meglio dimostrare questo, si osservi che le qualità

sensibili sono il colore, la forma, il movimento, l’odore, il sapore, ecc.: cioè le idee

percepite col senso. Ora, è evidente la contraddizione di un’idea che esista in un essere

che non percepisce, poiché aver un’idea e lo stesso che percepire; dunque ciò in cui

esistono colore, forma, ecc. deve percepirli. È quindi evidente che non può esistere una

sostanza che non pensi, un substratum di quelle idee.

§ 8. Ma, direte, anche se le idee stesse non esistono fuori della mente, possono tuttavia esserci

cose simili a esse che esistano fuori della mente in una sostanza che non pensa e delle quali le

idee siano copie o similitudini. Rispondo che un’idea non può esser simile ad altro che a

un’idea; un colore od una forma non può esser simile ad altro che ad un altro colore e ad

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Berkeley, Princìpi

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un’altra forma. Basta che guardiamo un po’ dentro al nostro pensiero per vedere che ci è

impossibile concepire una simiglianza che non sia simiglianza fra le nostre idee. Di nuovo, io

domando se quei supposti originali ossia quelle cose esterne, delle quali le nostre idee

sarebbero ritratti o rappresentazioni, siano esse stesse percepibili o meno. Se sono percepibili,

sono idee: e ho causa vinta. Se dite che non lo sono, mi appello al primo venuto perché dica

se è buon senso affermare che un colore è simile a qualcosa d’invisibile, che il duro ed il

soffice sono simili a qualcosa che non si può toccare, e così per il resto.

§ 9. Alcuni fanno distinzione fra qualità “primarie” e qualità “secondarie”: con le prime

indicano l’estensione, la forma, il moto, la quiete, la solidità o impenetrabilità, ed il

numero; con le seconde, denotano tutte le altre qualità sensibili, quali i colori, i suoni, i

sapori ecc. Essi riconoscono che le idee che abbiamo di queste ultime non sono

similitudini di cose che esistano fuori della mente, ossia non percepite; ma sostengono che

le nostre idee delle qualità primarie sono esemplari o modelli di cose che esistono fuori della

mente, in una sostanza priva di pensiero che essi chiamano “materia”. Quindi per

“materia” dovremmo intendere una sostanza inerte e priva di senso, nella quale

sussisterebbero attualmente l’estensione, la forma, il movimento, ecc. Ma da ciò che

abbiamo già dimostrato risulta evidente che l’estensione, la forma ed il movimento sono

soltanto idee esistenti nella mente, e che un’idea non può esser simile ad altro che ad una

idea. Quindi né le idee primarie ne i loro archetipi possono esistere in una sostanza che

non percepisce. Di qui e chiaro che la nozione stessa di ciò che vien chiamato “materia” o

“sostanza corporea”, importa una contraddizione. E perciò non riterrei proprio necessario

sciupar altro tempo a mostrarne l’assurdità: ma poiché l’affermazione dell’esistenza della

materia sembra aver presa così salda radice nelle menti dei filosofi e porta tante cattive

conseguenze, preferisco che mi si giudichi prolisso e tedioso piuttosto di omettere

qualcosa che possa giovare a scoprire ed estirpare completamente questo pregiudizio.

§ 10. Quelli che affermano che la forma, il movimento e tutte le altre qualità primarie od

originali esistono fuori della mente in sostanze che non pensano, riconoscono nello stesso

tempo che non esistono i colori, i suoni, il caldo, il freddo, ecc.: questi, dicono, sono

sensazioni che esistono soltanto nella mente, e che dipendono e sono prodotte dalle varietà

di dimensione, di costituzione, di movimento, ecc. delle minute particelle di materia. Essi

credono che sia questa una verità indubitabile, che possono provare oltre ogni dubbio. Ma

se fosse certo che le qualità primarie sono unite inscindibilmente con tutte le altre qualità

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Berkeley, Princìpi

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sensibili e non possono venir separate da esse né meno col pensiero, ne seguirebbe

evidentemente che esse esistono soltanto nella mente. Ora, vorrei che ciascuno riflettesse

e provasse se può, con qualche astrazione del pensiero, concepire l’estensione e il

movimento d’un corpo senza tutte le altre qualità sensibili. Per conto mio, trovo evidente

che non posso formarmi l’idea d’un corpo esteso e in moto senza attribuirgli anche un

qualche colore o altra qualità sensibile che si riconosce esistere soltanto nella mente. In

breve, l’estensione, la forma ed il moto, astratti dalle altre qualità sensibili, sono

inconcepibili. Dove dunque sono le altre qualità sensibili vi saranno anche le qualità

primarie: cioè, saranno anch’esse nella mente e non altrove.

§ 11. E poi, si riconosce che il grande e il piccolo, il rapido e il lento non esistono in

nessun luogo fuori della mente poiché sono affatto relativi e mutano col mutare della

struttura e della posizione degli organi del senso. Quindi l’estensione che esiste fuori della

mente non è né grande né piccola, e il movimento non è ne rapido né lento: vale a dire,

ambedue non sono proprio nulla. Ma, direte, ci sono l’estensione in generale ed il

movimento in generale: da questo si vede come l’affermazione di sostanze estese e mobili

che esistono fuori della mente dipenda dalla strana dottrina delle idee astratte. E qui non

posso far a meno di notare come la definizione vaga e indeterminata della materia o

sostanza corporea, nella quale incorrono tutti i filosofi moderni in forza dei loro stessi

princìpi, somigli da vicino a quella nozione antiquata e tanto derisa di una “materia

prima” che si può trovare in Aristotele e nei suoi seguaci. Non si può concepire la solidità

senza estensione: e poiché s’é provano che l’estensione non esiste in una sostanza che non

pensi, questo deve valere anche per la solidità.

§ 12. Che il numero sia del tutto creatura della mente, anche quando si ammetta che le

altre qualità esistono fuori [di essa], sarà evidente a chiunque consideri che la stessa cosa

comporta differenti denotazioni numeriche secondo i diversi rispetti sotto i quali vien

considerata dalla mente. Così la stessa lunghezza è uno, tre o trentasei secondo che la

mente la considera riferita a uno yard, a un piede o ad un pollice. E’ così evidente che il

numero è relativo e dipende dall’intelletto umano, da esser strano pensare come mai

qualcuno possa attribuirgli un’esistenza assoluta fuori della mente. Noi diciamo: un libro,

una pagina, una riga, ecc., e tutte quante sono unità benché certe unità contengano

parecchie delle altre unità. In ogni modo, è evidente che la unità si riferisce a qualche

particolare combinazione di idee che vengono associate ad arbitrio dalla mente.

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Berkeley, Princìpi

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§ 13. So che molti pretendono che l’unità sia una idea semplice ossia non composta, la

quale accompagna tutte le altre idee che entrano nella mente. Ma io non m’accorgo di

possedere una qualunque idea che corrisponda alla parola “unità”, mentre se l’avessi non

potrei far a meno di trovarla, anzi dovrebbe esser l’idea più familiare al mio intelletto

poiché si afferma che accompagni tutte le altre idee e sia percepita per tutti i tramiti della

sensazione e della riflessione. Per non dilungarci, si tratta di una idea astratta.

§ 14. Aggiungerò inoltre che come i filosofi moderni provano che i colori, i sapori, ecc.

non esistono nella materia ossia fuori della mente, nello stesso modo si può dimostrare

altrettanto di qualsivoglia altra qualità sensibile. Così, per esempio, si afferma che il caldo

ed il freddo sono soltanto affezioni della mente e non affatto riproduzioni di enti reali che

esistano nelle sostanze corporee le quali suscitano quelle affezioni perché lo stesso corpo

che appare freddo ad una mano sembra caldo all’altra. Ora, perché non potremmo

dimostrare analogamente che la forma e l’estensione non sono schemi o similitudini di

qualità che esistano nella materia, dato che allo stesso occhio in posizioni diverse ovvero a

occhi di diversa costruzione nella stessa posizione, esse appaiono diverse, e non possono

quindi essere immagini di qualcosa che sia fisso e determinato senza la mente? Inoltre, è

dimostrato che il dolce non e realmente nella cosa gustata, perché restando inalterata la

cosa, il dolce si muta in amaro, come avviene per una febbre o per qualcos’altro che alteri

il senso del gusto. E non è altrettanto ragionevole dire che il movimento non esiste fuori

della mente, poiché si riconosce che se la successione di idee nella mente diventa più

rapida, il movimento apparirà più lento senza nessun cambiamento esterno?

§ 15. Insomma, se uno esamina quegli argomenti che si crède provino ad evidenza che i

colori i sapori, ecc. esistono soltanto nella mente, troverà che gli stessi argomenti possono

venir addotti a provare lo stesso per l’estensione, la forma ed il movimento. Tuttavia, si

deve riconoscere che questo processo d’argomentazione non prova proprio che non

esistano estensione, colore, ecc. in un oggetto esterno, ma piuttosto che non conosciamo

col senso quale sia la vera estensione o il vero colore dell’oggetto. Sono invece le

argomentazioni precedenti che mostrano chiaramente come sia impossibile che un colore

qualunque o una qualunque estensione o qualsivoglia altra qualità sensibile possa esistere

in un soggetto che non pensa, fuori della mente, ed anzi che esista qualcosa che sia un

oggetto esterno.

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Berkeley, Princìpi

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§ 16. Ma esaminiamo un poco l’opinione comune. Si dice che l’estensione è un modo od

un accidente della materia, e che la materia è il substratum che lo sostiene. Ora vorrei che

mi spiegaste che, cosa s’intende dicendo che la materia “sostiene” l’estensione? Voi

rispondete che non avendo idea della materia, non potete spiegarlo. Rispondo che, benché

non abbiate un’idea positiva della materia, pure, se le vostre parole hanno un qualunque

senso, dovete averne almeno un’idea relativa: benché voi non sappiate che cosa essa sia,

tuttavia si deve supporre che sappiate che relazione essa abbia con gli accidenti e che cosa

s’intende dicendo che essa “li sostiene”. È evidente che la parola “sostegno” non può

esser qui intesa nel suo senso usuale o letterale, come quando diciamo che le colonne

sostengono un edificio. In che senso dunque si deve intenderla? Per ciò che mi riguarda,

non riesco a trovare un significato che le si possa applicare.

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Joseph Butler (1692-1752)

‘Dissertazione sulla identità personale’ (1736)

Traduzione Richard Davies1 e Cecilia Mazzoleni

La domanda circa la nostra sopravvivenza in uno stato futuro costituisce sia la domanda più

importante che si possa porre, che la più intelligibile che si possa esprimere nella lingua

umana. Ciononostante delle perplessità strane sono state sollevate intorno al significato di

quell’identità e di quell’essere-la-stessa-persona che è implicito nella nozione del nostro

vivere adesso e nell’aldilà, o in due momenti successivi. E la soluzione di queste difficoltà si è

verificata più strana delle difficoltà stesse. Perché l’identità personale è stata spiegata da

alcuni pensatori in modo tale da rendere la domanda riguardo alla vita futura priva di

significato per noi stessi che la poniamo. Sebbene siano pochi gli uomini che possono essere

ingannati da tali sottigliezze, può comunque risultare appropriato prestarle un po’ di

attenzione.

Dunque, quando ci si chiede in che cosa consista l’identità personale, la risposta dovrebbe

essere la stessa se si chiedesse in che cosa consista la similitudine o l’uguaglianza; così ogni

tentativo di fornire una definizione porterebbe ad ulteriori perplessità. Però non esiste nessuna

difficoltà nell’afferrare l’idea. Perché nello stesso modo in cui, quando si paragonano o si

vedono insieme due triangoli, sorge nella mente l’idea di similitudine, o anche quando si

mettono insieme due volte due e quattro, sorge l’idea di uguaglianza, così quando si

paragonano la coscienza di se stesso o della propria esistenza in due momenti diversi, sorge

immediatamente nella mente l’idea di identità personale. E nello stesso modo in cui i primi

due paragoni non solo ci forniscono le idee di similitudine e di uguaglianza ma anche ci

mostrano come due triangoli siano simili e come due volte due e quattro siano uguali; così

anche l’ultimo paragone non solo ci fornisce l’idea di identità personale, ma ci mostra

l’identità di noi stessi in quei due momenti, supponiamo nel presente e nel passato recente; o

nel presente e un mese, un anno o venti anni fa. In altre parole, attraverso una riflessione su

ciò che adesso è me stesso e ciò che è stato me stesso venti anni fa, io riconosco che non sono

due, ma un unico e identico io.

1 ringrazio anche Andrea Bottani per i suoi commenti sulla prima versione (nota di Davies).

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Butler, Dissertazione

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Ma, anche se la nostra conoscenza di ciò che è passato ci rende certi della nostra identità

personale, sostenere che essa costituisca l’identità personale o che sia necessaria al nostro

essere la stessa persona implicherebbe che una persona non sia esistita per un singolo attimo

né abbia commesso un’azione a meno che non riesca a ricordarsene; anzi, a meno che non ci

rifletta. E in verità si dovrebbe riconoscere come evidente Il fatto che la coscienza

dell’identità personale presuppone, e quindi non può costituire l’identità personale: e questo è

tanto evidente quanto il fatto che, in generale, la conoscenza non può costituire la verità che

essa presuppone.

Questo mirabile errore può forse essere sorto dal fatto che la qualità di avere coscienza è

inseparabile dalla nozione di persona o di essere intelligente. Cosi, il fatto in questione può

essere espresso in modo fuorviante come segue: posto che la coscienza costruisce la

personalità, se ne conclude che costruisca anche l’identità personale. Però, sebbene la

coscienza presente di ciò che stiamo facendo e sentendo sia necessaria al nostro essere la

persona che adesso siamo, la coscienza presente di azioni o sentimenti passati non è

necessaria al nostro essere la stessa persona che faceva quelle azioni o che era il soggetto di

quei sentimenti.

La questione di che cosa renda una pianta se stessa, nel significato comune di quella

parola, sembra non aver a che fare con quella riguardo all’identità personale, perché quando la

parola stessa viene applicata sia a loro che alle persone, essa non si riferisce soltanto a

soggetti diversi ma porta significati diversi. Quando un uomo giura che lo stesso albero sta da

cinquant’anni nello stesso posto, intende la parola ‘stesso’ per quanto concerne tutte le

faccende di proprietà e gli usi della vita comune, e non che l’albero è stato lo stesso nel senso

stretto e filosofico di quella parola. Perché non sa se qualunque particella dell’albero sia

identica ad una particella dell’albero che stava in quel posto cinquant’anni fa. E se non hanno

neanche una particella di materia in comune, non possono essere lo stesso albero nel senso

stretto e filosofico della parola stesso, essendo palesemente una contraddizione in termini dire

che lo sono anche se nessuna parte della loro sostanza e nessuna delle loro proprietà è la

stessa; diciamo ‘nessuna parte della loro sostanza’ riprendendo l’ipotesi; e diciamo ‘nessuna

delle loro proprietà’ perché tutti ammettono che la stessa proprietà non possa trasferirsi da una

sostanza all’altra. Quindi, quando diciamo che l’identità o l’essere-la-stessa di una pianta

consiste nella continuazione di una stessa vita comunicata, sottoforma della stessa

organizzazione, ad un certo numero di particelle di materia, siano esse le stesse o meno, la

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Butler, Dissertazione

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parola stessa, quando applicata alla vita e all’organizzazione non può minimamente essere

interpretata secondo ciò che significa in questa stessa frase, quando si applica alla materia. In

questo senso lato e popolare, allora, la vita, l’organizzazione e la pianta sono giustamente

descritte come le stesse nonostante il cambiamento perpetuo delle parti. Ma usando un modo

stretto e filosofico di parlare, nessun uomo, nessun ente, nessun modo di essere, nessuna cosa

qualsiasi può essere lo stesso di ciò con il quale non ha niente dello stesso. Dunque, l’essere-

lo-stesso viene usato in questo secondo senso quando si applica a persone. L’identità di

queste, dunque, non è coerente con la diversità di sostanza.

L’argomento qui preso in considerazione e determinato in modo, a mio avviso,

dimostrativo, viene proposto dal Signor Locke con queste parole: Se esso, vale a dire lo stesso

‘io’ o persona, sia la stessa identica sostanza?2 Ed egli ha suggerito una risposta alla

domanda molto migliore della forma in cui la propone. Perché definisce una Persona come un

essere pensante, intelligente, ecc., e l’identità personale come l’essere-lo-stesso di un’ente

razionale. La domanda da porsi allora è se lo stesso essere pensante sia la stessa sostanza o

meno: e questa non abbisogna di una risposta in questa sede perché Essere e Sostanza

indicano la stessa idea. Si dice che il motivo di dubitare se la stessa persona sia la stessa

sostanza o meno consista nel fatto che la coscienza della nostra esistenza in giovane età e

nella vecchiaia, o in due momenti tra loro successivi non è la stessa azione individuale, vale a

dire non è la stessa coscienza ma diverse successive coscienze. Ora, è strano che questo fatto

abbia suscitato tali perplessità. Perché è sicuramente concepibile che una persona possa essere

in grado di sapere di un qualunque oggetto che è lo stesso adesso di ciò che era quando l’ha

contemplato in passato; però in questo caso, in cui, riprendendo l’ipotesi, l’oggetto viene

percepito come lo stesso, mentre le percezionI di esso in due momenti diversi non possono

essere un’unica e stessa percezione. Così, nonostante le successive coscienze che abbiamo

della nostra esistenza non siano le stesse, sono comunque coscienze di un’unica e stessa cosa,

sia essa un oggetto, o una stessa persona, ‘io’, o agente vivente. La persona la cui esistenza

viene sentita adesso ed è stata sentita un’ora o un anno fa, viene percepita non come due

persone ma come una e la stessa persona; e quindi è una e la stessa.

Le osservazioni del Signor Locke a riguardo sembrano affrettate; ed egli stesso sembra

ritenersi insoddisfatto delle supposizioni che ha fatto in relazione all’argomento. Ma alcune

delle osservazioni affrettate sono state portate ad un bizzarro estremo da parte di altri, la cui

2 Il rimando è al testo lockeano riportato sopra (nota di Davies).

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Butler, Dissertazione

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idea, rintracciata ed esplorata a fondo, sembra essere la seguente: ‘La personalità non è una

cosa permanente ma passeggera; essa vive e muore, ha continuamente inizio e fine; non è

possibile per qualcuno rimanere un’unica e stessa persona per due momenti di seguito più di

quanto non lo sia per due momenti successivi esserne solo un unico e stesso momento; la

nostra sostanza è in verità continuamente in cambiamento; ma che le cose stiano così o meno,

non è pertinente, poiché non è la sostanza ma solo la coscienza a costituire la personalità; e

tale coscienza, essendo successiva, non può rimanere la stessa in due momenti, né quindi lo

può la personalità che ne è costituita’. Da tutto questo deve conseguire che è un torto verso

noi stessi imputare al nostro io presente qualsiasi cosa abbiamo fatto, o immaginare che il

nostro io presente sia coinvolto in qualsiasi cosa che ci sia accaduta ieri o, viceversa,

interessato a ciò che ci accadrà domani: poiché il nostro io presente non è, in verità, lo stesso

dell’io di ieri, ma un altro io simile o un’altra persona che arriva in sua vece e può essere

scambiato per esso. Perciò questo deve conseguire, dico, perché, se l’io o la persona di oggi e

quello di domani non sono gli stessi ma solo persone simili, allora la persona di oggi non è

interessata a ciò che accadrà alla persona di domani più di quanto non lo sia a ciò che accadrà

a qualsiasi altra persona. Si potrebbe forse pensare che questo non sia un resoconto giusto

dell’opinione che stiamo riferendo, perché i suoi sostenitori ammettono che la persona risulta

la stessa fino al limite della memoria, tant’è vero che usano le parole identità e la stessa

persona. La lingua stessa non permetterà di fare a meno di queste parole; perché se si

arrivasse a tanto, sarebbe necessario sostituirle con una ridicola perifrasi difficile da

immaginare. Ma non possono, coerentemente con se stessi, intendere che la persona è

effettivamente la stessa. Perché è evidente da sé che la personalità non può essere

effettivamente la stessa se, come affermano esplicitamente, tutto ciò in cui essa consiste non è

lo stesso. Siccome non possono intendere - e quindi, a quanto mi risulta, coerentemente con se

stessi, non intendono - che la persona sia effettivamente la stessa, ma che lo sia solo in un

senso fittizio, è solo in tale senso che affermano ciò che in effetti affermano, che un numero

qualsiasi di persone possano essere la stessa persona. La mera esplicitazione di questa idea, il

presentarla nuda e cruda, sembra costitutirne la confutazione migliore. Comunque, poiché si

dice che viene fortemente enfatizzata, aggiungerò quanto segue.

Primo. Questa idea è in contrasto assoluto con quella convinzione certa che sorge sempre e

necessariamente in noi quando rivolgiamo i nostri pensieri verso noi stessi e riflettiamo su ciò

che è passato mentre guardiamo avanti a ciò che è a venire. Ogni fantasia di un cambiamento

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Butler, Dissertazione

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quotidiano di quell’agente vivente che ciascun uomo chiama se stesso in qualcosa d’altro, o di

un tale cambiamento lungo tutta la nostra vita presente, viene abbattuta dal nostro senso

naturale delle cose. Né è possibile per una persona sana di mente alterare il proprio

comportamento riguardo alla sua salute o ai suoi affari per il sospetto che, benché vivrà

domani, non sarà comunque la stessa persona che è oggi. Cionondimeno, se fosse ragionevole

agire riguardo ad una vita futura in base a questa nozione secondo cui la personalità è

passeggera, sarebbe ragionevole agire in base ad essa anche riguardo alla vita presente. Ecco,

dunque, una nozione che risulta applicabile in modi uguali ai nostri affari religiosi e a quelli

temporali; tutti ne vedono e sentono l’assurdità ineffabile nel secondo di questi casi; se,

quindi, qualcuno arrivasse ad applicarla anche al primo, ciò non potrebbe essere conseguenza

della ragione della cosa, ma dovrebbe essere dovuto ad un’ingiustizia interiore e ad una

corruzione nascosta del cuore.

Secondo. Non è un’idea né una nozione astratta né una qualità, ma solo un essere, che è

capace di vivere e di agire, di essere felice e triste. Ora, si ammette che tutti gli esseri

continuino ad essere gli stessi per l’intera durata della loro esistenza. Si consideri, dunque, un

essere vivente che esiste adesso e che è esistito vivente per un benché minimo tempo: questo

essere vivente deve aver fatto, subito e goduto ciò che (questo stesso essere vivente, dico, e

non un altro) ha fatto, subito e goduto in precedenza, nello stesso modo in cui fa, subisce e

gode ciò che fa, subisce e gode in questo istante. Tutte queste azioni e passioni e tutti questi

godimenti successivi sono azioni, passioni e godimenti dello stesso essere vivente. E lo sono

anche a prescindere da qualsiasi considerazione di rimembranza o di dimenticanza, poiché

rimembranza e dimenticanza nulla possono fare per alterare la verità di dati di fatto passati. Se

supponiamo questo essere dotato di poteri limitati di conoscenza e di memoria, non è più

difficile concepirlo capace di riconoscere se stesso come l’essere vivente che era qualche

tempo fa, di ricordarsi di alcune delle sue azioni e passioni e di alcuni dei suoi godimenti, e di

dimenticarsene altri, che concepirlo come capace di conoscere o di ricordarsi o dimenticarsi di

qualsiasi altra cosa.

Terzo. Ogni persona è cosciente del fatto di essere la stessa persona, o lo stesso io, che era

fino al limite della propria memoria: poiché quando chiunque rifletta su una propria azione

passata, rimane tanto certo della persona che ha compiuto quell’azione - vale a dire se stesso,

la persona che ci riflette adesso - quanto è certo che l’azione è stata effettivamente compiuta.

Anzi, accade spesso che la certezza che qualcuno ha del fatto che sia stata compiuta

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Butler, Dissertazione

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un’azione, di cui è assolutamente sicuro, sorga dalla conoscenza che è stato lui stesso a

compierla. E questo lui, persona o io deve essere o una sostanza, o una proprietà di una

sostanza. Se lui, la persona, è una sostanza, allora la coscienza di essere la stessa persona è la

coscienza di essere la stessa sostanza. E se la persona, cioè lui, è una proprietà di una

sostanza, di nuovo la coscienza di essere la stessa proprietà è una prova tanto certa che la sua

sostanza rimanga la stessa quanto lo sarebbe la coscienza di rimanere la stessa sostanza,

poiché la stessa proprietà non può essere trasferita da una sostanza all’altra.

Ma benché siamo in questo modo certi di essere ora gli stessi agenti, esseri viventi o

sostanze che eravamo fino al limite della nostra memoria, ci si ostina a chiedere se non

possiamo esserci illusi a riguardo. E una siffatta domanda può essere posta alla fine di

qualsiasi dimostrazione, perché La domanda verte sulla verità della percezione attraverso la

memoria. E chi può dubitare, in questo caso, se ci si possa fidare o meno della percezione

attraverso la memoria, è libero anche di dubitare se ci si possa fidare o meno della percezione

attraverso la deduzione e il ragionamento, che coinvolgono anche la memoria, o, addirittura,

di dubitare della percezione intuitiva. A questo punto non possiamo spingerci più oltre.

Perché è ridicolo tentare di dimostrare la verità di percezioni la cui verità non possiamo

dimostrare se non attraverso percezioni dello stesso preciso genere; o di tentare di dimostrare

la veridicità delle nostre facoltà, che non possiamo dimostrare se non con l’uso o per mezzo di

quelle stesse facoltà che abbiamo sfiduciato.

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David Hume (1711-76) Trattato dell’intendimento umano (1739)

Traduzione E. Lecaldano

Libro I (Sull’intelletto), Parte iv (Lo scetticismo e altri sistemi),

Sezione 6: L’identità personale

Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di

ciò che chiamiamo il nostro io: che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua

esistenza; e che siamo certi, con un’evidenza che supera ogni dimostrazione, della sua perfetta

identità e semplicità. Le sensazioni più forti, le passioni più violente, dicono essi, invece di

distrarci da tale coscienza, non fanno che fissarla più intensamente e mostrarci, col piacere e

col dolore, quanta sia la loro influenza sull’io. Tentare un’ulteriore prova di ciò sarebbe, per

essi, indebolirne l’evidenza: non c’è nessun fatto del quale noi siamo così intimamente

coscienti come questo; e se dubitiamo di questo, non resta niente di cui si possa esser sicuri.

Disgraziatamente, tutte queste recise affermazioni sono contrarie all’esperienza stessa da

essi invocata: noi non abbiamo nessun’idea dell’io, nel modo che viene qui spiegato. Da

quale impressione potrebbe derivare tale idea? È impossibile rispondere a questa domanda

senza cadere in contraddizioni e assurdità manifeste; c tuttavia è una domanda alla quale

necessariamente va data una risposta, se pretendiamo far passare l’idea dell’io come chiara e

intelligibile. Ci vuol sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la

persona, non è una impressione: è ciò a cui vengon riferite, per supposizione, le diverse nostre

impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io,

quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della

nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna

impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e

sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. Non può essere,

dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per

conseguenza, non esiste tale idea.

Inoltre, che cosa diventano, secondo questa ipotesi, tutte le percezioni particolari? Esse

sono tutte differenti, distinguibili e separabili, e possono esser considerate ed esistere

separatamente l’una dall’altra senza bisogno di nulla che ne sostenga l’esistenza. In che

modo, allora, appartengono all’io, e come sono in relazione con questo? Per parte mia,

quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in

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Hume, Trattato

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una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di

dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a

cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti,

come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso, e si può dire che realmente,

durante quel tempo, non esisto. E se tutte le mie percezioni fossero soppresse dalla morte, sì

che non potessi più né pensare né sentire, né vedere, né amare, né odiare, e il mio corpo

fosse dissolto, io sarei interamente annientato, e non so che cosa si richieda di più per far di

me una perfetta non-entità. Se qualcuno, dopo una seria e spregiudicata riflessione, crede di

avere una nozione differente di se stesso, dichiaro che non posso seguitar a ragionare con

lui. Tutt’al più, gli potrei concedere che può aver ragione come l’ho io, e che in questo

punto siamo essenzialmente differenti: egli forse percepisce qualcosa di semplice e di

continuo, che chiama se stesso, mentre io son certo che in me un tale principio non esiste.

Ma, fatta eccezione di qualche metafisico di questa specie, io oso affermare che per il

resto dell’umanità noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si

susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. I nostri

occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro

pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà

contribuiscono a questo cambiamento; né esiste forse un solo potere dell’anima che resti

identico, senza alterazione, un momento. La mente è una specie di teatro, dove le diverse

percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con

un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa nessuna

semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione

naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il

paragone del teatro: a costituire la mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non

abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del

materiale di cui è composta.

Che cos’è, dunque, che ci dà così forte inclinazione ad attribuire un’identità a queste

percezioni successive, e a noi stessi un’invariabile e ininterrotta esistenza attraverso il corso

di tutta la vita? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo distinguere fra l’identità

personale in quanto riguarda il pensiero o l’immaginazione ed in quanto riguarda le passioni

o l’interesse che prendiamo a noi stessi. Qui si parla soltanto della prima, e per spiegarla in

modo esauriente dobbiamo approfondirla con l’indagine di quell’identità che attribuiamo

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Hume, Trattato

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anche alle piante e agli animali, essendovi una grande analogia -tra essa e quella dell’io

ossia della persona.

Noi abbiamo un’idea distinta di un oggetto che rimane invariabile e ininterrotto attraverso

una data variazione di tempo: quest’idea noi la chiamiamo d’identità o di medesimezza.

Abbiamo anche un’idea distinta di molti e differenti oggetti esistenti successivamente e

connessi da una stretta relazione: essa, guardata in fondo, ci dà una così perfetta nozione

della diversità come se non ci fosse nessuna relazione fra gli oggetti. Ma, sebbene queste

due idee, d’identità e di successione di oggetti in relazione siano in se stesse perfettamente

distinte e anche contrarie,, è certo, tuttavia, che nel nostro abituale modo di pensare

vengono generalmente confuse l’una con l’altra. L’atto dell’immaginazione, col quale

consideriamo un oggetto ininterrotto e invariabile, lo sentiamo quasi identico a quello col

quale riflettiamo su una successione di oggetti in relazione; né lo sforzo del pensiero

richiesto per quest’ultimo è maggiore che pel primo, perché la relazione facilita il passaggio

della mente da un oggetto all’altro e lo rende così piano come se essa contemplasse un

oggetto solo e continuo. Questa somiglianza è la causa della confusione e dell’errore, perché

ci fa sostituire la nozione d’identità a quella di oggetti in relazione. Per quanto possiamo a

ogni istante constatare la successione relativa come variabile e interrotta, si può esser certi

che un momento uopo le attribuiamo una perfetta identità e la consideriamo come

invariabile e ininterrotta. La nostra tendenza a quest’errore, a cagione della detta

somiglianza, è così grande,che vi cadiamo prima di accorgercene; e benché con la

riflessione e col ritorno a un metodo più accurato di pensare ce ne correggiamo di continuo,

pure non riusciamo a sostenere a lungo la nostra filosofia e a liberare l’immaginazione da

questa sua tendenza. L’ultimo nostro ripiego, allora, è di arrenderci e affermare

sfacciatamente che questi differenti oggetti in relazione sono in verità la stessa cosa, per

quanto interrotti e variabili. Per giustificare quest’assurdo ai nostri occhi, immaginiamo

spesso qualche nuovo e inintelligibile principio che unisca gli oggetti insieme e ne prevenga

l’interruzione o la variazione. Così ci fingiamo una continuata esistenza delle nostre

percezioni sensibili per negarne l’interruzione, e ricorriamo alla nozione di un’anima, di un

io, di una sostanza, per mascherare la variazione. E quando anche non ricorriamo a una tale

finzione, la nostra tendenza a confondere l’identità con la relazione è tanto grande, che

incliniamo a immaginare qualcosa d’ignoto e misterioso che riconnetta le parti, oltre la loro

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Hume, Trattato

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relazione1: tale mi sembra il caso dell’identità che attribuiamo alle piante e ai vegetali. E

quando anche ciò non avviene, sempre proviamo la tentazione di confondere queste idee,

per quanto su questo punto non riusciamo a star tranquilli mai pienamente e a trovare

qualcosa d’invariabile e ininterrotto che giustifichi la nostra nozione d’identità.

La controversia sull’identità non è, dunque, semplicemente una questione di parole.

Poiché, quando si attribuisce impropriamente un’identità a oggetti variabili e interrotti, il

nostro errore non si limita all’espressione, ma è di solito accompagnato da una finzione di

qualcosa invariabile e ininterrotta, o di qualcosa inesplicabile e misteriosa, o almeno dalla

tendenza a tali finzioni. In prova di ciò, e a soddisfazione di ogni imparziale investigatore,

basterà mostrare, con l’esperienza e l’osservazione quotidiana, che gli oggetti variabili o

interrotti, i quali tuttavia si suppone che continuino a essere gli stessi, sono quelli soltanto

che risultano da una successione di parti unite dalla relazione di somiglianza, di contiguità e

di causalità. Se questa successione, infatti, corrisponde evidentemente alla nozione di

diversità, è soltanto per errore che noi attribuiamo a essa un’identità; e siccome il rapporto

delle parti, che c’induce in quest’errore, non è altro in realtà se non una qualità che produce

un’associazione di idee e il facile passaggio dell’immaginazione dall’una all’altra, ciò che

dà origine all’errore è la somiglianza fra quest’atto della mente e quello col quale

contempliamo un oggetto unico e continuo. Il nostro compito principale è, dunque, quello di

provare che tutti gli oggetti ai quali attribuiamo un’identità, senza prima assicurarci che

siano invariabili e ininterrotti, sono quelli che risultano da una successione di oggetti in

relazione.

A questo fine, supponiamo che un ammasso di materia, di cui le parti siano connesse e

contigue, ci stia innanzi. È evidente che dobbiamo attribuire una perfetta identità a questo

ammasso, purché tutte le parti continuino ad essere le stesse senza interruzione o variazione,

qualunque movimento o mutamento di posto vi possiamo osservare nel tutto o in ciascuna

delle parti. Ma, supponendo che una parte piccolissima, impercettibile, venga aggiunta o

sottratta, benché, strettamente parlando, l’identità del tutto sia assolutamente distrutta,

tuttavia, siccome di rado pensiamo con tanta precisione, non ci facciamo scrupolo di dire

che l’ammasso di materia è lo stesso nonostante quell’insignificante alterazione. I1

passaggio del pensiero dall’oggetto qual era prima a quello che è dopo quel mutamento è

1 Se il lettore desidera vedere come un grande genio, alla pari del semplice volgo, può esser trascinato da questi princìpi, in apparenza così triviali, dell’immaginazione, legga i ragionamenti di Lord Shaftesbury sul principio unificatore dell’universo e sull’identità delle piante e degli animali. Vedi, di lui, I moralisti: rapsodia filosofica.

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così piano e facile, che ce ne accorgiamo appena, e tendiamo a immaginare che noi stiamo

considerando lo stesso oggetto.

C’è, in questa esperienza, una circostanza degna di nota: che, sebbene il mutamento di

una particella di materia distrugga l’identità del tutto, tuttavia noi non dobbiamo misurare la

grandezza delle parti in modo assoluto, ma in proporzione al tutto. L’aggiunta o la

sottrazione di una montagna non sarebbe sufficiente a produrre una diversità in un pianeta,

mentre il cambiamento di pochi pollici basta a distruggere l’identità di altri corpi. Non è

possibile darne la ragione se non riflettendo che quegli oggetti operano sulla mente, e

spezzano o interrompono la continuità delle sue azioni, a seconda non della loro reale

grandezza, ma della loro reciproca proporzione. E quindi, poiché tale interruzione fa sì che

un oggetto cessi di apparire lo stesso, dev’essere il corso ininterrotto del pensiero quello che

costituisce l’identità imperfetta.

Un altro fenomeno conferma la stessa cosa. Il mutamento in una parte considerevole di un

corpo distrugge la sua identità; ma dove il mutamento si produce gradualmente e

insensibilmente, siamo meno inclinati ad attribuire a esso il medesimo effetto. La ragione è

semplicemente nella nostra mente, la quale, nel seguire i cambiamenti successivi del corpo,

sente di passare facilmente dalla condizione dell’oggetto osservata in un certo momento a

quella di un altro momento, e tra questi suoi atti di osservazione non percepisce in nessun

tempo particolare un’interruzione. Per questa continuità di percezione la mente attribuisce

un’identità ed esistenza continuata all’oggetto.

Ma, per quanta precauzione si usi a graduare il mutamento e renderlo proporzionato al

tutto, è certo che, quando ci accorgiamo alla fine che i cambiamenti son diventati

considerevoli, ci facciamo scrupolo di attribuire un’identità a oggetti così differenti.

Ricorriamo, allora, a un altro artifizio per indurre l’immaginazione a far un passo innanzi:

riferiamo ogni parte all’altra, e adattiamo l’insieme per qualche fine, o scopo, comune. Una

nave, di cui una parte considerevole sia stata cambiata da frequenti riparazioni, viene

tuttavia considerata come la stessa, né la differenza del materiale c’impedisce di attribuire

ad essa un’identità. Il fine comune, al quale le parti cospirano, è lo stesso attraverso tutte le

variazioni, e offre un facile passaggio dell’immaginazione da una condizione del corpo a

un’altra.

Ma la cosa è tanto più manifesta quando aggiungiamo una simpatia delle parti per il loro

fine comune, e supponiamo ch’esse abbiano l’una con l’altra, in tutte le loro azioni e

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operazioni, una relazione reciproca di causa ed effetto. Così facciamo per tutti gli animali e

vegetali, nei quali le diverse parti hanno non solo un riferimento a un fine comune, ma

anche una mutua dipendenza e una reciproca connessione, L’effetto di una relazione così

forte è che, sebbene ognuno debba convenire che in pochissimi anni tanto i vegetali quanto

gli animali subiscono un mutamento totale, tuttavia si seguita ad attribuire loro un’identità,

anche quando la forma, la grandezza, la sostanza siano completamente alterate. Una quercia

che cresce e da una piccola pianta diventa un grande albero, è sempre la stessa quercia,

sebbene nemmeno una particella di materia, o la configurazione di una sua parte, sia più la

stessa. Così un bambino diventa uomo: qualche volta è grasso: qualche volta magro: ma la

sua identità non muta.

Consideriamo anche i due seguenti fenomeni, notevoli nel loro genere. Il primo è che,

nonostante che siamo in grado di distinguere di solito assai esattamente tra una identità

numerica e un’identità specifica, pure qualche volta ci capita di confonderle, e di adoperare

l’una per l’altra quando pensiamo e ragioniamo. Così, sentendo un rumore frequentemente

interrotto e rinnovato, diciamo che è sempre lo stesso rumore, benché sia evidente che i

suoni hanno soltanto un’identità specifica, o somiglianza, e che non c’è di numericamente

identico altro che la causa che li produce. Nello stesso modo si potrebbe dire, senza

incorrere in alcuna improprietà di linguaggio, che una chiesa costruita in mattoni è rovinata,

e che la parrocchia l’ha ricostruita, quella stessa, in pietra da taglio e secondo l’architettura

moderna. Qui né la forma né la materia sono le stesse, né c’è nulla di comune ai due oggetti,

all’infuori della loro relazione con gli abitanti della parrocchia, e tuttavia questo basta per

dire che la cosa è la stessa. Si noti, tuttavia, che in questo caso il primo oggetto è in certo

modo annientato prima che il seconda cominci ad esistere, per cui non ci si presenta in

nessun istante l’idea di differenza e di molteplicità, e per questo abbiamo meno scrupolo a

dire ch’è lo stesso oggetto.

Possiamo, in secondo luogo, far notare che sebbene, in una successione di oggetti in

relazione, è in certo modo necessario che il cambiamento delle parti non sia improvviso e

completo per mantenere l’identità, pure, dove gli oggetti per loro natura sono mutevoli e

incostanti, noi ammettiamo che possa esserci un passaggio più improvviso di quello che in

altra circostanza sarebbe consentito da quella relazione. Così, poiché la natura d’un fiume

consiste nel movimento e cambiamento delle sue parti, per quanto queste in meno di

ventiquattro ore siano totalmente alterate, ciò non impedisce che il fiume continui a esser lo

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Hume, Trattato

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stesso per parecchi secoli. Ciò che è naturale ed essenziale a qualcosa è in certo modo

aspettato, e ciò che è aspettato fa minore impressione e appare meno importante di quello

che è insolito e straordinario: un cambiamento considerevole della prima specie sembra

all’immaginazione realmente minore della più insignificante alterazione della seconda, e

interrompendo meno la continuità del pensiero ha minore influenza nel distruggere

l’identità.

Ed ora veniamo alla natura dell’identità personale, diventata una questione di così

grande importanza nella filosofia, specialmente in questi ultimi anni in Inghilterra, dove le

scienze più oscure sono studiate con particolare ardore e diligenza. È evidente che

dobbiamo anche qui seguire lo stesso modo di ragionare, il quale ci ha spiegato con tanta

chiarezza l’identità delle piante e degli animali, delle navi e delle case, e di tutte le

produzioni complesse e mutevoli sia dell’arte che della natura. L’identità che noi ascriviamo

alla mente umana è un’identità fittizia, dello stesso genere di quella che ascriviamo ai

vegetali e agli animali. Essa, quindi, non può aver un’origine diversa, ma deve procedere da

un’operazione simile dell’immaginazione su oggetti simili.

Nel dubbio, tuttavia, che quest’argomento non convinca il lettore, sebbene sia per me

perfettamente decisivo, desidero ch’egli esamini il ragionamento seguente ch’è ancora più

stringente e immediato. E evidente che l’identità che si attribuisce alla mente umana, per

quanto perfetta la si voglia considerare, non è in grado di risolvere la pluralità delle

percezioni differenti in una sola, né di far perdere a loro il carattere di distinzione e di

differenza ch’è loro essenziale: resta sempre che ogni percezione distinta, che entra nella

composizione della mente, è un’esistenza distinta ed è differente, distinguibile e separabile,

da ogni altra percezione contemporanea o successiva. Ma, poiché nonostante questa

distinzione e separabilità noi supponiamo tutta una catena di percezioni unite dall’identità,

nasce naturalmente una questione a proposito di questa relazione di identità: se, cioè, è

qualcosa che unisce insieme realmente le nostre diverse percezioni, o ne associa soltanto le

idee nell’immaginazione. In altri termini: se nel sentenziare l’identità. di una persona,

osserviamo qualche legame reale tra le sue percezioni, ovvero sentiamo un legame soltanto

fra le idee che di queste ci formiamo. Questa questione possiamo facilmente risolverla se

ricordiamo ciò ch’è stato già ampiamente dimostrato: cioè, che l’intelletto non coglie mai

nessuna connessione reale fra gli oggetti, e che anche l’unione di causa ed effetto,

esattamente esaminata, si risolve in un’associazione abituale delle idee. Poiché ne segue,

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Hume, Trattato

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evidentemente, che l’identità non appartiene realmente a quelle differenti percezioni, né le

unifica affatto; ma è semplicemente una qualità a loro attribuita a causa dell’unione delle

idee di esse nell’immaginazione, quando vi riflettiamo. Ora, le sole qualità che possano

unire le idee nell’immaginazione, sono le tre relazioni su ricordate: queste sono i principi

unificatori del mondo ideale, e senza di esse ogni oggetto distinto è separabile dalla mente,

e separatamente può esser considerato, e non appare connesso con alcun altro oggetto più

che se ne fosse disgiunto dalla più grande differenza e lontananza. L’identità dipende,

dunque, da qualcuna di queste tre relazioni: di rassomiglianza, di contiguità e di causalità; e

poiché la vera essenza di queste tre relazioni consiste nel produrre un facile passaggio da

un’idea a un’altra, ne segue che le nostre nozioni d’identità personale derivano

esclusivamente dal cammino piano e ininterrotto del pensiero attraverso una serie d’idee

connesse, conforme ai principi su esposti.

Resta la sola questione di sapere quali delle tre relazioni producono quel cammino

ininterrotto del pensiero, quando consideriamo l’esistenza successiva di una mente, cioè di

una persona pensante. È evidente che qui dobbiamo limitarci alla rassomiglianza e alla

causalità, e lasciare in disparte la contiguità che ha poca o nessuna importanza nel caso

presente.

Per cominciare dalla rassomiglianza, supponiamo di leggere chiaramente nell’animo di

un altro, e di osservare quella successione di percezioni che costituisce la sua mente, o

principio pensante; e supponiamo ch’egli conservi sempre la memoria di una parte

considerevole delle percezioni passate: è evidente che niente potrebbe maggiormente

contribuire a conferire una relazione a questa successione malgrado tutte le sue variazioni.

Che cos’è, infatti, la memoria se non una facoltà, mediante la quale facciamo risorgere le

immagini delle percezioni passate? E giacché un’immagine necessariamente somiglia al suo

oggetto, non deve forse il frequente ricorrere di queste percezioni somiglianti nella catena

del pensiero trasportare più facilmente l’immaginazione da un anello all’altro, e far

sembrare il tutto come la continuazione di un solo oggetto? Per questo aspetto, dunque, la

memoria non soltanto scopre l’identità, ma contribuisce anche alla sua produzione,

producendo fra le percezioni la relazione di rassomiglianza. Il caso è lo stesso se

consideriamo noi stessi, invece di un’altra persona.

In quanto alla causalità, si noti che la mente umana è veramente da considerare come un

sistema di differenti percezioni, o differenti esistenze, legate insieme dalla relazione di

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Hume, Trattato

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causa ed effetto, le quali si generano reciprocamente, si distruggono influenzano e

modificano l’una l’altra. Le nostre impressioni fanno sorgere idee corrispondenti, e queste a

loro volta generano altre impressioni. Un pensiero ne caccia un altro, trascina con sé un

terzo, dal quale è a sua volta espulso. Da questo lato non potrei paragonare l’anima meglio

che a una repubblica, a uno Stato, in cui i diversi membri sono uniti da un vincolo reciproco

di governo e di subordinazione, e danno vita ad altre persone, le quali continuano la stessa

repubblica nell’incessante cambiamento delle sue parti. E come una stessa repubblica, non

soltanto può cambiare i suoi membri, ma anche le sue leggi e la sua costituzione, nello

stesso modo una medesima persona può mutare carattere e disposizione, così come le sue

impressioni e le sue idee, senza perdere la propria identità. Qualunque cambiamento

subisca, le sue parti sono sempre connesse dalla relazione di causalità. E da questo punto di

vista la nostra identità rispetto alle passioni serve a corroborare quella dell’immaginazione,

facendo in modo che le percezioni distanti s’influenzino a vicenda, e ci diano un

interessamento sempre presente per i dolori e per i piaceri passati e futuri.

E poiché la memoria, sola, ci fa conoscere la continuità e l’estensione di questa

successione di percezioni, essa deve essere considerata, per tal ragione principalmente,

l’origine dell’identità personale. Se non avessimo la memoria, non si potrebbe avere

nessuna nozione della causalità, né, per conseguenza, di quel concatenamento di cause ed

effetti che costituisce il nostro io, o la nostra persona. Ma, una volta acquistata per mezzo

della memoria questa nozione di causalità, noi possiamo estendere la medesima catena di

cause, e per conseguenza l’identità della nostra persona, al di là della memoria, e

comprendervi epoche, circostanze, azioni che abbiamo completamente dimenticate, ma che

in generale supponiamo siano esistite. Infatti, ben poche sono le azioni passate di cui

serbiamo memoria. Chi è, per esempio, che può dirmi quali furono i suoi pensieri, le sue

azioni al 1° di gennaio del 1715, 1’11 di marzo del 1719 e il 3 di agosto del 1733? O vorrà

egli affermare, perché ha completamente dimenticati gl’incidenti di quei giorni, che il suo io

presente non è la stessa persona di quel tempo; e capovolgere, in tal modo, le più accettate

nozioni sull’identità personale? Da questo lato, la memoria non tanto produce, quanto

scopre l’identità personale, mostrandoci la relazione di causa ed effetto fra le nostre diverse

percezioni. A coloro che affermano che la memoria produce interamente l’identità personale

incombe l’obbligo di trovare la ragione per cui noi possiamo estendere l’identità al di là

della memoria.

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Il complesso di questa dottrina ci conduce ad una conclusione di grande importanza per la

questione attuale, ed è che tutte le sottili e delicate questioni riguardanti l’identità personale

non possono mai essere risolte, e debbono essere considerate piuttosto come difficoltà

grammaticali che filosofiche. L’identità dipende dalle relazioni delle idee, e queste relazioni

producono l’identità mediante il facile passaggio al quale danno luogo. Ma, poiché le

relazioni e la facilità del passaggio possono diminuire insensibilmente, noi non abbiamo un

criterio esatto mediante il quale decidere in qual momento precisamente acquistano o

perdono il diritto al titolo di identità. Tutte le controversie concernenti l’identità di oggetti

connessi sono puramente verbali, salvo in quanto la relazione delle parti fa sorgere qualche

finzione o principio immaginario di unione, come abbiamo già osservato.

Ciò che ho detto riguardo alla prima origine e all’incertezza della nostra nozione

d’identità, quando viene applicata alla mente umana, può venir esteso, con piccola o

nessuna variazione, a quella di semplicità. Un oggetto, le cui parti diverse ma coesistenti

siano collegate da una stretta relazione, opera sull’immaginazione quasi nello stesso modo

di un oggetto perfettamente , semplice e indivisibile, e non richiede, per esser concepito,

uno sforzo molto maggiore di pensiero. Per questa somiglianza di operazione noi

attribuiamo anche ad esso la semplicità, e fingiamo che vi sia un principio di unione a

sostegno di questa semplicità e come centro di tutte le parti e qualità differenti di

quell’oggetto.

Abbiamo, così, finito il nostro esame dei diversi sistemi di filosofia, tanto del mondo

intellettuale che di quello naturale; e seguendo il nostro modo di ragionare, amante della

varietà, ci siamo indotti a trattare diversi argomenti, i quali o illustreranno e confermeranno

alcune parti precedenti di questo discorso, o prepareranno la via alle ulteriori nostre

opinioni. È tempo, ormai, di ritornare a un più rigorosa esame del nostro argomento, e di

passare a uno studio anatomico accurato della natura umana, dopo che abbiamo pienamente

spiegata la natura del nostro giudizio e del nostro intelletto.

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David Hume (1711-76) Ricerca sull’intelletto umano (1748)

Traduzione E. Lecaldano

Sez. 2: L’origine delle idee

Ognuno concederà facilmente che v’è una considerevole differenza fra le percezioni della

mente, quando un uomo sente il dolore di un calore eccessivo o il piacere di un caldo

moderato e quando, più tardi, egli richiama alla memoria tale sensazione o la anticipa con

l’immaginazione. Queste facoltà possono copiare o imitare le percezioni dei sensi; ma non

possono mai del tutto arrivare alla forza e vivacità del sentimento originale. Il più che

possiamo dire di esse, anche quando agiscono col massimo vigore, è che rappresentano il

loro oggetto in una maniera così vivida, che noi possiamo dire quasi di sentirlo o vederlo.

Ma, ad eccezione di quando la mente è sconvolta da malattia o da pazzia, esse non possono

mai arrivare a tale grado di vivacità, da rendere le percezioni suaccennate completamente

indistinguibili. Tutti i colori della poesia, per quanto splendidi, non possono mai dipingere

degli oggetti naturali in modo tale da far sì che la descrizione venga presa per un paesaggio

reale. E il pensiero più vivido è sempre inferiore alla più smorta sensazione.

Noi possiamo osservare che una simile distinzione vale per tutte le altre percezioni della

mente. Un uomo in un accesso d’ira è eccitato in modo molto diverso di uno il quale ha

soltanto il pensiero di quell’emozione. Se voi mi dite che qualcuno è innamorato, io intendo

facilmente quello che volete dire e mi formo un giusto concetto della situazione; ma non potrò

mai scambiare erroneamente questa mia concezione coi turbamenti e con le agitazioni reali

provocate dalla passione. Quando riflettiamo sui nostri sentimenti e sulle nostre affezioni

passate, il nostro pensiero è uno specchio fedele che riproduce veramente i suoi oggetti; ma i

colori che adopera sono pallidi e smorti a confronto di quelli di cui erano rivestite le

percezioni originali. Non occorre un discernimento sottile o una testa metafisica per notarne la

differenza.

Qui possiamo dunque dividere tutte le percezioni della mente in due classi o specie, che

sono distinte dai loro differenti gradi di forza e vivacità. Le meno potenti e vivide sono

comunemente denominate pensieri o Idee. L’altra specie manca d’un nome nella nostra

lingua come in molte altre; penso che ciò sia dovuto al fatto che non c’è stato bisogno, se

non per intenti filosofici, di classificarle sotto un termine o appellativo generale.

Concediamoci, pertanto, un po’ di libertà e chiamiamole impressioni, usando questa parola

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Hume, Ricerca

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in un senso un po’ diverso da quello consueto. Col termine impressione, dunque, intendo

tutte le nostre percezioni più vivide, quando udiamo, o vediamo, o sentiamo, o amiamo, o

odiamo, o vogliamo. E le impressioni sono distinte dalle idee, che sono le percezioni meno

vivide, di cui siamo coscienti quando riflettiamo su una delle sensazioni o degli

atteggiamenti sopra ricordati.

Nulla, a prima vista, può sembrare più illimitato del pensiero dell’uomo, il quale non

soltanto sfugge ad ogni potere ed autorità umana, ma non è nemmeno trattenuto entro i

limiti della natura e della realtà. II formare mostri ed il congiungere incongrue forme ed

apparenze sono cose che non costano all’immaginazione maggior fatica del concepire gli

oggetti più naturali e familiari. E mentre il corpo è confinato ad un solo pianeta, sul quale

striscia con pena e difficoltà, il pensiero può in un istante trasportarci nelle regioni più

lontane dell’universo, ed anche al di là dell’universo, nel caos illimitato, dove si ritiene che

la natura giaccia in una completa confusione. Quello che non fu mai visto od udito, può

tuttavia essere concepito; né v’è cosa alcuna che sia al di là del potere del pensiero,

all’infuori di ciò che implica assoluta contraddizione.

Ma, sebbene il nostro pensiero sembri possedere questa illimitata libertà, troveremo, con

un esame più stringente, che esso è realmente confinato entro limiti molto ristretti e che

tutto questo potere creativo della mente si riduce a niente di più che alla facoltà di

comporre, trasporre, aumentare o diminuire i materiali fornitici dall’esperienza. Quando

pensiamo ad una montagna d’oro, non facciamo che congiungere due idee coerenti, oro e

montagna, che già prima conoscevamo. Un cavallo virtuoso, possiamo concepirlo, perché.

sulla base del nostro sentimento, possiamo concepire la virtù, che possiamo a sua volta

unire alla figura e alla forma di un cavallo, animale a noi familiare. In breve, tutti i materiali

del pensiero sono derivati dai nostri sentimenti, sia esterni che interni; la mescolanza e la

composizione di essi spettano soltanto alla mente ed alla volontà. Ora, per esprimermi in

linguaggio filosofico, tutte le nostre idee o percezioni più deboli sono copie delle nostre

impressioni o percezioni più vivide.

Per provare ciò, saranno sufficienti, spero, i due seguenti argomenti. Primo, quando

analizziamo i nostri pensieri o idee, per quanto esse siano composte ed elevate, troviamo

sempre che si risolvono in idee così semplici, da essere copia di una precedente sensazione o

sentimento. Anche le idee, che, a prima vista, sembrano le più lontane da una simile origine,

si trova, dopo una ricerca più scrupolosa, che son derivate da quella. L’idea di Dio, in quanto

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Hume, Ricerca

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idea di un Essere infinitamente intelligente, sapiente e buono, sorge dal riflettere sulle

operazioni della nostra stessa mente, aumentando poi oltre ogni limite le qualità di bontà e di

sapienza. Possiamo proseguire questa ricerca quanto a lungo ci piaccia; troveremo sempre che

ogni idea che esaminiamo è copiata da una impressione simile. Coloro che asserissero che

questa posizione non è universalmente vera né senza eccezioni, hanno un solo e facile metodo

per confutarla: presentare quell’idea che, a loro giudizio, non sia derivata da questa sorgente.

Sarà allora nostro dovere, se vorremo mantenere la nostra dottrina, indicare l’impressione, o

percezione vivida, che ad essa corrisponde.

In secondo luogo: se accade, per un difetto dell’organo, che un uomo non sia suscettibile

di qualche specie di sensazione, troviamo sempre che egli è altrettanto poco suscettibile

delle idee corrispondenti. Un cieco non può farsi una nozione dei colori, né un sordo dei

suoni. Restituite a ciascuno dei due il senso che gli manca; aprendo questo nuovo ingresso

per le sue sensazioni, voi aprite un ingresso anche per le idee; ed egli non trova difficoltà a

concepire tali oggetti. il caso è lo stesso se l’oggetto idoneo ad eccitare una sensazione, non

è mai venuto a contatto cogli organi di senso. Un lappone o un negro non hanno nozione del

sapore del vino. E sebbene vi siano pochi esempi, o addirittura nessuno, di una simile

deficienza della mente, per cui una persona non abbia mai sentito, o sia del tutto incapace,

di un sentimento o passione che siano propri della sua specie, tuttavia troviamo che la cosa

si può verificare in forme meno estreme. Un uomo di miti costumi non può farsi l’idea di

una vendetta ostinata o di crudeltà; né un animo egoista concepisce agevolmente le altezze

dell’amicizia e della generosità. Si ammette facilmente che altri esseri possano possedere

molti sensi dei quali noi possiamo avere comprensione; e ciò, perché le rispettive idee non

sono mai state introdotte in noi in quell’unico modo in cui un’idea può accedere alla mente,

ossia per mezzo dell’avvertimento attuale e della sensazione.

C’è tuttavia un fenomeno in contrario, il quale può provare che non è assolutamente

impossibile, per delle idee, sorgere indipendentemente dalle corrispondenti impressioni. Si

ammetterà facilmente, credo, che le varie distinte idee di colore, che entrano per mezzo

degli occhi, o quelle di suono, che vengono trasmesse attraverso gli orecchi, sono realmente

differenti l’una dall’altra, per quanto, nello stesso tempo, somiglianti. Ora se questo è vero

dei vari colori, non deve essere meno vero per le differenti gradazioni dello stesso colore; ed

ogni gradazione produrrà un’idea distinta, indipendente dal resto. Infatti, se si negasse ciò,

sarebbe possibile, con la continua modificazione delle gradazioni, far passare

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Hume, Ricerca

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insensibilmente un colore in quello più distante da esso; e se non ammetterete che ognuno

dei gradi intermedi è differente, non potrete, senza cadere nell’assurdo, negare l’identità

degli estremi. Supponete, dunque, che una persona abbia goduto della vista per trent’anni e

che abbia acquistato una perfetta familiarità con tutte le specie di colori, eccezion fatta per

una determinata gradazione di azzurro, per esempio, nella quale non ha mai avuto

l’occasione di imbattersi. Ponete davanti a questa persona le differenti gradazioni di quel

colore, eccetto quell’unica, scendendo dalla gradazione più carica a quella più sbiadita; è

evidente che essa percepirà un vuoto, laddove manca la gradazione in questione e avvertirà

che in quel punto v’è una distanza maggiore tra i colori contigui, che in qualunque altro

punto. Ora io domando se non le sarebbe possibile di supplire, con l’immaginazione, a

questa deficienza, facendo nascere da sola l’idea di quella determinata gradazione, anche se

questa non le sia mai stata trasmessa per mezzo dei sensi. Credo che pochi saranno del

parere che la cosa non sia possibile; e ciò può servire da prova che le semplici idee non sono

sempre, in ogni caso, derivate dalle impressioni corrispondenti; sebbene questo caso sia così

singolare, da essere appena meritevole di attenzione e da non richiedere che, per esso solo,

noi si debba modificare la massima generale stabilita.

C’è, dunque, una proposizione che non soltanto sembra, in se stessa, semplice ed

intelligibile, ma che, se venisse usata nel debito modo, potrebbe rendere del pari intelligibile

ogni disputa e dare il bando a tutto quel linguaggio incomprensibile che da tanto tempo ha

preso possesso del ragionamento metafisico, tirandogli addosso lo sfavore. Tutte le idee,

specialmente quelle astratte, sono naturalmente deboli ed oscure; la mente ha solo una

scarsa presa su di esse, che sono atte ad essere confuse con altre idee somiglianti; e quando

abbiamo spesso adoprato qualche termine, sebbene senza un significato preciso, siamo tratti

ad immaginare che una determinata idea si accompagni ad esso. Al contrario, tutte le

impressioni, cioè tutte le sensazioni, sia esterne che interne, sono forti e vivide: i limiti fra

di esse sono più esattamente determinati, né è facile cadere in qualche errore od equivoco

nei loro riguardi. Quando, perciò, noi nutriamo qualche sospetto che un termine filosofico

sia usato senza qualche significato o idea (come avviene troppo spesso), dobbiamo soltanto

stabilire da quale impressione sia derivata quella presunta idea. E se è impossibile

assegnarne una, ciò servirà a confermare il nostro sospetto. Portando le idee ad una luce

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Hume, Ricerca

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così chiara possiamo ragionevolmente sperare di eliminare tutte le dispute che possano

sorgere intorno alla loro natura e realtà1.

1 È probabile che coloro che negavano le idee innate non intendessero significare se non che tutte le idee

erano copie delle nostre impressioni, per quanto si debba confessare che i termini da essi adoperati non erano scelti con tale cautela, né così esattamente definiti, da prevenire ogni equivoco riguardo alla loro dottrina. Infatti, che cosa si intende per innato? Se innato fosse equivalente di naturale, allora si dovrebbe ammettere che tutte le percezioni ed idee della mente sono innate o naturali, qualunque sia il senso in cui si prenda quest’ultima parola, sia in opposizione a ciò che è fuori del comune, o a ciò che è artificiale, o a ciò che è miracoloso. Se per innato si intendesse contemporaneo alla nostra nascita, la disputa parrebbe frivola, perché non val la pena di fare una ricerca intorno al tempo in cui si incomincia a pensare, se prima, durante, o dopo la nascita. Inoltre la parola idea sembra elle sia presa comunemente in un senso molto vago, da Locke e da altri, come se indicasse, ciascuna delle percezioni, sensazioni e passioni, come anche pensieri. Ora in questo senso, vorrei sapere che cosa si vuol dire quando si afferma che l’amor proprio, il risentimento per le ingiurie, o la passione sessuale non sono innati.

Ma, ammettendo questi termini, impressioni e idee, nel senso sopra spiegato, ed intendendo per innato quello che è originale o non copiato da una precedente percezione, possiamo affermare che tutte le impressioni sono innate e che le idee non sono innate. Per essere franco, debbo confessare che io ritengo che Locke sia stato tradito in questa questione dagli scolastici, i quali, facendo uso di termini indefiniti, trascinano le loro dispute in modo lungo e tedioso, senza nemmeno toccare il punto in questione. Una simile ambiguità e prolissità mi sembra che si insinui nei ragionamenti di questo filosofo, tanto su questo che su molti altri argomenti.

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G.E. Moore (1873-1958)

‘Una dimostrazione dell’esistenza

di un mondo esterno’ (1939)

Traduzione Massimo A. Bonfantini

Nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragione pura di Kant troviamo un

passo, che, nella traduzione del professor Kemp Smith, è reso nel modo seguente:

Rimane tuttora uno scandalo per la filosofia... che l’esistenza di cose al di fuori di noi... debba essere accettata semplicemente per fede, e che, se qualcuno pensasse bene di dubitare della loro esistenza, noi non siamo in grado di opporre ai suoi dubbi nessuna prova soddisfacente1.,

Sembra chiaro da queste parole che Kant pensasse che fosse impresa di una certa

importanza quella di offrire una prova de “l’esistenza di cose al di fuori di noi”, o forse piuttosto

(giacché mi pare che il valore del testo tedesco possa essere reso meglio in questo modo) de

“l’esistenza delle cose al di fuori di noi”; perché se egli non avesse ritenuto importante dare una

prova della tesi in questione, non avrebbe certo chiamato uno “scandalo” il fatto che nessuna

prova fosse stata data. E mi sembra anche evidente che egli pensasse che offrire una tale prova

fosse un compito che propriamente cadesse entro la sfera di competenza della filosofia; perché,

altrimenti, il fatto che nessuna prova fosse stata data non avrebbe in nessun modo costituito uno

scandalo per la filosofia.

Ora, anche se Kant fosse stato in errore in entrambe queste sue opinioni, mi pare che non

sussista dubbio alcuno che sia impresa d’una certa importanza e che cade propriamente entro la

sfera di competenza della filosofia discutere la questione di che tipo di prova, se pure esiste,

possa essere dato de “l’esistenza di cose al di fuori di noi”. E proprio la discussione di questo

problema era l’obbiettivo che mi ero proposto nel cominciare a stendere il testo di codesta

lezione. Ma devo avvertire subito, come voi del resto constaterete, che sono riuscito, al

massimo, a dire soltanto una piccolissima parte di ciò che si dovrebbe dire sull’argomento.

-–ooOoo–-2

1 B XXXIX, nota: Kemp Smith, p. 34. Il testo tedesco è il seguente: “so bleibt es immer ein Skandal der Philosophie..., das Dasein der Dinge ausser uns... bloss auf Glauben annehmen zu müssen, and wenn es jemand einfällt es zu bezweifeln, ihm keinen genugtuenden Beweis entgegenstellen zu können”. [cfr. la trad. di Gentile e Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, ed. Laterza, Bari 1958,7 p. 34, nota] (nota di Moore integrata dal traduttore). 2 Moore svolge in una ventina di pagine, che ommettiamo, delle considerazioni complicate sulla nozione di “trovarsi nello spazio” (nota di Davies)

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Moore, ‘Dimostrazione’

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Mi sembra che, ben lungi dall’essere vero – come afferma Kant di ritenere – che ci sia una

sola prova possibile dell’esistenza di cose al di fuori di noi, e precisamente quella ch’egli stesso

ha fornito, io sono ora perfettamente in grado di offrire un gran numero di prove differenti,

ciascuna delle quali è una dimostrazione compiutamente rigorosa; e credo, altresì, di essere

stato in grado in molte altre occasioni di offrire molte altre prove. In questo momento, io sono

perfettamente in’ grado di dimostrare, per esempio, che esistono due mani umane. Come?

Tenendo levate le mie due mani e dicendo, mentre faccio un certo gesto con la mano destra,

“Ecco qui una mano”, e poi aggiungendo, mentre faccio un certo gesto con la sinistra, “E qui

ecco un’altra mano”. E se, facendo ciò, io ho anche dimostrato ipso facto l’esistenza di cose

esterne, vedete bene che io sono ora in grado di ripetere la prova in numerosi altri modi: non c’è

nessun bisogno di moltiplicare gli esempi.

Ma io ho davvero dimostrato poco fa che in quel momento esistevano due mani umane?

Affermo decisamente di averlo fatto, e anzi, di aver fornito una dimostrazione perfettamente

rigorosa, e forse addirittura tale che risulterebbe impossibile darne di migliori o di più rigorose

di checchessia. Naturalmente, la mia dimostrazione non avrebbe costituito una vera prova, a

meno che fossero state soddisfatte tre condizioni: e cioè, (1) a meno che la premessa che io

adducevo a prova della conclusione fosse differente dalla conclusione che ponevo come tesi da

dimostrare; (2) a meno che la premessa addotta fosse qualcosa che conoscevo per vero, e non

semplicemente qualcosa che credessi vero ma di cui non fossi in alcun modo sicuro, o qualcosa

che, sebbene effettivamente vero non riconoscessi per tale; e (3) a meno che la conclusione

discendesse davvero dalle premesse. Ma tutte e tre queste condizioni sono state realmente

soddisfatte dalla mia dimostrazione. (1) La premessa addotta era certissimamente diversa dalla

conclusione, perché la conclusione era meramente che “Due mani umane esistono in questo

momento”, mentre la premessa era qualcosa di più specifico – qualcosa che esprimevo col

mostrarvi le mani, compiere certi gesti, e profferire le parole “Ecco qui una mano, e qui ecco

un’altra mano”. È assolutamente evidente che le due proposizioni sono diverse, perché è

assolutamente evidente che la conclusione avrebbe potuto essere vera, anche se la premessa

fosse stata falsa. Nell’asserire la premessa io asserivo molto di più di quanto asserivo

nell’asserire la conclusione. (2) Certamente, in quel momento io conoscevo per vero ciò che

esprimevo combinando una certa serie di gesti con l’enunciato “Ecco qui una mano, e qui ecco

un’altra mano”: conoscevo per vero che c’era una mano nel luogo indicato combinando un

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Moore, ‘Dimostrazione’

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certo gesto con la mia prima articolazione della parola “ecco” e che c’era un’altra mano nel

luogo indicato combinando un certo gesto con la mia seconda articolazione della parola “ecco”.

Quanto sarebbe assurda l’ipotesi che io non conoscessi davvero ciò, ma soltanto lo credessi, e

che potesse essere altrimenti! Allora, potreste altrettanto presumibilmente avanzare l’ipotesi che

io non sappia affatto d’essere qui in piedi a parlare – e che forse, dopo tutto, non sia vero che io

sia qui in piedi, e che non è affatto certo che io lo sia! E infine (3) è assolutamente certo che la

conclusione discendeva necessariamente dalla premessa: questo è perfettamente sicuro come il

fatto che se, adesso, qui c’è una mano e qui un’altra, da ciò discende necessariamente che,

adesso, esistono due mani.

La mia dimostrazione dell’esistenza di cose al di fuori di noi, soddisfaceva, dunque, a tre

condizioni necessarie per una prova rigorosa. Ci sono altre condizioni necessarie per una prova

rigorosa tali che forse la mia dimostrazione non ne soddisfi qualcuna? Può forse darsi che ce ne

siano; non lo so; ma voglio sottolineare il fatto che, per quanto mi riesce di vedere, tutti noi

usiamo continuamente assumere dimostrazioni di questo tipo quali prove assolutamente

conclusive di certe tesi – come prove, cioè, che stabiliscono una risposta definitiva a certe

questioni sulle quali fossimo prima in dubbio. Supponiamo, per fare un esempio, che sia in

questione se ci siano o no tre errori di stampa in una data pagina in un dato libro. A dice di sì, e

B è incline a dubitarne. Come potrebbe fare A per dimostrare di avere ragione? Sicuramente

potrebbe darne una prova prendendo il libro, volgendo lo sguardo alla pagina in questione, e

indicando tre punti distinti sulla pagina, dicendo “Ecco qui un errore di stampa, qui un altro, e

qui un altro ancora”: questo costituirebbe sicuramente un metodo con il quale A potrebbe

provare il suo assunto! Naturalmente, A, facendo ciò, non avrebbe dimostrato che ci siano

almeno tre errori di stampa nella pagina in questione, se non fosse accertato che ci sia davvero

un errore di stampa in ciascuno dei punti indicati da A. Ma dire che egli potrebbe dimostrare la

sua tesi per questa via, -è come dire che potrebbe essere accertata questa circostanza. E se

questa circostanza è tale da poter essere accertata, allora possiamo sicuramente affermare di

avere appena accertato che c’era effettivamente una mano in uno dei due luoghi che indicavo, e

un’altra mano nell’altro.

Io ho dunque appena fornito una prova del fatto che c’erano in quel momento degli oggetti

esterni; e ovviamente, se è vero che la mia dimostrazione costituiva una prova, io avrei potuto,

allora, dare molte altre prove del medesimo genere che, allora, c’erano degli oggetti esterni, e

adesso, potrei dare molte prove del medesimo genere che, adesso, ci sono oggetti esterni.

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Moore, ‘Dimostrazione’

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Ma, se ciò che mi si chiede è di dimostrare che degli oggetti esterni sono esistiti nel passato,

allora io posso fornire molte prove diverse anche di questa tesi; ma si tratterà di prove che, sotto

un importante rispetto, sono d’altro tipo delle prove appena illustrate. E voglio sottolineare che,

se Kant dice che è uno scandalo non essere capaci di dare una prova dell’esistenza di oggetti

esterni, allora evidentemente una prova della loro esistenza nel passato gioverebbe certo a

rimuovere lo scandalo di cui parla. Kant dice che, se a qualcuno venisse in mente di mettere in

dubbio la loro esistenza, noi dovremmo essere in grado di controbattergli con una prova

soddisfacente. Ma egli certamente intende che una persona che metta in dubbio l’esistenza degli

oggetti esterni non si limiti a mettere in dubbio la loro esistenza nel momento presente, in cui

enuncia il suo dubbio, ma dubiti che essi siano mai esistiti; e una prova che attesti che qualche

oggetto esterno è esistito nel passato sarebbe perciò sicuramente rilevante per parte di quello

che verrebbe messo in dubbio da un ipotetico contestatore degli oggetti esterni. E allora, in che

modo posso dimostrare che ci sono stati degli oggetti esterni nel passato? Ecco una

dimostrazione. Posso dire: “Poco fa tenevo le mie due mani sollevate al di sopra del piano di

questo tavolo; perciò, poco fa esistevano due mani, e, dunque, almeno due oggetti esterni sono

esistiti in qualche tempo nel passato, Q.E.D.”. Questa è una prova perfettamente valida, purché

io conosca per vero ciò che è asserito nella premessa. Ma io conosco sicuramente per vero di

aver tenuto poco fa le mie due mani sollevate al di sopra del piano di questo tavolo; e in verità

in questo caso pure voi tutti lo sapete; e non sussiste dubbio alcuno sul fatto che io abbia

compiuto quel gesto. Quindi, io ho dato una prova perfettamente conclusiva dell’esistenza di

oggetti esterni nel passato; e se questa è una prova conclusiva, voi vedete subito che avrei

potuto darne molte altre del medesimo tipo, e potrei ora darne ancora molte altre. Ma è altresì

assolutamente evidente-che questo tipo di prova differisce sotto un importante rispetto dal tipo

di prova data in precedenza del fatto che allora esistevano due mani.

Riassumendo, io ho fornito due prove conclusive sull’esistenza di oggetti esterni. La prima

era la dimostrazione dell’esistenza di due mani umane al momento in cui ho fatto la

dimostrazione; la seconda era la dimostrazione dell’esistenza di due mani umane in un tempo

precedente a quello in cui ho dato là dimostrazione. Queste due prove differivano dunque sotto

un importante rispetto. Ho anche messo in luce il fatto che avrei potuto benissimo fornire,

allora, molte altre prove conclusive del medesimo tipo di entrambi i generi di prova. Ed è anche

perfettamente ovvio che potrei fornire, ora, molte altre prove di entrambi i generi. Sicché, se

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Moore, ‘Dimostrazione’

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questi sono i generi di prove che si volevano, niente di più facile che dimostrare l’esistenza

degli oggetti esterni.

Ma ora mi rendo perfettamente conto che, a dispetto di tutto ciò che ho detto sin qui, molti

filosofi resteranno ancora del parere che io in realtà non abbia dato nessuna prova soddisfacente

della tesi in questione. E, per concludere, vorrei fare qualche breve osservazione sui motivi di

questo senso d’insoddisfazione lasciato dalle mie dimostrazioni.

Un motivo mi pare questo. Alcuni intendono che “la prova dell’esistenza del mondo

esterno” debba comprendere una dimostrazione di cose che io non ho tentato di dimostrare e

che non ho dimostrato. Non è proprio facile chiarire che cosa costoro vogliano che sia

dimostrato – quale sia l’assunto la cui dimostrazione costituisca, a loro avviso, la condizione

preliminare e necessaria per una buona prova dell’esistenza di cose esterne. Ma credo di

avvicinarmi all’esplicitazione del senso della loro posizione, spiegando ch’essi forse

ammetterebbero che io abbia effettivamente dimostrato l’esistenza di cose esterne, se io avessi

dimostrato le proposizioni che ho impiegato come premesse nelle mie due dimostrazioni, ma,

nell’assenza di una tale dimostrazione (che, naturalmente, io non ho dato, né ho tentato di dare),

diranno che io non ho fornito ciò che essi intendono per prova dell’esistenza di cose esterne. In

altri termini, costoro vogliono una dimostrazione di quello che asserisco ora quando tengo

levate le mie due mani e dico “Ecco qui una mano, e qui ecco un’altra mano”; e, nel caso

dell’altra prova, costoro vogliono una dimostrazione di quello che asserisco ora quando dico

“Poco fa tenevo le mie due mani sollevate al di sopra del piano di questo tavolo”. Naturalmente,

ciò che veramente desiderano non è meramente una dimostrazione di queste due proposizioni,

ma qualcosa come un’asserzione generale che chiarisca il modo in cui tutte le proposizioni di

questo tipo possano essere dimostrate. E io, naturalmente, non ho fornito né le dimostrazioni

delle mie due premesse, né un’asserzione generale del genere sopra descritto; e non credo che

un tale progetto possa essere realizzato: se questo è ciò che si intende per prova dell’esistenza di

cose esterne, io non credo che alcuna prova dell’esistenza di cose esterne sia possibile. In alcuni

casi, ovviamente, si potrà avere qualcosa che si potrebbe definire una dimostrazione di

proposizioni che assomigliano alle mie due premesse. Per fare un esempio, se uno di voi

sospettasse che una delle mie mani fosse artificiale, si potrebbe dire che egli otterrebbe una

prova della mia proposizione “Ecco qui una mano, e qui ecco un’altra mano”, alzandosi,

venendo ad esaminare da vicino la mano sospetta, magari toccandola e stringendola, per

arrivare così a stabilire che si trattava davvero di una mano umana. Ma io credo che in quasi

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Moore, ‘Dimostrazione’

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tutti i casi non si possa escogitare nessuna prova. In che modo dovrei dimostrare ora che “Qui

c’è una mano, e qui un’altra mano”? Io non credo che ci sia nessun modo. Per dare una simile

prova, dovrei dimostrare per prima cosa, come Descartes mise giustamente in rilievo, che non

sto sognando. Ma come posso dimostrare che non sto sognando? Io ho bensì, senza dubbio,

delle ragioni conclusive per affermare che non sto sognando: ho conclusiva evidenza di essere

desto; ma questo non vuol dire affatto che io sia in grado di darne una dimostrazione. Non

saprei dirvi, infatti, che cosa sia questa mia evidenza; eppure, avrei bisogno di chiarire almeno

questo, per potervi dare una dimostrazione.

Ma un altro motivo per cui alcuni si sentiranno insoddisfatti di queste mie prove

dell’esistenza degli oggetti esterni credo che sia costituito, non solo dal fatto che essi aspirano

ad una dimostrazione di qualcosa che io non ho dimostrato, ma anche piuttosto dal fatto che

pensano che, se non posso dare codeste prove ulteriori, allora le prove che ho dato non sono

affatto conclusive. E questo mi sembra che sia sicuramente un errore. Costoro si esprimerebbero

così: “Se non puoi dimostrare la tua premessa che qui c’è una mano, e qui un’altra mano, allora

tu questa premessa non la conosci per vera. Ma tu stesso hai ammesso che, se tu non avessi

conosciuto per vera la tua premessa, allora la tua prova non sarebbe stata conclusiva – perciò la

tua prova non era, come tu invece sostieni, conclusiva”. Questa tesi che, se io non posso provare

cose come quelle di questo genere, allora io non le conosco per vere, mi sembra che sia la

posizione espressa da Kant nel periodo citato al principio di questa lezione, quando dice che,

finché non abbiamo alcuna prova dell’esistenza di cose esterne, la loro esistenza deve essere

accettata meramente per fede. Kant vuol dire, io credo, che se non posso provare che qui c’è

una mano, devo accettare la sua esistenza semplicemente come un articolo di fede, ossia non

posso saperla vera. Questo punto di vista, benché sia stato assai comune tra i filosofi, mi pare

che si possa dimostrare che è sbagliato – ancorché questa dimostrazione debba necessariamente

ricorrere a premesse la cui verità non può essere riconosciuta, senza riconoscere l’esistenza di

cose esterne. Io posso conoscere per vere cose che non so dimostrare; e fra le cose che

certamente ho conosciuto per vere, anche se (come io credo) non potrei mai dimostrarle, ci sono

le premesse delle mie due dimostrazioni. Direi dunque che coloro, se pur ci sono, che sono

insoddisfatti di codeste prove, sul mero fondamento che io non conoscessi con certezza la verità

delle loro premesse, non hanno nessuna buona ragione di essere insoddisfatti.

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D. Wooldridge

Il comportamento dello Sphex ichneumoneus

Da I meccanismi del cervello (1963, p. 82)

Traduzione Richard Davies

Quando arriva la stagione di deporre le uova, la vespa Sphex costruisce un nido appositamente

e va alla ricerca di un grillo che punge in modo tale da paralizzarlo senza ucciderlo. La Sphex

poi trascina il grillo dentro al nido, deposita le uova accanto ad esso, chiude il nido e vola via,

per non ritornarci più. In tempo debito, le uova si schiudono e le larve si cibano del grillo

paralizzato, che non è deperito perché è stato tenuto in una sorta di congelatore delle vespe.

Alla mente umana, l’elaborata organizzazione e l’apparenza di intenzionalità in questo

comportamento danno un’impressione convincente di logica e di premeditazione – fino a che

non si prendono altri dettagli in esame. Ad esempio, la consuetudine della vespa è di portare il

grillo paralizzato al nido, di lasciarlo sulla soglia, di andare dentro a controllare che tutto vada

bene, di riemergere e poi di trascinare il grillo all’interno. Se il grillo viene spostato di pochi

centimetri mentre la vespa sta facendo la sua ispezione preliminare all’interno del nido,

all’uscita dal nido lei sposterà il grillo alla soglia, ma non dentro, e poi ripeterà la procedura

di entrare nel nido per vedere che è tutto a posto. Se il grillo viene di nuovo spostato mentre la

vespa è dentro, lei di nuovo sposterà il grillo fino alla soglia e poi rientrerà per un controllo

finale. La vespa non pensa mai di trascinare il grillo all’interno senz’altro. In una occasione,

questa procedura è stata ripetuta per ben quaranta volte, sempre con lo stesso esito.

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Robert Nozick (1938-2003)

Anarchia, Stato e Utopia (1974)

Traduzione Elena e Gaspare Bona

Cap 3 §6: La macchina dell’esperienza

Ci sono anche enigmi sostanziali quanto ci chiediamo che altro importi se non il modo in cui

le persone sentono “da dentro” le esperienze. Si supponga che ci sia una macchina

dell’esperienza che ci procuri qualunque esperienza desideriamo. I neuropsicologi eccezionali

potrebbero stimolarci il cervello in modo che pensiamo e sentiamo di scrivere un grande

romanzo, o stringere un’amicizia, o leggere un libro interessante. Per tutto il tempo

galleggeremmo in una vasca, con elettrodi attaccati al cervello. Ci collegheremmo a questa

macchina per tutta la vita, programmandone in anticipo le esperienze? Se ci crucciamo perché

non riusciamo ad avere esperienze desiderabili, si può supporre che imprese commerciali

abbiano indagato esaurientemente la vita di molti altri. Possiamo scegliere con cura nella loro

vasta biblioteca su tali esperienze, selezionando le esperienze della nostra vita per, diciamo,

due anni. Passati due anni, staremo dieci minuti o dieci ore fuori della vasca, per selezionare

le esperienze dei nostri prossimi due anni. Naturalmente, mentre siamo nella vasca, non

sappiamo d’essere lì: penseremo che tutto stia realmente accadendo. Anche altri possono

collegarsi per avere le esperienze che desiderano, quindi non è necessario che stacchiamo il

nostro collegamento per permettere loro di servirsene. (Non chiedetevi chi farà funzionare le

macchine se tutti si collegano). Vi colleghereste a quella macchina? Che altro può

importarci, se non come sentiamo la nostra vita dall’interno? E non dobbiamo certo

rinunciare a causa dei pochi attimi di sconforto tra il momento in cui ci risolviamo e il

momento in cui ci colleghiamo. Che cosa sono pochi attimi di sconforto in confronto a una

vita intera di beatitudine (se è questa che scegliamo), e perché poi dovremmo provare

sconforto se la nostra decisione è la migliore?

Che cosa ci importa oltre alle nostre esperienze? In primo luogo, desideriamo fare certe

cose, e non soltanto avere l’esperienza di farle. Nel caso di certe esperienze, è soltanto perché

vogliamo prima di tutto compiere le azioni, che desideriamo le esperienze di farle o di pensare

di averle fatte. (Ma perché desideriamo svolgere le attività invece di sperimentarle

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Nozick, Anarchia, Stato e Utopia

116

semplicemente?). Un secondo motivo per non collegarci è il fatto che desideriamo essere in

un certo modo, essere un certo tipo di persona. Uno che galleggia in una vasca è un’inezia

insignificante. Non si può rispondere alla domanda su come sia una persona che è stata a

lungo nella vasca. È coraggiosa, gentile, intelligente, spiritosa, affettuosa? Non è solamente.

difficile dirlo, quella persona non è niente. Collegarsi alla macchina è una specie di suicidio.

Ad alcuni, vittime di un’immagine, sembrerà che non possa avere importanza quel che siamo,

tranne in quanto si riflette nelle nostre esperienze. Ma sorprenderebbe che quel che siamo sia

per noi importante? Perché dovrebbe interessarci soltanto come riempiamo il nostro tempo, e

non quel che siamo?

In terzo luogo, il collegamento a una macchina delle esperienze ci limita a una realtà fatta

dall’uomo, a un mondo non più profondo e non più importante di quello che possiamo

costruire1. Non c’è vero contatto con una qualsiasi realtà più profonda, benché si possa

simularne l’esperienza. Molte persone desiderano essere disponibili a tale contatto e a

scendere nel profondo*. Questo chiarisce l’intensità dei contrasti circa i farmaci psicoattivi,

che secondo alcuni non sono che macchine locali dell’esperienza, e secondo altri sono una via

verso una realtà più profonda: quel che, a parere di qualcuno, equivale ad arrendersi alla

macchina dell’esperienza, per altri insegue una delle ragioni di non arrendersi!

Impariamo che, oltre all’esperienza, qualche cosa d’altro ha importanza per noi,

immaginando una macchina dell’esperienza e poi accorgendoci che non la useremmo.

Possiamo continuare a immaginare una serie di macchine, ciascuna ideata in modo da

riempire le lacune scoperte nelle macchine precedenti. Per esempio, dal momento che la

macchina dell’esperienza non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo,

immaginate una macchina di trasformazione, che ci trasformi in qualunque tipo di persona ci

piaccia essere (compatibilmente con il rimanere noi stessi). Sicuramente non useremmo la

macchina di trasformazione allo scopo di diventare come desideriamo, e per poi collegarci

1 Questo punto mi fu suggerito da Mr. Thom Krystofiak. * Le dottrine religiose tradizionali differiscono sul punto di contatto con una realtà trascendente. Alcune dicono che il contatto produce eterna beatitudine o Nirvana, ma non l’hanno distinto sufficientemente da un semplice periodo molto lungo nella macchina dell’esperienza. Altre dottrine pensano che sia intrinsecamente desiderabile fare la volontà di un essere superiore che ci ha creati tutti, quantunque, presumibilmente, nessuno lo penserebbe se scoprissimo di essere stati creati come oggetto di divertimento da qualche fanciullo ultrapotente proveniente da un’altra galassia o da un’altra dimensione. Altre ancora immaginano un confondersi finale in una realtà superiore, lasciando poco chiara la sua desiderabilità, o dove ci lasci tale fusione.

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Nozick, Anarchia, Stato e Utopia

117

alla macchina dell’esperienza**! Quindi c’è qualcosa che ha importanza, oltre alle proprie

esperienze e a come si è. E questo non solo per il motivo che le proprie esperienze non sono

collegate a come si è. Infatti la macchina dell’esperienza potrebbe essere ridotta a provvedere

soltanto esperienze possibili al tipo di persona che vi è collegata. Desideriamo forse rendere

diverso il mondo? Si consideri allora la macchina del risultato, che produce nel mondo

qualunque risultato vogliamo produrre e inserisce il nostro vettore degli input in ogni attività

collettiva. Non ci addentreremo qui negli affascinanti particolari di queste o di altre macchine.

Ciò che più ci disturba in queste macchine è il fatto che vivano per noi la nostra vita. E’

sbagliato cercare particolari funzioni supplementari che vadano oltre la competenza delle

macchine ad agire per noi? Forse desideriamo proprio vivere (verbo attivo) noi stessi, in

contatto con la realtà. (E questo le macchine non possono farlo per noi). Senza elaborare ciò

che questo implica, che secondo me ha sorprendenti collegamenti con le questioni del libero

arbitrio e le spiegazioni causali della conoscenza, occorre soltanto che notiamo la complessità

del problema di che cosa abbia importanza per le persone oltre le loro esperienze. Finché non

si scopre una risposta soddisfacente, e non si determina che questa risposta non si applica

anche agli animali, non si può ragionevolmente pretendere che soltanto le esperienze sentite

dagli animali limitino quel che possiamo fare loro.

** Qualcuno non userebbe affatto la macchina della trasformazione: gli sembrerebbe d’imbrogliare. Ma l’uso per una sola volta della macchina della trasformazione non eliminerebbe tutte le discussioni; il nuovo noi avrebbe ancora da superare ostacoli, ci sarebbe un nuovo livello da cui impegnarsi a salire ancora. E questo livello è forse guadagnato o meritato meno di quello cui contribuiscono il corredo genetico e l’ambiente della prima infanzia? Ma se la macchina della trasformazione potesse essere usata spesso e a tempo indeterminato, in modo che fosse possibile compiere qualsiasi cosa, premendo un bottone e trasformandoci in qualcuno che la compirebbe facilmente, non rimarrebbero limiti che ci occorra oltrepassare o tentare di superare. Ci rimarrebbe qualcosa da fare? Forse alcune dottrine teologiche mettono Dio fuori del tempo perché un essere onnisciente e

onnipotente non saprebbe come riempire le sue giornate.

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Thomas Nagel (1937 – )

‘Che effetto fa essere un pipistrello?’ (1974)

(dal suo Questioni Mortali)

Traduzione Antonella Besussi È la coscienza che rende il problema mente-corpo veramente difficile da affrontare.

Forse è per questo che le discussioni correnti del problema gli prestano scarsa attenzione

o lo fraintendono in modo evidente. La recente ondata di euforia riduzionista ha prodotto

numerose analisi dei fenomeni mentali e dei concetti mentali destinate a spiegare la

possibilità di alcune varietà di materialismo, identificazione psicofisica, o riduzione.1

Ma i problemi sollevati sono quelli comuni a questo e a altri tipi di riduzione, e si ignora

ciò che rende unico il problema corpo-mente, e differente dal problema acqua - H20 o

dal problema macchina di Turing-macchina IBM o dal problema lampo-scarica elettrica

o dal problema gene-DNA o dal problema quercia- idrocarbonio.

Ogni riduzionista ha la sua analogia favorita tratta dalla scienza moderna. È molto

improbabile che uno qualsiasi di questi esempi sconnessi di riduzione efficace possa

chiarire la relazione tra la mente e il cervello. Ma i filosofi condividono la generale

debolezza umana per spiegazioni di ciò che è incomprensibile in termini di ciò che è

familiare e ben compreso, anche se del tutto differente. Questo ha portato

all’accettazione di resoconti scarsamente plausibili del mentale, soprattutto perché essi

permettono tipi di riduzione familiari. Cercherò di spiegare perché gli esempi correnti

non ci aiutano a capire la relazione tra corpo e mente-perché, veramente, non abbiamo al

momento attuale alcuna concezione di quella che sarebbe una spiegazione della natura

fisica di un fenomeno mentale. Senza la coscienza, il problema mente-corpo sarebbe

1 Per esempio J.J.C. Smart, Philosophy and Scientific Realism, London, Routledge Kegan Paul 1963;

David K. Lewis, An Argument Jor the Identity Theory, “Journal of Philosophy”, LXIII, 1966, ristampato con aggiunte in David M. Rosenthal, Materialism and the Mind-Body problem, Engelwood Cliffs, NJ., Prentice-Hall 1971; Hilary Putnam, “Psychological Predicates”, in Art, Mind Religion, a cura di W.H. Capitan e D.D. Merril, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press 1967, ristampato in Materialism, a cura di Rosenthal, come “The Nature of Mental States”; D.M. Armstrong, A Materialist Theory of the Mind,

London, Routledge Kegan Paul 1968; D.C. Dennett, Content and Consciousnes, London, Routledge Kegan Paul 1969. Ho già espresso i miei dubbi in Armstrong on the Mind, “Philosophical Review”, LXXIX, 1970, pp. 394-403; in una recensione di Dennett, “Journal of Philosophy”, LXIX, 1972; e nel capitolo precedente. Vedi anche Saul Kripke, “Naming and Necessity”, in Semantics of Natural

Language, a cura di D. Davidson e G. Harman, Dordrecht, Reidel 1972, specialmente pp. 334342; e M.T. Thompson, Ostensive Terms and Materialism, “The Monist”, LVI, 1972, pp. 193-214. (tutte le note a questo articolo sono nel testo originale di Nagel)

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

119

molto meno interessante. Con la coscienza, sembra un problema disperato. Il tratto più

importante e caratteristico dei fenomeni mentali è molto mai compreso. La maggior

parte delle teorie riduzioniste non cercano neanche di spiegarlo. E un esame attento

mostrerà che nessun concetto di riduzione correntemente disponibile può essergli

applicato. Forse si può ideare una forma teorica nuova a questo fine, ma una soluzione

del genere, se esiste, è in un lontano futuro intellettuale.

L’esperienza cosciente è un fenomeno esteso. Si manifesta a numerosi livelli di vita

animale, anche se non possisutut essere sicuri della sua presenza negli organismi più

semplici, e è molto difficile dire in generale ciò che ne attesta la presenza. (Certi

estremisti sono disposti a negarla anche a mammiferi diversi dall’uomo.) Senza dubbio

si manifesta in innumerevoli forme per noi totalmente inimmaginabili, su altri pianeti, in

altri sistemi solari, attraverso l’universo. Ma senza tenere conto del modo in cui la forma

può variare, il fatto che un organismo abbia in qualche modo esperienza conscia

significa, fondamentalmente, che fa un certo effetto essere quell’organismo. Possono

esservi ulteriori implicazioni a proposito della forma dell’esperienza; ci possono anche

essere (sebbene io ne dubiti) implicazioni a proposito del comportamento

dell’organismo. Ma, fondamentalmente, un organismo ha stati mentali coscienti se e

solo se fa un certo effetto essere quell’organismo - un certo effetto per l’organismo.

Possiamo chiamare questo il carattere soggettivo dell’esperienza. Esso non è colto da

nessuna delle analisi familiari ciel mentale elaborate recentemente, perché sono tutte

logicamente compatibili con la sua assenza. Non è analizzabile nei termini di qualche

sistema esplicativo di stati funzionali, o di stati intenzionali, perché questi potrebbero

essere attribuiti a robot o automi che si comportano come persone anche se non fanno

esperienza di niente.2 Non è analizzabile nei termini del ruolo causale delle esperienze in

relazione a un comportamento umano tipico - per ragioni analoghe.3 Io non nego che

stati e eventi mentali causino il comportamento, né che si possano dare loro

caratterizzazioni funzionali. Nego soltanto che questo tipo di cose esauriscano la loro

analisi. Qualsiasi programma riduzionista deve essere basato su un’analisi di quello che

2 Forse non potrebbero davvero esserci robot dei genere. Forse qualsiasi cosa sufficientemente complessa da comportarsi come una persona avrebbe delle esperienze. Ma questo, se è vero, è un fatto che non può

essere scoperto semplicemente analizzando il concetto di esperienza. 3 Non è equivalente a quello riguardo a cui siamo incorreggibili, sia perché non siamo incorreggibili riguardo all’esperienza sia perché l’esperienza è presente in animali che mancano di linguaggio e di pensiero, e non hanno in alcun modo credenze riguardo alle loro esperienze.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

120

deve essere ridotto. Se l’analisi lascia da parte qualcosa, il problema sarà mal posto. È

inutile basare la difesa del materialismo su qualche analisi dei fenomeni mentali che non

riesce esplicitamente a rendere conto del loro carattere soggettivo. Infatti non c’è

ragione di supporre che una riduzione che sembra plausibile quando non si fa alcun

tentativo di spiegare la coscienza possa essere estesa fino a includere la coscienza. Di

conseguenza, senza una certa idea di qual è il carattere soggettivo dell’esperienza, non

possiamo sapere che cosa richiede una teoria fisicalista.

Anche se un resoconto della base fisica della mente deve spiegare parecchie cose,

questa sembra essere la più difficile. E impossibile escludere da una riduzione le

caratteristiche fenomenologiche di un’esperienza nello stesso modo in cui si escludono

le caratteristiche fenomeniche di una sostanza ordinaria da una riduzione fisica o

chimica di essa - vale a dire, spiegandole come effetti sulla mente degli osservatori

umani.4 Se il fisicalismo deve essere difeso, si deve dare un resoconto fisicalista delle

caratteristiche fenomenologiche stesse. Ma quando esaminiamo il loro carattere

soggettivo un risultato del genere sembra impossibile. La ragione è che ogni fenomeno

soggettivo è essenzialmente connesso con un singolo punto di vista, e sembra inevitabile

che una teoria oggettiva, fisica, abbandonerà quel punto di vista.

Cercherò prima di tutto di precisare il problema un po’ più esaurientemente di quanto

sia possibile attraverso il riferimento alla relazione tra il soggettivo e l’oggettivo, o tra il

per sé e l’in sé. Questo è tutt’altro che facile. I fatti che riguardano che effetto fa essere

un X sono molto particolari, così peculiari che alcuni possono essere inclini a dubitare

della loro realtà, o del significato delle pretese che li riguardano. Per illustrare la

connessione tra soggettività e un punto di vista, e per rendere evidente l’importanza

delle caratteristiche soggettive, sarà utile indagare la questione in relazione a un

esempio che fa emergere chiaramente la divergenza tra i due tipi di concezione,

soggettiva e oggettiva.

Suppongo che tutti crediamo che i pipistrelli abbiano un’esperienza. Dopo tutto, sono

mammiferi, e non vi è più dubbio sul fatto che essi abbiano esperienze che sul fatto che

le abbiano topi, piccioni o balene. Ho scelto i pipistrelli invece delle vespe o dei passeri

perché se ci si allontana troppo dall’albero filogenetico, gli individui abbandonano

4 Cfr. Richard Rorty, Mind-Body Identity, Privacy, and Categories, “Review of Metaphysics”, XIX, 1965, specialmente pp. 37-38.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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gradualmente la fiducia sul fatto che vi è in qualche modo esperienza. I pipistrelli, anche

se più vicini a noi che quelle altre speci, presentano tuttavia una gamma di attività, e un

apparato sensorio, così differenti dai nostri che il problema che desidero porre è

eccezionalmente nitido (sebbene possa certamente essere sollevato a proposito di altre

specie). Anche senza il beneficio della riflessione filosofica, chi ha passato un po’ di

tempo in uno spazio chiuso con un pipistrello agitato sa che cosa vuol dire incontrarsi

con una forma di vita fondamentalmente estranea.

Ho detto che la sostanza della credenza secondo cui i pipistrelli hanno una esperienza

è che fa un certo effetto essere un pipistrello. Ora sappiamo che molti pipistrelli (i

microchiropteri, per essere precisi) percepiscono il mondo esterno principalmente con

un ecogoniometro, o ecolocalizzatore, che scorge i riflessi che provengono dagli oggetti

all’interno del loro raggio d’azione, attraverso le loro strida brevi, sottilmente modulate,

a alta frequenza. I loro cervelli sono destinati a connettere gli impulsi esterni alle eco

successive, e l’informazione così acquisita permette ai pipistrelli di farsi giudizi precisi

della distanza, della forma, dei movimento e della struttura comparabili ai giudizi che

noi ci facciamo attraverso la vista. Ma l’ecogoniometro di un pipistrello, anche se è

chiaramente una forma di percezione, non è simile, nel suo modo di funzionare, a uno

qualsiasi dei nostri sensi, e non c’è ragione di supporre che sia soggettivamente simile a

qualsiasi cosa di cui noi possiamo fare esperienza, o a qualsiasi cosa possiamo

immaginare. Questo sembra creare difficoltà per la nozione dell’effetto che fa essere un

pipistrello. Dobbiamo considerare se qualche metodo ci permette di estrapolare a partire

dal nostro caso particolare5 la vita interiore del pipistrello, e, se non è così, quali metodi

alternativi possono esservi per comprendere la nozione.

La nostra esperienza particolare fornisce il materiale fondamentale per la nostra

immaginazione, e il campo di essa è quindi limitato. Non servirà a niente cercare di

immaginare che abbiamo membrane palmate sui nostri arti che ci permettono di volare

qua e là al crepuscolo e all’alba acchiappando insetti con la bocca; che abbiamo una

vista molto debole e percepiamo il mondo circostante con un sistema di segnali sonori

riflessi a alta frequenza; e che passiamo la giornata appesi a testa in giù in una soffitta.

Per quanto io possa immaginarmi tutto questo (che non è molto), ciò mi dice soltanto

5 Per “nostro caso” non intendo soltanto “il mio caso particolare”, ma piuttosto l’idea mentalista che applichiamo a noi stessi e a altri esseri umani.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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che effetto farebbe a me comportarmi come si comporta un pipistrello. Ma la questione

non è questa. Io desidero sapere che effetto fa essere un pipistrello a un pipistrello.

Eppure, se cerco di immaginarlo, sono limitato alle risorse della mia mente, e quelle

risorse sono inadeguate per il compito. Non posso svolgerlo immaginando aggiunte alla

mia esistenza presente o immaginando che siano gradualmente sottratti da essa dei

segmenti o immaginando qualche combinazione di aggiunte, sottrazioni, e

modificazioni.

Nella misura in cui io potrei avere l’aspetto e il comportamento di una vespa o di un

pipistrello senza cambiare la mia struttura fondamentale, le mie esperienze non

assomiglierebbero in nulla alle esperienze di quegli animali. D’altra parte, è dubbio che

possa essere attribuito un significato qualsiasi alla supposizione che io potrei possedere

la costituzione neurofisiologica interna di un pipistrello. Anche se io potessi essere

trasformato in pipistrello attraverso mutamenti graduali, nulla, nella mia costituzione

presente, mi permette di immaginare come sarebbero le esperienze di quel futuro stadio

di me stesso così metamorfosizzato. La prova migliore verrebbe dalle esperienze di

pipistrelli, se solo noi sapessimo come sono.

Così, se l’estrapolazione che facciamo a partire dal nostro caso particolare è implicata

nell’idea di che effetto fa essere un pipistrello, l’estrapolazione deve essere incompleta.

Non possiamo farci più che un’idea schematica dell’effetto che quello fa. Per esempio,

possiamo attribuire tipi generali di esperienza sulla base dell’anatomia dell’animale e

del suo comportamento. Così descriviamo l’ecogoniometro del pipistrello come una

forma di percezione tridimensionale avanzata; crediamo che i pipistrelli provino in

qualche versione pena, paura, fame e desiderio e abbiano altri, più familiari tipi di

percezione, oltre all’ecogoniometro. Ma crediamo che queste esperienze abbiano anche,

in ogni caso, un carattere soggettivo specifico, che va al di là della nostra capacità di

comprendere. E se altrove vi è vita cosciente nell’universo, è probabile che una parte di

essa non sarà descrivibile neanche nel termini più generali relativi all’esperienza di cui

disponiamo.6 (Il problema, tuttavia, non è limitato ai casi esotici perché esiste tra una

persona e l’altra. Il carattere soggettivo dell’esperienza di una persona sorda e cieca

dalla nascita non mi è per esempio accessibile, né, presumibilmente, il carattere

6 Di conseguenza la forma analogica dell’espressione inglese “what it is like” (qui tradotta con “che effetto fa” N.d.T.) è ingannevole. Io non intendo “a cosa assomiglia (nella nostra esperienza)”, ma piuttosto “com’è per il soggetto stesso”.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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soggettivo della mia esperienza lo è per lei. Questo non impedisce a ciascuno di noi di

credere che l’esperienza dell’altro abbia un tale carattere soggettivo.)

Se qualcuno è incline a negare che possiamo credere nell’esistenza di fatti come

questo, la cui esatta natura non possiamo in alcun modo concepire, dovrebbe riflettere

che quando consideriamo i pipistrelli siamo in una posizione molto simile a quella che

occuperebbero pipistrelli intelligenti o marziani7 se cercassero di farsi un’idea di che

effetto fa essere noi. La struttura delle loro menti potrebbe rendere loro impossibile di

riuscirci, ma sappiamo che avrebbero torto a concludere che non c’è nulla di preciso

nell’effetto che fa essere noi: che soltanto certi tipi generali di stati mentali potrebbero

esserci attribuiti (forse percezione e appetito sarebbero concetti comuni a noi e a loro;

forse no). Sappiamo che avrebbero torto a tirare una conclusione scettica del genere

perché sappiamo che effetto fa essere noi. E sappiamo che, sebbene questo stato includa

una enorme quantità di variazione e complessità, e sebbene non possediamo il

vocabolario per descriverlo adeguatamente, il suo carattere soggettivo è altamente

specifico, e sotto certi aspetti descrivibile in termini che possono essere compresi solo

da creature come noi. Il fatto che non possiamo in alcun modo sperare di poter

accogliere nel nostro linguaggio una dettagliata descrizione della fenomenologia

marziana o pipistrellesca non dovrebbe portarci a rifiutare come insensata la pretesa che

pipistrelli e marziani abbiano esperienze del tutto comparabili alle nostre per ricchezza

di particolari. L’ideale sarebbe che qualcuno sviluppasse concetti e una teoria che ci

permettesse di riflettere su queste cose; ma una comprensione del genere può esserci

permanentemente negata dai limiti della nostra natura. E negare la realtà o il significato

logico di quello che non possiamo in alcun modo descrivere o comprendere è la forma

più cruda di dissonanza cognitiva.

Questo ci porta alle soglie di un argomento che richiede una discussione molto più

approfondita di quella che affronto qui; vale a dire, la relazione tra fatti, da una parte, e

schemi o sistemi concettuali dall’altra. II mio realismo a proposito del dominio

soggettivo in tutte le sue forme implica una credenza nell’esistenza dl fatti che eccedono

i concetti umani. È cermtnente possibile per un essere umano credere che vi sono fatti a

proposito dei quali gli umani non possiederanno mai i concetti necessari per

rappresentarli o comprenderli. A dire il vero sarebbe insensato dubitarne, data la

7 Qualsiasi extraterrestre intelligente totalmente differente da noi.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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finitezza delle aspettative umane. Dopo tutto, i numeri transfiniti sarebbero esistiti anche

se tutti fossero stati annientati dalla morte nera prima che Cantor li scoprisse. Ma si

potrebbe anche credere che vi sono fatti che non potrebbero mai essere rappresentati o

compresi dagli esseri umani, anche se la specie durasse per sempre - semplicemente

perché la nostra struttura non ci permette di operare con concetti del tipo necessario.

Questa impossibilità potrebbe anche essere osservata da parte di altri esseri, ma non è

chiaro se l’esistenza di tali esseri, o la possibilità della loro esistenza, sia una

precondizione del significato dell’ipotesi secondo cui vi sono fatti inaccessibili agli

umani. (Dopo tutto, la natura di esseri che abbiano accesso a fatti inaccessibili agli

umani è presumibilmente, in se stesso, un fatto inaccessibile agli umani.) Una riflessione

su che effetto fa essere un pipistrello ci porta quindi alla conclusione che vi sono fatti

che non consistono nella verità di proposizioni esprimibili in un linguaggio umano.

Possiamo essere costretti a riconoscere l’esistenza di fatti del genere senza essere in

grado di spiegarli o comprenderli.

Non approfondirò questo argomento, comunque. La sua connessione con l’argomento

di cui mi occupo (cioè, il problema corpo-mente) è che esso ci permette di fare

un’osservazione generale a proposito del carattere soggettivo della esperienza. Quale

che possa essere lo statuto di fatti a proposito di che effetto fa essere un essere umano, o

un pipistrello, o un marziano, sembrano essere fatti che incorporano un particolare punto

di vista.

Non mi riferisco qui al carattere per così dire privato dell’esperienza per chi la

possiede. Il punto di vista in questione non è accessibile solo a un singolo individuo.

Piuttosto è un tipo. Spesso è possibile cogliere un punto di vista diverso dal proprio, per

cui la comprensione di tali fatti non è limitata al nostro caso. Vi è un senso in cui fatti

fenomenologici sono perfettamente oggettivi: una persona può sapere o dire qual è la

qualità dell’esperienza dell’altra. i fatti sono soggettivi, tuttavia, nel senso che anche

questa attribuzione oggettiva di esperienza è possibile solo per qualcuno che sia

sufficientemente simile all’oggetto dell’attribuzione da essere in grado di adottare il suo

punto di vista - di comprendere l’attribuzione in prima persona così come in terza, per

dir così. Più l’altro soggetto di esperienza è differente da noi, meno ci si può aspettare

che l’impresa riesca. Nel nostro caso occupiamo noi il punto di vista rilevante, ma

avremo altrettante difficoltà a comprendere appropriatamente la nostra propria

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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esperienza se l’avviciniamo a partire da un altro punto di vista che se cercassimo di

comprendere l’esperienza di un’altra specie senza adottare il suo punto di vista.8

Questo ha direttamente a che fare con il problema mente-corpo. Se i fatti

dell’esperienza-fatti che riguardano che effetto fa l’esperienza per il soggetto che la

prova - sono accessibili solo da un punto di vista, allora è un mistero come il vero

carattere delle esperienze potrebbe essere rivelato nel funzionamento fisico di

quell’organismo. Quest’ultimo è un ambito di fatti oggettivi per eccellenza - del tipo di

quelli che possono essere osservati e compresi da parecchi punti di vista e da individui

con differenti sistemi percettivi. Non vi sono ostacoli comparabili all’immaginazione

quando si tratta di acquisire la conoscenza della neurofisiologia dei pipistrelli da parte di

scienziati umani, e pipistrellli intelligenti o marziani potrebbero imparare molte più cose

sul cervello umano di quelle che noi potremo mai imparare.

Questo in sé non è un argomento contro la riduzione. Uno scienziato-marziano senza

nessuna comprensione della percezione visiva potrebbe comprendere l’arcobaleno, il

lampo o le nuvole come fenomeni fisici, anche se non potrebbe mai essere in grado di

capire i concetti umani di arcobaleno, lampo, o nuvola, o il posto che queste cose

occupano nel nostro mondo fenomenico. Egli potrebbe apprendere la natura oggettiva

delle cose rappresentate da questi concetti perché, anche se i concetti stessi sono

connessi con un particolare punto di vista e una particolare fenomenologia visiva, le

cose apprese da quel punto di vista non lo sono: sono osservabili dai punto di vista, ma

esterne a esso; quindi possono essere comprese anche da altri punti di vista, dagli stessi

organismi o da altri.

Il lampo ha un carattere oggettivo che non è esaurito dalla sua apparenza visiva, e

questo può essere colto da un marziano che non dispone della vista. Per essere precisi,

ha un carattere più oggettivo di quello che è rivelato dalla sua apparenza visiva.

8 Può essere più facile che io supponga di oltrepassare barriere interspaziali con l’aiuto dell’immaginazione. Per esempio i ciechi sono capaci di scoprire oggetti loro vicini attraverso una forma di ecogoniometro usando suoni vocali o battendo con un bastone. Forse se sapessimo che effetto fa, si potrebbe per estensione immaginare approssimativamente che effetto fa possedere un ecogoniometro più raffinato di quello del pipistrello. Anche per altre persone la comprensione di che effetto fa a loro essere loro è solo parziale, e quando passiamo a specie molto differenti dalla nostra, possiamo disporre di una comprensione parziale ancora minore. L’immaginazione è considerevolmente flessibile. Il mio punto, tuttavia, non è che non possiamo sapere che effetto fa essere un pipistrello. Non sollevo questo problema epistemologico. Il mio punto è piuttosto che anche per farsi un’idea di che effetto fa essere un pipistrello (e a fortíori sapere che effetto fa essere un pipistrello) ci si deve mettere dal punto di vista del pipistrello. Se possiamo assumerlo approssimativamente o parzialmente, allora anche la nostra idea sarà approssimativa o parziale. o sembra tale allo stato attuale della nostra comprensione.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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Parlando del passaggio dalla caratterizzazione soggettiva a quella oggettiva, non

desidero impegnarmi riguardo all’esistenza di un punto finale, la natura intrinseca

completamente oggettiva della cosa, che possiamo o meno essere in grado di

raggiungere. Può essere più esatto pensare all’oggettività come a una direzione in cui la

comprensione può muti versi. E nel comprendere un fenomeno come il lampo, è

legittimo allontanarsi quanto è possibile da un punto di vista strettamente umano.9

Nel caso dell’esperienza, d’altra parte, la connessione con un punto di vista

particolare sembra più stretta. È difficile capire cosa si potrebbe intendere per carattere

oggettivo di un’esperienza, indipendentemente dal punto di vista particolare da cui il suo

soggetto la percepisce. Dopo tutto, cosa resterebbe dell’effetto che fa essere un pipistrello

se si rimuove il punto di vista del pipistrello? Ma se l’esperienza non ha, oltre al suo

carattere soggettivo, una natura oggettiva che può essere percepita da differenti punti di

vista, come si può allora supporre che un marziano il quale esamina il mio cervello possa

osservare processi fisici che sarebbero i miei processi mentali (come potrebbe osservare

processi fisici che sarebbero fulmini), solo da un punto di vista differente? Come

potrebbe, a quel proposito, un fisiologo umano osservarli da un altro punto di vista?10

Sembra che siamo di fronte a una difficoltà generale della riduzione psicofisica. In altri

campi il processo di riduzione è una mossa verso una maggiore oggettività, verso un punto

di visa più accurato della reale natura delle cose. Questo avviene quando riduciamo la

nostra dipendenza da punti di vista individuali, o specifici della specie, riguardo

all’oggetto della nostra ricerca. Lo descriviamo non nei termini delle impressioni che fa

sui nostri sensi, ma nei termini dei suoi effetti più generali e delle proprietà che possono

essere scoperte con mezzi diversi dai sensi umani. Meno la ricerca dipende da un punto di

vista specificamente umano, più la nostra descrizione è oggettiva. È possibile seguire

questo percorso perché, sebbene i concetti e le idee che impieghiamo per riflettere sul

mondo esterno siano inizialmente applicati da un punto di vista che implica il nostro

apparato percettivo, noi li usiamo per fare riferimento a cose che sono al di là di essi - 9 Il problema che sollevo può di conseguenza essere posto anche se la distinzione tra descrizioni o punti di vista più soggettivi e più oggettivi può in se stessa essere fatta solo all’interno di un punto di vista umano più ampio. lo non accetto questo tipo di relativismo concettuale, ma non è necessario rifiutarlo per sottolineare che la riduzione psicofisica non può essere favorita dal modello dal soggettivo all’oggettivo che ci è familiare in altri casi. 10 Il problema non è soltanto che quando guardo Monna Lisa, la mia esperienza visiva ha una certa qualità, della quale chi guarda non può trovare alcuna traccia nel mio cervello. Infatti, anche se osserva una immagine minuscola di Monna Lisa, non avrebbe ragione di identificarla con l’esperienza.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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sulle quali abbiamo il punto di vista fenomenico. Di conseguenza possiamo abbandonare

questo punto di vista a favore di un altro, e pensare ancora alle stesse cose.

L’esperienza stessa, tuttavia, non sembra accordarsi con questo modello. L’idea di

passare dall’apparenza alla realtà sembra non avere qui alcun senso. Che cos’è in questo

caso analogo al perseguimento di una comprensione più oggettiva degli stessi fenomeni

attraverso l’abbandono del punto di vista soggettivo iniziale adottato sui fenomeni in

favore di un altro che è più oggettivo, ma riguarda la stessa cosa? Certamente sembra

poco probabile che ci avviciniamo alla natura reale dell’esperienza umana lasciandoci

dietro la particolarità del nostro punto di vista umano e andando alla ricerca di una de.

scrizione in termini accessibili a esseri che potrebbero non immaginare che effetto fa

essere noi. Se il carattere soggettivo della esperienza è pienamente comprensibite solo da

un punto di vista, allora ogni spostamento verso una maggiore oggettività - vale a dire, un

minore attaccamento a un punto di vista specifico - non ci porta più vicino alla reale

natura del fenomeno: ce ne allontana ancor di più. In un certo senso, le origini di questa

obiezione alla riducibilità dell’esperienza sono già identificabili in casi riusciti di

riduzione; infatti, scoprendo che il suono è in realtà un fenomeno ondulatorio nell’aria o

in altri mezzi, noi lasciamo da parte un punto di vista per assumerne un altro, e il punto di

vista uditivo, umano o animale, che tralasciamo, sfugge alla riduzione. I membri di specie

radicalmente differenti possono tutti comprendere gli stessi eventi fisici in termini

oggettivi, e questo non richiede che essi comprendano le forme fenomeniche in cui quegli

eventi appaiono ai sensi di membri delle altre specie. Così, una delle condizioni del loro

riferimento ;l una realtà comune è che i loro punti di vista particolari non facciano parte

della realtà comune che tutti percepiscono. La riduzione può riuscire solo se il punto di

vista specifico della specie è omesso da ciò che è oggetto di riduzione.

Ma, se siamo giustificati a lasciare da parte questo punto di vista quando cerchiamo una

comprensione più approfondita del mondo esterno, non possiamo ignorarlo

permanentemente, perché esso costituisce l’essenza dei mondo interno, e non

semplicemente un punto di vista su di esso. La maggior parte del neo-comportamentismo

che caratterizza la recente psicologia filosofica deriva dallo sforzo di sostituire un

concetto oggettivo di mente alla mente reale, al fine di non lasciare fuori qualcosa che non

possa essere ridotto. Se riconosciamo che una teoria fisica della mente deve rendere conto

del carattere soggettivo dell’esperienza, dobbiamo ammettere che nessuna teoria al

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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momento disponibile ci fornisce un indizio sul modo in cui questo potrebbe avvenire. Il

problema è unico. Se i processi mentali sono in verità processi fisici, allora c’è

intrinsecamente11 qualcosa come subire certi processi fisici. Che cosa vuol dire una cosa

del genere rimane un mistero.

Che morale deve essere ricavata da queste riflessioni, e che cosa si deve fare

successivamente? Sarebbe un errore concludere che il fisicalismo è necessariamente falso.

L’inadeguatezza delle ipotesi fisiche che assumono un’analisi oggettiva errata della mente

non prova niente. Sarebbe più esatto dire che il fisicalismo è una posizione che non

possiamo comprendere perché non abbiamo al momento alcuna idea di come potrebbe

essere vero. Forse si riterrà irragionevole richiedere una concezione del genere come

condizione di comprensione. Dopo tutto, si potrebbe dire, il significato del fisicalismo è

abbastanza chiaro: gli stati mentali sono stati del corpo; gli stati mentali sono eventi fisici.

Non sappiamo di quali stati e eventi fisici si tratta, ma ciò non dovrebbe impedirci di

comprendere l’ipotesi. Cosa potrebbe essere più chiaro delle parole “è” e “sono”?

11 La relazione non sarebbe di conseguenza contingente, come quella tra una causa e il suo effetto distinto. Sarebbe necessariamente vero che un certo stato fisico è sentito in un certo modo. Saul Kripke in Semantics

of Natural Language (a cura di Davidson e Harman) sostie ne che le analisi causali behavioriste del mentale e quelle a esse affini falliscono perché costruiscono, per es. “dolore” come un nome semplicemente contingente di dolori. II carattere soggettivo di un’esperienza (“la sua qualità fenomenologica immediata” come la chiama Kripke (p. 340)) è la proprietà essenziale lasciata da parte da analisi del genere, e quella in virtù della quale l’esperienza è necessariamente l’esperienza che è. La mia posizione è strettamente affine alla sua. Come Kripke, io penso che l’ipotesi secondo cui un certo stato del cervello dovrebbe necessariamente avere un certo carattere soggettivo sia incomprensibile senza una spiegazione supplementare. Da teorie che considerano come contingente la relazione mente-corpo non emerge alcuna spiegazione del genere, ma forse ci sono altre alternative, non ancora scoperte.

Una teoria che spiegasse come la relazione mente-corpo sia necessaria, non eliminerebbe il problema di Kripke di spiegare perché essa appare tuttavia contingente. Questa difficoltà mi sembra insuperabile nel modo seguente. Possiamo immaginare qualcosa rappresentandocela percettivamente, simpateticamente, o simbolicamente. Non cercherò di dire come funziona l’immaginazione simhollca, ma quel che vurrrdr in parte negli altri chur rari è questo. Per immaginare qualcosa percettivamente, noi ci mettiamo in uno stato cosciente che assomiglia allo stato in cui ci troveremmo se la percepissimo. Per immaginare qualcosa simpateticamente noi ci mettiamo in uno stato cosciente che assomiglia alla cosa stessa. (Questo metodo può essere usato soltanto per immaginare eventi e stati mentali - i nostri o quelli di altri.) Quando cerchiamo di immaginare uno stato mentale che si manifesta senza lo stato del cervello che gli è associato, immaginiamo prima di tutto simpateticamente il manifestarsi dello stato mentale: vale a dire ci mettiamo in uno stato che gli assomiglia mentalmente. Nello stesso tempo, cerchiamo percettivamente di immaginare che lo stato fisico associato non si manifesti, mettendoci in un altro stato senza connessioni con il primo: uno stato che assomigli a quello in cui ci troveremmo se percepissimo che lo stato fisico non si manifesta. Quando l’immaginazione di caratteristiche fisiche è percettiva e l’immaginazione di caratteristiche mentali è simpatetica, ci sembra che possiamo immaginare che qualsiasi esperienza si manifesti senza il suo associato stato del cervello, e viceversa. La relazione tra essi apparirà contingente anche se è necessaria, a causa dell’indipendenza reciproca tra differenti tipi di immaginazione.

(Il solipsismo, incidentalmente, si manifesta se interpretiamo erroneamente l’immaginazione simpatetica come se funzionasse come l’immaginazione percettiva: sembra allora impossibile immaginare qualsiasi esperienza che non sia la nostra.)

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

129

Ma io credo che sia precisamente l’apparente chiarezza della parola “è” a essere

ingannevole. Di solito quando ci si dice che X è Y sappiamo come si suppone sia vero, ma ciò

dipende da un contesto concettuale e teorico e non è fornito solo da “è”. Noi sappiamo come

“X” e “Y” hanno tutti e due un riferimento, e il tipo di cose a cui si riferiscono, e abbiamo

un’idea approssimativa di come le due vie referenziali possano convergere in una cosa

singola, che si tratti di un oggetto, di una persona, di un processo, di un evento o di qualsiasi

altra cosa. Ma quando i due termini dell’identificazione sono molto differenti può non essere

così chiaro come potrebbe essere vero. Potremmo non avere neanche un’idea approssimativa

del modo in cui le due vie referenziali potrebbero convergere, o del tipo di cose sulle quali

potrebbero convergere, e potremmo avere bisogno di un quadro teorico per essere in grado di

comprendere tutto questo. Senza quadro teorico, l’identificazione avviene in un’atmosfera di

misticismo.

Questo spiega il profumo magico delle esposizioni divulgative di scoperte scientifiche

fondamentali, presentate come asserzioni che devono essere sottoscritte senza essere

realmente comprese. Per esempio, la gente apprende ora molto presto che la materia è in

realtà energia. Ma, a dispetto del fatto che sanno che cosa significa “è”, molti di loro non

hanno la minima idea di che cosa renda vera questa tesi, perché mancano del contesto

teorico.

Oggi lo statuto del fisicalismo è simile a quello che avrebbe avuto l’ipotesi secondo cui

la materia è energia se fosse stata sostenuta da un filosofo presocratico. Non abbiamo la

benché minima idea sul modo in cui potrebbe essere vero. Per capire l’ipotesi che un

evento mentale è un evento fisico, ci serve più che una comprensione della parola “è”. Ci

manca l’idea di come un termine mentale e uno fisico possano riferirsi alla stessa cosa, e

le analogie ordinarie con l’identificazione teorica in altri campi non ci sono di aiuto. Sono

inadeguate perché se costruiamo il riferimento di termini mentali a termini fisici secondo

il modello usuale, o facciamo riapparire eventi soggettivi separati come gli effetti tramite i

quali è assicurato il riferimento mentale a eventi fisici, oppure ci facciamo una concezione

falsa del modo in cui i termini mentali hanno un riferimento (per esempio, una concezione

causale behaviorista).

È abbastanza strano che possiamo avere la prova della verità di qualcosa che non

possiamo davvero comprendere. Supponiamo che un bruco sia chiuso in una scatola

sterile da qualcuno che ha poca familiarità con la metamorfosi degli insetti, e che

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

130

settimane dopo la scatola sia aperta e contenga una farfalla. Se la persona sa che la

scatola è stata chiusa tutto il tempo, ha ragione di credere che la farfalla è, o è stata

una volta, un bruco, senza sapere in che senso potrebbe essere così. (Una possibilità è che

il bruco contenesse un minuscolo parassita alato che lo ha divorato e è cresciuto fino a

diventare una farfalla.)

È concepibile che siamo in una posizione del genere riguardo al fisicalismo. Donald

Davicison ha sostenuto che se gli eventi mentali hanno cause e effetti fisici, devono avere

descrizioni fisiche. Egli ritiene che abbiamo ragione di credere questo, anche se non

abbiamo, e di fatto non potremmo avere - una teoria generale psicofisica.12

Il suo argomento si applica a eventi mentali intenzionali, ma penso che abbiamo anche

qualche ragione di credere che le sensazioni sono processi fisici, senza essere in grado di

capire come. La posizione di Davidson è che certi eventi fisici hanno proprietà

irriducibilmente mentali, e forse qualche teoria descrivibile in questo modo è corretta. Ma

nulla di ciò di cui ora possiamo farci un’idea corrisponde a essa; non abbiamo neanche la

minima idea di quello a cui assomiglierebbe una teoria che ci permettesse di concepirla.13

Si è lavorato molto poco sulla questione fondamentale (per la quale possiamo omettere

di menzionare il cervello) e cioè se possiamo dare un senso qualsiasi al fatto che le

esperienze hanno in qualche modo carattere oggettivo. In altri termini, ha senso chiedere

che cosa sono in realtà le mie esperienze in quanto opposte a quello che mi appaiono?

Non possiamo autenti. camente capire l’ipotesi che la loro natura è catturata da una

descrizione fisica a meno che comprendiamo l’idea più fondamentale secondo cui hanno

una natura oggettiva (o secondo cui i processi oggettivi possono avere una natura

soggettiva).14

Vorrei chiudere con una proposta speculativa. Può essere possibile avvicinarsi alla

discrepanza tra soggettivo e oggettivo da un’altra direzione. Lasciando temporaneamente da

parte la relazione tra mente e corpo, possiamo ricercare una comprensione più oggettiva del

12 Vedi “Mental Events”, in Experience and Tbeory, a cura di Lawrence Foster e J.W. Swanson, Amherst, University of Massachusetts Press 1970; anche se non capisco l’argomento contro le leggi psicofisiche. 13 Osservazioni simili si applicano al mio saggio Physicalism, “Philosophical Review”, LXXIV, 1965, 339-56, ristampato con un poscritto in Modern Materialism, a cura di John O’Connor, New York, Harcourt Brace Jovanovich 1969. 14 Questo problema è centrale anche per il problema delle altre menti, la cui stretta connessione con il problema mente-corpo è spesso trascurata. Se si comprende come l’esperienza soggettiva potrebbe avere una natura oggettiva, si comprende l’esistenza di soggetti diversi da sé.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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mentale in se stesso. Al momento attuale siamo completamente sprovvisti di mezzi per

riflettere sul carattere soggettivo della esperienza senza far ricprso all’immaginazione - senza

adottare il punto di vista del soggetto dell’esperienza. Questa dovrebbe essere considerata

come una sfida a costruire nuovi concetti e a ricercare un metodo nuovo - una fenomenologia

oggettiva che non dipenda dall’empatia o dall’immagìnazione. Anche se presumibilmente

essa non catturerebbe ogni cosa, il suo scoro sarebbe quella di descrivere, almeno lei parte, il

carattere soggettivo di esperienze in una forma comprensibile a esseri incapaci di avere quelle

esperienze.

Dovremmo elaborare una fenomenologia del genere per descrivere le esperienze di

ecogoniometro che hanno i pipistrelli; ma sarebbe anche possibile cominciare con gli

umani. Si potrebbe cercare, per esempio, di sviluppare concetti che potrebbero essere usati

per spiegare a una persona cieca dalla nascita che effetto fa vedere. Finiremmo per

raggiungere un muro cieco, ma sarebbe possibile escogitare un metodo per esprimere in

termini oggettivi più di quello che possiamo esprimere adesso, e con molta maggior

precisione. Le vaghe analogie intermodali - per esempio “Rosso è come il suono di una

tromba” - che abbondano nelle discussioni di questo argomento sono di poca utilità.

Questo dovrebbe essere chiaro a chi ha sentito una tromba suonare e ha visto il rosso. Ma

le caratteristiche strutturali della percezione potrebbero essere più accessibili alla

descrizione oggettiva, anche se qualcosa sarebbe lasciato fuori. E concetti alternativi a

quelli che apprendiamo in prima persona potrebbero permetterci di arrivare a un certo tipo

di comprensione anche della nostra stessa esperienza che ci è negata dalla grande facilità

di descrizione e dalla mancanza di distanza che i concetti soggettivi permettono.

Indipendentemente dal suo interesse specifico, una fenomenologia che sia oggettiva in

questo senso può permettere a domande a proposito della base fisica15 dell’esperienza di

assumere una forma più intellegibile. Aspetti della esperienza soggettiva che ammettono

questo tipo di descrizione oggettiva possono essere candidati migliori per spiegazioni

oggettive di tipo più familiare. Ma che questa congettura sia o meno corretta, sembra

15 Non ho definito il termine “fisico”. Ovviamente non si applica solo a quello che può essere descritto con i concetti della fisica contemporanea, perché ci aspettiamo sviluppi ulteriori. Alcuni possono ritenere che nulla impedisce che i fenomeni mentali siano finalmente riconosciuti come in se stessi fisici. Ma qualsiasi altra cosa si possa dire della fisica, deve essere oggettiva. Così se la nostra idea di fisico si estende al punto di includere i fenomeni mentali, dovrà assegnare loro un carattere oggettivo - che sia o meno realizzato esaminandoli nei termini di altri fenomeni già considerati come fisici. Mi sembra più probabile, tuttavia, che le relazioni fisico-mentale saranno alla fine espresse in una teoria i cui termini fondamentali non possono essere chiaramente collocati nell’una o nell’altra categoria.

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Nagel ‘Che effetto fa essere un pipistrello?’

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improbabile la costruzione di qualsiasi teoria fisica della mente finché non si sarà

riflettuto di più sul problema generale di soggettivo e oggettivo. Altrimenti non possiamo

neanche porre il problema mente - corpo senza eluderlo.

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Sinossi dei film*

Paul Verhoeven

Atto di forza (1990)

Min.

0 Scena sulla superficie di Marte in cui Quaid cade e rompe il visore del casco,

esponendosi ai gas velenosi.

Quaid si sveglia e discute con la sua moglie, Lori, la sua ossessione con Marte.

5 Quaid vede in tv un servizio sull’atttacco dei ribelli contro la miniera su Marte.

Lori non vuole sapere del pianeta rosso e spegne la tv, sostituendo sul grande schermo

(finestra?) una vista di un paesaggio tranquillo.

Uscendo per il lavoro, Quaid dice di volere più nella vita: ‘voglio essere qualcuno’.

Sulla metropolitana, vede uno spot per Rekall che descrive i vantaggi delle vacanze

virtuali e promette ‘le memorie di una vita’.

10 Sul lavoro, Quaid chiama l’innesco della Rekall ‘memorie false’ e il collega Harry gli

consiglia di non rischiare di ‘manomettere il cervello’.

Quaid va alla Rekall dove il commesso, Bob, gli offre un pacchetto (delle memorie) di

una crociera a Saturno, promettendo che la memoria sarà vera come tutte le altre che ha

in testa

Oltre alla destinazione, la Rekall il cliente può scegliere la propria personalità (l’italiano

dice ‘viaggio nell’ego’, mentre l’inglese ‘ego trip’ significa uno spasso che soddisfa i

desideri di prepotenza); Quaid opta per il ruolo di agente segreto e Bob narra a grandi

linee il resto del film.

15 Nella sala operatoria, Quaid, nonostante dice di essere sposato da 8 anni, sceglie come

compagna nella sua avventura una ragazza identica a Melina.

Dopo essersi addormentato, Quaid subisce un’‘embolia schiziode’ (cosa sarà?) e,

quando si risveglia, nega di chiamarsi ‘Quaid’ e, durante il combattimento per uscire

* Inevitabilmente, le scelte di riportare solo alcuni aspetti dell’azione e del dialogo sono state guidate dai miei interessi (anche didattici). Come già indicato nell’Introduzione, nessuna descrizione di alcuni dei passaggi può essere filosoficamente ‘innocente’. I numeri a margine corrispondono (+ o -) al lasso di tempo dall’inizio dell’azione.

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Sinossi di Atto di Forza

134

dalla Rekall, viene sedato; la dottoressa dice che l’innesto di memorie non è stato

effettuato.

20 Quaid si sveglia in un taxi e, alla stazione della metropolitana, viene aggredito da Harry

e altri, che riesce a uccidere (tutti, con tanto sangue).

A casa, Lori sta facendo esercizio di tennis con un ologramma; quando Quaid torna, lei

lo aggredisce.

25 Lori spiega che il loro matrimonio è stato solo un innesto, eseguito sei settimana fa: ‘la

tua intera vita è solo un sogno’

Quaid: ‘se io non sono io, chi diavolo sono?’

Quando vede arrivare altri uomini, Quaid stende Lori e scappa di nuovo nella

metropolitana (dove l’offerta di vacanze non è di tipo ‘virtuale’).

30 Inseguendo Quaid, Richter dice che avrebbe fatto meglio ad ucciderlo su Marte.

Arrivato in un albergo un poì trasandato, Quaid riceve una chiamata da un uomo con

una valigia appena fuori; dietro il suo consiglio, Quaid mette in testa un asciugamano

bagnato ‘per neutralizzare il beeper’.

35 Quaid recupera la valigia e scappa in una fabbrica dismessa, dove apre la valigia e

riceve ulteriori direzioni da Hauser (‘tu non sei tu, tu sei me’); rimuove il beeper,

prende i documenti e un orologio che produce ologrammi del suo portatore, e scappa di

nuovo.

40 Arrivato su Marte camuffato da signora, Quaid viene scoperto e usa la violenza per

passare i controlli.

Sul treno verso l’albergo, vede la montagna che contiene il ‘turbinium’ che è la fonte

della ricchezza di Marte.

45 Richter e Cohaagen parlano del potere conferito dal ‘turbinium’ e della necessità di

fermare Quaid.

50 Quaid arriva in albergo e si registra sotto il nome di Brubaker; le sue impronte digitali

aprono una cassetta di sicurezza che contiene direzioni, e la sua calligrafia corrisponde a

quella del depositario della cassetta.

Quaid prende il taxi di Benny per andare a Venusville, scappando da un attacco dei

ribelli.

I mutanti offrono di leggere il futuro di Quaid.

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Sinossi di Atto di Forza

135

55 Nel bar di Venusville, Quaid incontra Melina, che lo riconosce come Hauser; Melina si

stupisce che sia ancora vivo.

Nella stanza di Melina, lei lo accusa di lavorare per Cohaagen, ma viene convinta del

cambiamento di personalità.

Cohaagen impone la legge marziale (su Marte!).

60 Nell’albergo di Quaid, Dr. Edgemar (della Rekall) cerca di convincere Quaid che non

sia su Marte, ma legato alla sedia operatoria e che debba tornare alla realtà; si appella al

fatto che Melina sia esattamente come Quaid la voleva: ‘È sarebbe reale perché l’ha

sognata?’.

Arriva Lori, che dice di essere ‘qui alla Rekall’; Edgemar offre una pillola rossa come

pegno della volontà di Quaid di uscire dal sogno.

65 Quando vede che Edgemar ha paura (perché suda), Quaid lo uccide, e poi viene

catturato dagli agenti di Cohaagen con l’aiuto di Lori.

Melina salva Quaid e combatte con Lori; Quaid uccide Lori e scappa con Melina;

prendono il taxi di Benny al bar di Venusville, dove entrano nelle gallerie a cui dà

accesso.

70 Richter arriva al bar e i suoi uomini iniziano un massacro ma poi si ritirano, lasciando a

Cohaagen di togliere l’aria dalla zona.

Quaid dice di avere qualcosa nel suo cervello che deve rilasciare.

75 Nell’accampamento dei ribelli, Benny si mostra un mutante.

Uno dei ribelli porta Quaid in una stanza appartata e gli mostra Quato, che assicura

Quaid che, ‘lei è figlio delle sue azioni’; si istaura un rapporto telepatico (‘apra la sua

mente’) tra Quato e Quaid, e quest’ultimo vede il reatore a ‘turbinium’, che dovrà

innescare.

80 All’attacco degli agenti, Quaid, Quato, Melina e Benny cercano di uscire; Benny uccide

Quato e aiuta a catturare Quaid e Melina.

Nell’ufficio di Cohaagen, si spiega il piano di Quaid-la-talpa-perfetta e si fa vedere il

video di Hauser che parla a Quaid: ‘è il mio corpo che stai usando […] magari ci

vediamo in sogno; non si sa mai’.

85 Cohaagen decide di riprogrammare Quaid come Hauser e lo fa attaccare ad una

macchina come quelle della Rekall, ma Quaid si libera; Melina gli chiede ‘sei sempre

tu?’.

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Sinossi di Atto di Forza

136

Arrabbiato che Quaid e Melina siano scappati per l’ennesima volta, Cohaagen rovescia

per terra i suoi pesci che boccheggiano (per davvero – forse la scena di violenza più

repellente del film) mentre, gli abitanti di Venusville sono stremati per mancanza di aria

(ma sono solo attori).

90 Benny cerca di uccidere Quaid e Melina con uno scavatore, ma riesce solo a fare un

buco nel muro che dà sul reattore; Quaid lo uccide.

95 Quaid usa l’ologramma di se stesso per combattere gli agenti che stanno difendendo il

reattore ; uccide poi Richter

100 Quaid incontra Cohaagen alla chiave del reattore; Cohaagen dice, ‘tu sei solo uno

stupido sogno’; ma Quaid riesce ad azionare l’interruttore.

Cohaagen viene succhiato all’esterno e viene avvelenato dall’atmosfera mentre il

reattore comincia a generare aria rompendo la cupola prottettiva.

105 Anche Quaid e Melina finiscono fuori della cupola, ma vengono salvati dal cielo

azzurro che attira gli altri abitanti ad uscire.

Nell’ultima scena, in cui Quaid e Melina guardano il nuovo paesaggio di Marte, Melina

paragona l’esperienza ad un sogno e Quaid si chiede ‘e se fosse veramente un sogno?’,

a cui Melina suggerisce di ‘sbrigati a baciarmi per che ti svegli’. Quaid ubbidisce.

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Spike Jonze

Essere John Malkovich (1999)

Min.

0 Scena di una lite violenta tra burattini (cfr. min. 80-5).

Craig si sveglia, discute con Lotte e osserva allo scimpanzé, Elijah, che ‘la

consapevolezza è una maledizione’.

5 Craig inscena la storia di Abelardo e Eloisa per strada e viene aggredito dal padre di una

bambina.

10 Craig va all’intervista sul 71/2 piano, dove tutti devono camminare come scimpanzé;

incontra la segretaria che non lo capisce e il Dr Lester che teme di non essere capito.

15 All’orientamento, Craig incontra Maxine e sente la storia ridicola del grattacielo.

A casa, Lotte dice che Elijah ha subito un trauma infantile.

In ufficio, il Dr Lester dice di aver 105 anni; Craig indovina il nome di Maxine.

20 Craig incontra il Dr Lester per un succo e Maxine in un bar per una conversazione

brevissima.

Craig crea una marionetta di Maxine e le spiega perché ama fare il burattinaio.

25 Ripete in ufficio la stessa spiegazione alla Maxine vera: gli piace stare dentro le altre

persone, vedere quello che vedono, provare quello provano.

Avendo fatto cadere una cartella dietro allos schedario, Craig rivela l’apertura nel muro

e passa dentro (come Alice).

30 Dopo il buio del passaggio, Craig vede il giornale di John Malkovich (JM) in un ‘campo

visivo’ attorniato di nero e poi lo segue nel taxi, dove l’autista identifica JM con un

attore che faceva ‘il ladro di gioelli’.

Craig finisce sul bordo della strada per New Jersey e vede le Torri Gemelle.

Tornato in ufficio, Craig spiega a Maxine chi è JM e riflette sul ‘pasticcio metafisico’

del portale (‘Io sono io? JM è JM?’); Maxine vede le possibilità commerciali della

scoperta.

35 Lotte diventa JM; dice di essere nel suo ‘cervello’; parla a se stessa mentre sta ‘dentro’;

è entusiasta dell’esperienza.

40 Cercando il bagno in casa Lester, Lotte scopre una stanza che documenta lo sviluppo

fisico di JM.

Lotte va nell’ufficio di Craig, incontra Maxine e ridiventa JM.

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Sinossi di Essere John Malkovich

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45 Mentre Lotte è ‘dentro’ JM, Maxine gli telefona e fissa un appuntamento ; Lotte

incoraggia JM ad andarci. Quando Maxine e JM s’incontrano nel ristorante, JM dice di

sentirsi ‘stranamente obbligato’ di essere venuto.

All’uscita da JM, Lotte mente a Craig sulla serata trascorsa.

Il primo cliente pagante di JM Inc. vuole essere ‘nel corpo’ di JM (la sua seconda

scelta).

50 Maxine cena da Craig e Lotte; Lotte spiega che Elijah è in psicoterapia; Maxine dice di

essere attratta da Lotte quando sta dentro JM.

Gli affari di JM Inc. vanno a gonfie vele.

55 Maxine si presenta da JM e aspetta che Lotte ci si trovi dentro prima di sedurlo.

60 Frustrato dal suo amore non corrisposto per Maxine, Craig attacca Lotte e la costringe a

chiamare Maxine; la mette in gabbia accanto a Elijah.

Maxine interrompe le prove di JM; mentre fanno l’amore, JM si sente come un

burattino, una sensazione che poi spiega a Charlie Sheen.

65 JM segue Maxine e scopre l’esistenza di JM Inc; scavalcando gli altri, entra nel portale

e si trova tra una miriade di JM.

70 Per la prima volta, si vede l’uscita da JM prima dell’arrivo sulla strada per New Jersey;

JM denuncia l’uso del portale da parte di Craig: ‘quel passaggio è mio’; e minaccia

ricorso legale.

75 Elijah rivive la sua cattura (il trauma infantile) e, a differenza di quanto ha fatto per i

suoi genitori, slega Lotte.

Maxine incontra JM, con Craig dentro.

Lotte va dal Dr Lester, che svela l’uso dei corpi ‘traghetto’, e il progetto di prendere

quello di JM il giorno del suo 44° compleanno.

80 Craig, da burattinaio, ha stabilito controllo completo sul corpo di JM, e lo considera ‘un

abito molto costoso’; lo fa danzare come il burattino nella prima scena del film.

85 JM (sempre con Craig dentro) cambia mestiere, da attore a burattinaio.

‘8 mesi dopo’

90 Biografia televisa di JM che gli attribuisce la capacità di ‘prendere le cose e farle

vivere’.

95 Dr Lester chiama JM/Craig e, interpellando Craig, dice ‘devi lasciare Malkovich’.

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Sinossi di Essere John Malkovich

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Lotte e Maxine passano attraverso il subconscio di JM e poi sono espulse; Maxine dice

che il bambino che porta in grembo è di Lotte.

JM/Craig nega di essere JM.

100 Quando Craig esce da JM, JM si trova davanti a uno specchio e dice ‘sono libero’.

Gli anziani amici del Dr Lester entrano nel portale.

Craig cita la sua uscita da JM come prova d’amore per Maxine.

‘Sette anni dopo’:

105 Dr Lester è diventato JM e spiega a Charlie Sheen come non invecchiare, diventando

Emily.

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I fratelli Wachowski

Matrix (1999)

Min.

0 Sullo sfondo di codice verde che scende, dialogo telefonico tra un uomo e una donna

(Trinity e Morpheus?) riguardo a Neo, che deve essere l’‘eletto’1.

Nel 1999, poliziotti arrivano alla stanza in cui Trinity sta lavorando al computer.

Arrivano gli agenti, e Smith consiglia ai poliziotti di non entrare nella stanza; ma lo

fanno comunque e Trinity scappa usando un’arte marziale e saltando sui tetti.

Inseguita da Smith, Trinity chiama Morpheus per direzioni ad una cabina telefonica.

5 Quando arriva alla cabina, Trinity la entra, ma un camion la schiaccia.

Gli agenti sanno il nome di Neo e iniziano la ricerca.

Thomas Anderson si sveglia e trova un messaggio sullo schermo del suo computer:

‘svegliati Neo…la matrix ti possiede…segui il coniglio bianco’ (come all’inizio di Alice

nel paese delle meraviglie).

Joey bussa alla porta; Anderson gli vende una dose di mescalina e viene invitato ad una

festa.

10 Alla festa, Trinity si presenta a Thomas Anderson, chiamandolo con il suo nome nella

rete ‘Neo’; lui la riconosce come la fonte del messaggio sul computer; Trinity dice che

la risposta che sta cercando ‘è intorno a te’.

Thomas Anderson è in ritardo sul posto di lavoro e viene sgridato dal capo.

Nel suo box, egli riceve un pacco FedEx contenente un telefonino, che squilla: è

Morpheus che dà direzioni per evitare gli agenti.

15 Anderson tenta di scappare attraverso la finestra del grattacielo, ma perde sia il

telefonino che coraggio; viene arrestato.

L’agente Smith (sono tutti uguali) accusa Anderson di vivere ‘due vite distinte’.

20 Anderson insiste sul suo diritto di fare una telefonata, ma l’agente Smith fa sì che

sparisca la sua bocca, e fa impiantare una cimice (insetto elettrico) dentro il suo corpo.

Anderson si sveglia allo squillo del telefono: di nuovo Morpheus lo guida alla macchina

dove Trinity l’aspetta.

1 In inglese, il termine è ‘the One’, che contiene l’anagramma di ‘Neo’ ma non porta l’associazione diretta dell’‘unto del Signore’ che etimologicamente si trova in ‘Cristo’ (khristos, greco) o in ‘Messia’ (masiah, ebraico).

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Sinossi di Matrix

141

Anderson vuole scendere, ma viene convinto dal fatto che sappia dove porta la strada in

cui si trovano; la cimice viene tolta.

25 Morpheus riconosce Neo e dice che ‘ti sentirai come Alice nella tana del coniglio

bianco’.

Neo risponde negativamente alla domanda riguardo al destino; Morpheus riesce a

descrivere la matrix solo in termini negativi;

Quando Morpheus gli offre la scelta tra la pillola blu, che è la continuazione del sogno,

e quella rossa, che rappresenta la realtà, Neo prende la seconda; Morpheus commenta

che ‘scoprirai quanto è profonda la tana del coniglio bianco’.

30 Sulla nave (‘Nabucodonosor’2), Morpheus chiede della differenza tra il mondo dei sogni

e quello reale; Neo passa dalla nave a trovarsi dentro una vasca dalla forma di un utero

trasparente, e vede innumerevoli vasche simili.

Arriva un enorme insetto meccanico che disconnette gli spinotti posti nella schiena di

Neo, che viene scaricato dentro una fogna, da dove viene recuperato dalla

Nabucodonosor.

35 Morpheus gli dà il ‘benvenuto nel mondo vero’, e spiega che l’anno è

approssimativamente 2099 (in inglese: 2199); Neo viene presentato all’equipaggio

della Nabucodonosor e scopre lo spinotto dietro la nuca.

Il corpo di Neo va ricostruito perché non è mai stato usato, neanche gli occhi.

40 Morpheus spiega la ‘struttura’: un programma più semplice della matrix di simulazione

in cui si ha l’‘immagine residua di sé’ - senza spinotto.

Alla domanda di Neo sulla realtà del sofa, Morpheus dice che quel reale è fatto di meri

segnali elettrici; spiega come le macchine utilizzano gli umani come batterie in assenza

di energia solare.

Quando Neo esce dalla struttura e si sente male, Morpheus gli chiede ‘se potessi

[tornare indietro] lo faresti?

45 Morpheus ribadisce la sua convinzione che Neo sia l’Uno, destinato a cambiare la

matrix e a liberare l’umanità; l’unica speranza per la liberazione risiede nella città di

Zion, costruita vicino al centro della Terra e abitata da uomini in carne e ossa.

Neo inizia il suo allenamento con le arti marziali attraverso programmi scaricati nel suo

cervello; Tank osserva che Neo ha lavorato dieci ore di fila, ‘è una macchina’; quando

2 Il re di Babilonia che saccheggiò Gerusalemme e deportò gli ebrei in esilio (II Re 24, 13-6).

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Sinossi di Matrix

142

Morpheus entra il programma di combattimento gli altri sulla nave vengono a guardare

sullo schermo.

50 Neo non riesce a colpire Morpheus, che afferma che la velocità e la forza non dipendano

dai muscoli e che non si stia respirando aria.

Quando Neo e Morpheus entrano la struttura dei salti, questo consiglia di ‘sgomberare

la tua mente’.

Neo non riesce a fare il salto lungo perché non riesce a togliersi ogni paura, dubbio e

diffidenza; nessuno ci è mai riuscita la prima volta (forse Neo non è così speciale).

55 Tornati sulla nave, Morpheus afferma che il corpo non sopravvive senza la mente;

quindi chi viene ucciso nella matrix muore in realtà.

Neo e Morpheus entrano un programma simile alla matrix; Neo vede la ragazza in

rosso; e Morpheus illustra il ruolo e i poteri degli agenti.

Sulla nave, Cipher mormora contro Morpheus e rimpiange il non aver scelto la pillola

blu.

L’allenamento di Neo viene interrotto da una telefonata a Morpheus: la nave è sotto

attacco da parte delle sentinelle: seppie metalliche.

60 L’attacco viene respinto e Neo trova Cipher che guarda la matrix sottoforma del codice

grezzo.

A cena in un ristorante virtuale (‘io so che questa bistecca non esiste’), Agente Smith e

Cipher concordano che questo tradirà Morpheus, che sa i codici per distruggere Zion, in

cambio di un ritorno dentro la matrix: non vuole ricordare niente ma sceglie di essere un

attore famoso.

65 A collazione, l’equipaggio discute la possibilità che la matrix abbia scambiato tutti i

gusti.

Con Morpheus e Trinity, Neo entra la matrix attraverso il telefono per incontrare

l’Oracolo; sulla strada, si rende conto di aver tanti ricordi del posto, ma nessuno è

autentico.

Nell’antecamera dell’Oracolo, ragazzini considerati potenziali ‘eletti’ fanno giochi

magici; il ‘piccolo Buddha’ afferma che il cucchiaio che ha in mano non esiste.

70 Sopra la porta della cucina dove riceve l’Oracolo c’è scritto ‘conosci te stesso’;

l’Oracolo predice la rottura di un vaso che Neo rovescia (‘l’avrei rotto lo stesso se lei

non avesse detto niente?’).

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Sinossi di Matrix

143

75 L’Oracolo predice che Neo dovrà decidere tra la propria vita e quella di Morpheus, e gli

dà un biscotto.

Di ritorno verso il telefono, Neo ha un déjà vu di un gatto nero, che succede, come

spiega Trinity, ‘quando cambiano qualcosa’: sono intrappola nell’edificio.

80 Con l’aiuto di Tank, i nostri si nascondo dentro l’intercapedine ma vengono scoperti

dagli agenti; Morpheus dice che bisogna salvare Neo.

Gli agenti catturano Morpheus: ‘siete tutti uguali per me’; Trinity e Neo stanno

cercando un telefono sotto la direzione di Tank.

85 Sulla Nabucodonosor, Cipher prende controllo della connessione con la matrix,

sparando a Tank e Dozer; Cipher ha intenzione di uccidere Morpheus per i suoi

‘vaneggiamenti’; afferma che la matrix è ‘più reale di questo mondo’.

90 Nonostante le sue ferite, Tank uccide Cipher; Neo e Trinity tornano sulla

Nabucodonosor.

L’agente Smith narra il suo odio e disgusto nei confronti degli umani a Morpheus.

95 Per salvare Zion, si può staccare lo spinotto in Morpheus uccidendolo, ma Neo decide

di rientrare nella matrix.

100 Neo e Trinity combattono contro i poliziotti nell’entrata dell’edificio governativo (?).

105 Mentre Neo e Trinity proseguono il loro balletto, l’agente Smith descrive a Morpheus

come, per lui, gli umani sono un virus per cui i suoi sono la cura; non riesce a penetrare

la mente di Morpheus.

Neo e Trinity raggiungono il tetto dell’edificio; Trinity scarica la conoscenza di come si

guida un elicottero mentre Morpheus si libera.

L’agente Smith prende il posto del pilota dell’elicottero; riesce a schivare le palottole di

Neo e Trinity; Neo fa altrettanto; quando Trinity uccide Smith, il corpo ridiventa quello

del pilota.

110 Trinity guida l’elicottero; Neo afferra Morpheus e lo deposita sul tetto di un altro

grattacielo.

Nella metropolitana, prima Morpheus poi Trinity usano il telefono per tornare sulla

Nabucodonosor; Neo resta per affrontare l’agente Smith.

115 Neo combatte corpo a corpo con l’agente Smith.

La nave è sotto minaccia dalle sentinelle: non possono usare l’impulso elettrico per

paura di perdere contatto con Neo.

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Sinossi di Matrix

144

120 Neo scappa dalla metropolitana, ma è inseguito dagli agenti.

Le sentinelle attacano la Nabucodonosor, ma vengono respinte

L’agente Smith (?) spara a Neo, lo colpisce e lo dichiara morto.

Sulla nave, Trinity dichiara il suo amore per Neo, bacia il suo corpo e risuscitandolo.

Nella matrix, Neo ferma le pallotole degli agenti, che dissolvono in mero codice.

125 Nel combattimento con l’agente, Neo passa attraverso il suo corpo, che poi disintegra.

Neo torna sulla Nabucodonosor e bacia Trinity.

Le voci del computer e di Neo segnalano un crollo del sistema (‘System failure’).

Avendo sentito il messaggio secondo cui ‘ciò che accadrà dipende da voi’, Thomas

Anderson riaggancia il telefono pubblico e passeggia tra una folla come quella della

matrix.

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Letture autonome

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti

Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 3), ai non-

frequentanti è richiesto l’approfondimento di uno a scelta tra i tre temi centrali del corso: lo

scetticismo, il determinismo e l’identità personale. In ogni caso, verrà presupposta una lettura

dei testi di base: anche gli studenti che vogliono proporre un percorso personale devono

comunque (e meglio prima) leggere il materiale di obbligo comune.

1. Lo scetticismo

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Sesto Empirico, di Cartesio (incluso

quello con Hobbes), di Berkeley e di Moore.

(b) Film (almeno 2)

In alternativa a Matrix e Atto di Forza, altri film indicati per questo tema sono:

Sulla nozione di un punto di vista: Rashomon, A. Kurosawa (1950) e Blow-up, M. Antonioni

(1966)

Sull’esperienza virtuale: Strange Days, K. Bigelow (1995); 13° piano, J. Rusnak (1999); e

eXistenZ, D. Cronenberg (1999)

(c) Letture (almeno 3 a scelta)

M. L. Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Einaudi, Torino, 2003, pp. vii-xii e 159-201;

R. Popkin, Storia dello scetticismo, (1960), Il mulino, Bologna, 1995 cap. II e IX-X;

T. Gregory, ‘Dio ingannatore e genio maligno’, Giornale critico della filosofia italiana, 53

(1974) pp. 477-5161;

E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza Bari-

Roma, pp. 3-58;

A Santucci, Introduzione a Hume, (1971), Laterza, Bari-Roma, con aggiornamenti fino al

2002, cap. III;

R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano 1987, cap. 3, § II.

1 Di questo testo, di difficile reperibilità, c’è una copia a disposizione a ricevimento.

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Percorsi per i non-frequentanti

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2. Il determinismo

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Aristotele (Fisica e Etica), di

Lucrezio e di Wooldridge; i racconti nel volume di Casati e Varzi che sono più pertinenti sono

quelli nella prima sezione, più gli ultimi due nella sezione otto.

(b) Film (almeno 2)

In alternativa a Matrix e Atto di Forza, altri film indicati per questo tema sono:

Sul rapporto tra il passato fisso e il futuro aperto: Terminator II, J. Cameron (1991); e

Minority Report, S. Spielberg (2002);

Sui ‘destini alternativi’: Sliding Doors, P. Howitt, (1997); e Final Destination J. Wong (2000)

(la continuazione Final Destination 2, che non sembra aggiungere niente dal punto di vista

concettuale, è di D.R. Ellis, 2003)

Sulla coazione biologica: Blade Runner, R. Scott (1982); e Gattaca, A. Niccol (1997).

(c) Letture

M. De Caro, Il libero arbitrio, Laterza, Bari-Roma, 2004, pp. 3-86 (per tutti che scelgono

questo tema)

E uno a scelta tra i seguenti percorsi di testi brevissimi ma difficili

(i) fatalismo:

Aristotele, Sull’interpretazione, cap. ix;

San Tommaso, Summa Teologica, Parte prima, questione 14 articolo 13;

B. Spinoza, Etica, Parte prima, proposizioni xxxii e xxxiii, Parte terza, proposizione ii; e

G. Ryle, Dilemmi, Ubaldini, Roma 1986, lezione II;

(ii) determinismo causale:

Crisippo di Soli, in Gli stoici: tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Rusconi, Milano, 1998,

pp. 841-73 (frammenti 974-1007);

D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano, I, 8;

I. Kant, Critica della ragion pura, ‘Dialettica trascendentale’, Libro II, cap. ii (‘L’antinomia

della ragion pura’) terza antinomia (pp. A444-51; B 473-9); e

P.S. de Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità (1812), in Opere a cura di O. Pesenti

Cambursano, UTET, Torino, 1967, ‘Prefazione’.

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Percorsi per i non-frequentanti

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3. L’identità personale e la coscienza

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Locke, di Butler, di Hume

(Trattato) e di Nagel; i racconti nel volume di Casati e Varzi più pertinenti sono quelli nella

seconda sezione e i primi due della sezione cinque.

(b) Film (almeno 2)

In alternativa a Atto di Forza e Essere John Malkovich, altri film indicati per questo tema

sono: Zelig W. Allen (1983); Robocop, P. Verhoeven (1987); Ascensore per l’inferno, A.

Parker, (1987); Memento, C. Nolan (2000); e Il sesto giorno, R. Spottiswoode (2000)

(c) Letture (tutte in stile ‘analitico’, solo per caso tutte uscite presso la stessa casa editrice)

B. Williams, ‘Identità personale e individuazione’, (1956) nel suo Problemi dell’io, Il

saggiatore, Milano, 1990;

R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, (1981), Il saggiatore, Milano, 1987, cap. 1 § I; e

D. Parfit, Ragioni e persone, (1984), Il saggiatore, Milano, 1989, cap. 12.

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Suggerimenti di lettura autonoma

Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può

essere utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.

Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)

Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei

migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra

questi possiamo segnalare:

N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori,

Paravia, Torino, 2002 (e poi rielaborato).

Anche dello stesso Abbagnano sono:

Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione

economica nel 1995;

e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:

Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.

Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi

della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto

Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal

2004.

Altri dizionari, quali

Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e

Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,

forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini

tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di

versioni italiane, vedi

Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.

Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente

riscontrabile e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 152).

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Suggerimenti di lettura

149

Introduzioni

A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della

disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i

problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:

B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico

del genere);

S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si

pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)

S. Blackburn, Pensa, (1999), Il saggiatore, Milano, 2001;

N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e

T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996

Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti (tra cui ‘Che

effetto fa essere un pipistrello?’), raccolti in,

T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il saggiatore, Milano, 1986.

‘Parafilosofia’ Con questa non-parola s’intendono testi in due categorie.

In primo luogo, ci sono quelli che parlano sì di filosofi e delle loro dottrine, ma cercando di

evitare la pesantezza del discorso scolastico/accademico. Forse l’esempio più di successo di

questo genere è il romanzo:

J. Gaarder, Il mondo di Sofia, (1990), Bompiani, Milano, 1993,

che introduce la protagonista (Sofia) ai vari momenti della storia della filosofia come incontri

personali, e che poi fornisce il punto di partenza per il carteggio (genuino, a quanto pare) tra

una ragazza undicenne e un professore universitario di filosofia:

Nora K. e V. Hösle, Aristotele e il dinosauro (1996), Einaudi, Torino, 1999.

Un percorso simile viene tracciato in modi diversi (motivo per cui riportiamo i rispettivi

sottotitoli) da

W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio: i grandi filosofi tra pensiero e vita

quotidiana, (1966), Cortina, Milano, 1996; e

E. Bencivenga, Platone, amico mio: i filosofi rispondono alle grandi domande della nostra

vita, Mondadori, Milano, 1997.

Dello stesso Bencivenga possiamo anche segnalare:

La filosofia in trentadue favole, Mondadori, Milano, 1991.

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Suggerimenti di lettura

150

Il che ci porta alla seconda categoria di ‘parafilosofia’, costituita da scritti la cui ispirazione

deriva da temi o problemi filosofici, ma che li presenta in modi più o meno stravagante. Il

libro di Casati e Varzi fa parte di questo filone.

Senz’altro i classici di questo genere sono I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift e

Candido (1759) di Voltaire. I testi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice attraverso

lo specchio (1872) di Lewis Carroll, il primo di cui costituisce parte dello sfondo del film

Matrix e sembra essere anche di riferimento in Essere John Malkovich. Mentre gli scritti di

Lewis Carroll (pseudonimo di un matematico di professione) sono prevalentemente imperniati

su paradossi logici, tanti dei racconti del Padre Brown di G. K. Chesterton vertono su le varie

forme di fraintendimento e di fragilità umana.

Il grande argentino Jorge Luis Borges scrisse molte parabole che illustrano tematiche

metafisiche, logiche e morali con un tocco sempre leggero ed icastico (perché, diceva, era

troppo pigro per scrivere romanzi), e che sono disponbili in varie traduzioni e collezioni

italiane. Anche divertenti sono i racconti di Achille Campanile e i saggi brevi (spesso redatti

in un primo momento per la rubrica ‘La bustina di Minerva’ sull’Espresso e poi ripubblicati

in vari volumi editi da Bompiani) di Umberto Eco.

Indichiamo per ultimo il libro:

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, (1980), Mondadori, Milano, 1996

che, dopo un inizio un po’ lento e macchinoso, sviluppa un’esilarante serie di gag spaziali su

temi filosofici.

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Prontuario per la presentazione di una tesina

Valore Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).

Presentazione

La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e

consegnata con almeno venti giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole

sostenere l’esame relativo al corso.

La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla

rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.

La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti

informazioni:

cognome e nome dello studente;

numero di matricola;

titolo del lavoro;

il modulo per cui viene presentato (con codice);

nel caso di un percorso personale, il nome del docente che ha concordato il titolo;

numero arrotondato delle parole; e

data prevista della sessione di esame.

Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme

al materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.

Conteggio delle parole

L’indicazione (pp. 3-4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.

Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font

leggibile di almeno 12pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi

i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura).

Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il

numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute

(2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la

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Prontuario per la tesina

152

capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere

manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo.

Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di

letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono

incluse.

Originalità

Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da

qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico ma anche

legale) di plagio.

La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto

vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo

studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di

sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere

l’esame con un altro membro della commissione d’esame.

Citazioni

La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e

dà un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le

parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.

Esempio di parafasi1:

Nel capitolo XXVII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia

efficace come deterrente. Questo ragionamento dipende ...

Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero

capitolo in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta

le parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola

‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto.

Esempio di citazione:

1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.

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Prontuario per la tesina

153

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di

servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte

contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...

Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.

Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’),

doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»).

Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’

nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma,

nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con

parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([

e ]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è

il freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate)

per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa

corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si

aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge

‘corsivo originale’.

Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno

messi con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette.

Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più

forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...

Mentre, con testo intero, si ha:

Beccaria osserva come,

[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.

Questo ragionamento dipende...

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Prontuario per la tesina

154

Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi moderni di word processing

sono in grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali

attrezzature può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.

Note

Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente)

in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per

commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del

ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.

I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del

corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi

primari (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di

più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL.

(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato.

Ad esempio, la paginazione, con parte della pagine e riga, di Platone risale all’edizione di

Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di Bekker del

1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono riportati in

quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla numerazione

delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono suddivisi in

piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che hanno righe numerate,

possono essere citati con il numero fornito nel testo. È comunque da segnalare quale edizione

o traduzione è stata adottata.

(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo in corsivo;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;

casa editrice;

città di pubblicazione;

anno di pubblicazione; e

pagina/e.

Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:

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Prontuario per la tesina

155

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,

pp. 63-4.

Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o

16 Beccaria, op. cit., p. 64.

togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’) o

16 Op. cit., p. 64.

Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:

8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p.

62.

9 Loc. cit..

oppure

9 Ibid..

(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ significa ‘lo stesso posto nel testo’).

Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una sequenza di

questo genere:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,

pp. 63-4.

16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.

17 Beccaria, op. cit., p. 65.

O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a

chi legge.

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Prontuario per la tesina

156

(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo del articolo tra virgolette;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di

pesce: questa forma è normale solo in Italia);

nel caso di una miscellanea, nome del curatore;

nel caso di una miscellanea, casa editrice;

nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;

nel caso di una rivista, l’anno e il numero;

anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e

pagina/e.

Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia,

XLI, (1986), p. 14.

che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza

nel pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.

Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo

stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente

forma:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura

di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2005, p. 97.

Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di

un convegno, si ha:

3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.

190-1.

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Prontuario per la tesina

157

Bibliografia

In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e

effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non-

frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche

bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico

è escluso dal conteggio delle parole.

L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato

corrisponde a quello delle note con poche varianti:

(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele,

l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si cita

più di un testo, tutti vanno elencati;

(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;

(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il

secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga;

(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della

casa editrice;

(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;

(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe

successive se il rimando si estende su più di una riga.

così, abbiamo, ad esempio,

Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, Rusconi,

Milano, 1992.

–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere a cura di G. Giannantoni, (4

volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973.

–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,

Milano, 1993.

Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.

Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1932), appendice al suo

Aristotele, trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968.

Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.

187-214.