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Filosofia teoretica 2 a.a. 2004-5 Richard Davies Lo schermo della filosofia Modulo B (24027) secondo semestre Strategie e decisioni Dispensa per frequentanti e per non-frequentanti

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Filosofia teoretica 2

a.a. 2004-5

Richard Davies

Lo schermo della filosofia

Modulo B (24027)

secondo semestre

Strategie e decisioni

Dispensa

per frequentanti e per non-frequentanti

Indice

Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 3

Programma delle lezioni 4

Testi (in ordine cronologico)

Platone Gorgia, 481c-95a 8

Repubblica, 357e-60a 25

Aristotele Etica nicomachea, V, i e vii 32

Politica, I, ix 36

San Tommaso Somma Teologica, Ia IIæ, qu. 64 39

Thomas Hobbes Leviatano, I, capp. xiii e xiv 53

John Locke Secondo trattato, cap. ii 67

Daniel Defoe Robinson Crusoe (parte) 74

Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (capp. scelti) 80

John Rawls Una teoria della giustizia §24 92

Judith Jarvis Thomson ‘Una difesa dell’aborto’ 98

John Harris ‘La lotteria della sopravvivenza’ 118

Sinossi dei film

Wall Street 127

28 giorni dopo 133

John Q 137

Letture autonome

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti 141

Suggerimenti di lettura

Strumenti di consultazione 145

Introduzioni alla filosofia 146

‘Parafilosofia’ 146

Prontuario per la stesura di una tesina 148

Introduzione

Obblighi per frequentanti e non-frequentanti

(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi)

Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con:

(i) capp. 1 e 2 di R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 (pp. 21-137)

(ii) R. Casati e A Varzi, Le semplicità insormontabili, Laterza, Milano, 2004; e

(iii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-126

Le letture di (i) e di (ii) forniscono un vocabolario e una gamma di esempi che fungono da

sfondo per inquadrare i testi in (iii). Perciò nessuna delle letture da sola o in combinazione con

solo una delle altre costituisce preparazione adeguata all’esame.

(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)

Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo,

inclusa la visione di tutti e tre i film del modulo (o in aula o privatamente). L’esame orale verterà

sugli argomenti discussi in aula in connessione con i film e i testi di cui sopra (‘Obblighi

comuni’).

In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre

modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.

La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una

scelta di tre domande delle sei proposte per quanto riguarda il contenuto delle lezioni; in più, c’è

una domanda specificamente sui temi trattati nel seminario tenuto dalla Dott.ssa Manzoni. (sulla

Politica di Aristotele).

La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina

in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una

tesina’, pp. 148-54). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i non-

frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 141-4) o proporre un percorso personale inerente

Introduzione

4

ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e

sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti universitari (CFU).

(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)

I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli

approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 141-4). Per la

preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione

orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.

Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare

una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di

una tesina’ pp. 148-54) o su uno degli argomenti proposti o proponendo un percorso personale

inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle

letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti formativi universitari

(CFU)

Programma delle lezioni

lezione

Argomento trattato Testo di riferimento Disp.

pp.

1 Materiali e modalità del corso

– la polivalenza del concetto di giustizia

Aristotele, EN, V, i e

vii

32-5

2 Visione del film Wall Street (Sinossi del film) 127-

32

3 La figura di Gordon Gekko e l’egoismo energico

– un leone, un principe, un superuomo

Platone, Gorgia,

481c-95a

8-24

4 Mezzi e fini (1) Aristotele, Politica, I, 36-8

Introduzione

5

– lo statuto dei soldi ix

5 Mezzi e fini (2)

– gli usi della segretezza

Platone, Rep., 357e-

60a

25-31

6 ‘Forti, intelligenti e scaltri’: le pretese di impunità di

Gordon e Bud

Platone, Gorgia,

488a-92c

15-19

7 La fede tra i ladri: gli impegni di Bud

– verso il padre (e Bluestar)

– verso Gordon

– verso la legalità

8 Giochi a somma zero

– la Tragedia dei Comuni e il Dilemma del

Prigioniero

T. Hobbes,

Leviatano, I, xiii

53-7

9 La condizione del naufrago

– la debolezza degli umani e la dipendenza dai frutti

della tecnologia

D. Defoe, Robinson

Crusoe (parte)

74-9

10 Visione del film 28 giorni dopo (Sinossi del film) 133-6

11 Di chi possiamo fidarci in uno stato di

natura/calamità?

– misure della gravità del conflitto

12 Possiamo scendere a patti

– con gli sconosciuti?

– con i soldati?

– con gli infetti?

T. Hobbes,

Leviatano, I, xiv

57-66

13 Lo statuto del contratto e il ruolo del giuramento

– ‘la famiglia fondata sul matrimonio’

14 Lo stato di natura pacifico e l’improponibilità J. Locke, Secondo 67-74

Introduzione

6

dell’egoismo trattato, ii

15 Il diritto di autodifesa e i mezzi leciti per sostenere i

beni di base

– l’emergere dell’associazione di difesa

16 La creazione del magistrato

– vendetta e punizione

S. Tommaso, ST, Ia

IIæ, 64, artt. 2 e 3

41-3

17 Uno sguardo cinese sull’abolizionismo beccariano

– le trappole dei ragionamenti astratti

C. Beccaria, Dei

delitti cap. 28

85-90

18 Le esclusioni beccariane e i casi difficili

– i criteri di giusta punizione e i ragionamenti mirati a

ridurre le barbarie

C. Beccaria, Dei

delitti e delle pene

capp. scelti

80-91

19 Atteggiamenti al rischio

– assicurazione sociale e equità

Casati-Varzi ‘Il gioco

del Lotto’

20 Visione del film John Q (sinossi del film) 137-

40

21 Quanto l’ospedale deve a Mikey e i diritti di John

– la simpatia del pubblico e la condanna legale

22 Diritti e doveri in senso stretto e comportamenti

decenti

– il sacrificio proposto da John

J. Jarvis Thomson,

‘Una difesa

dell’aborto’

98-

117

23 Gradi di ‘samaritanismo’: la responsabilità della

collettività nei confronti dell’individuo sfortunato

24 La tassazione progressiva e l’utilità marginale

25 Quanto i sani devono ai malati

– coinvolgimento obbligato e la trasferibilità dei beni

biologici

J. Harris, ‘La lotteria

della sopravvivenza’

118-

26

Introduzione

7

26 Distinguere tra uccidere e lasciare morire

– la Dottrina di Doppio Effetto

S. Tommaso, ST, Ia

IIæ, 64, artt. 7 e 8

49-52

27 Imparzialità e ignoranza della propria fortuna

– la nozione di ‘persona morale’

J. Rawls, Una teoria

della giustizia, § 24

92-7

28 Due princìpi di giustizia (1) la massima uguale libertà

29 Due princìpi di giustizia (2) la protezione degli

svantaggiati in ogni ridistribuzione dei beni

30 Sinossi delle tappe percorse

Testi in ordine cronologico

Platone (428/42 - 349/34 a.C.)

Gorgia

Traduzione a cura di Diego Fusaro

Sottotitoli in grassetto seguendo Giovanni Reale

[Stephanus pag. 481b]

[Socrate ha appena cercato di convincere Polo delle tesi secondo cui (i) è meglio subire

ingiustizia che farla; e (2) è meglio venire punito per ingiustizia fatta che farla franca]

Callicle interrompe il dialogo tra Socrate e Polo

CALLICLE: Dimmi, o Cherefonte, Socrate dice queste cose sul serio, o scherza?

CHEREFONTE: A me pare, o Callicle, che dica fin troppo sul serio. Eppure, nulla vale quanto

domandarlo a lui!

CALLICLE: Certo, per gli dèi! Voglio proprio domandarglielo! Dimmi, o Socrate, dobbiamo

supporre che tu ora stai dicendo sul serio o stai scherzando? Infatti, se tu dici sul serio, e accade

che le cose che dici sono vere, non dovremmo allora pensare che la vita di noi uomini sarebbe

capovolta e che, a quanto pare, noi facciamo tutto il contrario di quello che si deve fare?

SOCRATE: O Callicle, se gli uomini non provassero lo stesso sentimento, chi per una cosa e chi

per un’altra, e ciascuno di noi provasse, invece, un sentimento suo particolare, diverso da quello

che provano gli altri, non sarebbe facile far capire ad altri il proprio sentimento.

E lo dico pensando che a me e a te, ora, accade di provare lo stesso sentimento, visto che siamo

ambedue innamorati di due cose ciascuno: io di Alcibiade figlio di Clinia e della filosofia, e tu, a

tua volta, di due cose, cioè del demo degli Ateniesi e di Demo figlio di Pirilampo. Ebbene, io mi

accorgo che tu, in ogni occasione, malgrado la tua abilità, non sei capace di contraddire ciò che

dicano i tuoi amati e le loro affermazioni su come stanno le cose, ma lasci che ti voltino in su e in

giù. E così nell’Assemblea, se, a una tua affermazione, il demo degli Ateniesi dice che le cose

non stanno così, tu, voltando opinione, dici quello che vuole lui. E una cosa del genere ti accade

Platone: Gorgia

9

anche nei confronti di quel bel giovane figlio di Pirilampo. Infatti, non sei capace di opporti ai

consigli e ai discorsi dei tuoi diletti, sicché, se uno, al tuo dire in ogni circostanza le cose che per

amor loro dici, si stupisse dell’assurdità di tali affermazioni, forse tu dovresti rispondergli, se

volessi dire la verità, che, [pag. 482] a meno che qualcuno non faccia smettere i tuoi amati di fare

questi discorsi, neppure tu smetterai di dire queste cose.

Ebbene, fa conto di dover sentire anche da me cose di questo genere, e non stupirti che io dica

queste cose, ma fa smettere la filosofia, che è la mia amata, di dire queste cose. è lei, infatti, a

dire le cose che ora mi senti dire, ed è molto meno volubile dell’altro mio amato: il figlio di

Clinia, infatti, dice ora una cosa ora un’altra, mentre la filosofia dice sempre le stesse cose, ed è

lei appunto a dire le cose di cui ora ti stupisci, e c’eri anche tu quando le si diceva.

Dunque, o confuterai la filosofia, come ho appena detto, provando che non è vero che il

commettere ingiustizia e il non pagare per la colpa commessa quando si sia colpevoli di

ingiustizia, è l’estremo dì tutti i mali; oppure, se lascerai questo non confutato, per quel cane che

è il dio degli Egizi, Callicle non sarà d’accordo con te, o Callicle, ma discorderà da te per tutta la

vita.

Io invece credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo

fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d’accordo con me e mi

contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me

stesso e a contraddirmi.

Secondo Callicle, la tesi di Socrate è contro natura

CALLICLE: O Socrate, sembri svolgere i tuoi ragionamenti con giovanile baldanza, come un

vero oratore popolare. E anche in questa occasione parli come un oratore popolare, visto che a

Polo accade la stessa cosa che egli accusava Gorgia di subire nei tuoi confronti. Egli diceva,

infatti, che Gorgia, alla tua domanda se, quando venisse alla sua scuola uno che volesse imparare

la retorica senza conoscere la giustizia, Gorgia gliela avrebbe insegnata, egli si vergognò e disse

che gliela avrebbe insegnata, solo in considerazione dell’usanza che vige fra gli uomini, di

sdegnarsi se uno rifiutasse di farlo. Ebbene, secondo Polo, fu questa sua ammissione che portò

Gorgia a contraddirsi e questo ti riempì di soddisfazione. E allora Polo si fece beffe di te, e con

ragione, secondo me.

Platone: Gorgia

10

Ma ora la stessa cosa accade proprio a lui. E per questa ragione io non ammiro Polo, ossia per

avere ammesso davanti a te che il commettere ingiustizia è più brutto che subirla: infatti, in

seguito a questa sua ammissione, impastoiato nei tuoi ragionamenti, si è trovato imbavagliato,

vergognandosi di dire ciò che pensava.

E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a fare

affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla natura, ma

rispetto alla legge.

E queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior parte dei casi opposte. Dunque,

quando uno si vergogna e non osa dire le cose che pensa [pag 483], finisce necessariamente per

contraddirsi. E tu, imparata questa astuzia, tendi tranelli nei tuoi ragionamenti, riferendo le tue

domande alla natura, quando uno parla riferendosi alla legge, e facendo riferimento alla legge,

quando uno si riferisce alla natura.

E questo è quello che hai appena fatto a proposito del commettere e del subire ingiustizia: mentre

Polo si riferiva a ciò che è più brutto secondo la legge, tu svolgevi il tuo ragionamento facendo

riferimento alla natura. Secondo natura, infatti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, vale a

dire il subire ingiustizia; secondo la legge, invece, è più brutto il commettere ingiustizia. Infatti

questa condizione, ossia quella di essere vittima di ingiustizia, non è degna di un uomo, bensì di

uno schiavo qualsiasi, per il quale è meglio essere morto che vivere, e che, quando è vittima di

ingiustizia e viene oltraggiato, non è in grado di portare aiuto a se stesso, né ad altri di cui si

prenda cura. Ma io credo che ad istituire le leggi siano stati uomini deboli e del volgo.

Dunque, per sé e nel proprio interesse costoro istituiscono leggi, fanno elogi e muovono

rimproveri. E per spaventare gli uomini più forti e capaci dì prevaricare, affinché non abbiano

più di loro, dicono che è brutto e ingiusto prevaricare, e che proprio in questo consiste il

commettere ingiustizia, vale a dire nel cercare di avere più degli altri. Io credo, in effetti, che

costoro siano contenti quando abbiano l’uguaglianza, perché sono meno capaci degli altri.

Secondo Callicle, la giustizia è il diritto del più forte

Per queste ragioni, dunque, per legge si dice che è brutto e ingiusto il cercare di avere più degli

altri, ed è questo ciò che essi chiamano “commettere ingiustizia”. Invece, mi pare che la natura

stessa mostri questo, vale a dire che è giusto che chi è migliore abbia più dì chi è peggiore, e chi è

Platone: Gorgia

11

più capace abbia più di chi è meno capace. E che le cose stanno così, lo dimostra in molti casi, sia

nelle altre specie animali, sia in tutte le città e stirpi umane, cioè che il diritto si giudica con

questo criterio: che il più forte comandi sul più debole ed abbia più di lui.

Del resto, avvalendosi di quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli Sciti? E si

potrebbero citare altri innumerevoli casi di questo genere! Ma io penso che costoro agiscano così

secondo il diritto della natura, e, per Zeus, anche secondo la legge, almeno quella di natura, e

tuttavia, probabilmente, non secondo quella legge che noi istituiamo. Per plasmare i migliori e i

più forti di noi, prendendoli da giovani come si fa con i leoni, incantandoli e seducendoli, li

sottomettiamo [pag. 484], dicendo loro che bisogna ottenere l’uguaglianza e che in questo

consiste il bello e il giusto.

Ma io penso che, se solo nascesse un uomo dotato di una natura che ne fosse all’altezza, costui,

scrollatosi di dosso, fatte a pezzi e sfuggito a tutte queste cose, calpestati i nostri scritti,

incantesimi, sortilegi e leggi, che sono tutte contro natura, così ribellatosi, il nostro schiavo si

rivelerebbe nostro padrone, ed allora splenderebbe il diritto di natura. E mi pare che anche

Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove dice:

La legge regina di tutti

Dei mortali e degli immortali...

ebbene, questa, lui dice,

Guida, giustificando l’azione più violenta,

Con mano potente: lo deduco

Dalle imprese di Eracle,

Poiché ... senza averle comprate...;

dice press’a poco così, perché non so il carme a memoria. In ogni modo, dice che, senza averle

comprate e senza che Gerione gliele avesse donate, Eracle portò via le vacche, Convinto che

questo fosse per natura suo diritto, e che tanto le vacche quanto le altre cose che sono in mano ai

peggiori e ai più deboli appartengono tutte al migliore e al più forte.

Secondo Callicle, la filosofia che pratica Socrate rende gli uomini buoni a nulla

E che la verità sia questa, potresti capirlo se, lasciata ormai perdere la filosofia, tu venissi a cose

più grandi. Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in

Platone: Gorgia

12

giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini.

Infatti, per quanto uno sia ben provvisto di doti naturali, qualora si attardasse a filosofare anche

quando fosse ormai avanti negli anni, per forza di cose egli diventerebbe inesperto di tutte quelle

cose di cui deve avere esperienza chi intende essere uomo per bene e onorato.

Infatti, costoro diventano inesperti delle leggi che riguardano la città, di quei discorsi di cui ci si

deve servire quando si hanno faccende da sbrigare con altri uomini, in privato e in pubblico, dei

piaceri e dei desideri umani, e, in generale, diventano del tutto inesperti dei costumi degli uomini.

Quando poi si dedichino a qualche affare, privato o pubblico, si rendono ridicoli, allo stesso

modo in cui, credo, si rendono ridicoli i politici quando si intromettano nelle vostre dispute e nei

vostri ragionamenti. Accade infatti quanto dice Euripide, che ciascuno brilla in una data cosa, e a

questa si sente attratto,

Dedicando ad essa la maggior parte del giorno

Perché lì gli accade di superare se stesso.

[pag. 485] Quella cosa, invece, in cui uno si ritrovi mediocre, la evita e ne parla male, e loda

l’altra per amor proprio, pensando di lodare in questo modo se stesso.

Ma io penso che la cosa più giusta sia partecipare dell’una e dell’altra cosa: è bello partecipare

alla filosofia nella misura in cui è utile all’educazione spirituale, e non è brutto filosofare finché

si è giovani; ma quando si attardi a filosofare un uomo ormai avanti negli anni, la cosa, o Socrate,

si fa ridicola, ed io provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi un sentimento identico a

quello che provo nei confronti di coloro che balbettano e giocano.

Infatti, quando mi capita di vedere un fanciullo, a cui ancora si addice l’esprimersi in questo

modo, cioè balbettando e giocando, ne gioisco e mi pare grazioso, spontaneo, e confacente alla

sua età. Quando invece mi capita di sentire un fanciullo esprimersi con chiarezza, mi dà

l’impressione di essere una cosa acerba, mi infastidisce le orecchie, e mi pare un modo di fare

servile. Se poi ci accade di sentire un uomo balbettare o di vederlo giocare, ci appare cosa

ridicola e poco virile, e pensiamo che meriti di essere preso a botte.

Ebbene, lo stesso sentimento lo provo nei confronti di coloro che fanno i filosofi. Infatti, provo

gusto a vedere la filosofia sulla bocca di un giovane, e mi sembra che gli si addica e penso che

costui sia un uomo libero, mentre considero uomo non libero colui che non coltiva la filosofia, e

penso che non sarà mai all’altezza di cose belle e nobili. Ma quando vedo un uomo già avanti

Platone: Gorgia

13

negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che

costui abbia bisogno dì essere preso a botte. Infatti, come dicevo poco fa, a quest’uomo, per

quanto sia ben provvisto di doti naturali, toccherà diventare un ignavo, fuggendo il centro della

città e le piazze, dove, come dice il poeta, gli uomini si affermano, e passare il resto della vita

rintanato in un angolo a borbottare con tre o quattro giovanotti, senza mai fare un discorso degno

di uomo libero, elevato e valido.

Socrate dovrebbe dedicarsi alla vita pratica della città

Ma io, Socrate, nutro per te vera amicizia: rischio di provare nei tuoi confronti quel sentimento

che lo Zeto di Euripide provava nei confronti di Anfione, che ho già menzionato. Anche a me,

infatti, viene di dirti le stesse cose che costui disse al fratello: “Tu trascuri, Socrate, le cose di cui

dovresti occuparti, e travesti di una forma puerile la natura così nobile della tua anima [pag. 486];

né ai processi sapresti portare un discorso che regge, né sapresti prendere la parola in modo da

essere ragionevole e persuasivo, né sapresti prendere un consiglio ardito in favore dì altri”.

Ebbene, caro Socrate, e non prendertela con me, perché io parlo per il tuo bene, non ti pare che

sia sconveniente per te trovarti in questa situazione, in cui io credo che vi troviate tu e gli altri che

si addentrano sempre più avanti nella filosofia? Infatti, supponiamo che ora uno, arrestato te o un

altro qualsiasi di quelli che sono come te, ti trascinasse in carcere dicendo che tu hai commesso

un delitto, benché tu sia innocente: sai bene che tu non sapresti che fare di te, ma resteresti

smarrito e a bocca aperta, non sapendo che dire; e che, una volta messo piede in tribunale, anche

se ti capitasse un accusatore buono a niente e incompetente, potresti morire, se costui volesse

chiedere per te la pena di morte.

Ebbene, o Socrate, come può essere saggia quell’arte che, preso sotto le sue cure un uomo di

buone speranze, lo renda peggiore, e incapace di aiutare se stesso e di salvare dai più grandi

pericoli se stesso o qualsiasi altro uomo, e che lo lasci in balia dei suoi nemici, perché lo spoglino

di ogni suo avere, e lo faccia vivere privato di ogni diritto nella sua città?

Un uomo del genere, anche se l’espressione è piuttosto rozza, si può prendere a schiaffi

impunemente! Ma amico mio, dammi retta, smettila di confutare, e coltiva invece la buona musa

delle cose pratiche, dedicati a quelle cose, grazie alle quali ti farai la reputazione di essere uomo

di buon senso, lasciando ad altri queste sottigliezze, chiacchiere o fandonie che si debbano

Platone: Gorgia

14

chiamare, con le quali finirai per abitare in vuote dimore, ed emulando non gli uomini che stanno

a confutare queste piccolezze, ma coloro che possiedono averi, fama e molti altri beni.

Elogio ironico della posizione di Callicle

SOCRATE: Se io avessi l’anima d’oro, o Callicle, non credi che sarei ben contento di trovare una

di quelle pietre con cui si saggia l’oro, la migliore che esista, e, avvicinandole la mia anima, di

poter sapere con certezza, se quella pietra mi confermasse che la mia anima è stata ben allevata,

di essere in buona condizione e di non aver bisogno di altre prove?

CALLICLE: A che scopo fai questa domanda, o Socrate?

SOCRATE: Te lo dirò. Io penso che l’essermi imbattuto in te, quest’oggi, sia stato come

imbattermi in un tesoro di questo genere.

CALLICLE: E perché?

SOCRATE: So bene che, se confermerai le cose che la mia anima pensa, queste saranno allora

vere. Infatti penso che colui che si accinge a saggiare in modo efficace un’anima, [pag. 487] per

vedere se essa viva o no con rettitudine, deve avere tre requisiti, che tu possiedi senza eccezione,

vale a dire conoscenza, affetto e schiettezza. E così mi capita di imbattermi in molti uomini che

non sono in grado di saggiarmi, perché non sono sapienti come te; altri, invece, sono sapienti, ma

non se la sentono di dirmi la verità, perché non si prendono a cuore il mio bene, come invece fai

tu.

E questi forestieri, poi, Gorgia e Polo, sono sapienti e amici miei, ma mancano di schiettezza e si

fanno più scrupoli del dovuto. E come potrebbe non essere così? Sono arrivati a un tal punto di

pudore che, proprio perché si fanno scrupolo, ciascuno dei due ha il coraggio di contraddirsi di

fronte a molta gente, e su importantissime questioni. Tu, invece, possiedi tutti questi requisiti che

gli altri non possiedono: hai avuto un’eccellente educazione, come molti Ateniesi potrebbero

confermare, e sei benevolo nei miei confronti.

E quale prova ne ho? Te lo dirò. So che voi quattro, Callicle, ossia tu, Tisandro di Afidna,

Androne di Andozione e Nausicide di Colarge, siete stati compagni di sapienza; e ho sentito dire

che una volta avete tenuto consiglio per stabilire fino a che punto la sapienza andasse coltivata, e

so che prevalse fra voi questa opinione, vale a dire che non bisogna mettere troppo zelo nel

praticare la filosofia con eccessivo rigore, e che anzi vi raccomandavate l’uno all’altro di stare

attenti, che, diventando più sapienti del dovuto, non finiste per rovinarvi senza accorgervene.

Platone: Gorgia

15

Ebbene, visto che ti sento farmi le stesse raccomandazioni che facevi ai tuoi migliori amici,

questo è per me prova sufficiente che sei veramente benevolo nei miei confronti. Che, poi, tu sia

capace di parlare francamente e senza farti scrupolo, tu stesso lo dichiari, e il discorso che hai

fatto poco fa conferma quello che dici.

Dunque, è chiaro che, su questi punti, le cose stanno così: se, nel corso dei miei ragionamenti, ti

riconoscerai d’accordo con me su qualche cosa, questa sarà da considerarsi ormai

sufficientemente saggiata e da me e da te, e non ci sarà più bisogno di sottoporla ad altre prove.

Infatti, non l’avresti mai approvata per difetto di sapienza o per eccesso di scrupolo, né mi daresti

la tua approvazione allo scopo di ingannarmi, perché mi sei amico, come tu stesso professi. In

effetti, dunque, l’assenso mio e tuo avrà forza di verità.

E la ricerca più bella di tutte, Callicle, è quella che riguarda le cose su cui tu mi hai rimproverato,

ossia quale debba essere l’uomo, di cosa debba occuparsi e fino a che punto [pag. 488], sia

quando è vecchio, sia quando è giovane. Se, infatti, faccio qualcosa in modo non giusto nella mia

vita, sappi bene che non faccio questo sbaglio volontariamente, ma per mia ignoranza. Tu,

dunque, non smettere di rimproverarmi come hai cominciato a fare, ma mostrami bene cosa sia

ciò di cui dovrei occuparmi, e in che modo potrei entrarne in possesso; e, se mi troverai

d’accordo con te ora, e in futuro, invece, mi sorprenderai a non fare le cose alle quali avevo

acconsentito, considerami pure un indolente, e non rimproverarmi mai più, pensando che io non

ne valgo affatto la pena.

Ma riprendiamo da capo: qual è, a detta tua e di Pindaro, la condizione del giusto, il giusto

secondo natura? Che il più forte si prenda con violenza ciò che appartiene ai più deboli, che il

migliore comandi sui peggiori e che chi è più capace abbia più di chi è meno capace? Dici che il

giusto non è altro che questo? Ricordo bene?

CALLICLE: Lo dicevo allora, e anche ora te lo ripeto!

La tesi che il migliore è il più forte e le sue conseguenze

SOCRATE: Ma tu chiami la stessa persona migliore e più potente? Perché neppure prima sono

riuscito a capire che cosa tu intendessi dire! Per “più potenti” intendi dire “più forti”, e affermi

che i più deboli devono obbedire a chi è più forte, come mi pare che tu anche prima facevi

intendere, sostenendo che le grandi città muovono contro le piccole per diritto di natura, perché

Platone: Gorgia

16

sono più potenti e più forti, nella convinzione che il più potente, il più forte e il migliore siano la

stessa cosa; oppure si può essere migliore, pur essendo meno potente e più debole, ed essere più

potente, pur essendo più malvagio? O la definizione di “migliore” e di “più potente” è la stessa?

Di questo devi darmi una chiara definizione: il più potente, il migliore e il più forte sono la stessa

cosa o cose diverse?

CALLICLE: Ma io ti dico chiaramente che sono la stessa cosa!

SOCRATE: Ora, i molti non sono forse più potenti di uno solo, in natura? Senza dubbio, sono

costoro ad imporre le leggi a quell’uno, come anche tu poco fa dicevi!

CALLICLE: E come no?

SOCRATE: Dunque, le leggi dei molti sono anche le leggi dei più potenti.

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: E non sono, allora, anche le leggi dei migliori? Infatti i più potenti sono anche

migliori, secondo il tuo discorso.

CALLICLE: Sì .

SOCRATE: E le leggi di costoro non sono allora belle secondo natura, visto che costoro sono i

più potenti?

CALLICLE: Lo affermo.

SOCRATE: Non è forse vero, allora, che i più la pensano in questo modo, come del resto tu poco

fa dicevi, vale a dire che è giusto che si abbia uguaglianza e che è più brutto commettere che

subire ingiustizia? [pag. 489] E così o no? E bada, a questo punto, di non farti sorprendere anche

tu a prenderti riguardo. Ritengono o no, i più, che sia giusto avere uguaglianza, e non avere più

degli altri, e che sia più brutto commettere ingiustizia che subirla? Non negarmi questa risposta, o

Callicle, perché io possa, nel caso in cui tu mi dia il tuo assenso, essere rassicurato da te, visto

che la conferma mi verrebbe da un uomo che è all’altezza di giudicare.

CALLICLE: Ma i più la pensano proprio così .

SOCRATE: Allora, non solo per legge è più brutto commettere che subire ingiustizia, e neppure

solo per legge è giusto avere uguaglianza, ma anche per natura; sicché c’è il rischio che tu non

abbia detto la verità nei precedenti ragionamenti e non mi abbia accusato con giusta ragione,

quando sostenevi che la legge e la natura sono tra loro opposte, e che io, consapevole di questo,

Platone: Gorgia

17

tendo tranelli nei ragionamenti, portando il ragionamento sul piano della legge quando uno parli

riferendosi alla natura, e portandolo sul piano della natura quando uno parli riferendosi alla legge.

Il migliore è il più intelligente e quindi il più potente

CALLICLE: Quest’uomo non la smetterà mai di dire insulsaggini! Dimmi, o Socrate, non ti

vergogni, alla tua età, di andare a caccia di parole, e, quando uno si sbagli di una parola, di

credere di aver trovato in questo una fortuna inaspettata? Pensi forse che io per “più potenti”

intenda qualche altra cosa che non “migliori”? Non ti sto dicendo da un pezzo che secondo me

“migliore” e “più potente” sono la stessa cosa? O credi che io voglia dire che, qualora si riunisse

un’accozzaglia di schiavi e di gente di ogni sorta, buona a nulla tranne forse che a sfruttare la

propria forza fisica, e qualora costoro facessero delle affermazioni, queste affermazioni

costituirebbero le leggi?

SOCRATE: E sia, o sapientissimo Callicle! Dici così?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Ma anch’io, o divino, è da un pezzo che credo di indovinare che tu per “potente”

intenda una cosa del genere, e torno tuttavia a domandartelo, perché desidero sapere con

chiarezza che cosa tu voglia dire. Di certo, infatti, tu non pensi che due siano migliori di uno, né

che i tuoi schiavi siano migliori di te, per il fatto che sono più forti di te. Ma torna a dirmi,

daccapo: che cosa intendi dire per “migliori”, visto che non intendi “i più forti”? E, carissimo,

insegnami con un po’ più di maniera, se non vuoi che smetta di venire alla tua scuola.

CALLICLE: Fai dell’ironia, o Socrate.

SOCRATE: No, o Callicle, per Zeto, di cui poco fa ti sei servito per fare un bel po’ d’ironia nei

miei confronti! Ma dimmi: chi sostieni che siano i migliori?

CALLICLE: Io dico che sono i più virtuosi.

SOCRATE: Ma non vedi che anche tu dici solo parole e non dimostri nulla? Non vuoi dirmi se

per “migliori” e “più potenti” tu intendi dire “i più assennati”, o altri?

CALLICLE: Ma sì, per Zeus! Proprio questi intendo dire, e anzi lo affermo con certezza!

[pag. 490] SOCRATE: Spesso, allora, uno solo che sia assennato, secondo il tuo ragionamento, è

più potente di una moltitudine di uomini che non abbiano senno, e costui deve comandare e gli

altri lasciarsi comandare, e chi comanda deve avere più di quelli che obbediscono al suo

Platone: Gorgia

18

comando. Questo mi pare tu voglia dire (e non vado a caccia di parole!), quando sostieni che uno

solo è più potente di una moltitudine di uomini.

CALLICLE: Ma è proprio questo quello che intendo dire! Infatti, io credo che in questo consista

il giusto secondo natura: che chi è migliore e più assennato comandi ed abbia di più di quelli che

sono meno capaci.

I più intelligenti e potenti sono coraggiosi e competenti negli affari della città

SOCRATE: Fermati qui! Che cosa rispondi adesso? Supponiamo che ci trovassimo in molti,

come ora, radunati nello stesso luogo, e che avessimo in comune cibi e bevande in abbondanza;

che fossimo uomini di vario tipo, alcuni forti, altri deboli; e che uno di noi fosse più assennato

degli altri in materia di cibi e bevande, essendo medico, ma fosse, com’è ragionevole supporre,

più forte di alcuni e più debole di altri: costui, avendo più senno di noi, non sarà in queste cose

anche migliore e più potente?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Forse allora, di questi cibi, costui deve averne più di noi, per il fatto di essere

migliore? Oppure, per il fatto di essere lui a comandare, bisogna che sia lui a distribuire tutto, ma

non che sia privilegiato rispetto agli altri nel consumare e nell’adoperare questi cibi per il proprio

corpo, se non vuole essere invidiato, ma bisogna che ne abbia di più rispetto ad alcuni e meno

rispetto ad altri? Non è così , amico mio?

CALLICLE: Tu parli di cibi, di bevande, di medici e di simili sciocchezze. Ma non sono queste

le cose di cui parlo io!

SOCRATE: Non chiami “migliore” chi è più sapiente? Affermalo oppure negalo!

CALLICLE: Sì .

SOCRATE: E non dici che il migliore deve avere più degli altri?

CALLICLE: Non di cibi, almeno, né di bevande!

SOCRATE: Capisco! Forse, allora, di vestiti: il tessitore più abile deve avere il mantello più

grande e andare in giro con più vestiti degli altri e vestito dei più bei abiti?

CALLICLE: Ma quali vestiti?

Platone: Gorgia

19

SOCRATE: E, a proposito di scarpe, è ovvio che deve essere privilegiato chi in questo campo è

più esperto e migliore. Così il calzolaio, forse, deve passeggiare calzato di scarpe più grandi e con

più scarpe degli altri.

CALLICLE: Ma quali scarpe? Continui a dire sciocchezze!

SOCRATE: Ma se non sono queste le cose di cui parli, forse sono queste altre: il contadino, ad

esempio, che si intende di terra, ed è in questo campo esperto e capace, forse deve avere più

sementi degli altri, e deve adoperarne, per la sua terra, più che può.

CALLICLE: Dici sempre le stesse cose, o Socrate!

SOCRATE: Non solo, Callicle! Le dico anche sugli stessi argomenti!

[pag. 491] CALLICLE: Per gli dèi! Non la smetti proprio di parlare di calzolai, di cardatori, di

cuochi e di medici, come se la nostra discussione riguardasse costoro!

SOCRATE: Ma allora, a proposito di quali cose il più potente e il più assennato sarà giustamente

privilegiato nell’avere più degli altri? Oppure non lascerai che sia io a suggerirlo, né lo dirai tu

stesso?

CALLICLE: Ma è un pezzo che te lo dico! Come prima cosa, con “più potenti” non mi riferisco

né a calzolai né a cuochi, ma a coloro che, riguardo agli affari della città, siano assennati tanto da

capire in che modo li si possa amministrare con successo, e non solo assennati, ma anche

coraggiosi, che siano cioè capaci di mettere in atto le cose che pensano, e che non desistano per

debolezza dell’anima.

SOCRATE: Vedi, mio caro Callicle, che le cose di cui tu mi accusi non sono le stesse di cui io

accuso te? Tu, infatti, sostieni che io dico sempre le stesse cose, e mi rimproveri; io, invece, ti

accuso del contrario, sostenendo che non dici mai le stesse cose a proposito dei medesimi

argomenti: prima definivi i migliori e i più potenti come i più forti, poi tornavi a definirli come i

più assennati, e adesso, di nuovo, te ne vieni con un’altra definizione, e i più potenti e i migliori

vengono da te definiti come uomini più coraggiosi di altri. Ma, amico mio, sbrigati a dire chi

siano secondo te i migliori e i più potenti, e in che cosa lo siano!

CALLICLE: Ma ti ho già detto che si tratta di coloro che sono assen- nati circa gli affari della

città e coraggiosi. A costoro, infatti, spetta di diritto governare le città, e la giustizia consiste in

questo: che costoro abbiano più degli altri, vale a dire quelli che comandano più di quelli che

sono comandati.

Platone: Gorgia

20

I potenti dominano gli altri e non se stessi

SOCRATE: E poi? Rispetto a se stessi, amico mio, in che posizione si trovano? Nella posizione

di chi comanda, o in quella di chi è comandato?

CALLICLE: Come dici?

SOCRATE: Mi riferisco alla questione se ciascuno di essi comandi su se stesso. Oppure non c’è

alcun bisogno di questo, cioè che uno comandi su se stesso, e basta, invece, che uno comandi

sugli altri?

CALLICLE: In che senso dici “che comandi su se stesso”?

SOCRATE: Non intendo dire nulla di complicato, bensì lo dico nel senso in cui lo intende la

maggior parte della gente: che sia temperante e padrone di sé, e che sappia comandare i piaceri e i

desideri che dimorano dentro di sé.

CALLICLE: Come sei dolce! Tu, allora, chiami temperanti gli stolti.

SOCRATE: Come sarebbe? Non c’è nessuno che non comprenda che non è questo quello che

intendo dire io!

CALLICLE: Non c’è dubbio che è proprio questo, o Socrate! Infatti, come potrebbe essere felice

un uomo che fosse schiavo di qualcuno, non importa di chi? Invece, il bello e il giusto secondo

natura consiste in questo che io ora, parlando con franchezza, ti dico: colui che intende vivere con

rettitudine deve lasciare che i propri desideri si ingrandiscano il più possibile e non deve mettervi

freno [pag. 492]; e, quando abbiano raggiunto il massimo dello sviluppo, deve saperli servire con

coraggio e accortezza, ed essere capace di appagare ogni desiderio che di volta in volta gli venga.

Ma questo, credo, alla maggior parte della gente non è possibile. Perciò biasimano quelli che ne

sono capaci per vergogna, per nascondere così la propria impotenza, e dicono che l’intemperanza

è cosa abbietta, come ho detto prima, allo scopo di asservire gli uomini che per natura sono

migliori; e, poiché essi non sono capaci di procurare soddisfazione ai propri piaceri, elogiano la

temperanza e la giustizia per la propria mancanza di virilità.

Infatti, per coloro ai quali fin da principio toccò in sorte di essere figli di re, o di essere per natura

capaci di procurarsi un potere di qualche genere, tirannide o signoria che sia, che cosa potrebbe

essere in verità più brutto e peggiore della temperanza e della giustizia per questi uomini? E

costoro, pur avendo il pote re di godere dei beni senza che nessuno li ostacoli, dovrebbero di

Platone: Gorgia

21

propria iniziativa farsi un padrone nella legge della moltitudine degli uomini, nei loro discorsi e

nel loro biasimo?

E come potrebbero non essere resi infelici dalla bellezza della giustizia e della temperanza, non

potendo distribuire ai loro amici nulla di più che ai loro nemici, e questo pur comandando nella

propria città?

Ma, Socrate, in nome di quella verità che tu dici di cercare, così stanno le cose: dissolutezza,

intemperanza e libertà, quando abbiano un sostegno su cui poter contare, costituiscono la virtù e

la felicità, e tutte queste altre cose non sono che bella facciata, convenzioni contro natura fatte

dagli uomini, sciocchezze e roba che non vale nulla.

La vita esaltata di Callicle viene paragonata alla morte

SOCRATE: Callicle, spieghi le tue ragioni davvero con coraggio e franchezza: tu, ora, dici

chiaramente cose che gli altri pensano, ma non sono disposti a dire. Ti prego, dunque, di non

desistere in alcun modo, perché diventi veramente chiaro in che modo si debba vivere. Dimmi: tu

sostieni che non bisogna frenare i desideri, se si vuole essere come si deve, ma che bisogna,

lasciandoli sviluppare il più possibile, procurare loro soddisfazione trovandola non importa dove,

e che in questo consiste la virtù?

CALLICLE: Questo è quello che affermo.

SOCRATE: Allora, non è giusto dire che felici sono coloro che non hanno bisogno di nulla!

CALLICLE: Già: se così fosse, le pietre e i cadaveri sarebbero i più felici.

SOCRATE: Eppure, come anche tu sostieni, la vita è terribile. E non sarei sorpreso se Euripide

dicesse il vero là dove dice;

Chi sa, se il vivere non sia morire,

E se il morire non sia vivere?

[pag. 493] Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Infatti, ho già sentito dire dai sapienti che noi,

ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte dell’anima in cui hanno

sede i desideri è tale da lasciarsi sedurre e da mutare direzione in su e in giù.

E un uomo arguto, un tale che si spiega per immagini, forse un siculo o un italico, prendendo il

nome dal suo carattere credulo e facile a persuadersi, chiamò questa parte dell’anima “orcio”, e

diede agli uomini privi di senno il nome di “non iniziati”, e disse che quella parte dell’anima dei

Platone: Gorgia

22

dissennati dove hanno sede i desideri1, per il suo carattere sfrenato e la sua incapacità di ritegno, è

come un orcio forato, paragonandola a questo per la sua insaziabilità.

E, al contrario di te, o Callicle, costui fa vedere come, di coloro che sono nell’Ade (e con questo

si riferisce al mondo invisibile2), i più infelici siano proprio costoro, vale a dire i non iniziati, e

come essi debbano portare acqua nell’orcio forato con un crivello anch’esso pieno dì buchi. E

con il crivello, come disse chi me ne informò, egli intendeva riferirsi all’anima: paragonava

l’anima dei dissennati ad un crivello pensando che essa è come forata, perché è incapace di

ritenere nulla per incredulità e dimenticanza.

Queste similitudini sono probabilmente un poco strane, ma chiariscono quello che io voglio

dimostrarti, per persuaderti, purché ne sia in qualche modo capace, a fare il cambio e a prendere,

al posto della vita insaziabile e sfrenata, la vita bene ordinata, che è soddisfatta e si accontenta di

ciò che ha. Ma riesco a convincerti a mutare parere e a persuaderti che gli uomini ordinati sono

più felici dei dissoluti, oppure posso ben raccontarti molti altri miti come questo, senza per

questo farti cambiare idea?

CALLICLE: Quest’ultima cosa che hai detto, o Socrate, è la più vera.

Paragoni per illustrare la vita dissoluta promossa da Callicle

SOCRATE: Allora voglio riportarti un’altra similitudine, che proviene dalla stessa scuola da cui

viene quella di cui ti ho appena parlato.

Considera la vita dell’uno e dell’altro, la vita cioè dell’uomo temperante e quella dell’uomo senza

freni, se si può dire che è come se, di due uomini, ciascuno di essi possedesse molti orci, e l’uno

avesse i suoi sani e pieni, uno di vino, un altro di miele, un altro ancora di latte, e molti altri orci

pieni di molti altri liquidi, e i liquidi contenuti in ciascuno di essi siano rari e ottenibili a prezzo di

molte e dure fatiche: costui, dopo averli riempiti, non dovrebbe più portarvi altro liquido né

darsene alcun pensiero, ma riguardo ai suoi orci potrebbe stare tranquillo. Anche per l’altro, come

per il primo, è possibile procurarsi quei liquidi, sebbene siano difficili da ottenere, ma i suoi orci 1 Questo gioco di parole funziona in greco, associando i suoni per una giara (pithon), per l’impressionabile (pithanos)

e per il desiderio (epithumia). [nota di Davies] 2 Il rimando deve essere alle Danaide, che furono condannate a riempire contenitori che non potevano essere

riempiti; l’immagine è quella di un compito futile e frustrante; cfr. le punizioni di Sisifo e di Tantalo [nota di Davies]

Platone: Gorgia

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sono forati e logori: costui sarebbe costretto a riempirli continuamente, notte e giorno, [pag. 494]

perché, se così non facesse, patirebbe i dolori più grandi.

Ebbene, supponendo che sia tale la vita di ciascuno di costoro, puoi dire che la vita dell’uomo

dissoluto è più felice di quella dell’uomo ben regolato? Con questo mio ragionamento ti persuado

ad ammettere che la vita ben regolata è migliore di quella sfrenata, o non ti persuado?

CALLICLE: Non mi persuadi, o Socrate. Infatti, per colui che ha ormai riempito i suoi orci non

resta più alcun piacere, e proprio in questo consiste, come dicevo poco fa, il vivere come una

pietra, senza più provare, una volta riempiti gli orci, né piacere né dolore. Invece, in quest’altro

consiste il vivere piacevolmente: nel versare negli orci quanto più liquido è possibile!

SOCRATE: Ma non è allora necessario che, se molto vi si versa, sia molto anche quello che se ne

va, e che piuttosto grandi siano i fori per lo scolo?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Ma la vita di cui parli tu è quella del caradrio3, e non quella di un morto o di una

pietra! Ma dimmi: ti riferisci forse a una cosa del genere: aver fame, e quando si ha fame

mangiare?

CALLICLE: Sì .

SOCRATE: E aver sete, e quando si ha sete bere?

CALLICLE: Proprio di questo parlo! E dico che il vivere felici consiste nel provare tutte le altre

voglie e, trovandosi nella possibilità di farlo, nell’appagarle traendone piacere.

SOCRATE: Bene, carissimo! Continua come hai cominciato e bada di non farti scrupolo! E, a

quanto pare, bisogna che neppure io me ne faccia. Come prima cosa, dimmi se vivere felicemente

è anche passare la vita a grattarsi quando si ha la scabbia e la voglia di grattarsi, se ci si può

grattare senza impedimenti.

CALLICLE: Quanto sei assurdo, o Socrate! E che autentico oratore da piazza sei!

SOCRATE: E infatti, o Callicle, ho sconvolto e messo soggezione a Polo e a Gorgia! Ma tu non

farti sconvolgere né mettere soggezione, visto che sei coraggioso. Ma cerca solo di rispondermi.

3 Questo uccello è un tipo di piviere, il cui nome significa qualcosa come ‘uccello-torrente’, perché mentre mangia e

beve simultaneamente evacua senza pausa. [nota di Davies]

Platone: Gorgia

24

CALLICLE: Allora ti dico che anche colui che passa la vita a grattarsi dovrebbe vivere

piacevolmente.

SOCRATE: E se piacevolmente, allora anche felicemente?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: E se ha voglia di grattarsi solo la testa... o c’è bisogno che ti faccia altre domande?

Considera, o Callicle, che cosa risponderesti, se qualcuno ti facesse questa domanda a proposito

di tutte le parti del corpo, una dopo l’altra. E, stando così le cose, in somma, la vita dei cinedi4

non è forse terribile, brutta e infelice? O avrai il coraggio di dire che costoro sono felici, purché

abbiano in abbondanza ciò di cui sentono il bisogno?

CALLICLE: Non ti vergogni, o Socrate, di portare il ragionamento a tali conclusioni?

SOCRATE: Sono forse io che lo porto a tali conclusioni, mio caro, o piuttosto chi sostiene senza

ritegno che felici sono coloro che godono, in qualsiasi modo godano, e non distingue, fra i

piaceri, quali siano buoni e quali siano cattivi? Ma dimmi ancora una volta se, secondo te, il

piacere e il bene sono la stessa cosa, o se sostieni che fra i piaceri ve ne sia qualcuno che non sia

buono.

CALLICLE: Ebbene, affinché il mio ragionamento non risulti incoerente, nel caso in cui dicessi

che si tratta di cose diverse, affermo che sono la stessa cosa.

4 Un cinedo era il partner passivo, pagato e promiscuo di incontri omosessuali. [nota di Davies]

Platone

Repubblica

Traduzione Giovanni Caccia

Sottotitoli in grassetto seguendo Giovanni Reale

[Stephanus vol. II p. 357]

[È Socrate che, in esordio al secondo libro, narra la discussione]

L’opinione comune sulla giustizia

Dopo aver detto questo io credevo di essermi sbrigato dalla discussione; ma quello, a quanto

pare, era soltanto il proemio. Infatti Glaucone, che in ogni circostanza è sempre il più combattivo,

anche in quel caso non accettò la rinuncia di Trasimaco, ma disse:

‘Socrate, vuoi dare l'impressione di averci persuasi, o vuoi veramente persuaderci che il giusto

è in ogni modo migliore dell'ingiusto?’

‘Se dipendesse da me’, risposi, ‘preferirei persuadervi davvero’.

‘Allora non raggiungi il tuo scopo’, ribatté.

I beni desiderabili solo per sé

‘Dimmi un po': ti sembra che esista un bene tale che potremmo accettarlo non per il desiderio dei

vantaggi che ne derivano, ma perché ci è caro per se stesso, come la gioia e tutti i piaceri che non

arrecano danno e che per il tempo a venire non comportano altro che il godimento del loro

possesso?’

‘A me sembra che qualcosa del genere esista’, risposi.

I beni desiderabili per sé e per gli effetti che procurano

‘E che dire allora di quel bene che amiamo per se stesso e per ciò che ne deriva, come possedere

l'intelligenza, la vista e la buona salute? Beni di questo genere li apprezziamo per entrambe le

ragioni’.

‘Sì’, dissi.

Platone: Repubblica II

26

I beni apprezzabili solo per i loro effetti

‘E riconosci’, proseguì, ‘una terza specie di beni, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione da

una malattia, l'esercizio della medicina e le altre professioni redditizie? Potremmo dire che queste

attività sono faticose ma ci danno giovamento, e non accetteremmo di possederle per se stesse,

ma per il compenso e per tutti gli altri vantaggi che ne derivano’.

‘Sì’, dissi, ‘esiste anche questa terza specie. E allora?’

‘In quale di esse collochi la giustizia?’, chiese. [pag. 358]

La giustizia si trova fra i beni del secondo tipo

‘Nella migliore, credo’, dissi, ‘quella che chi vuole essere beato deve apprezzare sia per se stessa

sia per ciò che ne deriva’.

‘Tuttavia la gente non la pensa così’, ribatté, ‘ma colloca la giustizia nella specie dei beni che

costano fatica e si devono coltivare per i compensi e la buona fama che procurano, ma si devono

fuggire per se stessi in quanto molesti’.

‘Lo so’, dissi, ‘che la gente la pensa così e già da un pezzo Trasimaco biasima la giustizia in

quanto tale, e loda l'ingiustizia; ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio’.

Glaucone si fa difensore dell’ingiustizia per sollecitare le risposte di Socrate

‘Via’, disse, ‘ascolta anche me, per vedere se resti ancora della tua opinione. Mi sembra che

Trasimaco sia stato incantato da te troppo presto, come un serpente, e la dimostrazione dei

concetti di giustizia e ingiustizia non mi ha ancora convinto; desidero infatti ascoltare che cos'è

l'una e l'altra cosa, e quale forza possiedono di per sé quando agiscono sull'anima, lasciando

perdere i compensi e ciò che ne deriva.

‘Farò dunque così, se anche tu sei d'accordo: rinnoverò il discorso di Trasimaco, e innanzitutto

esporrò l'opinione comune sulla giustizia e sulla sua origine; in secondo luogo dirò che tutti

coloro che la praticano lo fanno contro voglia, come una necessità e non come un bene, in terzo

luogo che la loro condotta è ragionevole, perché secondo loro la vita dell'ingiusto è di gran lunga

migliore di quella del giusto.

Platone: Repubblica II

27

‘Io però, Socrate, non sono di questo avviso: tuttavia mi trovo nel dubbio, perché ho le

orecchie rintronate dai discorsi di Trasimaco e di tantissime altre persone, ma non ho ancora

sentito nessuno esporre nel modo in cui voglio la tesi che la giustizia è migliore dell'ingiustizia;

io voglio sentirla elogiare per se stessa, e mi aspetto questo discorso soprattutto da te. Pertanto mi

sforzerò di tessere le lodi della vita ingiusta, e con le mie parole ti mostrerò come voglio sentirti

biasimare a tua volta l'ingiustizia ed elogiare la giustizia. Vedi dunque se la mia proposta ti

piace’.

‘Più d'ogni altra!’, risposi. ‘Su quale argomento una persona assennata

potrebbe aver piacere di parlare e ascoltare più spesso?’

I più ritengono la giustizia un compromesso fra l’utile del debole e quello del forte

‘Molto bene’, disse. ‘Ascolta ora il primo argomento che avevo preannunciato, ovvero che cos'è

la giustizia e da dove nasce. Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla

un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di

conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le

condizioni, non potendo evitare l'una [pag. 359] e a scegliere l'altra sembra loro vantaggioso

accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. ‘

‘Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla

legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà

tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la

condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia,

essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma

come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti

potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non

commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e

l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente.

‘Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per

l'impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a

ciascuno dei due, al giusto e all'ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando

dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada

Platone: Repubblica II

28

dell'ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene,

mentre la legge la devia a forza a onorare l'uguaglianza.

Il racconto del anello di Gige

‘E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige,

l'antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l'allora sovrano di Lidia.

Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una

fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo.

‘Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia,

vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un

cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto

nulla tranne un anello d'oro che portava a una mano, uscì fuori.

‘Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato

delle greggi, si presentò anch'egli, con l'anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli

altri, girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano, e così [pag. 360]

divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se

fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l'anello girò il castone verso

l'esterno, e appena l'ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se

l'anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il

castone verso l'interno, visibile quando lo girava verso l'esterno. Non appena si accorse di questo

fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l'obiettivo divenne

l'amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo si

impadronì del potere.

‘Se dunque esistessero due anelli di tal genere e uno se lo mettesse al dito l'uomo giusto, l'altro

l'uomo ingiusto, non ci sarebbe nessuno, a quel che sembra, così adamantino da persistere nella

giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neanche toccarli, potendo prendere

impunemente dal mercato ciò che vuole, entrare nelle case e congiungersi con chi vuole, uccidere

e liberare di prigione chi vuole, e fare tutte le altre cose che lo renderebbero tra gli uomini pari

agli dèi. Agendo così non farebbe niente di diverso dall'altro uomo, ma batterebbero entrambi la

stessa via.

Platone: Repubblica II

29

‘E questa può essere definita una prova decisiva del fatto che nessuno è giusto di sua volontà,

ma per costrizione, come se non ritenesse la giustizia un bene di per sé: ciascuno, là dove pensa

di poter commettere ingiustizia, la commette. Ogni uomo infatti crede che sul piano personale

l'ingiustizia sia molto più vantaggiosa della giustizia, e ha ragione a crederlo, come dirà chiunque

voglia difendere questa tesi; poiché se uno, venuto in possesso di un simile potere, non volesse

commettere ingiustizia alcuna e non toccasse i beni altrui, agli occhi di quanti lo venissero a

sapere parrebbe l'uomo più infelice e più stupido, ma in faccia agli altri lo loderebbero,

ingannandosi a vicenda per timore di subire ingiustizia.

‘Così stanno le cose.

L’uomo perfettamente giusto e totalmente ingiusto a confronto

‘Potremo valutare correttamente la vita delle persone di cui stiamo parlando se distingueremo

l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. E il criterio distintivo sarà il seguente: non

togliamo nulla all'ingiustizia dell'ingiusto e alla giustizia del giusto, ma poniamoli entrambi al più

alto grado di perfezione nella loro condotta. Innanzitutto supponiamo che l'ingiusto si comporti

come i bravi artigiani: ad esempio, come un timoniere molto esperto o un medico sa discernere

nell'esercizio della propria arte ciò che è possibile da ciò che non lo è [pag. 361], mette mano a

certe cose e ne tralascia altre, e inoltre, se per caso commette uno sbaglio, è in grado di porvi

rimedio, così anche l'uomo ingiusto deve intraprendere le sue azioni delittuose con accortezza,

senza farsi scoprire, e vuole essere veramente ingiusto. Chi viene colto sul fatto dev'essere

giudicato una persona dappoco, poiché il massimo dell'ingiustizia consiste nel sembrare giusto

senza esserlo. Pertanto a chi è perfettamente ingiusto bisogna concedere la più perfetta ingiustizia

senza togliergli nulla, anzi gli si deve permettere di procurarsi la più grande reputazione di

giustizia compiendo le azioni più ingiuste; inoltre deve avere la possibilità di rimediare agli errori

che eventualmente commette, di parlare in modo persuasivo se qualche sua ingiustizia viene

denunciata, e di ricorrere alla forza nelle circostanze che la richiedono, grazie al suo coraggio, al

suo vigore e alla disponibilità di amici e sostanze.

‘Stabilita in questi termini la sua indole, supponiamo di collocargli accanto il giusto, uomo

schietto e nobile, “desideroso”, come dice Eschilo, “di non sembrare buono, ma di esserlo”.

Bisogna però togliergli l'apparenza di giustizia, perché se sembrerà giusto, avrà per questa sua

Platone: Repubblica II

30

fama onori e ricompense, e non sarebbe chiaro se si comporta così per amore di giustizia o per

ricevere donativi e onori.

‘Perciò bisogna spogliarlo di tutto, tranne che della giustizia, facendo in modo che si trovi

nella condizione opposta a quella dell'individuo di prima: senza commettere ingiustizia alcuna

abbia la fama della più grande ingiustizia, così verrà provato se la sua giustizia non si lascerà

piegare dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; resti però irremovibile fino alla morte, giusto

per tutta la vita pur nell'apparenza di ingiustizia, e quando entrambi saranno giunti al culmine,

l'uno della giustizia, l'altro dell'ingiustizia, si giudicherà chi dei due sia più felice’

‘Ahimè, caro Glaucone’, feci io, ‘con quanto vigore levighi i due

individui, come una statua da sottoporre al giudizio!’.

La tragica sorte del giusto e la fortuna dell’ingiusto

‘Faccio del mio meglio’, rispose. ‘Rappresentando così i due caratteri credo che non sia più

difficile spiegare quale vita attende l'uno e l'altro. Diciamolo dunque; e se le mie parole

riusciranno un po' rozze, non pensare, Socrate, che le proferisca io, bensì coloro che lodano

l'ingiustizia anziché la giustizia.

‘Essi diranno che in queste condizioni il giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, [pag.

362] gli saranno bruciati gli occhi, e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, verrà

impalato e riconoscerà che non bisogna voler essere giusti, ma sembrarlo. Il verso di Eschilo

sarebbe molto più corretto applicarlo all'ingiusto. In realtà diranno che l'ingiusto, dal momento

che dedica i suoi sforzi a una cosa attinente alla verità e non vive secondo l'apparenza, non

sembra ingiusto ma vuole esserlo, "nella mente frutto traendo da profondo solco, donde

germogliano gli accorti intendimenti". In primo luogo, grazie alla sua fama di giusto, egli

governa nella sua città, poi prende moglie dove vuole e dà le figlie in sposa a chi vuole, stipula

contratti e associazioni con chi gli pare, e oltre a tutto ciò ha il vantaggio di ricavarne un

guadagno, perché non gli ripugna commettere ingiustizia. Perciò, quando prende parte a contese

pubbliche e private, ne esce vincitore e ha la meglio sugli avversari; in questo modo si

arricchisce, benefica gli amici e danneggia i nemici, offre agli dèi sacrifici e doni votivi con il

dovuto decoro, e si procura il favore degli dèi e di qualsiasi uomo desideri molto meglio

dell'uomo giusto. Di conseguenza è probabile che a lui, più che all'uomo giusto, tocchi di essere

Platone: Repubblica II

31

caro agli dèi. Per questo motivo, Socrate, essi sostengono che gli dèi e gli uomini riservano

all'ingiusto una vita migliore che al giusto’.

Io avevo già in mente una risposta da dare alle parole di Glaucone, ma suo fratello Adimanto

intervenne: ‘Non credi, Socrate, che ci siamo dilungati abbastanza sull'argomento?’

Aristotele (384-22 a.C.)

Etica nicomachea

Traduzione Claudio Mazzarelli

Titoli dei capitoli seguendo W.D. Ross

Quinto libro

[Bekker pag. 1129a]

Capitolo i (Il giusto come il legale [giustizia universale] e il giusto come l’equo [giustizia

particolare]: considerazioni sul primo)

Dobbiamo ora indagare intorno alla giustizia e all’ingiustizia, determinando con quali azioni esse

si trovano ad essere in rapporto, quale medietà sia la giustizia, e di quali estremi il giusto sia il

mezzo. La nostra indagine si svolgerà secondo lo stesso metodo delle parti precedenti.

Vediamo dunque che tutti vogliono chiamare giustizia quella disposizione di animo, per la

quale gli uomini sono inclini a compiere cose giuste e per la quale operano giustamente e

vogliono le cose giuste: altrettanto è dell’ingiustizia, per la quale gli uomini commettono

ingiustizie e vogliono le cose ingiuste. Perciò questa definizione anzitutto valga per noi come

abbozzo generale. Vi è al proposito differenza tra le scienze e le facoltà da un lato, e le

disposizioni dall’altro. Mentre infatti sembra che vi possano essere una stessa scienza e una stessa

facoltà di cose contrarie, invece di cose contrarie la disposizione contraria non è la stessa: ad

esempio dalla salute non possono derivare gli effetti contrari, bensì solo quelli relativi alla salute;

e diciamo infatti che uno cammina in modo sano, quando cammina come chi è sano. Spesso

invero si conosce la disposizione contraria dal suo contrario, e spesso le disposizioni opposte

derivano dalle loro condizioni implicite: così da un lato, se è noto qual è la buona costituzione

fisica, ne diventa nota anche la cattiva, dall’altro la buona costituzione fisica appare dalle

condizioni della salute e queste appaiono da quella.

Ne consegue per lo più che, se di una delle due disposizioni si può parlare in molti sensi, anche

dell’altra si potrà parlare in molti sensi: ad esempio se si parla in molti sensi del giusto, altrettanto

sarà anche per l’ingiusto e l’ingiustizia. Sembra appunto che della giustizia e dell’ingiustizia si

parli in molti sensi, ma essendo questi sensi assai vicini tra loro a causa della loro omonimia, essi

Aristotele Etica nicomachea

33

sfuggono e non sono evidenti come invece accade nelle cose lontane tra loro. La differenza infatti

è grande quando riguarda l’idea: ad esempio in greco si chiama egualmente ‘chiave’ sia la

clavicola degli animali sia la chiave con cui si chiudono le porte.

Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingìusto. Sembra che ingiusto sia tanto il

trasgressore della legge, quanto chi vuole avvantaggiarsi, quanto l’iniquo, per cui è evidente che

anche il giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo. Perciò ciò che è giusto sarà quel ch’è

legale e quel ch’è imparziale, ciò che è ingiusto sarà quel ch’è illegale e quel ch’è iniquo. [pag.

1129b] E poiché l’ingiusto è anche uomo che vuol avvantaggiarsi, si mostrerà tale intorno ai

beni, ma non intorno a tutti, bensì intorno a quelli in cui v’è buona e cattiva fortuna, i quali in

genere sono sempre beni, ma per qualcuno non lo sono sempre. Gli uomini li desiderano e li

inseguono; però non bisogna fare così, bensì bisogna desiderare che quelli che sono beni in senso

assoluto divengano beni anche per noi stessi e scegliere solo quelli che sono beni per noi.

L’uomo ingiusto poi non sceglie sempre ciò ch’è più del dovuto, bensì sceglie anche il meno nel

caso dei mali in genere: però, poiché sembra che anche il minor male sia in certo modo un bene, e

la prepotente avidità concerne il bene, per questo egli sembra esser uomo che vuole

avvantaggiarsi. Ed è anche iniquo: questo concetto poi abbraccia tutto ciò ed è quindi comune.

Poiché dunque, come s’è detto, il trasgressore della legge è ingiusto, mentre il rispettoso della

legge è giusto, è evidente che tutte le cose legali sono in certo modo giuste: infattì le cose stabilite

dal potere legislativo sono legali, e noi diciamo che ciascuna di esse è giusta. Le leggi poi si

pronunziano su ogni cosa, mirando o all’utilità comune a tutti o a quella di chi primeggia o per

virtù, o in qualche altro modo simile; perciò con una sola espressione definiamo cose giuste

quelle cose che procurano o salvaguardano la felicità o parti di essa alla comunità civile. La legge

poi comanda anche di operare da uomo coraggioso, ad esempio di non abbandonare le file, di non

fuggire e di non gettare lo scudo; e da uomo moderato, ad esempio di non compiere adulterio e

oltraggio; e da uomo mansueto, ad esempio di non percuotere e di non far maldicenza; e

parimenti secondo le altre virtù e colpe, prescrivendo alcune cose e vietandone altre. È retta poi la

legge stabilita rettamente, peggiore quella improvvisata.

Questa giustizia è dunque una virtù perfetta, ma non di per sé, bensì in relazione ad altro. E per

questo spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, e che né la stella della sera

né quella del mattino siano cosi ammirabili; e, nel proverbio, diciamo:

Aristotele Etica nicomachea

34

Nella giustizia è insieme compresa ogni virtù.

Essa è una virtù sommamente perfetta, perché il suo uso è quello di una virtù perfetta; cíoè è

perfetta, perché chi la possiede può servirsi di questa virtù anche nei riguardi di un altro e non

solo di se stesso; infatti molti nelle proprie cose possono servirsi della virtù, ma non possono

servirsene nelle cose che concernono altri. [pag. 1130a] E per questo sembra esser giusto il detto

di Biante che ‘è la carica che fa conoscere l’uomo’: infatti chi esercita una carica è già in rapporto

con altri e partecipa alla società. Proprio per questo poi la giustizia è la sola delle virtù che

sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è utile ad

altri, sia ai capi, sia alla società. È dunque l’uomo peggiore colui che diventa reo verso se stesso e

verso gli amici; mentre il migliore non è chi fa uso della virtù riguardo a se stesso, bensi riguardo

ad altri: e questo è opera difficile.

Questa giustizia dunque non è una virtù parziale, bensi è virtù completa, e l’ingiustizia che le si

oppone non è un vizio parziale, ma è vizio completo. (In che cosa differisce poi la virtù da questa

giustizia, è chiaro da ciò che s’è detto: entrambe infatti coincidono, ma la loro essenza non è la

stessa, bensì in quanto essa riguarda gli altri è giustizìa, in quanto invece è una tal disposizione,

in sé, è virtù.)

-–ooOoo–-

[pag. 1134b]

Capitolo vii (La giustizia naturale e legale [positiva])

Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il

giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga

riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo

piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per esempio,

che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e non due

pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per esempio, il

sacrificio in onore di Brasida, e le norme derivate da decreti popolari.

Alcuni ritengono che tutte le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché

ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia

qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli. Ma

Aristotele Etica nicomachea

35

questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra li dèi,

certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c’è una specie di giusto per natura, benché

sia tutto mutevole; pur tuttavia, c’è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si

fonda sulla natura. Ora, tra le norme che possono essere anche diverse, è chiaro quale sia per

natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura

sia la legge sono mutevoli. La medesima distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura,

infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque diventare ambidestro.

Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [pag. 1135a] sono simili alle

misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si

compra all’ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme

di giustizia che non derivano dalla natura ma dall’uomo non sono le stesse dappertutto, perché

non sono le stesse le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura.

Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l’universale nei riguardi del particolare;

le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale.

C’è differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta o per

natura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azione, è un

atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì una cosa

ingiusta. Lo stesso vale anche per l’atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto “azione

giusta”, mentre “atto di giustizia” si chiama l’atto che corregge un atto di ingiustizia. Ma su

ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme e sulla natura dei loro oggetti si

dovrà indagare in seguito .

Aristotele (384-22 a.C)

Politica

Traduzione R. Laurenti

Primo libro

[Bekker pag. 1256b]

[Aristotele ha appena discusso l’arte di acquisizione (crematistica) naturale per amministratori

della casa e dello stato]

Cap. ix

C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare,

crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà [pag.

1257a]: molti ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità, mentre

non è identica a quella citata e neppure molto diversa. Il vero è che delle due una è per natura,

l’altra non è per natura e deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica.

Per trattarne prendiamo l’inizio di qui. Ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due

appartengono all’oggetto per se, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio, l’altro non è

proprio dell’oggetto: ad es. la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio.

Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in

cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché

la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso vale per gli altri oggetti di proprietà. In realtà di

tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini

hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (per cui è anche chiaro che il piccolo

commercio non fa parte per natura della crematistica, ché allora avrebbero dovuto fare lo scambìo

ìn rapporto a quanto ad essi bastava).

Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna

funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa. I membri della famiglia avevano in

comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse – e di

queste dovettero fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli barbari,

ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non vanno al di là

di questo, dando per es. o prendendo vino contro grano, e così via per ogni altro genere di tali

prodotti. Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di crematistica (giacché

Aristotele, Politica

37

tendeva a completare l’autosufficienza voluta da natura): da questa, però, è sorta logicamente

quella.

Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò

di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di

necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle

necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro

qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro,

l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso

mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu

impresso come segno della quantità.

[pag. 1257b] Dunque, una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio,

sorse l’altra forma di crematistica, il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in

forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato,

cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio. Per questo,

quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua funzione sia

di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce ricchezza e

quattrini.

Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprìo perché a

questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. Al contrario taluni ritengono la moneta

un non senso, una semplice convenzione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché,

cambiato l’accordo tra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per

alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo

necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza,

lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida, il quale, per il voto

suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in oro tutto quanto gli si presentava.

Per ciò cercano una ricchezza e una crematistica che sia qualcosa di diverso, ed è ricerca

giusta: in realtà la crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra

nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque,

bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha da fare col denaro perché il

denaro è principio e fine dello scambio. Ora, questa ricchezza, derivante da tale forma di

Aristotele, Politica

38

crematistica, non ha limiti e, invero, come la medicina è senza limiti nel guarire, e le singole arti

sono senza limiti nel produrre il loro fine, (perché è proprio questo che vogliono raggiungere

soprattutto) mentre non sono senza limiti riguardo ai mezzi per raggiungerlo (perché il fine

costituisce per tutte il limite), allo stesso modo questa forma di crematistica non ha limiti rispetto

al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni.

Ma della crematistica che rientra nell’amministrazione della casa, si dà un limite giacché non è

compito dell’amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicché da questo punto di vista

appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il

contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il denaro. Il

motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l’uso che esse fanno

della stessa cosa le confonde l’una con l’altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo

stesso modo, ché l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento.

Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione

domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza

in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di

vivere bene [pag. 1258a], e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito

bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai

godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la

loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma

di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che

produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci

provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale. Così non s’addice al

coraggio produrre ricchezze ma ispirare fiducia, e neppure s’addice all’arte dello stratego o del

medico, ché proprio della prima è procurare la vittoria, dell’altra la salute. Eppure essi fanno di

tutte queste facoltà mezzi per procurarsi ricchezze, nella convinzione che sia questo il fine e che a

questo fine deve convergere ogni cosa.

Si è detto a proposito della crematistica non necessaria qual è e per quale motivo ne abbiamo

bisogno, e a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte dell’amministrazione

della casa, è secondo natura, essa che bada ai mezzi di sostentamento, e non è, come l’altra, senza

limiti, ma ha dei confini precisi.

S. Tommaso d’Aquino (1225-74)

Somma teologica (1265-73)

Traduzione i Domenicani italiani

IIa IIæ, Questione 64

L’omicidio

Eccoci a trattare dei vizi contrari alla giustizia commutativa. Prima di tutto parleremo dei peccati

che si commettono nelle commutazioni involontarie; quindi di quelli che si commettono nelle

commutazioni volontarie. Si commettono dei peccati nelle cominutazioni involontarie per il fatto

che si infligge al prossimo un danno contro la sua volontà: e questo può avvenire in due modi,

cioè con i fatti e con le parole. Con i fatti, quando si danneggia il prossimo o nella persona sua

propria, o nei suoi congiunti, o negli averi. Perciò parleremo successivamente di codesti

argomenti. E innanzi tutto dell’omicidio, che è il più grave tra i danni che colpiscono il prossimo.

Su tale argomento si pongono otto quesiti: l. Se sopprimere gli animali, o le piante sia peccato;

2. Se sia lecito uccidere i peccatori; 3. Se ciò sia lecito a una persona privata, oppure solo

all’autorità pubblica; 4. Se ciò sia lecito a un chierico; 5. Se sia lecito il suicidio; 6. Se sia lecito

uccidere un innocente; 7. Se sia lecito uccidere un uomo per difendere se stessi; 8. Se l’omicidio

involontario sia peccato mortale.

ARTICOLO 1

Se sia proibito sopprimere qualsiasi essere vivente.

SEMBRA che sia proibito uccidere qualsiasi essere vivente. Infatti:

l. L’Apostolo afferma: «Chi resiste all’ordine voluto da Dio, attira su se stesso una condanna».

Ora, l’ordine della divina provvidenza vuole che tutti i viventi si conservino in vita, secondo le

parole del Salmo: «Dio fa crescere il fieno sui monti, e dà al bestiame il suo nutrimento». Dunque

è illecito sopprimere la vita di qualsiasi vivente.

2. L’omicidio è peccato perché con esso un uomo viene privato della vita. Ma la vita è comune

a tutte le piante e a tutti gli animali. Quindi per lo stesso motivo è peccato sopprimere gli animali

e le piante.

San Tommaso, ‘L’omicidio’

40

3. Nella legge divina non viene determinata una pena, se non per un peccato. Ma nella legge

divina viene determinata una punizione per chi uccide le pecore, e i buoi altrui. Dunque

l’uccisione degli animali è peccato.

IN CONTRARIO: S. Agostino insegna: «Quando leggiamo di ‘Non uccidere’, dobbiamo

intendere che il comando non è per le piante, poiché son prive di sentimento; e neppure per gli

animali bruti, perché essi non hanno nessuna affinità di ordine razionale con noi. Perciò il

precetto di ‘Non uccidere’ va inteso esclusivamente per l’uomo».

RISPONDO: Nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato

creato. Ora, nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti son fatti per quelli più perfetti: del

resto anche nell’ordine genetico si procede dal meno perfetto al perfetto. Come, dunque, nella

generazione dell’uomo prima abbiamo il vivente, poi l’animale e finamente l’uomo; così gli

esseri che sono solo viventi, ossia le piante, son fatte ordinariamente per gli animali; e gli aniniali

son fatti per l’uomo. Perciò se l’uomo si serve delle piante per gli animali e degli animali per gli

uomini, non c’è niente d’illecito, come il Filosofo stesso dimostra. E il più necessario dei servizi

è appunto quello di dare le piante in cibo agli animali, e gli animali all’uomo: il che è impossibile

senza distruggere la vita. Dunque è lecito sopprimere le piante per uso degli animali, e gli animali

per uso dell’uomo in forza dell’ordine stesso stabilito da Dio: «Ecco che io vi ho dato come cibo

a voi e a tutti gli anirnali tutte le erbe e tutti gli alberi». E altrove si legge: «Sarà vostro cibo tutto

ciò che ha moto e vita».

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. Secondo l’ordine stabilito da Dio la vita degli animali e delle piante non viene conservata per

se stessa, ma per l’uomo. Ecco perché S. Agostino scriveva: «Secondo l’ordine sapientissimo del

Creatore la loro vita e la loro morte sono subordinate al nostro vantaggio».

2. Gli animali e le piante non hanno la vita razionale, per governarsi da se stessi, ma sono

sempre come governati da altri mediante un istinto naturale. E in questo abbiamo il segno che

essi sono subordinati per natura, e ordinati all’uso di altri esseri.

3. Chi uccide il bove di un altro non pecca perché uccide un bove, ma perché danneggia un

uomo nei suoi averi. Ecco perché questo fatto non è elencato tra i peccati di omicidio, ma tra

quelli di furto o di rapina.

San Tommaso, ‘L’omicidio’

41

ARTICOLO 2

Se sia lecito uccidere i peccatori.

SEMBRA che non sia lecito uccidere i peccatori. Infatti:

l. Il Signore nella celebre parabola evangelica proibisce di estirpare la zizzania, che sono «i

figli del peccato». Ma tutto ciò che Dio proibisce è peccato. Dunque uccidere i peccatori è

peccato.

2. La giustizia umana deve conformarsi alla giustizia divina. Ora, la giustizia divina sopporta i

peccatori perché facciano penitenza, secondo le parole della Scrittura: «Io non voglio la morte del

peccatore, ma che si converta e viva». Quindi è assolutamente ingiusto uccidere i peccatori.

3. Ciò che in se stesso è male non può, per un fine buono, diventare lecito, come insegnano

concordemente S. Agostino e Aristotele. Ma uccidere un uomo è in se stesso un male: poiché

siamo tenuti ad amare con la carità tutti gli uomini; e, a detta di Aristotele, gli amici «vogliaino

che vivano ed esistano». Perciò in nessun modo è lecito uccidere un peccatore.

IN CONTRARIO: Nell’Esodo si legge: «Non lascerai vivere gli stregoni»; e nei Salmi: «Di buon

mattino sterminerò tutti i peccatori della regione».

RISPONDO: In base a quello che abbiamo detto, è lecito uccidere gli animali bruti in quanto essi

sono ordinati per natura all’utilità dell’uomo, come le cose meno perfette sono ordinate a quelle

perfette. Ora, qualsiasi parte è ordinata al tutto come ciò che è meno perfetto è ordinato a un

essere perfetto. Perciò la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, nel caso che lo esiga

la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e

cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E

quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa

lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S.

Paolo: «Un po’ di fermento può corrompere tutta la massa».

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. Il Signore comandò di non sradicare la zizzania per risparmiare il grano, cioè i buoni. E

questo è da osservarsi quando non è possibile uccidere i cattivi senza l’uccisione dei buoni: o

perché essi sono mescolati tra questi; oppure perché, come nota S. Agostino, avendo essi troppi

seguaci, non si possono sopprimere senza mettere in pericolo i buoni. Ecco perché il Signore

San Tommaso, ‘L’omicidio’

42

comanda di tollerare l’esistenza dei malvagi, rinviandone il castigo all’ultimo giudizio, piuttosto

che uccidere con essi anche i buoni. Quando invece la loro uccisione non costituisce un pericolo,

ma piuttosto una difesa e uno scampo per i buoni, allora è lecito uccidere i malvagi.

2. Secondo l’ordine della sua sapienza, Dio talora i peccatori li sopprime subito per la

liberazione dei buoni; talora invece concede loro il tempo di pentirsi, in vista della futura

salvezza dei suoi eletti. E la giustizia umana lo imita per quanto è possibile anche in questo: essa

infatti sopprime quelli che son nocivi per gli altri; mentre lascia il tempo di pentirsi a quelli che

non sono di grave danno per gli altri.

3. Col peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità

umana, che consiste nell’esser liberi e nell’esistere per se stessi, degenerando in qualche modo

nell’asservimento delle bestie, che implica la subordinazione all’altrui vantaggio. Così infatti si

legge nella Scrittura: «L’uomo non avendo compreso la sua dignità, è disceso al livello dei

giumenti privi di senno, e si è fatto simile ad essi»; e ancora: « L’insensato sarà lo schiavo di chi

è saggio». Perciò sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa

essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una

bestia: infatti un uomo cattivo, come insiste a dire il Filosofo, è peggiore e più nocivo di una

bestia.

ARTICOLO 3

Se sia lecito a una persona privata uccidere i colpevoli.

SEMBRA che una persona privata abbia la facoltà di uccidere i colpevoli. Infatti:

l. La legge di Dio non può comandare niente d’illecito. Ora, nell’Esodo, per il peccato del

vitello d’oro, Mosè diede questo comandamento: «Uccida ciascuno il proprio congiunto, il

fratello e l’amico». Dunque anche alle persone private è lecito uccidere i colpevoli.

2. Col peccato, come abbiamo detto, un uomo si rende simile alle bestie. Ma qualsiasi persona

privata può uccidere un animale selvatico, specialmente se nocivo. E quindi, per lo stesso motivo,

potrà uccidere un uomo colpevole.

3. E cosa degna di lode che uno, pur essendo una persona privata, compia le azioni che sono

utili al bene comune. Ora, l’uccisione dei malfattori, come abbiamo già dimostrato, è utile al bene

comune. Dunque è cosa lodevole che anche una persona privata uccida i malfattori.

San Tommaso, ‘L’omicidio’

43

IN CONTRARIO: S. Agostino insegna: «Chi uccide un malfattore senza nessun pubblico

mandato sarà condannato come omicida; e tanto più gravemente in quanto si è arrogato un potere

che Dio non gli aveva concesso».

RISPONDO: Come abbianio già dimostrato, è lecito uccidere un malfattore in quanto la sua

uccisione è ordinata alla salvezza di tutta la collettività. Essa perciò spetta soltanto a colui, al

quale è affidata la cura della sicurezza collettiva: come spetta al medico, cui è stata affidata la

cura di tutto un organismo, procedere al taglio di un membro malato. Ma la cura del bene comune

è affidata ai principi investiti della pubblica autorità. Perciò ad essi soltanto è lecito uccidere i

malfattori, non già alle persone private.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. Come nota Dionigi, il vero responsabile di un’azione è colui sotto la cui autorità viene fatta.

Ecco perché, a detta di S. Agostino, «non uccide colui che è tenuto a prestare la sua opera a chi

comanda, come la spada nelle mani di chi se ne serve». Perciò coloro che uccisero i parenti e gli

amici per comando di Dio non sono da considerarsi loro come gli autori del fatto, ma piuttosto

colui del quale rispettarono l’autorità: allo stesso modo che il soldato uccide il nemico per

l’autorità del principe, e il boia che uccide un brigante per l’autorità del giudice.

2. Una bestia differisce dall’uomo per natura. E quindi non si richiede per ucciderla nessun

giudizio, se è selvatica. Se invece è una bestia domestica, si va incontro a un giudizio, non per

l’animale in se stesso, ma per il danno arrecato al suo padrone. Il colpevole invece non differisce

per natura dagli uomini onesti. E quindi si richiede un processo, per decidere se è degno di essere

ucciso per il bene della società.

3. Qualsiasi persona privata ha la facoltà di compiere cose utili al bene comune, che non

danneggiano nessuno. Ma se danneggiano qualcuno, non si possono fare che a giudizio di coloro

cui spetta determinare il sacrificio da imporre alle parti per la salvezza del tutto.

ARTICOLO 4

Se uccidere i malfattori sia lecito ai chierici.

SEMBRA che uccidere i malfattori sia lecito ai chierici. Infatti:

1. I chierici specialmente son tenuti ad eseguire il comando dell’Apostolo: «Siate miei

imitatori, come io lo sono di Cristo», comando che ci impegna ad imitare Dio e i suoi santi. Ora,

San Tommaso, ‘L’omicidio’

44

il Dio che noi adoriamo uccide direttamente i malfattori, secondo l’espressione dei Salmi: «Egli

ha colpito gli egiziani nei loro primogeniti». Inoltre Mosè fece uccidere dai leviti ventitremila

uomini per l’adorazione del vitello d’oro. E il sacerdote Finees uccise l’israelita che stava

peccando con una madianita. Samuele poi uccise Agag re di Amalec; Elia trucidò i sacerdoti di

Baal; Matatia mise a morte l’apostata che si apprestava a sacrificare; e nel Nuovo Testamente

Pietro punì con la morte Anania e Saffira. Perciò anche ai chierici è lecito uccidere i malfattori.

2. Il potere spirituale è superiore a quello temporale, e più vicino a Dio. Ora, il potere

temporale ha la facoltà di uccidere i malfattori quale «ministro di Dio», come si esprime S. Paolo.

A maggior ragione, quindi, possono ucciderli lecitamente i chierici, che sono ministri di Dio

nell’esercizio di un potere spirituale.

3. Chi lecitamente ha ricevuto un ufficio può esercitarne lecitamente i compiti. Ma è compito

di un principe temporale anche uccidere i malfattori, come sopra abbiamo dimostrato. Perciò i

chierici che sono principi temporali possono uccidere i malfattori.

IN CONTRARIO: Sta scritto: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non dedito al vino, non

pronto a colpire».

RISPONDO: Ai chierici non è permesso uccidere per due motivi. Primo, perché sono incaricati

del servizio dell’altare, in cui viene rappresentata la passione di Cristo crocifisso, il quale, come

dice S. Pietro, «percosso non ripercuoteva». Ecco perché ripugna che i chierici percuotano e

uccidano: i ininistri infatti devono imitare il loro Signore, secondo le parole dell’ Ecclesiastico:

«Com’è il capo del popolo, così i suoi ministri».

La seconda ragione sta nel fatto che i chierici sono incaricati del ministero della nuova legge,

in cui non vengono prescritte pene di morte o di mutilazioni corporali. Perciò affinché essi siano

«ministri idonei della nuova Alleanza», devono astenersi da tali cose.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. Dio, quale causa universale, compie in tutti gli esseri ogni retta operazione, però secondo la

convenienza di ciascuno di essi. Perciò ognuno deve imitare Dio secondo le esigenze del proprio

stato. Quindi sebbene Dio sopprima anche fisicamente i malfattori, non tutti sono in questo

autorizzati ad imitarlo. S. Pietro poi non uccise Anania e Saffira con le proprie mani o col suo

potere; ma piuttosto promulgò la loro sentenza di morte stabilita da Dio. I sacerdoti e i leviti

dell’antico Testamento erano ministri dell’antica legge, la quale infliggeva pene corporali: ecco

San Tommaso, ‘L’omicidio’

45

perché era loro concesso di uccidere con le loro mani.

2. Il ministero dei chierici è ordinato a un fine superiore a quello che giustifica le esecuzioni

capitali, cioè alla salvezza delle anime. Perciò ripugna che essi s’interessino di cose più

meschine.

3. I prelati della Chiesa, pur accettando l’ufficio di principi secolari, non pronunziano da se

stessi sentenze capitali, ma ne dànno l’incombenza ad altri.

ARTICOLO 5

Se sia lecito il suicidio.

SEMBRA che sia lecito suicidarsi. Infatti:

l. L’omicidio è peccato perché contrario alla giustizia. Ma a detta di Aristotele, nessuno può

mancare alla giustizia verso se stesso. Dunque nessuno pecca uccidendo se stesso.

2. Chi detiene il potere ha la facoltà di uccidere i malfattori. Ma talora chi detiene il potere è un

malfattore. Egli quindi è autorizzato a uccidere se stesso.

3. E lecito esporsi spontaneamente a un pericolo minore, per evitarne uno più grave: come è

lecito amputarsi un membro malato per salvare l’intero corpo. Ora, in certi casi uno uccidendo se

stesso evita un male peggiore, e cioè una vita di miseria, o la vergogna di un peccato. Dunque è

lecito in certi casi il suicidio.

4. Sansone, che da S. Paolo è ricordato tra i santi, uccise se stesso. Dunque il suicidio può esser

lecito.

5. Nel Libro dei Maccabei si legge che Razis si uccise «preferendo piuttosto morire

nobilmente che cadere nelle mani dei peccatori e subire oltraggi indegni della propria nobiltà».

Ma ciò che si compie con nobiltà e coraggio è lecito. Dunque il suicidio non è illecito.

IN CONTRARIO: S. Agostino afferma: «Il precetto di ‘Non ammazzare’ va riferito all’uomo. E

cioè non uccidere nè gli altri nè te stesso. Infatti chi uccide se stesso non fa altro che uccidere un

uomo».

RISPONDO: Il suicidio è assolutamente illecito per tre motivi. Primo, perché per natura ogni

essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per

quanto è possibile a quanto potrebbe distruggerci. Perciò l’uccisione di se stessi è contro

l’inclinazione naturale, e contro la carità con la quale uno deve amare se stesso. E quindi il

San Tommaso, ‘L’omicidio’

46

suicidio è sempre peccato mortale, essendo incompatibile con la legge naturale e con la carità.

Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto. Ora, ciascun uomo è parte

della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla

società, come insegna il Filosofo.

Terzo, la vita è1 un dono divino, che rimane in potere di colui il quale «fa vivere e fa morire».

Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio: come chi uccide uno schiavo pecca contro

il suo padrone; e come commette peccato chi si arroga il diritto di giudicare cose che non lo

riguardano. Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della

Scrittura: «Sono io a far morire e far vivere».’

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. L’omicidio è peccato non solo perché contrario alla giustizia, ma anche perché contrario alla

carità che uno deve a se stesso. E da questo lato il suicidio è un peccato anche verso se stessi.

Invece in rapporto alla società e a Dio esso ha natura di peccato anche perché è contrario alla

giustizia.

2. Chi detiene i pubblici poteri ha la facoltà di uccidere i malfattori, perché ha il compito di

giudicarli. Ma, nessuno è giudice di se stesso. Ecco perché chi comanda non può uccidere se

stesso per nessun peccato. Tuttavia egli ha la facoltà di sottoporsi al giudizio di altri.

3. L’uomo viene costituito padrone di sè dal libero arbitrio. Egli quindi può disporre di se

stesso per le cose che riguardano la vita presente regolate dal libero arbitrio. Ma il passaggio da

questa vita a un’altra più felice non dipende dal libero arbitrio dell’uomo, bensi dall’intervento di

Dio. Perciò all’uomo non è lecito uccidere se stesso, per passare a una vita più felice:

E neppure gli è lecito, per sfuggire qualsiasi miseria della vita terrena. Poiché, a detta del

Filosofo, la morte «è l’ultimo e il più tremendo» tra i mali della vita presente; cosicché darsi la

morte per sfuggire le altre miserie di questa vita, equivale ad affrontare un male più grave per

evitarne uno minore.

Parimenti non è lecito suicidarsi per un peccato commesso. Sia perché in tal modo uno

danneggia se stesso in maniera gravissima, privandosi del tempo necessario per far penitenza. E

sia anche perché l’uccisione dei malfattori è rimessa al giudizio dei pubblici poteri.

1 I domenicani sopprimono la parola ‘quodammodo: ‘in qualche modo’. [nota di Davies]

San Tommaso, ‘L’omicidio’

47

Così non è lecito uccidersi a una donna per non essere violentata. Poiché essa non deve

commettere il delitto più grave verso se stessa, qual è appunto il suicidio, per evitare il delitto

minore di un altro (infatti una donna violentata, quando manca il consenso, non commette

peccato: perché come disse S. Lucia, «il corpo non rimane insozzato, se non per il consenso

dell’anima»). Si sa, infatti, che la fornicazione, o l’adulterio sono peccati meno gravi

dell’omicidio: specialmente poi del suicidio, che è gravissimo, poiché cosi uno nuoce a se stesso,

che è tenuto ad amare più di ogni altro. Inoltre è il peccato più pericoloso; perché non lascia il

tempo per l’espiazione.

Finalmente a nessuno è lecito uccidere se stesso per paura di acconsentire al peccato. A detta di

S. Paolo, infatti, «non si deve fare il male perché ne venga un bene», o per evitare la colpa,

specialmente se si tratta di colpe minori e meno sicure. Ora, uno non può esser sicuro che in

seguito consentirà al peccato: poiché il Signore in qualsiasi tentazione può liberare un uomo dalla

colpa.

4. Come spiega S. Agostino, «Sansone non si può scusare dall’aver seppellito se stesso

assieme ai nemici distruggendo l’edificio, se non per un segreto comodo dello Spirito Santo, il

quale faceva miracoli per mezzo suo». E allo stesso modo egli giustifica la condotta di alcune

sante donne venerate dalla Chiesa, che durante la persecuzione si uccisero da se stesse.

5. È un atto di coraggio affrontare per la virtù la morte inflitta da altri, per evitare il peccato. Ma

il dare la morte a se stessi per evitare delle sofferenze ha una certa parvenza di coraggio, per cui

alcuni si sono uccisi così pensando di agire coraggiosamente, e tra questi c’è appunto Razis: ma

non si tratta di vero coraggio, bensì di una certa pusillanimità, incapace di affrontare la

sofferenza, come nota sia il Filosofo, che S. Agostino.

ARTICOLO 6

Se in qualche caso sia lecito uccidere un innocente.

SEMBRA che in qualche caso sia lecito uccidere un innocente. Infatti:

l. Il timor di Dio certo non si manifesta col peccato: che anzi «il timore di Dio allontana il

peccato». Ora, Abramo viene lodato per aver temuto Dio con la sua decisione a uccidere il figlio

innocente. Dunque uno può uccidere un innocente senza far peccato.

2. Nei peccati contro il prossimo una colpa è tanto più grave, quanto maggiore è il danno che si

San Tommaso, ‘L’omicidio’

48

commette. Ma l’uccisione arreca più danno al colpevole che all’innocente, il quale con la morte

passa dalla miseria di questa vita alla gloria celeste. Perciò, siccome in certi casi è lecito uccidere

i colpevoli, molto più è lecito uccidere un giusto, o un innocente.

3. Ciò che si compie secondo l’ordine della giustizia non è peccato. Ma talora secondo l’ordine

della giustizia uno è costretto a uccidere l’innocente: il giudice, p. es., che è tenuto a giudicare

secondo le disposizioni, è costretto a condannare a morte una persona convinta da falsi testimoni,

che egli invece conosce essere innocente; lo stesso si dica del boia, il quale uccide chi è

condannato ingiustamente, ubbidendo al giudice. Dunque uno, senza peccato, può uccidere un

innocente.

IN CONTRARIO: Sta scritto: «Non uccidere l’innocente e il giusto».

RISPONDO: Un uomo si può considerare sotto due aspetti: in se stesso, e in rapporto agli altri.

Considerato in se stesso nessun uomo può essere ucciso lecitamente: perché in ciascuno, anche se

peccatore, dobbiamo amare la natura, che è stata creata da Dio, e che viene distrutta

dall’uccisione. Invece l’uccisione del colpevole diviene lecita, come sopra abbiamo detto, in vista

del bene comune, che il peccato compromette. Ora, la vita dei giusti serve a conservare e a

promuovere il bene comune: poiché essi costituiscono la parte più nobile della società. Perciò in

nessun modo è lecito uccidere un innocente.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. Dio è padrone della vita e della morte: e quindi per suo ordine muoiono sia i peccatori che i

giusti. Perciò chi uccidesse l’innocente per comando di Dio non peccherebbe, come non pecca

Dio, di cui eseguisce la volontà; e mostrerebbe di temere Dio, obbedendo ai suoi comandi.

2. Nel misurare la gravità di un peccato si devono considerare più gli elementi essenziali che

quelli accidentali. Ecco perché chi uccide il giusto pecca più gravemente di chi uccide il

peccatore. Primo, perché nuoce a una persona che è tenuto ad amare di più: e quindi il suo agire è

più in contrasto con la carità. Secondo, perché fa un torto a chi meno lo merita: e quindi offende

maggiormente la giustizia. Terzo, perché priva la società di un bene maggiore. Quarto, perché

disprezza maggiormente Dio, avendo egli detto per i giusti quelle parole:, «Chi disprezza voi

disprezza me». – Il fatto, invece, che il giusto ucciso viene da Dio accolto nella gloria, è

accidentale all’uccisione.

3. Il giudice, quando fosse persuaso che un accusato, convinto dalle false testimonianze, è

San Tommaso, ‘L’omicidio’

49

innocente, deve riesaminare i testimoni con maggiore diligenza, per trovare il modo di liberarlo,

come fece Daniele. Ma se non può far questo, deve rimandare l’accusato a un giudice superiore.

E se anche questo è impossibile, non pecca dando la sentenza in base alle deposizioni: allora

infatti non è lui che uccide l’innocente, ma gli accusatori. Il carnefice poi che è alle dipendenze di

un giudice il quale condanna l’innocente, se la sentenza implica un errore patente, non deve

ubbidire: altrimenti sarebbero da scusarsi i carnefici che uccisero i martiri. Se invece non c’è

un’ingiustizia patente, allora egli non pecca eseguendo una condanna: poiché egli non è in grado

di discutere la sentenza del suo superiore; e non è lui ad uccidere l’innocente, ma il giudice di cui

è l’esecutore materiale.

ARTICOLO 7

Se sia permesso uccidere per difendersi.

SEMBRA che non sia lecito a nessuno uccidere per difendersi. Infatti :

l. S. Agostino scrive: «Non mi sembra bene consigliare a nessuno di uccidere altri uomini, sia

pure in propria difesa, a meno che non si tratti di soldati o di altri che abbiano ufficialmente

codesto compito, non per se stessi, ma per il bene altrui». Ma chi per difendersi uccide un altro,

l’uccide per non essere ucciso lui. Dunque è una cosa illecita.

2. «Come saranno esenti da peccato», dice ancora S. Agostino, «coloro che si sono macchiati

dell’uccisione di un uomo per cose che siano tenuti a disprezzare?». E codeste cose da

disprezzare son quelle «che gli uomini possono perdere involontariamente». Ora, la vita del corpo

è appunto tra quelle. Dunque non è mai lecito uccidere un uomo per conservare la vita corporale.

3. Il Papa Niccolò I ha dato questa risoluzione, riportata dal Decreto: «Riguardo a quei chierici

per i quali mi hai chiesto, se possono con la penitenza tornare al loro stato precedente, o

ascendere a un grado superiore, dopo aver ucciso un pagano per difendersi, sappi che noi non

vogliamo dare ad essi nessuna occasione e nessuna licenza di uccidere un uomo in qualsiasi

maniera». Ma a osservare i precetti morali son tenuti ugualmente chierici e laici. Perciò anche ai

laici è proibito di uccidere chiunque nel difendersi.

4. L’omicidio è un peccato più grave della semplice fornicazione, o dell’adulterio. Ora, a

nessuno è permesso commettere una semplice fornicazione, o un adulterio, o qualsiasi altro

peccato mortale per conservare la propria vita: poiché la vita spirituale si deve preferire alla vita

San Tommaso, ‘L’omicidio’

50

corporale. Perciò nessuno può uccidere un altro per conservare la propria vita.

5. Se l’albero è cattivo, è cattivo anche il frutto, come dice il Vangelo. Ma la propria difesa è

illecita, come risulta dalle parole di S. Paolo: «Non vi difendete, o carissimi». Dunque è illecita

anche l’uccisione che ne deriva.

IN CONTRARIO: Nella Scrittura si legge: «Se un ladro sarà trovato a sforzare una porta o a

sfondare un muro, e verrà ferito e ucciso, il feritore non sarà colpevole del sangue di lui». Ora, è

molto più lecito difendere la propria vita che la propria casa. Se uno, quindi, uccide un uomo per

difendere la propria vita, non è reo di omicidio.

RISPONDO: Niente impedisce che un atto abbia due effetti, di cui l’uno intenzionale e l’altro

involontario. Gli atti morali però ricevono la specie da ciò che è intenzionale, non da ciò che è

involontario, essendo questo un elemento accidentale, come sopra abbiamo visto. Perciò dalla

difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria

vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Orbene, codesta azione non può considerarsi

illecita, per il fatto che con essa s’intende di conservare la propria vita: poiché è naturale per ogni

essere conservare per quanto è possibile la propria esistenza. Tuttavia un atto che parte da una

buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine. Se quindi uno nel difendere la

propria vita usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con

moderazione, allora la difesa è lecita: infatti il diritto stabilisce, che «è lecito respingere la

violenza con la violenza nei limiti della legittima difesa». Non è quindi necessario per la salvezza

dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è

tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui.

Siccome però spetta solo alla pubblica autorità uccidere un uomo per il bene comune, come

sopra abbiamo detto, è illecito che un uomo miri direttamente a uccidere per difendere se stesso,

a meno che non abbia un incarico pubblico che a ciò lo autorizzi per il pubblico bene: com’è

evidente per il soldato che combatte contro i nemici e per le guardie che affrontano i malviventi.

Anche questi però peccano, se sono mossi da risentimenti personali.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. L’affermazione di S. Agostino va applicata nel caso che uno abbia l’intenzione diretta di

uccidere per liberare se stesso dalla morte.

2. E a codesto caso va applicata anche l’altra frase del Santo.

San Tommaso, ‘L’omicidio’

51

Ecco perché egli dice espressamente: «per cose che.... » ; indicando con tale particella

l’intenzione. È cosi risolta anche la seconda difficoltà.

3. L’irregolarità accompagna sempre l’uccisione di un uomo, anche se avviene senza colpa:

cioè è evidente nel caso del giudice il quale giustamente pronunzia una sentenza capitale. Ecco

perché un chierico, anche se uccide per difesa personale, è irregolare sebbene non abbia

l’intenzione di uccidere, ma solo di difendersi.

4. La fornicazione e l’adulterio non sono necessariamente ordinate alla conservazione della

propria vita come talora lo sono gli atti dai quali scaturisce l’omicidio.

5. In quel testo vien proibita la difesa accompagnata dal livore della vendetta. La Glossa infatti

precisa così: «Non vi difendete; cioè: Non ripagate l’avversario con le stesse ferite».

ARTICOLO 8

Se chi uccide casualmente un uomo sia colpevole di omicidio.

SEMBRA che uno il quale uccide casualmente un uomo sia colpevole di omicidio. Infatti:

l. Si legge nella Genesi, che Lamec, credendo di uccidere una bestia, uccise un uomo, e gli fu

imputato per omicidio. Dunque chi uccide casualmente un uomo è colpevole di omicidio.

2. L’Esodo prescrive che «se uno percuote una donna incinta e la fa abortire, e ne seguirà poi la

morte, renderà vita per vita». Ma questo può avvenire anche senza l’intenzione di uccidere.

Perciò l’omicidio involontario implica il reato di omicidio.

3. Nel Decreto ci sono diversi canoni in cui si puniscono gli omicidi involontari. Ma la

punizione non è dovuta che alla colpa. Perciò chi casualmente uccide un uomo è colpevole di

omicidio.

IN CONTRARIO: S. Agostino afferma: «Non sia mai che ci venga imputato quel male

occasionale con cui possiamo colpire qualcuno, mentre noi facciamo per il bene delle azioni

lecite». Ora, capita talora che mentre uno sta facendo qualche cosa per il bene, casualmente ne

segua l’uccisione di un uomo. Dunque a chi ne è responsabile ciò non è imputato come colpa.

RISPONDO: Come insegna il Filosofo, il caso è una causa preterintenzionale. Perciò le cause

casuali, assolutamente parlando, non sono intenzionali nè volontarie. E poiché, secondo il detto

di S. Agostino, ogni peccato è volontario, ne viene che le cose casuali in quanto tali non sono

peccati. Però può capitare che quanto non è oggetto diretto di volizione e di intenzione, sia voluto

San Tommaso, ‘L’omicidio’

52

e inteso accidentalmente [o indirettamente], cioè come può esserlo una causa removens

prohibens. Perciò se non si toglie la causa da cui può seguire l’uccisione di un ‘ uomo, quando si

è tenuti a f arlo, l’uccisione in qualche modo è volontaria.

Ora, questo può avvenire in due modi: primo, quando l’uccisione capita mentre uno compie

cose illecite che era tenuto a evitare; secondo, quando uno non prende le dovute precauzioni.

Ecco perché secondo il diritto, se uno nel compiere una cosa lecita con le debite precauzioni

provoca l’uccisione di un uomo, non incorre il reato di omicidio; se invece egli provoca la morte

di un uomo nel compiere una cosa illecita, oppure nel compiere cose lecite non prende le dovute

precauzioni, non può sfuggire il reato di omicidio.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

l. Lamec non usò le debite precauzioni per evitare l’uccisione di un uomo, ecco perché incorse

nel reato di omicidio.

2. Chi percuote una donna incinta compie un’opera illecita. Perciò, se ne segue la morte della

donna o del bambino già formato, non può evitare la responsabilità dell’omicidio: specialmente

se la morte segue quasi immediatamente le percosse.

3. I canoni impongono una punizione a coloro che uccidono casualmente, nel compiere cose

illecite, oppure a coloro che non usano le debite precauzioni.

Thomas Hobbes (1588-1679)

Leviatano (1651)

Traduzione G. Micheli

Libro I

Cap. XIII: Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la

sua miseria

LA NATURA ha fatto gli uomini cosi uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si

trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più pronta di un altro,

pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che

un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa

pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza corporea, il più debole ha forza sufficiente

per uccidere il più forte, o con segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello

stesso pericolo.

E quanto alla facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e

specialmente quell’abilità di procedere sulla base di regole generali e infallibili, chiamata scienza,

che molto pochi hanno e solo in poche cose, non essendo una facoltà naturale, nata con noi, ne

conseguita, come la prudenza, mentre ci si occupa di qualcos’altro) io trovo tra gli uomini una

eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la prudenza non è che esperienza, ed

un tempo eguale la conferisce in egual misura a tutti gli uomini, in quelle cose in cui si applicano

in egual misura. Ciò che può forse rendere incredibile una tale eguaglianza non è che un vano

concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di avere in un grado maggiore

del volgo, cioè di tutti gli uomini, tranne se stessi e pochi altri che approvano per la loro fama, o

perché concordano con essi. Tale è infatti la natura degli uomini, che, per quanto possano

riconoscere che molti altri sono più saggi o più eloquenti, o più dotti, pure difficilmente

crederanno che ci siano molti saggi tanto quanto lo sono essi, poiché vedono il loro ingegno da

vicino e quello degli altri uomini a distanza. Ma questo prova che gli uomini sono eguali in quel

punto, piuttosto che diseguali. Infatti ordinariamente non c’è segno più grande di egual

distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte.

Thomas Hobbes: Leviatano

54

Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini.

E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla,

diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e

talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde

accade che dove un aggressore non ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se

uno pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si può probabilmente aspettare

che altri, preparatisi con forze riunite, vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto

della sua fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un pericolo

simile a quello in cui era l’altro.

Da questa diffidenza delluno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo di

assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più

persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande

per danneggiarlo; e questo non è più di ciò che la propria conservazione richiede, ed è

generalmente concesso. Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel

contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto richieda

la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti

limiti. non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare

solo sulla difensiva. di sussistere a lungo. Di conseguenza, tale aumento di dominio sugli uomini,

essendo necessario per la conservazione dell’uomo, deve essergli concesso.

Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in

compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo infatti bada

che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno di

disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (e ciò tra coloro che non

hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga sufficiente a far sì che si

distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano

arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio.

Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la

competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo l’orgoglio.

La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la

terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle

Thomas Hobbes: Leviatano

55

persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per

difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e

qualunque altro segno, di scarsa valutazione, o direttamente nei riguardi delle loro persone, o di

riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione

o del loro nome.

Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che

li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale

guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella

battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta

la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del tempo va considerata nella natura della

guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura delle

condizioni atmosferiche cattive non sta solo in un rovescio o due di pioggia, ma in una

inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così la natura della guerra non consiste nel

combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante

tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. Ogni altro tempo, è GUERRA.

Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni

uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la

propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non c’è posto per

l’industria, perché iI frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né

navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né

macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia

della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è

continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole,

animalesca e breve.

Può sembrare strano a chi non abbia bene ponderato queste cose che la natura abbia così

dissociato gli uomini e li abbia resi atti ad aggredirsi e distruggersi l’un l’altro e perciò, non

fidandosi di questa inferenza, tratta dalle passioni, può desiderare forse che gli sia confermata

dall’esperienza. Perciò, consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si arma e cerca di

andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che anche quando è nella

sua casa, chiude i forzieri e ciò quando sa che ci sono leggi e pubblici ufficiali armati per

Thomas Hobbes: Leviatano

56

vendicare tutte le ingiurie che gli dovessero essere fatte; quale opinione egli ha dei suoi

consudditi, quando cavalca armato; dei suoi concittadini, quando chiude le porte; dei suoi figli e

dei suoi servitori, quando chiude i forzieri. Non accusa egli l’umanità con le sue azioni, come

faccio io con le mie parole? Ma nessuno di noi accusa in ciò la natura dell’uomo. I desideri e le

altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono peccato. Neppure lo sono le azioni che procedono

da quelle passioni, finché non si conosce una legge che le vieta; tali leggi, finché non si sono

fatte, non possono essere conosciute, e non si può fare alcuna legge, finché non ci si è accordati

sulla persona che la deve fare.

Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra

come questa, ed io credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi

luoghi ove attualmente si vive così. Infatti. in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si

eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non

hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale che ho detto prima.

Comunque, si può percepire quale maniera di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore di un

potere comune, dalla maniera di vita in cui sono usi degenerare gli uomini che già hanno vissuto

sotto un governo pacifico, una guerra civile.

Ma anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui gli individui fossero in condizione di

guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana., a

causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, e ad essere nello stato e nella

posizione dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno sull’altro, cioè, con

forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e con spie continuamente nei territori che

sono vicini a loro; ciòè una posizione di guerra. Ma per il fatto che così essi sostengono

l’industria dei loro sudditi, non segue da ciò quella miseria che accompagna la libertà degli

individui.

A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può

essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto della giustizia e dell’ingiustizia

non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge, non c’è

ingiustizia. La forza e la frode sono in guerra le due virtù cardinali. La giustizia e l’ingiustizia

non sono facoltà né del corpo né della.mente. Se lo fossero, potrebbero essere in un uomo che

fosse solo al mondo, così come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che sono relative

Thomas Hobbes: Leviatano

57

agli uomini in società, non in solitudine. Consegue anche alla medesima condizione che non ci

sia né proprietà né dominio, né un mio e un tuo distinti, ma che ogni uomo abbia solo quello che

può prendersi e per tutto il tempo che può tenerselo. E ciò basti per quel che riguarda la triste

condizione in cui è effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una

possibilitá di uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione.

Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle

cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la

loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono

essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di

natura; di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli seguenti.

Cap. XIV: Della prima e seconda legge naturale e dei contratti

IL DIRITTO DI NATURA, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ogni

uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a

dire, della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella

sua’ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò.

Per LIBERTÀ, si intende, secondo il significato proprio della parola, l’assenza di impedimenti

esterni, i quali impedimenti possono spesso togliere parte del potere di un uomo di fare ciò che

vorrebbe, ma non possono ostacolarlo nell’usare il potere che gli è rimasto, secondo ciò che il suo

giudizio e la sua ragione gli detteranno.

UNA LEGGE DI NATURA (lex naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla

ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per

preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata. Benché infatti,

coloro che parlano di questo soggetto, usino confondere ius e lex, diritto e legge; pure debbono

essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la

LEGGE determina e vincola a una delle due cose; cosicché la legge, e il diritto differiscono come

l’obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima materia.

E per il fatto che la condizione dell’uomo (come è stato dichiarato nel capitolo precedente) è

una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, e, in questo caso, ognuno è

governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di

Thomas Hobbes: Leviatano

58

aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni

uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura questo diritto

di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli

sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere. Per

conseguenza è un precetto o regola generale della ragione, che ogni uomo debba sforzarsi alla

pace, per quanto abbia speranza di ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli

aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale

legge di natura, che è, cercare la pace e conseguirla. La seconda, la somma del diritto di natura,

che è, difeendersi con tutti i mezzi possibili.

Da questa fondamentale legge di natura che comanda le agli uomini di sforzarsi alla pace,

deriva questa seconda legge, che un uomo, sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto

egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e

che si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad

altri uomini con tro di lui. Infatti, finché ogni uomo ritiene questo diritto di fare ciò che gli piace,

tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Ma se gli altri uomini non deporranno il loro

diritto, come lui, allora non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un

esporsi alla preda (cosa a cui nessun uomo è vincolato) piuttosto che un disporsi alla pace. Questa

è la legge del Vangelo: tutto ciò che tu richiedi che gli altri ti facciano, fallo a loro; e la legge di

tutti gli uomini tutto ciò che tu non vuoi che gli altri ti facciano, non lo fare ad altri..

Deporre un suo diritto a qualcosa, vale, per un uomo, spogliarsi della libertà di ostacolare un

altro nel beneficio del suo diritto alla stessa cosa. Infatti colui che rinuncia al suo diritto o lo

trasferisce non dà ad un altro uomo un diritto che prima non aveva, perché non c’è nulla a cui

ogni uomo non abbia diritto per natura, ma solo si toglie di mezzo, affinché quello possa godere

del suo diritto originario senza ostacoli da parte sua, né senza ostacoli da parte di altri. Cosicché

l’effetto che ridonda ad un uomo dall’abbandono del diritto di un altro uomo, è solo una

altrettanta diminuzione di impedimenti all’uso del proprìo diritto originario.

Si depone un diritto o mediante semplice rinuncia oppure mediante trasferimento ad altri.

Mediante semplice RINUNCIA, quando chi lo depone non si preoccupa di sapere a chi ridonda il

beneficio di esso; mediante TRASFERIMENTO, quando chi lo depone intende che il beneficio di

esso vada ad una data persona o a date persone. Quando un uomo ha, in una maniera o nell’altra,

Thomas Hobbes: Leviatano

59

abbandonato o ceduto il suo diritto, si dice allora che è OBBLIGATO o VINCOLATO a non ostacolare

quelli, a cui tale diritto è stato ceduto o abbandonato, nel beneficio di esso; che deve ed è suo

DOVERE, non rendere vano quel suo atto volontario; e che tale ostacolo è INGIUSTIZIA e INGIURIA,

essendo senza legge, dato che prima si e rinunciato al diritto o lo si è trasferito. Cosicché

l’ingiuria o l’ingiustizia, nelle controversie del mondo è qualcosa di simile a ciò che, nelle

dispute degli scolastici, è chiamata assurdità. Come infatti in quelle è chiamata un’assurditá

contraddire ciò che si è sostenuto all’inizio, così nel mondo è chiamata ingiustizia e ingiuria il

disfare volontariamente ciò che si è fatto volontariamente all’inizio. Il modo con cui un uomo o

rinuncia semplicemente o trasferisce il suo diritto, è una dichiarazione o significazione, fatta con

un segno o con dei segni volontari e sufficienti, che egli in tal modo vi rinuncia o lo trasferisce o

vi ha rinunciato o lo ha trasferito a chi l’accetta. Questi segni sono o solo parole o solo azioni

oppure (come accade più spesso) parole ed azioni insieme. Tali sono i VINCOLI da cui gli uomini

sono vincolati e obbligati; vincoli che traggono la loro forza non dalla propria natura (poiché

niente si infrange più agevolmente della parola di un uomo) ma dal timore di qualche cattiva

conseguenza inerente alla rottura.

Ogni volta che un uomo trasferisce il suo diritto, o vi rinuncia, lo fa, o in considerazione del

fatto che qualche diritto gli viene reciprocamente trasferito, o per qualche altro bene che egli

spera di riceverne. Infatti, è un atto volontario, e l’oggetto degli atti volontari di ogni uomo è

qualche bene per se stesso. Ci sono perciò alcuni diritti, che nessun uomo si può intendere che

abbia abbandonato o trasferito mediante parole o altri segni. Così, in primo luogo, un uomo non

può deporre il diritto di resistere a coloro che lo assalgono con la forza per togliergli la vita,

perché non si può intendere che miri con ciò ad un bene per se stesso. Lo stesso si può dire delle

ferite, delle catene e della prigionia, sia perché non v’è beneficio a sopportare tali cose, come ve

n’è a sopportare che un altro sia ferito o imprigionato, sia anche perché un uomo non può dire,

quando vede che degli uomini procedono contro di lui con violenza, se hanno l’intenzione di

ucciderlo o no. E per ultimo il motivo e il fine per cui questa rinunzia e questo trasferimento di

diritto vengono introdotti non è altro che la sicurezza personale di un uomo nella sua vita e nei

mezzi per preservare la sua vita, in modo tale che essa non gli sia di peso. Perciò se un uomo, con

parole o altri segni, sembra spogliarsi del fine a cui quei segni erano destinati, non si deve

Thomas Hobbes: Leviatano

60

intendere come se volesse dire ciò o che quello era il suo volere,- ma che ignorava come tali

parole ed azioni dovessero essere interpretate.

Il mutuo trasferimento del diritto è ciò che gli uomini chiamano CONTRATTO.

Vi è differenza tra il trasferimento del diritto ad una cosa e il trasferimento o la rimessa, cioè

la consegna, della cosa stessa. La cosa infatti può essere consegnata insieme con la traslazione del

diritto, come nel comprare onel vendere in contanti o nel cambio di beni o di terre, e può essere

consegnata qualche tempo dopo. Inoltre, uno dei contraenti, può, per parte sua, con segnare la

cosa contrattata, lasciare che l’altro adempia la sua parte in un tempo determinato successivo e

dar gli fiducia per il tempo che intercorre; allora il contrat toper la sua parte, è chiamato PATTO o

CONVENZIONE. Oppure entrambe le parti possono contrattare ora di adempierlo poi, nel qual caso,

essendo data fiducia a colui che deve adempierlo in un tempo avvenire, il suo adempimento è

chiamato mantenimento di promessa o fede e la mancanza dell’adempimento (se è volontaria)

violazione di fede.

Quando il trasferimento del diritto non è reciproco, ma una delle parti lo trasferisce nella

speranza di guadagnare con ciò l’amicizia o i servigi di un altro o dei suoi amici, oppure nella

speranza di guadagnare reputazione di carità o magnanimità, o di liberare il proprio animo dalla

pena della compassione, oppure nella speranza di ricompense in cielo, non si ha allora contratto,

ma DONAZIONE, LIBERA DONAZIONE, GRAZIA, le quali pa e role significano una sola e

medesima cosa.

I segni di contratto sono o espressi o per inferenza. Sono segni espressi le parole dette

intendendo ciò che significano; tali parole sono o al tempo presente; o al passato, come do, cedo,

ho dato, ho ceduto, voglio che questo sia tuo; oppure al futuro, come darò, cederò: queste parole

al futuro sono chiamate PROMESSA.

I segni per inferenza sono talvolta la conseguenza delle parole, talaltra la conseguenza del

silenzio, talaltra la conseguenza delle azioni, talaltra ancora la conseguenza dell’astenersi da

un’azione, e, in generale, segno di un qualunque contratto per inferenza è tutto ciò da cui si

arguisce sufficientemente la volontà del contraente.

Le sole parole, se sono relative al tempo avvenire, e contengono una semplice promessa, sono

un segno insufficiente di libera donazione e perciò non sono obbligatorie. Se sono infatti relative

al tempo avvenire, come domani darò, sono un segno che non ho ancora dato, e di conseguenza

Thomas Hobbes: Leviatano

61

che il mio diritto non è trasferito, ma permane finché non lo trasferisco per mezzo di qualche

altro atto. Ma se le parole sono relative al presente o al passato, come ho dato o do da consegnare

domani, allora è dato vià oggi il mio diritto di domani, e ciò in virtù delle parole, anche se non

c’è stato alcun altro argomento della mia volontà. V’è una grande dífferenza nel significato di

queste parole, volo boc tuuum esse cras e cras dabo, cioè tra voglio che questo sia tuo domani e

ti darò questò domani; la parola farò (I will1), infatti, nella prima maniera di parlare, significa un

atto della volontà presente, nell’altra invece significa una promessa di un atto avvenire della

volontà; perciò le prime parole, essendo relative al presente trasferiscono un diritto futuro, le

altre, che sono relative al futuro, non trasferiscono nulla. Ma se vi sono altri segni della volontà di

trasferire un diritto, oltre le parole, allora, benché la donazione sia libera, si può tuttavia intendere

che c’è il passaggio del diritto per mezzo di parole relative al futuro; così, se qualcuno pone in

palio un premio per chi giunge primo alla fine di una corsa, la donazione è libera, e benché le

parole siano relative al futuro, si ha tuttavia il passaggio del diritto, poiché se egli non avesse

voluto che le sue parole fossero intese in quel modo, non avrebbe lasciato correre i contendenti.

Nei contratti, si ha il passaggio del diritto, non solo quando le parole sono relative al presente

o al passato, ma anche quando sono relative al futuro, perché ogni contratto è reciproca

traslazione o cambiamento di diritto e perciò chi promette soltanto, per il fatto che ha già ricevuto

il beneficio per il quale promette, si deve intendere che ha l’intenzione che il passaggio del diritto

abbia luogo, perché se non avesse permesso che le sue parole fossero intese in tal modo, l’altro

non avrebbe adempiuto per primo la sua parte. A causa di ciò, nel comprare e nel vendere, e negli

altri atti contrattuali, una promessa equivale ad un patto ed è perciò obbligatoria.

In un contratto, colui che adempie per primo, si dice che MERITA ciò che deve ricevere

dall’adempimento dell’altro, e lo ha come cosa dovuta. Anche quando è proposto a parecchi un

premio che deve essere dato solo a colui che vince, o quando è gettato in mezzo a molta gente del

denaro, che deve essere goduto da chi lo afferra, benché queste siano libere donazioni, pure quel

vincere o quell’afferrare sono un meritare e un avere una cosa come DOVUTA. Infatti il diritto

viene trasferito nel proporre il premio e nel gettare il denaro, benché non sia determinato che dal

1 In inglese, ‘I will’ deriva da un verbo per esprimere la volontà (will) di chi parla e, al tempo stesso funge da modale

per formare il futuro del verbo. [nota di Davies]

Thomas Hobbes: Leviatano

62

risultato della contesa a chi debba andare. Ma tra queste due specie di merito c’è questa

differenza, che nel contratto io merito in virtù del mio potere e del bisogno del contraente, mentre

nel caso della libera donazione, io sono in grado di meritare solo per la benignità di chi dà; nel

contratto merito che l’altro contraente, di sua mano, lasci il suo diritto; nel caso della donazione,

non merito che colui che dà lasci il suo diritto, ma soltanto che, quando lo ha lasciato, esso sia

mio piuttosto che di un altro. Questo, penso sia ciò che vuol dire la distinzione che fanno gli

scolastici tra meritum congrui e meritum condigni. Infatti, avendo Dio Onnipotente promesso il

Paradiso agli uomini (cui fanno velo i desideri della carne) che possono camminare attraverso

questo mondo secondo i precetti e i limiti da lui prescritti, essi dicono che chi camminerà così,

meriterà il Paradiso ex congruo. Ma per il fatto che nessun uomo può domandare un diritto a ciò,

per la propria rettitudine o per qualche altro potere che sia in lui, ma solo per la libera grazia di

Dio, dicono che nessun uomo può meritare il Paradiso ex condigno. Questo, io dico, penso sia ciò

che vuol dire quella distinzione, ma poiché i disputanti non si accordano sul significato dei

termini tecnici che usano più in là di quanto serve al loro scopo, non affermerò alcunché riguardo

a ciò che vuol dire, ma dirò solo questo: che quando una donazione è data indefinitamente, come

un premio per il quale si deve contendere, chi vince merita, e può pretendere il premio come cosa

dovuta

Se vien fatto un patto, in cui nessuna delle parti adempie al presente, ma entrambe hanno

fiducia l’una nell’altra, nella condizione di mera natura, (che è una condizione di guerra di ogni

uomo contro ogni altro uomo), qualunque ragionevole sospetto lo rende vano, ma se c’è un

comune potere, posto al di sopra di entrambe, con il diritto e la forza sufficienti per costringere

all’adempimento, non è vano. Infatti chi adempie per primo non ha alcuna assicurazione che

l’altro adempia in seguito, perché i vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare

l’ambizione, l’avarizia, l’ira, e le altre passioni degli uomini, senza il timore di qualche potere

coercitivo, che non si può supporre vi sia nella condizione di mera natura, dove tutti gli uomini

sono eguali e giudici della giustezza dei loro timori. Perciò chi adempie per primo, non fa che

consegnarsi al suo nemico, contro il diritto (che non può mai abbandonare) di difendere la propria

vita e i mezzi per vivere.

Thomas Hobbes: Leviatano

63

Ma in uno stato civile, dove c’è un potere istituito per costringere quelli che altrimenti

violerebbero la loro fede, quel timore non è più ragionevole e per tale motivo, colui che, per il

patto, deve adempiere per primo, è obbligato a fare così.

La causa del timore che rende invalido un tale patto, deve sempre essere qualcosa che sorge

dopo che il patto è stato fatto, come qualche fatto nuovo o un altro segno della volontà di non

adempierlo, altrimenti non può rendere vano il patto. Infatti ciò che non ha potuto ostacolare un

uomo dal promettere, non si deve ammettere che sia un ostacolo all’adempimento.

Colui che trasferisce qualche diritto, trasferisce i mezzi per godere di esso, per quanto è in suo

potere. Cosi chi vende un terreno, si intende che trasferisce l’erba e tutto ciò che cresce su di

esso, e chi vende un mulino non può deviare il corso d’acqua che lo muove. E coloro che danno

ad un uomo il diritto di governare con sovranità, si intende che gli danno il diritto di esigere

denaro per mantenere dei soldati e quello di designare dei magistrati per l’amministrazione della

giustizia.

Fare patti con le bestie brute è impossibile, perché, non intendendo la nostra parola, non

intendono né accettano alcuna traslazione di diritto, né possono trasferire alcun diritto ad altri e,

senza una accettazione reciproca, non c’è patto.

Fare un patto con Dio, è impossibile, se non per mezzo della mediazione di quelli a cui Dio

parla, o per mezzo di una rivelazione soprannaturale, oppure per mezzo dei suoi luogotenenti che

governano sotto di lui e in suo nome, poiché altrimenti non sappiamo se i nostri patti sono

accettati o no. Perciò coloro che fanno voto per qualcosa che è contrario ad una legge di natura,

fanno un voto vano, essendo ingiusto realizzare un tale voto; se invece è una cosa comandata

dalla legge di natura, non è il voto, ma la legge che li vincola.

La materia o soggetto di un patto, è sempre qualcosa che ricade sotto la deliberazione (poiché

il pattuire è un atto della volontà, vale a dire, un atto e l’ultimo atto della deliberazione) e perciò

si intende sempre che è una cosa avvenire e il cui adempimento è giudicato possibile da chi fa il

patto.

Perciò, promettere ciò che si sa essere impossibile, non è fare un patto. Ma se si prova che è

impossibile in seguito quel che prima si pensava fosse possibile, il patto è valido e vincola (anche

se non alla cosa stessa) tuttavia al suo valore, oppure, se anche questo è impossibile, allo sforzo

non finto di adempierlo per quanto è possibile, poiché nessuno può essere obbligato a fare di più.

Thomas Hobbes: Leviatano

64

Gli uomini si liberano dai loro patti in due modi, o con l’adempíerli o con l’esserne condonati.

Infatti l’adempimento è il fine naturale dell’obbligazione e il condono è la restituzione della

libertà, essendo un trasferimento di quel diritto in cui consisteva l’obbligazione.

I patti in cui si entra per timore, nella condizione di mera natura, sono obbligatori. Per

esempio, se pattuisco di pagare a un nemico un riscatto o un servigio per la mia vita, sono

vincolato a farlo. Si tratta infatti di un contratto in cui l’uno riceve il beneficio della vita e l’altro

deve ricevere del denaro o un servigio per ciò; di conseguenza, ove nessun’altra legge (come

nella condizione di mera natura) ne vieti l’adempimento, il patto è valido. Perciò i prigionieri di

guerra, se si dà loro fiducia per il pagamento del riscatto, sono obbligati a pagarlo; e se un

principe più debole fa una pace svantaggiosa con uno più forte, per timore, è vincolato a

mantenerla, a meno che (come è stato detto prima) non sorga qualche nuova e giusta causa di

timore per rinnovare la guerra. Ed anche negli stati, se sono forzato a riscattarmi da un ladrone

con il promettergli del denaro, sono vincolato a pagarlo, finché la legge civile non me ne liberi.

Infatti tutto quello che posso fare legittimamente senza obbligazione, posso anche pattuire

legittimamente di farlo per timore, e ciò che legittimamente pattuisco, non posso legittimamente

infrangere.

Un patto precedente rende vano uno seguente. Chi ha infatti trasferito oggi il suo diritto ad

uno, non l’ha più da passare domani ad un altro, e perciò la promessa seguente non passa alcun

diritto, ma è nulla.

Il patto di non difendermi dalla forza con la forza, è sempre vano. Infatti (come ho mostrato

prima) nessun uomo può trasferire, o deporre il suo diritto a salvarsi dalla morte, dalle ferite e

dalla prigionia (sfuggire queste cose è il solo fine del deporre un diritto qualsiasi); perciò la

promessa di non resistere alla forza, in nessun patto trasferisce un diritto qualsiasi, e non è

obbligante. Infatti, sebbene un uomo possa pattuire in questi termini: se non faccio così, o così,

uccidimi, non può pattuire in questi termini; se non faccio così, o così, non ti opporro resistenza,

quando verrai per uccidermi. L’uomo infatti per natura sceglie il male minore, cioè il pericolo di

morte nel resistere, piuttosto che il maggiore, vale a dire la morte certa e immediata nel non

resistere. Tutti gli uomini ammettono la verità di ciò nel fatto che si conducono i criminali

all’esecuzione e alla prigione con una scorta armata, nonostante che quei criminali abbiano

consentito alla legge, dalla quale sono stati condannati.

Thomas Hobbes: Leviatano

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Il patto di accusare se stesso, senza avere l’assicurazione del perdono, è similmente invalido.

Infatti nella condizione di natura, ove ogni uomo è giudice, non c’è posto per l’accusa, e nello

stato civile l’accusa è seguita dalla punizione, alla quale, essendo un atto di forza, un uomo non è

obbligato a non resistere. La stessa cosa è vera anche per l’accusa di coloro per la cui condanna si

cade in miseria, come . quella di un padre, una moglie, un benefattore. Infatti la testimonianza di

un tale accusatore, se non è data di propria volontà, si presume sia corrotta per natura e perciò

non deve essere ricevuta; e dove la testimonianza di un uomo non deve aver credito, egli non è

vincolato a darla. Anche le accuse fatte sotto la tortura non si devono reputare come

testimonianze. Infatti la tortura deve essere usata solo come un mezzo di congettura e come un

lume nell’ulteriore esame e ricerca della verità; ciò che in quel caso viene confessato, tende a dar

sollievo a colui che è torturato, non ad informare i torturatori e perciò non deve avere il credito di

una testimonianza sufficiente, poiché sia che ci si liberi per mezzo di un’accusa vera o falsa, lo si

fa per il diritto di preservare la vita.

Essendo la forza delle parole, (come ho precedentemente notato) troppo debole per costringere

gli uomini g all’adempimento dei loro patti, non ci sono nella natura umana che due aiuti

immaginabili per rafforzarla. Sono o un timore per la conseguenza dell’infrangere la parola, o la

gloria o l’orgoglio di apparire di non aver bisogno di infrangerla. Quest’ultima è una generosità

che si trova troppo raramente perché la si debba presumere, specialmente in coloro che

perseguono le ricchezze, il comando o i piaceri sensuali, che sono la maggior parte dell’umanità.

La passione sulla quale si deve calcolare è il timore, del quale due sono gli oggetti generalissimi;

l’uno, il potere degli spiriti invisibili; l’altro il potere di quegli uomini che ne saranno offesi. Di

questi due, benché il primo sia il potere più grande, nondimeno il timore del secondo è

comunemente il timore più grande. Il timore del primo è, in ogni uomo, la sua religione, che ha

luogo nella natura umana prima della società civile. Non così l’altro, o almeno non ha luogo in

misura sufficiente per far mantenere agli uomini le loro promesse, perché nella condizione di

mera natura, non si discerne l’ineguaglianza del potere, se non nell’eventualità della battaglia.

Cosicché prima del tempo della società civile, o nell’interruzione di essa per la guerra, niente può

rafforzare un patto di pace concordato, contro le tentazioni dell’avarizia, dell’ambizione, della

concupiscenza, o di altri forti desideri, se non il timore di quel potere invisibile a cui ognuno

rende un culto come a Dio e teme come un vendicatore della propria perfidia. Perciò tutto ciò che

Thomas Hobbes: Leviatano

66

può essere fatto tra due uomini non soggetti al potere civile è di giurare ciascuno sul Dio che

teme. Tale GIURAMENTO è una forma di parlare aggiunta ad una promessa per mezzo della quale

colui che promette significa che, se non adempie la promessa, rinuncia alla misericordia del suo

Dio, o chiama su di sé la sua vendetta. La forma pagana era: Che Giove uccida me, così come io

uccido questa bestia. La nostra forma è: Farò così e così, e che Dio mi aiuti. E questo con i riti e

le cerimonie che ognuno usa nella propria religione, affinché il timore di infrangere la fede sia

più grande.

Da questo appare che un giuramento ricevuto secondo qualche altra forma o rito che non sia

quello di chi giura è vano, e non è giuramento; e che non v’è giuramento per qualche cosa che

colui che giura non pensa sia Dio. Infatti, benché gli uomini abbiano talvolta usato giurare per i

loro re per timore o per adulazione, pure volevano che con ciò fosse inteso che attribuivano ad

essi onori divini. Giurare poi per Dio senza necessità, non è che un profanare il suo nome e

giurare per altre cose come gli uomini fanno nel discorso comune, non è un giurare, ma una

consuetudine empia, acquistata discorrendo con troppa veemenza.

Appare anche che il giuramento nulla aggiunge all’obbligazione. Infatti un patto, se è

legittimo, vincola agli occhi di Dio tanto con il giuramento, quanto senza; se è illegittimo, non

vincola affatto, ancorché sia confermato con un giuramento.

John Locke (1632-1704)

Secondo trattato sul governo (1690)

Traduzione A. Gialluca

Capitolo II: Dello stato di natura

4. Per comprendere rettamente cosa sia il potere politico e derivarlo dalla sua origine, occorre

considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato

di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come meglio

credono, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di

un altro.

È anche uno stato di eguaglianza in cui ogni potere e autorità sono reciproci, non avendone

nessuno più di un altro. Nulla invero è più evidente del fatto che creature della stessa specie e

grado, destinate senza discriminazione al godimento dei benefici della natura e all’uso delle

stesse facoltà, debbono essere anche uguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a

meno che il signore e padrone di tutte loro non ne abbia, con manifesta dichiarazione della sua

volontà, anteposta una alle altre conferendole con una evidente e chiara designazione, un

incontestabile diritto al dominio e alla sovranità.

5. Il saggio Hooker1 considera questa eguaglianza naturale degli uomini così evidente in se stessa

e al di là di ogni dubbio, da porla a fondamento di quell’obbligo al reciproco amore fra gli uomini

sul quale egli basa i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e da cui egli deriva i grandi principi

della giustizia e della carità. Ecco le sue parole:

Il medesimo impulso naturale ha portato gli uomini a riconoscere che è loro dovere amare gli altri non meno che se stessi. Infatti, considerato che le cose uguali devono di necessità avere una sola misura, se non posso non desiderare di ricevere il bene dagli altri nello stesso identico modo in cui gli altri possono desiderarlo nel loro cuore, come potrei sperare di veder soddisfatto in qualche modo il mio desiderio, se io stesso non fossi attento a soddisfare il desiderio simile che è indubbiamente negli altri, dato che noi condividiamo una medesima natura? Offrire agli altri qualcosa che ripugna a quel desiderio deve necessariamente essere penoso per loro quanto per me, cosicché se faccio un torto devo aspettarmi di subirne, non

1 Richard Hooker (1554-1600), uno dei massimi teologi anglicani dell’epoca. [nota di Davies]

John Locke, Secondo trattato

68

essendovi ragione che gli altri dimostrino per me un grado di amore maggiore di quello che io ho dimostrato per loro. Perciò il mio desiderio di essere amato quanto più possibile da coloro che sono miei eguali per natura, mi impone il dovere naturale di avere nei loro confronti lo stesso identico affetto. Nessuno ignora le diverse regole e canoni che la ragione naturale ha ricavato per la direzione della vita da quella relazione di eguaglianza che sussiste tra noi e coloro che sono come noi.2

6. Ma sebbene questo sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in

questo stato l’uomo abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi

averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra creatura in suo

possesso, tranne nel caso in cui lo richieda un qualche motivo più nobile che la semplice

conservazione., Lo stato di natura è governato dalla legge di natura che è per tutti vincolante, e la

ragione – che è quella legge stessa – insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che

essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella

libertà o negli averi. Infatti, essendo tutti gli uomini opera di un solo Creatore Onnipotente e

infinitamente saggio, tutti servitori di un solo supremo Signore, inviati nel mondo per suo ordine

e per i suoi intenti, essi sono proprietà di colui di cui sono opera, creati per durare fintanto che

piaccia a lui e non ad altri. Ed essendo forniti delle stesse facoltà e partecipando tutti di una

comune natura, non si può supporre alcuna subordinazione fra noi tale da autorizzarci a

distruggerci l’un l’altro, come se fossimo stati creati gli uni ad uso di altri, così come gli ordini

inferiori delle creature sono fatti per i nostri usi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e

a non abbandonare intenzionalmente il suo posto, così per la stessa ragione – quando non sia in

gioco la sua stessa conservazione – deve, per quanto può, preservare gli altri uomini, e non può –

se non nel caso di far giustizia di un trasgressore – privare o ledere la vita di un altro o quanto

contribuisce alla conservazione della vita come la libertà, la salute, le membra o i beni.

7. E affinché tutti gli uomini possano essere frenati nella violazione dei diritti altrui e nel

danneggiarsi l’un l’altro, affinché sia rispettata la legge di natura che vuole la pace e la

conservazione di tutto il genere umano, l’esecuzione della legge di natura in quello stato è

affidata nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge

in misura tale da impedirne la violazione. Ciò in quanto la legge di natura, come tutte le altre

leggi che riguardano gli uomini in questo mondo, sarebbe vana se non ci fosse qualcuno che nello

2 R. Hooker, Of the Laws of Ecclesiastical Polity, [Politica ecclesiastica] (1591-7) I, viii, 7. [nota di Davies]

John Locke, Secondo trattato

69

stato di natura ha il potere di renderla esecutiva e così proteggere gli innocenti e reprimere i

trasgressori. E se nello stato di natura a uno è dato di punire un altro per un male commesso, la

stessa cosa è permessa a ciascuno. Infatti in quello stato di perfetta uguaglianza, dove per natura

non vi è alcuna superiorità o giurisdizione di uno su un altro, ciò che uno può fare per rendere

esecutiva quella legge ognuno deve di necessità avere il diritto di farlo.

8. In tale modo nello stato di natura un uomo consegue un potere su un altro; ma non il potere

assoluto o arbitrario di disporre di un criminale, quando è nelle sue mani, secondo gli

appassionati furori o le stravaganze della sua volontà; ma soltanto di retribuire ciò che è

proporzionato alla sua trasgressione, secondo quanto gli dettano la serena ragione e la coscienza,

vale a dire tanto quanto può servire come riparazione e prevenzione. Infatti, queste ultime sono le

due uniche ragíoni per cui un uomo può legalmente fare ad un altro quel male che chiamiamo

punizione. Nel trasgredire la legge di natura, il trasgressore dichiara di vivere secondo una regola

diversa da quella della ragione e della comune giustizia, che è la misura che Dio ha imposto alle

azioni degli uomini per la loro reciproca sicurezza; e così egli diventa pericoloso per gli uomini

poiché tiene in poco conto o addirittura recide il vincolo inteso a garantirli dall’offesa e dalla

violenza. Essendo questo un reato contro l’intera specie e la sua pace e sicurezza cui presiede la

legge di natura, ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza

dell’umanità in generale, può reprimere – o se è necessario – distruggere ciò che è ad essa nocivo,

e quindi recare a chiunque abbia trasgredito quella legge un male tale da indurlo a pentirsi

d’averlo fatto e con ciò dissuadere lui, e sul suo esempio altri, dal commettere lo stesso male. In

questo caso e su questo fondamento ognuno ha il diritto di punire i trasgressori e rendersi

esecutore della legge di natura.

9. Non dubito che questa sembrerà ad alcuni una dottrina assai strana. Ma prima di condannarla,

vorrei mi si chiarisse in base a quale diritto un sovrano o uno Stato possono mandare a morte, o

punire uno straniero per un reato che questi commette nel loro paese. E certo che le loro leggi,

quale che sia la sanzione che esse ricevono dalla proclamata volontà del legislativo, non

riguardano uno straniero: non si rivolgono a lui, e se lo facessero non sarebbe tenuto a darvi

ascolto. Il potere legislativo, in forza del quale le leggi sono vincolanti per i sudditi di quello

Stato, non ha alcun potere su di lui. Coloro che in Inghilterra, in Francia o in Olanda hanno il

supremo potere di fare leggi sono per un indiano, come per il resto del mondo, uomini privi di

John Locke, Secondo trattato

70

autorità. E dunque, se non è per legge di natura che ogni uomo ha il potere di punire le offese a

quella legge, secondo quanto col buon senso si giudica che il caso richiede, non vedo come i

magistrati di una comunità possano punire uno straniero d’un altro paese, dato che nei suoi

confronti non possono avere maggior potere di quello che ciascuno per natura può avere su un

altro.

10. Al reato che consiste nel violare la legge e nel deviare dalla retta norma della ragìone, per la

qual cosa l’uomo degenera e dichiara di abbandonare i principi della natura umana e di essere una

creatura nociva, si unisce di solito l’offesa fatta ad una o ad un’ altra persona; e a qualcuno la

trasgressione arreca danno. In questo caso, colui che ha subito il danno, oltre al diritto di punire –

comune a lui e agli altri uomini – ha il diritto particolare di chiedere riparazione da colui che

glielo ha arrecato; e ogni altra persona che lo riconosca giusto può anche associarsi a chi è stato

offeso e assistirlo nel recuperare dall’offensore quanto basti per avere soddisfazione per il danno

che egli ha sofferto.

11. In ragione di questi due distintì dìritti, l’uno di punire il reato per reprimerlo e prevenire

analoghe offese – diritto che appartiene a ognuno – l’altro di esigere riparazione, che spetta solo

alla parte offesa, accade che il magistrato, che per essere tale ha nelle sue mani il comune diritto

di punire, può spesso, laddove il pubblico bene non richiede l’esecuzione della legge, condonare

di propria autorità la punizione di violazionì delittuose; ma non può tuttavia condonare la

riparazione dovuta ad un privato per il danno che questi ha subito. Colui che ha subito il danno ha

il diritto di chiedere la riparazione a suo nome, e lui solo può condonarla; la persona danneggiata

ha il potere di appropriarsi dei beni e dei servigi dell’offensore in base al diritto alla

conservazione di sé, cosi come ciascuno ha il potere di punire l’offesa per impedire che si

commetta di nuovo, in base al diritto che ha di conservare tutto il genere umano, facendo a tal

fine tutto ciò che è ragionevole fare. Ed è per questo che ogni uomo nello stato di natura ha il

potere di uccidere un assassino, sia per dissuadere altri dal compiere la stessa offesa – che

nessuna riparazione può compensare – con l’esempio della punizione che sempre segue per mano

di ognuno; sia anche per mettere al sicuro gli uomini dalle aggressioni di un criminale che,

avendo rinunciato alla ragione – comune norma e misura che Dio ha dato all’umanità – ha, con

l’ingiusta violenza e il brutale assassinio commesso nei riguardi di uno solo, dichiarato guerra

all’intero genere umano. Quegli può perciò essere ucciso come un leone o una tigre, una di quelle

John Locke, Secondo trattato

71

bestie selvagge con cui gli uomini non possono mettersi in società né riceverne sicurezza. Su ciò

si fonda quella grande legge di natura secondo cui: «chi ha sparso così il sangue dell’uomo,

dall’uomo avrà sparso il suo sangue». E Caino era così pienamente convinto che ciascuno avesse

il diritto di uccidere un tale criminale che dopo l’assassinio di suo fratello grida: «chiunque mi

troverà mi ucciderà»; così chiaramente quella legge era scrìtta nel cuore di tutti gli uomini.

12. Per lo stesso motivo nello stato di natura un uomo può punire le infrazioni minori di quella

legge. Forse si domanderà: con la morte? Rispondo: ogni trasgressione potrà essere punita in

misura tale, e con così tanta severità, da essere sufficiente a renderla un cattivo affare per il

trasgressore, dargli motivo di pentirsi e dissuadere gli altri nell’intento di fare altrettanto. Ogni

offesa che può essere commessa nello stato di natura può, nello stato di natura, essere punita allo

stesso modo e nella stessa misura che in uno Stato. Per quanto esuli dal mio attuale proposito

l’entrare qui in particolari riguardo la legge di natura o i suoi criteri di punizione, tuttavia è certo

che vi è una tale legge, e anche che essa è tanto intelligibile e evidente ad una creatura razionale e

a uno studioso di quella legge, quanto le leggi positive degli Stati; forse, anzi più evidente, tanto

quanto la ragione è di più facile comprensione delle fantasie e degli intricati espedienti degli

uomini che pongono in parole interessi contraddittori e nascosti. Infatti sono proprio così una

gran parte delle leggi locali dei singoli paesi, che in tanto sono giuste in quanto sono fondate sulla

legge di natura sulla cui base debbono essere regolate e interpretate.

13. A questa strana dottrina, vale a dire che nello stato di natura ognuno ha il potere esecutivo

della legge di natura, non dubito si obietterà che è irragionevole per gli uomini essere giudici

della propria causa; che l’amore di sé renderà gli uomini parziali nei confronti di se stessi e dei

propri amici; e che d’altra parte l’indole cattiva, la passione, lo spirito di vendetta li porterà ad

esagerare nel punire gli altri; che quindi non ne seguirà che confusione e disordine; e che appunto

per questo Dio ha affidato al governo il compito di reprimere la parzialità e la violenza degli

uomini. Concedo facilmente che il governo civile sia il rimedio adatto agli inconvenienti dello

stato di natura, che debbono certamente essere gravi qualora gli uomini possono essere giudici

nella propria causa, giacché è facile immaginare che chi sia stato così tanto ingiusto da recare

offesa al proprio fratello, non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò. Ma vorrei che coloro

che sollevano questa obiezione ricordassero che i monarchi assoluti non sono che uomini; e se il

governo deve essere il rimedio di quei mali che necessariamente seguono dal fatto che gli uomini

John Locke, Secondo trattato

72

sono giudici delle loro proprie cause – perciò lo stato di natura non deve durare – mi chiedo che

genere di govemo sia questo, e quanto migliore sia dello stato di natura in cui un uomo,

comandando sulla moltitudine, ha la libertà di essere giudice della sua propria causa e può fare ai

suoi sudditi tutto quello che vuole senza che gli altri abbiano la minima libertà di discutere o

controllare coloro che eseguono il suo volere, e in tutto ciò che fa – sia esso guidato da ragione,

da errore o da passione – devono essergli sottomessi. Molto meglio è lo stato di natura in cui gli

uomini non sono costretti a sottomettersi all’ingiusta volontà di un altro e in cui colui che

giudica, se giudica male della causa propria o altrui, ne deve rispondere al resto degli uomini.

14. Si domanda spesso, come ad avanzare una grande obiezione: dove sono o vi furono mai

uomini in siffatto stato di natura? A ciò sarà sufficiente, per ora, rispondere che poiché tutti i

principi e governanti di governi indipendenti, in ogni parte del mondo, sono in uno stato di natura

è chiaro che il mondo non fu mai, né sarà mai, senza un certo numero di uomini in quello stato.

Ho fatto riferimento a tutti coloro che governano comunità indipendenti, siano esse o meno

consociate con altre, perché non ogni patto mette fine allo stato di natura fra gli uomini, ma solo

quello in cui si concorda, insieme e reciprocamente, di entrare in un’unica comunità e costituire

un solo corpo politico: gli uomini possono farsi l’un l’altro promesse e stringere patti e tuttavia

rimanere ancora nello stato di natura. Le promesse e i contratti per un carro, ecc. fra due uomini

nell’isola deserta di cui parla Garsilao de la Vega nella sua storia del Perù3 o tra uno svizzero e un

indiano nelle foreste d’America, sono vincolanti per loro, sebbene essi si trovino in un perfetto

stato di natura. Ciò in quanto la sincerità e il tenere fede alla parola data competono agli uomini

in quanto tali e non in quanto membri della società.

15. A coloro che affermano che non vi furono mai uomini nello stato di natura, non solo opporrò

l’autorità del saggio Hooker che nella sua Politica Ecclesiastica (1, 10) dice:

Le leggi di cui fin qui si è detto [cioè le leggi di natura] vincolano gli uomini in modo assoluto proprio in quanto uomini, anche qualora non abbiano né costituito una società, né abbiano stabilito un accordo solenne fra di loro relativamente a che cosa fare o non fare. Ma in quanto noi non siamo sufficienti a noi stessi per fornirci di una adeguata scorta di cose necessarie a una vita quale la nostra natura desidera, una vita conforme alla dignità umana, allora per sopperire a quelle deficienze e imperfezioni che sono in noi quando viviamo singolarmente e

3 Garcilaso de la Vega, Comentarios reales (1609-1617) I, viii [nota di Davies].

John Locke, Secondo trattato

73

isolatamente per noi stessi, siamo naturalmente spinti a cercare la comunione e la società con altri. Questa è stata la causa per cui gli uomini si sono uniti fra di loro in società politiche4.

Ma in più affermo anche che tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato e vi

rimangono finché per loro consenso non si rendano membri di una società politica, ciò che non

dubito di rendere evidente nel seguito di questo discorso.

4 R. Hooker, Politica ecclesiastica, I, x, 1.

Daniel Defoe (1660-1731)

Robinson Crusoe (1719)

Traduzione Antonio Meo e Giuseppe Sertoli

[Il protagonista/narratore ha appena subito un naufragio]

Poco mancò che la seconda di queste ondate non mi riuscisse fatale; perché il mare, dopo avermi

trasportato come prima, mi sbarcò, anzi mi scagliò contro uno scoglio aguzzo, e con tanta forza

da lasciarmi privo di sensi e assolutamente incapace di pensare alla mia salvezza, perché il colpo,

prendendomi sul fianco e sul petto, mi tolse per così dire tutto il fiato che avevo in corpo, e se

l’acqua fosse tornata immediatamente, mi avrebbe inevitabilmente affogato. Ma rinvenni un po’

prima del ritorno delle onde e, visto che sarei stato di nuovo coperto dall’acqua, decisi di

aggrapparmi fortemente alla roccia e possibilmente trattenere il fiato finché l’acqua non si fosse

ritirata. Ora, siccome le onde per essere più vicine a terra non erano più tanto alte, tenni la presa

finché l’onda non ricadde e poi feci un’altra corsa, che mi portò di tanto più vicino a riva che

l’ondata successiva, sebbene mi coprisse fin sopra la testa, non mi inghiotti tanto da risucchiarmi

via, e l’altra corsa che feci mi portò sulla terraferma, dove, con mia grande consolazione, mi

arrampicai sulla scogliera sino a riva e mi sedetti sull’erba, al sicuro da ogni pericolo e

completamente fuori della portata dell’acqua.

Ora che ero approdato sano e salvo sulla spiaggia, cominciai col levare gli occhi al

cielo e ringraziare Dio di aver avuto salva la vita in una situazione che pochi minuti prima

non mi lasciava assolutamente nessuna speranza di salvezza. Credo che sia impossibile

esprimere appieno la gioia e il trasporto dell’anima quando si è per così dire strappati alla

tomba; e non mi meraviglio ora di quell’usanza che a un malfattore che ha il capestro al

collo, è legato ed è proprio sul punto di essere impiccato, quando gli portano una

sospensione dell’esecuzione; dico, non mi meraviglio che gli conducano anche un medico

per salassarlo nello stesso momento in cui gli danno la notizia, perché la sorpresa non

sottragga al cuore gli spiriti vitali e non lo uccida:

Perché le subite gioie, al par dei dolori, sconvolgono dapprima

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

75

Andavo avanti e indietro sulla spiaggia, levando le mani al cielo e cori tutto il mio

essere, potrei dire, assorto a considerare la mia salvezza; e facevo mille gesti e movimenti

che non posso descrivere, e riflettevo come mai, mentre tutti i miei compagni erano

annegati, non ci dovesse essere altra anima salva oltre a me; perché, quanto a loro, non li

vidi mai più, né ne vidi altro segno che tre cappelli, un berretto e tre scarpe scompagnate.

Gettai gli occhi alla nave arenata in un momento in cui i marosi e gli spruzzi del mare

erano così alti, che quasi non riuscivo a scorgerla, tanto appariva lontana, e riflettei: «Oh,

Signore! Com’è possibile che io sia riuscito a raggiungere la riva?»

Dopo essermi appagato lo spirito con la parte consolante della mia situazione,

cominciai a guardarmi attorno per vedere in che luogo mi trovassi e che dovessi fare per

prima cosa, e subito sentii che la mia consolazione diminuiva e, in una parola, che la mia

era una salvezza tremenda; perché ero bagnato, non avevo vestiti per cambiarmi, niente da

mangiare o da bere per ristorarmi, né avevo davanti altra prospettiva che quella di morire

di fame o di essere divorato dalle bestie feroci; e la cosa che mi riusciva particolarmente

sconfortante era che non avevo un’arma per dar la caccia a qualche animale e ucciderlo

per nutrirmene, né per difendermi da altre creature che volessero uccidere me per loro

nutrimento. In una parola, non avevo addosso nient’altro che un coltello, una pipa e una

scatola con un po’ di tabacco. A tanto poco si riducevano le mie provviste; e questo mi

gettò in un’angoscia così terribile che per un po’ corsi in qua e in là come un pazzo.

Siccome sopraggiungeva la notte, cominciai con cuore grave a considerare quale sarebbe

stata la mia sorte se in quel paese vi fossero state bestie fameliche, visto che di solito e di

notte ch’esse escono a predare.

L’unico rimedio che mi si presentò alla mente allora fu di salire su di un albero, una

specie di abete, folto e fronzuto ma spinoso, che cresceva lì vicino; e lì decisi di passare

la notte, e meditare di quale morte sarei morto il giorno dopo, perché ancora non vedevo

alcuna possibilità di sopravvivere. Mi allontanai dalla spiaggia per circa duecento iarde

per cercare dell’acqua da bere, e con mia grande gioia la trovai; e dopo aver bevuto ed

essermi messo in bocca un po’ di tabacco per ingannare la fame, andai all’albero e vi

salii, e cercai di mettermi in una posizione da cui non potessi cadere se mi fossi

addormentato; e, dopo essermi tagliato una mazza, una specie di corto bastone, per

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

76

difendermi, presi alloggio tra i rami dell’albero, ed essendo estremamente affaticato,

caddi in un sonno profondo, e dormii tanto comodamente carne, credo, pochi avrebbero

saputo fare nella mia condizione; e ne fui più ristorato di quanto non fossi mai stato,

credo, in una tale situazione.

Quando mi svegliai, era giorno fatto, l’aria serena e la tempesta diminuita tanto che il

mare non era più così grosso e furioso. Ma ciò che mi sorprese di più fu il vedere che la

marea, salendo, aveva disincagliato la nave dal banco di sabbia e l’aveva trasportata quasi

fino alla roccia contro la quale ho già detto d’essere stato sbattuto dalle onde, avendone le

ossa ammaccate. Siccome si trovava a meno d’un miglio dal punto della spiaggia dove

ero, e siccome la nave sembrava stare ancora in piedi, mi prese la voglia di andare a bordo

per salvare almeno aldine cose necessarie che potevano servirmi.

Quando scesi dal mio alloggio sull’albero, mi guardai attorno, e la prima cosa che

scorsi fu la barca, che si trovava sulla spiaggia, conte il vento e il mare ve l’avevano

sbattuta, u circa dite miglia sulla mia destra. M’incamminai lungo la spiaggia nella

speranza di raggiungerla, e andai finché potei, ma tra me e la barca trovai un braccio di

mare o insenatura che poteva essere larga circa un miglio; così, essendo più intento a

raggiungere subito la nave, nella quale speravo di trovare qualcosa per il mio immediato

sostentamento, decisi di tornare indietro per il momento.

Poco dopo mezzogiorno vidi che il mare era calmissimo, e la marea s’era ritirata tanto

che potevo andare a piedi sino a un quarto di miglio dalla nave; e questa circostanza fu

causa del rinnovarsi del mio dolore, perché vidi chiaramente che, se fossimo rimasti a

bordo, ci saremmo salvati tutti, cioè a dire, avremmo potuto toccar terra tutti, e la mia

sciagura non sarebbe stata tanto grande da lasciarmi assolutamente privo d’ogni conforto

e compagnia come ero adesso. Questa riflessione fece sgorgare di nuovo le lacrime dai

miei occhi; ma siccome le lacrime non erano un gran sollievo, decisi, se possibile, di

raggiungere la nave; così mi tolsi i vestiti, perché faceva tin gran calcio, e mi gettai in

acqua. Ma quando arrivai sotto la nave, mi trovai di fronte a una difficoltà ancora più

grande, perché non sapevo come andare a bordo; infatti essa era in secco, e sporgeva

molto fuori dell’acqua, e non c’era nulla a portata di mano a cui aggrapparsi. Le feci

attorno due giri a nuoto, e la seconda volta vidi pendere da una bigotta di prua un piccolo

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

77

pezzo di fune che mi meravigliai di non avere scorto prima; scendeva tanto in basso che,

sia pure con gran difficoltà, riuscii ad afferrarlo, e con l’aiuto di questa fune potei salire

su1 castello, di prua. Una volta su, constatai che la nave aveva la carena sfondata e la

stiva allagata da una grande quantità d’acqua, ma che giaceva sul margine d’un banco di

sabbia dura, o piuttosto di terra, in posizione tale che la poppa poggiava sul banco e la

prua era quasi al livello dell’acqua. Così tutto il cassero era libero e quanto si trovava da

quella parte asciutto; perché potete star sicuri che il mio primo compito fu di frugare e

accertare che cosa era rovinato e che cosa era rimasto intatto. Per prima cosa vidi che

tutte le provviste della nave erano asciutte e non toccate dall’acqua; e siccome avevo un

grande appetito, andai nella cambusa e mi riempii le tasche di biscotto, che mangiai

mentre andavo in giro per altre cose, perché non avevo tempo da perdere. Nella cabina

grande trovai anche del rum, di cui bevvi una grossa sorsata, perché ne avevo davvero

molto bisogno per trarne coraggio a fare ciò clic mi stava davanti. Ora non mi occorreva

altro che una barca per rifornirmi di una quantità di cose che prevedevo mi sarebbero state

molto necessarie.

Era inutile stare con le mani in mano e sognare di avere ciò che non si poteva avere, e

questa estrema necessità mi spronò al lavoro. Nella nave avevamo parecchi pennoni di

riserva, due o tre alberetti di legno e un albero di gabbia. Decisi di cominciare da questi, e

ne gettai molti in mare come meglio potei, dato il loro peso, legandoli uno per uno con

una fune perché non andassero via con la corrente. Fatto questo, mi calai lungo il fianco

della nave e, tirandoli a me, li legai insieme alle estremità quanto più forte potei e ne feci

una specie di zattera; poi, dopo averla coperta con due o tre tavoloni da fasciame messi di

traverso, provai a camminarci sopra e vidi che mi reggeva benissimo, ma che non poteva

sopportare un grande peso perché i legni erano troppo leggeri. Così mi misi al lavoro, e

con la sega da carpentiere tagliai un albero di gabbia in tre pezzi e li aggiunsi alla mia

zattera con gran travaglio; ma la speranza di provvedermi di cose necessarie mi stimolò a

fare più di quanto non avrei avuto la forza di fare in altra circostanza.

La mia zattera era ora abbastanza forte per reggere un peso ragionevole. Adesso

dovevo pensare di che cosa caricarla e come proteggere dagli spruzzi del mare quello che

ci mettevo sopra; ma non m’indugiai molto a riflettere su questo. Prima di tutto vi caricai

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

78

le assi e i tavoloni che potei prendere, e, dopo aver ben considerato di che cosa avevo più

bisogno, cominciai col prendere tre cassette da marinaio, che avevo forzato e vuotato, e le

calai sulla zattera. La prima la riempii di vettovaglie, cioè pane, riso, tre forme di cacio

olandese, cinque pezzi di carne di capra secca, di cui ci eravamo per lo più nutriti, e un

piccolo residuo di cereale europeo che avevamo tra le scorte per certi polli che avevamo

caricato alla partenza, ma che poi erano morti. Avevamo anche stivato insieme dell’orzo e

del frumento, ma, con mio grande disappunto, vidi più tardi che i ratti se lo erano

mangiato o l’avevano sciupato completamente. Quanto alle bevande, trovai diverse

cassette di bottiglie ch’erano appartenute al capitano, tra le quali dei cordiali, e cinque o

sei galloni in tutto di arrak. Questi li caricai da una parte perché non c’era bisogno di

metterli nelle cassette, né c’era posto per loro. Mentre facevo questo, notai che la marea

cominciava a salire, sebbene il mare fosse molto calmo, ed ebbi la mortificazione di

vedermi portar via la giacca, la camicia e il panciotto che avevo posato sulla spiaggia;

quanto alle brache, che tra l’altro erano solo di tela e aperte al ginocchio, le avevo tenute

addosso con un paio di calze quando mi ero gettato a nuoto. Tuttavia questo mi costrinse

a frugare in cerca di vestiti, e ne trovai abbastanza, ma non ne presi più di quanti non me

ne occorressero al momento; perché i miei occhi erano puntati su altre cose, e

particolarmente arnesi con cui lavorare a terra; e fu dopo una lunga ricerca che riuscii a

trovare la cassetta degli utensili del falegname, la quale fu davvero per me un bottino

utilissimo e molto più prezioso che non una nave carica d’oro in quelle circostanze. La

calai sulla zattera, tutta intera com’era senza perder tempo a guardarci dentro, perché

sapevo che cosa in genere conteneva.

Dopo fu mio pensiero cercare armi e munizioni; nella cabina grande c’erano due ottimi

fucili da caccia e due pistole; me ne impadronii subito, con delle cornette di polvere e una

piccola borsa di pallini, e due vecchie sciabole arrugginite. Sapevo che nella nave c’erano

tre barili di polvere, ma non sapevo dove il nostro cannoniere li teneva; a furia di cercare

finii con lo scoprirli: due erano asciutti e in buono stato, il terzo aveva preso acqua; portai

i due asciutti sulla zattera insieme con le armi. E a questo punto mi parve di aver fatto un

buon carico e cominciai a pensare conte avrei fatto a portarlo a riva, non avendo né vela

Daniel Defoe, Robinson Crusoe

79

né remi o timone, e la minima bava di vento sarebbe bastata a travolgere la mia

navigazione.

Cesare Beccaria (1738-94)

Dei delitti e delle pene (1764)

Edizione Franco Venturi

Capitolo 1 - ORIGINE DELLE PENE

Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società,

stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza

di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità.

La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità

di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non

bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun

uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione,

ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de’ motivi sensibili che bastassero a

distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della

società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi. Dico

sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii

di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e

morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si

affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si

oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità

sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti

presenti.

Capitolo 2 - DIRITTO DI PUNIRE

Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica;

proposizione che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non

derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano

di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni

particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e

maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

81

troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da

sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti

indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria

che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente

applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo.

Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico;

questa chimera non esiste che ne’ romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti

che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo.

La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che

la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piú

s’incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente

le altre per resistere alle prime, e cosí lo stato di guerra trasportossi dall’individuo alle nazioni.

Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è

adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion

possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime

porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia, è fatto, ma non

già diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è

piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú utile al maggior numero. E

per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari,

che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la

necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non

attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un

essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce

infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è

emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.

Capitolo 3 - CONSEGUENZE

La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e

quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per

un contratto sociale; nessun magistrato (che è parte di società) può con giustizia infligger pene

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

82

contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite

fissato dalle leggi è la pena giusta piú un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto

qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente

cittadino.

La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato alla società, questa è

parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due

parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú

grande e il piú miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i

patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad

autorizzare l’anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che

leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia violato il

contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal

sovrano, che asserisce laviolazione del contratto, e l’altra dall’accusato, che la nega. Egli è

dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato,

le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari.

La terza conseguenza è che quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente

opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in

questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche che sono l’effetto d’una

ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi,

nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed

alla natura del contratto sociale medesimo.

-–ooOoo–-

Capitolo 6 - PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE

Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piú rari a

proporzione del male che arrecano alla società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che

risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle

spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene.

È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni umane.

Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi

particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

83

matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno

sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl’imperi, e, scemando

nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione

dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene

si va per questo motivo sempre piú aumentando.

Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura

degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni

umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli

politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la

sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legislatore fa come l’abile architetto di cui

l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che

contribuiscono alla forza dell’edificio.

Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla

opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo

grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima

ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le

azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili,

decrescendo dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure

combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che

discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti

principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. Se

vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune

misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni.

Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può essere chiamata delitto, o

punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla. La

incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione;

piú attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che

espongono il piú saggio alle pene piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di

virtú, e però nata l’incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei

corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

84

quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei

secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per

conseguenza sempre conformi all’interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori

che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un

secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e

dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali

all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del

forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali

sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si

cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma

della morale geografia.

Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini

anche alle piú sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena,

dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione,

quanto piú comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è

destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un piú

forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior

vantaggio.

Capitolo 7 - ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE

Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il

danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione

di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente

disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima

successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non

solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche

volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte

colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene.

Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al

ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

85

dovrebbe piú atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura

essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa.

Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La

fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra

uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha

fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune,

che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e

creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo,

perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce

alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà

vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di

piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato

dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione

sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso

gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini

possono essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col

punire.

-–ooOoo–-

Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE

Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad

esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può

essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da

cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata

libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi

è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel

minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la

vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di

uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?

Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una

guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

86

essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa

dell’umanità.

La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche

privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della

nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di

governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione

ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo

di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti

della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse

piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le

ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un

cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal

commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.

Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini

determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno

dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio,

che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non

persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello

dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione.

Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa;

perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate

impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale

sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei

aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è

il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio

di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella

società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo

ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se

commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon

sempre in una oscura lontananza.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

87

La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza,

naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le

passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle

rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e

tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti.

La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista

di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori che non il

salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento

dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle

pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni

altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo.

Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a

rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e

perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque

l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per

rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la

morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre

accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o

di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone,

sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia.

L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed

all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per

respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione

dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella

pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante

che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto

distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio

sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia

utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la

morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

88

schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta

la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi

la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il

secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono

nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non

credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.

Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro

contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del

proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe

bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo

rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li

cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini

ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non

hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime

della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed

indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato

d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e

della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo,

ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero,

correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di

colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si

affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed

una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia.

Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che

passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e

sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò

coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti.

L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una

impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo

corregge.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

89

Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la

necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della

condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la

morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono

l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno

esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.

Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero

osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con

quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli

atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente

esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento

necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque

l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta

della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva

ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in

potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.

Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che

con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un

misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile

freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i

piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate

e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con

maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo.

L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza

e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena

terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo

sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i

funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’

delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

90

Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena

di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale

non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i

quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici

furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco

tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario,

perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in

paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca

fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da questa legge

universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto

divider dalle altre col rivelarle.

La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla

cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco

nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un

monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di

tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la

giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei

Traiani.

Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di

Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de’ loro

popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché

toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i

voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico,

lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la

venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con

maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.

-–ooOoo–-

Capitolo 47 - CONCLUSIONE

Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della

nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene

91

popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che

si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società

cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol

mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione.

Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme

all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di

uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria,

la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.

John Rawls (1921-2002)

Una teoria della giustizia (1971)

Traduzione U. Santini

24. Il velo di ignoranza

L’idea della posizione originaria è quella di stabilire una procedura equa di modo che, qualunque

siano i princìpi su cui ci si accorda, essi saranno giusti. L’obiettivo è usare la nozione di giustizia

procedurale pura come base della teoria. Dobbiamo in qualche modo azzerare gli effetti delle

contingenze particolari che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio

vantaggio le circostanze naturali e sociali. A questo scopo, assumo che le parti sono situate dietro

un velo di ignoranza. Le parti non sanno in che modo le alternative influiranno sul loro caso

particolare, e sono quindi obbligate a valutare i princìpi soltanto in base a considerazioni

generali1

Si assume quindi che le parti non conoscono alcuni tipi di fatti particolari. Innanzitutto,

nessuno conosce il proprio posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale; lo

stesso vale per la sua fortuna nella distribuzione delle doti e delle capacità naturali, la sua forza,

intelligenza e simili. Inoltre, nessuno conosce la propria concezione del bene, né i particolari dei

propri piani razionali di vita e neppure le proprie caratteristiche psicologiche particolari, come

l’avversione al rischio o la tendenza al pessimismo o all’ottimismo. Oltre a ciò, assumo che le

parti non conoscono le circostanze specifiche della loro società. Le parti sono all’oscuro della

situazione politica ed economica, o del livello di civilizzazione e cultura che la società è stata in

grado di raggiungere. Le persone nella posizione originaria non hanno informazione riguardo alla

generazione cui appartengono. Queste restrizioni più ampie sulla conoscenza sono importanti

soprattutto perché sorgono problemi di giustizia sociale sia tra generazioni diverse sia all’interno

di una stessa, come ad esempio la questione dell’opportuno tasso di risparmio, o quella della

1 Il velo di ignoranza è una condizione così naturale, che molti devono avere pensato e qualcosa dei genere.

L’enunciazione piú simile di cui sono a conoscenza è quella di J. C. HARSANY], Cardinal Utility in Welfare

Economics and in Theory of Risk-Taking’, in Journal of Political Economy, vol. 61, 1953. Harsanyi la usa per

sviluppare una teoria utilitarista.

John Rawls, Una teoria della giustizia

93

conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali. Esiste anche, perlomeno da un punto di vista

teorico, la questione di un’accettabile politica eugenetica. Per adeguarsi all’idea della posizione

originaria, anche in questi casi, le parti non devono conoscere i fatti contingenti che le oppongono

l’un l’altra. Devono essere pronte a vivere le conseguenze dei princìpi che hanno scelto,

qualunque sia la generazione cui appartengono.

Perciò, nei limiti del possibile, gli unici fatti particolari a conoscenza delle parti sono la

determinazione della loro società da parte delle circostanze di giustizia, e tutto ciò che questo

implica. D’altra parte, si dà per scontato che conoscono i fatti generali che riguardano la società

umana. Comprendono i problemi politici e i princìpi della teoria economica; conoscono le basi

dell’organízzazione sociale e le leggi della psicologia umana. In realtà, si presume che le parti

siano a conoscenza di tutti i fatti generali che influenzano la scelta dei princìpi di giustizia. Non

ci sono limitazioni all’informazione generale, cioè a quella che riguarda leggi e teorie generali,

poiché le concezioni della giustizia devono essere adattate alle caratteristiche dei sistemi di

cooperazione sociale che devono regolare, e non c’è alcun motivo per escludere questi fatti. Per

esempio, è una considerazione sfavorevole per una concezione della giustizia il fatto che gli

uomini, in base alla leggi della psicologia morale, non desiderano agire in conformità a essa,

anche quando le istituzioni della loro società la soddisfano. In un caso simile, infatti, sarebbe

difficile assicurare la stabilità della cooperazione sociale. Una caratteristica fondamentale di una

concezione della giustizia è la capacità di generare da sé il proprio sostegno. Ciò significa che i

suoi princìpi devono essere tali che, quando sono inclusi nella struttura fondamentale della

società, gli uomini tendono a acquistare il senso di giustizia corrispondente. Dati i princìpi

dell’apprendimento morale, gli uomini sviluppano un desiderio di agire secondo i suoi princìpi;

in questo caso, una concezione della giustizia è stabile. Questo tipo di informazione generale è

ammesso nella posizione originaria.

La nozione di velo di ignoranza dà luogo a varie difficoltà. Si può obiettare che l’esclusione di

quasi tutta l’informazione particolare rende difficile comprendere il significato della posizione

originaria. A questo proposito, può essere utile ricordare che, in ogni istante, una o più persone

possono entrare in questa posizione, o meglio, simulare le deliberazioni fatte in questa situazione

ipotetica, semplicemente per mezzo di argomenti in accordo con le restrizioni opportune. Nel

sostenere una concezione della giustizia, dobbiamo essere sicuri che è tra le alternative consentite

John Rawls, Una teoria della giustizia

94

e che soddisfa i vincoli formali convenuti. Non è possibile parlare in suo favore se non con

argomenti che sarebbe razionale avanzare se ci mancasse il genere di conoscenza che è stata

esclusa. La valutazione dei princìpi dipende dalle conseguenze generali di una loro accettazione

collettiva e di una loro applicazione universale, nell’ipotesi che essi vengano rispettati da

ciascuno. Affermare che una certa concezione della giustizia verrebbe scelta nella posizione

originaria equivale a dire che la deliberazione razionale che soddisfa certe restrizioni e condizioni

raggiungerebbe una data conclusione. Se necessario, l’argomento che porta a questo risultato può

essere presentato in modo più formale. Tuttavia, continuerò a esprimermi nei termini del concetto

di posizione originaria; è un modo più semplice e più suggestivo, e mette in luce certe

caratteristiche essenziali che altrimenti potrebbero essere facilmente trascurate.

Queste osservazioni mostrano che la posizione originaria non deve essere considerata come

un’assemblea generale che include, istantaneamente, tutti coloro che vivranno in qualunque

periodo; o, ancor meno, come un’assemblea di tutti quelli che potrebbero vivere in un dato

tempo. Essa non è la raccolta di tutti gli individui attuali e possibili. Immaginare la posizione

originaria in uno di questi modi è un atto di fantasia arbitrario; la concezione cesserebbe di

rappresentare una guida naturale per l’intuizione. In ogni caso, è importante che la posizione

originaria sia interpretata in modo che ognuno possa, in ogni momento, adottarne la prospettiva.

Non è rilevante la persona che accetta questo punto di vista, o il momento in cui Io fa; le

restrizioni devono essere tali che vengano sempre scelti gli stessi princìpi. Il velo di ignoranza è

un elemento essenziale per soddisfare questa condizione. Non solo garantisce che l’informazione

disponibile è importante, ma anche che rimane identica nel tempo.

Si può obiettare che la condizione dei velo di ignoranza è irrazionale. Qualcuno potrebbe

anche osservare che i princìpi dovrebbero essere scelti alla luce di tutte le conoscenze disponibili.

Vi sono diverse risposte da dare a queste affermazioni. Mi limiterò a accennare a quelle che

sottolineano le semplificazioni che è necessario operare se si vuole ottenere una qualsiasi teoria.

(Verranno presentate píú avanti, nel §40, quelle basate sull’interpretazione kantiana della

posizione originaria.) In primo luogo è chiaro che, poiché le differenze tra le parti sono a esse

sconosciute, e ognuno è. ugualmente razionale e nella stessa situazione, ciascuno si lascia

convincere dagli stessi argomenti. Possiamo perciò vedere la scelta all’interno della posizione

originaria dal punto di vista di una persona scelta a caso. Se, dopo la dovuta riflessione, essa

John Rawls, Una teoria della giustizia

95

preferisce una concezione della giustizia a un’altra, tutti faranno allo stesso modo, e. verrà Così

raggiunto un accordo all’unanimità. Per dirlo in modo più vivace, possiamo immaginare che le

parti debbano comunicare reciprocamente attraverso un arbitro che funga da intermediario, e che

quest’ultimo debba annunciare quali alternative siano state suggerite e quali le ragioni presentate

per appoggiarle. Egli impedisce ogni tentativo di formare coalizioni, e informa le parti quando

un’intesa è stata raggiunta. Un arbitro del genere è evidentemente superfluo appena si assume che

le deliberazioni delle parti devono essere simili.

Da ciò segue quindi l’importante conseguenza che le parti sono prive di base per la

contrattazione, nel senso corrente dei termine. Nessuno conosce la sua posizione nella società né

le sue doti naturali, e quindi nessuno si trova nella condizione di adattare i princìpi a proprio

vantaggio. Possiamo immaginare che uno dei contraenti minacci di non cedere a meno che gli

altri non acconsentano a princìpi a lui favorevoli. Ma in che modo egli può sapere quali princìpi

sono particolarmente vantaggiosi per i suoi interessi? Lo stesso vale per la formazione di

coalizioni: se un gruppo dovesse decidere di unirsi a scapito degli altri, esso non saprebbe come

avvantaggiarsi nella scelta dei princìpi. Anche se riuscisse a costringere tutti a accettare la sua

proposta, non avrebbe alcuna garanzia che essa vada a suo beneficio, poiché non è in grado di

autoidentificarsi, né con un nome né con una descrizione. Il solo caso in cui questa conclusione

non è valida è quello del risparmio. Poiché le persone nella posizione originaria sanno di essere

contemporanee (accettando l’interpretazione di contemporaneità), esse possono favorire la loro

generazione rifiutando di fare qualunque sacrificio per i propri discendenti; esse non fanno altro

che accettare il principio per cui nessuno ha il dovere di risparmiare per i propri discendenti. Le

generazioni precedenti possono avere risparmiato o meno; le parti ora non possono fare nulla che

influenzi quel fatto. In questo caso, il velo di ignoranza non riesce a garantire il risultato

desiderato. Risolveremo quindi il problema della giustizia tra generazioni in modo diverso, e cioè

cambiando l’assunzione motivazionale. Ma con questo aggiustamento, nessuno è in grado di

formulare princìpi speciali per favorire la propria causa. Qualunque sia la sua posizione

temporale, ciascuno è costretto a scegliere per tutti.2

Le restrizioni all’informazione particolare sono quindi di fondamentale importanza nella

2 J.J. Rousseau, Il contratto sociale, II, iv, 5.

John Rawls, Una teoria della giustizia

96

posizione originaria. Senza di esse non saremmo in grado di proporre alcuna teoria definita della

giustizia. Dovremmo accontentarci di una vaga formulazione secondo cui la giustizia sarebbe

qualcosa su cui si sarebbe d’accordo senza poter dire quasi nulla sul contenuto di questo stesso

accordo. Le restrizioni formali al concetto di giusto, perlomeno quelle che si applicano

direttamente ai princìpi, non sono sufficienti per i nostri scopi. Il velo di ignoranza rende

possibile una scelta unanime di una particolare concezione della giustizia. Senza queste

limitazioni alla conoscenza, il problema della contrattazione nella posizione originaria sarebbe

disperatamente complicato. Anche se teoricamente esistesse una soluzione, non saremmo, almeno

sino a ora, in grado di determinarla.

Credo che la nozione di velo di ignoranza sia implicita nell’etica di Kant (§40). Tuttavia, il

problema di definire le conoscenze delle parti e di caratterizzare le alternative a loro disposizione

è stato spesso ignorato, anche dalle teorie contrattualiste. In alcuni casi la situazione definitiva

della deliberazione morale è stata esposta in modo tanto indeterminato, che è impossibile capire

cosa ne risulterà. La dottrina di Perry, ad esempio, è essenzialmente contrattualista: egli sostiene

che l’integrazione sociale e quella personale devono procedere in base a princìpi totalmente

differenti: la seconda per mezzo della prudenza razionale, e la prima grazie al concorso di

persone di buona volontà.3 Perry sembra rifiutare l’utilitarismo più o meno per gli stessi motivi

che abbiamo proposto prima; e cioè che esso estende scorrettamente il principio di scelta per un

individuo singolo a scelte che riguardano la società. Il giusto corso d’azione è caratterizzato come

quello che meglio favorisce gli scopi sociali, nei modi in cui questi verrebbero formulati per

mezzo di un accordo riflessivo, a condizione che le parti abbiano una conoscenza completa delle

circostanze e siano spinte da una benevola attenzione riguardo ai loro reciproci interessi. Non si

fa però alcuno sforzo per specificare con precisione i possibili risultati di questo genere di

accordo. In realtà, non è possibile trarre alcuna conclusione senza una trattazione piu

approfondita. Non intendo qui criticare altri, ma spiegare la necessità di quelli che ogni tanto

possono sembrare particolari senza importanza.

Le ragioni a favore del velo di ignoranza vanno al di là di una esigenza di pura semplicità.

Vogliamo definire la posizione originaria in modo da ottenere la soluzione desiderata. Se è

3 Vedi R.B. Perry, the General Theory of Value, Longmans, Green and Co., New York, 1926, pp. 674-82.

John Rawls, Una teoria della giustizia

97

permessa una conoscenza dei particolari, allora il risultato è influenzato da contingenze arbitrarie.

Come abbiamo già rilevato, ‘a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia’ non è un principio

di giustizia. Se la posizione originaria deve produrre accordi giusti, le parti devono essere situate

equamente e trattate egualmente come persone morali. L’arbitrarietà del mondo deve essere

corretta modificando le circostanze della situazione contrattuale iniziale. Se inoltre richiediamo

l’unanimità nella scelta dei princìpi anche quando c’è informazione completa, potranno essere

risolti soltanto pochi casi piuttosto ovvi. In queste circostanze, una concezione della giustizia

basata sull’unanimità sarebbe veramente debole e banale. Ma con questa esclusione della

conoscenza, il requisito dell’unanimità non è fuori luogo, e il fatto che possa venire soddisfatto

assume una grande rilevanza. Esso ci mette in condizione di affermare che la concezione della

giustizia prescelta rappresenta un’effettiva composizione di interessi.

Un’ultima osservazione: in genere suppongo che le parti possiedano un’informazione generale

completa. Non ci sono fatti generali di cui esse siano all’oscuro; ciò soprattutto per evitare

complicazioni. Tuttavia, una concezione della giustizia deve essere la base pubblica della

cooperazione sociale. Poiché la comprensione comune richiede una limitazione alla complessità

dei princìpi, possono sussistere limiti analoghi all’uso della conoscenza teorica nella posizione

originaria. Ovviamente sarebbe molto difficile classificare per grado di complessità i vari tipi di

fatti generali; io non tenterò di farlo. Quando la incontriamo, siamo però in grado di riconoscere

una costruzione teorica complessa. Sembra perciò ragionevole affermare che, a parità, una

concezione della giustizia è preferibile a un’altra quando è fondata su fatti generali nettamente

più semplici, e quando la sua capacità di non di scelta non dipende da calcoli elaborati alla luce di

un ampio spettro di possibilità definite teoricamente. Se le circostanze lo permettono, è

preferibile che i fondamenti di una concezione pubblica della giustizia siano evidenti per

chiunque. Credo che questa considerazione favorisca i due princìpi di giustizia nei confronti del

criterio di utilità.

Judith Jarvis Thomson

‘Una difesa dell’aborto’ (1971)

Traduzione P. Donatelli

L’opposizione all’aborto si basa principalmente sulla premessa che fin dal concepimento il feto è

un essere umano, una persona. A sostegno di tale premessa vengono presentati argomenti, ma, a

mio avviso, non in modo convincente. Prendiamo, ad esempio, l’argomento più comune.

Anzitutto, ci viene richiesto di prendere buona nota del fatto che lo sviluppo di un essere umano

dal concepimento alla nascita fino alla fanciullezza è un processo continuo. Allora, così si

prosegue, tracciare una linea divisoria, scegliere un punto in questo processo di sviluppo e dire

«prima di questo punto non è una persona, dopo questo punto è una persona» significa fare una

scelta arbitraria, una scelta che non può trovare ragione nella natura delle cose. La conclusione è

che il feto è, o almeno faremmo meglio a dire che è, una persona fin dal momento del

concepimento. Ma siffatta conclusione non segue dalla premessa. Qualcosa di simile si potrebbe

dire dello sviluppo di una ghianda in una quercia, ma da ciò non segue che le ghiande sono

querce, o che faremmo meglio a dire sono querce. Argomenti di questo tipo sono talvolta

chiamati «argomenti del piano inclinato» – l’espressione si spiega da sé – ed è costernante che gli

avversari dell’aborto vi ricorrano in modo così esclusivo e acritico.

Sono tuttavia propensa a ammettere che non vi sono prospettive promettenti nell’idea di

«tracciare una linea divisoria» nello sviluppo del feto. Dovremmo probabilmente anche

convenire sul fatto che il feto è già diventato una persona umana ben prima della nascita. lnvero,

si resta sorpresi quando si viene a apprendere quanto precoce sia l’inizio dell’acquisizíone delle

caratteristiche umane. Alla decima settimana, per esempio, il feto ha già un volto, braccia e

gambe, e le dita delle mani e dei piedi; possiede organi interni, ed è rilevabíle attività cerebrale1.

1 Daniel Callahan, Abortion: Law, Choice and Morality, New York, 1970, p. 373. Questo libro presenta un

affascinante resoconto delle conoscenze disponibili sull’aborto. La tradizione ebraica viene esaminata in David M.

Feldman, Birth Control in Jewisb Law, New York, 1968, parte V; quella cattolica in John T. Noonan, Jr., «An

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

99

D’altra parte, penso che la premessa dell’argomento antiabortista sia falsa, non è vero che il feto

sia una persona fin dal momento del concepimento. Un ovulo fecondato da poco, un agglomerato

di cellule da poco impiantato, non è una persona più di quanto una ghianda non sia un albero di

quercia. Ma non discuterò queste questioni. Mi sembra infatti del massimo interesse indagare

quello che accade se, per amore dell’argomento, accettiamo la premessa. In che modo,

precisamente, siamo tenuti a concludere da questa premessa alla inammissibilità morale

dell’aborto? Gli avversari dell’aborto di solito impiegano la maggior parte delle loro energie a

stabilire che il feto è una persona, ma quasi mai spiegano il passaggio da questa tesi alla

inammissibilità dell’aborto. Forse pensano che sia troppo semplice e ovvio per richiedere un

commento. O forse stanno semplicemente applicando un principio di economia

nell’argomentazione. Molti di coloro che sono a favore dell’aborto si basano infatti sulla

premessa che il feto non è una persona, ma solo un insieme di tessuti biologici che diventerà una

persona all’atto della nascita: perché allora offrire più argomenti del necessario? Qualsiasi sia la

spiegazione dell’atteggiamento degli antiabortísti, suggerisco che il passaggio argomentativo che

assumono non è né facile né ovvio, che, al contrario, esso esige un esame più accurato di quello

solito, e che, una volta esaminato più accuratamente, ci sentiremo più propensi a rifiutarlo.

Propongo allora di riconoscere che il feto è una persona fin dal momento del concepimento.

Assumo che l’argomento continui grosso modo così. Ogni persona ha diritto alla vita. Pertanto il

feto ha diritto alla vita. Indubbiamente, la madre ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo

corpo o al suo interno; ciò verrà ammesso da chiunque. Ma è certo che il diritto alla vita di una

persona è più forte e più cogente del diritto della madre di decidere cosa avverrà del suo corpo o

al suo interno, e quindi prevale su di esso. Pertanto il feto non può essere ucciso e l’aborto non

può essere effettuato.2

Almost Absolute Value in History», in The Morality of Abortion, a cura di John T. Noonan ir., Cambridge, Mass,

1970.

2 «Diretto», negli argomenti cui mi riferisco, è un termine tecnico. In breve, ciò che si intende con «uccisione

diretta» è o l’uccidere come un fine in sé, o l’uccidere come mezzo per qualche fine, ad esempio, il fine di salvare la

vita di qualcun altro. Si veda la nota 6, più sotto, per un esempio del suo uso.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

100

Tutto ciò appare plausibile. Ma ora vi chiedo di immaginare questa situazione. Una mattina vi

svegliate distesi al fianco di un violinista privo di conoscenza, un violinista molto famoso. Gli è

stata diagnosticata una grave insufficienza renale, la società dei musicofilí ha consultato tutti gli

archivi medici disponibili e ha scoperto che siete gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per

la trasfusione. Vi hanno rapito, e la notte precedente il sistema circolatorio del violinista è stato

collegato al vostro, in modo che i vostri reni possono depurare il suo sangue così come fanno con

il vostro. Il direttore dell’ospedale vi dice ora: «Guardi, siamo spiacenti che la società di

musícofili le abbia fatto questo – non l’avremmo mai permesso se l’avessimo saputo. Tuttavia

l’hanno fatto e ora il violinista è collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma

non c’è da preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua insufficienza, e

potrà essere staccato senza pericoli.» Avete il dovere morale di acconsentire a questa situazione?

Farlo sarebbe senza dubbio gentile da parte vostra, molto gentile. Ma dovete acconsentirvi? Che

dire se non si trattasse di nove mesi ma di nove anni? O di un periodo ancora più lungo? E se il

direttore dell’ospedale dicesse: «t stato sfortunato, ma ora deve rimanere a letto, con il violinista

collegato al suo corpo, per il resto dei suoi giorni. Ricordi che ogni persona ha diritto alla vita, e i

violinisti sono persone. Certo, lei ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo

interno, ma il diritto alla vita di una persona prevale sul suo diritto a decidere cosa avverrà del

suo corpo o al suo interno.» Immagino che considerereste queste parole come un affronto, e ciò

suggerisce che effettivamente c’è qualcosa di sbagliato in quell’argomento così apparentemente

plausibile che ho menzionato poco fa.

In questo caso, naturalmente, siete rimaste vittime di un rapimento, non vi siete sottoposti

volontariamente all’intervento chirurgico che ha collegato il violinista ai vostri reni. Coloro che

si oppongono all’aborto in base al diritto alla vita del feto possono fare un’eccezione per le

gravidanze dovute a violenza carnale? Certo. Si può sostenere che le persone hanno diritto alla

vita solo se la loro esistenza non è dovuta a violenza carnale, oppure si può affermare che tutte le

persone hanno diritto alla vita, ma che alcune ne hanno meno di altre, in particolare quelle la cui

esistenza è dovuta a violenza carnale. Siffatte affermazioni suonano piuttosto sgradevoli. t chiaro

che la questione circa l’avere o meno diritto alla vita, o di quanto diritto si abbia, non dovrebbe

dipendere dalla questione circa l’essere o meno il prodotto di una violenza carnale.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

101

Del resto gli avversari dell’aborto non ammettono eccezioni nel caso che la madre debba

trascorrere a letto i nove mesi della gravidanza. Converrebbero che si tratta di un grosso

inconveniente, difficile da sopportare per la madre; ma nondimeno, tutte le persone hanno diritto

alla vita, il feto è una persona, e così via. Sospetto, in verità, che non farebbero un’eccezione

nemmeno se, per un caso prodigioso, la gravidanza occupasse nove anni, o addirittura il resto

della vita della madre.

Alcuni non vorranno ammettere eccezioni nemmeno nel caso in cui il proseguimento della

gravidanza avrà come probabile conseguenza quello di abbreviare la vita della madre;

considerano l’aborto inammissibile anche a costo della vita della madre. Oggi questi casi sono

molto rari, e molti avversari dell’aborto non accettano questa tesi estrema. Nondimeno, essa

offre un buon punto di partenza per la discussione in quanto consente di sollevare alcune

questioni di notevole interesse.

I. Denominiamo la tesi secondo cui l’aborto è inammissibile anche a costo della vita della madre

«tesi estrema». Desidero suggerire anzitutto che questa tesi non deriva dall’argomento

menzionato in precedenza a meno che non si aggiungano alcune premesse piuttosto forti.

Supponiamo che una donna incinta apprenda di avere un vizio cardiaco che le impedisce di

portare a termine la gravidanza senza andare incontro a morte sicura. Cosa si può fare per lei? Il

feto, essendo una persona, ha diritto alla vita. Presumibilmente, essi hanno un eguale diritto alla

vita. Come si arriva allora a sostenere che non si può abortire nemmeno in questo caso? Se

madre e bambino hanno un eguale diritto alla vita, non dovremmo forse decidere con la

monetina? 0 dovremmo aggiungere al diritto alla vita della madre il suo diritto a decidere del suo

corpo, diritto che chiunque sembra disposto a riconoscerle – con ciò facendo prevalere la somma

dei suoi diritti sul diritto alla vita del feto?

L’argomento più comune a questo riguardo è il seguente. Si sostiene che eseguire l’aborto

significherebbe uccidere direttamente il bambino, mentre non far niente non comporterebbe

l’uccisione della madre ma solo lasciarla morire. Inoltre, con l’uccisione del bambino, si

ucciderebbe un innocente, perché il bambino non ha commesso alcun crimine e non mira alla

morte della madre. A questo punto ci sono molti modi in cui l’argomento potrebbe proseguire.

(1) Poiché uccidere direttamente un innocente è sempre e assolutamente inammissibile, non si

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

102

può abortire. Oppure, (2) poiché uccidere direttamente un innocente è omicidio, e l’omicidio è

sempre e assolutamente inammissibile, non si può abortire.3 O ancora, (3) poiché il dovere di

astenersi dall’uccidere direttamente un innocente è più cogente del dovere di salvare una persona

dalla morte, non si può abortire. O infine, (4) se le uniche opzioni disponibili sono uccidere

direttamente un innocente o lasciar morire una persona, allora si deve preferire lasciar morire la

persona, e pertanto non si può abortire.4

Alcuni sembrano sostenere che non si tratta qui di premesse ulteriori che devono essere

aggiunte per arrivare alla conclusione desiderata; al contrario, esse deriverebbero dal solo fatto

che un innocente ha diritto alla vita5. Questo mi sembra un errore, e forse il modo più semplice

di mostrarlo è di spiegare come, mentre dobbiamo certamente riconoscere che persone innocenti

hanno diritto alla vita, le tesi da (1) a (4) sono tutte false. Consideriamo, per esempio, la (2). Se

l’uccisione diretta di un innocente è omicidio, e pertanto inammissibile, allora l’uccisione da

3 Cf. l’enciclica di Papa Pio XI sul matrimonio cristiano (tr. inglese, St. Paul Editions, Boston, s. d., p. 32): «per

quanto grande possa essere la nostra pietà per la madre la cui salute, e perfino vita, viene messa in grave pericolo

nell’adempimento del dovere assegnatole dalla natura, nondimeno quale mai ragione potrebbe essere sufficiente a

scusare in un qualsiasi modo l’assassinio diretto dell’ínnocente? t precisamente di questo di cui si tratta». Noonan (in

The Morality of Abortion, cit., p. 43) interpreta il passo così: «Quale causa può mai servire a scusare in un modo

qualsiasi l’uccisione diretta dell’innocente? Perché è questo di cui si tratta.»

4 La tesi (4) è più debole, ma in modo interessante, delle tesi (1), (2) e (3). Queste ultime escludono l’aborto anche in

casi in cui sia la madre sia il bambinomoriranno se non si ricorre all’aborto. Per contrasto, chi sostenesse la tesi

espressa in (4) potrebbe coerentemente affermare che non si deve preferire lasciar morire due persone all’ucciderne

una.

5 Si veda il brano seguente tratto dal messaggio indirizzato da Pio XI ana associazione delle ostetriche cattoliche

italiane: «Il bambino nel ventre materno riceve il diritto alla vita immediatamente da Dio. – Pertanto, non c’è uomo,

né autorità umana, né scienza, nessuna prescrizione medica, eugenetica, sociale, economica o morale che possa

stabilire o garantire una base giuridica valida per una diretta e deliberata disposizione di una vita umana innocente,

cioè una disposizione che abbia come scopo la sua distruzione o come fine o come mezzo per un altro fine forse non

illecito di per sé. – Il bambino, ancora non nato, è una persona nello stesso grado e per la stessa ragione per cui lo è

la madre» (citato in Noonan, The Morality of Abortion, cit., p. 45).

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

103

parte della madre dell’ínnocente che è in lei è omicidio, e pertanto è inammissibile. Ma non si

può seriamente considerare l’idea dell’omicidío se la madre abortisce per salvarsi la vita. Non si

può affermare sul serio che ella deve astenersi dal farlo, che deve attendere passivamente la

propria morte. Torniamo al caso del violinista. Siete stesi al fianco del violinista e il direttore

dell’ospedale vi dice: «So che si tratta di una situazione angosciosa, e ne ho profonda

compassione, ma lo sforzo aggiuntivo cui vengono sottoposti i reni la condurrà a morte nel giro

di un mese. Nondimeno, deve restare dov’è. Perché staccare l’apparecchiatura significherebbe

uccidere direttamente un violinista innocente, e questo è omicidio, ed è inammissibile. » Ma se

c’è una verità al mondo, questa è senz’altro che non si commette omicidio, non si fa nulla di

inammissibile, se ci si volta dall’altra parte e si stacca il collegamento con il violinista al fine di

salvare la propria vita.

Negli scritti sul problema dell’aborto l’attenzione è stata concentrata principalmente su

quello che una terza parte può o non può fare in risposta a una richiesta di aborto da parte di una

donna. In un certo senso, ciò è comprensibile. Allo stato delle cose, non c’è molto che una donna

possa fare per abortire da sola. Così la questione è che cosa una terza parte può fare, mentre

quello che può fare la madre, se pure viene menzionata, viene dedotto, come conseguenza

secondaria, da ciò che viene concluso circa quello che la terza parte può fare. Ma trattare la

questione in questo modo, mi sembra, significa rifiutare di riconoscere alla madre proprio quello

status di persona su cui tanto si insiste per il feto: non possiamo stabilire quello che una persona

può fare in base a quello che può fare una terza persona. Supponiamo che vi troviate íntrappolati

in una casa angusta con un bambino in fase di crescita. La casa è estremamente angusta e il

bambino cresce rapidamente. Siete già costretti contro il muro della casa e fra pochi minuti

resterete schiacciati contro la parete. D’altra parte il bambino non corre pericolo di restare

schiacciato; se la sua crescita non viene fermata si farà male, ma alla fine gli basterà sfondare le

mura di casa e se ne andrà libero per il mondo. Ora sarebbe comprensibile se un terzo astante

dovesse dire: «Non c’è niente che possiamo fare per voi. Non possiamo scegliere tra la vostra

vita e la sua, non possiamo essere noi a decidere chi deve vivere, non possiamo intervenire.» Ma

da ciò non segue che nemmeno voi possiate fare niente, che non potete attaccarlo per salvarvi la

vita. Per quanto innocente possa essere il bambino, non avete il dovere di attendere passivamente

mentre vi schiaccia a morte. Forse c’è la vaga sensazione che una donna incinta abbia lo status di

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

104

una casa, cui non riconosciamo il diritto di autodífesa. Ma se la donna ospita il bambino, non

andrebbe dimenticato che è una persona che lo ospita.

Forse, a questo punto, dovrei dichiarare in modo esplicito che non sto sostenendo che le

persone hanno il diritto di fare qualsiasi cosa per salvare la propria vita. Penso, piuttosto, che vi

siano limiti severi al diritto di autodifesa. Se qualcuno vi minaccia di morte a meno che non

torturiate qualcun altro a morte, credo che non abbiate il diritto di farlo anche a costo della vostra

vita. Ma il caso considerato qui è molto diverso. Nel nostro caso vi sono solo due persone

coinvolte, una la cui vita viene minacciata e l’altra che la minaccia. Entrambi sono innocenti: chi

viene minacciato non lo è a causa di una qualche colpa, chi minaccia non lo fa a causa di una

colpa. Per questa ragione possiamo pensare che noi, dall’esterno, non possiamo intervenire. Ma

la persona minacciata può.

In breve, una donna può certamente difendere la sua vita contro la minaccia portata da un

bambino non-nato, anche se ciò comporta la morte di quest’ultimo. E ciò mostra non solo che le

tesi da (1) a (4) sono false; mostra anche che la tesi estrema sull’aborto è falsa, e quindi non è

necessario passare in rassegna tutti gli altri modi possibili di arrivare ad essa partendo

dall’argomento menzionato all’inizío.

II. La tesi estrema potrebbe naturalmente essere indebolita in modo da sostenere che mentre

l’aborto è ammissibile per salvare la vita della madre, non può essere effettuato da terzi ma solo

dalla madre. Ma nemmeno ciò è corretto. Dobbiamo tenere presente che la madre e il bambino

non-nato non sono come due inquilini in una casa piccola che, per uno sfortunato errore, è stata

affittata a entrambi; è la madre a essere proprietatú della casa. Questa circostanza fa aumentare

l’intollerabilità del dedurre la conclusione che la madre non può fare niente dalla supposizione

che dei terzi non possano far niente. Ma c’è di più: esso getta luce sulla stessa supposizione che

dei terzi non possano fare niente. Di certo ci consente di vedere come una terza persona che dica:

«Non posso scegliere tra di voi» e reputi ciò imparzialità, si stia solo prendendo in giro. Se Jones

ha trovato un cappotto, di cui ha bisogno per proteggersi dal freddo, ma di cui ha bisogno anche

Smith per la stessa ragione, non è per imparzialità che si può dire «non posso scegliere tra di

voi» se è Smith il proprietario del cappotto. Le donne hanno ripetuto tante volte «il corpo è

mio!» e hanno ragione di sentirsi in collera, di pensare che sono state parole gettate al vento.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

105

Dopo tutto, Smith difficilmente ci ringrazierà se gli diciamo: «Certo che è il tuo cappotto,

chiunque lo riconoscerebbe. Ma nessuno può scegliere tra te e Jones che ha finito per averlo.»

Dovremmo in realtà domandarci cosa significa dire «nessuno può scegliere» di fronte al fatto

che il corpo che ospita il bambino è quello della madre. Può trattarsi semplicemente di un

mancato apprezzamento di questo fatto. Ma può trattarsi di qualcosa di più interessante, cioè che

si ha il diritto di rifiutarsi di esercitare violenza contro le persone, anche quando sarebbe giusto e

equo farlo, anche quando la giustizia sembra esigere che qualcuno lo faccia. Quindi la giustizia

potrebbe richiedere che qualcuno riprenda da jones il cappotto di Smith, e tuttavia si ha il diritto

di rifiutare di essere la persona che mette le mani addosso a Jones, si ha il diritto di rifiutarsi di

esercitare violenza contro di lui. Penso che ciò debba essere riconosciuto. Ma allora non si deve

dire «nessuno può scegliere», ma solo «io non posso scegliere», e a rigore nemmeno questo, ma

«io non lo farò», senza escludere che qualcun altro possa o debba farlo, in particolare chi,

ricoprendo una posizione di responsabilità con il compito di garantire i diritti delle persone, ne

ha sia il potere sia il dovere. Non si pone qui alcuna difficoltà. Non ho sostenuto che chiunque

deve acconsentire alla richiesta della madre di effettuare un’aborto per salvarle la vita, ho solo

affermato che può farlo.

Secondo parecchie concezioni della vita umana, suppongo, il corpo della madre le è dato

solo in prestito, e il prestito non le conferisce alcun genere di pretesa prioritaria su di esso. Chi

sostiene questa tesi potrebbe reputare conforme a imparzialità dire «non posso scegliere». Mi

limiterò a ignorare questa possibilità. Credo che se c’è una cosa su cui un essere umano ha una

pretesa prioritarla e giusta, questa è il proprio corpo. E forse non c’è nemmeno bisogno di

presentare argomenti a favore, dal momento che, come ho accennato, gli argomenti contro

l’aborto che stiamo esaminando riconoscono che la donna ha il diritto di decidere cosa avverrà

del suo corpo o al suo interno.

Ma nonostante tale riconoscimento, ho cercato di mostrare che essi non prendono sul serio

ciò che va fatto per riconoscere effettivamente siffatto diritto. Suggerisco che lo stesso problema

si presenterà in modo ancora più chiaro se ci distogliamo dai casi in cui è in pericolo la vita della

madre e prendiamo a occuparci, come mi propongo di fare da ora in avanti, dei casi molto più

comuni in cui una donna desidera abortire per ragioni meno urgenti della salvezza della propria

vita.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

106

III. Quando la vita della madre non è in pericolo, l’argomento menzionato all’inizio sembra

avere una forza maggiore. «Ognuno ha diritto alla vita, dunque la persona non-nata ha diritto alla

vita.» E non e’ forse vero che il diritto alla vita del bambino ha un peso maggiore di qualsiasi

altra ragione che la madre potrebbe avanzare per giustificare l’aborto, che non sia il diritto alla

vita della madre stessa?

Questo argomento tratta il diritto alla vita come qualcosa di nonproblematico. Invece

problemi ve ne sono, e proprio il non avvedersene mi sembra la fonte dell’errore.

Dobbiamo ora chiederci finalmente cosa significa avere diritto alla vita. Secondo alcune

concezioni, avere diritto alla vita include un diritto a ricevere almeno lo stretto necessario per

continuare a vivere. Ma supponiamo che ciò che di fatto è lo stretto necessario di cui un essere

umano ha bisogno per continuare a vivere sia costituito da qualcosa su cui non si ha alcun diritto.

Se giaccio mortalmente malata, e la sola cosa che può salvarmi è il tocco della fredda mano di

Henry Fonda sulla mia fronte febbricitante, nondimeno non ho il diritto di ricevere il tocco della

fredda mano di Henry Fonda sulla mia testa febbricitante. Sarebbe estremamente gentile da parte

sua volare dalla West Coast per questo. Sarebbe meno gentile se dei miei amici, senza dubbio

con le migliori intenzioni, andassero a prelevare Henry Fonda dalla sua casa. Ma io non ho alcun

diritto che qualcuno faccia questo per me. O ancora, per tornare all’esempio precedente, il fatto

che per mantenersi in vita quel violinista abbia bisogno dell’uso continuo dei vostri reni non

prova che egli abbia diritto all’uso continuo dei vostri reni. Certamente non ha un diritto nei

vostri confronti per cui voi dovreste concedergli l’uso continuo dei reni. Nessuno infatti ha

diritto a usare i vostri reni a meno che non siate voi a concedergli tale diritto; e nessuno ha il

diritto nei vostri confronti di aver concesso questo diritto – se gli permettete di usare i vostri reni,

è una vostra gentilezza, non qualcosa che si può pretendere come dovuto. Né ha un diritto nei

confronti di altri per cui dovrebbero essere loro a procurargli l’uso continuo dei vostri reni.

Certamente il violinista non ha il diritto nei confronti della società dei musicofili di far sì che

siano loro a collegarlo con voi. E se ora cominciate a staccare i collegamenti, dopo aver appreso

che altrimenti dovrete trascorrere nove anni al suo fianco in ospedale, non c’è nessuno al mondo

che deve cercare di impedirvelo in base alla ragione che così facendo gli viene negato qualcosa

cui ha diritto.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

107

Alcuni danno del diritto alla vita una intepretazione più ristretta. Secondo la loro concezione,

esso non comprende un diritto positivo a qualcosa ma equivale al diritto a non essere uccisi da

nessuno, e solo a questo. Ma qui sorge una difficoltà. Se tutti devono astenersi dall’uccidere il

violinista, allora tutti devono astenersi dal fare un gran numero di cose. Nessuno deve tagliargli

la gola, nessuno deve sparargli e nessuno deve staccare i collegamenti tra lui e voi. Ma ha un

diritto nei confronti di chiunque per cui chiunque deve astenersi dallo staccare i collegamenti tra

lui e voi? Non fare ciò significa permettergli di continuare a usare i vostri reni. Si potrebbe

sostenere che ha un diritto nei nostri confronti per cui noi dovremmo permettergli di continuare a

usare i vostri reni. Vale a dire, mentre non ha un diritto nei nostri confronti per cui dovremmo

procurargli l’uso dei vostri reni, si potrebbe sostenere che egli ha comunque un diritto ora al

nostro non-intervento, che, altrimenti, lo priverebbe dell’uso dei vostri reni. Tornerò in seguito

sulla questione dell’intervento di terzi. Ma di certo il violinista non ha un diritto nei vostri

confronti per cui voi dovreste permettergli di continuare a usare i vostri reni. Come ho detto

prima, se gli permettete di usarli è per vostra gentilezza non per qualcosa che gli dovete.

La difficoltà che ho indicato qui non è esclusiva del diritto alla vita. Si presenta in

connessione con tutti gli altri diritti naturali; e deve essere fronteggiata da ogni teoria dei diritti

che voglia essere adeguata. Per i nostri scopi è sufficiente averne preso nota. Ma voglio

sottolineare che non sto sostenendo che le persone non hanno diritto alla vita – al contrario, mi

sembra che il principale controllo cui dobbiamo sottoporre l’accettabílità di una teoria dei diritti

è che deve essere una verità di quella teoria che le persone hanno diritto alla vita. Sostengo solo

che avere diritto alla vita non garantisce avere un diritto né all’uso né alla concessione dell’uso

continuativo del corpo di un’altra persona – anche nel caso in cui ciò sia necessario per la vita

stessa del beneficíario. Pertanto il diritto alla vita non può essere usato per la causa antiabortista

in quel modo diretto e chiaro che tanti avversari dell’aborto sembrano aver creduto possibile.

IV. C’è un altro modo di porre in evidenza la difficoltà di cui si sta discutendo. Nei casi più

comuni, privare una persona di qualcosa cui ha diritto significa trattarla in modo contrario a

giustizia. Supponiamo che un ragazzo e suo fratello minore abbiano ricevuto in regalo per Natale

una scatola di cioccolatini. Se il ragazzo più grande prende la scatola e non dà nemmeno un

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

108

cioccolatino al fratello, è ingiusto nei suoi confronti, perché il fratello ha diritto a metà del

contenuto della scatola. Ma supponiamo ora che, dopo aver appreso che altrimenti dovrete

passare nove anni accanto al violinista in ospedale, stacchiate le apparecchiature che vi

collegano. Sicuramente non vi state comportando in modo ingiusto verso di lui, dal momento

che non gli avete concesso il diritto di usare i vostri reni e nessun altro può concedere al

violinista un diritto siffatto. Ma dobbiamo tenere presente altresì che mentre staccate le

apparecchiature in realtà lo state uccidendo, e i violinisti, come chiunque altro, hanno diritto alla

vita, e quindi, secondo la tesi che stiamo considerando, hanno il diritto di non essere uccisi.

Pertanto, in questo caso, staccando i collegamenti, fate qualcosa che il violinista ha diritto che

voi non facciate, ma nel farla non agite in modo ingiusto verso di lui.

La revisione che può essere introdotta a questo punto è la seguente: il diritto alla vita consiste

non nel diritto a non essere uccisi, ma piuttosto nel diritto a non essere uccisi ingiustamente. Ciò

comporta un rischio di circolarità, ma non importa: ci consente comunque di rendere compatibili

il fatto che il violinista ha diritto alla vita con il fatto che non si agisce ingiustamente nei suoi

confronti staccandosi dall’apparecchiatura, e con ciò uccidendolo. Infatti, se non lo si uccide

ingiustamente, non si viola il suo diritto alla vita, e quindi non c’è da meravigliarsi se non gli si

fa ingiustizia.

Ma se questa versione rivista del diritto alla vita viene accettata, la debolezza dell’argomento

contro l’aborto si mostra nel modo più chiaro: non è sufficiente mostrare che il feto è una

persona e rammentarci che tutte le persone hanno diritto alla vita – occorre che ci si mostri anche

che uccidere il feto viola il suo diritto alla vita, vale a dire che l’aborto è una uccisione ingiusta.

Ma lo è?

Suppongo che possiamo dare per scontato che in caso di gravidanza dovuta a violenza

carnale la madre non ha concesso alla persona nonnata il diritto di usare il suo corpo per cibo e

riparo. E in realtà, in quale caso si potrebbe supporre che la madre abbia concesso alla persona

non-nata un diritto siffatto? Non ci sono cose come persone non-nate fluttuanti nell’aria in attesa

che una donna desiderosa di avere un bambino dica loro: «Prego, accomodatevi.»

Ma si potrebbe sostenere che esistono altri modi in cui si può acquisire un diritto all’uso del

corpo di un’altra persona, modi diversi da quello di essere invitati a usarlo da parte della persona

in questione. Supponiamo che una donna abbia volontariamente rapporti sessuali, consapevole

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

109

della probabilità di restare incinta, e resti effettivamente incinta; non è forse in parte responsabile

per la presenza, di fatto per l’esistenza, della persona non-nata dentro di lei? Senza dubbio non

l’ha invitata. Ma la stessa parziale responsabilità della donna per la sua presenza non dà forse

alla persona non-nata il diritto di usare il suo corpo?6 Se così, allora l’aborto sarebbe più simile

al caso del ragazzo che s’impossessa dei cioccolatini che alla interruzione dei collegamenti con

l’apparecchiatura che tiene in vita il violinista – agire in questo modo significherebbe privare il

non-nato di qualcosa cui ha diritto, e quindi significherebbe commettere un’ingiustizia nei suoi

confronti.

E allora ci si potrebbe anche tornare a chiedere se la donna può uccidere o meno il non-nato,

sia pure per salvare la propria vita: se lo ha volontariamente chiamato all’esistenza come può ora

ucciderlo, sia pure per autodifesa?

La prima osservazione da fare a questo proposito è che si tratta di un argomento nuovo. Gli

avversari dell’aborto si sono talmente preoccupati di sottolineare l’indipendenza del feto al fine

di porre il suo diritto alla vita sullo stesso piano di quello della madre, che hanno in genere

sorvolato sul possibile sostegno ottenibile in base alla circostanza che il feto dipende dalla

madre, al fine di stabilire una speciale responsabilità di quest’ultima nei suoi confronti, una

responsabilità che dà al feto nei confronti della madre diritti non posseduti da nessuna persona

indipendente – come il violinista con insufficienza renale che le è completamente estraneo.

D’altra parte, questo argomento darebbe alla persona non-nata un diritto al corpo di sua

madre solo se la sua gravidanza risultasse da un atto volontario, intrapreso con piena

consapevolezza della probabilità di una gravidanza come suo risultato. L’argomento

escluderebbe invece completamente la persona non-nata la cui esistenza è dovuta a violenza

carnale. A meno di non disporre di ulteriori argomenti, allora, giungiamo alla conclusione che

persone non-nate la cui esistenza è dovuta a violenza carnale non hanno diritto all’uso dei corpi

delle loro madri, e pertanto abortire in questi casi non significa privarli di qualcosa cui hanno

diritto e quindi non si tratta di uccisione ingiusta.

6 La necessità di discutere questo argomento mi è stata chiarita dai membri della Society for Ethical and Legal

Philosophy, presso cui questo lavoro è stato inizialmente presentato.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

110

E dovremmo anche osservare che non è per nulla scontato che questo argomento mantenga

tutto quello che promette. Vi sono casi molto diversi tra loro, e i dettagli fanno la differenza. Se

nella stanza c’è aria viziata, e apro la finestra per cambiarla, e un ladro ne approfitta per entrare a

rubare in casa, sarebbe assurdo dire: «Ah, ora il ladro può anche restare, lei gli ha dato il diritto

di usare la propria casa – infatti è parzialmente responsabile per la presenza del ladro lì, perché

ha volontariamente fatto ciò che ha consentito al ladro di entrare, con la piena consapevolezza

che esistono i ladri e i ladri rubano.» Sarebbe ancora più assurdo dire ciò, se avessi avuto sbarre

alla finestre, proprio per impedire ai ladri di entrare, e un ladro fosse riuscito a entrare a causa di

un difetto delle sbarre. Resta parimenti assurdo se immaginiamo che non sia un ladro a entrare

ma una persona innocente per sbaglio o per caso. Consideriamo questa situazione: semi di

persone fluttuano nell’aria come polline, se aprite le finestre uno di questi semi può entrare e

mettere radici sul tappeto o sulla tappezzeria. Non desiderate avere bambini, pertanto fissate alle

finestre delle cortine di protezione a reticolo, le migliori sul mercato. Ma come talvolta, molto di

rado, accade, una delle maglie del reticolo è difettosa; un seme entra in casa e mette radici. La

persona-pianta che ora prende a svilupparsi ha il diritto di usare la casa? Sicuramente no –

nonostante il fatto che siate state voi ad aprire volontariamente le finestre, a tenere in casa

tappeti e tappezzerie, consapevoli che a volte le cortine di protezione presentano delle

smagliature. Qualcuno vorrà sostenere che siete responsabili per il seme che ha messo radici, che

quindi ha diritto alla vostra casa, perché dopo tutto avreste potuto vivere senza tappeti né

tappezzerie, o con finestre e porte sprangate. Ma tutto questo non va – allo stesso modo, infatti,

si può evitare una gravidanza dovuta a violenza carnale con una isterectomia, o badando a non

uscire di casa privi di un’arma (affidabile!).

A mio avviso, l’argomento che stiamo esaminando può al massimo stabilire che vi sono

alcuni casi in cui la persona non-nata ha diritto all’uso del corpo di sua madre, e pertanto in

alcuni casi l’aborto è un’uccisione ingiusta. C’è poi da precisare quali siano questi casi, se pure

ve ne sono. Ma credo che possiamo lasciare la questione aperta, visto che in ogni caso

l’argomento non stabilisce che 1’aborto è sempre un’uccisione ingiusta.

V. Tuttavia, c’è ancora spazio per un altro argomento a questo riguardo. Dobbiamo certo tutti

riconoscere che possono darsi casi in cui sarebbe moralmente indecente staccare una persona dal

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

111

vostro corpo a costo della sua vita. Supponiamo di venire a sapere che il violinista non ha

bisogno di nove anni della vostra vita ma solo di un’ora: tutto quello che dovete fare per

salvargli la vita è trascorrere un’ora in quel letto di ospedale vicino a lui. Supponiamo anche che

lasciargli usare i vostri reni non danneggerà minimamente la vostra salute. Certo, siete stati rapiti

e non avete dato a nessuno il permesso di collegarvi all’apparecchiatura. Nondimeno, mi sembra

chiaro che avreste il dovere di permettergli di usare i vostri reni per quell’ora: rifiutare sarebbe

contrario alla decenza morale.

Di nuovo, supponiamo che la gravidanza duri solo un’ora, e non costituisca minaccia alcuna

alla vita e alla salute. E supponiamo che una donna resti incinta dopo aver subito violenza

carnale. Certo, non ha fatto nulla di sua volontà per portare all’esistenza un bambino. Certo, non

ha fatto assolutamente nulla per dare alla persona non-nata il diritto di usare il suo corpo. Eppure

si potrebbe ben dire, come nell’ultima versione rivista della storia del violinista, che la donna

avrebbe il dovere di permettergli di restare per quell’ora necessaria – sarebbe moralmente

indecente rifiutarsi di farlo.

Ora, alcuni sono inclini a usare il termine ‘diritto’ in modo tale che dal fatto che dovreste

permettere a una persona di usare il vostro corpo per l’ora di cui ha bisogno, segue che quella

persona ha un diritto a ciò, anche se quel diritto non gli è stato concesso da nessuno attraverso

atti né dichiarazioni. Ne segue anche, si può proseguire, che se rifiutate agite in modo ingiusto

nei suoi confronti. Questo uso del termine ‘diritto’ è forse così comune da non poter essere detto

sbagliato; nondimeno, mi sembra una estensione infelice di un concetto che faremmo meglio a

tenere sotto stretto controllo. Supponiamo che la scatola di cioccolatini menzionata prima non

sia stata donata ai due ragazzi congiuntamente, ma solo al maggiore dei fratelli, il quale

comincia a mangiare con fare indifferente i cioccolatini sotto gli sguardi pieni di invidia del

fratello più piccolo. A questo punto forse gli diremmo: «Non devi essere così egoista, Devi

lasciare qualche cioccolatino anche a tuo fratello.» La mia tesi è che semplicemente non segue

dalla verità di quanto detto che il fratello minore ha diritto a dei cioccolatini, Se il ragazzo rifiuta

di darne al fratello, si mostra goloso, meschino, insensibile – ma non ingiusto. Suppongo che le

persone che ho in mente diranno invece che il fratello ha diritto a qualche cioccolatino, e

pertanto l’altro agisce in modo ingiusto se rifiuta di darne al fratello. Ma sostenere ciò significa

oscurate una distinzione importante, vale a dire la differenza tra il rifiuto del ragazzo in questo

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

112

caso e il suo rifiuto nel caso precedente, quando la scatola di cioccolatini viene data a entrambi i

ragazzi congíuntamente, e il fratello minore ha così titolo, da ogni punto di vista, a metà dei

cioccolatini.

Una ulteriore obiezione alli uso del termine ‘diritto’ nel senso che dal fatto che A deve fare

una cosa per B segue che B ha un diritto nei confronti di A per cui A deve fare quella cosa per

lui, fa osservare come in questo modo la questione dell’avere o meno diritto a una cosa viene

fatta dipendere dalla f acílità con cui questa cosa può essere fornita; e ciò appare non solo

sgradevole, ma moralmente inaccettabile. Consideriamo di nuovo il caso di Henry Fonda. Ho

affermato prima di non avere alcun diritto al tocco della sua fredda mano sulla mia fronte

febbricitante, anche se questo fosse l’unico modo di salvarmi la vita. Ho anche affermato che

sarebbe estremamente gentile da parte sua volare dalla West Coast per salvarmi, ma non ho un

diritto nei suoi confronti per cui sarebbe tenuto a fare così. Ma supponiamo ora che non viva

sulla West Coast: deve solo entrare dall’altra stanza, porre una mano sulla mia fronte – e,

miracolo, la mia vita è salva. In questo caso sarebbe tenuto a farlo, rifiutarsi sarebbe moralmente

indecente. Si può forse dire: «Bene, ne segue che lei ha diritto al tocco della sua mano sulla

fronte, e sarebbe ingiusto da parte sua rifiutarsi di farlo»? Si può forse sostenere che ho un diritto

a qualcosa quando è facile da procurare, ma che questo diritto non c’è quando è difficile farlo? t

un’idea piuttosto strana che i diritti di una persona si indeboliscano e scompaiano man mano che

diventi più difficile accordarli con le esigenze di chi dovrebbe soddisfarli.

La mia tesi è pertanto che anche se sarebbe opportuno permettere al violinista l’uso dei vostri

reni per l’ora di tempo necessaria, non dovremmo concluderne che egli ha diritto a ciò –

piuttosto, dovremmo dire che se rifiutate, siete, come il ragazzino che si prende tutti i

cioccolatini senza lasciarne nessuno, egoisti e insensibili, di fatto moralmente indecenti, ma non

ingiustí. E analogamente, anche immaginando un caso in cui una donna incinta a seguito di

violenza carnale dovrebbe permettere alla persona non-nata l’uso del suo corpo per l’ora di

tempo necessaria, non dovremmo essere condotti alla conclusione che la persona non-nata ha

diritto a ciò; la conclusione è, piuttosto, che sarebbe egoista, insensibile, moralmente indecente,

da parte della donna, rifiutarsi di farlo, ma non ingiusto. Certo, le critiche non sono meno gravi;

sono semplicemente diverse. Tuttavia, non c’è bisogno di insistere su questo punto. Se si

desidera dedurre «egli ha un diritto» da «tu devi», si deve nondimeno riconoscere che si danno

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

113

casi in cui non si è moralmente tenuti a consentire a quel violinista l’uso dei propri reni, casi in

cui egli non ha il diritto di usarli e infine casi in cui non ci si comporta ingiustamente verso di lui

se ci si rifiuta. E questo vale anche nel caso della madre e del bambino non-nato. Ad eccezione

dei casi in cui la persona non-nata ha il diritto di esigerlo – e abbiamo lasciato aperta la

possibilità che tali casi possano darsi – nessuno è moralmente tenuto a sacrificare parti

importanti della propria salute, o dei propri interessi e affetti, o dei propri doveri e impegni, per

nove anni, o anche per nove mesi, al fine di mantenere in vita un’altra persona.

VI. Dobbiamo distinguere due specie di samaritani: il buon samaritano e quello che potremmo

chianiare il samaritano minimale, che soddisfa i criteri della decenza morale. La parabola del

buon samaritano è nota:

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté nei ladri, i quali lo spogliarono, lo

caricarono di percosse e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora, un sacerdote, per caso,

scendeva per la medesima strada, lo vide, ma passò oltre. Così pure un levita, sopraggiunto in

quel luogo, lo vide e tirò innanzi. Ma un samaritano, che era in viaggio, arrivatogli vicino, lo vide

e n’ebbe pietà. Gli si accostò, fasciò le sue ferite, versandovi olio e vino; poi, fattolo salire sul suo

giumento, lo condusse all’albergo e ebbe cura di lui. Il giorno dopo prese due denari e li diede

all’albergatore dicendogli: «Abbi cura di lui, e quanto spenderaì dì più, io te lo .restituirò al mio

ritorno». (Luca 10: 30-35).

Il buon samarítano deviò dal suo cammino, con qualcbe costo per sé, per aiutare un altro che ne

aveva bisogno. Non ci viene detto quali fossero le opzioni, vale a dire, se il sacerdote o il levita

avrebbero potuto prestare aiuto con meno di quanto fece il buon samaritano, ma assumendo che

l’avrebbero potuto fare, allora il fatto che non abbiano mosso un dito mostra come non fossero

nemmeno samaritaní mínimali, non perché non erano samaritani ma perché non raggiungevano

la soglia minima di decenza morale.

Tutto questo, naturalmente, è questione di grado, ma una differenza c’è e risulta forse nel

modo più chiaro nella storia di Kítty Genovese, assassinata mentre trentotto persone rimasero a

guardare o ascoltare, senza fare nulla per aiutarla. Un buon samaritano si sarebbe precipitato a

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

114

aiutarla contro l’assassino. 0 forse sarebbe stato necessario un samaritano eccezionale, dal

momento che l’intervento avrebbe messo a repentaglio la sua vita. Ma le trentotto persone non

solo non fecero questo, non si presero neppure il disturbo di usare il telefono e chiamare la

polizia. A samaritani minimali si sarebbe chiesto almeno questo, e il non averlo fatto fu

mostruoso.

Dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano, Gesù disse: «Va’ e fa’ pure tu lo

stesso. » Forse intendeva dire che siamo moralmente tenuti a agire come il buon samaritano.

Forse voleva esortate gli uomini a fare più di quanto è loro moralmente richiesto. In ogni caso,

sembra chiaro che nessuno dei trentotto era rnoralmente tenuto a esporsi a rischio della propria

vita, e del pari che nessuno è moralmente tenuto a sacrificare lunghi periodi della propria vita –

nove anni o nove mesi – per mantenere in vita una persona che non ha alcun speciale diritto

(avevamo lasciato aperta la possibilità di questo) di esigerlo.

In realtà, con una sola classe di eccezioni peraltro piuttosto impressionante, nessuno, in

nessun paese al mondo, è giuridicamente tenuto a fare qualcosa di anche lontanamente simile

per qualcun altro. La classe delle eccezioni è ovvia. Il mio interesse principale qui non è la

legislazione sull’aborto, ma è opportuno rilevare come in nessuno stato dell’Unione si è costretti

per legge a essere un samaritano sia pur rnínimale; non c’è una legge in base alla quale accusare

le trentotto persone che rimasero a guardare mentre Kitty Genovese moriva. Per contro, nella

maggior parte degli stati dell’Unione le donne sono costrette dalla legge non solo a essere

samaritani minimali, tna anche buoni samaritaní nei confronti delle persone non-nate dentro di

loro. Questo di per sé non decide la questione in un senso o nell’altro, perché si può anche

sostenere che leggi siffatte dovrebbero esserci negli Stati Uniti – così come già esistono in molti

paesi europei – leggi che sanciscano almeno un comportamento da samaritani minimali7. Ma

tutto ciò mostra che c’è una grossa ingiustizia nell’attuale legislazione. E mostra anche che i

gruppi che si battono contro la liberalizzazíone delle leggi sull’aborto, di fatto cercando di

7 Per una discussione delle difficoltà implicate, e un esame dell’esperienza europea con talì leggi, si veda Tbe Good

Samarìtan and the Law, a cura dì James M. Ratclìffe, New York, 1966.

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

115

ottenere che si dichiari incostítuzionale l’ammíssibilità dell’aborto in uno stato, farebbero meglio

a adoperarsi per l’adozione di leggi da buon samaritano in generale, o altrimenti a riconoscere la

malafede delle loro azioni.

Penso, tuttavia, che leggi da samaritani minimali sarebbero una cosa, leggi da buoni

samaritani un’altra e ínvero del tutto inappropríata cosa. Ma qui non ci occupiamo di

legislazione. Quello che dovremmo chíedercí non è se si dovrebbe essere costretti dalla legge a

comportarsi da buoni samaritaní, ma se dobbiamo consentire a una situazione in cui qualcuno

viene costretto –dalla natura, forse – a comportarsi da buon samaritano. In altre parole,

dobbiamo ora considerare l’eventuale intervento di terzi. Ho sostenuto finora che nessuno è

moralmente tenuto a sopportare grandi sacrifici per mantenere in vita un altro che non ha diritto

di esigerli, e questo anche quando i sacrifici non comprendono la vita stessa; non siamo

moralmente tenuti a essere dei buoni o comunque degli ottimi samaritani gli uni verso gli altri.

Ma che accade se una persona non riesce a districarsi dalla situazione in cui si è venuta a

trovare? Se ci chiede aiuto? Mi sembra chiaro che si danno casi in cui siamo in grado di prestare

aiuto, casi in cui un buon samaritano potrebbe salvarla. E ora siete li, in quella corsia di ospedale

dopo essere stati rapiti, con la prospettiva di dover giacere in quel letto per nove anni accanto al

violinista. Ma avete la vostra vita da vivere. Vi dispiace, ma semplicemente non riuscite a

concepire di dover rinunciare a una parte così cospicua della vostra vita per salvare questa. Non

potete togliervi da questa situazione e chiedete ad altri di farlo. Alla luce del fatto che il

violinista non ha diritto all’uso del vostro corpo, dovrei considerare cosa ovvia che non abbiamo

il dovere di consentire alla costrizione cui siete sottoposti nel rinunciare a tanta parte della vostra

vita. Possiamo fare quello che chiedete. Non c’è ingiustizia nei confronti del violinista se lo

facciamo.

VII. Seguendo il filo degli argomenti antiabortisti, ho sempre parlato del feto come di una

persona, e ciò che mi sono chiesta è se l’argomento con cui abbiamo cominciato, e che prende le

mosse dall’essere il feto una persona, riesce effettivamente a provare la sua conclusione. Ho

sostenuto che non vi riesce.

Ma naturalmente vi sono argomenti e argomenti, e si può ribattere che ho scelto quello

sbagliato. Si può obiettare che l’importante non è il mero fatto che il feto è una persona, ma che

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

116

si tratta di una persona nei confronti della quale la donna ha un tipo speciale di responsabilità,

derivante dall’essere sua madre. E si potrebbe dunque sostenere che tutte le mie analogie sono

pertanto irrilevanti – perché non c’è una simile responsabilità nel caso del violinista, né Henry

Fonda ha questa speciale responsabilità per me. E la nostra attenzione potrebbe essere richiamata

sul fatto che uomini e donne sono costretti entrambi dalla legge a prendersi cura dei propri figli.

Ho in effetti trattato (brevemente) questo argomento nella quarta sezione; ma una

ricaffitolazione (ancora più breve) può essere opportuna. Sicuramente non abbiamo nessuna

‘speciale responsabilità’ per una persona a meno di non essercela assunta, in modo esplicito o

implicito. Se una coppia di genitori non cerca di evitare la gravidanza, non richiede l’aborto, e al

momento della nascita non dà il bambino in adozione, ma invece lo porta a casa con sé, allora

essi hanno assunto una responsabilità nei suoi confronti, gli hanno concesso dei diritti, e ora non

possono rifiutare di prendersi cura di lui, mettendo in pericolo la sua vita. Ma se invece la coppia

aveva preso tutte le possibili ragionevoli precauzioni contro l’avere un bambino, essi non hanno

una speciale responsabilità per il bambino che viene all’esistenza semplicemente in virtù del loro

rapporto biologico con lui. Possono volersi assumere tale responsabilità o meno. E sostengo che

se assumersi la responsabilità richiede grandi sacrifici, allora possono rifiutarsi. Un buon

samaritano non rifiuterebbe, e in ogni caso non un samaritano splendido, per quanto enormi

possano essere i sacrifici. Ma allora sarebbe stato un buon samaritano ad assumersi la

responsabilità per quel violinista; e così I lenry Fonda, se fosse stato un buon samaritano,

sarebbe volato per me dalla West Coast e si sarebbe assunto la responsabilità per me.

VIII. La mia posizione verrà giudicata insoddisfacente sotto due aspetti da molti di coloro che

sono propensi a considerare l’aborto moralmente inammissibile. In primo luogo, mentre

sostengo che l’aborto non è inammissibile, non sostengo che è sempre ammissibile. Possono ben

esserci casi in cui portare a termine la gravidanza richiede alla madre solo tiri comportamento da

samaritano minimale, e questo è uno standard sotto il quale non bisogna cadere. Sono incline a

considerare come un merito del mio resoconto proprio il fatto che non conclude per un sì o per

un no valido per tutti i casi. Questo resoconto è compatibile e rafforza l’intuizione condivisa

secondo cui, per esempio, è ovvio che una studentessa quattordicenne malata e terrorizzata,

rimasta incinta dopo una violenza carnale, può scegliere di abortire, e che una legislazione che

Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’

117

escluda ciò è una legislazione folle. Ed è inoltre compatibile e rafforza l’intuizione condivisa che

in altri casi ricorrere all’aborto è effettivamente fuori della decenza morale. Così sarebbe per la

donna che lo richiede, e per il medico che lo esegue, se la donna è al settimo mese e desidera

abortire solo per evitare la seccatura di rinviare un viaggio all’estero. Proprio il fatto che gli

argomenti su cui ho richiamato l’attenzione trattano tutti i casi di aborto, o anche tutti i casi di

aborto in cui la vita della madre non è in pericolo, sullo stesso piano di considerazione morale

avrebbe dovuto renderli sospetti fin dall’inizio.

In secondo luogo, mentre sostengo l’ammissibilità dell’aborto in alcuni casi, non sostengo il

diritto di dare la morte al bambino non-nato. ~ facile confondere le due cose dal momento che

fino a un certo punto dello sviluppo del feto questi non è capace di sopravvivere fuori del corpo

della madre; rimuoverlo da lì comporta la sua morte. Ma si tratta di questioni differenti sotto

aspetti importanti. Ho sostenuto che non siete moralmente tenuti a trascorrere nove mesi a letto,

mantenendo in vita il violinista; ma ciò non equivale in alcun modo a dire che se, dopo aver

interrotto il collegamento con l’apparecchiatura, il violinista sopravvive per miracolo, allora

avete il diritto di tagliargli la gola. Potete staccarvi anche se questo gli costa la vita; ma non

avete alcun diritto di procurargli la morte con qualche altro mezzo, se la vostra azione di

interruzione dei collegamenti non lo uccide. C’è chi resterà insoddisfatto da questo aspetto del

mio argomento. Una donna può essere sconvolta dal pensiero di un bambino, una parte di se

stessa, dato in adozione e mai più visto o sentito. Pertanto può volere non solo che il bambino

venga staccato da lei, ma di più, che muoia. Alcuni avversari dell’aborto sono inclini a giudicare

tutto ciò indegno di qualsivoglia considerazione – con ciò mostrando di essere insensibili a

quella che sicuramente è una potente fonte di disperazione. Nondimeno, concordo che il

desiderio che il bambino muoia non è di quelli che possano giustificare qualcuno, se dovesse

risultare possibile staccare il bambino vivo.

A questo punto, tuttavia, si dovrebbe ricordare che abbiamo solo concesso che il feto sia un

essere umano fin dal momento del concepimento. Un aborto molto precoce non significa

certamente uccidere una persona, e pertanto non è stato trattato dagli argomenti qui esaminati.

John Harris

‘La lotteria della sopravvivenza’ (1975)

Traduzione di P. Donatelli

Supponiamo che le procedure di trapianto di organi siano state perfezionate; in tali circostanze,

nel caso in cui due pazienti in punto di morte possano essere salvati con un trapianto di organi, se

i chirurghi hanno gli organi richiesti a disposizione e non vi è nessun altro paziente bisognoso,

ma se nonostante ciò lasciano morire i loro pazienti, in quel caso saremmo propensi a dire, e

saremmo giustificati nel farlo, che i pazienti sono morti perché i medici si sono rifiutati di

salvarli. Ma se non vi sono organi di riserva a disposizione né altri disponibili in altro modo, i

medici non hanno scelta, non possono salvare i loro pazienti e li debbono lasciare morire. In

questo caso non saremmo propensi a dire che i medici siano in un senso qualsiasi la causa delle

morti dei loro pazienti. Ma supponiamo inoltre che i due pazienti morenti, Y e Z, non siano felici

di essere lasciati morire. Potrebbero sostenere che non è esattamente vero che non vi sono organi

che potrebbero essere usati per salvarli. Y ha bisogno di un nuovo cuore e Z di nuovi polmoni.

Farebbero osservare che basterebbe uccidere una persona sana per poterne asportare gli organi e

salvarli entrambi. Sia noi sia i medici riterremmo probabilmente allo stesso modo che un tale

passo, se tecnicamente possibile, sarebbe fuori questione. Non diremmo che i medici stanno

uccidendo i loro pazienti se si rifiutassero di depredare i sani per salvare gli ammalati. E dato che

questa impresa alla Robin Hood è fuori questione, possiamo dire a Y e a Z che non possono

essere salvati e che quando moriranno saranno morti di cause naturali e non per la negligenza dei

medici. Y e Z non sono però d’accordo; insistono che se i medici omettono di uccidere un uomo

sano e di usare i suoi organi per salvarli, allora i medici sono responsabili delle loro morti.

Molti filosofi hanno ritenuto per diverse ragioni che non dobbiamo uccidere persino se così

facendo potremmo salvare delle vite. Ritengono che vi sia una differenza morale tra uccidere e

lasciare morire. Da questo punto di vista, uccidere A in modo che Y e Z possano vivere non è

ammesso perché abbiamo un preciso obbligo di non uccidere ma un dovere di grado inferiore di

salvare la vita. La massima di A.H. Clough, «Non uccidete ma non c’è bisogno che siate troppo

zelanti nel cercare di tenere in vita», esprime ottusamente questo punto di vista. Possiamo scusare

i morenti Y e Z di non essere molto colpiti dalla massima di Clough. Essi sono d’accordo sul

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

119

fatto che è sbagliato uccidere un innocente e sono pronti a dirsi d’accordo con una proibizione

assoluta contro questo modo di fare. Non sono d’accordo, tuttavia, sul fatto che A sia più

innocente di quanto essi stessi siano. Y e Z potrebbero continuare osservando che il diritto

correntemente riconosciuto dell’innocente a non essere ucciso, persino quando la sua vita

potrebbe dare la vita ad altri, equivale alla decisione di preferire le vite dei fortunati a quelle degli

sfortunati. A è innocente nel senso che non ha fatto nulla per meritare la morte, nia Y e Z sono

anch’essi innocenti in questo senso. Perché dovrebbero essere quelli che muoiono,

semplicemente perché sono così sfortunati da avere organi ammalati? Perché, potrebbero

sostenere, la loro vita o la loro morte dovrebbero essere lasciate al caso, laddove in così tante

altre aree della vita umana crediamo di avere un obbligo di assicurare la sopravvivenza del

massimo numero di vite possibili?

Y e Z sostengono che se un medico si rifiuta di curare un paziente, con il risultato che il paziente

muore, egli ha ucciso quel paziente come se gli avesse sparato, e che, esattamente allo stesso

modo, se i medici rifiutano a Y e a Z i trapianti di cui hanno bisogno, allora il loro rifiuto

ucciderà Y e Z, di nuovo allo stesso modo come se avesse loro sparato. I medici, e quindi la

società che sostiene la loro inazione, non si possono difendere affermando che né ci si aspetta da

loro, né si richiede loro, per legge o convenzione, di uccidere in modo da poter salvare vite (in

verità, proprio il contrario), in quanto questo è solo un appello al costume o all’autorità. Un uomo

che conduce da sé il proprio pensiero morale deve decidere se, in queste circostanze, deve salvare

due vite al costo di una, o una vita al costo di due. Il fatto che le cosiddette «terze parti» non

siano mai state incluse prima in tali calcoli, che non si sia mai pensato prima che fossero

coinvolte, non è un argomento contro il fatto che ora lo diventino. Vi sono, naturalmente, buoni

argomenti contro il permettere ai medici di portarsi via i passanti dalle strade quando hanno tiri

paio di pazienti bisognosi di nuovi organi. Inoltre, gli effetti collaterali dannosi di tale pratica in

termini di terrore e di angoscia delle vittime, dei testimoni e della società in genere ci

fornirebbero ulteriori ragioni per scartare l’idea. Y e Z si rendono conto di ciò e hanno una

proposta, che avanzeranno tra poco, che risponderà ampiamente alle obiezioni contro l’idea di

porre un tale potere nelle mani dei medici ed eliminerà almeno alcuni degli effetti collaterali

dannosi.

Nel caso inverosimile in cui i medici si sentano obbligati a replicare al biasimo di Y e Z, essi

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

120

potrebbero offrire la seguente argomentazione: potrebbero sostenere che un uomo è responsabile

unicamente della morte di qualcuno a cui avrebbe potuto salvare la vita se, in tutte le circostanze

del caso, fosse stato nelle condizioni di salvarlo con i mezzi disponibili. Ciò spiega perché un

medico potrebbe essere un assassino solo se si rifiutasse o trascurasse di curare un paziente che

morirebbe senza cure, ma non nel caso in cui potesse salvarlo facendo qualcosa che non

dovrebbe fare in alcuna circostanza – uccidere un innocente. Y e Z sono facilmente d’accordo sul

fatto che un uomo non deve fare ciò che non deve fare, ma osservano che se i medici, e quindi la

società intera, devono a conti fatti uccidere un uomo, per poterne in questo modo salvare due,

allora il trascurare di farlo comporterà una responsabilità per le morti conseguenti. Il fatto che la

proposta di Y e Z comporti l’uccisione di un innocente non può essere una ragione per rifiutarsi

di considerare la loro proposta, dato che questo non sarebbe altro che un rifiuto di affrontare il

problema in questione, e quindi un modo di evitare di prendere una decisione su ciò che si deve

fare in circostanze come queste. La tesi di Y e Z è che trascurare di adottare il loro progetto

comporterà comunque l’uccisione di individui innocenti, anzi, di un numero maggiore rispetto a

quanto non comporti l’alternativa proposta.

Per difendere quest’ultimo punto, per evitare l’arbitrio di permettere ai medici di selezionare i

loro donatori tra coloro che passano per caso fuori dall’ospedale e il potere spaventoso che

verrebbe posto in questo modo nelle loro mani, per mitigare le preoccupazioni circa gli effetti

collaterali e infine per placare coloro che si domandano perché il povero vecchio A dovrebbe

essere scelto per il sacrificio, Y e Z presentano il seguente piano: essi propongono che si dia a

ciascuno una sorta di numero della lotteria. In qualsiasi momento in cui i medici abbiano due o

più pazienti in punto di morte che potrebbero essere salvati mediante trapianto, e non sia arrivato

loro nessun organo adatto attraverso morti «naturali», possono chiedere a un computer centrale di

fornire un donatore adatto. Il computer prenderà a caso il numero di un donatore adatto e questi

sarà ucciso così che le vite di due o più persone saranno salvate. Indubbiamente, se il piano

dovesse mai essere messo in pratica verrebbe impiegato un eufemismo adatto per «uccidere».

Con il perfezionamento delle procedure di trapianto un tale piano potrebbe offrire la possibilità di

salvare un grande numero di vite che vanno ora perdute. Inoltre, anche prendendo in

considerazione la perdita delle vite dei donatori, il numero delle morti premature ogni anno

sarebbe drasticamente ridotto, così come sarebbe aumentata la probabilità di vivere fino a una

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

121

veneranda età. Se questa fosse la conseguenza dell’adozione di un tale piano, e lo potrebbe essere

senz’altro, non lo potremmo allegramente mettere da parte. Si potrebbe obiettare naturalmente

che un numero maggiore di persone anziane avrebbe bisogno di trapianti per prolungare la

propria vita rispetto a quanto non ne abbiano bisogno i giovani, e perciò il piano porterebbe

inevitabilmente a una società dominata da vecchi. Ma se si ritiene un tale tipo di società

indesiderabile, non c’è alcuna ragione di supporre che non si possa concepire un programma per

il computer tale da assicurare la conservazione di qualsiasi distribuzione di età tra la popolazione

che si ritenga ottimale.

Supponiamo che i viaggi interplanetari rivelassero un mondo di persone come noi, ma che

organizzano la loro società seguendo questo piano. Nessuno viene considerato in possesso di un

diritto assoluto alla vita o alla libertà da ogni ingerenza, ma si fa di tutto per assicurare che il

maggiore numero di persone possibile possa vivere a lungo e felicemente. In un tale mondo un

uomo che tentasse di fuggire quando fosse estratto il suo numero, o che si opponesse sulla base

del fatto che nessuno ha il diritto di prendersi la sua vita, potrebbe benissimo essere considerato

un assassino. Potremmo o meno preferire di vivere in un mondo di questo tipo, ma certamente

potremmo rispettare la moralità dici suoi abitanti. Non sarebbe ovviamente più barbara, crudele o

immorale della nostra.

Y e Z sono desiderosi di concedere un’eccezione all’applicazione universale di questo piano.

Si rendono conto che sarebbe sleale permettere alle persone che si sono procurate esse stesse la

propria disgrazia di beneficiare della lotteria. Vi sarebbe chiaramente qualcosa di ingiusto

nell’uccidere l’astemio B in modo che W (il cui fumo accanito gli ha procurato il cancro ai

polmoni) e X (il cui bere gli ha distrutto il fegato) siano salvati perché si lascino andare di nuovo

al loro vizio.

Quali obiezioni potrebbero essere mosse al piano della lotteria? La prima pagliuzza a cui

aggrapparsi sarebbe il desiderio di sicurezza. Secondo tale piano non sapremmo mai quando li

sentiremmo bussare alla porta. Ogni consegna della posta potrebbe portare una condanna a morte,

ogni suono nella notte potrebbe essere il suono degli stivali sulle scale. Ma, come abbiamo visto,

la probabilità di essere chiamati a fare l’ultimo sacrificio potrebbe essere più sottile di quanto non

sia il rischio attuale di essere uccisi sulle strade, e la maggior parte di noi non giace a letto

tremebondo, terrorizzato alla prospettiva di essere ucciso l’indomani. La verità è che le vite

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

122

potrebbero essere in effetti, con un tale piano, più sicure.

Se rispettiamo l’individualitá e consideriamo ogni essere umano come unico a suo modo,

vorremmo rifiutare una società nella quale sembrerebbe che gli individui siano considerati

meramente come unità intercambiabili in una struttura, il cui valore sta nel suo avere quante più

unità sane possibili. Ma naturalmente Y e Z vorrebbero sapere perché l’individualità di A sia più

degna di rispetto della loro.

Un’altra obiezione possibile è la naturale riluttanza a giocare con le vite degli uomini, la

sensazione che sia sbagliato fare qualsiasi tentativo di riassegnare le opportunità di vita che la

sorte ha determinato, che le morti di Y e di Z sarebbero «naturali», mentre la morte di chiunque

venga ucciso per salvarli sarebbe perpetrata dagli uomini. Ma se siamo in grado di cambiare le

cose, allora decidere di non farlo significa comunque determinare cosa accadrà nel mondo.

Né la presunta differenza morale tra uccidere e lasciare morire offre un modo rispettabile di

rifiutare le richieste di Y e Z. Poiché, se desideriamo veramente controbattere a chi propone la

lotteria, se desideriamo veramente rispondere a Y e Z e non semplicemente liberarcene, non lo

possiamo fare dicendo che la lotteria comporta l’uccisione e sollevare obiezioni per questa

ragione, perché fare ciò non sarebbe altro, come abbiamo visto, che una petizione di principio,

come se trascurare di salvare quante più persone possibili non equivalesse pure ad uccidere.

Optare per la società che Y e Z propongono vorrebbe quindi dire adottare una società in cui la

santità sarebbe obbligatoria. Ciascuno di noi dovrebbe riconoscere un obbligo vincolante di

rinuncìare alla propria vita per gli altri quando è chiamato a farlo. In tale società chiunque

rinnegasse questo dovere sarebbe un assassino. L’obiezione più efficace a questo tipo di società,

e in verità a qualsiasi principio che ci richiedesse di uccidere A in modo da salvare Y e Z è,

sospetto, che siamo vincolati al diritto di autodifesa. Se posso uccidere A per salvare Y e Z allora

egli può uccidere me per salvare P e Q, ed è solo se sarò pronto a essere d’accordo con ciò che

opterò per la lotteria, oppure se sarò pronto a concordare con il fatto che una persona potrà essere

uccisa se così facendo si salverà la vita di un numero maggiore di persone. Naturalmente c’è

qualcosa di paradossale nel fondare le obiezioni al piano della lotteria sul diritto di autodifesa

dato che, per ipotesi, ogni persona avrebbe una probabilità maggiore di raggiungere un’età

veneranda se il piano della lotteria fosse messo in pratica. Non di meno, la sensazione che non si

dovrebbe richiedere a nessuno di sacrificare la propria vita per gli altri rende molte persone

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

123

titubanti di fronte a tale piano, nonostante il fatto che potrebbe essere razionale accettarlo su basi

prudenziali, e forse obbligatorio su basi utilitariste. Di nuovo, Y e Z replicherebbero che il diritto

all’autodifesa si deve estendere a loro come a qualsiasi altro; e se è vero che essi possono vivere

solo se qualcun’altro viene ucciso, sosterrebbero che è anche vero che se vengono lasciati morire,

allora qualcuno che continua a vivere lo fa a loro discapito.

Si potrebbe argomentare che l’istituzione della lotteria della sopravvivenza non è andata

lontano nel mitigare gli effetti secondari dannosi in termini di terrore e di angoscia verso vittime,

testimoni e società in genere, che si verificherebbero se i medici agguantassero semplicemente i

passanti sulle strade e li privassero dei loro organi per amore dello sfortunato. I donatori

dovrebbero essere dopo tutto procurati, e questa operazione, comunque fosse attuata, si

dimostrerebbe verosimilmente angosciante per tutti gli interessati. Il piano della lotteria

eliminerebbe l’arbitrio di lasciare le decisioni di vita e di morte nelle mani dei medici ed

eliminerebbe la possibilità che un tale terribile potere ricada nelle mani di un qualsiasi individuo,

però il terrore e l’angoscia rimarrebbero ugualmente. L’effetto di dover arrestare vittime

presumibilmente contrarie ci renderebbe incerti. Forse solo un lungo periodo di educazione o di

propaganda potrebbe eliminare la nostra avversione. Quello che tale avversione rivela su ciò che

è giusto o sbagliato in tale situazione è tuttavia più difficile da accertare. Potremmo essere

propensi a dire che solo dei mostri potrebbero ignorare la voce della coscienza in merito

all’attuazione della lotteria. Ma le ispirazioni della coscienza non sono necessariamente la guida

più affidabile. Nel caso presente, Y e Z sosterrebbero che tali ispirazioni sono semplici

schifiltosità, un eccessivo indulgere alla propria sensibilità che non tiene in debito conto il costo

in vite umane. La morte, ci rammenterebbero Y e Z, è un’esperienza angosciante ogni volta e a

chiunque accada. Perciò, meno accade meglio è: le vittime e i testimoni che rimarranno

angosciati in conseguenza degli effetti collaterali del piano della lotteria saranno comunque meno

di coloro che soffrirebbero in conseguenza degli effetti collaterali della decisione di non istituirlo.

Da ultimo, si potrebbe portare un’obiezione più limitata, non all’idea di uccidere per salvare

vite, ma al coinvolgimento di «terze parti». Perché, così procede l’obiezione, non dovremmo dare

il cuore di X a Y o i polmoni di Y a X, in modo da salvare lo stesso numero di vite e non mettere

a rischio la vita di nessun altro? La risposta di Y e Z a questa obiezione si discosta rispetto alla

loro precedente linea di argomentazione. Emendare il loro progetto in modo che il

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

124

coinvolgimento delle cosiddette «terze parti» sia escluso violerebbe, sostengono Y e Z, il loro

diritto a godere della stessa considerazione e dello stesso rispetto degli altri membri della società.

Essi sostengono che tale proposta equivarrebbe a trattare gli sfortunati che hanno bisogno di

nuovi organi come una classe della società le cui vite sono considerate di valore minore rispetto a

quelle dei suoi membri più fortunati. Quale possibile giustificazione ci potrebbe essere per

selezionare un gruppo di persone, che saremmo giustificati a usare come donatori, anziché un

altro? L’idea nella mente di coloro che proporrebbero un tale passo dovrebbe essere più o meno

questa: dato che Y e Z non possono sopravvivere, dato che stanno per morire comunque, non c’è

alcun male nell’inserire i loro nomi nella lotteria; infatti, la probabilità della loro morte non può

con ciò essere aumentata e sarà infatti quasi certamente ridotta. Ma ciò significa esattamente

ignorare tutto quanto Y e Z hanno detto. Poiché, se il loro piano della lotteria fosse adottato, non

morirebbero affatto – la loro probabilità di morire non è maggiore o minore di qualsiasi altro

partecipante alla lotteria di cui potrebbe essere estratto il numero. Svanisce, perciò, questo

motivo per limitare la selezione dei donatori agli sfortunati. Ogni altro motivo per farlo

discriminerebbe Y e Z come membri di una classe le cui vite sono meno degne di rispetto di

quelle degli altri membri della società.

Si potrebbe sostenere, con maggiore plausibilità, che i morenti che non possono essere salvati

mediante trapìanto, o con qualsiasi altro mezzo, dovrebbero costituire il gruppo di selezione

prioritario per il programma del computer. Ma quanto deve essere lontana la morte per un uomo,

affinché venga classìficato come «morente»? Coloro che vengono così classificati potrebbero

sostenere che i loro ultimi giorni o settimane di vita hanno per loro tanto valore (se non

maggiore) quanto ne ha il periodo possibilmente lungo che rimane agli altri. Sospetto che il

problema di restringere la classe dei possibilì donatori senza discriminare ingiustamente certe

sottoclassi della società sia insolubile.

Tale è la situazione della lotteria della sopravvivenza. Gli utilitaristi devono essere in suo favore

e gli assolutisti non possono muovere obiezioni facendo riferimento al fatto che comporta

l’uccisione di un innocente, poiché il caso di Y e Z è tale che qualsiasi alternativa non può che

coinvolgere anch’essa l’uccisione dì un innocente. Se l’assolutista desidera conservare la sua

obiezione deve indicare qualche differenza moralmente rilevante tra l’uccisione positiva e

negativa. Questa sfida apre la porta a un ampio tema con un’intera biblioteca di letteratura in

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

125

merito, ma Y e Z stanno morendo e non hanno il tempo di esplorarla esaurientemente. Nel loro

caso la caratteristica più verosimile che potrebbe permettere questa differenza morale è l’intento

malevolo degli stessi Y e Z. Un assolutista potrebbe certo sostenere che, mentre nessuno si

prefigge la morte di Y e Z, né li desidera necessariamente morti, o aspira alla loro morte per

qualsiasi ragione, essi invece intendono veramente uccidere A (o farlo uccidere). Ma Y e Z

possono replicare che la morte dì A non rientra affatto nel loro progetto; desiderano

semplicemente usare un paio dei suoi organi, e se non può vivere senza ... tanto peggio! Nessuno

più di Y e Z sarebbe felice se gli organi artificiali potessero andare bene allo stesso modo, e

rendere così superfluo il piano della lotteria.

Rimane, forse, ancora una versione dell’argomento assolutista. Questa richiede di prendere

una posizione orwelliana su alcuni principi di comune decoro. L’argomento sarebbe allora che

persino l’inoltrarsi in questa sorta di calcoli «macabri» che Y e Z propongono dimostra una

sensibilità ottusa, una mente corrotta e viziata. Forme di questo argomento sono state avanzate

recentemente da Noam Chomsky1 e da Stuart Hampshire2 . Gli infaticabili Y e Z negherebbero

naturalmente che i loro calcoli siano in alcun senso «macabri», e li presenterebbero come la via

più umana disponibile in tali circostanze. Inoltre, sosterrebbero che la posizione orwelliana sul

decoro è il prodotto dì una mente chiusa e incapace di argomentazione razionale. Qualsiasi difesa

ragionata di un tale principio deve appellarsi a nozioni come il rispetto per la vita umana, come in

effetti accade nell’argomento di Hampshire, e Y e Z potrebbero dimostrarle compatibili con la

loro posizione.

Si può rispondere a Y e Z? Forse solo affidandoci all’intuizione morale, all’insistenza sul fatto

che sentiamo che vi è qualcosa di sbagliato nella lotteria della sopravvivenza e alla nostra fiducia

che questo sentimento è ispirato da una qualche differenza moralmente pertinente tra determinare

la morte di A e determinare le morti di Y e Z. Sarebbe interessante sapere se noi riusciremmo a

conservare tale fiducia nelle nostre intuizioni se dovessimo essere messi di fronte a una società in

cui la lotteria della sopravvivenza fosse operante e accettata da tutti, constatando che essa

salvasse molte vite che altrimenti andrebbero perdute.

1 I nuovi mandarini. gli intellettuali e il potere in America, Einaudi, Torino, 1973. 2 ‘Morality and Pessimism’, nel suo Public and Private Morality, Cambridge University Press, Cambridge, 1978.

John Harris, ‘La lotteria della sopravvivenza’

126

Vi sarebbero, naturalmente, notevoli dìfficoltà concrete nel modo di realizzare la lotteria. In

moltissimi casi sarebbe angosciosamente difficile decidere se una persona si è procurata la

propria sfortuna o meno. Vi sono molteplici modi in cui una persona può contribuire alla sua

difficile situazione, e il compito di decidere fino a che punto, e quanto decisamente, una persona

sia essa stessa responsabìle della sua sorte sarebbe spaventoso. E in quei casi in cui potremmo

essere sicuri che una persona sia innocente della responsabilità della sua difficile situazione,

saremmo in grado di acquisire questa sicurezza in tempo per salvarla? Il piano della lotteria

sarebbe un’arma pericolosa nelle mani di qualcuno desideroso e capace di farne cattivo uso.

Potremmo mai sentirci sicuri che la lotteria non sia nelle mani di programmatori di computer

senza scrupoli? Forse dovremmo essere riconoscenti al fatto che tali difficoltà pratiche rendono la

lotteria della sopravvivenza una conseguenza improbabile dei perfezionamento dei trapianti. O

forse dovremmo essere costernati.

Può essere che vorremmo dire a Y e a Z che le difficoltà e i pericoli del loro piano sono un

prezzo troppo grande da pagare in cambio dei suoi benefici. Ma deve anche essere chiaro,

tuttavia, che vi è un alto prezzo da pagare, forse uno persino più alto, nel rifiutarlo. Quel prezzo

sono le vite di Y e di Z e di molti come loro, e ci inganniamo se supponiamo che la ragìone per

cui rifiutiamo il loro piano è che accettiamo il sesto comandamento3.

33 Devo dei ringraziamenti a Ronald Dworkin, Jonathan Glover, M.J. Inwood e Anne Seller per proficui commenti.

Sinossi dei film1

Wall Street (1987)

Oliver Stone2

Min.

0 Sotto i titoli, New York va a lavorare. Buddy arriva in ufficio e il collega Dan consiglia di

lasciare il lavoro. Il vicino di scrivania, Marv, promette che ‘faremo uno sterminio oggi’, la

prima delle molteplici metafore di guerra e/o di caccia.

Alle 9.30, la borsa si apre con attività frenetica.

5 Bud promette al suo cliente telefonico, Howard che la borsa è in rialzo, ma Howard

riattacca, lasciando Bud con un debito di $7.000, che il capo ufficio Mannheim attribuisce a

Bud.

Marv: ‘fra cinque minuti, le informazioni sono storia’.

Marv ricorda a Bud di chiamare Gordon Gekko (GG); Marv ricorda con ammirazione che

GG vendeva azioni nella NASA 30 secondi dopo il disastro Challenger.

10 Nel bar, i colleghi del padre di Bud scherzano sul futuro della loro aerolinea, la Bluestar. Il

padre non capisce come, con i suoi guadagni, Bud ha sempre bisogno di prestiti per sbarare

il lunario. Il padre riferisce che la Bluestar è salva perché, in una sentenza giudiziaria

ancora non-pubblicata, è assolta dalla responsabilità per una sciagura di qualche anno

prima.

Il giorno seguente, il compleanno di GG, Bud si reca al suo studio per consegnargli una

scatola di sigari cubani (illegali negli USA). Deve aspettare più di due ore per un’udienza di

5 minuti.

15 GG apprezza la perseveranza di Bud, ma vuole informazione da lui. Bud suggerisce che le

azioni di Terafly sono in rialzo, ma GG non si fa persuaso: ‘dimmi qualcosa che non so’. 1 Inevitabilmente, le scelte di riportare solo alcuni aspetti dell’azione e del dialogo sono state guidate dai miei interessi (anche didattici): nessuna descrizione di alcuni dei passaggi può essere filosoficamente ‘innocente’. I numeri a margine corrispondono (+ o -) al lasso di tempo dall’inizio dell’azione 2 Oltre all’inevitabile parzialità, questo riassunto riferisce alcuni dettagli delle operazioni di borsa che non sono essenziali per capire la posizione morale di Bud di volta in volta: le cifre che vengono riportate per spiegare l’azione e gli atteggiamenti non sono ‘oggetto d’esame’.

Sinossi di Wall Street

128

Bud anticipa la notizia sul caso Bluestar e riferisce che avrà nuovi aerei e nuove rotte, ma

GG ha paura dei sindacati.

Bud lascia il suo biglietto con GG.

20 Tornato nel proprio ufficio, Bud dice di non volere lavorare fino a sessant’anni. GG

chiama, ordinando di comprare azioni nella Bluestar.

La mattina seguente, Bud legge nel Wall Street Journal l’assoluzione della Bluestar.

A pranzo con GG, Bud riferisce i guadagni sulle azioni Bluestar, e dice di non averne

comprato per se stesso perché ‘non sarebbe stato legale’. GG gli dà un assegno da $1M da

utilizzare in borsa e gli dice di compare un vestito decente presso il suo sarto. Bud: ‘sono

un vincente’.

25 Bud sta studiando l’andamento del mercato quando arriva Lisa, ‘amica di Gordon’, che gli

offre sesso e droga.

Il giorno seguente, le azioni Terafly sono in calo.

Al suo circolo, GG gioca a squash con Bud e gli racconta la sua diffidenza nei confronti

della società perbene. Bud ammette le perdite su Terafly.

30 Adesso, GG sa che il padre di Bud lavora alla Bluestar. Il potere dell’informazione:

‘investo solo sul sicuro’. I soliti investitori non influiscono l’andamento del mercato,

perché ‘sono pecore e le pecore vanno scannate’. ‘Serve gente povera, furba e affamata ...

senza sentimenti’. Vuole che Bud scopra informazione per lui.

Nella limousine, GG si lamenta del comportamento sleale di Sir Lawrence Wildman (LW),

e manda Bud a spiarlo. In risposta alle remore di Bud, GG gli ricorda che anche le

informazioni sulla Bluestar non erano pubbliche al momento in cui GG le ha usate: ‘devi

svegliarti; sto parlando di ricchezza’.

Prima di lasciare Bud, GG fa l’esempio della differenza tra un barbone e un impiegato: ‘è

semplice fortuna?’. Bud accetta la missione LW.

35 Bud segue LW in uffici e ristoranti e poi al suo jet; scopre che LW è diretto in

Pennsylvania. Riferisce a GG e insieme desumono che LW sta per comprare Anacott

Acciaio. GG decide di comprare le azioni di Anacott attraverso Bud, che deve spargere la

voce, anche al giornale con un messaggio in codice.

Il giorno seguente, le azioni di Anacott salgono verso $50, il limite fissato da GG.

Sinossi di Wall Street

129

40 Bud viene interrogato da Mannheim sulle sue attività (‘i soldi che facciamo creano posti di

lavoro’).

Tutti comprano Anacott e il prezzo raggiunge $51.

La sera, Bud si reca alla casa al mare di GG e viene presentato alla ‘banda’. Cerca di fare

impressione su Darien disprezzando un dipinto, ma lei spiega che GG è un astuto

investitore in arte e negli arredi di casa. Bud la invita a uscire insieme.

45 LW arriva alla casa di GG (e forse riconosce Bud?). LW si lamenta dell’interessse di GG

per le azioni Anacott, perché predice che GG smantellerebbe la compagnia.In risposta, GG

elenca i licenziamenti di cui LW è stato responsabile nelle società da lui comprate. LW

offre di comprare Anacott a $65 all’azione. Bud dice che valgono $80. GG cerca di fissare

il prezzo a $72. GG accusa LW di aver comprato il titolo ‘Sir’ e di aver venduto la madre;

accusa controcambiata (e vera in entrambi i casi?). LW offre $71 per Anacott. GG: $71,50.

Affare fatto, LW esce. Bud cita Sun Tzu: ‘tutta la guerra si basa sull’inganno’

50 La mattina seguente, GG mette $800,000 a disposizione di Bud e lo informa che forse

Darien è disponibile.

Bud va da Roger, un amico di università e avvocato, per proporlo di entrare nel giro delle

informazioni riservate. Roger esprime i suoi scrupoli, ma Bud dice che ‘tutti lo fanno’ e

Roger cambia idea. Lo zio di Roger, socio anziano dello studio, tiene nel suo ufficio tutti i

segreti della finanza.

Bud si improvvisa adetto alle pulizie per aver accesso agli uffici e copiare i documenti

durante la notte; una volta viene sorpresa da una segretaria, si scusa e esce.

55 Bud passa le informazioni raccolte a GG.

Al bar con Darien, Bud parla del suo progetto di ritirarsi dalla finanza prima dei trent’anni.

Nel hangar della Bluestar, il padre di Bud dice che stanno licenziando. Bud ripaga i suoi

debiti con un dividendo. Il padre: ‘i soldi sono una grande rottura della palle’.

Alla casa di GG, i suoi legali danno a Bud una procura per usare i suoi soldi; i proventi

verranno versati su un conto nelle Isole Cayman.

60 Usando il telefono pubblico, Bud raccomanda le azioni Teldar a Roger.

Lynch sta licenziando uno degli anziani dell’ufficio e, poi, annuncia che Bud è stato il

campione del mese precedente.Bud viene promosso ad un ufficio privato.

Sinossi di Wall Street

130

Bud ispeziona un appartamento di lusso con vista fiume; offre $950,000; Damien lo arreda

in modo stravagante (con mattoni finti e dipinti perturbanti).

65 Bud e Damien cucinano una cena a lume di candela. Guardando la città mentre Damien

dorme, Bud si chiede se è tutto vero.

Ad un’asta, GG compra un dipinto per $2,100,000 e parla con Damien del loro passato

insieme. Nessuno dei due crede nell’amore.

70 Marv sorprende Bud mentre sta dando istruzioni a Frank riguardo all’affare Teldar; Bud

spinge Marv fuori dal suo ufficio.

Le azioni Teldar cominciano a salire; la commisione di sorveglianza (StockWatch) inizia ad

interessarsi alle manovre.

Alla riunione degli azionisti Teldar, i dirigenti vogliono respingere l’offerta di GG. GG

prende il microfono e pronuncia il suo ‘Elogio dell’avidità’: (i) i dirigenti sono burocrati

strapagati che gestiscono la società male perché non rishciano i propri soldi; (ii) la legge del

mercato è quella dell’evoluzione: ‘o si funziona o si è eliminati; (iii) GG è un ‘liberatore’;

(iv) l’avidità è valida, giusta e chiarificatrice; (v) si deve essere avidi di vita, amore,

conoscenza e denaro; (vi) l’avidità salverà Teldar e gli Stati Uniti. Applauso.

75 Bud decide di comprare la Bluestar, che è una ‘gemma grezza’ al costo di $10 all’azione.

Sul suo aereo, GG esprime le sue riserve riguardo ai sindacati. Bud fa notare che la

compagnia ha $75M in fondi pensione, e vuole essere ‘co-pilota’ nel far funzionare

l’azienda perché ha ‘parecchi amici lì dentro’. Secondo Bud, si può ridurre costi

sull’equipaggio: ‘posso parlare con quella gente, si fida di me ... mio padre può aiutarci a

ottenere i tagli’. GG acconsenta.

80 Alla casa di Bud, GG viene presentato ai sindacalisti della Bluestar, tra cui il padre di Bud.

GG spiega il suo piano per mettere la linea in sesto, tagliando 20% dello stipendio e

aggiungendo 6 ore la settimana per un anno. Bud illustra la necessità di ammodernare, di

pubblicità e di espansione. I sindacalisti sono scettici.

Bud cerca di convincere il padre che, senza GG, la Bluestar è destinata alla rovina. Il padre

rifiuta di misurare il successo in termini di denaro. Bud lo rimprovera di aver le priorità

sbagliate.

Sinossi di Wall Street

131

85 La commisione di sorveglianza ha notato i movimenti su Teldar e ha convocato Roger a

mostrare i libri contabili. Bud cerca di tranquillizzare Roger: ‘io sono l’uomo invisibile ...

noi siamo invulnerabili’.

Bud non sapeva che Roger stesse lavorando al piano ‘industriale’ della Bluestar per conto

di GG. Da nuovo presidente della linea, Bud è presente alle trattative di finanziamento, in

cui i banchieri insistono sulla rottamazione dell’azienda come condizione del prestito.

90 Bud va a protestare con GG, che si giustifica dicendo che la Bluestar ‘èsmontabile’. Però,

Bud ha dato la sua parola al suo padre. Per GG ‘è una questine di soldi’; Bud gli chiede

‘quando è che basta?’ GG: ‘è un gioco a somma zero ... i soldi non si fanno, si trasferiscono

... io non creo niente’. GG fa l’esempio del dipinto comprato per $60,000 che adesso vale

$600,000: ‘l’illusione è diventata realtà’ GG vuole sapere da che parte sta Bud e ordina ai

suoi di restare in silenzio sull’operazion Bluestar.

95 Bud confessa a Darien cosa sta succedendo: ‘mi guardo allo specchio e non mi piace quello

che vedo’. Darien è leale a GG e lascia Bud.

Bud vende il suo appartamento.

Il padre di Bud è in ospedale dopo un attacco di cuore. Bud si scusa per le cose dette e dice

di aver un piano per salvare la Bluestar, ma vuole il permesso del padre per parlare con i

sindacati.

100 Bud spiega il suo piano ai sindacalisti. Poi va da LW offrendo l’azienda a $18 con la

cooperazione dei sindacati in cambio di una promessa di non smembrarla.

Nel suo ufficio, Bud cerca di scusarsi con Marv e gli raccomanda Bluestar, che sta a

$19,50. Offre lo stesso consiglio a Mannheim, che dice ‘il principale guaio del denaro è che

ti fa fare cose che non vorresti fare’. Bud sparge al voce anche attraverso il giornale e le

azioni salgono a $21.

GG è arrabbiato per un’eventuale fuga di notizie, ma comincia a comprare a $22.

Quando Bluestar raggiunge quota $22e7/8, Bud dice di vendere.

I sindacalisti vanno da GG e tolgono il loro appoggio al suo piano; GG li manda a quel

paese e comincia a vendere a $23.

Tutto il mercato vende tranne LW, che compra a $18.

Sinossi di Wall Street

132

GG chiama Bud minacciando lo. Bud consiglia di vendere a $16,50, due minuti prima della

chiusura della borsa. GG vende.

105 GG sente alla tv che LW era dietro alla manovra.

Il giorno seguente, nell’ufficio di Bud, tutti lo evitano perché gli ufficiali della

commissione di sorveglianza sono presenti per arrestarlo.

110 Nel parco, GG schiaffeggia Bud e elenca gli affari fatti insieme: ‘ti ho dato tutto’. Bud

ammette di aver voluto essere GG.

La polizia prende il nastro dell’incontro.

Nella sua macchina il padre, guarito, dice ‘ha restituito i soldi e hai detto la verità - sei alla

pari ... costruisci qualcosa e non vivere di compravendita’.

115 Bud entra nel palazzo di giustizia, sapendo di andare in galera.

28 giorni dopo (2003)

Danny Boyle

Min.

0 In un laboratorio di Cambridge, uno scimpanzé con elettrodi attaccati alla testa è attorniato

da schermi su cui si proiettano scene di violenza urbana.

Nonostante le proteste del tecnico, animalisti rilasciano gli scimpanzé, che sono contagiati

di rabbia; una degli animalisti viene morsa.

5 28 giorni dopo, Jim, intubato in un ospedale deserto, si sveglia e va in cerca di qualcuno;

trova cibo e bevande nelle macchinette; anche i telefoni sono morti.

Jim gira per Londra ma non incontra nessuno.

10 Quando trova soldi per terra, li raccoglie; un vecchio giornale parla dell’evacuazione della

città e i bigliettini attaccati al ponteggio testimoniano di famiglie spezzate.

Nella navata di una chiesa, Jim trova un ammasso di cadaveri, tra cui spunta un prete

rabbioso, che Jim uccide; attaccato da altri infetti, Jim fugge.

15 Inseguito dagli infetti, Jim viene salvato da Mark e Selena, che fanno esplodere una

stazione di servizio.

Nel loro nascondiglio nella metropolitana, Jim racconta il suo incidente di bicicletta e

Selena gli spiega la diffusione del virus: ‘non c’è più un governo’. Non si può uscire da soli

o di notte.

20 I tre s’incamminano verso la casa di Jim lungo la ferrovia. La casa sembra normale, ma i

genitori si sono suicidati tenendo una foto di Jim da bambino.

Mark racconta il tentativo di fuga della sua famiglia: ‘i soldi erano inutili’ e gli infetti non

erano distinguibili nella ressa.

25 Mentre Jim ripercorre le sue memorie di famiglia, la candela che tiene in mano attrae degli

infetti (i suoi vicini di casa); Selena e Mark uccidono gli aggressori, ma Mark è stato

contagiato; Selena lo uccide con il suo machete senza esitazione (‘hai venti secondi per

decidere’)

Selena sta spiegando che ‘i progetti sono inutili’, quando vedono luci natalizie su un

grattacielo.

Sinossi di 28 giorni dopo

134

30 L’entrata dell’edificio è intasata da carrelli della spesa; Jim e Selena salgono, ma Jim sta

crollando di malnutrizione. Quando arrivano gli infetti, Frank li ferma e fa entrare Jim e

Selena nel suo appartamento.

Con la figlia Hannah, Frank festeggia l’arrivo di Jim e Selena con crema di menta.

Spengono le luci.

35 Nonostante la mancanza di acqua, Jim si rade. Jim ringrazia Selena per avergli salvato la

vita.

Il tetto del palazzo è pieno di secchi per catturare l’acqua piovana (ma non basta, neanche

in Inghilterra).

Alla radiolina, sentono un messaggio diffuso dall’esercito che promette un rimedio a nord

di Manchester.

Hannah dice, ‘abbiamo bisogno di voi quanto voi di noi’

40 Percorrono una Londra deserta nel taxi di Frank, rischiando di passare attraverso un tunnel

pieno di macchine sfasciate.

Quando una gomma si buca, arrivano i topi, che sono segno dell’avvicinarsi degli infetti.

Per un pelo, i nostri riescono a scappare.

45 In un supermercato abbandonato, fanno rifornimento di cibo e bevande: tranne le mele

irradiate, solo la frutta è marcia. Frank lascia la sua carta di credito.

Si fermano per fare benzina da un’autocisterna. Jim entra nel ristorante, che è pieno di

cadaveri, e viene aggredito da un bambino infetto (‘ti odio’). Lo uccide.

50 Si fermano presso un monastero in rovine per mangiare e vedono una famiglia di cavalli.

Jim e Selena riflettono sul fatto che non ci sarà nuova musica o nuovi film. Selena bacia

Jim.

Selena, che era farmacista prima del disastro, prende una pillola per dormire all’aperto.

55 Jim sogna di essere stato abbandonato; chiama Frank ‘papà’.

Rimessi in marcia, trovano Manchester in fiamme; i veicoli dell’esercito al blocco 42

sembrano abbandonati.

60 Un goccio di sange infetto cade nell’occhio di Frank e lui allontana Hannah; i soldati

nascosti nel bosco lo uccidono e accompagnano i superstiti alla loro base.

Sinossi di 28 giorni dopo

135

65 Magg. West li accoglie con l’offerta di una doccia calda. Jim e Selena parlano della

situazione di Hannah e poi si baciano.

West spiega che il promesso ‘rimedio’ è la difesa e non un farmaco; illustra le fortificazioni

e la cucina (‘il primo passo verso la civiltà’). I soldati tengono incatenato uno dei loro

(Mailer) che è stato contagiato: gli infetti non faranno pane e non coltiveranno, ma bisogna

sapere quanto tempo sopravvivono con il virus.

70 Per festeggiare l’arrivo di Jim, Selena e Hannah, West vuole offrire una frittata, ma le uova

sono marce.

I soldati aspettano ‘il ritorno della normalità’, definita da Farrell come l’assenza di uomini,

e da West come ‘persone che uccidono persone’. Hannah vuole seppellire il suo padre.

L’attacco degli infetti viene respinto con un massacro.

75 I soldati tentano di prendere il machete di Selena e di stuprarla, ma Jim e West li fermano.

Jim confessa l’uccisione del bambino infetto a West, che spiega di aver promesso donne ai

suoi per assicurare un futuro: non permetterà che Selena e Hannah partano.

80 Jim e Farrell sono incatenati e vengono portati nel bosco per essere giustiziati, ma

scappano.

Fuori dal recinto della villa, Jim vede passare un aereo.

I soldati vogliono stuprare Selena e Hannah, ma Selena chiede di essere lasciata sola per

cambiare vestiti.

85 Mentre Selena e Hannah prendono stupefacenti, suona l’allarme al blocco 42.

Al blocco, i soldati cercano di sbucare Jim, ma lui riesce ad ammazzarne uno; e il loro

rumore ha attirato gli infetti.

Jim torna alla villa e rilascia Mailer.

90 Mentre Hannah, sotto l’effetto dei farmaci, sta stuzzicando le guardie, entra Mailer, che

aggredisce i soldati, contagiandone uno.

Con due infetti liberi nella villa, Jim cerca le ragazze, che sono sempre sotto guardia. Dopo

aver ucciso uno dei soldati, Jim è coperto di sangue e Selena esita prima di usare il suo

machete: riconosce che non sia infetto. I due si baciano.

Sinossi di 28 giorni dopo

136

95 Con Hannah, raggiungono il taxi, ma Magg. West si trova dentro e spara a Jim. Un infetto

lo trascina fuori e Hannah si mette al volante con Jim e Selena dietro. Sfondano il cancello

della villa.

100 28 giorni dopo: Jim è a letto recuperando e Selena è al lavoro con la macchina da cucire.

Stanno costruendo un messaggio visibile dall’alto nel giardino della cascina.

Gli infetti stanno morendo.

Arriva un aereo che vede l’appello di aiuto.

John Q (2002)

Nick Casssavetes

Min.

0 Con i titoli, una macchina bianca viene investita da un camion.

Alla tv in casa Archibald, il presidente Bush ammette il rallentamento dell’economia. La

macchina di Denise viene pignorata dalla banca; John è indietro anche con l’affitto di casa,

perché gli hanno ridotto l’orario lavorativo.

Mikey è appassionato di body-building.

5 In macchina, la famiglia Archibald gioca insieme; davanti alla scuola Mikey offre i suoi

$46 per aiutare.

John e l’amico Jimmy cercano un nuovo lavoro, a tempo pieno, ma sono ‘troppo

qualificati’.

10 Dopo la chiesa, gli Archibald vanno alla partita di baseball, dove Mikey subisce un

collasso.

John lo porta in ospedale e, mentre gli infermieri lo intubano, John deve compilare moduli

e dare la sua tessera dell’assicurazione.

15 Trasferito nel reparto di cardiologia, Mikey è appena sveglio; l’infermiere spiega che la

pressione sanguinea (che sta a 88/58) non deve scendere sotto i 70. Scende a 87.

John e Denise vanno nella direzione ospedaliera, dove il dott. Turner illustra il difetto

cardiaco di Mikey: senza un trapianto non vivrà a lungo, ma il trapianto è rischioso.

Rebecca Payne1, l’amministratrice, suggerisce di curare Mikey senza intervento chirurgico.

20 Il dott. Turner farebbe il trapianto per il proprio figlio.

John crede di aver l’assicurazione, ma la Payne tratta il suo caso come uno da pagare in

contanti, $250,000 di cui 30% in anticipo: ‘offrire un servizio sanitario ha i suoi costi’. La

dott.ssa Allen Klein consiglia agli Archibald di non farsi intimidire.

1 La parola omofona ‘pain’ significa dolore.

Sinossi di John Q

138

Il datore di lavoro di John ha cambiato la sua polizza assicurativa (da ‘PPO’ a ‘HMO’), con

un limite di spesa di $20,000.

John e Denise iniziano il giro della burocrazia, incontrando rifiuti da tutte le parti.

25 La Payne non accetta la dichiarazione di un ‘ricorso’ al posto di un ‘reclamo’; John è già in

debito di $30,000.

Fanno una raccolta in chiesa a favore di John e Denise; loro vendono gli immobili.

La pressione di Mikey continua a scendere.

Jimmy consiglia a John di rivolgersi al giornalista tv Tuck Lampley, che è pronto a fare un

servizio sul caso.

30 Turner sta per dimettere Mikey; Denise chiama John, chiedendolo ‘fa qualcosa’.

John prende l’autobus all’ospedale e trova Turner che sta scherzando con un paziente

guarito (e ovviamente facoltoso). Quando John dice di aver appena pagato $6,000, Turner

risponde che la responsabilità non è sua. John cita il fatto che l’ospedale frutta $75 all’anno

per operazioni di cuore; estrae una pistola e minaccia il dottore.

35 John incatena le porte e prende in ostaggio quelli nel pronto soccorso. Oltre ai dottori

Turner e Klein Allen, sono: la guardia giurata, Max; quello con la mano sanguinante,

Lester; il tirocinante nel pronto soccorso, Maguire; la coppia in procinto di parto, Steve e

Miriam; la signora con bambino, Rosa; l’infermiera al suo primo giorno, Debby; la coppia

di giovani, Julie e Mitch. John distrugge alcune delle telecamere a circuito chiuso.

Quando Lester protesta che gli sanguina la mano, viene medicato da Maguire e John

annuncia il principio, ‘trattamento gratuito per tutti’.

Arriva un’ambulanza con un’uomo ferito da arma da fuoco e John lo fa entrare.

40 Turner non vuole guarire le ferite; John dice ‘faccia finta che le stanno pagando’.

Arriva la polizia; John si identifica al Lt Grimes come ‘John Q’. John vuole che Payne

metta il nome di Mikey sulla lista d’attesa per il trapianto.

45 Miriam sta per partorire; Steve non chiede altro che il bambino sia sano. Tutti gli ostaggi

sono contro Mitch, perché hanno intuito che è stato lui a rompere il braccio a Julie. Turner

ha salvato il ferito.

In reparto di cardiologia, l’infermiere somministra molte droghe a Mikey e gli dà una

statuetta di un campione di body-building.

Sinossi di John Q

139

50 La ragazza nella stanza accanto a quella di Mikey muore.

Mitch chiede a Max perché non si è opposto a John; risponde: ‘non rischio la vita per $8,50

all’ora’. Mitch vuole usare un bisturi contro John.

Arriva il capo della polizia, Monroe, che vuole ‘chiudere in fretta’.

John vuole sapere perché il male di Mikey non è stato rilevato nelle visite annuali; Maguire

suggerisce che le società assicuratrici pagano i medici per non fare esami.

55 Lester afferma che il giuramento di Ippocrate è degli ipocriti: i medici curano solo quelli

con l’assicurazione.

John chiama la polizia per sapere dell’inserimento di Mikey nella lista d’attesa; Grimes

vuole che liberi un ostaggio come segno di buona fede; sono le 16.15 e John dà un’ora di

tempo; la Payne riconosce John attraverso una telecamera.

Mitch aggredisce John e, invece di prendere la pistola di John, Julie spruzza negli occhi di

Mitch e lo prende a calci; Mitch viene ammanetato al termosifone.

60 John rilascia Miriam con Steve e Rosa con bambino: dicono ai giornalisti che John è un

uomo buono.

Payne dice che ci sono 50 millioni di americani senza assicurazione: è un problema

politico.

Gli ostaggi si lamentano della facilità con cui si può procurarsi una pistola. John sta

aspettando un miracolo. Si riprende la scena iniziale dell’incidente stradale.

65 Grimes vuole che Denise cooperi; Payne dice di aver inserito Mikey nella lista.

Lampley intervista Jimmy che ironizza sul ‘valore’ e i valori: ‘c’è qualcosa che è malato,

non qualcuno’.

Un elicottero arriva alla scena dell’incidente stradale.

Monroe vuole infiltrare un tiratore nell’ospedale; Grimes non è d’accordo.

70 Il tecnico di Lampley sta cercando di decriptare le immagini dell’interno dell’ospedale per

metterle in onda.

Alle 17.15, John parla con Denise e Mikey al telefono rosso, che è sotto tiro del cecchino.

75 La Payne si commuove davanti alla tv e inserisce i dati di Mikey per davvero.

Lester avverte John dell’intruso e la pallottola gli colpisce al braccio; il poliziotto cade e

John lo prende a pugni.

Sinossi di John Q

140

80 La folla in attesa fuori dall’ospedale applaude quando, rilasciando il poliziotto (senza

pantaloni), John afferma che ‘quando una persona è malata merita un minimo di aiuto’;

chiede di aver Mikey nel pronto soccorso.

La pressione di Mikey e bassissima; Turner: ‘senza un cuore nuovo non ce la farà’.

John offre il proprio cuore sapendo che i tessuti sono compatibili.

85 Se John fosse morto, Turner prenderebbe il suo cuore per salvare Mikey. John: ‘il mio

compito è di proteggerlo’. Quando Turner dice che la proposta è ‘contro ogni etica’, John

risponde che hanno già ‘passato ogni limite’. Turner: ‘se c’è un cuore disponibile, non lo

lascio inutilizzato’.

I dottori in un altro ospedale tolgono gli organi della vittima dell’incidente stradale.

John scrive il suo testamento lasciando il suo cuore al figlio.

90 Mikey chiede al padre se hanno trovato un cuore nuovo; John gli dà consigli per la vita:

‘non ti lascerò mai’.

La disponibilità di un cuore è segnalata per fax in reparto.

95 John mette una pallottola nella pistola e si mette sul lettino.

Payne annuncia l’arrivo del nuovo cuore tra un quarto d’ora.

John preme il grilletto, ma c’è la sicura. Denise lo chiama ma lui spegne la radio. Lei grida

la notizia attraverso la porta.

Gli ostaggi vengono rilasciati e Lester si traveste da John e si fa arrestare.

100 Mentre John e Denise guardano, operano su Mikey: il cuore funziona

Dibattiti in tv sulla sanità pubblica

Al processo, John è dichiarato colpevole di sequestro di persona e può aspettarsi da 2 a 5

anni di galera. All’uscita, Lester lo chiamo ‘il mio eroe’. Mikey lo ringrazia.

Letture autonome

Percorsi di approfondimento per i non-frequentanti

Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 3), ai non-

frequentanti è richiesto l’approfondimento di uno a scelta tra i tre temi centrali del corso: lo stato

di natura, la punizione e la bioetica. In ogni caso, verrà presupposta una lettura dei testi di base:

anche gli studenti che vogliono proporre un percorso personale devono comunque (e meglio

prima) leggere il materiale di obbligo comune.

1. Lo stato di natura

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Platone (Repubblica, II), di Hobbes, di

Locke, di Beccaria (soprattutto i capitoli introduttivi) e di Rawls.

(b) Film (almeno 2)

In alternativa a Wall Street e 28 giorni dopo, altri film indicati per questo tema sono:

– sull’impunità conferita dall’inivisibilità: L’uomo senza ombra, P. Verhoeven, 2000; L’uomo

invisibile, J. Whale, 1933 (classico adattamento del omonimo romanzo di H.G. Wells1);

– sulla conflittualità uno-a-uno: Duello nel Pacifico, J. Boorman, 1968 (caso in cui i partecipanti

[L. Marvin e T. Mifune] allo stato di natura non hanno una lingua in comune); Heat- La sfida, M.

Mann, 1995 (caso in cui R. De Niro e A. Pacino si fidano reciprocamente solo di continuare la

lotta)

– sulle difficoltà di generare fiducia: Il signore delle mosche, P. Brook, 1963 (versione filmico

del omonimo romanzo di William Golding [1954]; adattato anche in una brutta versione

americana pseudonima [‘H. Hook’] nel 1990); Cidade de Deus/Città di Dio, F. Meirelles, 2002.

1 Alessandra Calanchi, dell’università di Urbino, ha discusso una serie di affascinanti casi di invisibilità nella

letteratura anglo-americana nel suo Dismissing the body, CLUEB, Bologna, 1999, il testo putroppo è in inglese.

Percorsi di approfondimento

142

(c) Letture (almeno 3 a scelta)

Platone, Protagora, 316A-326E (qualsiasi edizione o traduzione: un mito della formazione della

società umana).

D. Hume, ‘Del contratto originario’ (1748) (qualsiasi edizione o traduzione: una critica alla

nozione di contratto come fondativo).

N. Bobbio, ‘La teoria politica di Hobbes’ (1980) nel suo Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 1989,

(ristampato 2004 nella ‘Piccola Biblioteca Einaudi: Filosofia’), pp. 27-71.

T. Magri, ‘Patto e Sovrano’ nel suo (a cura di) Il pensiero politico di Hobbes, Laterza, Bari-

Roma, 1994, pp. 41-63.

G. Sorgi, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, Franco Angeli, Milano, 1996, Parte

II cap. 1 (di questo testo, di difficile reperibilità, c’è una copia a disposizione a ricevimento)

A.E. Galeotti ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostino e N. Vassallo (a cura di) Storia della filosofia

analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 321-54 (esposizione chiarissima della posizione di

Rawls).

2. Giustificare la punizione

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di San Tommaso e di Beccaria

(b) Film (almeno 2)

In aggiunta/alternativa a Wall Street (che è effettivamente di pertinenza relativa a questo tema)

altri film indicati sono:

– sull’uso della pena capitale: Non voglio morire, R. Wise, 1958; Un affare di donne, C. Chabrol,

1988; Decalogo 5, K. Kieslowski, 1988; Dead Man Walking, T. Robbins, 1995; La Vita di David

Gale, A. Parker, 2003;

– sulla questione della giustizia privata: Giustiziere della notte, M. Winner, 1974 (con quattro

seguiti in 20 anni, sempre con un violento Charles Bronson); Taxi Driver, M. Scorsese, 1976;

Una cena quasi perfetta, S. Title, 1996;

Percorsi di approfondimento

143

– sulla punizione a scopi ‘preventivi’: Arancia meccanica, S. Kubrick, 1971; Minority Report, S.

Spielberg, 2002.

(c) Letture (almeno 3)

F. Facchinei ‘Note e osservazioni’ (1765) estratti nell’edizione di Dei delitti e delle pene di

Beccaria a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 164-77.

F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969, cap. ix, esp. pp. 702-20 e 740-7.

M. Foucault, Sorvegliare e punire, (1975) Einaudi, Torino, 1976, Parte II, cap. ii (purtroppo cita

da un’edizione corrotta di Beccaria).

A. Marchesi, La pena di morte, Laterza, Bari-Roma, 2004, cap. I, pp. 3-52.

3. Temi di bioetica

(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Harris e della Jarvis Thomson

(b) Film (almeno 2)

In aggiunta a John Q, film indicati in questa area sono: Frankenstein di Mary Shelley, K.

Branagh, 1994 (uno tra i tanti); Extreme measures – soluzioni estreme, M. Apted, 1996 (sull’uso

di cavie non-consenzienti per fare ricerca); Gattaca, A. Niccol, 1997 (sul controllo genetico);

Mare dentro, A. Amenabar, 2004 (sull’eutanasia). Altre proposte di ‘dilemmi etici’ della

medicina sono ben accette, anche se desunte dalla televisione (ER - Medici in prima linea è una

fonte più probabile di Un medico in famiglia).

(c) Letture

(i) due capitoli coordinati per argomento (ad es. aborto, eutanasia, etica della ricerca medica,

distribuzione di beni sanitari), uno tratto da un libro e uno da un altro, a scelta tra:

L. Ciccone, Non uccidere: questioni di morale della vita fisica, Ares, Milano, 1984.

R. Dworkin, Il dominio della vita: aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni della

comunità, Milano, 1996.

E. Lecaldano, Bioetica: le scelte morali, Laterza, Bari-Roma, 1999.

Percorsi di approfondimento

144

S. Maffettone, Il valore della vita, Mondadori, Milano, 1998.

R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali: confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano,

2003.

A. Pessina, Bioetica, Mondadori, Milano, 1999.

E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vita e Pensiero, Milano, 2000.

P. Singer, Ripensare la vita, Il Saggiatore, Milano, 1994.

(ii) uno sviluppo dell’argomento scelto, facendo riferimento ad almeno due altre letture (capitoli

di libro o articoli di rivista scientifica) individuate attraverso le bibliografie presenti nei libri

studiati, di cui i seguenti sono offerti a titolo esemplificativo:

Eutanasia

D. Neri, Eutanasia, Laterza Bari-Roma, 1995, parte I.

H. Kung, Della dignita del morire, Rizzoli, Milano, 1996.

G. Barazzetti, ‘Diane Pretty e Miss B.: due “casi” morali’, aut aut, N° 318, (2003), pp. 72-82.

Aborto

M. Tooley, ‘Aborto e Infanticidio’, (1972), in G. Ferranti e S. Maffettone (a cura di) Introduzione

alla bioetica, Liguori, Napoli, 1992, pp. 25-56.

(Card.) D. Tettamanzi, L’aborto e la comunità cristiana, Edizioni Paoline, Milano, 1998.

Suggerimenti di lettura autonoma

Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può

essere utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso proprio.

Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)

Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei

migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra

questi possiamo segnalare:

N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori,

Paravia, Torino, 2002 (e poi rielaborato).

Anche dello stesso Abbagnano sono:

Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione

economica nel 1995;

e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:

Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.

Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari ed altri, ha aggiornato gli ultimi volumi

della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto

Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal

2004.

Altri dizionari, quali

Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e

Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,

forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini

tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di

versioni italiane, vedi

Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.

Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente

riscontrabile e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 148).

Suggerimenti di lettura

146

Introduzioni

A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della

disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i

problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:

B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico

del genere);

S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si

pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)

S. Blackburn, Pensa, (1999), Il saggiatore, Milano, 2001;

N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e

T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996

Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,

T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il saggiatore, Milano, 1986.

Specificamente su temi di etica e di teoria politica, possiamo indicare:

E. Lecaldano, Etica, TEA, Torino, 1996;

S. Veca, La filosofia politica, Laterza, Bari-Roma, 1998;

P. Donatelli, La filosofia morale, Laterza, Bari-Roma, 2001; e

A.E. Galeotti, ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostini e N. Vassallo (a cura di), Einaudi, Torino,

2002, pp. 321-54 (con bibliografia ragionata a pp. 548-51).

‘Parafilosofia’

Con questa non-parola s’intendono testi in due categorie.

In primo luogo, ci sono quelli che parlano sì di filosofi e delle loro dottrine, ma cercando di

evitare la pesantezza del discorso scolastico/accademico. Forse l’esempio più di successo di

questo genere è il romanzo:

J. Gaarder, Il mondo di Sofia, (1990), Bompiani, Milano, 1993,

che introduce la protagonista (Sofia) ai vari momenti della storia della filosofia come incontri

personali, e che poi fornisce il punto di partenza per il carteggio (genuino, a quanto pare) tra

una ragazza undicenne e un professore universitario di filosofia:

Nora K. e V. Hösle, Aristotele e il dinosauro (1996), Einaudi, Torino, 1999.

Suggerimenti di lettura

147

Un percorso simile viene tracciato in modi diversi (motivo per cui riportiamo i rispettivi

sottotitoli) da

W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio: i grandi filosofi tra pensiero e vita

quotidiana, (1966), Cortina, Milano, 1996; e

E. Bencivenga, Platone, amico mio: i filosofi rispondono alle grandi domande della nostra

vita, Mondadori, Milano, 1997.

Dello stesso Bencivenga possiamo anche segnalare:

La filosofia in trentadue favole, Mondadori, Milano, 1991.

Il che ci porta alla seconda categoria di ‘parafilosofia’, costituita da scritti la cui ispirazione

deriva da temi o problemi filosofici, ma che li presenta in modi più o meno stravagante. Il

libro di Casati e Varzi fa parte di questo filone.

Senz’altro i classici di questo genere sono I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift e

Candido (1759) di Voltaire. I testi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice attraverso

lo specchio (1872) di Lewis Carroll, il primo di cui costituisce parte dello sfondo del film

Matrix e sembra essere anche di riferimento in Essere John Malkovich. Mentre gli scritti di

Lewis Carroll (pseudonimo di un matematico di professione) sono prevalentemente imperniati

su paradossi logici, tanti dei racconti del Padre Brown di G. K. Chesterton vertono su le varie

forme di fraintendimento e di fragilità umana.

Il grande argentino Jorge Luis Borges scrisse molte parabole che illustrano tematiche

metafisiche, logiche e morali con un tocco sempre leggero ed icastico (perché, diceva, era

troppo pigro per scrivere romanzi), e che sono disponbili in varie traduzioni e collezioni

italiane. Anche divertenti sono i racconti di Achille Campanile e i saggi brevi (spesso redatti

in un primo momento per la rubrica ‘La bustina di Minerva’ sull’Espresso e poi ripubblicati

in vari volumi editi da Bompiani) di Umberto Eco.

Indichiamo per ultimo il libro:

D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, (1980), Mondadori, Milano, 1996

che, dopo un inizio un po’ lento e macchinoso, sviluppa un’esilarante serie di gag spaziali su

temi filosofici.

Prontuario per la presentazione di una tesina

Valore

Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).

Presentazione

La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e

consegnata con almeno venti giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole

sostenere l’esame relativo al corso.

La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla

rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.

La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti

informazioni:

cognome e nome dello studente;

numero di matricola;

titolo del lavoro;

il modulo per cui viene presentato (con codice);

nel caso di un percorso personale, il nome del docente che ha concordato il titolo;

numero arrotondato delle parole; e

data prevista della sessione di esame.

Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme

al materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.

Conteggio delle parole

L’indicazione (pp. 3-4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.

Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font

leggibile di almeno 12pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi

i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura).

Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il

numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute

(2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la

Prontuario per la tesina

149

capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere

manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo.

Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di

letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono

incluse.

Originalità

Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da

qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico ma anche

legale) di plagio.

La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto

vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo

studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di

sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere

l’esame con un altro membro della commissione d’esame.

Citazioni

La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e

dà un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le

parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.

Esempio di parafasi1:

Nel capitolo XXVII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace

come deterrente. Questo ragionamento dipende ...

Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero capitolo

in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta le

parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola

‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto.

Esempio di citazione:

1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne

fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.

Prontuario per la tesina

150

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di

servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte

contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...

Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.

Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’),

doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»).

Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’

nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma,

nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con

parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([

e ]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è

il freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate)

per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa

corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si

aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge

‘corsivo originale’.

Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno

messi con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette.

Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:

Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno

scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più

forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...

Mentre, con testo intero, si ha:

Beccaria osserva come,

[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e

stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa

colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.

Questo ragionamento dipende...

Prontuario per la tesina

151

Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi moderni di word processing

sono in grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali

attrezzature può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.

Note

Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente)

in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per

commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del

ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.

I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del

corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi

primari (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di

più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL.

(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato.

Ad esempio, la paginazione, con parte della pagine e riga, di Platone risale all’edizione di

Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di Bekker del

1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono riportati in

quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla numerazione

delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono suddivisi in

piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che hanno righe numerate,

possono essere citati con il numero fornito nel testo. È comunque da segnalare quale edizione

o traduzione è stata adottata.

(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo in corsivo;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;

casa editrice;

città di pubblicazione;

anno di pubblicazione; e

pagina/e.

Prontuario per la tesina

152

Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,

pp. 63-4.

Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o

16 Beccaria, op. cit., p. 64.

togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’), o

16 Op. cit., p. 64.

Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:

8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p.

62.

9 Loc. cit..

oppure

9 Ibid..

(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ significa ‘lo stesso posto nel testo’).

Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una sequenza di

questo genere:

15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,

pp. 63-4.

16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.

17 Beccaria, op. cit., p. 65.

O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a

chi legge.

(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:

autore;

titolo del articolo tra virgolette;

nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;

titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di

pesce: questa forma è normale solo in Italia);

nel caso di una miscellanea, nome del curatore;

Prontuario per la tesina

153

nel caso di una miscellanea, casa editrice;

nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;

nel caso di una rivista, l’anno e il numero;

anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e

pagina/e.

Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia,

XLI, (1986), p. 14.

che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza

nel pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.

Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo

stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente

forma:

2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura

di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2005, p. 97.

Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un

convegno, si ha:

3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.

190-1.

Bibliografia

In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e

effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non-

frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche

bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico

è escluso dal conteggio delle parole.

L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato

corrisponde a quello delle note con poche varianti:

Prontuario per la tesina

154

(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele,

l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si cita

più di un testo, tutti vanno elencati;

(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;

(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il

secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga;

(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della

casa editrice;

(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;

(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe

successive se il rimando si estende su più di una riga.

così, abbiamo, ad esempio,

Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, Rusconi,

Milano, 1992.

–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere a cura di G. Giannantoni, (4

volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973.

–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,

Milano, 1993.

Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.

Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1932), appendice al suo

Aristotele, trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968.

Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:

Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.

187-214.