Aristotele intro all'etica nicomachea parte 2

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1 Aristotele, Etica Nicomachea, seconda parte Etica Nicomachea III, 1-7: le caratteristiche dellazione Nel libro III dell’Etica nicomachea Aristotele analizza le condizioni dell’azione in generale: volere, scelta, deliberazione. La conoscenza di questi aspetti è però necessaria per caratterizzare l’azione virtuosa (o viziosa). Infatti, solo ciò che è voluto, scelto, deliberato costituisce oggetto di lode e di biasimo. Nel libro III di EN noi troviamo due sezioni non legate tra loro. nei capitoli 1-7 troviamo appunto un’analisi delle caratteristiche essenziali dell’azione in generale, sia buona che cattiva: (i) volontario (ekousion)/involontario (akousion) (capitoli 1-3 e 7); (ii) scelta (cap. 4) (iii) deliberazione (capitolo 5) (iv) rapporto tra vero bene e bene apparente (cap. 6). Poi abbiamo il capitolo 8, che è un capitolo di transizione che conduce Aristotele a parlare nuovamente delle virtù etiche, in particolare di coraggio (cap. 9-12) e temperanza (13-15). L’analisi delle virtù etiche continuerà poi nel libro IV e anche nel libro V (che si occupa della giustizia, anch’essa considerata una virtù etica). Il volontario (III, 1-3; 7) I due aggettivi, volontario e involontario (ekousion e akousion) compaiono per la prima volta per caratterizzare il soggetto che agisce. E’ difficile evitare in italiano di usare termini come ‘volontario’ o ‘volere; ma questo non implica che si possa attribuire ad Aristotele la teoria secondo cui esiste la volontà come facoltà indipendente, separata e distinta dalla ragione e dall’orexis, cioè dalla parte desiderativa dell’anima, come sarà in

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Aristotele, Etica Nicomachea, seconda parte

Etica Nicomachea III, 1-7: le caratteristiche dell’azione

Nel libro III dell’Etica nicomachea Aristotele analizza le condizioni

dell’azione in generale: volere, scelta, deliberazione. La conoscenza di

questi aspetti è però necessaria per caratterizzare l’azione virtuosa (o

viziosa). Infatti, solo ciò che è voluto, scelto, deliberato costituisce oggetto

di lode e di biasimo.

Nel libro III di EN noi troviamo due sezioni non legate tra loro. nei

capitoli 1-7 troviamo appunto un’analisi delle caratteristiche essenziali

dell’azione in generale, sia buona che cattiva:

(i) volontario (ekousion)/involontario (akousion) (capitoli 1-3 e 7);

(ii) scelta (cap. 4)

(iii) deliberazione (capitolo 5)

(iv) rapporto tra vero bene e bene apparente (cap. 6).

Poi abbiamo il capitolo 8, che è un capitolo di transizione che conduce

Aristotele a parlare nuovamente delle virtù etiche, in particolare di coraggio

(cap. 9-12) e temperanza (13-15).

L’analisi delle virtù etiche continuerà poi nel libro IV e anche nel libro V

(che si occupa della giustizia, anch’essa considerata una virtù etica).

Il volontario (III, 1-3; 7)

I due aggettivi, volontario e involontario (ekousion e akousion)

compaiono per la prima volta per caratterizzare il soggetto che agisce. E’

difficile evitare in italiano di usare termini come ‘volontario’ o ‘volere; ma

questo non implica che si possa attribuire ad Aristotele la teoria secondo

cui esiste la volontà come facoltà indipendente, separata e distinta dalla

ragione e dall’orexis, cioè dalla parte desiderativa dell’anima, come sarà in

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epoca moderna. Per A. esistono solo ragione e desiderio (a differenza di

Platone, per il quale esistono tre parti o principi dell’anima, razionale,

irascibile e concupiscibile.’

Prima di definire ciò che è volontario, A. definisce l’involontario, in

maniera tale che si arriverà a definire il primo per opposizione al secondo.

Perché definire volontario e involontario?

EN III, 1109b30-35 (p. 77 Natali): “Dato che la virtù…punizioni”.

La virtù riguarda passioni e azioni, e mentre le azioni volontarie sono

oggetto di lode e biasimo, quelle involontarie sono invece oggetto di

indulgenza e pietà. Ora, la virtù ha a che fare con lode e biasimo, e quindi

con il volontario, più precisamente, con l’azione volontaria.

Ma per definire il volontario, secondo A. bisogna prima definire

l’involontario.

Definizione di involontario (1110a1, p. 77 Natali)

“Sembra che siano involontarie le azioni compiute per forza o per

ignoranza”.

A. individua due casi, (a) involontarietà per forza e (b) involontarietà per

ignoranza.

(a) Involontarietà per forza (EN III, 1)

Si tratta dell’atto il cui principio è completamente esterno, cioè che

avviene senza il minimo contributo da parte dell’agente. Es.: sono

trasportato dal vento e quindi mi sposto. Compio un’azione (mi sposto) ma

indipendentemente da me. In questo caso il principio è esterno a me (il

vento) . Qui il principio è ovviamente quello efficiente, che fa qualcosa.

Ci sono poi una serie di casi controversi (1110a4-13, p. 77 Natali), quelli

in cui agisco per costrizione

(i) o perché ho paura che, se non compio un atto, un male peggiore

arriverà (esempio: commetterò un’azione malvagia perché, in caso

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contrario, uccideranno i miei figli)

(ii) o per un bel motivo (1110b9 ss, p. 79-81 Natali): agisco sulla base del

piacevole e del bello, e in tal caso pretendo che le cose belle e piacevoli

esercitino su di me una violenza, una costrizione.

Il caso (i) è per A. un caso di azione che assomiglia alle azioni volontarie,

perché, nel momento in cui esse sono compiute, sono risultato di scelta (io

scelgo di compiere un atto malvagio piuttosto che la morte dei miei figli. Il

fine dell’azione è questione di opportunità (cioè l’opportunità del fine

dell’azione, che è quello di salvare i miei figli). Perché A. parla solo di

somiglianza? Perché i principi dell’azione, in questo caso malvagia, sono

due: (1) colui che mi obbliga all’azione malvagia (principio esterno

dell’azione); (2) io (principio interno dell’azione): sono io che muovo il

mio corpo per eseguire l’azione malvagia. Ora, gli atti in cui il principio si

trova nell’agente sono atti che l’agente può anche non compiere. Azioni di

questo tipo sono a volte oggetto di lode (1110a20, p. 79 Natali: quando per

esempio si sopporta qualcosa di turpe in cambio di vantaggi (pensiamo ad

esempio a Socrate, che sceglie di andare in prigione e bere la cicuta per

‘salvare’ gli ateniesi)) a volte oggetto di indulgenza (abbiamo già visto il

caso di un’azione malvagia per salvare i propri figli); ma a volte sono

inaccettabili e non possono essere imposte (1110a27-29, p. 79 Natali. Qui

A. cita il caso dell’Alcmeone (tragedia perduta di Euripide), che ha ucciso

sua madre per ordine del padre. In casi di questo tipo bisogna sottrarsi alla

costrizione. A volte però, osserva A., è difficile discernere tra questi

differenti casi. Ma la domanda che in ogni caso viene posta è la seguente:

quando si deve sostenere che un atto è compiuto per violenza (nel senso di

costrizione)? Risposta (1110b1-9, p. 79 Natali): ogni volta che la causa

(aitīa, termine che può essere anche tradotto con ‘responsabilità’) è esterna,

e l’agente non contribuisce in nulla. Invece per i casi visti di azioni che

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potremmo chiamare miste (quelle in cui c’è sia un agente esterno che un

agente interno) andranno valutati caso per caso (leggendo questo passo e in

generale tutta la parte su azione, scelta, deliberazione, si ha l’impressione

che Aristotele abbia in mente spesso il diritto e il giudizio nei tribunali).

Il caso (ii), invece (in cui si pretenderebbe che il bello e il piacevole

esercitino una costrizione esterna) non è per A. un caso di azione compiuta

per violenza e costrizione, anzi, si è perfettamente responsabili perché si

sceglie il piacevole e si rifiuta il doloroso/spiacevole. Si conferma così il

fatto che gli atti compiuti per violenza o costrizione hanno un principio

esterno, e sono atti in cui non vi è alcun contributo da parte del soggetto

che ‘agisce’) ma che di fatto subisce.

(b) Involontarietà per ignoranza (EN III, 2)

Nell’azione per ignoranza ci sono due tipi di non-volontarietà (1110b18-

24, p. 81 trad. Natali):

1) il non-volontario (1110b18 ouch ekousion), che è semplicemente l’atto

di cui l’agente ignorava qualche circostanza (torneremo tra breve sulla

questione delle circostanze);

2) atto davvero involontario (akousion), in cui l’agente ignorava qualche

circostanza, ma di cui poi si pente e si addolora una volta compiuto.

L’idea è la seguente: quando agisco in modo del tutto involontario

(akousion) per ignoranza, dopo sarò disgustato di quello che ho fatto e

proverò dispiacere (siamo sempre nell’ambito, ovviamente, dell’azione

malvagia); in compenso, se agisco in modo non-volontario (ouch

ekousion), e poi non sono disgustato e pentito per quello che ho fatto, ci si

troverà di fronte a una situazione un po’ confusa:

- da una parte non ho agito volontariamente perché non sapevo quel che

facevo;

- dall’altra non avrò nemmeno agito in modo del tutto involontario,

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perché non provo dispiacere.

Per esempio, dico ad un’amica (A) qualcosa che riguarda un’altra amica

(B); l’amica (A) utilizza questa informazione per nuocere all’amica (B).

Se provo pentimento, allora avrò compiuto un’azione involontaria (non

potevo prevedere il pessimo risultato); se invece il risultato non previsto

non mi dispiace, avrò compiuto un’azione soltanto non-volontaria: non so

che avrei fatto se avessi previsto il risultato…

A. opera anche una distinzione tra (1) agire per ignoranza e (2) agire

ignorando (1110b25 ss. p. 81 Natali): nel primo caso agisco in modo

involontario, cioè appunto per difetto di informazione di cui non sono

responsabile; nel secondo agisco però in ragione di un motivo di cui sono

responsabile, anche se esso implica ignoranza. Per esempio, chi compie

una cattiva azione perché ubriaco o accecato dalla rabbia non agisce per

ignoranza, ma agisce a causa dell’ubriachezza—o della rabbia—di cui è

responsabile, e che produce ignoranza (cioè, che gli fa compiere un atto,

per esempio uccidere qualcuno, senza sapere ciò che fa, per esempio

colpendo troppo forte o guidando in stato di ebbrezza).

Insomma: l’ignoranza che ha a che fare con l’involontario è quella 1) che

provoca dolore e pentimento e 2) che implica difetto di informazione, cioè

ignoranza delle circostanze dell’azione, e non quella che riguarda risultati

non voluti di alcune decisioni (che invece, loro, sono volontarie).

A questo punto, A. enuncia queste circostanze (1111a2-17):

(i) chi: l’agente, dell’azione; se sono io l’agente, secondo A., non posso

ignorarmi, a meno che non sia pazzo.

Invece, posso ignorare:

(ii) che cosa: ciò che faccio; per esempio, mentre volevo dare una

dimostrazione, è partito un colpo di pistola;

(iii) riguardo a cosa o in cosa: ciò che è in gioco o che fornisce materia

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all’azione, come ad es. Merope (personaggio ancora una volta di una

tragedia perduta di Euripide) che sta per uccidere il figlio credendolo un

nemico;

(iv) per mezzo di cosa; la pericolosità del mezzo, per esempio la lancia,

che credo spuntata, è invece appuntita;

(v) pervenendo a che cosa, cioè l’intenzione; per esempio, voglio dar da

bere a un assetato, e invece lo uccido, dandogli del veleno che credevo

acqua;

(vi) come, cioè la maniera in cui si agisce. Ad esempio sono un lottatore,

credo di sfiorare qualcuno con la mano, invece lo abbatto.

Queste dunque sono le circostanze dell’azione, ignorando una (o più)

delle quali, agisco involontariamente.

A. aggiunge che le più importanti tra queste circostanze sono (ii) ed (v).

Ricordiamo però che per parlare di involontario bisogna aggiungere il

dispiacere e il pentimento.

Sulla base dell’analisi di (a) involontarietà per forza e (b) involontarietà

per ignoranza, Aristotele arriva a definire il volontario (EN III, 3, 22-24):

l’atto volontario è quello in cui il principio risiede nell’agente, il quale

conosce ciascuna delle circostanze particolari in cui l’azione si verifica.

Scelta, deliberazione e volere (EN III, 4-6)

Continuiamo l’analisi delle condizioni dell’azione

- scelta (proairesis), cap. 4;

- deliberazione (bouleusis), cap. 5;

- volere (boulesis), cap. 6. Questo non deve essere confuso con il

volontario/involontario considerati sopra: si tratta piuttosto di una sorta di

inclinazione positiva verso qualcosa.

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In seguito, nel capitolo 7, Aristotele dimostrerà che virtù e vizi riguardo

alle azioni (cioè, i mezzi per realizzare fini) hanno a che fare con scelta,

deliberazione e volere, e che quindi dipendono da noi. Sappiamo poi che il

seguito del III libro sarà dedicato all’analisi delle virtù etiche particolari

(qui coraggio e temperanza), analisi che continuerà per tutto il IV libro, e

anche per il V (dedicato alla giustizia, considerata da A. una virtù etica).

La scelta

EN III, 4, 111b4-10, p. 85 Natali: “Dopo aver…di una scelta”.

A. descrive una scelta volontaria, ragionevole e nello stesso tempo

virtuosa. L’importanza che A. accorda a questa nozione rende ben conto

della relazione, su cui abbiamo molto insistito, tra intelletto o ragione, e

carattere. Il termine proairesis è generalmente tradotto con ‘scelta

deliberata’, o ‘decisione’, o ‘scelta preferenziale’. La proairesis richiede

razionalità e deliberazione.

Sapere se la razionalità di cui si parla qui riguardi solamente i mezzi o se

essa interessa direttamente la determinazione del fine, è cosa, come

vedremo più avanti (quando parleremo della phronesis), controversa. La

scelta è qualcosa di volontario, ma essa non si identifica con esso, perché se

è vero che ogni scelta è volontaria, non è vero che ogni atto volontario è

una scelta. Il volontario è più esteso della scelta: i bambini e gli animali,

osserva Aristotele, ad esempio, hanno a che fare con il volontario, ma non

si può dire che essi operino una scelta. Per esempio: un bambino afferra

improvvisamente una fetta di torta e se la mangia: magari conosce tutte le

circostanze dell’azione (vedi sopra: il bambino è consapevole di essere

l’agente, sa cosa fa (afferra la torta) che cosa è in gioco (mangiare la torta),

usa lo strumento adatto (le mani) e nella maniera corretta (con la

leggerezza giusta per afferrare bene la torta e mangiarsela)), però non opera

una scelta razionale (in effetti, non pensa che la torta gli farà venire mal di

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pancia). In ogni caso, la scelta è volontaria poiché trova il proprio principio

nell’uomo che deve agire. Si possono, come abbiamo detto, trovare

esempio di azioni volontarie nei bambini e negli animali, ma è l’azione

umana che presenta le caratteristiche più realizzate dell’azione volontaria,

qualora essa proceda da una scelta ragionata (proairesis), a sua volta

preceduta dalla deliberazione (bouleusis).

La sequenza corretta sarà dunque:

- deliberazione

- scelta

- azione volontaria.

Ma, come definire o caratterizzare la scelta? Ancora una volta per via

negativa (vedi sopra, caratterizzazione della virtù). A. arriva a definire la

scelta come qualche cosa di volontario che abbiamo deliberato (nel senso

che è accompagnata da ragione e pensiero) (1112a13-15), rifiutando le

seguenti identificazioni (1111b10-12, p. 85 Natali):

a) scelta come desiderio (epithumia)

b) scelta come impulso (thumos)

c) scelta come volere (boulesis)

d) scelta come opinione (doxa).

a) (1111b12-17, p.85 Natali): la scelta non si identifica con il desiderio

perché negli esseri irrazionali troviamo il desiderio ma non la scelta. In

compenso, la scelta può avvenire senza desiderio, e anche in modo

contrario ad esso (per es., mangio un dolce senza sceglierlo, ma perché lo

desidero; in compenso, posso scegliere di mangiare una mela senza

desiderarla, ma perché fa bene alla salute; addirittura scelgo di non

mangiare il dolce anche se lo desidero, perché fa male mangiarlo).

b) (1111b17-19, p. 85 Natali): la scelta non si identifica nemmeno con

l’impulso, perché le azioni sotto impulso non sembrano assolutamente il

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risultato di una scelta (es. uccido sotto effetto di una collera che non

domino assolutamente)

c) (1111b19-30, pp. 87-87 Natali): la scelta non si identifica neppure con

il volere, e questo per vari motivi:

- possiamo volere cose impossibili, ma non possiamo scegliere cose

impossibili;

- possiamo volere la vittoria di un atleta, ma non possiamo scegliere la

vittoria di un’atleta (di fatto possiamo scegliere unicamente cose che

dipendono da noi);

- il volere concerne i fini, la scelta concerne i mezzi per realizzare i fini

(es. voglio essere sano, scelgo i mezzi per ottenere la salute, o conservarla).

Quindi: la scelta è qualcosa di volontario che concerne le cose che

dipendono da noi e i mezzi per realizzare un fine.

d) (1111b30-1112a12, p. 87 Natali): la scelta non si identifica nemmeno

con l’opinione. Non è infatti sufficiente avere un’opinione per agire, ma

occorrono scelta e deliberazione. Inoltre:

1- l’opinione ha per oggetto tutto (cose eterne, cose impossibili), e cioè

può considerare sia le cose che dipendono da noi che quelle che non

dipendono da noi;

2- l’opinione concerne il vero e il falso, la scelta concerne il buono e il

cattivo. Per agire non è infatti sufficiente avere una certa opinione sul

bene e sul male, bisogna anche scegliere e deliberare di fare il bene e

rifuggire il male. Insomma: il fatto di avere un’opinione sul bene non

necessita l’azione buona.

Aristotele poi presenta altri endoxa sull’identificazione opinione-scelta

(vedi righe 1112a4-12, p. 87 Natali).

La conclusione (1112a12-17) è appunto che la scelta sarà volontaria e

deliberata. Viene qui confermato quello che la scelta è e quello che la scelta

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non è:

1) la scelta è qualcosa di volontario che però non coincide con il

volontario, essendo questo più ampio;

2) viene introdotta la deliberazione, che verrà caratterizzata nel capitolo

successivo; la scelta è qualcosa di volontario, preliminarmente deliberato, e

questo perché la scelta si accompagna di ragione e pensiero (1112a14-15).

La deliberazione (cap. 5)

La deliberazione consiste essenzialmente nel calcolo dei mezzi necessari

per raggiungere il fine.

Così (1112a18-30, p. 89 Natali: “Si delibera su tutte le cose…ad opera

nostra”), non si delibera sulle cose eterne (es. l’universo) né su quelle

necessarie (che non possono essere diverse da ciò che sono, per esempio 4

per 4= 16), e neppure sulle cose dovute al caso (per esempio, la scoperta di

un tesoro), e neppure sulle cose che non dipendono dall’azione.

Aristotele presenta qui una distinzione tra le cause efficienti, che

diventerà celebre nella filosofia successiva

- da una parte si ha la natura, la necessità e il caso, che sono cause di

tutto ciò che accade attorno a noi;

- d’altra parte (1112a30-34, p. 89 Natali: “Deliberiamo…a opera

loro”), Aristotele caratterizza come causa l’intelligenza e tutto ciò che

suppone l’intervento dell’uomo: produzioni di opere e regno

dell’etica (azioni) e della politica.

Noi deliberiamo, dunque, sulle cose che dipendono da noi.

Inoltre:

1112b2-10 (p. 89-91 Natali): “Ma deliberiamo…di indeterminato”.

La deliberazione ha luogo nell’indeterminazione e nel contingente. Essa

ha rapporto con ragionamenti che implicano un struttura di questo genere:

1112b12-20 (p. 91 Natali): “Deliberiamo…figura geometrica”.

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La struttura sembra essere di tipo ‘sillogistico’, anche se in senso lasco,

tant’è vero che si è parlato di sillogismo pratico.

La struttura sarebbe di tipo:

P1

P2

____________

C (= fine raggiunto).

1) (premessa maggiore): un precetto che ha a che fare con il desiderabile

(es.: la carne di pollo è buona per la salute);

2) (premessa minore): un fatto constatato dalla percezione sensibile (es.:

questa carne nel mio piatto è pollo)

3) conclusione: una massima pratica che conduce all’azione di mangiare

questa carne di pollo.

La deliberazione ha sempre a che fare con un fine (già fissato) che

esprime un certo volere (una tendenza verso qualcosa), volere che tende a

un bene, oppure a un bene apparente. Ma soprattutto è presentata nella

maggior parte dei testi come un calcolo di mezzi:

1112b31-33 (p. 91 Natali): “Sembrerebbe quindi…ma ciò che porta al

fine”.

Qui A. stabilisce un legame tra deliberazione e scelta: infatti afferma che

i) l’uomo è principio di azione, ii) la deliberazione è condizione dell’azione

e iii) l’azione è il mezzo in vista di un fine.

1113a2-9 (p. 91-93 Natali): “Sono la stessa cosa…che avevano deciso”.

C’è quindi una sorta di identità tra il mezzo deliberato e il mezzo scelto:

c’è solo un rapporto cronologico, e cioè un’anteriorità della deliberazione

(delibero che la carne di pollo è sana) sulla decisione scelta (decido di

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mangiare questa carne), che a sua volta precede immediatamente l’azione

(mangio questa carne).

Troviamo qui, a conclusione del capitolo, un’altra definizione di scelta:

1113a9-12 (p. 93 Natali): “Poiché oggetto…anche la scelta (proairesis)

viene a essere un desiderio (orexis) deliberato (bouleutiké, aggettivo di

bouleusis) di ciò che dipende da noi (eph’emin)”.

La sequenza completa sarà così:

1) il desiderio (orexis, boulé): es. il desiderio di essere in buona salute;

2) deliberazione (bouleusis): che considera i mezzi per raggiungere lo

scopo (es. delibero che, tra la carne di pollo e un dolce al cioccolato, è

preferibile scegliere la carne perché essa fa bene alla salute);

3) scelta (proairesis): decidere di mangiare la carne di pollo.

Il volere (cap. 6)

Possiamo chiamare il volere (boulesis) un desiderio razionale. Esso è

responsabile di stabilire i fini (mentre la deliberazione abbiamo visto che

riguarda i mezzi). Essa si radica nell’orexis, che è la parte desiderativa-

irrazionale dell’anima, quella che è diretta (solo nei virtuosi, però) dalla

ragione, e che concerne appunto i desideri e le inclinazioni. E’ per questo

che si può aspirare a fini desiderabili ma impossibili (es. essere immortale);

o dei fini indipendenti dalla mia sfera d’azione (es. la pace in Medio

Oriente). Ma soprattutto, siccome l’orexis può essere totalmente irrazionale

(cioè, abbandonata a se stessa dalla ragione), ci si potranno augurare dei

fini cattivi (di conseguenza il male può essere desiderato).

Quindi, il fine buono

È affidato a una disposizione naturale buona, ma anche e soprattutto alla

virtù. Bisognerà cioè conformarsi ai fini della natura (ricordandoci che la

natura propria all’uomo è la ratio) e della società (politica e buon governo)

in modo virtuoso: agire in modo virtuoso per condizionare i desideri e i

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bisogni in modo virtuoso.

Ribadiamo che per A. la deliberazione e la scelta non concernono i fini

ma solo i mezzi. Questo perché A., contro Platone, opera una distinzione

tra etica e razionalità. Non è la ragione, il logos, ma la virtù etica che in

definitiva determinerà i fini buoni dell’azione. Quindi:

orexis dominata dalla virtù (desiderio virtuoso) produzione di buoni

fini deliberazione scelta azione.

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La saggezza pratica (phronesis) (EN VI)

L’analisi della saggezza pratica costituisce uno dei contributi più

importanti di Aristotele all’etica. Con questa analisi e, potremmo dire, con

l’invenzione della saggezza pratica, Aristotele supera l’intellettualismo

socratico che aveva influenzato Platone, e impone una distinzione netta tra

la sapienza teorica (sophia) e la saggezza pratica (phronesis). Il sapere

teorico funziona in modo del tutto indipendente dalle emozioni, con la sua

logica basata su induzione e dimostrazione, e non ha alcuna influenza

sull’azione. In compenso, il sapere pratico, la phronesis, è un miscuglio di

intelligenza (ragione) e desiderio, ed è lui che determina l’azione. Grazie

alla phronesis l’universo delle emozioni e passioni umane ottiene una

razionalizzazione e può essere così oggetto di ricerca per il filosofo morale.

Aristotele introduce la sua analisi della saggezza pratica dopo aver trattato

dell’orexis, la parte desiderativa dell’anima, e le virtù etiche.

In effetti, abbiamo già visto che la virtù è un giusto mezzo determinato in

modo razionale; e all’inizio del libro VI, libro in cui Aristotele comincia

l’analisi delle virtù dianoetiche, cioè di quelle della parte intellettuale

dell’anima, Aristotele si collega direttamente alla questione del giusto

mezzo:

1138b16-35 (p. 223 Natali) “Siccome…ne è il criterio”.

Ecco ciò che dice il passaggio:

1) abbiamo definito la virtù etica come scelta del giusto mezzo

determinato dalla retta ragione (orthos logos). Bisogna quindi determinare

che cos’è la retta ragione;

2) gli stati dell’anima, e qui Aristotele limita il discorso agli stati virtuosi,

mirano:

- ad un certo scopo che l’uomo dotato di ragione persegue;

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- alla determinazione di alcuni mezzi che si trovano tra l’eccesso e il

difetto, proprio a causa del fatto che essi sono determinati dalla retta

ragione.

Ora, poiché la retta ragione ha la funzione di condurre l’uomo

ragionevole a dei buoni scopi, e quella di determinare i mezzi tra l’eccesso

e il difetto (proprio le virtù che, come abbiamo visto, sono dei mezzi per

l’azione), allora si rivela necessario (i) mostrare la verità di ciò che si è

appena detto, (ii) definire la retta ragione e mostrare in che modo essa si

manifesti (cioè, per mezzo di che e in funzione di che cosa essa si realizzi).

(i) La retta ragione, o ragionamento corretto (orthos logos) che sceglie il

giusto mezzo è il ragionamento dato dalla saggezza pratica (phronesis) che

è una delle virtù dianoetiche o intellettuali. Essa è precisamente

l’eccellenza (secondo il senso di “virtù” visto) della parte calcolatrice

(loghistikon) dell’anima, la parte che ha a che fare con le cose che

dipendono da noi. E’ questa parte che dirige le scelte, che “produce” il

desiderio corretto, e di conseguenza i fini buoni, così come i mezzi per

agire in vista di questi fini buoni. La phronesis è la capacità di deliberare

bene in rapporto a ciò che è buono per colui che delibera (VI, 5, 1140a28).

E’ da notare che Aristotele, all’inizio del VI libro (capitolo 2), ripropone

nuovamente la distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche vista in

precedenza. Essa, però, si basa su una nuova distinzione delle parti

dell’anima. Da una parte abbiamo 1) l’anima irrazionale, dominata dalla

ragione, da cui dipendono le virtù etiche; dall’altra abbiamo 2) l’anima

razionale, a sua volta divisibile tra 2a) parte che contempla le verità eterne

e necessarie (la parte scientifica, che concerne le cose che non dipendono

da noi) e 2b) parte che considera le cose che possono essere diverse da

quello che sono: si tratta della parte calcolatrice che delibera, cioè della

saggezza pratica che riguarda le cose che dipendono da noi (e che in questo

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senso potrebbero anche essere diverse da quello che sono, perché io posso

decidere di fare una cosa, ma anche di non farla). Parte scientifica e parte

calcolatrice, cioè sapienza e saggezza costituiscono alcune delle virtù

dianoetiche.

Ciò che è stato considerato quasi scandaloso da parte di alcuni filosofi

etici contemporanei è l’affermazione, ripetuta a più riprese da Aristotele,

secondo cui la saggezza pratica non si occupa dei fini dell’azione umana,

ma solo di come realizzare tali fini, cioè dei mezzi:

VI 13, 1144a6-9 (p. 249 Natali): “Inoltre…che porta ad esso”;

1145a4-6 (p. 255 Natali): “E’ chiaro…che porta al fine”.

In quest’ultima frase il greco è ambiguo e la tesi che stiamo sostenendo

funziona solo se si identifica ‘l’una’ con la virtù, e ‘l’altra’ con la saggezza.

Sarebbe quindi la virtù che pone il fine (parte desiderativa razionalizzata) e

la saggezza (deliberazione) che fornisce i mezzi che realizzano (grazie

all’azione) il fine. Però qui andrei cauta perché il greco non è chiaro per

niente.

Perché non si accetta la posizione di Aristotele?

Perché nel dibattito contemporaneo si è manifestata una crisi della

ragione teorica e della ragione tecnica, crisi che ha condotto a porre

l’esigenza di ritrovare una razionalità dei fini; qualcuno ha voluto trovare

nella concezione aristotelica della phronesis un modello di ragionamento

atto ad analizzare i fini dell’azione in modo razionale. Ciò ha suscitato le

critiche di altri filosofi, che hanno giustamente obiettato che la phronesis

aristotelica non si occupa dei fini. Ma qualcuno ha cercato comunque di

trovare passi che dimostrano che in fondo la phronesis ha anche il compito

di determinare i fini. Tuttavia, ci sono passi in cui Aristotele afferma

chiaramente che la phronesis si occupa solo dei mezzi per realizzare i fini.

Page 17: Aristotele intro all'etica nicomachea parte 2

17

Le virtù intellettuali: distinzione e separazione delle forme di razionalità

e di sapere

Aristotele (capitolo 3) opera una distinzione tra cinque tipi di virtù

intellettuali, che vanno intese –come egli stesso dice—come stati abituali

dell’anima:

1) techne (arte)

2) episteme (scienza)

3) phronesis (saggezza pratica)

4) sophia (sapienza teoretica: scienza più intelletto)

5) nous (intelletto).

Il ragionamento è il seguente:

a) due sono le parti razionali dell’anima (1139a5-9): i) quella che

contempla le cose necessarie e ii) quella che considera le cose che possono

stare in maniera diversa da come sono;

b) le due parti razionali dell’anima hanno entrambe la verità come

funzione (1139a16-30, p. 225 Natali), quella teorica perché ha per oggetto

verità ed errore, quella pratica perché ha in vista il bene, che è la verità che

si trova in accordo con il desiderio corretto.

Di conseguenza, gli stati che favoriscono un maggior grado di verità per

ogni parte razionale dell’anima costituiscono le virtù proprie all’una e

all’altra, cioè la loro eccellenza: tali sono le cinque virtù dianoetiche.

Aristotele stabilisce e definisce la phronesis sulla base delle somiglianze e

delle differenze tra essa e le altre virtù intellettuali.

La prima cosa importante da osservare è che arte, scienza, saggezza

pratica, sapienza teorica e intelletto sono, come abbiamo visto, delle exeis,

degli stati abituali dell’anima. Per esempio la scienza, non è semplicemente

un corpus organizzato di conoscenze ottenute per induzione e deduzione

(come è più naturale pensare), ma anche uno stato dell’anima, che conosce

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18

scientificamente.

Scienza (VI, 3)

1141a18-20 (p. 235 Natali): “è necessario che il sapiente…delle cose più

eccellenti”.

i) La scienza ha come oggetto le cose necessarie (che non possono essere

diverse da quello che sono) ed eterne (che sono sempre quello che sono, e

quindi né si generano né si corrompono).

Es: i triangoli, che hanno sempre tre angoli.

ii) Principi o assiomi della scienza.

Negli Analitici secondi Aristotele spiega che le nostre conoscenze

scientifiche derivano da conoscenze precedenti, ottenute o tramite

induzione (es: tutti i triangoli hanno tre angoli: si tratta di una

generalizzazione che avviene sulla base dell’esperienza, dopo aver cioè

constatato che il triangolo x ha tre angoli, e poi il triangolo y ha tre angoli,

ecc.), o tramite deduzione (intese come conclusioni di dimostrazioni

precedenti. Es.: la somma interna dei tre angoli del triangolo è uguale a

180°, deduzione che avviene a partire dalla definizione del triangolo). Si

tratta in ogni caso di proposizioni universali, di principi e assiomi, punto di

partenza per qualunque deduzione.

iii) Deduzioni.

In un’ottica aristotelica possiamo parlare di sillogismo (dimostrativo), che

parte da principi primi (o risultato di dimostrazioni precedenti) per

dimostrare l’appartenenza di proprietà essenziali all’oggetto della scienza:

es. AaB, BaC, quindi AaC

La conclusione stabilisce l’appartenenza della proprietà C ad A (soggetto-

oggetto della scienza) sulla base di due premesse.

Ovviamente le cose non sono così semplici, perché non ogni

dimostrazione può avvenire in forma sillogistica: ma questa sarebbe la

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condizione ideale della scienza, almeno secondo Aristotele.

In conclusione (1139b31, p. 229 Natali), la scienza è uno stato abituale

dell’anima razionale che produce dimostrazione (exis apodeiktiké).

Arte(o tecnica) e saggezza pratica (VI, 4)

i) Tutte e due si occupano di cose che possono essere differenti da come

sono (non necessarie né eterne). Ora:

- l’arte si occupa della produzione (es. un letto che posso produrre in

differenti modi)

- la saggezza pratica si occupa dell’azione, anch’essa passibile di

essere diversa da quella che è (realizzata).

Ma produzione e azione sono due cose totalmente differenti, cosicché

l’arte (stato abituale produttivo accompagnato dalla ragione) sarà differente

dalla phronesis (stato abituale pratico accompagnato da ragione).

ii) principio

Il principio dell’arte risiede nella persona che produce, quello della

phronesis nella persona che agisce. Resta il fatto che la produzione è

differente dall’azione perché nella prima il processo di produzione è

distinto dal risultato (un letto si distingue dalla sua produzione), nella

seconda no (azione e risultato dell’azione si identificano).

Produzione e azione si differenziano e devono restare separate,

soprattutto se si vuol comprendere ciò che la phronesis, che governa

l’azione, è.

Ora, ci dice A. all’inizio del 5° capitolo del VI libro (p. 231 Natali),

possiamo comprendere che cos’è la saggezza osservando le persone che

consideriamo sagge (sorta di empirismo sempre presente in

Aristotele).1140a25-28 (p. 231 Natali):

“Indizio ne è il fatto… sarà saggio”.

Sembra quindi che la caratteristica del saggio sia la capacità di deliberare

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bene su ciò che è buono e utile per lui. Qui troviamo una definizione

(appunto di “saggio”) che abbiamo già commentato: si noterà che il

contesto per inquadrare la definizione è sempre l’opinione o il dato

esperienziale su cui si è (più o meno) d’accordo.

Tuttavia (righe 31-32, p. 231 Natali) non possiamo deliberare sulle cose

che non dipendono da noi (per esempio, non possiamo deliberare

sull’eternità dell’universo), né sulle azioni che non dipendono da noi.

Quindi, la phronesis non sarà né una scienza né un’arte (1140b1-6, p. 231

Natali):

(a) non sarà scienza perché il contenuto dell’azione può essere differente

da ciò che esso è (voglio ottenere la salute, mangio del pollo, ma potrei

aver anche mangiato dei broccoli…);

(b) non sarà arte perché azione e produzione appartengono a generi

differenti (l’arte produce ‘cose’, l’azione appunto azioni).

La phronesis verrà allora definita per via negativa (1140b4-6, p. 231

Natali):

“Allora rimane solo che la saggezza sia uno stato abituale e veritiero, unito a

ragionamento, pratico, che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo”.

Stato abituale veritiero = che coglie il vero bene e i veri mezzi per

realizzarlo (basato su opinioni vere?);

unito a ragionamento = funzione calcolatrice;

pratico = che riguarda l’azione

che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo = non rivolto al

vero e al falso, come invece lo è la ragione teoretica.

Insomma: ciò che caratterizza la saggezza riguardo alle altre exeis è la

deliberazione (che riguarda ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo).

Ricordiamo che la deliberazione ha a che fare con il volere (tendenza che

pone il fine), la scelta (che calcola i mezzi per il raggiungimento del fine) e

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l’azione (che realizza il fine).

Le altre due exeis menzionate da A. (a parte arte e scienza, che abbiamo

già considerato) sono intelletto (nous) e sapienza (sophia). L’intelletto

coglie i principi, la sapienza è una combinazione di intelletto e scienza, e

quindi coglie i principi e dimostra a partire dai principi. Essa si identifica

con la filosofia, cui A. dedica una serie di trattati, quasi tutti riuniti nella

sua opera Metafisica. Nel capitolo di EN che stiamo analizzando, A. ci dice

chiaramente che la filosofia è una scienza dimostrativa.

Sia la scienza che la filosofia che la saggezza sono sia stati abituali de

soggetto che li possiede (io posso essere scienziato, filosofo o saggio), sia

discipline con loro contenuti (es. la scienza della geometria, la filosofia che

riguarda l’essere, la saggezza che riguarda l’etica). A. stabilisce altrove (nei

Secondi analitici) che ogni disciplina ha i suoi principi, oggetti e

dimostrazioni (per es. la geometria ha come oggetto le figure geometriche,

come principi gli assiomi, per es. “il triangolo ha tre lati”, e le

dimostrazioni che derivano dagli assiomi).

Per quel che riguarda la saggezza pratica, abbiamo già visto quali sono i

suoi oggetti (azioni (o contenuto delle azioni), che possono essere diverse

da come sono) e i suoi principi (principi pratici, che sono offerti sia dagli

endoxa (vedi sopra, prima parte della dispensa, metodo dell’etica) e dalle

virtù etiche. Ma che dire dei suoi ragionamenti? Ne abbiamo accennato già

in precedenza, quando, a proposito della deliberazione, abbiamo parlato di

sillogismo pratico (vedi sopra).

Per concludere, affronteremo in maniera più dettagliata questo

sillogismo.

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Il sillogismo pratico

Per Aristotele c’è sicuramente un ragionamento pratico, nel senso in cui

il sapere pratico non è intuitivo ma richiede un percorso con una sequenza

di tappe.:

io

. deliberazione dei mezzi per ottenere lo scopo (volere, scelta,

azione)

.

.

.

scopo

La domanda che si pone è la seguente: si può parlare di sillogismo anche

in questo caso? Se sì, di che genere di sillogismo si tratta? Insomma, il

ragionamento pratico possiede una struttura logica o no?

Ecco cosa A. dice nell’Eica a Eudemo II, 11, 1227b28-32:

Così come le scienze teoriche possiedono delle ipotesi e dei principi, allo stesso

modo per le scienze pratiche il fine è il principio e l’ipotesi: dato che una persona

dev’essere in buona salute, è necessario avere questo perché si verifichi quello,

come nelle scienze teoriche, se il triangolo ha gli angoli uguali a due retti, questa

cosa ne risulta di necessità.

Avremo quindi un parallelo tra deduzione scientifica e ragionamento

pratico:

scienza: ipotesi: es. il triangolo ha tre angoli uguali a due retti

qualcosa ne risulta di necessità;

saggezza pratica: ipotesi (= scopo): es. essere in buona salute

qualcosa ne risulta di necessità.

Detto questo, la questione del sillogismo pratico è molto controversa. Le

perplessità degli studiosi riguardano soprattutto la sua esistenza.

Da una parte, il problema è che A. non parla mai di sillogismo pratico,

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nemmeno in quei passi in cui cataloga i sillogismi (negli Analitici primi

(68b10-11), A. menziona il sillogismo dimostrativo, dialettico, retorico, e

addirittura quello eristico, che non è un vero sillogismo, in quanto non è

concludente).

D’altra parte, nei Topici (105b19-25), opera sulla dialettica, l’arte

argomentativa di origine socratico-platonica, A. afferma che nei sillogismi

ci sono tre tipi di premesse: etiche, fisiche e dialettiche (nel senso di

logiche). Egli sembra quindi implicare che la forma sillogistica si applica a

fisica, logica e etica, di modo che non ci sarà alcuna distinzione di

sillogismi se non grazie alla natura delle premesse. L’etica si servirà di

premesse etiche, ma il modello di ragionamento sarà lo stesso di quello di

logica e fisica. Aggiungiamo che negli Analitici primi (46a3-4) A. afferma

che il metodo quivi descritto (appunto, il sillogismo) è lo stesso per

qualunque ragionamento e disciplina.

La questione dei principi

Per ogni scienza ci sono principi (assiomi) propri e che sono necessari

per una scienza e non per un’altra. Questi principi stabiliscono una

distinzione assoluta tra le scienze, e una indipendenza totale tra loro. I

principi derivano, come abbiamo già visto, dall’induzione e dall’intelletto

(ed è la dialettica che li trova, vedi sopra, prima parte della dispensa, il

metodo degli endoxa).

Possiamo pensare che i principi si costituiscano nel modo seguente (ci

serviremo di un esempio per illustrare il procedimento):

1) noto una cosa che ha una forma triangolare (percezione);

2) noto più cose (una dopo l’altra o insieme) che hanno forma

rettangolare (esperienza 1);

3) noto che ci sono più tipi di forma triangolare (isoscele, scaleno,

equilatero) (esperienza2);

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4) finalmente, grazie all’induzione (ragionamento generalizzante), mi

costruisco un concetto unitario di triangolo, che ha le proprietà di tutti i

triangoli individuali (universalizzazione del concetto);

5) a questo punto fornisco una definizione di triangolo: il triangolo ha tre

lati e tre angoli (principio).

Una volta costruito questo principio, lo evocherò tutte le volte di cui ne

ho bisogno, tramite l’intelletto, in modo rapido (quasi intuitivo) e auto-

evidente.

Potremmo pensare che nel caso della saggezza pratica ci sia un processo

analogo. Ma A. complica un po’ le cose, affermando (EN VI, 1143b1-3, p.

247 Natali):

un tipo di intelletto, a proposito delle dimostrazioni, riguarda i termini primi e

immutabili, l’altro tipo, nell’ambito della prassi, riguarda l’estremo, cioè quello

che può essere diversamente, e l’altra premessa.

Vedi anche sopra, citaz. Etica a Eudemo, 1227b28-32 (in cui si evince

che la prima premessa, universale, non è colta dall’intelletto, ma dalla virtù

etica, cioè dall’esercizio).

A. distingue tra due tipi di intelletto: da una parte abbiamo quello

teoretico, che coglie i principi primi (assiomi, definizioni), che sono il

punto di partenza delle dimostrazioni; d’altro lato abbiamo un altro

intelletto, che riguarda l’estremo, che può cambiare, e la seconda premessa

(qui l’estremo dev’essere il particolare, cioè l’azione da eseguire in vista

del fine, che costituisce la seconda premessa del sillogismo pratico: ad

esempio “chi passeggia avrà una buona salute”).

L’intelletto qui è ambiguo: da una parte è lo stato teoretico che ci

permette di cogliere i principi primi; dall’altra è uno stato pratico che ci fa

cogliere il particolare, l’azione da compiere per raggiungere il fine. Nei due

casi, la sua caratteristica è di cogliere immediatamente (senza

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ragionamento) il suo oggetto (definizioni o principi scientifici; casi pratici

particolari). Il nous (intelletto) pratico, dunque, è una sorta di sensibilità

pratica che concerne il caso singolo.

La differenza tra la saggezza pratica e l’intelletto pratico è che la prima

riguarda tutto il procedimento della scelta e realizzazione dei mezzi (finno

alla spinta all’azione), la seconda il coglimento immediato dell’azione da

eseguire per realizzare un determinato fine.

Esempio di sillogismo pratico

(1) principio o prima premessa (proposizione universale che enuncia il

fine da perseguire): chi ha una buona digestione è sano;

(Per gli esempi di questo tipo vedi Analitici secondi 94b8-23; Etica a

Eudemo, 1226a7-17. Ovviamente non è necessario che questa premessa sia

esplicitamente formulata. In effetti, come è stato osservato, il ragionamento

pratico è una ricostruzione virtuale di ciò che avviene ‘fulmineamente’.)

(2) seconda premessa (un termine particolare, un’azione da eseguire in

vista del fine): chi passeggia avrà una buona digestione

(L’intelletto, come abbiamo visto, coglie questa seconda premessa come

azione da eseguire per realizzare il fine posto dalla prima premessa.)

(3) conclusione: azione del passeggiare.

(La conclusione è un giudizio che fa agire, oppure la stessa azione del

passeggiare? Gli studiosi sono divisi, anche perché ci sono testi aristotelici

in contrasto: EN 1147a25-28 sembra dire che la conclusione è un’azione,

mentre EE 1127b33 ss. e Analitici secondi II 11 sembrano invece dire che

la conclusione è un giudizio, a sua volta principio di azione. Ma non

affronteremo qui il problema, complicato e di difficile soluzione.)

La saggezza pratica (phronesis) comprende la prima premessa; stabilisce

la seconda premessa (colta anche dall’intelletto, che però è inerte, non

spinge all’azione), scegliendo tra le altre possibili azioni atte a realizzare il

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fine; spinge all’atto. Opera quindi una sorta di mediazione tra la prima

premessa e la situazione concreta, per sottomettere i dati al fine che si trova

nella prima premessa. Essa deve deliberare e scegliere per provocare

l’azione che realizzi il fine. La phronesis ha la funzione di trasmettere il

desiderio del fine ai mezzi che si possono realizzare praticamente.

Ma chi stabilisce i principi pratici, cioè le prime premesse dei sillogismi

pratici, gli scopi da ottenere? La virtù etica, che a sua volta deriva da un

processo di esercizio. In questo processo il soggetto, prima sotto la

direzione altrui (padre, maestro, ecc.), in seguito da solo, prende l’abitudine

di compiere delle azioni virtuose fino a raggiungere il piacere di compierle,

in modo del tutto consapevole (vedi EN 1103a32-b1, p. 47 Natali:

“acquisiamo le virtù…con atti coraggiosi”).

E’ vero quindi che, nell’acquisizione dei principi etici, si assiste a un

procedimento analogo a quello dell’acquisizione dei principi teorici (vedi

sopra, es. del triangolo):

EN II 1, 1103b14-25, p. 49 Natali: “è compiendo le transazioni…anzi, è

tutto”.

Quando ad esempio si agisce nel caso del pericolo, ci si abitua a provare

paura o coraggio, in modo tale che alcuni tra noi diventano coraggiosi, altri

vigliacchi. I coraggiosi si abituano a essere sempre coraggiosi, anche negli

altri casi a venire. Stessa cosa per ogni virtù etica.

Dunque, all’induzione teorica fa pendant l’abitudine (ethimos) pratica

(vedi EN I 7, 1098b4-5), un processo grazie a cui si arriva a compiere

azioni belle in modo virtuoso. Questa stessa abitudine ci farà porre dei fini

buoni da perseguire.

L’azione per A. sarà il risultato della ragione e del desiderio. Per avere

un’azione virtuosa bisognerà avere (EN VI 2, 1139a23-31, p. 225 Natali):

i) un ragionamento vero;

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ii) un desiderio corretto.

Il primo deve affermare (es. passeggiare fa bene alla salute), il secondo

perseguire lo stesso oggetto (il passeggiare, che fa bene alla salute).

In conclusione:

a) il possesso della virtù permette di porre la prima premessa, pratica e

universale (vedi EN X 8, 1178a16-19, p. 433 Natali: i principi della

phronesis sono secondo le virtù etiche): questo è possibile perché la virtù è

unione tra anima irrazionale (orexis, desiderio) e la ragione;

b) ciò che è essenziale è acquisire i principi pratici, ciò che è possibile

fare attraverso l’abitudine (processo, come abbiamo visto, analogo

all’induzione).

Si potrà avere anche una discussione dialettica dei principi: ma essa per

A. non è indispensabile per essere eticamente virtuoso.

Quello che è certo è che la phronesis, che presiede al ragionamento

pratico, richiede un buono stato di equilibrio psichico e una buona capacità

di resistere al piacere e al dolore. In effetti, la trasmissione del desiderio

(corretto) può essere deviata dall’influenza delle passioni (vedi EN VI

5,1140b13-20, p. 233 Natali). Nel caso in cui qualcuno comprenda la

seconda premessa con l’intelletto, ma non arrivi a trasmettere il desiderio in

modo corretto, si avrà una debolezza del volere.

Contro l’intellettualismo socratico, A. sostiene la tesi secondo cui si può

sapere ciò che è bene senza agire di conseguenza. Questo avviene se la

seconda premessa viene conosciuta in modo incorretto, cioè non è oggetto

di desiderio e ragione. In questo caso si avrà un conflitto di desideri: un

desiderio universale buono (voglio essere in buona salute), che sarà in

conflitto con un desiderio particolare cattivo (es. voglio fumare una

sigaretta).

Cf. EN VII 5, 1147a33-35 (p. 269 Natali): il desiderio (gustare qualcosa

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di dolce) vincerà sulla premessa universale (evitare di mangiare dolci.)