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Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura Via Santa Teresa, 15 – 10121 Torino – Tel. 011 518 4268 – Fax 011 561 2109 – www.salonelibro.it – e-mail: [email protected] 1 Milano, 14 novembre 2014 Book City – Milano Città della Lettura Rolando Picchioni Lo sappiamo già e abbiamo anche avuto modo di risentirlo negli interventi di chi mi ha preceduto: il libro si dibatte in uno stato di crisi mai vista prima. Bene in sé povero e poco capace di generare filiere di ricchezza, ha patito più di molti altri la congiuntura planetaria post 2008, che oggi assume i contorni di fantasmi molteplici e spesso evanescenti, ma non per questo meno inquietanti. È una crisi strutturale in cui la concorrenza dei nuovi media ha sicuramente una grande responsabilità, a partire da come ha trasformato noi stessi, la nostra attitudine fisica nell’attingere, elaborare e conservare le nozioni. In questo panorama a tinte tra il fosco e il lampeggiante, le isolate notizie positive brillano come paradossi controfattuali. L’anomalia, l’eccezione più interessante è sicuramente rappresentata dal fenomeno dei festival e dei saloni legati al libro, alla lettura e alle idee. In Italia negli ultimi dieci-quindici anni hanno conosciuto un boom, una proliferazione quasi esponenziale che sembra non conoscere calo, malgrado la sempre più difficile situazione finanziaria e la sempre più complessa dinamica del reperimento di risorse su scala locale e nazionale. Ci si sarebbe aspettati una rapida entropia, una saturazione, un senso di sazietà e di maximum nel rapporto fra curva della domanda e dell’offerta. E invece no. Oggi dalle Alpi alle Isole non v’è centro piccolo, medio o grande che non voglia inventarsi e dotarsi del proprio festival o salone con uso di presentazione editoriale per aggiornare la propria offerta culturale, e – come immancabilmente si dice - «promuovere e valorizzare il territorio» e la propria specificità. Le sagaci e documentate analisi condotte da Guido Guerzoni sulla fenomenologia dei festival d’Italia rappresentano uno strumento di lavoro e di riflessione che merita grande attenzione.

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Ecco l’intervento del Presidente della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, Rolando Picchioni, per la presentazione del progetto “Milano Città della Lettura 2015”, che si è svolta venerdì 14 novembre 2014 al Castello Sforzesco di Milano. Hanno partecipato: Piergaetano Marchetti (Presidente comitato promotore Bookcity), Filippo Del Corno (Assessore alla Cultura Comune di Milano), Romano Montroni (Presidente Centro per il Libro e la Lettura), Marco Polillo (Presidente Associazione Italiana Editori), Enrica Manenti (Presidente Associazione Italiana Biblioteche).

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Milano, 14 novembre 2014

Book City – Milano Città della Lettura

Rolando Picchioni Lo sappiamo già e abbiamo anche avuto modo di risentirlo negli interventi di chi mi ha preceduto: il libro si dibatte in uno stato di crisi mai vista prima. Bene in sé povero e poco capace di generare filiere di ricchezza, ha patito più di molti altri la congiuntura planetaria post 2008, che oggi assume i contorni di fantasmi molteplici e spesso evanescenti, ma non per questo meno inquietanti. È una crisi strutturale in cui la concorrenza dei nuovi media ha sicuramente una grande responsabilità, a partire da come ha trasformato noi stessi, la nostra attitudine fisica nell’attingere, elaborare e conservare le nozioni. In questo panorama a tinte tra il fosco e il lampeggiante, le isolate notizie positive brillano come paradossi controfattuali. L’anomalia, l’eccezione più interessante è sicuramente rappresentata dal fenomeno dei festival e dei saloni legati al libro, alla lettura e alle idee. In Italia negli ultimi dieci-quindici anni hanno conosciuto un boom, una proliferazione quasi esponenziale che sembra non conoscere calo, malgrado la sempre più difficile situazione finanziaria e la sempre più complessa dinamica del reperimento di risorse su scala locale e nazionale. Ci si sarebbe aspettati una rapida entropia, una saturazione, un senso di sazietà e di maximum nel rapporto fra curva della domanda e dell’offerta. E invece no. Oggi dalle Alpi alle Isole non v’è centro piccolo, medio o grande che non voglia inventarsi e dotarsi del proprio festival o salone con uso di presentazione editoriale per aggiornare la propria offerta culturale, e – come immancabilmente si dice - «promuovere e valorizzare il territorio» e la propria specificità. Le sagaci e documentate analisi condotte da Guido Guerzoni sulla fenomenologia dei festival d’Italia rappresentano uno strumento di lavoro e di riflessione che merita grande attenzione.

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La sola modalità di rapporto con il libro che oggi ancora tiene e paga sembra infatti essere quella che abbrevia il più possibile - o addirittura azzera - il circuito fra lettore e autore. Quello che offre al lettore un’esperienza intellettuale, cognitiva ed emotiva forte, un valore aggiunto da condividere e raccontare agli amici com’è proprio dell’«esserci», dell’annullare tutti i passaggi intermedi fra il generatore di storie e di idee e colui che liberamente sceglie di assorbirle e farle proprie. In altre parole, la formula del festival letterario, della presentazione in libreria o in biblioteca, dell’incontro in prima persona con lo scrittore, si configura oggi come uno dei pochi baluardi superstiti di resistenza e vitalità della lettura e del mercato editoriale nel nostro Paese. Il rapporto diretto del lettore con l’autore, l’ostensione della fisicità dello scrittore attraverso l’esposizione mediatica, televisiva, radiofonica e festivaliera è divenuto un fatto talmente abituale che ci fa dimenticare che, quando nel 1988 a Torino venne l’idea di organizzare il primo Salone del Libro, questa formula rappresentava un’innovazione concettuale ai limiti dell’azzardo. L’idea più «di rottura» del Salone di Torino non fu tanto portare il libro negli stand come un qualunque oggetto da esporre e vendere, ma quella di mostrare gli scrittori: di dare loro un volto dinanzi al loro pubblico, portarli in giro, estrarli dalle loro torri d’avorio, dai salotti e cenacoli dei premi letterari. Gli scrittori non parlavano soltanto più attraverso le loro opere o gli elzeviri: diventavano essi stessi protagonisti in prima persona della mediazione verso il lettore. Si mettevano in gioco producendo contesti e paralipomeni dialettici che vivevano di vita propria e nuova rispetto all’opera stampata. Quella che allora il premio Nobel Josif Brodskij salutò come «un’idea luminosa con un buon pizzico di follia» oggi è diventata un valore aggiunto irrinunciabile nel rapporto fra il lettore, il libro e il suo autore, se non addirittura la conditio sine qua non per la salvaguardia dei valori biologici minimi del mercato editoriale. Sembra proprio che, senza presentazione dell’autore, oggi un libro non si venda più. Ci salveranno i festival, quindi? Non siamo in grado di dirlo, e forse non lo sapremo mai. Ma sicuramente il lavoro avviato dal coordinamento delle Città del Libro ha innescato un processo virtuoso.

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L’idea di far incontrare, dialogare e coordinare fra loro i «cento campanili d’Italia» che organizzano festival e saloni legati al libro, alla lettura e alle idee, ci venne una decina d’anni fa proprio al Salone di Torino. Come spesso accade, i simboli hanno il compito di precedere e trascinare le azioni. Così partimmo dal dotare l’idea di un segno identificativo: un logo che è una gemmazione di quello del Salone e nasce dalla fantasia dello stesso creativo, Adriano Benetti. Il progetto delle Città del Libro restò a incubare allo stato potenziale per un po’ di stagioni, ad attendere paziente che maturassero le condizioni ambientali e istituzionali intorno alle quali si potesse coagulare e sviluppare un’azione concreta. La creazione da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali di un Centro per il Libro rappresentò il terreno di coltura ideale: il sedimento provvisto delle sostanze fertili e nutritive che consentì al seme di mettere radici. Una semina fatta e poi accudita con maestrìa dai due presidenti, Gian Arturo Ferrari prima e Romano Montroni oggi. E siccome siamo nella città dell’Expo dedicata al cibo, mi perdonerete se persisto nella metafora agronomica. Ad aggiungere il fertilizzante fu il sindaco di Torino Piero Fassino, anche nella sua veste di presidente Anci, che volle dare corpo fisico al coordinamento delle Città del Libro con la sessione d’insediamento a Torino il 13 aprile 2013 e i successivi seminari di Roma e Cagliari. Sono quattro le macro-ragioni, le istanze fondamentali che hanno spinto con un moto bradisismico ma inarrestabile le Città del Libro a incontrarsi fra loro e dotarsi di un coordinamento permanente. La prima è una ragione cognitiva, il condividere e mettere in comune conoscenze ed esperienze e fare massa critica. Poi una ragione economica, per individuare e sviluppare possibili forme di economie di scala e modelli di razionalizzazione finanziaria in uno scenario di risorse sempre più scarse. Una ragione organizzativa, per sviluppare forme fattive di coordinamento nei programmi e nella comunicazione. E infine una ragione normativa, affinché la capacità di ognuna di produrre valore economico e ricadute misurabili sul mercato editoriale e sui rispettivi territori riceva un adeguato riconoscimento legislativo che preveda anche precise forme di tutela. Come si vede, la rete delle Città del Libro non è un club esclusivo di ottimati, ma nemmeno una porta girevole attraverso la quale può entrare e

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uscire chiunque. Far parte delle Città del Libro richiede la capacità di saper mantenere impegni e standard qualitativi precisi nei confronti del Ministero e delle altre Città, ma soprattutto verso la geografia complessiva della promozione culturale nel nostro Paese e in Europa. Quando nel giugno 2014 l’Unesco ha accolto fra i Patrimoni dell’Umanità il paesaggio rurale, storico e antropico di Langhe, Roero e Monferrato non ha soltanto fotografato la ricchezza e l’esemplarità di un equilibrio plurisecolare fra uomo e natura meritevole di tutela e valorizzazione. Ha anche riconosciuto l’inscindibilità fra quel paesaggio, la sua memoria e le sue infinite narrazioni che s’istituiscono e si sovrappongono nel decorrere del tempo. Un patrimonio materiale e immateriale che si sostanzia del racconto e dell’elaborazione genetica che ne hanno fatto scrittori come Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Gina Lagorio, Giovanni Arpino, Davide Lajolo. E non è un caso che per mettere in rete, promuovere e valorizzare questo patrimonio, fin dal 2009 è nato per volontà della Fondazione per il Libro e della Regione il primo Parco Culturale del Piemonte, che porta appunto il nome di Paesaggio Umano. Ecco perché ci impegniamo affinché i festival e gli eventi delle Città del Libro che ne abbiano i requisiti possano aspirare al traguardo dello statuto di bene culturale immateriale: un riconoscimento non simbolico ma cogente a chi ha saputo generare e fondare nel tempo, con il proprio specifico territorio, una relazione particolare e non fungibile di messa in valore e produzione di ricchezza culturale ed economica. Alla sessione di Roma delle Città del Libro, Giuseppe De Rita ha raffigurato con l’incisività che gli è propria il senso della battaglia per il riconoscimento di bene culturale agli eventi legati al libro e alla lettura. «Un bene culturale materiale come un monumento o un museo – ha osservato De Rita - non si moltiplica, sta lì; mentre un festival deve rinnovarsi costantemente, andare in giro a vedere gli argomenti, le novità, deve collocarsi all’interno di una filiera che dialoghi con le entità produttive e il sistema complessivo dell’offerta culturale ed economica di un territorio. Un bene è culturale non se è “materiale” o “immateriale” ma se fa cultura: se produce cioè relazione, se sa moltiplicarsi». Non è casuale che, accanto alle formule tradizionali del festival e del salone, si stia poi consolidando in questi anni un nuovo luogo di fruizione del libro. Un luogo naturale e «democratico» perché è capace di portare il libro a intercettare anche il flusso dei lettori occasionali, casuali e dei non

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lettori. È la strada. Come nella cultura dell’alimentazione il cibo di strada, lo street food ha recuperato il posto che rivestiva da secoli nelle tradizioni delle varie città e Paesi, così il libro ha trovato il coraggio di uscire dai suoi santuari e luoghi canonici per invadere le strade e le piazze della città. Da otto anni lo fa a Torino ogni ottobre con Portici di Carta, che per un intero fine settimana trasforma i portici del centro storico in una libreria all’aperto lunga oltre due chilometri, animata dagli autori e dalle proposte di oltre 120 librai con decine di migliaia di titoli. Lo fa a Milano con BookCity, nello stesso spirito di portare l’autore, le presentazioni, gli spettacoli in mezzo alla gente e non aspettare che sia il pubblico a venire da loro. Un significato profondo e innovativo che meriterebbe qualche riflessione supplementare. Sotto quest’aspetto trovo molto positiva l’idea dell’assessore Del Corno e del presidente Montroni di individuare ogni anno a rotazione una delle Città del Libro alla quale conferire il titolo di Città della Lettura, di cui la Milano dell’Expo è apripista. Un precedente importante come metodo e esperienza è quello di Torino, che nel 2006-2007 è stata Capitale Mondiale del Libro Unesco: un anno che l’ha vista ideare, promuovere e ospitare qualcosa come 848 eventi dedicati al libro e alla lettura in città, sul territorio piemontese e in tutta Italia con il Grand Re-tour, il viaggio alla ricerca della creatività italiana all’inizio del XXI secolo. Mi pare per tutti questi motivi che la doppia formula della Città della Lettura e del Patto per la Lettura - che ciascuna città che via via raccoglierà il testimone stipulerà con gli attori del proprio territorio - possa operare una sintesi efficace fra le quattro macro-ragioni che hanno spinto le Città del Libro a lavorare insieme. È un’idea che ci auguriamo riesca a mettere a punto un format o modello organizzativo virtuoso, riproducibile e senza sovrapposizioni; che fissi l’asticella di uno standard qualitativo elevato. E che soprattutto sappia proporre in modo originale, sostenibile e attrattivo iniziative capaci di riportare il libro e la lettura al posto che meritano, in una società che voglia continuare ad avere a cuore, in modo non rassegnato o ripiegato, la scommessa sul proprio futuro e sulle generazioni cui esso sarà affidato.