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Lingua e Letteratura latina B a.a. 2004 – 2005

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Testi

Quinto Orazio Flacco Carmen saeculare

Febo, Diana, signora delle selve, luce del cielo, sempre venerati venerabili, esaudite i voti in questo giorno sacro, che nei versi sibillini prescrive alle vergini elette e ai fanciulli di cantare un inno agli dei che amarono i nostri sette colli. Sole fecondo, che col carro ardente porti e nascondi il giorno, e nuovo e antico rinasci, nulla più grande di Roma possa mai tu vedere! E tu, che dolce schiudi a tempo i parti per rito, proteggi le madri, Ilítia, o come tu vuoi essere invocata: Lucina, Genitale. Educa i figli, dea, e benedici il decreto che regola le nozze delle donne e la legge di famiglia che accende nuove vite, perché al compiersi di centodieci anni, ritornino i canti e le feste affollate per tre limpidi giorni e tre notti serene. E voi, Parche, che la sorte fissata

rivelate, senza che niente possa mutarla, aggiungete a quelli compiuti altri buoni destini. La terra ricca di animali e di biade incoroni di spighe la campagna; piogge e brezze benefiche del cielo ne nutrano i prodotti. Deposti i dardi, tenero e tranquillo ascolta, Apollo, i giovani che pregano, e tu, Luna, regina delle stelle, ascolta le fanciulle. Se Roma è opera vostra e milizie Troiane occuparono il lido etrusco, impegnate a mutare città, casa, solcando in salvo il mare; se scampato alla strage, il pio Enea aprì ai suoi un varco che potesse savarli in mezzo alle fiamme di Troia, per donargli di più; o dei, date virtù ai nostri giovani, date dolce riposo alla vecchiaia e alla gente di Romolo potenza, figli e tutta la gloria. E ciò che vi chiede con tori bianchi il sangue puro di Anchise e di Venere, forte con il nemico e mite con i vinti, fate voi che l’ottenga. Ormai per terra e mare i Parti temono l’arte del suo braccio e le scuri albane; ormai la superbia di Sciti e Indiani attende la sentenza. Fede, pace, onore e il pudore antico, la virtù smarrita osano ora tornare e lieta appare l’abbondanza col suo corno ricolmo. Profeta adorno di un arco abbagliante, Febo, che siede fra le nove Muse e con la sua arte risana le membra del nostro corpo infermo, quando guarda sereno il Palatino, dall’uno all’altro secolo prolunga, e per tempi migliori, la fotuna dell’impero romano. E Diana, che sull’Aventino e l’Àlgido regna, esaudisce i sacerdoti chini in preghiera e porge l’orecchio benigno ai voti dei ragazzi.

Che questo vogliano Giove e gli dei è fede certa, che il coro, istruito a tessere le lodi di Febo e Diana, porta dento di sé. (tr. Mario Ramous) Phoebe silvarumque potens Diana, lucidum caeli decus, o colendi semper et culti, date quae precamur tempore sacro, quo Sibyllini monuere versus 5 virgines lectas puerosque castos dis, quibus septem placuere colles, dicere carmen. alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem 10 nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius. Rite maturos aperire partus lenis, Ilithyia, tuere matres, sive tu Lucina probas vocari 15 seu Genitalis: diva, producas subolem patrumque prosperes decreta super iugandis feminis prolisque novae feraci lege marita, 20 certus undenos deciens per annos orbis ut cantus referatque ludos ter die claro totiensque grata nocte frequentis. Vosque, veraces cecinisse Parcae, 25 quod semel dictum est stabilisque rerum terminus servet, bona iam peractis iungite fata. fertilis frugum pecorisque Tellus spicea donet Cererem corona; 30 nutriant fetus et aquae salubres et Iovis aurae. condito mitis placidusque telo supplices audi pueros, Apollo; siderum regina bicornis, audi, 35 Luna, puellas. Roma si vestrum est opus Iliaeque litus Etruscum tenuere turmae, iussa pars mutare lares et urbem sospite cursu, 40 cui per ardentem sine fraude Troia castus Aeneas patriae superstes liberum munivit iter, daturus plura relictis: di, probos mores docili iuventae, 45 di, senectuti placidae quietem, Romulae genti date remque prolemque et decus omne. Quaeque vos bobus veneratur albis clarus Anchisae Venerisque sanguis, 50 impetret, bellante prior, iacentem lenis in hostem.

iam mari terraque manus potentis Medus Albanasque timet securis, iam Scythae responsa petunt, superbi 55 nuper et Indi. iam Fides et Pax et Honos Pudorque priscus et neglecta redire Virtus audet adparetque beata pleno Copia cornu. 60 Augur et fulgente decorus arcu Phoebus acceptusque novem Camenis, qui salutari levat arte fessos corporis artus, si Palatinas videt aequos aras, 65 remque Romanam Latiumque felix alterum in lustrum meliusque semper prorogat aevum, quaeque Aventinum tenet Algidumque, quindecim Diana preces virorum 70 curat et votis puerorum amicas adplicat auris. Haec Iovem sentire deosque cunctos spem bonam certamque domum reporto, doctus et Phoebi chorus et Dianae 75 dicere laudes.

Properzio, Elegie IV 1 Tutto quanto vedi, ospite, dove Roma è così grande, prima del frigio Enea fu un’estensione di colli e prati; e dove si erge sul Palatino il tempio di Febo Navale, si adagiarono i fuggitivi buoi di Evandro. Questi aurei templi si innalzarono per dèi d’argilla, 5 né fu tenuta a vergogna una rozza capanna; il padre Tarpeo tuonava dalla nuda rupe, e il Tevere era fiume straniero ai nostri armenti. E dove sui gradini s’innalza la casa di Remo, un tempo un solo focolare era il grande regno dei due fratelli. 10 La Curia, che ora risplende superba delle toghe preteste dei senatori, ebbe i padri, spiriti agresti, coperti da pelli. La bùccina chiamava a consesso gli antichi Quiriti. Spesso cento di loro seduti sull’erba costituivano il senato. Non v’erano sinuosi tendaggi a cadere nel concavo teatro, 15 né la scena emanava profumo di cerimoniale di croco. Nessuno si preoccupava di cercare dèi stranieri, poiché la folla assisteva con animo sospeso, trepida ai riti patrii, e celebravano con fieno acceso le annuali Palilie, feste lustrali che oggi si rinnovano con il sangue d’un mutilato cavallo. 20 Vesta era povera, e si compiaceva di piccoli asini inghirlandati, magre vacche portavano umili arredi sacri. Porci ingrassati purificavano i modesti crocicchi e il pastore sacrificava visceri di pecora al suono d’uno zufolo. L’aratore, coperto di pelli, agitava la setolosa sferza, 25

e da qui il licenzioso Luperco fabiano trae il suo sacro rito. Il rude soldato non risplendeva di micidiali armi: ma nudi ingaggiavan zuffe con pali induriti al fuoco. Licmone, incappucciato dal gàlero, per primo pose le tende, gran parte dei suoi beni Tazio l’aveva nelle greggi. 30 Da qui derivarono i guerrieri Tizii e Ramnensi e i solonii Luceri, da qui Romolo irruppe con i suoi quattro cavalli bianchi. In realtà quando Roma era ancora un’angusta città, Boville non era nemmeno un sobborgo, Gabi, ora quasi inesistente, era un centro popoloso, e Alba si ergeva potente nata sotto l’auspicio 35 d’una bianca scrofa, ed era un lungo cammino raggiungere Fidene. Gli odierni figli di Roma non hanno nulla dei padri, se non il nome: non crederebbero che una lupa è stata la nutrice della loro stirpe. Qui più felicemente, o Troia, inviasti i Penati fuggiaschi; oh, con quale auspicio ha navigato la nave dardania! 40 Già da allora i presagi si mostrarono propizi, poiché in nulla le nocque il ventre spalancato del cavallo di legno, quando il padre s’avvinghiò tremante al collo del figlio, e le fiamme ebbero ritegno di bruciare le sue spalle pietose. Quindi vennero il coraggio di Decio e le scuri di Bruto, 45 e la stessa Venere trasportò le armi del suo Cesare, quando recò le armi vittoriose di Troia che risorgeva. Una terra felice, o Iulo, accolse i tuoi dèi, se è vero che accanto al tripode la Sibilla, sussultando presso l’Averno, disse che i campi dovevano essere purificati da Remo, tratti gli auspici sull’Aventino, 50 o se più tardi si avverarono i vaticini della profetessa di Pergamo, riguardanti la persona e la sorte del vecchio Priamo: “Volgete indietro i cavalli, o Danai. Vincete inutilmente. La terra di Ilio vivrà, e Giove darà armi a queste ceneri”. O marzia lupa, tu la migliore nutrice per le nostre imprese, 55 quali mura sorsero alimentate dal tuo latte! Mura che vorrei cantare con devoti versi: ma ahimè, una flebile voce esita sulle mie labbra! Tuttavia qualunque rivo di poesia fluirà dal mio esile petto, sarà tutto interamente al servizio della patria. 60 Ennio cinga pure i suoi versi di un’irta corona: a me, o Bacco, porgi le fronde della tua edera, affinché l’Umbria si vanti superba dei miei libri, l’Umbria, terra natale del Callimaco romano. Chiunque ne veda le rocche che si ergono dalle valli, 65 apprezzi quelle mura per i frutti del mio ingegno! Roma, aiutami, nasce un’opera in tuo onore: date, o cittadini, splendidi auspici, e un uccello canti fausto alla mia impresa! Celebrerò i sacri giorni festivi e gli antichi nomi dei luoghi: il mio cavallo dovrà sudare per raggiungere queste mete. 70 HOROS Dove ti precipiti, mutevole Properzio, incapace di cantare i fati? I tuoi fili non sono intessuti da una conocchia propizia. Ti procuri lacrime con il tuo canto, Apollo è sfavorevole:

chiedi all’avversa lira parole di cui dovrai dolerti. Darò responsi sicuri da fonti sicure, 75 o sarò un indovino incapace di muovere le costellazioni sulla sfera di bronzo. Nacqui da Orope di Babilonia, prole di Archita, io Horos, e della mia casa fu avo Conone. Gli dèi mi sono testimoni, non ho tralignato dai consanguinei, e nei miei libri nulla viene prima della verità. 80 Ora si fa mercato degli dèi, e con loro s’inganna Giove. Dirò le costellazioni dell’obliqua ruota più volte percorsa, e l’astro propizio di Giove e quello rapace di Marte, la stella di Saturno infausta ad ogni creatura, e cosa suscitino i Pesci e il segno ardito del Leone, 85 cosa il Capricorno, che si bagna nelle onde esperie: “Troia, tu cadrai, e tu, troiana Roma, risorgerai”, e canterò la lunga fila dei <…> del mare e della terra. Proprio io ho detto, quando Arria mostrava i suoi figli gemelli (ella dava loro le armi contro il divieto degli dèi), 90 che ad essi non era lecito riportare i giavellotti presso i Penati: e ora due tombe confermano la mia veridicità. Infatti, mentre Luperco proteggeva il muso ferito del suo cavallo, caduto il cavallo non seppe badare a se stesso, e cadde anch’egli; e Gallo, mentre difendeva in campo le insegne a lui affidate, 95 cadde dinanzi al rostro insanguinato della sua aquila. Giovani votati alla morte, duplice lutto di un’avida madre: la mia predizione era vera ma è accaduta contro il mio volere. Ugualmente, quando Lucina prolungava le doglie di Cinara, e il peso del lento embrione indugiava nell’utero, 100 dissi: “Fa’ a Giunone un voto che può esser esaudito”, e quella partorisce, e ai miei libri è assegnata la vittoria. Ciò non è spiegato dal sabbioso antro di Giove nella Libia, né dalle fibre degli animali che esprimono i messaggi divini, né dall’aleggiare della cornacchia, se alcuno lo interpreti, 105 o dall’ombra dell’estinto che esca da magiche acque: bisogna osservare la via del cielo, e il preciso percorso attraverso le costellazioni, e chiedere testimonianza alle cinque zone. Ne sarà severo esempio Calcante: egli infatti in Aulide fece salpare le navi ben ormeggiate alle pietose rupi, 110 e immergere il ferro nella gola della figlia di Agamennone: così l’Atride spiegò le vele insanguinate. E tuttavia i Danai non tornarono; e tu cessa di piangere, o Troia, pur distrutta, e guarda i golfi dell’Eubea! Nauplio sul far della notte accende i fuochi vendicatori, 115 e la Grecia oppressa dalla sua stessa preda galleggia sui flutti. O vittorioso Aiace Oileo, rapisci e ama la profetessa, che Minerva vieta di strappare dalla vicinanza della sua veste. Fin qui i racconti: ora passerò ai tuoi astri: preparati ad assistere sereno a nuovi motivi di pianto. 120 L’Umbria antica ti genera da illustri Penati (mento forse? o ben ricordo la terra della tua patria?), dove la nebbiosa Mevania stilla umidità nei declivi campi e l’umbro lago d’estate intiepidisce le sue acque,

e sulla vetta sorgono le mura dell’alta Assisi, 125 mura rese più note dall’opera del tuo ingegno. Raccogliesti le ossa del padre, in età non adatta a tale triste incombenza, e sei stato costretto a dimorare in un’umile casa: infatti mentre molti giovenchi aravano i tuoi campi, la triste pertica ti sottrasse gli averi ben coltivati. 130 Poi quando dimettesti dall’inesperto collo di adolescente l’aurea bolla, e al cospetto degli dèi della madre indossasti la libera toga virile, allora Apollo ti dettò pochi versi del suo canto, e ti proibì di far risonare le tue parole nel delirante Foro. Ma tu componi elegie, opera seducente (questo è il tuo campo), 135 affinché la turba degli altri scriva seguendo il tuo esempio. Militerai sotto le blande armi di Venere, e sarai un arrendevole nemico per i suoi fanciulli. Una sola donna vanificherà le tue palme di vittoria, quali che siano, sempre conquistate con fatica; 140 e quando tenterai di scuotere via dal mento il gancio ben infisso, non otterai nulla, l’uncino ti premerà con la sua punta. Vedrai la notte e il giorno ad arbitrio di lei, e anche le lacrime ti cadranno dagli occhi per suo comando. Non ti daranno aiuto mille guardie, né porte sigillate: 145 per una donna decisa a ingannare, basta una fessura. Ora, sia che la tua nave lotti in mezzo alle onde, sia che tu vada nemico inerme contro uomini armati, sia che la terra tremando si fenda in una voragine, temi il sinistro dorso del Cancro degli otto piedi. 150 (tr. L. Canali)

"Hoc, quodcumque uides, hospes, qua maxima Roma est, ante Phrygem Aenean collis et herba fuit; atque ubi Nauali stant sacra Palatia Phoebo, Euandri profugae concubuere boues. fictilibus creuere deis haec aurea templa, nec fuit opprobrio facta sine arte casa; Tarpeiusque pater nuda de rupe tonabat, et Tiberis nostris aduena bubus erat. qua gradibus domus ista Remi se sustulit, olim unus erat fratrum maxima regna focus. curia, praetexto quae nunc nitet alta senatu, pellitos habuit, rustica corda, Patres. bucina cogebat priscos ad uerba Quiritis: centum illi in prato saepe senatus erat. nec sinuosa cauo pendebant uela theatro, pulpita sollemnis non oluere crocos. nulli cura fuit externos quaerere diuos, cum tremeret patrio pendula turba sacro, annuaque accenso celebrante Parilia faeno, qualia nunc curto lustra nouantur equo. Vesta coronatis pauper gaudebat asellis, ducebant macrae uilia sacra boues. parua saginati lustrabant compita porci, pastor et ad calamos exta litabat ouis. uerbera pellitus saetosa mouebat arator, unde licens Fabius sacra Lupercus habet.

nec rudis infestis miles radiabat in armis: miscebant usta proelia nuda sude. prima galeritus posuit praetoria Lycmon, magnaque pars Tatio rerum erat inter ouis. hinc Tities Ramnesque uiri Luceresque Soloni, quattuor hinc albos Romulus egit equos. quippe suburbanae parua minus urbe Bouillae et, qui nunc nulli, maxima turba Gabi. et stetit Alba potens, albae suis omine nata, ac tibi Fidenas longa erat isse uia. nil patrium nisi nomen habet Romanus alumnus: sanguinis altricem non pudet esse lupam. huc melius profugos misisti, Troia, Penatis; heu quali uecta est Dardana puppis aue! iam bene spondebant tunc omina, quod nihil illam laeserat abiegni uenter apertus equi, cum pater in nati trepidus ceruice pependit, et uerita est umeros urere flamma pios. tunc animi uenere Deci Brutique secures, uexit et ipsa sui Caesaris arma Venus, arma resurgentis portans uictricia Troiae: felix terra tuos cepit, Iule, deos, si modo Auernalis tremulae cortina Sibyllae dixit Auentino rura pianda Remo, aut si Pergameae sero rata carmina uatis longaeuum ad Priami uera fuere caput: "uertite equum, Danai! male uincitis! Ilia tellus uiuet, et huic cineri Iuppiter arma dabit." optima nutricum nostris lupa Martia rebus, qualia creuerunt moenia lacte tuo! moenia namque pio coner disponere uersu: ei mihi, quod nostro est paruus in ore sonus! sed tamen exiguo quodcumque e pectore riui fluxerit, hoc patriae seruiet omne meae. Ennius hirsuta cingat sua dicta corona: mi folia ex hedera porrige, Bacche, tua, ut nostris tumefacta superbiat Vmbria libris, Vmbria Romani patria Callimachi! scandentis quisquis cernit de uallibus arces, ingenio muros aestimet ille meo! Roma, faue, tibi surgit opus, date candida ciues omina, et inceptis dextera cantet auis! sacra diesque canam et cognomina prisca locorum: has meus ad metas sudet oportet equus."

HOROS

"quo ruis imprudens, uage, dicere fata, Properti? non sunt a dextro condita fila colo. accersis lacrimas cantans, auersus Apollo: poscis ab inuita uerba pigenda lyra. certa feram certis auctoribus, aut ego uates nescius aerata signa mouere pila. me creat Archytae suboles Babylonius Orops Horon, et a proauo ducta Conone domus. di mihi sunt testes non degenerasse propinquos, inque meis libris nil prius esse fide. nunc pretium fecere deos et (fallitur auro Iuppiter) obliquae signa iterata rotae felicesque Iouis stellas Martisque rapaces et graue Saturni sidus in omne caput;

quid moueant Pisces animosaque signa Leonis, lotus et Hesperia quid Capricornus aqua. [dicam: "Troia cades, et Troica Roma, resurges;" et maris et terrae longa sepulcra canam.] dixi ego, cum geminos produceret Arria natos (illa dabat natis arma uetante deo): non posse ad patrios sua pila referre Penatis: nempe meam firmant nunc duo busta fidem. quippe Lupercus, equi dum saucia protegit ora, heu sibi prolapso non bene cauit equo; Gallus at, in castris dum credita signa tuetur, concidit ante aquilae rostra cruenta suae: fatales pueri, duo funera matris auarae! uera, sed inuito, contigit ista fides. idem ego, cum Cinarae traheret Lucina dolores, et facerent uteri pondera lenta moram, "Iunonis facito uotum impetrabile" dixi: illa parit: libris est data palma meis! hoc neque harenosum Libyae Iouis explicat antrum, aut sibi commissos fibra locuta deos, aut si quis motas cornicis senserit alas, umbraue quae magicis mortua prodit aquis: aspicienda uia est caeli uerusque per astra trames, et ab zonis quinque petenda fides. exemplum graue erit Calchas: namque Aulide soluit ille bene haerentis ad pia saxa ratis; idem Agamemnoniae ferrum ceruice puellae tinxit, et Atrides uela cruenta dedit; nec rediere tamen Danai: tu diruta fletum supprime et Euboicos respice, Troia, sinus! Nauplius ultores sub noctem porrigit ignis, et natat exuuiis Graecia pressa suis. uictor Oiliade, rape nunc et dilige uatem, quam uetat auelli ueste Minerua sua! hactenus historiae: nunc ad tua deuehar astra; incipe tu lacrimis aequus adesse nouis. Vmbria te notis antiqua Penatibus edit -- mentior? an patriae tangitur ora tuae?-- qua nebulosa cauo rorat Meuania campo, et lacus aestiuis intepet Vmber aquis, scandentisque Asis consurgit uertice murus, murus ab ingenio notior ille tuo. ossaque legisti non illa aetate legenda patris et in tenuis cogeris ipse lares: nam tua cum multi uersarent rura iuuenci, abstulit excultas pertica tristis opes. mox ubi bulla rudi dimissa est aurea collo, matris et ante deos libera sumpta toga, tum tibi pauca suo de carmine dictat Apollo et uetat insano uerba tonare Foro. at tu finge elegos, fallax opus: haec tua castra! - scribat ut exemplo cetera turba tuo. militiam Veneris blandis patiere sub armis, et Veneris Pueris utilis hostis eris. nam tibi uictrices quascumque labore parasti, eludit palmas una puella tuas: et bene cum fixum mento discusseris uncum, nil erit hoc: rostro te premet ansa tuo. illius arbitrio noctem lucemque uidebis: gutta quoque ex oculis non nisi iussa cadet. nec mille excubiae nec te signata iuuabunt limina: persuasae fallere rima sat est.

nunc tua uel mediis puppis luctetur in undis, uel licet armatis hostis inermis eas, uel tremefacta cauo tellus diducat hiatum: octipedis Cancri terga sinistra time!"