DANTE NELL’INFERNO MODERNO LA LETTERATURA ......dante nell’inferno moderno: la letteratura dopo...

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«rassegna europea di letteratura italiana» · 33 · 2009 DANTE NELL’INFERNO MODERNO : LA LETTERATURA DOPO AUSCHWITZ Rossend Arqués 1. L’ Inferno dantesco nella letteratura moderna I l processo di riscoperta di Dante e, in particolare della prima cantica della Com- media, ad opera dei romantici ha reso l’Inferno dantesco il paradigma per la de- scrizione di ogni trista realtà sia terrena che ultraterrena. Lamartine affermava che Dante è il « poeta nel quale la nostra epoca ravvisa la propria immagine », e non a caso Balzac intitola la sua opera Comédie humaine. « Dante – scrive Sozzi – è per tutti il poeta dell’umanità dolorante, del male del mondo, dell’indicibile pena, più che il poeta dell’ebbrezza, dell’ineffabile allegrezza, del riso dell’universo ». 1 Vic- tor Hugo, oltre a citarlo nel poema La Vision de Dante all’interno della Légende des Siècles, ne usa struttura e modi in Les Misérables, perché legge l’Inferno dantesco in termini realistici, cioè come oggettiva trascrizione dell’umana vita qual è : « L’Enfer c’est la vie », come scrive lo stesso Hugo nella poesia iniziale di Voix intérieures. Le anime morte di Gogol corrispondono alla prima cantica, cioè all’Inferno, di un suo peculiare progetto di Commedia slava, che mai porterà a termine. Nella letteratura del xx secolo, poi, sono tanti gli scrittori, più o meno realistici, che si misurano con l’Inferno dantesco, da Unreal City del The Waste Land di T. S. Eliot con echi baude- lairiani, alle molte opere di Beckett in cui sono evidenti i riferimenti agli aspetti in- fernali e purgatoriali, senza tralasciare il filone assai ricco dei romanzi del cosidetto splatterpunk che hanno fatto un uso esplicito, ma anche superficiale e spettacolare, della prima cantica dantesca, e ai quali si possono ricondurre numerosi film che ne hanno tratto ispirazione. 2 Ma non solo, molte sono le opere italiane del dopoguerra che hanno ben pre- sente i moduli della Commedia. Cito, tra le tante, quelle in cui è più manifesto questo tributo, e cioè La luna e i falò di Pavese, da lui stesso considerata la sua Commedia, Conversazione in Sicilia di Vittorini, racconto del viaggio nel dolore siciliano e nella personale infanzia dell’autore in compagnia di una sorta di duca virgiliano, rappresentato dalla madre Concezione, in cui alcuni personaggi (e non solo il Gran Lombardo) hanno i loro omologhi in altrettanti personaggi della prima cantica dantesca. Per non parlare de La pelle di Curzio Malaparte, Rossend Arqués, Universitad Autonoma, Barcelona....... [inserire indirizzo completo]. E-mail: rossend_ar- [email protected]. 1 L. Sozzi, La letteratura francese e l’Italia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, vol. xii : La letteratura italiana fuori d’Italia, Roma, Salerno, 2005, pp. 643-646. 2 Mi riferisco a autori come C. Barker (Books of Blood), Th. Harris (dal cui romanzo, The silence of the innocents è tratto il film The silence of the lambs di J. Demme) e il film Seven di D. Fincher, per citare solo i capostipiti.

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  • «rassegna europea di letteratura italiana» · 33 · 2009

    DANTE NELL’INFERNO MODERNO : LA LETTERATURA DOPO AUSCHWITZ

    Rossend Arqués

    1. L’Inferno dantesco nella letteratura moderna

    Il processo di riscoperta di Dante e, in particolare della prima cantica della Com-media, ad opera dei romantici ha reso l’Inferno dantesco il paradigma per la de-scrizione di ogni trista realtà sia terrena che ultraterrena. Lamartine affermava che Dante è il « poeta nel quale la nostra epoca ravvisa la propria immagine », e non a caso Balzac intitola la sua opera Comédie humaine. « Dante – scrive Sozzi – è per tutti il poeta dell’umanità dolorante, del male del mondo, dell’indicibile pena, più che il poeta dell’ebbrezza, dell’ineffabile allegrezza, del riso dell’universo ».1 Vic-tor Hugo, oltre a citarlo nel poema La Vision de Dante all’interno della Légende des Siècles, ne usa struttura e modi in Les Misérables, perché legge l’Inferno dantesco in termini realistici, cioè come oggettiva trascrizione dell’umana vita qual è : « L’Enfer c’est la vie », come scrive lo stesso Hugo nella poesia iniziale di Voix intérieures. Le anime morte di Gogol corrispondono alla prima cantica, cioè all’Inferno, di un suo peculiare progetto di Commedia slava, che mai porterà a termine. Nella letteratura del xx secolo, poi, sono tanti gli scrittori, più o meno realistici, che si misurano con l’Inferno dantesco, da Unreal City del The Waste Land di T. S. Eliot con echi baude-lairiani, alle molte opere di Beckett in cui sono evidenti i riferimenti agli aspetti in-fernali e purgatoriali, senza tralasciare il filone assai ricco dei romanzi del cosidetto splatterpunk che hanno fatto un uso esplicito, ma anche superficiale e spettacolare, della prima cantica dantesca, e ai quali si possono ricondurre numerosi film che ne hanno tratto ispirazione.2

    Ma non solo, molte sono le opere italiane del dopoguerra che hanno ben pre-sente i moduli della Commedia. Cito, tra le tante, quelle in cui è più manifesto questo tributo, e cioè La luna e i falò di Pavese, da lui stesso considerata la sua Commedia, Conversazione in Sicilia di Vittorini, racconto del viaggio nel dolore siciliano e nella personale infanzia dell’autore in compagnia di una sorta di duca virgiliano, rappresentato dalla madre Concezione, in cui alcuni personaggi (e non solo il Gran Lombardo) hanno i loro omologhi in altrettanti personaggi della prima cantica dantesca. Per non parlare de La pelle di Curzio Malaparte,

    Rossend Arqués, Universitad Autonoma, Barcelona....... [inserire indirizzo completo]. E-mail: [email protected].

    1 L. Sozzi, La letteratura francese e l’Italia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, vol. xii : La letteratura italiana fuori d’Italia, Roma, Salerno, 2005, pp. 643-646.

    2 Mi riferisco a autori come C. Barker (Books of Blood), Th. Harris (dal cui romanzo, The silence of the innocents è tratto il film The silence of the lambs di J. Demme) e il film Seven di D. Fincher, per citare solo i capostipiti.

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    romanzo uscito contemporaneamente in Italia e in Francia, che esordisce con un esplicito riferimento a Inf. iii, 22 ss., a sua volta contenente molti altri che per ragioni di tempo non posso qui affrontare, in cui la « terribile folla […] squallida, sporca, affamata, vestita di stracci » convive con i soldati vincitori che « urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo ». 1 Voglio inserire in questo elenco incompleto anche il breve testo di Buzzati, Viaggio agli inferni del secolo (1966), così pure il denso dialogo che Manganelli stabilisce con la visione dantesca dell’inferno in molte delle sue opere, come il romanzo Dall’inferno in cui l’Ade non è più un luogo ultraterreno, ma occupa tutto quello che noi chia-miamo vita oppure realtà.

    Contemporaneamente a questi testi più o meno realistici (per quanto larga-mente simbolici) ci sono quelli dei protagonisti, se non dei sopravvissuti, dei grandi drammi che hanno sconvolto l’Europa e il mondo nel xx secolo. Valerio Marucci sostiene che « la memoria strutturale della Commedia presiede e sottende le opere epiche che cercano di rappresentare la tragedia bellica del secolo e in essa la ricerca della salvezza, individuale e/o collettiva (in Italia ne è un esempio il libro di Primo Levi Se questo è un uomo) : basti citare Una giornata di Ivan Denisovic (1962), di Aleksandr Solzenizin ; La narrazione di Kolyma Varlam Chalamov ;2 Der Untergang der Titanic, di Hans Magnus Enzensberger, come pure il dramma di Pe-ter Weiss, Die Ermitlung (‘L’indagine’), tragico confronto tra le vittime dei lager e i loro aguzzini, ispirato alla Commedia per dichiarazione dello stesso autore ». Dante, scrive Eugenio Montale, « non può essere ripetuto […]. Poeta concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale ».3 Ciò, però, non impedisce che la Commedia sia ancora un testo con il quale confrontarsi, anche per coloro che hanno in mente il suo superamento o addirittura la negazione del suo riflesso nella letteratura attuale.

    1 Molti sono i parallelismi fra Malaparte e Dante : Inf. v, 35 : « quivi le strida, il compianto, il lamento » ; che associa strida e al pianto compassionevole (compianto), è quasi identico al passo di Malaparte che dice : « uno stridor di denti, un pianto soffocato » oppure Inf. xii, 102 : « dove i bolliti facieno alte strida », in cui il termine ‘strida’ è associato a una situazione vicina a quella descritta da Malaparte nella quale i « bolliti » sono i tiranni immersi in un fiume di sangue bollente (« Or ci movemmo con la scorta fida / lungo la proda del bollor ver-miglio, / dove i bolliti faceano alte strida. // Io vidi gente sotto infino al ciglio […] »). Per non parlare delle « orribili teste » che affiorano dall’acqua o dal terreno « mozze dalla mannaia », che nell’infernale dimensione straniata, sembrano avere una vita propria, quasi mostruose realtà artificialmente separate dal corpo (« Per tutto il giorno quelle teste parlaron tra loro »), che ricordano immagini dantesche : da Gerione che affiora nel buio (Inf. xvii, 8 : « sen venne, e arrivò la testa e ’l busto ») ai corpi lacerati dei seminatori di discordie e l’inven-zione del poeta Bertran de Born con la testa retta col braccio (Inf. xxviii, 129 : « levò il braccio alto con tutta la testa / per appressarne le parole sue »).

    2 V. Chalamov, Récits de la Kolyma, nouvelle édition, préf. de L. Jurgenson, postf. de M. Heller, Paris, Ver-dier, 2003.

    3 E. Montale, Esposizione su Dante (1965), in Idem, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, pp. ? ? ?.

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    2. Dante nella letteratura dopo Auschwitz 1

    La letteratura dei campi di sterminio nazisti2 pone diversi problemi ai critici, do-vuti soprattutto al fatto che sono dei testi che parlano di un vissuto ancora così lacerante. L’enormità di questa tragedia umana fece che molti di questi testimoni, nel momento di scrivere le loro esperienze, non si ponessero neanche il problema di come scriverle, giacché ciò che a loro stava a cuore era cosa dire e chi lo dice. Per loro, dunque, l’unico stile possibile era strettamente legato a quello che avevano vissuto e all’urgenza e alla necessità di comunicare i fatti nella loro tragica e disu-mana realtà.3 Non avevano tenuto conto, però, che le loro narrazioni, per così dire ingenue, si dovevano scontrare con due ostacoli : da una parte l’incomunicabilità dell’esperienza sotto forma di racconto realistico, dall’altra la tesi, di cui si servono non soltanto i negazionisti dell’olocausto, secondo cui i sopravvissuti non posso-no essere considerati dei veri e propri testimoni, non erano cioè musulmani. La questione era e rimane molto più complessa. In anni recenti vi è stato un intenso dibattito, nel quale non sono mancati insulti tra le parti, sul come comunicare – non-ché sulla valenza etica della verità – ma anche su che cosa comunicare e chi lo co-munica. In relazione al come il dibattito era iniziato subito dopo la fine della guerra, aprendo anche la strada al paradosso negazionista per cui non possono esser veri testimoni quelli che narrano sotto forma di fiction gli orrori pur vissuti in prima persona. Considerati, invece, come opere di letteratura, i testi perdono, secondo questa lettura negazionista, la loro forza denotativa e di denuncia, per diventare frutto dell’immaginazione dei loro autori. « Il ne peut avoir échappé – scrive Paul Rassinier, fondatore del moderno negazionismo – à l’opinion que l’imagination du romancier, les excès de lyrisme du poète, la partialité intéressée du politicien ou les relents de haine de la victime, servent tour à tour ou de concert, de toile de fond aux récits jusqu’ici publiés ».4 Questo è il secondo dei due paradossi – essendo il primo quello dell’incomunicabilità – che ci proponiamo di trattare in questo arti-

    1 Si vedano tra le altre le seguenti opere : T. Todorov, Face à l’extrême, Paris, Seuil, 1994 ; Z. Bauman, Moder-nidad y Holocausto, Madrid, Sequitur, 1997 ; A. Bertoni, L’Olocausto e l’identità letteraria, in Mappe della lettera-tura europea e mediterranea. iii : Da Gogol al Postmoderno, a cura di G. Anselmi, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 198-252 ; G. Grass, Escribir después de Auschwitz, Barcelona, Paidos, 1999 ; S. L. Kremer, Women’s Holocaust Writing. Memory and Imagination, Lincoln-London, University of Nebraska Press, 1999 ; A. Parrau, Écrire les camps, Paris, Belin, 1995 ; M. Pollak, L’expérience concentrationnaire, Paris, Ed. Metailié, 1990 ; A. Reiter, Nar-rating the Holocaust [1995], London-New-York, Continuum, 2000 ; M. Rin, Les récits du génocide. Semiotique de l’indicible, Paris, Delachaux et Niestlé, 1998 ; E. Traverso, Le passé, modes d’emploi. Histoire, mémoire, politique, Paris, La Fabrique, 2006 ; P. Vidal Naquet, Réflexions sur le génocide. Les juifs, la mémoire et le présent iii, Paris, La Découverte, 1995.

    2 E degli altri orrori derivati dal gulag, dal genocido degli Armeni, dalle depurazioni nella Cina di Mao, dalla guerra di Ruanda, dallo sterminio dei gulag, e da un lunguissimo ecc. Per una visione globale degli stermini nel mondo moderno con le loro stupefacenti cifre, si veda il sito : http ://www.liceolevi.it/GENOCIDI/home.htm.

    3 Ricordiamo che secondo gli storici le vittime del genocidio sono le seguenti : 5,6-6,1 milioni di ebrei ; 3,5-6 milioni di prigionieri slavi ; 2,5-4 milioni di prigionieri di guerra ; 1-1,5 milioni di prigionieri politici ; 200.000-800.000 migliaia di Rom e Sinti ; 200.000-300.000 migliaia di portatori di handicap ; 10.000-250.000 migliaia di omosessuali.

    4 P. Rassinier, Mensonge d’Ulysse, Paris, Librairie Française, 1950 (si veda http ://www.vho.org/aaargh/fran/archRassi/prmu/prmu1.html).

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    colo : se chi scrive cerca il realismo, allora il suo racconto non è creduto in quanto è impensabile che si sia potuto salvare, se invece indulge al ‘romanzo’, allora non è più credibile, in quanto ‘inventa’. Un passo del libro di Delbo spiega molto bene il primo di questi paradossi :

    Vous ne croyez pas ce que nous disonsparce quesi c’était vraice que nous disonsnous ne serions pas là pour le direil faudrait expliquerl’inexplicableexpliquer pourquoi viva qui était si forteest-elle morteet non pas moi[…]PourquoiPourquoiParce que tout ici est inexplicable.1

    Si può accedere alla vera esperienza dei campi attraverso le parole ? E se la risposta è sì, quali sono i possibili modi di comunicare il vissuto di ognuno ? Quali le inevitabili trappole che ciascuno di questi modi porta con sé ? Lungo questo articolo cercheremo di analizzare i meccanismi e le strategie testuali che alcuni scrittori-testimoni hanno adottato, mettendo in risalto nei testi in cui tentano di trasmetterci l’orrore dei campi di concentrazione i paradossi derivati dalla presenza della tradizione letteraria, e in particolar modo degli inferi danteschi. Ben conosciamo il ginepraio di controversie che è sorto dall’interpretazione delle narrazioni del lager con la discesa negli inferi di Dante, a partire dall’affermazione di Steiner secondo la quale : « the bibliography of the concentration camps is quite extensive, but nothing in it equals the fullness of Dante’s observations ».2 Per cercare di trovare alcune risposte possibili al ruolo dell’es-tetica nelle narrazioni dell’esperienza dei campi di concentramento,3 ci siamo rivol-ti a un gran numero di autorevoli scrittori : Antelme,4 Gradowski,5 Kertész,6 Levi,7

    1 Ch. Delbo, Auschwitz et après, to. 1 : Aucun de nous ne reviendra ; to. 2 : Une connaissance inutile ; to. 3 : Mesure de nos jours, Paris, Minuit, 1970.

    2 G. Steiner, In Bluebeard’s Castle. Some Notes Towards the Re-definitions of Culture, London, Faber & Faber, 1971, e la critica di F. Rastier, Ulises en Auschwitz. Primo Levi el sobreviviente, trad. de A. Nuño, Barcelona, Re-verso, 2005, pp. 98-101.

    3 Cfr. l’interesantissimo libro di P. Mesnard, C. Kahan, Giorgio Agamben à l’épreuve d’Auschwitzk, Paris, Ki-mé, 2001 e di Rastier, op. cit., pp. 67-108. Si veda anche C. Wardi, Le génocide dans la fiction romanesque, Paris, Puf, 1986.

    4 R. Antelme, La specie umana [1957], trad. it., intr. di A. Cavaglion, Torino, Einaudi, 1997.5 S. Gradowski, Sonderkommando. Diario da un crematorio di Auschwitz, 1944, a cura di Ph. Mesnard e C.

    Saletti, Venezia, Marsilio, 2002.6 I. Kertész, Essere senza destino, Milano, Feltrinelli, 1999 ; I. Kertész, Kaddish pel fill no nascut, trad. Eloi

    Castelló, Barcelona, Quaderns crema, 2004.7 P. Levi, Informe sobre Auschwitz, a cura di L. Debenedetti e Ph. Mesnard, Castelló, La trossa, 2005 ; P. Levi,

    Se questo è un uomo ; La tregua ; Sommersi e salvati, in Idem, Opere, vol. i, a cura di C. Cases, Torino, Einaudi, 1988.

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    Rousset,1 Wiesel,2 per quanto si sia tenuto conto dell’opera di altri scrittori come Semprún, Perec, ecc.3

    2. 1. Indicibilità dell’esperienza

    La domanda sull’indicibilità si pone anche per Dante e la sua esperienza ultraterre-na. Sono molti gli esempi della Terza cantica in cui il poeta si lamenta dell’impossi-bilità di dire in modo adeguato ciò che vede affinché il lettore possa rappresentarlo nella sua mente. Basti una per tutte :

    Perch’io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,sì nol direi, che mai s’imaginasse ;ma creder puossi e di veder si brami.

    (Par. x, 43-45)4

    Bisogna ricordare, comunque, che l’intera Commedia è un viaggio ‘fantastico’, « un viaggio compiuto con l’aiuto dell’immaginazione, nel mondo aperto a Dante da un’eccezionale visione, da un’eccezionale capacità visiva »5 grazie al quale egli ha accesso al mondo visibile e anche a quello invisibile. E questo risulta particolar-mente difficile da intendere per noi moderni occidentali, abituati soltanto a ciò che è visibile e per i quali l’invisibile è un elemento puramente decorativo. Le immagini del viaggio dantesco erano prese molto sul serio, invece, dai primi commentatori per i quali queste immagini non erano affatto strane, giacché l’invisibile era par-te integrante della loro immagine del mondo, cioè della loro mentalità. Si deve dunque parlare di una ‘realtà’ della visione dantesca e del suo tentativo di rende-re tangibile, attraverso parole e figure, il viaggio dello spirito umano attraverso i suoi diversi stadi fino alla contemplazione di Dio. Dante ha percepito con i suoi sensi quanto racconta e ce lo può narrare perchè le cose sono proprio andate così. Quando, invece, i suoi sensi non sono più capaci di decifrare l’esperienza né fisica né mentale, allora viene meno anche la narrazione, cioè la trasposizione linguistica dell’esperienza ultraterrena :

    Oh quanto è corto il dire e come fiocoal mio concetto ! e questo, a quel ch’i’ vidi,e tanto, che non basta a dicer « poco ». […]

    Qual è’l geomètra che tutto s’affigeper misurar lo cerchio, e non ritrova,pensando, quel principio ond’elli indige,

    1 D. Rousset, L’universo concentrazionnario 1943-1945 [1965], con un saggio di G. De Luna, Milano, Baldini & Castoldi, 1997.

    2 E. Wiesel, La notte, trad. it., prefazione di F. Mauriac, Firenze, La Giuntina, 1980.3 Abbiamo anche tenuto conto di E. Bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia, Marsilio, 1999 ; E.

    Kogon, L’Etat SS [1950], Paris, Seuil, 1993 ; G. Perec, L.G. Une aventure des années soixante, Paris, Seuil, 1992 ; G. Pe-rec, W ou le souvenir d’enfance, Paris, Denöel, 1975 ; J. Semprun, La Mort qu’il faut, Paris, Gallimard, 2001 ; Idem, Le grand voyage, Paris, Gallimard, 1972 ; Idem, L’Écriture ou la vie, Paris, Gallimard, 1996 ; T. Borowski, Nuestro ho-gar es Auschwitz, Barcelona, Alba, 2004 ; A. Spiegelman, Maus : un survivant raconte, Paris, Flammarion, 1998.

    4 Anche Par. i, 4-6 e 70-71 ; xiv, 103-105 ; xxiv, 22-27.5 H.-R. Patapievici, Gli occhi di Beatrice. Com’era davvero il mondo di Dante ?, Milano, Bruno Mondadori, 2004,

    p. 12 ; M. Bettetini, Figure di verità. La finzione nel Medioevo occidentale, Torino, Einaudi, 2004.

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    tal era io a quella visione nova :veder voleva come si convennel’imago al cerchio e come vi s’indova ;

    ma non eran da ciò le proprie penne :se non che la mia mente fu percossada un fulgore in che sua voglia venne.

    A l’alta fantasia qui mancò possa ;ma già volgeva il mio disio e ’l vellesì come rota ch’igualmente è mossa,

    l’amor che move il sole e l’altre stelle. (Par. xxxiii, 121-123 e 133-145)

    Solo in quel momento la mente di Dante – che è umana – è veramente sopraffatta dagli eventi : quando cioè la virtù umana – che è anche umana esperienza – arriva al suo limite. L’uomo può immaginare l’ineffabile perché le immagini per quan-to appartengano all’invisibile (phantasmata) possono essere concepite dalla mente umana, per quanto difficile possa essere la loro comprensione e quindi la loro con-versione in parole. Solo l’assenza completa d’immagini determina l’impossibilità di capire e quindi di verbalizzare.

    Diversa, anche se in qualche modo simile, è la questione che ben presto si pon-gono i narratori dei campi di sterminio, circa la possibilità di immaginare e di spie-gare1 le loro atroci esperienze. « A nous-mêmes – scrive Antelme (p. 9) –, ce que nous avions à dire commençait alors à nous paraître inimaginable ». Quanto da loro vissuto doveva essere spiegato, per quanto sembrasse a loro stessi incredibile, in-concepibile e quindi inenarrabile. David Rousset, un altro prigionero politico di area comunista, insiste sull’impossibilità di trasmettere completamente gli orrori dei campi :

    Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile. Anche se le testimonianze costringono la loro intelligenza ad ammetterlo, il corpo si rifiuta. Gli internati sanno. Il combattente che è stato per mesi al fronte ha conosciuto la morte. Ma gli internati hanno vissuto faccia a faccia con la morte tutte le ore della loro esistenza. Essa ha mostrato loro ogni suo volto. Ne hanno toccato con mano tutte le miserie. Ne hanno vissuto l’angoscia come un’osses-sione costante. Hanno sperimentato l’umiliazione delle percosse, la debolezza del corpo sotto la frusta. Hanno constatato la devastazione che produce la fame. Hanno camminato per anni nello scenario indicibile della distruzione di ogni dignità. Sono separati dagli altri da un’esperienza impossibile a trasmettersi.

    (pp. 181-182)2

    Anche perchè i parametri di quelli a cui essi si rivolgono sono inadeguati alla com-prensione degli orrori che riportano.

    1 Si veda L. Jurgenson, L’expérience concentrationnaire est-elle indicible ?, Paris, Éditions du Rocher, 2003 e Wardi, op. cit.

    2 Rousset, op. cit., p. 123. Su questo tipo di affermazioni fonda Agamben la sua teoria dell’ineffabilità dei campi, si veda G. Agamben, L’aperto, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 10 : « Così esattamente – scrive Lewen-tal nel suo semplice jiddish – come gli avvenimenti si verificano non può essere immaginato da nessun essere umano e infatti è inimmaginabile che si possa riportare così esattamente come accaddero le nostre esperien-ze », contro la quale hanno reagito tra gli altri, Mesnard, Kahan, op. cit. e Rastier, op. cit., pp. 149 ss.

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    Questo non significa, però, che i campi siano incomprensibili in sé e per sé, o in quanto atroce risultato di forze irrazionali. Non si può affermare, come vuole qual-cuno, che per Auschwitz non c’è una spiegazione. Kertész nel romanzo Kaddish per il figlio non nato è molto fermo su questo punto, soprattutto in una frase che ci riporta alla mente la distribuzione razionale del male in Dante :

    il male sempre ha una spiegazione razionale, può darsi che Satana stesso sia irrazionale, come lo è Iago, ma le sue creature sono razionali, tutti i loro atti possono essere dedotti da una formula matematica ; se ne può dedurre una specie d’interesse, di affanno di lucro, di pigrizia, di desiderio di piacere e di potere, di codardia […].

    « La terribile, la indicibile, la impensabile banalità del male », per dirla con la ormai famosa frase di Hanna Arendt, diventa spiegabile e dicibile attraverso le immagini della violenza cieca ma non gratuita, per quanto spesso incomprensibile, di cui Dante si serve per rappresentare non solo la terribile giustizia divina che si abbatte sui colpevoli, siano essi tiranni, omicidi, scialacquatori, o altro, ma anche le lotte fra gli uomini nelle strade di Firenze e di tante altre città corrotte. Si può com-prendere il rifiuto di Rastier verso il patetismo delle « orribili visioni infernali » e il conseguente compiacimento letterario presente in alcune critiche alla letteratura dello sterminio, soprattutto quella di Steiner. Ma non per questo si deve sottacere il parallelismo esistente tra l’umanità degradata dalla sofferenza di questa letteratura e la drammaticità altrettanto concreta ed espressiva con cui è fatta la prima cantica : « genti dolorose » (Inf. iii, 17), « sospiri, pianti e altri guai / risonavan per l’aere senza stelle » (Inf. iii, 22-23), « Diverse lingue, orribil favelle / parole di dolore, accenti d’ira / voci alte e fioche […] » (Inf. iii, 26-28).

    Partendo da una riflessione di Primo Levi sulla parzialità del punto di vista di chi è sopravvissuto, in quanto l’unico vero testimone forse può essere solo il « musul-mano »,1 Agamben giunge a formulare come verità assoluta e universale l’impossi-bilità dei superstiti a testimoniare compiutamente quanto da loro vissuto.

    Come scrivono paradossalmente Wiesel e Levi, chi è sopravvissuto « non ha toc-cato il fondo » e cioè « ha fruito di un qualche privilegio ». C’è, quindi, al centro di ogni testimonianza un nucleo « in testimoniabile ». Tutta la letteratura « negazio-nista » ha preso spunto da qui per demolire la testimonianza dei « salvati », la cui mezza verità non si può neanche avvicinare a quella totale dei « sommersi », gli unici a detenerla veramente. Così facendo, il musulmano è diventato l’icona mu-ta dell’orrore ed è stato usato per relativizzare e banalizzare la testimonianza dei sopravvissuti, e la loro esperienza reale – questa sì, né mitica né mistificata – del più imponente meccanismo di disumanizzazione e di sterminio che sia mai stato pensato e realizzato.2

    1 Così erano chiamati nel gergo di Auschwitz quei deportati che fame, percosse, malattia e sofferenze avevano consumato oltre ogni limite, fino a avviarli irrevocabilmente alla fase terminale della loro tragica permanenza nel campo.

    2 Tuttavia questa opposizione non comporta la svalutazione di tutte le testimonianze. Scrivono Mesnard, Kahan, op. cit., p. 78 che G. Didi-Hubermann « met en garde contre l’“adoration mystique” dont ferait preuve le silence et, simultanément, il dénonce son excès contraire, la tentation de rendre “présentable” une image insuportable qui, stylisée ou hypertrophiée, devient ainsi une “icone de l’horreur” ». Cfr. G. Didi-Hubermann, Images malgré tout, Paris, Ed. Minuit, 2003.

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    Credere e affermare che l’esperienza dei campi è « indicibile » ha aperto la strada al concetto di punizione divina dei peccati umani ; non a caso dei termini usati dagli storici ebrei uno, « olocausto », viene da olah, il sacrificio biblico, mentre shoa, che significa « devastazione, catastrofe », nella Bibbia porta con sé l’idea della punizione divina.1

    La caratteristica di indicibilità di questa esperienza limite di cui, come abbiamo già detto, sarebbero veri testimoni soltanto i « musulmani » cioè i « sommersi », è confutata dalla narrazione di un superstite che per alcuni momenti della sua vita nei campi è stato un « musulmano » ma che è rientrato da questo punto di non ri-torno per poterlo raccontare. Si tratta di Gyurka, il giovane personaggio nella cui storia Kertész riassume la sua esperienza dell’universo del lager :

    Allora mi chiese se volevo crepare in questo posto, non tornare mai più a casa e non so che risposta possa aver letto sulla mia faccia, ma sulla sua io vidi tutt’a un tratto una specie di sgomento, di paura, quella stessa con cui generalmente si osservano gli sventurati che non hanno più speranza, i condannati oppure, diciamo gli appestati : e allora mi tornò in mente come si era espresso, una volta, a proposito dei musulmani.

    (p. 146)

    Ma l’indicibilità è messa in discussione anche e soprattutto dalle narrazioni dei po-chi membri dei cosidetti Sonderkommando che, pur non essendo dei sopravvissuti, sono riusciti a trasmettere le loro strazianti testimonianze. Testimoni, però, non tanto della propria morte quanto di quella, da loro stessi resa possibile, delle miglia-ia di vittime dei gas e dei forni crematori fra le quali si contano sia persone appena arrivate ai campi e subito destinate alla morte in quanto troppo giovani o troppo anziani, sia antichi reclusi, i musulmani per l’appunto che, ormai inservibili come bestie da soma, erano inseriti nell’elenco dei ‘selezionati’. Quelli del Sonderkomman-do erano testimoni della morte di coloro che portavano a morire nelle camere a gas che poi ripulivano per altri selezionati. Niente di più indegno e tragico. Dunque, se è vero che non giungono a parlare della propria fine, sono stati, come il personag-gio di Dante, testimoni privilegiati dell’orrore. E anche se l’orrore è inimmagina-bile, è comunque rappresentabile. A differenza del Dante actor, che suscita stupore tra i morti che incontra perché attraversa l’Ade da vivo, cioè come uomo con la sua ombra, il personaggio-narratore del Sonderkommando prova a descrivere l’inferno in terra, rappresentando se stesso come già morto : « Può un morto – si chiede Gra-dowski – piangere i morti ? ».2

    2. 2. È possibile rappresentare gli orrori dei campi ? O quando l’estetica è un problema

    Se la dicibilità dei campi è possibile, in quanto sono realmente esistiti, l’altro grande ostacolo che i superstiti hanno dovuto superare è quello del modo con cui comu-nicare l’orrore di quel vissuto, anche per i risvolti giuridici di cui prima ho detto. La guerra, i lager e la Resistenza al nazifascismo hanno lasciato dietro di sé molti

    1 Agamben, op. cit., pp. 26-29 e A.-V. Sullam Calimani, I nomi dello sterminio, trad. it., Torino, Einaudi, 2001.2 Gradowski, op. cit., p. 74.

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    testimoni. La letteratura italiana del dopoguerra – coincidente in parte con la no-zione di ‘neorealismo’ – abbraccia : a) memorie, senza troppe pretese letterarie, di persone appartenenti soprattutto alla resistenza, b) romanzi o testi letterari i cui personaggi sono donne e uomini investiti in pieno dalla follia della guerra, prota-gonisti di storie ambientate durante la Resistenza e/o nei campi di sterminio. Di quest’ultimi cito gli autori più famosi : Pavese, Vittorini, Fenoglio, Calvino, Bassani e Primo Levi. Ma alla maggior parte delle opere di questi grandi scrittori l’etichetta di ‘neorealista’ va troppo stretta. Fu Calvino l’autore che più di tutti si rese conto dei pericoli che comportava la presa diretta dalla realtà, teorizzata soprattutto dai critici militanti dell’epoca. Anni dopo egli risolve questa sua perplessità nelle Le-zioni americane, in quella intitolata « leggerezza », facendo ricorso al mito di Perseo, l’eroe che ha ucciso Medusa. È noto che, per uccidere il mostro, Perseo deve evitare di fissarne lo sguardo, pena la sua trasformazione in una statua di pietra. Lo strata-gemma per sconfiggere la Medusa, è guardarla indirettamente attraverso lo scudo-specchio. Calvino coglie in questo trucco di Perseo lo stesso rapporto esistente tra il letterato e la realtà del mondo : la letteratura può comunicarci la realtà della vita, ma solo a condizione di farlo in modo indiretto, ponendo una distanza tra il sogget-to dell’enunciazione e l’oggetto dell’enunciato, creando così una sorta di allegoria. Il lettore che riesce a cogliere questo senso arriva alla realtà, però con il sufficiente distacco di un osservatore che, essendone un po’ distanziato, può controllarne gli effetti negativi.

    Questa è la strada che intreprenderanno alcuni scrittori testimoni per tentare di superare il grande paradosso della letteratura dello sterminio, di tutti gli ster-mini. Se racconta la verità dei fatti non è creduta ; ma se invece crea degli universi estetici letterari per essere più verisimile, quindi più efficace, insomma ancora più realistica, è accusata di falsità. Raccontare è una necessità, una priorità assoluta, ma non una cosa naturale. Perché raccontare quel dramma significa accettare una contraddizione senza via d’uscita ma che pure deve essere affrontata. Levi registra in I sommersi e i salvati il monito beffardo rivolto dalle SS ai reclusi del campo : « In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi. […] E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvi-vere, le gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti… La storia dei Lager, saremo noi a dettarla ».1

    Levi in un passo di questa stessa opera non a caso parla della Gorgona in riferi-mento ai sommersi, che hanno visto in faccia la realtà ultima dei campi e proprio per questo non sono più ritornati e non hanno più potuto parlare. Il dovere, quindi, dei salvati è di parlare con tutte le cautele necessarie per non essere inghiottiti dal buco nero della terribile visione dei musulmani. La loro impresa esige un grande lavoro di stilizzazione, di formalizzazione e di costruzione. Perché c’è il pericolo, come provocatoriamente afferma Kertesz, che la descrizione del campo di concen-tramento possa essere letta « solo come testo letterario, e non come realtà »,2 non

    1 Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 3.2 Kertesz, Essere senza destino, cit. Si veda anche Ph. Mesnard, Consciences de la Shoah. Critique des discours

    et des représentations, Paris, Kimé, 2000, p. 396 e Rastier, op. cit., pp. 105-133.

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    tanto perché il pubblico molto spesso prescinde dalla verità, anzi il più delle volte preferisce essere ingannato ; ma perché ogni testo è connotato letterariamente o, peggio ancora, finzionalmente.

    Questi testi, per i quali Wiesel reclamava la nascita di un nuovo genere letterario, quello della « testimonianza »,1 per essere attendibili come ‘testimonianza’ dovreb-bero essere svincolati dal concetto di finzione letteraria, mentre invece Antelme, Wiesel e Kertesz dichiarano di aver scritto dei « romanzi ». Una letteratura ideal-mente neutra dal punto di vista del genere potrebbe cogliere la differenza che se-para queste opere dalle quelle i cui personaggi hanno vita soltanto nella finzione letteraria (Madame Bovary, Sherlock Holmes, Bloom…). Ma è dunque possibile che, non dico il testimone narrativo, quanto il destinatario della testimonianza, non avverta in essa un legame con altri autori che usano il linguaggio nella sua funzio-ne poetico-evocativa e, quindi, un legame con la tradizione letteraria ? Chiedersi se è possibile leggere una testimonianza tenendola isolata dall’universo letterario diventa una domanda retorica2 a cui si può rispondere soltanto negativamente. La testimonianza, per quanto si voglia proporre come realistica, una volta scritta en-tra a far parte dell’universo letterario e, si voglia o no, è connotata sia dal punto di vista della letteratura sia della finzione. Il lettore, ovviamente in funzione della sua cultura, non può non mettere un testo in rapporto alla tradizione estetico-letteraria, intesa soprattutto, si badi bene, come un insieme di strumenti retorico-stilistici adeguati per comunicare un certo messaggio. Ne sono un buon esempio le ‘strategie di reticenza’ di cui Dante si serve per esprimere l’inesprimibile e che in alcuni dei romanzi sui campi hanno la funzione di superare il problema del reali-smo e di introdurre il lettore all’interno della sofferenza e dell’orrore con gli occhi dei personaggi.

    3. È la commedia di Dante una possibile guida ?32

    George Steiner nel suo Nel castello di Barbablù afferma che molto si è scritto sui cam-pi di sterminio, ma niente si avvicina alle osservazioni di Dante :

    Chi capisca pienamente, nel canto xxxiii dell’Inferno, il senso dell’espressione « lo pianto stesso lí pianger non lascia, / E ’l duol che truova in su li occhi rintoppo / Si volge in entro a far crescer l’ambascia » potrà farsi, credo, un’idea precisa della natura ontologica dei campi della morte. […] In essi un lungo e minuzioso lavoro della immaginazione giunge al suo apice. Perché in essa l’immaginazione è più vigorosa che in qualsiasi altra opera, e perché situa l’inferno al centro dell’ordine occidentale, la Divina Commedia è sempre letteralmente la nostra guida per compiere il viaggio al falò e ai paraggi gelati, verso il gancio del macel-laio.43

    In chiave profetica, Dante annuncia Auschwitz ; in chiave estetica, Auschwitz per-mette di comprendere Dante. Nel capitolo x di Ulysses à Auschwitz. Primo Levi le

    1 A. Wieviorka, L’ère du témoin, Paris, Plon, 1998. 2 Rastier, op. cit., p. 105.3 Rastier, op. cit. p. 98-99, si fa la stessa domanda, e cita l’osservazione di Jean Améry, compagno di pri-

    gionia di Primo Levi, secondo la quale : « No había lugar en Auschwitz para la muerte concebida en su forma literaria, filosófica o musical ». 4 Steiner, op. cit., pp. 47-48.

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    survivant, 1 che ha il titolo Lire après, Rastier, denunciando il punto di vista « estetizzan-te » che secondo lui domina nella critica di Steiner, si chiede se l’Inferno di Dante può servire da guida per capire Auschwitz. La domanda di Rastier è più che legittima. E per quanto la letteratura dello sterminio citi frequentemente l’Inferno, soprattutto il canto iii, quello in cui Dante scopre la sua visione d’insieme dell’oltretomba, è necessario porsi la questione di quale funzione esso eserciti nelle opere dello ster-minio, oltre ovviamente a quella di Levi. Qualunque sia la risposta – funzione di modello di riferimento, o di modello comparativo, o addirittura di modello nega-to – difficilmente l’Inferno cessa di essere il paradigma.2 Inoltre la ricezione d’una opera – soprattutto d’una opera come la Commedia – non avviene globalmente ma parzialmente, per piccole cellule lessicali, figurali, ritmiche, ecc.3 È d’obbligo ricordare, a questo proposito, che ben pochi sono stati i tentativi di emulazione del poema nella sua totalità ; e quei pochi hanno fallito nel loro intento. La mag-gior parte dei testi citati nella prima parte di questo articolo hanno preso soltanto alcuni degli elementi, anche essenziali, del poema (il viaggio, la discesa ad inferos, ecc.), alcune immagini (la folla, il fuoco) oppure alcuni personaggi (Ulisse, Ugolino della Gherardesca, Francesca da Rimini, Caronte, Dante e Virgilio, Beatrice, ecc.), ma non hanno tenuto conto dell’opera nella sua totalità. Primo Levi, l’autore che per ovvie ragioni biografiche, risulta il più legato a Dante, non si pone mai in rap-porto all’intero poema dantesco ma opera una selezione delle figure, dei sintagmi e dei momenti soprattutto contenuti nelle due prime cantiche. Dante non è un modello,4 è vero. Costituisce piuttosto la grammatica della narrazione, il serbatoio dal quale attingere immagini mitiche ed espressioni plastiche, incomparabilmente nitide nella loro violenza. Dunque, non ha molto senso negare la ricezione per il fatto che il poema di Dante, organizzato intorno alla distribuzione dei peccati e al desiderio della grazia divina, narra la ricerca del Senso, mentre i campi di sterminio non ne hanno.54 Questa è una obiezione ovvia che vale anche per tutta la letteratura,

    1 Rastier, op. cit. 2 Come ha dimostrato H. Blumenberg nel suo Arbeit am Mythos a proposito del mito di Prometeo nella

    letteratura contemporanea (specialmente in Kaf ka) un mito funziona anche quando è oggetto di satira o denigrazione : « Una delle estreme trasformazioni del mito è, come scopriamo qui, la sua esplicita omissione. Perfino nella negazione di tutti i suoi elementi esso si presenta comoe diagramma di un orientamento. Esso viene portato a termine in quanto viene “scoperto” come ricordo di copertura – nella forma di un’orgogliosa posizione per la reale attuazione di una problematica negazione ».

    3 Ulteriore prova dell’esattezza dei ragionamenti di Dolezel riguardanti l’importanza dei rapporti fra i mondi di finzione all’interno dell’intertestualità, quando afferma che « Le opere letterarie sono collegate non solo a livello della texture, ma anche, in modo non meno importante, a livello di mondi finzionali. […] [Questi] Passano da un creatore di fiction all’altro, da un periodo all’altro, da una cultura all’altra come entità estensio-nali, quando ormai la texture, lo stile, i modi della narrazione e di autenticazione originari sono stati dimenti-cati. Un mondo finzionale è più memorabile della texture che lo ha fatto accedere all’esistenza. […] Ciò spiega perché l’intertestualità intenzionale […] è soprattutto implicita, mentre la successione dei mondi finzionali è quasi sempre esplicita, e assai spesso in modo molto accentuato », L. Dolezel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, trad. it., Milano, Bompiani, 1999, p. 203. 4 Rastier op. cit., p. 61.

    5 Si veda la critica al non senso dei campi di sterminio che contiene l’opera di I. Kértesz, Kaddish per un bambino mai nato (Kaddish ez jaiotako ume batentzat), città, editore ? ?, 1990 : « E smettete finalmente di ripetere, dissi probabilmente, che Auschwitz è il frutto di forze irrazionali, inconcepibili per la ragione, perché il male ha sempre una spiegazione razionale, può darsi che Satana in persona sia irrazionale, ma le sue creature sono degli esseri perfettamente razionali […] ciò che è realmente irrazionale e che veramente non trova spiegazio-ne, non è il male, al contrario, è il bene » (p. 52).

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    da quella romantica fino a quella realistica dell’Ottocento che si è servito del cano-ne dantesco. Una cosa è registrare le palesi differenze tra la gotica Weltanschauung del poeta italiano e l’opera moderna che stiamo trattando, un’altra cosa è negare l’influenza che l’Inferno dantesco – e non solo l’Inferno, vista la grande ricezione moderna del Purgatorio – può aver avuto, ha avuto e continua ad avere nella lette-ratura mondiale. C’è tutta una mediazione lessicale e figurale che è presumibile sia passata da Dante agli autori – penso ovviamente a Levi, ma non è da escludere neppure Antelme, Rousset e Wiesel.

    A questo punto si deve distinguere quanto il mondo dantesco sia più o meno presente, e se in maniera consapevole, nella strategia compositiva degli autori, e quanto lo sia nell’immaginario del lettore che vi ricorre forzosamente come unico parametro interpretativo. È sicuramente sufficiente l’epiteto – « il nostro Caronte » –, con cui Levi si riferisce al soldato tedesco che con modi mostruosa-mente gentili invita i prigionieri a consegnargli tutti i loro averi, perché la me-moria di ogni lettore, mediamente colto, voli al canto iii dell’Inferno. E nel forte contrasto tra la brutale rudezza dell’uno (« Guai a voi, anime prave ! // Non ispe-rate di veder lo cielo : / io vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e’n gelo », Inf. iii, 84-87) e la cinica gentilezza dell’altro non può non risal-tare drammaticamente ai nostri occhi, la figura di questo nuovo traghettatore della morte. Al di là delle distinzioni ideologiche e di mentalità, al di là della diversa funzione di personaggi e di figurazioni, un mondo così articolato come quello dei campi di sterminio, al quale si arriva dopo un lungo viaggio, toccando altri lager, altri non-luoghi – invisibili perfino ai civili che pur vivono accanto – e che sembra non rispondere a nessuna logica umana, malgrado pulluli di una umanità infinità e varia, dalla quale è emerso uno sparuto numero di testimoni, questa struttura mi-tica, dicevo, nessuno, prima di Kaf ka, Jarry o Céline, l’ha fissata nella nostra mente occidentale come Dante.

    E chiaro che i campi non ubbidiscono, come l’Inferno dantesco, alla logica del rapporto peccato-punizione, per la quale le violenze che subiscono i dannati tro-vano una spiegazione logica nella qualità e nella quantità degli errori compiuti in vita. L’universo concentrazionario non è solo il luogo del terrore generalizzato, ma è anche dove si esercitano vari livelli di potere, legati tra di loro, in un mecca-nismo che il più delle volte risulta fatale, ma eccezionalmente può essere anche salvifico, per coloro che vi sopravvivono. Da questo punto di vista è possibile che l’immagine dell’Inferno dantesco, come il luogo del male, sia stato d’ostacolo nel riconoscimento delle diverse componenti “sociali” che formano la massa dei reclusi e dei pur diversi tipi di trattamento.1 Il fatto di ridurre la molteplicità dei campi di

    1 Mesnard, Kahan, op. cit., p. 55 : « Il est vrai que pendant longtemps, l’imagination des camps a été condi-tionnée par le récit mythique d’un grand camp unifié, loin des réalités concentrationnaires multiples, où primaient les valeurs de la résistance ou de la barbarie, l’une et l’autre réparties suivant la net partage du bien, d’un coté, et du mal, de l’autre, où la résistance occupait le devant de la scène aux dépens des déportés civils, des raciaux juifs et tsiganes, des homosexuels, des otages. […] Il est une autre erreur qu’il faut signaler. Agam-ben, reprenant par là un usage venant de l’Allemagne et, pour ce qui le concerne, de la philosophie, utilise le nom d’“Auschwitz” pour désigner les camps en génerale, la toponymie devenant antonomase. […] Sous la plume d’Agamben, “Auschwitz” ne dit rien des “centres de mise à mort” démolis et rayés des cartes en 1944 ou de Lublin-Majdanek, et qui caractérisent la specificité de la destruction des Juifs d’Europe ».

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    sterminio alla sola Auschwitz ha portato Agamben a fissarne una struttura sintetica e paradigmatica che può proiettare la sua ombra sulla modernità politica.

    L’Inferno, il « tristo buco » di dantesca memoria (Inf. xxxii, 2), l’Arschloch der Welt per dirla con l’espressione usata dalle SS, è comunque una metafora che si trova in tutte le narrazioni dei campi. Forse quello che più la usa, in un modo molto gene-rico, è Gradowski, già all’inizio del suo Sonderkomando : « Caro lettore, troverai in queste righe il racconto delle sofferenze e dei tormenti che noi, le più infelici crea-ture di questa terra, abbiamo subito al tempo della nostra “vita” in questo inferno in terra che si chiama Auschwitz-Birkenau ». E in seguito quando parla delle camere a gas e dei crematori,1 in quel luogo in cui le grida dei dannati si mescolano alle urla feroci dei carnefici, descritti come bestie malefiche. « Laggiù » è l’indicazione generica, quasi un eufemismo per indicare il crematorio, il cuore dell’inferno dove bocche di fuoco divorano le tantissime vittime senza tregua.2 Anche qui, come nell’Inferno dantesco, Gradowski, al quale non è assente una certa preoccupazione stilistica o estetica, si sofferma su alcuni dei condannati, per presentarci brevi istan-tanee di vite serene negli ambienti famigliari dei loro paesi di provenienza. Ed ecco emergere una madre e una figlia, una madre che ha ancora il coraggio di insultare una SS,3 fino a concludere (p. 114) :

    Le porte si sono spalancate, l’inferno è pronto ad accogliere le vittime. […] Io me ne sto in disparte e osservo i due gruppi. I banditi, i grandi assassini – e le mie sorelle, le infelici vitti-me. La marcia, la marcia della morte è incominciata. […] Si ha l’impressione che dei mondi, dei mondi interi siano denudati e siano arrivati qui, per questa camminata diabolica.

    Anche per Robert Antelme4 il lager è un inferno, il luogo « dove tutto quello che si dice o si esprime è vomitato a parità, come nel vomito di un ubriaco ». Rousset da parte sua si lascia portare da quest’immagine quando descrive i prigionieri comuni : « Il popolo dei campi costituisce un mondo alla Céline con ossessività kaf kiane. […] Le violenze corrompono in modo mirabile ogni resistenza e ogni dignità. […] Non conosco nulla che possa rendere con pari intensità, plasticamente, la vita interiore degli internati come la porta dell’inferno e i personaggi che ne sono usciti ».5 In que-ste parole forse si potrebbe riconoscere un’allusione alla ‘Porte de l’Enfer’ di Au-gust Rodin che l’anno 1937 fu collocata nel giardino del Museo Rodin a Parigi, nella quale si riconoscono Paolo e Francesca, Ugolino e altri personaggi danteschi.65

    Anche la descrizione che ne fa Levi all’inizio del suo libro mescola suggestioni

    1 « uomini, giovani e anziani, padri e figli, sarebbero stati condotti in questo inferno, o laggiù, nell’altro inferno, e spinti con brutalità verso la morte » (p. 98).

    2 « Non ci vorrà molto tempo, perché questi cinquemila esseri umani, questi cinquemila mondi siano con-sumati nelle fiamme ».(pp. 144-145).

    3 « Poi, rivolgendosi alla donna [delle SS] : “ Sei venuta anche tu, bestia crudele, assassina delle donne, per godere della nostra rovina. Ma ricordati ! Anche tu hai un figlio, una famiglia, ma non li godrai a lungo ! Sarai uccisa, e il figlio tuo, come il mio, non vivrà molto di più […] Pagherete per questo, il mondo intero vi punirà. […] Questa donna, sulla tomba, ha strappato loro la maschera e ha predetto il futuro, molto vicino, che li aspetta » (p. 116).

    4 Antelme, op. cit., p. 142. 5 Rousset, op. cit., p. 59.6 Si vedano A. Audeh, Rodin’s “Gates of Hell”. Scultural illustration of Dante’s « Divine Comedy », in Rodin : A

    magnificient obsession, città, editore ? ?, 2001, pp. 92-125 ; L. De Girolami Cheney, Rodin’s « Gates of Hell » : An interpretation of Dante’s poema sacro, « Italian Culture », xi (1993), pp. 103-126.

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    dantesche con atmosfere kaf kiane o addirittura beckettiane.1 Neanche Elie Wiesel, pur nella sua scarna e essenziale narrazione dei fatti, quando evoca lo spettro della selezione può evitare questa similitudine : « Poco importava adesso se il lavoro fos-se duro. L’essenziale era di trovarsi lontano dal blocco, lontano dal crogiolo della morte, lontano dal centro dell’inferno ».2 In Essere senza destino, di Kertész, il giova-ne protagonista replica a coloro che parlano dei campi come di un vero inferno, con queste parole : « L’inferno non esiste, Auschwitz esiste ». Per lo scrittore ungherese l’Inferno di Dante è un mondo astratto che poco ha a che fare con la realtà dei lager. Anche Neus Català, una deportata catalana a Ravensbrück, in un documentario te-levisivo intitolato “Ravensbrück : l’infern de les dones” comincia la sua testimonian-za con queste parole : « Dante ha descritto l’Inferno, ma non ha fatto l’esperienza di Ravensbrück ».3

    Comunque sia, la letteratura infernale e con essa l’Inferno dantesco rappresentano un ponte che collega il narratore, e quanto da lui vissuto, con il lettore, a cui risul-terebbe impossibile la comprensione senza il supporto delle figure letterarie dell’in-framondo, per quanto questo supporto lo induca a considerare questi testi più per il loro merito letterario che come testimonianza. Dice Luba Jurgenson che l’azione di iscrivere questi testi nell’universo letterario è simultanea all’evento, il quale non solo si costruisce nella e con la letteratura, ma è letto e capito nella e con l’aiuto della letteratura.4 Miseria e potere della letteratura ai quali non si può sfuggire.

    3. 1. La disumanizzazione all’ombra di Ulisse

    La disumanizzazione, la perdita di ogni tratto umano è la grande preoccupazione di tutti questi narratori, che non fanno altro che registrare il processo di degrada-zione verso la condizione di animale o peggio ancora di cosa, prima della trasfor-mazione in scheletro.54 « Un giorno – ricorda Wiesel (p. 112) – riuscii al alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte : non mi ero visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi ha più lasciato. » Quasi tutti i testimoni concordano nel dire che questa trasformazione è però avvenuta subito dopo l’entrata in uno di questi campi. Leggiamo in questo senso quello che scrive Levi in Se questo è un uomo (p. 23) :

    1 « Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua e non succede niente e continua a non succeder niente » (p. 19).

    2 Wiesel, op cit., p. 75. Oppure quando riproduce le parole di un giovane polacco che suonano come il rovescio della medaglia di quelle che si trovano scritte sulla porta dell’Inferno (« Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate ») : (p. 46) : « Compagni, vi trovate nel campo di concentramento di Auschwitz. Un lungo cammino di sofferenze vi attende, ma non perdetevi di coraggio. Avete già superato il pericolo più grande : la selezione. Ebbene raccogliete le vostre forze e non perdete la speranza : vedremo tutti il giorno della liberazione. Abbiate fiducia nella vita, mille volte fiducia. Caccia la disperazione e allontanerete da voi la morte. L’inferno non dura in eterno […] ».

    3 Il documentario Ravensbrück, l’infern de les dones, fu presentato all’interno della trasmissione « 30 minuts » della tv catalana tv3, corrispondente al 7 dicembre 2006. 4 Jurgenson, op. cit.

    5 « Pochi internati hanno fatto ritorno, e meno ancora sani. Quanti non sono altro che cadaveri viventi », ricorda Rousset, op. cit., pp. 123-124.

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    Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata : siamo arrivati in fondo. Più giù di così non si può andare : condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. […] Ci toglieranno anche il nome : e se vorremmo conservarlo, dovremmo trovare in noi la forza di farlo, di fare sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.

    Il degrado è anche psicologico e non solo fisico, soprattutto, ma non solo, per chi fa parte dei Sonderkommando ed è costretto a soffocare ogni sentimento, a diventa-re freddo come Branca Doria :1 « Ci si deve trasformare in un automa, non vedere niente, non sentire niente, non capire niente. »2 Il legame fraterno si è spezzato. La debolezza dell’essere umano è emersa con tutta la sua tragicità. È rimasto soltan-to l’istinto di sopravvivenza, che si rivela letale perché si è impossessato di tutti, soffocando ogni ritegno o paura. Questa trasformazione biologica dei detenuti è corrispondente a quella degli aguzzini, descritti come « bestie crudeli e selvagge » o « bestiali assassini » (Gradowski),3 in un evidente parallelismo con le tante fiere – lonza, leone, lupa, Cerbero, Gerione, arpie, cani, porci, serpenti… – che infliggono tormenti ai dannati.

    Ma per arrivare a questo livello di disumanizzazione ci è voluto molto impegno, molta scienza dell’inganno, come ha visto con spietata chiaroveggenza Gradowski nei suoi diari in cui registra tutti i passaggi attraverso i quali le vittime giungono all’atrofizzazione dei sentimenti, all’indifferenza assoluta per la sorte dell’altro, sia esso il compagno, la madre, il figlio o il fratello.4 La ‘selezione’ con la sua terribile arbitrarietà era operata da SS, Kapos, o da incaricati dei Blok che, come altrettanti Minosse, decidevano del destino dei prigionieri sia al loro arrivo nei campi, sia du-rante la loro detenzione. Il re di Creta Minosse che Dante situa all’inizio dell’Infer-no (Inf. v, 4 ss.) rifacendosi a Virgilio (Aen. vi, 432-433), ha la funzione di smistare i dannati in base ai loro peccati :

    Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia :esamina le colpe ne l’intrata ;giudica e manda secondo ch’avvinghia.

    Dico che quando l’anima mal natali vien dinanzi, tutta si confessa ;e quel conoscitor de le peccata

    vede qual loco d’inferno è da essa ;

    1 […] ché Branca Doria non morì unquanche / e mangia e bee e dorme e veste panni » (Inf. xxxiii, 140-141). Parla Dante alla vista di Lucifero : « Io non mori’ e non rimasi vivo ; / pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, /qual io divenni, d’uno e d’altro privo » (Inf. xxxiv, 25-27). Cfr. Rastier, op. cit., pp. 28-29.

    2 Gradowski, op. cit., p. 142.3 « Tra loro e noi – scrive Antelme, op. cit., p. 276 – esiste una relazione che nulla può distruggere. Sanno

    quello che fanno, sanno quello che fanno di noi. Lo sono. Voi siete noi stessi ! Si guarda ciascuno di questi esseri “che non sanno”, si vorrebbe entrare in ogni coscienza che vorrà non aver visto che un pezzo di tessuto a righe, o una fila di uomini o una faccia barbuta o la SS dell’aspetto marziale che è in testa ».

    4 Nella seconda parte invece analizza l’effetto della divisione e della selezione anche sui membre del cosi-detto Sonderkommando.

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    cignesi con la coda tante voltequantumque gradi vuol che giù sia messa.

    Un procedimento analogo era quello seguito nei campi.

    In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo : la notte inghiottí, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare util-mente per il Reich ; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi.1

    Ma la selezione poteva avvenire in qualsiasi altro momento della vita dei campi, come testimoniano con terrore i diversi autori (Wiesel, Rousset).2

    Ricordiamo qui i famosi versi contenuti in Inf. xxvi, 116-118 : « Considerate la vo-stra semenza / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir vertute e cono-scenza ». Essi sono la parte finale dell’orazion picciola che l’Ulisse dantesco rivolge ai suoi compagni, ma sono anche le parole che suonano all’orecchio di Levi « come uno squillo di tromba, come la voce di Dio », che risvegliano in lui un altro Ulisse, colui che dovrà non solo usare la razionalità per capire quel mondo ma anche se-guire la legge morale adeguata alla responsabilità di cui si sente investito. La frase che chiude il capitolo “Il canto di Ulisse” è enigmatica : « qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui… » lascia interdetto il lettore perché è l’unica frase non conclusa di tutto il libro. È come se il narratore fosse stato folgorato da una visione grandiosa e apoca-littica. In un’intervista di parecchi anni dopo l’autore in parte spiega questa visione, dicendo di essersi sentito colpevole, ma non dice per che cosa. Noi possiamo sup-porre che abbia a che fare con il doppio destino dell’eroe greco, il quale ricorda ai compagni l’alto comune destino caratterizzato da virtù e canoscenza, ma che, al contempo, è capace di usare tutti i mezzi, compresa la frode, pur di ottenere l’am-bito obbiettivo personale. Se Dante vedeva in Ulisse la ragione priva della grazia divina, è probabile che Levi ci abbia visto la ragione immorale. E abbia avvertito in questa doppiezza un parallelismo con se stesso e con il proprio tempo. Essere uomo significa sì seguire la propria indole umana caratterizzata dalla ragione, che si oppone alla irrazionalità dominante, ma anche una morale che si contrappone all’immoralismo del marinaio greco per il quale tutti i mezzi, compresa la frode, so-

    1 Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 17 ; « Sappiamo anche – continua Levi – che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzion i ai nuovi arrivati. En-travano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio ; andavano in gas gli altri ». Anche Wiesel, op. cit., p. 37 ne fa un racconto simile : « Al centro c’era il dottor Mengele, questo famoso dottor Men-gele (tipico ufficiale delle SS, volto crudele, non privo d’intelligenza, monocolo), una bacchetta da direttore d’orchestra in mano, in mezzo ad altri ufficiali. La bacchetta si muoveva senza tregua, una volta destra, una volta a sinistra. […] Noi non sapevamo ancora quale direzione fosse quella buona, se quella a sinistra o quella a destra, quale strada portasse alla prigionia e quale al crematorio ».

    2 Rousset, op. cit., P. 35 : « L’SS solleva una palpebra pesante, fa cadere sul detenuto uno sguardo impassibile, espira una voluta di fumo e con la mano accenna il gesto : “Il prossimo” ».

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    no leciti per raggiungere la meta. L’Ulisse di Dante non fa ritorno, non è l’eroe del nostos. Naufraga davanti alla montagna del Paradiso terrestre. Anche Ulisse-Levi in qualche modo naufraga non tanto nel tentativo di narrare l’umanità sommersa, quanto nel liberarsi della colpa di aver contribuito anche individualmente alla co-struzione di quell’universo selvaggio e senza senso. Il suo viaggio non ha la serena conclusione di cui gode l’Ulisse di Du Bellay, citato da Antelme :

    Hereux qui, comme Ulysse, a fait un bon voyage, ou comme cestuy-là qui conquit la toison, Et puis est retourné, plein d’usage et raison, Vivre entre ses parents le reste de son âge !1

    che ha fatto ritorno a casa, il centro di mai interrotti affetti famigliari. I prigioneri finché sono nei campi continuavano a sognare il ritorno allo stesso focolare di pri-ma, ma presto scopriranno che Auschwitz, come un ciclone, si è portato via il « dol-ce mondo » di prima. Certamente da Auschwitz non si ritorna, tra l’altro perché il mondo al quale si vuole tornare non c’è più.

    L’Ulisse che torna dai lager non trova più casa, né moglie né parenti. Nella mi-gliore delle ipotesi trova una casa occupata da altri e dei familiari che non inten-dono e non sono disposti ad intendere ciò che questa specie di Ulisse va dicendo. Antelme costruisce tutto il suo libro, non a caso intitolato L’espèce humaine, intorno al progressivo allontamento del recluso dalla condizione umana. E giunge alla con-stazione che l’umanità dei campi si è trasformata in un’altra specie, forse animale o vegetale, in qualcosa « che si batte solo per mangiare e muore se non mangia », perché è stata costretta a « vivere in condizioni che nessuno – dico nessuno – potrà mai immaginare » (p. 229). Ciò nonostante, e anche a rischio di contraddirsi, è con-vinto che nessuno può togliere all’uomo la sua appartenenza alla specie umana. « Proprio perché siamo uomini come loro, le SS in definitiva saranno impotenti da-vanti a noi. […] noi non possiamo diventare né bestia né albero. Né noi possiamo, né le SS possono farci arrivare a questo punto. […] Può ammazzarlo un uomo, ma non cambiarlo in qualche cosa d’altro. »2 Qui tornano alla mente certi personaggi danteschi, come Piccarda e Costanza di Altavilla, che nessuna violenza fisica riesce a privare della loro libertà spirituale (Par. iii).

    3. 2. Narratore e personaggio

    Occorre però fermarsi un momento a considerare il diverso statuto dell’io nar-ratore (colui che parla) e dell’io personaggio (quello di cui si parla) nella Com-media e nei testi moderni oggetto della nostra indagine, in quanto ci può forni-re qualche nuovo dato utile alla loro interpretazione. L’auctor della Commedia è « libero, dritto e sano » (Purg. xxvii, 140) e, non ha più bisogno di guide perché si è liberato dalla servitù delle passioni e perché ‘sa’ il modo di operare della giustizia divina. Nell’agens, cioè nel pellegrino, invece, si riflettono le miserie e le debolezze dell’umanità coeva a Dante che egli tenta di spronare sul cammino della redenzio-ne. Bisognoso anch’esso di essere guidato, s’immedesima nei tanti personaggi che

    1 Antelme, op. cit., p. 229. 2 Ivi, pp. 257-258.

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    incontra lungo la strada perché li sente vicini nello stato di confusione e di smarri-mento.

    Invece l’agens, il protagonista dei testi moderni, si è trovato, senza nessuna gui-da, a vivere – a subire suo malgrado – un’esperienza di cui non comprende né le dimensioni né il senso, indeciso tra la volontà di soppravvivere e l’indifferenza per il proprio destino, spesso tentato di diventare uno dei tanti anonimi musulmani che – per dirla con le parole di Levi – « si esita a chiamare vivi : si esita a chiamare morte la loro morte, davanti a cui essi non tremano perché sono troppo stanchi per comprenderla ». Ciò nonostante, esso ha imboccato la strada della salvazione. Sono i salvati, infatti, oltre che per una enorme dose di fortuna agli altri non con-cessa, coloro che sono riusciti ad orientarsi nell’universo dei campi e a sfruttare le loro competenze, a partire da quella della conoscenza della lingua tedesca. Come Dante non riesce a reprimere un moto di simpatia o di compassione per certi dan-nati (ad esempio Paolo e Francesca), così anche loro soffrono davanti alla visione di quell’umanità degradata, anche se nel momento dei fatti, che poi narreranno, in loro non c’è spazio per nessun’altra preoccupazione che non sia quella di mangiare (« quello che si batte solo per mangiare e muore se non mangia » – scrive Antelme) e di salvare la propria pelle. Il contatto se non addirittura la stessa vista dei cosidet-ti « musulmani » deve essere evitato, in quanto agli occhi di quelli che non hanno ancora raggiunto quello stadio di disumanizzazione essi rappresentano il punto di non ritorno, dopo il quale non resta che la gasificazione.

    A differenza dell’agens, risulta più difficile omologare l’auctor di queste narrazioni del campo. C’è infatti il narratore autobiografico e analitico delle opere di Levi, Rousset, Wiesel e Antelme, quello ‘finzionale’ di Essere senza destino di Kertész, quello diaristico di Salmen Grawdoski, per il quale la distanza fra i fatti narrati e la scrittura è minima rispetto a quella degli altri testi1 (« Le porte si sono spalancate, l’inferno è pronto ad accogliere le vittime. […] Io me ne sto in disparte e osservo i due gruppi. I banditi, i grandi assassini – e le mie sorelle, le infelici vittime »).2 La voce è, comunque, quella di un narratore per sempre segnato dalla schiacciante esperienza vissuta, che s’interroga costantemente sul senso di quegli eventi, senza mai trovarlo. Più che avvicinarsi a Dio, egli perde ogni speranza nel Dio che ha permesso un simile inferno in terra.32 Strappato alle persone, alle case e alle cose famigliari, egli si ritrova, senza sapere come né soprattutto perché, in treni mer-ci maleodoranti. All’inizio fiducioso in una rapida e felice soluzione dell’equivoco (atteggiamento questo comune anche ad alcuni dei protagonisti del romanzo di Kertesz, Essere senza destino), precipita ben presto nella più spietata macchina di violenza mai realizzata, dalla quale pochi si salvano. Egli a differenza di Dante, non era stato scelto per essere immerso in questo abisso della degrazione umana ; ma ora che è tornato, si sente, come Dante, investito di una missione, raccontare

    1 P. V. Mengaldo, Lingua e scrittura in P. Levi, in Primo Levi : un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, pp. 169-242 ; Idem, La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoah, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 2 Gradowski, op. cit., p. 114.

    3 « Non era il solo – scrive Wiesel – ad aver perduto la fede in quei giorni di selezione. Conobbi un rabbino di una piccola città polacca […] un giorno mi disse : – È finta. Dio non è più con noi. […] Dov’è Dio ? Come posso credere a questo Dio di misericordia ? ».

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    esattamente quello che ha vissuto, affinché i posteri conoscano l’entità del crimine contro l’umanità perpetrato dai nazisti e ne traggano la necessaria lezione.

    Sente irrefrenabile la necessità di comunicare la verità per salvare dall’anonimato della morte almeno la memoria dei sommersi. E in questo il suo compito è simile a quello di Dante auctor. Ma a differenza di Dante, il sopravvissuto è in preda a un forte senso di colpa (si vedano, per esempio, i casi di Levi e di Jean Amery), di ver-gogna addirittura per il fatto di essere sfuggito a quel destino atroce.1 E ovviamente non può essere uomo « libero, dritto e sano » come l’auctor della Commedia, perché è intrappolato per sempre nella memoria dei campi. È un superstite. Un cadavere vivente. Uno che non è mai tornato da Auschwitz. Da Auschwitz non c’è ritorno. Si è vivi-morti per sempre. Come Branca Doria (Inf. xxxiii, 141)2 e il Vecchio Mari-naio di Coleridge che Levi cita nella poesia Il superstite, il sopravvissuto non si sente veramente vivo, ma neanche del tutto morto. È una sensazione simile a quella che Dante vive al cospetto di Lucifero :

    « Io non mori’ e non rimase vivo ;pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno, qual io divenni, d’uno e d’altro privo ». (Inf. xxxiv, 25-27)

    Le lacrime e il dolore sono stati congelati per sempre sul viso del superstite, schiac-ciato dal peso di un proprio costante dolore, e da quello dei sommersi ai quali vuole dar voce.

    « Due anni fa – scrive Antelme (p. 5) – subito dopo il nostro ritorno siamo stati tutti in preda a un vero delirio. Volevamo parlare ed essere finalmente ascoltati. Ci dissero che il nostro aspetto fisico era di per sé abbastanza eloquente. Ma si tornava allora, riportavamo nella carne la memoria della nostra viva esperienza, sentendo il bisogno frenetico di dirla così com’era. Si capì subito però che ci sarebbe stato impossibile colmare la distanza che si andava scoprendo, tra il linguaggio di cui disponevamo e l’esperienza che quasi tutti stavamo inseguendo dentro di noi ».

    La memoria, è una delle questioni fondamentali nella letteratura di cui ci stia-mo occupando. Essenzialmente è di due tipi : la memoria nei campi e la memo-ria dei campi di concentramento. Le accomuna il dolore straziante che comporta l’evocazione del passato. Si differenziano per il grado di difficoltà nel rievocarlo : la memoria del passato nel campo è possibile, anche se non è conveniente allo sforzo di sopravvivere e di adattarsi alla realtà del campo ; la memoria del campo risulta quasi sempre impossibile, almeno inizialmente. È infatti comune ai deportati so-pravvissuti un periodo più o meno lungo di amnesia, che però in seguito passa, per loro disgrazia o per loro fortuna. Ci sono casi di amnesie lunghe decenni. È come se essi dovessero strappare i ricordi alle fi bre più profonde del corpo dove gli eventi traumatici vissuti sono stati indelebilmente registrati, marchiati a fuoco.3

    1 Agamben, L’aperto, cit., pp. 82 ss.2 « […] ché Branca Doria non morì unquanche / e mangia e bee e dorme e veste panni », dice a fra Alberigo

    (Inf. xxxiii, 140-141). Cfr. Rastier, op. cit., pp. 15-16 e 25-36.3 Afferma L. Jurgenson : « Je crois que c’est par le corps que le texte s’écrit. […] Le corps est le principal

    acteur de l’œuvre sur le camp. Dans la logique concentrationnaire, il est toujours en trop, et c’est de cela qu’il porte témoignage. Dans tout procès réel ou virtuel, le corps est l’ultime pièce à conviction, il est en soi un témoin. Il est ce lieu où se réalise l’état extrême de l’individu. Car le corps concentrationnaire est déjà un texte, marqué par le camp comme pourrait l’être un livre ».

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    Col tempo invece, per una parte importante dei sopravvissuti, ricordare coincide con la trasmissione dei ricordi, per quanto dolorosi. « Scrivo – dice Gradowski – con l’intenzione che almeno una parte della verità giunga a conoscenza del mondo, e che tu possa reclamare vendetta, mondo, vendetta per tutto ! » Ancora a questo proposito, leggiamo in Levi : « I ricordi della mia prigionia sono molto più vividi e dettagliati rispetto a qualsiasi altra cosa che è accaduta prima o dopo », « direi – ag-giunge – quasi una preparazione inconscia a testimoniare ».1

    Il primo tipo di memoria ha come epigrafe le parole che Francesca da Rimini rivolge a Dante nel canto v dell’Inferno, servendosi delle parole di Boezio :2

    “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felicene la miseria ; e ciò sa il tuo dottore ».

    (vv. 121-123)

    Questi versi costituiscono l’asse intorno al quale si dispongono tutti i riferimenti alla memoria del passato nel racconto dei reclusi : la memoria del dolce mondo, è chiamata da Levi nella poesia intitolata Buna (« Se ancora ci trovassimo davanti / Lassù nel dolce mondo sotto il sole / Con quale viso ci staremo in fronte ? »), 3 con lo stesso sintagma, si badi bene, usato da Farinata.4 Nella maggior parte dei casi, l’evocazione dei momenti della loro vita civile e libera è fonte di nuova sofferenza, così come la consapevolezza che l’esperienza del campo rende impos-sibile qualsiasi parvenza di ritorno alla identità passata. Antelme scrive : « Erano nella notte di Natale come in una nuvola. […] A un certo punto hanno cercato di raccontare delle storie. Hanno parlato della moglie e dei figli. […] L’inferno della memoria funzionava in pieno ».5 Il linguaggio è una malia che toglie il fia-to, che marcisce il corpo. Bisognava quindi allontanarsi dalle parole evocanti il « dolce mondo ». Lasciare caso mai per più tardi queste evocazoni, « quando non si sarebbe potuto prendere altro né dal fisico né dalla volontà. Quando si sarebbe stati sicuri che il mare non lo avremmo rivisto più. Ma finché un avvenire era ancora possibile bisognava starsene zitti ».65 L’Ulisse dantesco, con il suo non ri-

    1 Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 225 e 220.2 « nei momenti di avversità l’essere stati felici costituisce la forma più straziante di dolore » (Cons. iii, 4. 2).3 Cfr. Rastier, op. cit., 2005, pp. 63-67.4 Inf. x, 81, verso che citiamo subito. 5 Antelme, op. cit., pp. 128-129.6 E anche Gradowski, op. cit., p. 59 : « Quando esco dalla mia tomba in questa terra maledetta e dannata, e

    vedo con quanta insolenza la luna rischiara un lembo del mio mondo di tenebre, nel quale sono così profon-damente immerso e di cui sono impregnato – faccio ritorno di corsa nella mia tomba oscura. Non riesco più a fissare il suo chiarore. […] Solleva una tormenta che sconvolge il mio spirito, fa zampillare in me una quantità di ricordi che mi lasciano privo di forze, mi spezzano il cuore. Sono trascinato da quest’onda schiumeggiante in un oceano di sofferenza. Mi ricorda il tempo passato, l’incanto di allora, e mi svela tutto l’orrore di questo tragico presente. […] La notte scura è la mia compagna, i pianti e le urla sono i miei canti, il fuoco che bruccia le vittime è la mia luce, l’atmosfera di morte è il mio incenso, l’inferno è la mia dimora » ; p. 63 : « Non devono più vedere la tua luce [luna] gli uomini che si sono trasformati in bestie selvagge e sanguinarie » ; p. 65 : « e guar-da come si danno da fare, come pazzi furiosi, i servitri del diavolo, i barbari di questo mondo, e come cercano, frugano le strade e le case, forse riusciranno ancora a catturare una vittima […] Guardali, mentre setacciano i campi […] per trovare altre vittime […] tante ne ha divorate in questi anni [il loro dio] – ed è sempre affama-to, furioso e folle, e attende fremendo nuove vittime […] senti la confusione e le grida ? » ; p. 81 : « Piangono, si tormentano, scossi da spasmi. Pensare alla propria vita, fare il bilancio degli anni li sconvolge, li scuote nel

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    torno, costituisce anche in questo caso la rappresentazione letteraria della loro condizione.

    L’altro tipo di memoria, quella esercitata dai salvati va, invece, nella stessa dire-zione della domanda che Farinata rivolge a Dante, a sua volta modellata su quella di Enea a Didone in Aen. ii : « regina, un dolore terribile tu chiedi ch’io rinnovi… Ma pure, se tanto è il tuo desiderio di udire le nostre sventure… » :1

    « E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi : perché quel popolo è sì empio incontr’a’ miei in ciascuna sua legge ? ».

    (Inf. x, 82-84)

    Come Farinata, anch’essi si chiedono il perché di tanta empietà e di tanta violen-za.

    Lungo il suo percorso Dante incontra diverse anime che gli chiedono di ricor-darle al suo rientro nel mondo dei vivi. L’esercizio di memoria più meno ossessi-vamente presente è quello che ha come lemma il verso « ricordati di me, che son la Pia » (Purg. v, 134). Sono le parole con cui Pia de’ Tolomei gli chiede di essere ricordata dai vivi per accorciare la sua penitenza in Purgatorio. Invece gli autori della letteratura dei campi evocano la richiesta di molti dei sommersi, a volte indi-cati con un nome comune (il Greco), a volte con il loro nome proprio (Hurbinek, ecc.), tutti emergono come la moltitudine di anime dantesche quali reali raffigura-zioni dell’orrore. Le più strazianti sono le memorie affidate ai Sonderkommando. Il narratore è conscio che loro, i sommersi, vivono solo grazie alle sue parole. Levi parlando del caso del bambino di tre anni chiamato Hurbinek, conclude dicendo : « Nulla resta di lui : egli testimonia attraverso queste mie parole » « Tutti i musulma-ni – scrive ancora Levi – che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non hanno storia. […] La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato ; sono loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del campo ; […] Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto ».2

    4. Conclusioni

    Un’indagine meno affrettata della nostra avrebbe dovuto dar maggior risalto alla presenza di altri inferni della letteratura moderna (di Kaf ka, di Ubu, di Céline, di Beckett) e non limitarsi ad uno solo. Spero, comunque, di aver sufficientemente provato che la mediazione letteraria è fondamentale sia nella fase di costruzione mentale del lager, sia in quella successiva della sua rappresentazione narrativa. An-zi, entrambe queste fasi sono un tutt’uno, perché derivano da un medesimo imma-ginario collettivo. All’interno di questa mediazione letteraria sono convinto che i

    profondo. […] Si ricordano del tempo passato, quando la loro vita era bella, quando era felice ! Rivedono il film dei tempi passati, ormai finiti per sempre, e allora si mostra in tutto il suo orrore la cruda realtà, che sta davanti ai loro occhi. Si sentono travolti e disperati nell’attesa della fine. Sono tutti oppressi e tormentati dalla pena, dall’attesa che arrivi l’attroce e orribile morte ».

    1 « Infandum, regina, iubes renouare dolorem […] Sed si tantus amor casus cognoscere nostros / et breviter Troiae supremum audire laborem, / quanquam animus meminisse horret luctuque refugit, / incipiam » (vv. 3, 10-13). 2 Levi, La tregua, cit., p. 167.

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    moduli stilistici, retorici e narrativi della Commedia hanno un peso fondamentale sull’interpretazione del vissuto sia da parte del narratore sia da parte del lettore. Non sfugge a nessuno il ruolo che ha avuto il Levi di Se questo è un uomo nell’er-meneutica dei campi. Egli, ponendosi all’ombra di Ulisse – confondendosi in certo qual modo con lui –,1 ha fatto della Commedia la chiave interpretativa di ogni visio-ne-lettura dell’universo concentrazionario, non solo per essere stato uno dei primi a pubblicare (nel 1947, lo stesso anno in cui Antelme pubblica L’espèce humaine, un anno dopo L’univers concentracionnaire de David Rousset e molto prima de La notte di Elie Wiesel uscito nel 1958) ma innanzitutto per l’universale successo raggiunto, che non poco deve alle sue straordinarie qualità letterarie.

    Questo mio articolo vuole essere un modesto tentativo di esaminare la continu-ità della ricezione del poema dantesco nel nostro tempo e in particolare all’interno di uno degli ambiti narrativi più scottanti, che, come ho tentato di dimostrare, ha incontrato molte difficoltà già dai suoi inizi. Difficoltà e ostacoli continueranno a presentarsi ai testimoni ogni qualvolta un genocidio, per quanto più modesto nelle dimensioni di quello nazista, e privo di quella folle scientificità, riproponga il bisogno di raccontare l’incontro con la medusa e con il suo sguardo pietrificante. Auguriamoci che ciò non debba accadere, ma nel caso, il parallelismo con il viaggio dantesco nel sottomondo continuerebbe a fornirci alcune delle chiavi interpretati-ve ed espressive dell’orrore a cui possono affacciarsi gli occhi umani. Non invano la sensibilità e l’intelligenza di Dante ci ha trasmesso una delle riflessioni più profonde sul destino dell’umanità, nel bene e nel male.

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    1 Come indica anche il titolo del libro di F. Rastier, Ulysse à Auschwitz. Primo Levi, le survivant.

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