Margherite ad Auschwitz. Poesie sulla Shoah

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Lo scopo di quest’antologia è dar voce alle persone reali ‘arrotondate’ dietro i numeri della Storia, perché esse hanno trovato il modo di lasciarci una traccia della loro esistenza. Con questa operazione di selezione e raccolta si offre al lettore un ventaglio di voci ed esperienze che danno testimonianza delle varie vicende legate alla Shoah, pertanto appaiono insieme nomi di poeti semisconosciuti, testi anonimi e voci di importanti premi Nobel. Ogni testo, ogni singolo verso strappato alla barbarie deve rappresentare per noi – come le margherite che crescono intorno al Lager – la bellezza che resiste e con la sua esistenza tiene insieme la fragilità e la tenacia, il canto e l’orrore.

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Margherite ad AuschwitzPoesie sulla Shoah

a cura di Valeria M.M. Traversi

Stilo Editrice

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Ciliegiecollana di antologie poetiche

diretta da Daniele Maria Pegorari4

isbn: 978-88-6479-105-0© stilo EditricE 2013www.stiloeditrice.it

Stampato nel mese di gennaio 2014presso Global print, Gorgonzola (MI).

L’Editrice è a disposizione di tutti i proprietari dei diritti, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione.

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Indice

Introduzione di Valeria M.M. Traversi L’arte come resistenza: scrivere la Shoah 9

i tEstimoni dirEtti. Voci dai ghEtti E dai lagEr 49gErtrud Kolmar 51

Nel Lager (17 settembre 1933) 51rosE ausländEr 53

Il grande gioco 53Senza pane né vino 54Fuoco di veleno azzurro 55Senzatetto 56

aVraham sutzKEVEr 57Semi di grano 57

itzhaK KatzEnElson 60i. Canta! 60XII. Via Mila 64

ilsE WEbEr 69 Questa è la strada per Theresienstadt 69Ninna nanna di Theresienstadt 71Le pecore di Lidice 73Musica Proibita 75

PaVEl FriEdman 77La farfalla 77

miF 79Terezín 79

anonimo 81Una sera di sole 81

uri orlEV 82La ferita si è rimarginata (23.III.1944) 82La sirena del treno (25.IV.1944) 84Il ghetto (18.VII.1944) 86

cathErinE roux 88Mio Dio! 88

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lEoPold lEVin 89 [Quando hanno rapato a zero

le donne del convoglio] 89tadEusz boroWsKi 90

Notte su Birkenau 90dEnysE clairouin 91

L’appello 91anonimo 92

Ceneri 92isaiah sPiEgEl 94

Conservatemi la memoria 94miKlós radnóti 96

Settima egloga 96Marcia forzata 98Razgledniche 99

Primo lEVi 101Buna 101 Shemà 103Alzarsi 105Per Adolf Eichmann 106Il superstite 108A giudizio 110

JEan cayrol 112Canto di speranza 112Confessione 114N. N. 115

Edith brucK 116Arrivo 116Immagini omicide 117 Quel pensiero 118Perché sarei sopravvissuta? 121Il segno 123

Elisa sPringEr 124[Ho visto Dio] 124

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i tEstimoni indirEtti. Voci Fuori dal Filo sPinato 125

nElly sachs 127 [Oh, i camini] 127[Oh, notte dei bimbi piangenti!] 129[Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe] 130[Se soltanto sapessi] 131Coro dei superstiti 132

Paul cElan 134[Albarella] 134Fuga della morte 135Parla anche tu 138Argumentum e silentio 140Metabolico 142

PEtEr WEiss 144Canto della banchina 144Canto del Lager 148Canto dei forni 152

Voci di PoEti sulla shoah 1945-2012 157czEsłaW miłosz 159

Un povero cristiano guarda il ghetto 159 Lo spirito della Storia. Varsavia, 1939-1945 161

salVatorE Quasimodo 165Il mio paese è l’Italia 165Auschwitz 167

WisłaWa szymborsKa 170Ancora 170Campo di fame presso Jaslo 172

EVgEniJ a. EVtušEnKo 174Babij Jar 174

nElo risi 178La neve nell’armadio 178Struggimento 180Celan 181

Vittorio sErEni 182Dall’Olanda 182

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La pietà ingiusta 184Nel vero anno zero 187

JEan FErrat 189Notte e nebbia 189

FrancEsco guccini 191Auschwitz 191

iVan dElla mEa 193Lettera a Chaim (se il cielo fosse bianco di carta) 193

Fabio PustErla 195Visita notturna 195

maria luisa sPaziani 197Alle vittime di Mauthausen 197

chaim guri 198Ospite 198

yEhuda amichai 200[Dopo Auschwitz non c’è teologia] 200

admiEl Kosman 201Inno liturgico per i giorni terribili 201

ronny somEcK 203Signor Auschwitz 203

Vinicio caPossEla 204Suona Rosamunda 204

laura rainiEri 206Cimitero ebraico 206

anita Piscazzi 208Le notti del lager 208

daniElE santoro 210Nel cortile della morte 210La distribuzione del pane 211L’impiccato 212L’autocarro 213

Franco marcoaldi 214La trappola del male: un video del processo Echmann 214

notE biograFichE 217

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IntroduzioneL’arte come resistenza: scrivere la Shoah

Qualche tempo fa, mentre visitavo una suggestiva mostra fotografi ca su Auschwitz, l’autore degli scatti, Vincenzo Catalano, notato il mio coinvolgimento, mi volle regalare le copie di alcune foto; mi catturarono fi n da subito le immagini delle bellissime margherite che crescono attorno al Lager, mentre il fotografo mi spiegava che da un laghetto che si forma lì nei pressi del campo riemergono continuamente frammenti di ossa, ultime vestigia dei corpi carbonizzati… ossa e margherite dal Lager!

Sono passati più di quindici anni da quando mi oc-cupo di questo argomento – studio culminato provvi-soriamente nel 2010 con la pubblicazione di un lavoro intitolato Farfalle di spine – e non immaginavo che sa-rei stata ancora così scossa, e non dico dall’orrore – perché è inevitabile – ma dalla continua scoperta della tenacia ‘artistica’ dell’essere umano, della resistenza della sua parola: per esempio quella di un poeta che non ha più la forza di camminare, ma scrive fi no all’ul-timo giorno di vita (Radnóti); quella di un ragazzino separato dagli affetti più cari che riesce a salvare il suo quadernetto di poesie e con esse se stesso (Orlev); quella di una donna separata da suo fi glio che canta e scrive per i bambini del Lager (Weber) e di suo mari-to che nasconde quelle poesie perché sa che non può salvare la donna che ama, ma l’orma del suo passaggio sulla terra, nella Storia, questa sì! Cosa aggiungono di nuovo queste testimonianze alle migliaia già in nostro possesso? Aggiungono vite, sostituiscono un numero con un volto, una storia, delle parole. E direi che non

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è poco, anzi è l’essenziale. È questa la ragione per cui tempi e vicende estreme non andrebbero mai dimen-ticati: la vitalità della natura (quella biologica delle margherite e dei frammenti di ossa, e quella umana delle parole) resiste ai tentativi di cancellazione e ab-brutimento. Terreni, cantine, soffi tte, valigie di mezza Europa hanno custodito fogli, parole, vite. Di fronte a sei milioni di persone sterminate non potremo mai dire di aver conosciuto tutto, e se qualcuna di loro ha lasciato tracce del suo passaggio nel mondo è davvero diffi cile pensare di potercene disinteressare, perché nulla più delle storie individuali, personali – e perciò uniche – può raccontarci la verità. E poi c’è un ele-mento ulteriore che rende tutto più struggente e più necessario: il ricorso all’atto creativo. Se ci dimenti-cassimo di coltivare la memoria saremmo privati della conoscenza di persone che non sono passate invano nella Storia proprio perché hanno creduto fermamen-te nel valore dell’arte come gesto di testimonianza, di sfi da, di resistenza al disumano che le circondava.

L’importanza dell’arte nella vita degli uomini è tutta in queste storie di ritrovamenti di parole e di ricom-posizione di legami grazie a esse, di segni lasciati per-ché potessero riallacciare i fi li della storia individuale di una famiglia e della Storia generale, quella dell’uo-mo impastato di fango e alito divino, quel terribile miscuglio in cui si può trovare tutto il bene e tutto il male (come diceva Levi). La straordinarietà di una donna ‘comune’ come Ilse Weber (l’ultima testimo-nianza in cui mi sono imbattuta e che mi ha fortemen-te commossa), e di tanti come lei, sta nella forza che ha ispirato e sorretto ogni suo gesto, ogni sua parola, nella convinzione che i momenti di vuoto andavano colmati e che aveva – anzi, ha – senso dedicare la pro-

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pria vita a cercare le parole, le note, i colori perché questa ricerca, questo impegno mantengono desto il senso del bello, del giusto, del vero, e permettono di non arrendersi all’orrore. E la morte di questa donna non rende vana la sua resistenza se proprio le sue pa-role non solo hanno permesso al fi glio di ricostruire la vicenda e la storia della loro famiglia a distanza di tanti anni, ma hanno tenuto a galla la vita morale di decine e decine di persone che l’hanno conosciuta e che hanno raccontato di aver trovato conforto ascol-tandola mentre recitava e cantava nel Lager.

Come la maggior parte dei lettori italiani intorno agli anni Ottanta, anch’io ho cominciato a conoscere la Shoah, più che nei manuali di storia, a partire dalla lettura adolescenziale del Diario di Anne Frank e poi da quella più matura di Se questo è un uomo di Primo Levi, ma le due testimonianze mi suscitarono reazioni contrapposte: se le confessioni diaristiche della ragaz-zina tedesca erano il doloroso – ma ancora accettabile – racconto di un’esclusione dal consorzio umano, il li-bro del chimico torinese era stato per me un vero pu-gno allo stomaco. Era accaduto, infatti, che, di colpo, dei sei milioni di persone uccise nei campi di stermi-nio, qualcuno non era più solo un numero come tanti altri della lunga e sanguinosa sequenza degli eccidi di ogni tempo, ma cominciava a essere un individuo con un nome proprio, una vicenda personale, una voce; una voce che mi chiedeva di dare ascolto alla sua sto-ria e di continuare a ricordarla perché la sua presenza nel mondo non fosse stata vana. La prima reazione a quel richiamo fu quella di chiudere il libro con i suoi orrori, per rendermi presto conto, però, che ciò signi-fi cava spezzare ancora una volta il racconto di quelle

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vite e chiudere gli occhi di fronte a un evento che ci riguarda tutti in quanto esseri umani.

Allora l’ho riaperto… «26 gennaio [1945]. Noi giacevamo in un mondo di

morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializza-zione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata por-tata a compimento dai tedeschi disfatti»1: con queste parole Levi fi ssava la sconfi tta dell’umanità, nel mo-mento in cui i tedeschi realizzarono l’ultimo atto della tragedia, quando evacuarono il Lager di Auschwitz2, abbandonando i malati al loro destino e portandosi dietro tutti gli altri prigionieri in una macabra marcia di morte, il giorno prima dell’arrivo dell’Armata Rossa nel campo; il 27 gennaio 1945, diventato, a partire dal ‘Foro internazionale di Stoccolma sull’Olocausto’ del gennaio 2000, la data-simbolo della Memoria.

Con la sua solita lucida sinteticità, il chimico-scrit-tore descrive la fi ne di un mondo, di quella civiltà

1. P. lEVi, Se questo è un uomo, in id., Opere, a cura di M. Belpoliti, introduzione di D. Del Gudice, Einaudi, Torino 1997, 2 voll.: vol. I, pp. 167-168.

2. Auschwitz è il nome del più tristemente famoso campo di con-centramento e di sterminio costruito dai nazisti nel 1940 nei pres-si della cittadina polacca di Oświęcim, a circa 60 km da Cracovia. I Lager principali dell’intero complesso erano tre: Auschwitz I, l’originario campo di concentramento, nonché centro ammini-strativo; Auschwitz II-Birkenau, il vero e proprio campo di ster-minio; Auschwitz III-Monowitz, il principale campo di lavoro che sorgeva nei pressi del complesso industriale di Buna per la fabbricazione di gomma sintetica, proprietà dell’azienda I.G. Farben, che però non entrò mai in produzione. Auschwitz di-venne rapidamente il più grande ed effi ciente centro di stermi-nio, per cui il suo nome designa per sineddoche tutto il tragico e complesso evento della Shoah. Oggi è patrimonio dell’umanità.

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occidentale che, insieme con l’arte più ispirata e la tecnologia più avanzata, aveva generato la barbarie indicibile dei campi di sterminio, la violenza cieca e «inutile» dei carnefi ci e l’abbrutimento delle vittime oltre qualsiasi esperienza umana, perché – conclude lo scrittore – «parte del nostro esistere ha sede nel-le anime di chi ci accosta: ecco perché non è umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo3».

Basterebbero queste parole per dare conto della necessità del ricordo e della memoria di un simile evento: la Shoah non ha riguardato solo tedeschi ed ebrei, essa riguarda tutti gli uomini, e soprattutto noi europei, fi gli di quella cultura naufragata, degenera-ta, polverizzata nei forni crematori.

La locuzione ‘dopo Auschwitz’ sta appunto a signi-fi care che nel XX secolo si è prodotta nel mondo oc-cidentale una lacerazione tale da suscitare la necessità di una ristrutturazione profonda dei sistemi etici, fi -losofi ci, religiosi, estetici tradizionali perché la Shoah rappresenta un unicum nella storia dell’umanità – e non perché si vogliano fare ‘graduatorie’ di dolori e tragedie che hanno continuato e continuano ad affl ig-gerla –, una cesura profonda e non rimarginabile, con cui bisogna confrontarsi perché costituisce – ahinoi – l’apice della nostra cultura. La singolarità di tale evento è consistita nell’aver pianifi cato, perseguito e messo in atto l’annientamento di un intero popolo4

3. lEVi, Se questo è un uomo cit., p. 169.

4. Non si deve dimenticare che insieme agli ebrei, nei Lager na-zisti furono internati e uccisi oppositori politici, zingari, omoses-suali e disabili di ogni etnia e nazionalità. Si deve riconoscere, a questo proposito, che in molte testimonianze, da Se questo è un

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e della sua cultura, per tutta Europa, casa per casa, attraverso un percorso fatto di degradazione sociale, fi sica e morale, con i mezzi della legge, della tecno-logia e della burocrazia, suddividendo al massimo le operazioni, come nella catena di montaggio di una fabbrica, ottenendo così anche il ‘comodo’ risultato di frammentare e disperdere le responsabilità e, dun-que, le colpe individuali: un proposito di distruzione mascherato da valori svuotati di senso come ordine, effi cienza, obbedienza. Proprio questi aspetti di or-dinaria burocrazia e cieca obbedienza emersero nei vari processi ai criminali nazisti e furono colti con acume e lucidità da due spettatori d’eccezione: nel 1961 Hannah Arendt, assistendo a Gerusalemme al processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, princi-pale responsabile della cosiddetta ‘Soluzione fi nale’5, coniò per lui la famosa espressione «la banalità del male»6, un concetto diventato in seguito rivelatore della tragedia; qualche anno più tardi toccò allo scrit-tore tedesco Peter Weiss assistere tra il 1963 e il 1965 al processo di Francoforte contro alcuni criminali di Auschwitz e rielaborare quella vicenda in maniera assolutamente originale e di forte impatto emotivo

uomo di Primo Levi all’Istruttoria di Peter Weiss, si parla più fre-quentemente di uomini che non specifi camente di ebrei.

5. Nel 2012 è stato pubblicato per la prima volta in Italia il te-sto originale con la traduzione del Protocollo di Wannsee, ver-bale della conferenza del gennaio 1942 stilato da Eichmann secondo le istruzioni ricevute da Reinhard Heydrich, con il quale si decisero modi e tempi dello sterminio: Soluzione fi -nale. Il Protocollo di Wannsee, Edizioni associate, Roma 2012.

6. Cfr. H. arEndt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalem-me (1964), traduzione di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2004.

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nell’oratorio in undici atti intitolato l’Istruttoria, di cui dirò più avanti.

Per comprendere appieno i tempi e i modi di que-sto genocidio sono, naturalmente, necessarie la ricer-ca e la ricostruzione storica, per non fare della Shoah un evento metastorico, generato da dinamiche extra-storiche ed extraumane, e per non trasformare i suoi principali protagonisti in personaggi eccezionali nel bene (le vittime) e nel male (i carnefi ci), ma per ripor-tare tutto alla banalità della Storia umana. La storio-grafi a rivendica a sé la ricostruzione reale dei fatti, ed è giusto che ciò avvenga in maniera scientifi ca e rigo-rosa, ma mai come in questo caso il dato storico deve essere integrato con le voci, le testimonianze, le storie delle donne e degli uomini che hanno vissuto quegli eventi. Lo scrittore spagnolo, ex deportato politico di Auschwitz, Jorge Semprún7, stabilisce con chiarezza i termini della distinzione: gli storici che raccolgono le testimonianze e i documenti producono opere dot-te che rispondono al vero (e che riguardano la realtà oggettiva), vale a dire raccontano l’orrore dei fatti; le testimonianze che utilizzano una scrittura lettera-ria sono in grado di trasmettere la parte di verità (la realtà soggettiva) a cui i superstiti hanno potuto ac-cedere, ossia comunicano l’essenziale esperienza del Male radicale.

La Storia, dunque, da sola non può bastare perché, come dice la poetessa polacca Wisława Szymborska, «La storia arrotonda gli scheletri allo zero. / Mille e uno fa sempre mille. / Quell’uno è come se non fosse mai esistito». Il senso di questa antologia è dar voce

7. Cfr. J. sEmPrÚn, La scrittura o la vita, traduzione di A. Sanna, Guanda, Parma 1996.

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alle persone reali ‘arrotondate’ dietro i numeri della Storia, perché quelle persone hanno trovato il modo di lasciarci una traccia della loro esistenza. Tante testi-monianze elaborate durante gli anni e nei luoghi del-le persecuzioni e degli eccidi, in ogni parte d’Europa – dal diario di Anne Frank rinvenuto nella soffi tta di Amsterdam, alle canzoni-poesie di Ilse Weber nascoste sottoterra dal marito, alle poesie e disegni dei bambini di Terezín, al Canto del popolo ebraico del poeta polac-co Katzenelson sui giorni della coraggiosa ma velleita-ria rivolta del ghetto di Varsavia, nascosto in bottiglie di vetro – si affi darono alla letteratura, alla poesia, così come anche alla pittura o alla musica; sappiamo che letture di poesie, circoli letterari clandestini venivano organizzati nei ghetti da poeti già affermati come Rose Ausländer a Czernowitz e Miklós Radnóti nel Lager Heidenau; Primo Levi racconta che, per insegnare un po’ d’italiano al suo amico Pikolo, fece ricorso a Dan-te, recitando con un enorme sforzo di memoria alcuni passi del canto XXVI dell’Inferno, quello della virtù e della conoscenza come antidoto all’abbrutimento8. Cosa testimoniano queste storie di dolori e sofferen-ze affi date alla scrittura e alla poesia se non l’estremo

8. Proprio in riferimento all’episodio raccontato nel ‘Canto di Ulisse’ scriverà più tardi: «avrei dato veramente pane e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi […] mi permettevano di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortifi cando la mia identità. […] Mi promuoveva-no, ai miei occhi e a quelli del mio interlocutore. Mi conce-devano una vacanza effi mera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso» (cfr. P. lEVi, I sommersi e i salvati, in id., Opere cit., pp. 1100-1101). Il ricordo di quell’amicizia è in J. samuEl, Mi chiamava Pikolo, scritto con J.M. Dreyfus, traduzione di C. Lionetti, Frassinelli, Milano 2008.

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tentativo di resistenza dell’umano, un gesto di riscatto e di conforto, una richiesta di ascolto e dunque di co-municazione, un atto di fi ducia nei confronti dell’arte come espressione tutta e peculiarmente umana da sal-vare dalle macerie di Auschwitz giacché «là dove si fa violenza all’uomo la si fa anche al linguaggio»9?

Molti sopravvissuti ricordano che uno dei motivi principali per cui si moriva all’arrivo in un Lager era la mancata comunicazione, ossia lo smarrimento di trovarsi in una vera e propria babele linguistica in cui la maggior parte dei prigionieri, provenienti da ogni parte d’Europa, era ormai ammutolita, e i soldati tedeschi gridavano ordini in una lingua incompren-sibile: la demolizione dell’essere umano partiva da qui, da quella che Levi defi nisce l’«eclissi della pa-rola» perché «se non trovi nessuno [con cui parlare] la lingua ti si secca in pochi giorni e con la lingua il pensiero»10. Ritrovare la comunicazione, sia den-tro il Lager, sia poi al ritorno a casa, signifi cava riap-propriarsi – per sé e per quelli che erano spariti dal consorzio umano in un fumo acre e silenzioso – di quella parte fondamentale dell’umanità calpestata e distrutta. Eppure, i pochi sopravvissuti, che torna-rono come fantasmi di un altro mondo con le loro storie inverosimili, a lungo furono ignorati, tenuti a distanza, perché disturbavano il tentativo di rimozio-ne e ricostruzione, perché con la loro sola presenza erano contemporaneamente un atto d’accusa e una richiesta di ascolto (e di amore). Levi ricorda che già nel Lager i prigionieri sentivano la necessità di raccontare, sapevano che la loro storia doveva essere

9. lEVi, I sommersi e i salvati cit., p. 1066.

10. Ivi, p. 1062.