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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO DIPARTIMENTO DI ECONOMIA & MANAGEMENT CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MANAGEMENT L’IMPATTO DELLA FINTECH SUL WEALTH MANAGEMENT Relatore: Prof. Luca Erzegovesi Candidato: Matteo Gazzano Anno accademico: 2015/2016

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO DIPARTIMENTO DI ECONOMIA & MANAGEMENT

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN MANAGEMENT

L’IMPATTO DELLA FINTECH SUL WEALTH

MANAGEMENT

Relatore: Prof. Luca Erzegovesi

Candidato: Matteo Gazzano

Anno accademico: 2015/2016

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Indice

Introduzione……………………………………………………………………...03

CAPITOLO 1 – La Fintech

1.1  – L’impatto della tecnologia sul retail banking………………...……05

1.2  – Cos’è la FinTech?..............................................................................09

1.3  – Il FinTech ecosystem……………………………………………….13

CAPITOLO 2 – La FinTech nel Wealth Management

2.1 – Introduzione al Wealth Management……………………………….27

2.1.1 – Le SGR e i fondi comuni d’investimento………………...30

2.1.2 – Le banche d’investimento e le SIM………………………36

2.2 – Overview del settore e nuovi trend…………………………………40

2.3 – La FinTech nel Wealth Management……………………………….51

2.3.1 – Il Robo Advisory………………………………………….51

2.3.2 – Il Social Digital Trading………………………………….74

2.3.3 – I rischi e la tutela dell’investitore………………………...80

CAPITOLO 3 – La FinTech in Italia

3.1 – La FinTech e il Wealth management in Italia……………………....93

3.2 – Le principali startup italiane: Advise Only e Money Farm………....98

CAPITOLO 4 – L’impatto della FinTech sul settore e le prospettive future

4.1 – L’effetto disruptive della FinTech sul Wealth management………119

4.2 – La risposta degli incumbents……….……………………………..131

4.3 – Le prospettive future: Disruption o Fintegration? ……………….137

Conclusioni……………………………………………………………………..141

Bibliografia……………………………………………………………………..143

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INTRODUZIONE

L'obiettivo di questo elaborato è di evidenziare le principali caratteristiche del

fenomeno “FinTech”, ovvero dell’applicazione della tecnologia ai servizi

finanziari, cercando di valutarne i possibili impatti sul settore, con particolare

attenzione al segmento del Wealth management. Infatti, se il primo grande effetto

di internet sull’economia ha riguardato il commercio, sembra plausibile che la

prossima rivoluzione concernerà la finanza, mettendo a rischio la posizione degli

attuali incumbents. L’innovazione sta infatti aprendo le porte del settore sia a

nuove startup che a player provenienti da altre aree, ma con forti competenze

tecnologiche, come Facebook o Apple. È quindi possibile che il loro know-how e

le loro risorse possano mettere in crisi gli istituti tradizionali, che non si sono

dimostrati abbastanza reattivi ai cambiamenti, creando un gap tra la loro offerta e i

desideri dei clienti, sempre più abituati a nuove modalità di fruizione dei servizi,

prevalentemente tramite piattaforme digitali accessibili da qualsiasi device

caratterizzate da una user experience semplice ed intuitiva. La difficoltà degli

incumbents nell’adeguarsi a questo standard e la crescente sfiducia nei loro

confronti da parte della clientela (la quale è inoltre sempre più abituata all’utilizzo

di servizi digitali) potrebbe quindi facilitare l’ingresso nel settore di nuovi

entranti, con effetti potenzialmente dirompenti. Questo rischio non riguarda

solamente il segmento dei pagamenti (al quale in genere si associa il concetto di

FinTech), ma l’intero ecosistema bancario, compreso il ramo del credito

(soprattutto con il cosiddetto P2P lending) e quello della gestione del risparmio.

L’elaborato si focalizza quindi sull’analisi di quest’ultimo segmento, effettuando

un’introduzione volta a darne un inquadramento teorico, per poi concentrare

l’attenzione sui nuovi trend che lo stanno interessando; dai fenomeni demografici,

come l’arrivo dei Millennials, ai cambiamenti macroeconomici e normativi

(valutando l’impatto sul settore di fattori come la crisi economica, la politica

monetaria, la complessità normativa e le difficoltà di compliance rispetto alle

norme a tutela dell’investitore).

Una volta delineate le principali caratteristiche e tendenze del settore, l’attenzione

viene rivolta alle applicazioni della FinTech che lo riguardano direttamente,

distinguendole tra robo advisory e digital trading.

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L’elaborato prosegue quindi con la disamina di queste due tipologie di piattaforma

digitale, con l’obiettivo di evidenziarne le caratteristiche principali e i modelli di

business alternativi, anche tramite l’utilizzo di casi di studio ed esperienze dirette

di fruizione da parte del candidato. Tale analisi viene poi approfondita con una

parentesi sul funzionamento tecnico delle piattaforme robo, volto a sottolineare

come esso si basi generalmente su una teoria del 1952 (la “Modern Portfolio

Theory” di Markowitz) e a individuare i meccanismi utilizzati nella pratica per

contrastare i limiti che la caratterizzano (derivanti dal cosiddetto estimation risk).

Il tema del robo advisory viene infine completato con un’analisi della situazione

italiana, finalizzata a delineare le principali caratteristiche del mercato e del

contesto competitivo che caratterizzano il settore del Wealth Management

all’interno dello stato. A tal fine vengono riportati i principali dati relativi ai trend

del risparmio e degli investimenti della popolazione, ma anche i risultati delle

ricerche in termini di educazione finanziaria e propensione all’utilizzo di servizi

digitali. Per completare questo approfondimento viene infine proposta una

descrizione dei principali player FinTech italiani del settore, AdviseOnly e

MoneyFarm: il primo improntato alla mera consulenza finanziaria e il secondo

costituito invece da una vera e propria piattaforma di Robo Advisory. L’analisi si

concentra quindi prevalentemente su quest’ultimo (dati anche i numerosi

riconoscimenti ricevuti a livello internazionale e le ottime prospettive future),

fornendo una descrizione dell’intero processo d’investimento, fino ai servizi post-

vendita offerti dall’azienda.

L'elaborato si conclude con un'analisi delle possibili prospettive che potrebbero

caratterizzare il settore del Wealth Management nel futuro. A tal fine viene

effettuata una valutazione circa la compatibilità tra il concetto di innovazione

disruptive ed il fenomeno FinTech, utilizzando la letteratura manageriale per

delineare gli sviluppi futuri più probabili e per individuare delle linee guida circa

le risposte che gli incumbents dovrebbero adottare per difendere le proprie quote

di mercato. Infine, viene proposto un confronto tra le indicazioni teoriche e le

reazioni effettivamente riscontrabili tra gli operatori tradizionali, utilizzando tali

evidenze per formulare un’opinione circa la possibilità che il settore subisca una

vera e propria disruption o si limiti ad un processo di “Fintegration”.

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CAPITOLO I La FinTech

1.1  – L’impatto della tecnologia sul retail banking Verso la metà degli anni ’90 inizia la cosiddetta era “Pre-FinTech”1, un periodo

caratterizzato dalla rapida penetrazione di internet (Figura 1) e dai suoi effetti sul

settore bancario; sia diretti, come lo sviluppo dell’online banking, che indiretti,

come quelli derivanti dalla crescita dirompente dell’e-commerce e dalla

conseguente necessità di strumenti che permettano di gestire le transazioni in

maniera rapida, semplice e sicura.

Figura 1 – La percentuale di penetrazione di internet nel mondo

Fonte: https://www.google.it/publicdata/directory

L’azienda che meglio di tutte rispose a tali esigenze fu PayPal (fondata nel 1998

con il nome Confinity) che, con la sua offerta di servizi di pagamento digitale e

trasferimento di denaro tramite Internet, supportò lo sviluppo degli acquisti online

su scala globale. Attualmente l’impresa conta più di 180 milioni di utenti,

suddivisi su 203 mercati diversi ed ha chiuso il 2015 con entrate pari a 9,24

miliardi di dollari2. Questi numeri la rendono la più importante “pre-FinTech” del

mondo, soprattutto per la sua capacità di mettere in discussione il concetto di

“universal banking”, ovvero di banca multifunzione che offre una grande varietà

1 Ferrari, 2016 2 PayPal, 2015

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di servizi e che sembrava solo fino a poco tempo fa un modello inattaccabile.

PayPal rappresenta infatti il “pioniere” della fornitura di servizi di banking da

parte di aziende provenienti da settori non bancari, un trend che sta crescendo in

maniera esponenziale e che sembra confermare la previsione fatta da Bill Gates

nel 1994, con l’affermazione “Banking is necessary, banks are not.”3

Una spiegazione di tale tendenza la propone Brett King, co-founder della startup

di mobile banking “Moven” e autore del libro “Bank 3.0”. Secondo l’imprenditore

è necessario prendere in considerazione l’impatto psicologico della tecnologia,

poiché la possibilità di effettuare le operazioni online porta gli utenti a pensare che

ricorrere ai canali tradizionali sia uno spreco di tempo. Ne consegue che l'utilizzo

della tecnologia per svolgere le attività in modo più efficiente ha un impatto

positivo sull'autostima delle persone in quanto ritengono di star utilizzando il

proprio tempo in modo migliore. Questo, insieme al senso di controllo derivante

dalla possibilità di effettuare una transazione o un acquisto senza l'assistenza di

una terza persona, contribuisce all’impatto psicologico positivo derivante

dall’utilizzo dei nuovi canali.

A tale effetto va poi aggiunta la tendenza del processo di diffusione della

tecnologia a diventare progressivamente più rapido (figura 2).

Figura 2 – La rapidità con cui le nuove tecnologie diventano prodotti di massa

Fonte: http://static5.uk.businessinsider.com

3 Capgemini, 2016 (A)

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Questa accelerazione, secondo l’autore, dipende dal fatto che più le persone

prendono confidenza con le tecnologie, meno tempo impiegano ad adottare quelle

nuove con conseguenze molto forti sia sulla velocità dell'innovazione che sulle

aziende, le quali si ritrovano con sempre meno tempo per adattarsi.

Ciò significa che se la velocità con cui si introduce un'innovazione nella customer

experience è inferiore al ritmo con cui tale tecnologia viene adottata dalla massa, è

molto probabile perdere i propri clienti a vantaggio di aziende più rapide. È chiaro

come tale concetto sia fondamentale per le banche, che fino ad oggi si sono

dimostrate piuttosto lente ed hanno quindi allargato il gap con i propri customers,

spingendoli all’adozione dei servizi proposti da player non bancari come la

precedentemente citata PayPal.

Sulla base di queste affermazioni, King spiega gli effetti che la tecnologia ha già

avuto e avrà in futuro sul retail banking attraverso quattro fasi. La prima inizia

con l’arrivo di internet e riguarda il suo impatto rispetto al modo in cui i

consumatori accedono ai servizi bancari (l’online banking), amplificato

dall’effetto psicologico di cui sopra. In 10 anni, infatti, le transazioni negli Stati

Uniti sono passate dall’esser svolte per il 60% nelle filiali all’esser effettuate per il

95% tramite mobile, internet o ATM4.

Nella parte finale di questa prima fase arrivano poi i social media che cambiano

completamente il bilanciamento del potere nella relazione banca-cliente. Ciò

significa che gli istituti non hanno più il lusso di poter valutare i clienti in modo

unilaterale per decidere se sono abbastanza affidabili o profittevoli da meritare il

servizio, secondo la cosiddetta filosofia del “lucky to be a customer”. Infatti i

clienti possono ora ricorrere ai social per valutare quale banca utilizzare,

affidandosi alla sempre più potente opinione delle masse. Ne consegue che, per

tutelare il brand, le banche sono ormai obbligate a modificare radicalmente il loro

modo di interfacciarsi con i clienti.

La seconda fase è quella che si sta concludendo in questo periodo, dominata dalla

diffusione dei device mobili e delle App, i quali stanno supportando la

penetrazione del mobile banking e la conseguente possibilità di utilizzare il

telefono per qualsiasi operazione diversa dal ritirare o depositare denaro.

4 King, 2012

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Quest'ultimo punto ci porta alla terza fase, quella dei mobile payments, ovvero

della convergenza tra gli smartphone e le carte di credito nella forma dei mobile

wallet. Questo step, che secondo King maturerà nei prossimi anni, detterà una

grande diminuzione dei pagamenti fisici, ma soprattutto la progressiva

eliminazione dell’interazione fisica tra la banca e il cliente. Tale processo porrà le

basi per l’ultima fase, quella in cui il banking verrà fornito in modo pervasivo, in

ogni luogo o momento in cui il consumatore ne avrà bisogno, in linea con lo

slogan: “Banking is no longer somewhere you go, but something you do”5.

All’interno di questo processo, il passaggio dall’era Pre-FinTech a quella FinTech

coincide con quello tra la prima e la seconda/terza fase. In altre parole, l’arrivo di

internet ha sconvolto un modello che era rimasto praticamente invariato dal

tredicesimo secolo e portato alla diffusione dell’home banking che rappresenta un

ulteriore spinta al processo di mutamento del settore iniziato con l’introduzione

degli ATM negli anni ’70. Tale fase è però solo propedeutica rispetto alla profonda

mutazione che si è poi sviluppata con la “rivoluzione FinTech”, caratterizzata

dall’utilizzo della digitalizzazione come mezzo per rendere il servizio accessibile,

self-service, real-time e mobile (figura 3).

Figura 3 - Il passaggio dall'era Pre-FinTech alla FinTech

Fonte: Elaborazione personale

5 King, 2012

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1.2  – Cos’è la FinTech? Nel paragrafo precedente si è parlato della trasformazione del settore bancario e

dei passaggi che hanno portato alla diffusione della FinTech, senza però definire

con precisione tale termine. Per sopperire a tale mancanza è possibile far

riferimento alla definizione data dalla società di consulenza PWC6:

“FinTech or financial technology is the term used to refer to any technology applied to financial services. More specifically, we

can define FinTech as a complex combination of financial services and technological innovations in an ever-changing

ecosystem of customer expectations and regulators.”

Data tale definizione, è chiaro come questo concetto non riguardi solo le start-up

innovative, ma anche i grandi istituti finanziari già presenti sul mercato, le

compagnie tecnologiche che offrono servizi finanziari (come Apple, Google o

Facebook) e le aziende che forniscono infrastrutture o tecnologie che supportano

tali servizi (come MasterCard). Ciononostante, il termine FinTech viene

generalmente utilizzato per contrapporre le banche tradizionali alle nuove start-up

che hanno cominciato ad “invadere” il mercato a partire dalla fine della prima

decade del nuovo millennio. Tale fenomeno è iniziato con la crisi del 2008, che

mise in grande difficoltà gli istituti bancari tradizionali e portò ad una forte

sfiducia nei loro confronti. Questo fattore fu particolarmente rilevante poiché

erano state le banche stesse a causare la recessione, tramite il noto fenomeno

(concentrato negli USA) della concessione di mutui “subprime”, ovvero erogati a

clienti “ad alto rischio”7. La crescita di queste operazioni divenne problematica

poiché spinta dai bassi tassi d’interesse (tagliati dalla FED in seguito alla bolla

delle cosiddette DOTCOM) e dal fenomeno della cartolarizzazione, ovvero della

trasformazione del mutuo in un titolo trasferibile a terzi, che permetteva alle

banche di scaricare il rischio e quindi le rendeva meno esigenti nella fase di

valutazione del profilo dei debitori. Così, quando la FED aumentò i tassi

d’interesse in risposta alla ripresa dell’economia statunitense, i casi d’insolvenza

6 PWC, 2016 (B) 7 Borsa Italiana, 2007 (B)

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aumentarono drasticamente e i titoli cartolarizzati persero molto valore,

costringendo i detentori a chiedere fondi alle banche che li avevano emessi.

Questo portò ad una crisi di liquidità che richiese l’intervento delle istituzioni

pubbliche, le quali non riuscirono comunque a scongiurare un forte impatto

sull’economia reale a livello globale. La grande recessione che ne derivò,

comportò un forte irrigidimento delle normative e dei requisiti regolamentari

relativi al settore bancario. Questo si tradusse in un “appesantimento” delle

banche, che ne rallentò fortemente la capacità di innovare e contemporaneamente

indebolì le barriere all’entrata per i nuovi player, che inoltre potevano contare

sullo sviluppo tecnologico, l’afflusso di capitali in misura rilevante e la

familiarizzazione dei clienti con gli strumenti digitali, soprattutto per quanto

riguarda la generazione dei “millenials” (coloro che sono nati tra i primi anni '80 e

la metà degli anni '90).

Ovviamente, prima di questo periodo vi erano già delle start-up e dei servizi

bancari digitali, ma i “numeri” non erano confrontabili con quelli che si sarebbero

registrati in seguito (Figura 4).

Figura 4 – La crescita degli investimenti nel FinTech

Fonte: McKinsey, 2015

Questo trend di crescita degli investimenti, rimasto costante negli ultimi anni,

sembrerebbe esser confermato anche dai dati relativi al secondo trimestre del

2016, forniti dal report di KPMG “The pulse of FinTech”.

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Secondo la società di consulenza, infatti, il secondo trimestre del 2016 ha

registrato investimenti per 9,4 miliardi, un aumento significativo rispetto ai 7,2

miliardi del periodo corrispondente nel 2015 (figura 5).

Figura 5 – I finanziamenti nella FinTech del Q2 2016

Fonte: KPMG, 2016

Tale dato dimostra la dinamicità di un settore che, negli ultimi 5 anni (se si

considerano venture capitalist, IPO, acquisizioni e finanziamenti) ha accumulato

investimenti per circa 160 miliardi di dollari8.

Una particolarità interessante delle start-up che hanno ricevuto tali finanziamenti

è la concentrazione in aree geografiche ristrette, i cosiddetti Hub. Tra questi,

quelli più promettenti sono Londra, New York, la Silicon Valley, Hong Kong e

Singapore (figura 6).

Londra compete sicuramente per la posizione di miglior hub FinTech poiché, oltre

a vantare il settore dei servizi finanziari più grande al mondo ed una forte crescita

di quello tecnologico, possiede tutti gli ingredienti fondamentali per il successo:

capitale (vi operano investitori del calibro di Accel, Anthemis, Augmentum

Capital, Aviva Ventures, Balderton, Brightbridge Ventures, Illuminate Financial,

Santander InnoVentures, etc.), competenze, diversità demografica e supporto delle

istituzioni. Grazie a questi fattori, Londra può attualmente vantare casi di successo

come eToro, Funding Circle, Nutmeg, Tandem, Transferwise e Zopa. Tuttavia, è

opportuno sottolineare che la sua posizione potrebbe essere influenzata dall’esito

8 Source Media, 2015

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del referendum del 23 giugno 2016 circa la sua uscita dall’Unione Europea.

Secondo uno studio di PWC9, infatti, la cosiddetta “Brexit” potrebbe causare seri

problemi al distretto londinese, soprattutto a causa dell'incertezza regolatoria e

politica, ma anche delle conseguenze sulla forza lavoro derivanti dalla

diminuzione della libertà di movimento. La prospettiva proposta dall'azienda di

consulenza ritiene probabile un trasferimento di sede in Paesi a fiscalità

privilegiata (come il Lussemburgo) o verso hub vicini, come quello di Berlino.

Tale spostamento sarebbe giustificato dall’impossibilità, per le piccole startup del

FinTech che già si trovano ad affrontare grandi sfide finanziarie e tecnologiche, di

far fronte anche ai cambiamenti del sistema legale e regolatorio che interesseranno

il territorio nei prossimi anni10. Tuttavia, sempre secondo PWC, i vantaggi

derivanti dalla forza dell’ecosistema inglese sarebbero tali da mitigare gli

inconvenienti della Brexit, riducendo la migrazione delle startup.

Figura 6 – La classificazione degli Hub FinTech proposta da Deloitte

Fonte: Deloitte, 2016

L'unico Hub in grado di competere con Londra, secondo un report di Deloitte, è

Singapore, la capitale asiatica della finanza. La città vanta infatti numerosi

incubatori e gode di un fortissimo supporto da parte del governo, che ha

recentemente investito ben 225 milioni nello sviluppo della FinTech11.

9 PWC, 2016 (C) 10 StartupItalia!, 2016 11 Deloitte, 2016 (B)

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1.3  – Il FinTech ecosystem Spesso con il termine FinTech ci si riferisce all’applicazione della tecnologia

rispetto al settore dei pagamenti. Tuttavia tale utilizzo è errato, poiché in realtà il

termine è estendibile ad un ecosistema molto vasto, che comprende

prevalentemente i servizi di online banking, i pagamenti, le transazioni, i prestiti, i

finanziamenti, il financial management, le assicurazioni, il crowdfunding,

l’alternative finance, i servizi per le PMI etc.12

Restringendo l’attenzione al settore bancario, coerentemente con il fine del

presente elaborato, l’ecosystem si riduce però a quella della figura 7.

Figura 7 – Il Fintech Ecosystem nel settore bancario

Fonte: https://letstalkpayments.com

All’interno di questo ecosistema, le start-up che hanno ricevuto i finanziamenti

superiori sono quelle relative ai pagamenti e ai prestiti, che complessivamente

detengono circa il 48% degli investimenti totali del 2016 nella FinTech13. Questi

due segmenti, insieme alla gestione del risparmio, costituiscono i tre grandi

verticali del sistema bancario.

12 Business Insider, 2015 (A) 13 KPMG, 2016 (B)

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Il segmento dei pagamenti

Il cambiamento del segmento dei pagamenti è di certo uno dei più importanti per

le banche, poiché contribuisce al fatturato globale del settore per il 31%14 e, solo

in Europa, vale circa 128 miliardi di euro15 (figura 8).

Figura 8 - La composizione del fatturato derivante dal segmento dei pagamenti per le banche

Fonte: Deloitte, 2015

Tale settore sta subendo un grande cambiamento a causa di tre fattori principali16:

Ø   Gli interventi regolatori

I cambiamenti nella regolamentazione del settore stanno influenzando

fortemente le dinamiche competitive che lo caratterizzano. Focalizzando

l’attenzione sull’area europea, le novità più rilevanti sono quelle derivanti

dalle Payment Services Directive. La PSD è la direttiva europea che ha

definito il framework legale del SEPA (Single Euro Payments Area),

ovvero l'area all'interno della quale ogni pagamento transfrontaliero costa

come uno domestico17. Tale norma, finalizzata a fare in modo che ogni

ente possa ricevere e inviare pagamenti elettronici in Europa alle stesse

condizioni del mercato interno, ha delle forti conseguenze sul settore

bancario poiché riduce le fee delle transazioni cross-border al livello di

quelle domestiche e diminuisce i tempi di accredito da tre giorni ad uno

14 McKinsey, 2015 (A) 15 Deloitte, 2015 (D) 16 Deloitte, 2015 (D) 17 Commissione Europea, 2016

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solo. A questa direttiva è seguita la PSD2 (Payments Services Directive 2),

entrata in vigore nel 2016 ma recepibile entro il 201818, finalizzata ad

aprire il mercato dei pagamenti alla competizione dei players non

appartenenti al settore bancario, in modo da adeguare le normative

all'innovazione e al cambiamento delle preferenze dei consumatori. I

principali propositi sono la richiesta alle banche di permettere l'accesso

alle informazioni dei propri clienti da parte di terzi (quando questi

detengono le licenze idonee e hanno ricevuto l'esplicito consenso dei

clienti) e il divieto di trattare i pagamenti attraverso terzi in modo diverso,

ad esempio facendo pagare tasse più alte.

Secondo le stime di Deloitte, la perdita di revenue per gli istituti

tradizionali derivante dall'entrata in vigore di tali norme è modesta (circa il

2%)19, soprattutto poiché fortemente controbilanciata dall’aumento di

volume delle transazioni all’interno del mercato europeo. Ne consegue che

gli effetti più importanti riguarderanno soprattutto la creazione di

condizioni favorevoli ad un aumento della concorrenza da parte di players

non bancari.

Ø   L’innovazione tecnologica

Oltre alle regolamentazioni sopra citate, anche le tecnologie stanno

facilitando l'entrata nel settore degli attori non bancari, il cui successo

dipende dall’offerta di servizi di pagamento basati su una user experience

semplice e rapida, cui i clienti possono spesso accedere tramite App

Mobile. È quindi chiara la differenza tra questi nuovi attori, privi di

infrastrutture fisiche tradizionali come le filiali (con tutti i risparmi di

costo che ne derivano) e le banche, appesantite dalle responsabilità di

compliance e storicamente più attente alla sicurezza che alla convenienza.

Tale contrasto di priorità sottolinea l'esistenza di un trade-off (tra sicurezza

e convenienza) che potrebbe però essere “aggirato” dai nuovi entranti

tramite il ricorso alle innovazioni nel campo dei sistemi di riconoscimento

biometrico.

18 Banca d’Italia, 2016 (A) 19 Deloitte, 2015 (D)

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Secondo la società di consulenza EY, le transazioni via mobile

raggiungeranno i 780 miliardi di dollari nel 2017 ed entro la fine del 2016

l’85% dei sistemi POS sarà abilitato ai pagamenti contactless20; questi

cambiamenti hanno una conseguenza molto importante:   l’accelerazione

del passaggio dai pagamenti cash a quelli non-cash. Basti pensare che, nel

2014, in Inghilterra, i pagamenti virtuali hanno sorpassato quelli fisici per

la prima volta nella storia (e le proiezioni ritengono che i pagamenti cash

possano crollare dal 48% attuale al 18% entro il 202421). A tutto questo va

aggiunto che il passaggio ai pagamenti digitali, congiuntamente allo

sviluppo di tecnologie in grado di analizzare e interpretare moli di dati

sempre più alte, sta spingendo molti attori ad entrare nel settore dei

pagamenti con il fine di appropriarsi del patrimonio di informazioni legato

alle transazioni digitali.

Ø   Il cambiamento nelle preferenze dei consumatori

Le innovazioni precedentemente citate influenzano (e sono influenzate da)

il comportamento delle persone, che sono sempre più a loro agio con la

tecnologia e quindi più disposte a sperimentare nuovi metodi di

pagamento. A questo va aggiunto che l’abitudine ad utilizzare interfacce

semplici ed intuitive che offrono servizi immediati rende sempre più

difficile pensare di poter “sopravvivere” senza offrire un servizio che

rispetti tali standard, anche perché la fiducia di cui godono le banche

tradizionali è un fattore che sarà sempre meno determinante.

Tutto questo sta creando il terreno ideale per l’entrata nel settore dei grandi

players del web, dei social network e dell’instant messaging che non solo possono

puntare ad una quantità di utenti impensabile per una singola banca, ma hanno

anche l’opportunità di contare su un forte know-how in termini di strutturazione

della user experience e su forti possibilità di integrazione con altri servizi digitali.

A tal proposito è possibile citare l’entrata nel settore di Google e Facebook; il

primo con un sistema di pagamento che sfrutta la tecnologia NFC (un sistema

senza fili che consente la trasmissione dei dati tra due dispositivi a pochi

20 EY, 2016 (B) 21 Deloitte, 2015 (D)

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centimetri di distanza22) per rendere il telefono una carta di credito virtuale, nel

senso che basta avvicinare il cellulare ad un sensore per effettuare il pagamento

(figura 9).

Figura 9 - Il funzionamento di Google Wallet

Fonte: http://www.ilpost.it

E il secondo con un’estensione della già nota applicazione “Messenger”, che

permetterà di fare pagamenti P2P in maniera semplice e veloce (figura 10).

Figura 10 - Un esempio del funzionamento di Facebook Payments Fonte: http://uk.businessinsider.com

Questi attori (tra cui rientrano anche Apple, Amazon, Alibaba etc.), non limitati

dall’infrastruttura interbancaria obsoleta degli istituti tradizionali, sono

avvantaggiati rispetto all’obiettivo dell’instant payment e potrebbero quindi

conquistare sia il C2C (consumer to consumer) che il C2B (consumer to

business), nella forma proximity tanto quanto quella remote.

22 Il Post, 2011

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Oltre a quest’ultimi segmenti, di grande interesse è anche il mondo delle

remittances (i trasferimenti di denaro delle persone che lavorano all'estero diretti

ad individui situati nel loro paese di provenienza), un settore da 580 miliardi di

dollari23 che risulta interessante soprattutto per l’Italia essendo, dopo la Spagna, il

paese Europeo con il maggior numero di transazioni. In questo campo la

diffusione della FinTech è in progressiva crescita, come dimostra la partnership tra

il leader globale del settore, Western union, e una delle più promettenti realtà del

P2P digitale, WeChat24. Il segmento delle remittances è d’interesse anche per

un'altra grande branca del payments ecosystem, ovvero le cryptocurrencies. A tal

proposito è opportuno citare i bitcoin, la moneta elettronica creata nel 2009 e

diventata rapidamente un caso di successo globale (figura 11). Tra le sue

principali peculiarità vi è l’assenza di una banca centrale di emissione e

regolamentazione, sostituita dalla cosiddetta blockchain, ovvero un database

distribuito tra i nodi della rete appartenente al circuito che tiene traccia delle

transazioni e sfrutta la crittografia per gestire la generazione di nuove monete,

l’attribuzione di proprietà e i relativi trasferimenti.

Figura 11 – Le transazioni giornaliere in bitcoin dal 2009 alla fine del 2015

Fonte: Deloitte, 2015

23 The Economist, 2016 24 Tencent Inc., 2015

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Sin qui ci si è concentrati sul potenziale delle grandi aziende tecnologiche che si

stanno muovendo verso il settore dei pagamenti, tuttavia è opportuno sottolineare

che il “cuore” del payments ecosystem è costituito dalle start-up innovative; le

quali, secondo le analisi di Venturescanner.com, nel 2016 hanno ricevuto

finanziamenti per 4 miliardi di dollari25, suddivisi tra più di 100 aziende. Tra

queste, ben tre appartengono a PayPal (figura 12): Venmo, Xoom e Braintree;

dedicate rispettivamente alle transazioni P2P, alle remittances e al processamento

dei pagamenti online.

Figura 12 – Le dinamiche che hanno portato all’acquisizione delle tre startup da parte di PayPal Fonte: StartupItalia!, 2015

Tra queste, il caso più emblematico è probabilmente quello di Venmo.

L'applicazione, finalizzata allo scambio di pagamenti tra privati tramite

smartphone, utilizza un portafoglio digitale collegato al conto corrente dell'utente

che può depositarvi una cifra da utilizzare per piccole transazioni (come dividere

il conto di un ristorante o il prezzo di un regalo comune). A questo va aggiunta

anche la funzione social, consistente nella possibilità di condividere e commentare

le operazioni con il proprio network di amici e conoscenti. I numeri fatti registrare

dall’azienda sembrano dimostrare il successo di questa formula innovativa: nel

2014 Venmo ha processato pagamenti per 700 milioni di dollari26 (solo mercato

USA) e le proiezioni di Forrester Research prevedono che il business raggiungerà

un valore di 90 miliardi di dollari già nel 201727.

25 Venture Scanner, 2016 26 Bloomberg, 2014 27 Forrester research, 2013

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Ovviamente, oltre alle imprese acquisite da PayPal vi sono anche altri nomi di

spicco come Stripe o Square. La prima è una start-up fondata nel 2010, con il fine

di agevolare la nascita di nuovi business online tramite l'eliminazione delle

numerose difficoltà in cui incorreva chi necessitava di metodi di pagamento online

veloci e sicuri. La risposta di Stripe a tale esigenza è molto semplice poiché basta

inserire il servizio all'interno del proprio sito web o App per poter ricevere

pagamenti da tutto il mondo con il vantaggio di aver tutte le procedure gestiste dal

servizio senza costi di attivazione o tariffe mensili (il prezzo richiesto è infatti pari

a 1,4% + 25 centesimi per ogni transazione andata a buon fine28). Tale sistema ha

ottenuto da subito ottimi riscontri, guadagnando la fiducia di partner del calibro di

Facebook ed Apple. Tale successo è anche confermato dai numeri dell’azienda che

ha già raccolto 300 milioni di investimenti ed ha raggiunto un valore di 5 miliardi

di dollari29.

Altrettanto interessante è la storia di Square, una start-up fondata nel 2009 che

permette ai venditori di accettare pagamenti da carte di credito tramite un

applicazione mobile per iOS e Android, ma offre anche un card reader portatile

(figura 13) che va inserito nell'entrata jack di smartphone e tablet andando quindi

a sostituire i sistemi di checkout tradizionali.

Figura 13 – Il primo servizio di mPOS fornito da Square

Fonte: https://squareup.com

28 StartupItalia!, 2015 (C) 29 Stripe, n.d.

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Attualmente Square rappresenta una soluzione di processamento di pagamenti

mobile (mPOS) senza rivali poiché non richiede fee mensili o altri costi, ma solo

una percentuale sulle transazioni, molto simile a quella della precedentemente

citata Stripe. A tutto questo vanno aggiunte le numerose funzioni aggiuntive

offerte dal servizio come la possibilità di passare dalla transizione in-store a quella

online, usufruendo di servizi di customer management, gestione degli ordini

online e analytics, senza costi aggiuntivi. La società ha effettuato l’IPO a fine

2015, definendo il valore del gruppo a quasi 3 miliardi e raccogliendo circa 243

milioni30. Tali risultati, per quanto positivi, si sono dimostrati al di sotto delle

aspettative, probabilmente a causa del rallentamento della crescita e dell'aumento

delle perdite.

In conclusione, la industry dei pagamenti sta progressivamente diventando più

concorrenziale e frammentata, soprattutto grazie alla crescita dei players non

bancari che offrono servizi veloci, economici, semplici e real-time. La diffusione

dei pagamenti digitali, soprattutto mobile, renderà probabilmente obsolete le carte

tradizionali entro breve tempo (soprattutto per i pagamenti di piccole dimensioni)

e ridurrà drasticamente l'utilizzo degli ATM e dei POS. In questo contesto

diventerà essenziale la capacità di essere flessibili e di adottare "open platforms"

che permettano di integrare rapidamente le nuove tecnologie e i nuovi canali.

È infine opportuno sottolineare che questo mercato si sta velocemente dirigendo

verso la maturità; già adesso l'attenzione si sta spostando dalle caratteristiche del

servizio alla sicurezza (nel 2015 sono stati “hackerati” ben 112.000 portafogli

digitali31) ma, quando diventerà mainstream, è probabile che la competizione si

sposti sui servizi accessori come il reporting e gli analytics.

30 Il Sole 24 Ore, 2015 (B) 31 Deloitte, 2015 (C)

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Il segmento del lending

Come accennato precedentemente, la crisi del sistema bancario del 2008 ha avuto

conseguenze molto forti sul settore. Basti pensare a Basilea 3, l'insieme di

provvedimenti predisposto dal comitato per la vigilanza bancaria al fine di

stabilizzare il mondo finanziario e imporre ai suoi protagonisti delle corrette

pratiche in termini di capitalizzazione, liquidità e gestione del rischio32. Tra

queste, è opportuno citare il Core Tier 1 ratio e il Liquidity Coverage Ratio,

finalizzati a ridurre la sensibilità degli istituti ad eventuali shock finanziari. Il Tier

1 capital, composto dalle azioni ordinarie più le riserve, dev'essere pari ad almeno

il 4,5% dei prestiti effettuati per un coefficiente che cambia a seconda della loro

rischiosità. A questa quota è necessario aggiungerne una del 2,5%, il cosiddetto

conservation buffer, che porta il core tier 1 ratio minimo al 7%33. Per quanto

invece riguarda la liquidità, la norma impone alle banche di mantenere uno stock

di attività liquide non vincolate che possano essere convertite in contanti, in grado

di soddisfare il fabbisogno di liquidità per un intervallo di almeno 30 giorni34.

Queste regole condizionano fortemente il settore bancario, ma anche l’economia

reale. L’aumento del volume dei cuscinetti di capitale anti-crisi tende, infatti, a

tradursi in una contrazione del credito e quindi in un freno all’economia. Questo

perché se una banca ha vincoli eccessivi sui propri prestiti deve ridurre gli

impieghi per rispettarli, con ovvie conseguenze per le imprese e le famiglie che

necessiterebbero di un finanziamento. Tale situazione è poi aggravata

dall’introduzione dei liquidity e stress test. Quest'ultimi, che hanno rappresentato

uno dei maggiori trend topic relativi alle banche dell'estate 2016, sono costituiti da

simulazioni di scenari economici negativi e dalla conseguente valutazione del loro

impatto sul bilancio e sul capitale35.

Queste regolamentazioni hanno ridotto la disponibilità delle banche a rilasciare

finanziamenti contribuendo di fatto alla creazione di una situazione favorevole per

l’arrivo della FinTech nel segmento, soprattutto se si considera che il lending

rappresenta la principale fonte di ricavi di tutto il settore, con un volume d’affari

32 Bank for international settlements, 2014 33 Borsa Italiana, 2013 34 CheBanca!, n.d. 35 La Stampa, 2016 (B)

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di oltre 1,5 trilioni di dollari36. L’attrattività di questo business ha attirato molte

start-up e venture capitalist, come dimostrano gli investimenti di circa 10 miliardi

di dollari, suddivisi tra oltre 250 imprese37. Tra quest’ultime, la maggior parte

offre una piattaforma di P2P lending, ovvero un marketplace che mette in contatto

i prestatori e i richiedenti credito, fornendo di fatto una soluzione alternativa

rispetto al credito bancario. La differenza rispetto al sistema tradizionale è chiara

(figura 14): le banche agiscono come un intermediario tra i risparmiatori e i

debitori, pagando interessi ai primi e ricevendoli dai secondi a fronte del rischio

che corrono nell'effettuare l'operazione di finanziamento. Questo sistema ha

diversi svantaggi, come la necessità di detenere una certa quantità di capitale per

assorbire le potenziali perdite e l'impossibilità per i risparmiatori di avere il pieno

controllo rispetto all'utilizzo dei loro depositi.

I marketplace, invece, mettono in contatto i creditori con i debitori tramite una

piattaforma online, ma non richiedono depositi ne prestano denaro direttamente.

Ciò significa che la loro fonte di guadagno non è rappresentata dagli interessi

(anche perché non sostengono il rischio), ma dalle fee e le commissioni che

richiedono agli utenti, ai quali offrono trasparenza e controllo sulle operazioni.

Figura 14 - Un confronto tra il sistema tradizionale e quello proposto dalla FinTech

Fonte: Deloitte, 2016

Inizialmente queste piattaforme permettevano ai debitori e agli investitori di

contattarsi direttamente, ma con il tempo si sono evolute verso la frammentazione

degli investimenti in gruppi di prestiti per minimizzare il rischio.

Il successo di questo modello di business è testimoniato dai risultati, come

dimostra il fatto che, nel 2015, il valore del mercato USA ha raggiunto i 23

miliardi di dollari di prestiti in essere (Figura 15).

36 Ferrari, 2016 37 Ferrari, 2016

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Figura 15 – Il volume di prestiti sui Marketplace statunitensi tra il 2011 e il 2015

Fonte: Deloitte, 2016

Come si può vedere dal grafico, vi è una forte concentrazione delle quote di

mercato tra i principali players. Di questi, gli unici quotati sono OnDeck e il

leader di mercato LendingClub che ne detiene da solo il 37% e gestisce prestiti

per un valore di 8,4 miliardi di dollari38. L’azienda, che ha già ottenuto

finanziamenti per 13 miliardi di dollari39, ha effettuato l’IPO nel 2014

raggiungendo una capitalizzazione superiore ai 9 miliardi40. Tuttavia, è opportuno

sottolineare come, dal 2014, il valore della start-up sia crollato di circa l’80%41.

Secondo un recente articolo del Corriere, il problema è da ricondurre a due cause

principali: da un lato il deterioramento dei crediti derivante dall'inaffidabilità

dell'algoritmo che definisce il rating di solvibilità sulla base dei dati raccolti in

rete sugli utenti; dall'altro la diffusione della notizia che alcuni crediti vengano

venduti ad istituzioni esterne tramite cartolarizzazione.

Tralasciando l’andamento sul mercato azionario, i risultati di LendingClub

continuano comunque ad essere positivi sia in termini di entrate che di volume di

finanziamenti gestito. Tale successo dipende dall’agilità del servizio: i potenziali

debitori possono registrarsi online in pochi minuti ed effettuare una richiesta di

finanziamento. Questa viene valutata dalla piattaforma che, dopo l'approvazione,

assegna un rating da A a G (Figura 16).

38 Deloitte, 2016 (A) 39 Ferrari, 2016 40 StartupItalia!, 2014 41 Corriere della sera, 2016 (B)

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Figura 16 - I tassi d'interessi per rating di LendingClub

Fonte: www.lendingclub.com

Tale valutazione rappresenta il principale criterio in base al quale gli investitori

sceglieranno i Notes (frazioni di un debito) in cui investire, fino ad ottenere un

portfolio diversificato tra addirittura 100 diversi finanziamenti42. Una volta

ottenuto il denaro, il debitore paga una rata mensile (a tasso fisso) che viene

depositato sul conto del creditore, che può reinvestire o ritirare liberamente. Al

debitore è anche data la possibilità di saldare il debito anticipatamente senza

penalità o commissioni. Inoltre, pagando puntualmente, il borrower vedrà il

proprio rating migliorare ottenendo tassi d'interesse più vantaggiosi43.

A testimoniare la fiducia di cui gode LendingClub è anche l’allargamento del suo

marketplace alle piccole imprese ed il conseguente arrivo di un nuovo segmento

di finanziatori che va dagli hedge funds ai fondi pensione (e che oggi rappresenta

l’80% dei creditori della piattaforma44), i quali evidentemente considerano il

servizio una valida alternativa agli strumenti di finanziamento tradizionali. Questo

cambiamento ha portato ad un interessamento delle banche stesse, come

dimostrano le numerose partnership come quella tra LendingClub e Citibank. In

genere, tali accordi sono basati sulla segnalazione della piattaforma da parte delle

banche ai clienti che altrimenti non riuscirebbero a soddisfare. Secondo il report

di CitiGroup, questo sistema potrebbe portare il mercato delle piattaforme P2P

negli USA ad un valore di 254 miliardi di dollari45. Un punto di arrivo che è tutto

sommato realistico, soprattutto se si considera che in Cina il mercato ha già

superato il valore di 150 miliardi di dollari46.

42 Lending Club, n.d. (A) 43 Lending Club, n.d. (B) 44 Ferrari, 2016 45 CitiGroup, 2016 46 Crowded Media Group, 2016

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Per concludere questa parentesi sul business del lending è possibile accennare ai

due topic principali che potrebbero caratterizzarne il futuro. Il primo è costituito

dal potenziale derivante dai paesi emergenti, dove si trovano più di un miliardo di

persone appartenenti alle categorie dei cosiddetti underbanked o unbanked47

(persone che non hanno accesso a servizi bancari o sono serviti male) che stanno

per entrare nella classe media; il secondo è quello dell’evoluzione dei sistemi di

scoring utilizzati per la valutazione dei profili dei potenziali debitori, sempre più

basati su algoritmi capaci di valutare le persone in base ai loro profili sui social

network; un metodo che non è poi così futuristico se si pensa che già oggi la

concessione di prestiti a ristoranti e alberghi viene fatta anche in base al loro

successo su TripAdvisor.

Questi due “spunti” si collegano efficacemente a quelli che sono i principali punti

di forza del digital lending: la capacità di abbassare i costi del processo di

finanziamento tramite meccanismi automatizzati e la possibilità di facilitare

l’accesso al credito a soggetti che non potrebbero altrimenti usufruirne o che

potrebbero farlo a condizioni sfavorevoli. Molto probabilmente questi saranno i

futuri driver del settore e gli aspetti cui le banche dovranno fare maggiore

attenzione durante la formulazione delle loro strategie di risposta a questa

innovazione dirompente.

Il segmento dell’asset management

Dopo i pagamenti e il lending, il terzo grande segmento della FinTech nel retail

banking è quello relativo agli investimenti. Questo settore produce meno entrate

per il settore bancario rispetto a quelli precedentemente citati e per questo è stato

oggetto di minore attenzione. Tuttavia, facendo riferimento all’asset management,

è opportuno sottolineare come esso rappresenti un mercato da 70 trilioni di dollari

(di asset) che, secondo le stime, potrebbe arrivare a 100 trilioni entro il 202048.

Per questo motivo tale segmento costituisce l’oggetto del presente elaborato e

verrà discusso approfonditamente nei capitoli successivi.

47 Banking.com, 2012 48 PWC, 2016 (A)

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CAPITOLO II La FinTech nel wealth management

2.1   – Introduzione al wealth management   Per wealth management s’intende generalmente il servizio di gestione del

risparmio (o del patrimonio in generale) offerto al pubblico da parte di determinati

intermediari. Tra questi, i principali sono i cosiddetti “investitori istituzionali”,

definiti dall’ex Ministero delle attività produttive come “i soggetti la cui attività

d’investimento in strumenti finanziari è subordinata previa autorizzazione o

comunque sottoposta ad apposita regolamentazione”49.

Indipendentemente dalla definizione è comunque possibile affermare che tutte le

categorie d’investitori istituzionali sono accomunate dall’esercizio professionale

dell’attività di gestione di patrimoni per conto di una pluralità di soggetti.

Utilizzando tale criterio, rientrano nella casistica: OICR (Organismi di

Investimento Collettivo del Risparmio), gestioni di portafoglio (servizi di gestione

del patrimonio basati su un mandato conferito ad intermediari autorizzati),

imprese di assicurazione, fondi pensione, casse professionali di previdenza,

fondazioni bancarie50, etc.

Ai fini di questo elaborato, l’attenzione viene però focalizzata sulle attività di

gestione collettiva del risparmio che, secondo il TUF (Testo Unico della

Finanza)51, possono essere svolte solamente da SGR (società di gestione del

risparmio), SICAV (Società di investimento a capitale variabile) ed SGA (società

di gestione armonizzate). Lo strumento principale su cui si basa tale attività è il

“fondo comune d’investimento”, creato per la prima volta negli USA nel 192452 e

poi diffusosi rapidamente, soprattutto grazie alla sua capacità di dare accesso a

portafogli diversificati anche agli investitori con possibilità finanziarie limitate.

Prima di approfondire questo tema si ritiene però appropriato effettuare una breve

panoramica dedicata ai prodotti finanziari. A tal fine è opportuno distinguere tra:53

49 Ministero delle attività produttive, 2005 50 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013 51 Consob, 1998 52 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010 53 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010

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ü   Mercati monetari

Sui mercati monetari si realizzano l’emissione e lo scambio dei titoli di

debito di durata inferiore o uguale ai 12 mesi (a tale categoria

appartengono i buoni del tesoro, i depositi interbancari, i pronti contro

termine, etc.).

ü   Mercati dei capitali

Su questi mercati si realizzano l’emissione e la negoziazione dei titoli di

capitale (le azioni) e di debito (le obbligazioni) con scadenza superiore

all’anno. Tra quest’ultimi rientrano:

o   I titoli di stato, come i BTP (titoli a tasso fisso con cedola

semestrale e durata variabile tra i 3 e i 30 anni), CTZ (titoli a tasso

fisso privi di cedola, con durata di 24 mesi) e CCT (titoli a tasso

variabile con durata di 7 anni).

o   Le obbligazioni degli enti pubblici

o   Le obbligazioni societarie (i cosiddetti corporate bond).

ü   Mercati valutari

Sui mercati valutari gli operatori hanno la possibilità di negoziare le valute

pagando il tasso di cambio. Tali operazioni possono avvenire a pronti, nel

caso in cui il trasferimento avvenga subito e al tasso di cambio attuale;

oppure a termine, quando lo scambio avviene ad un tasso predefinito e si

realizza in una certa data futura.

ü   Mercati di strumenti derivati

Un derivato è uno strumento finanziario il cui rendimento è legato al

rendimento di un altro strumento finanziario emesso in precedenza e

separatamente negoziato. All’interno di questa categoria è possibile

distinguere:

o   Forward e Futures

Sono contratti che implicano lo scambio futuro di un'attività

finanziaria ad un prezzo e in una quantità prestabiliti nel momento

della stipula. Tra forward e futures vi sono due differenze

principali:

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§   I primi sono esposti al rischio d'insolvenza della

controparte, mentre i secondi sono garantiti da un soggetto

intermediario detto "clearing house".

§   Il prezzo del contratto forward rimane fisso per tutta la sua

durata, mentre quello dei futures viene continuamente

aggiornato in relazione al prezzo registrato sul mercato (ciò

significa che tra venditore e acquirente del contratto

avvengono transazioni quotidiane derivanti dalle

oscillazioni di prezzo).

o   Opzioni

Un’opzione è un contratto che conferisce al possessore il diritto

(ma non l’obbligo) di acquistare o vendere l’attività sottostante ad

un prezzo prefissato e per un determinato periodo. Le più diffuse

sono le call, che consentono all’acquirente di acquistare l’attività

ad un prezzo e ad una data prestabiliti; e le put, che permettono

invece di venderla. Ipotizzando che l’attività in oggetto sia

un’azione, la call verrà esercitata solo se a scadenza il prezzo

dell’azione sarà superiore a quello prefissato (e viceversa se

l’opzione è put).

o   Swap

Per Swap s’intende l’operazione finanziaria in cui le controparti

s’impegnano a scambiarsi in futuro flussi monetari periodici

determinati in relazione ad uno strumento o attività sottostante.

Questi strumenti sono generalmente utilizzati come copertura dal

rischio di cambio, d'interesse e di credito. Per spiegarne il

funzionamento è possibile prendere ad esempio l'IRS (Interest Rate

Swap), dove la controparte (generalmente l’acquirente dello swap)

che paga il tasso fisso cerca di trasformare le proprie passività a

tasso variabile in passività a tasso fisso, mentre quella che paga il

tasso variabile (per convenzione il venditore), cerca di ottenere il

risultato opposto.  

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FONDO

I  RISPARMIATORIversano  i  capitali

La  BANCA  DEPOSITARIA  vigila  sulla  

legittimità  delle  operazioni  e  custodisce  i  capitali  

La  SGR  gestisce  i  capitali

2.1.1   – Le SGR e i fondi comuni d’investimento

I fondi comuni sono strumenti d’investimento che riuniscono le somme di più

risparmiatori e le investono come un unico patrimonio.54 Il loro funzionamento

dipende generalmente dal rapporto tra tre parti distinte (figura 17):55

Ø   Gli investitori che conferiscono il capitale;

Ø   La SGR che gestisce le risorse finanziarie del fondo (e che in genere si

occupa anche delle attività di promozione, istituzione e organizzazione

dello stesso);

Ø   La banca depositaria, che ha il compito di custodire i capitali del fondo e

accertarsi del rispetto delle norme imposte dall’organo di vigilanza (i fondi

sono sottoposti al controllo della Consob e della Banca d’Italia).

Figura 17 – Il funzionamento dei fondi comuni d’investimento

Fonte: Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013

Il patrimonio gestito è privo di personalità giuridica ed è autonomo sia dalla SGR

che dagli investitori. Ciò significa che i risparmiatori vantano solamente un diritto

di credito rispetto alla società alla quale delegano le decisioni di investimento,

quindi sostengono tutto il rischio. Il discorso è però diverso per le SICAV, dove

generalmente il fondo ha la forma giuridica di società per azioni e quindi i

risparmiatori sono considerati azionisti e di conseguenza anche gestori del fondo

(attraverso gli organi amministrativi da essi delegati). Quanto detto è stabilito dal

TUF, che specifica anche degli obblighi in termini di pubblicazione di prospetti

informativi e regolamenti, finalizzati a definire le principali caratteristiche del

fondo.

54 Consob, n.d. (A) 55 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013

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Questa specificazione è importante poiché vi sono numerose tipologie di fondi, la

cui classificazione dipende da molteplici criteri, tra i quali56:

1.   Le modalità di entrata/uscita

Questo criterio permette di definire i fondi come aperti (se la

sottoscrizione e il riscatto possono avvenire in ogni momento) o chiusi (se

vi è un termine predeterminato per lo smobilizzo degli investimenti e

quindi l’unica alternativa possibile per uscire è la vendita delle quote sul

mercato secondario).

2.   L’oggetto dell’investimento

I fondi possono essere classificati tra mobiliari o immobiliari, a seconda

che l’investimento sia in strumenti finanziari o in beni immobili.

3.   La destinazione dei proventi

In base al fatto che i proventi periodici siano reinvestiti nel patrimonio del

fondo o distribuiti periodicamente ai partecipanti, i fondi possono essere

distinti tra fondi ad accumulazione dei proventi o fondi a distribuzione dei

proventi.

4.   Il paese in cui hanno sede

In questo caso la classificazione è tra fondi di diritto italiano o di diritto

estero, a seconda del luogo di istituzione.

5.   La conformità alle direttive comunitarie

In base al rispetto di queste norme è possibile distinguere tra fondi

armonizzati e non armonizzati.

A tal proposito può essere opportuno riportare una parentesi sugli sforzi

delle regolamentazioni comunitarie in tema di OICR, con le cosiddette

direttive UCITS (undertakings for collective investment in transferable

securities), finalizzate all’armonizzazione delle legislazioni nei diversi

paesi membri. All’UCITS I del 1985 sono infatti seguiti diversi

aggiornamenti fino all’UCITS IV del 2009, strutturata in modo da

semplificare la commercializzazione transfrontaliera, ridurre i costi di

gestione e migliorare le informative per gli investitori.

56 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013

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Per raggiungere tali obiettivi, la direttiva ha previsto57:

a)   L’istituzione di un passaporto europeo; dando così la possibilità

alle SGR europee di commercializzare i propri fondi nei paesi

membri senza istituire società ospitanti.

b)   La semplificazione della procedura di notifica tra le diverse

autorità di vigilanza, per avvantaggiare l’operatività

transfrontaliera.

c)   L’agevolazione delle procedure di fusione e l’introduzione della

struttura master-feeder (dove un OICR ne controlla un altro)

entrambe finalizzate ad agevolare la crescita dimensionale e la

centralizzazione gestionale dei fondi, rendendoli quindi più in

grado di competere con i fondi statunitensi.

d)   L’introduzione del KIID (Key Investor Information Document), un

documento che in due pagine riassume in modo comprensibile i

rischi e i costi cui l’investitore incorrerebbe sottoscrivendo.

6.   Orizzonte temporale

I fondi a breve termine comprendono i fondi monetari e di liquidità (che

contengono strumenti di mercato monetario con scadenza inferiori ai 12

mesi come i BOT), mentre quelli a lungo termine comprendono i fondi

azionari (che contengono azioni per più del 70%), obbligazionari

(costituiti prevalentemente da obbligazioni) bilanciati (che investono in

entrambi i titoli) e flessibili (non hanno una composizione predeterminata).

Tali classificazioni sono desumibili dal prospetto informativo che i gestori sono

tenuti a rendere disponibile per i potenziali investitori.

Al suo interno si trovano anche le modalità di sottoscrizione e riscatto:

generalmente la prima può avvenire tramite piano di investimento (PIC) o di

accumulo del capitale (PAC), a seconda che il versamento avvenga

immediatamente in un’unica soluzione oppure sia ripartito nel tempo. Il numero di

quote da attribuire al partecipante si calcola poi dividendo l’importo del suo

versamento (al netto delle commissioni e delle spese) per il valore unitario della

quota nel giorno in cui la SGR riceve notizia della sottoscrizione.

57 Borsa Italiana, 2014

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Lo stesso meccanismo viene utilizzato anche per il rimborso, il cui valore è infatti

definito in base al “NAV unitario” nel giorno di ricezione della domanda (figura

18).

Figura 18 – Un esempio di calcolo del valore unitario della quota Fonte: Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013

Tornando agli obblighi in termini di pubblicazione dei prospetti informativi

richiesti dal TUF, un altro elemento molto importante che deve apparire nel

documento è il benchmark; ovvero l’indice (o mix di indici) di mercato utilizzato

come parametro di riferimento per la valutazione della gestione del fondo (infatti i

risultati rispetto al benchmark devono essere mostrati ai sottoscrittori su base

semestrale) e della combinazione rischio-rendimento che lo caratterizza. Un

esempio degli indici più utilizzati è mostrato nella figura 19.

Figura 19 – I principali Benchmark utilizzati come parametro di riferimento per i fondi

Fonte: http://www.borsaitaliana.it

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Questo elemento è fondamentale per i market fund, ovvero i fondi che si

propongono di seguire il benchmark tramite strategie di gestione attiva (se il fine è

di superarne la performance) o indicizzata (se l’obiettivo è di replicarla).

Una logica simile è quella utilizzata dagli ETF (exchange traded funds), ovvero i

fondi che replicano il benchmark minimizzando l’intervento dell’asset manager e

quindi i costi. Questi strumenti si differenziano dagli altri fondi poiché sono

negoziati esclusivamente in borsa come un normale titolo azionario. Ciò significa

che l’investitore non può chiedere il rimborso della quota, ma può disinvestire

solo negoziando il titolo sul mercato. In Italia questo avviene sull’ETF plus, il

mercato regolamentato telematico di Borsa Italiana interamente dedicato alla

negoziazione in tempo reale degli strumenti che replicano l’andamento di indici e

di singole materie prime58.

Queste caratteristiche permettono di sintetizzare i seguenti vantaggi degli ETF:59

I.   Compravendita in tempo reale con prezzi noti e risultati certi

II.   Replica quasi perfetta del benchmark (“quasi” perché è necessario tener

conto dei costi e degli oneri del fondo, ma anche delle politiche di

distribuzione/reinvestimento dei flussi periodici)

III.   Alto livello di liquidità e trasparenza dell’investimento

IV.   Costi molto bassi derivanti dalla scarsa attività di gestione e dalla

mancanza di commissioni di entrata e uscita (essendo fondi “no load”)

V.   Forti possibilità di diversificazione derivanti dal fatto che l’investimento

minimo è pari ad una quota

Ma anche diversi svantaggi:

I.   Costi di transazione equiparati a quelli delle azioni (in Italia le

commissioni possono raggiungere il 7 per mille).

II.   Bid-Ask Spread sul mercato secondario (ovvero la differenza tra il prezzo

al quale il dealer è disposto ad acquistare uno strumento finanziario e il

prezzo al quale è disposto a venderlo; in pratica rappresenta il suo margine

di profitto lordo e quindi un costo di transazione implicito per

l'investitore).

58 Borsa Italiana, 2015 59 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013

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Ricavi e costi dei fondi comuni d’investimento

I costi dei fondi comuni d’investimento possono “colpire” l’investitore sia in

maniera diretta che indiretta. Al primo caso appartengono:60

§   La commissione di entrata e la commissione di uscita

§   La commissione di switch (ovvero di passaggio fra fondi gestiti dalla

stessa SGR)

§   I diritti fissi (l’ammontare fisso prelevato per ogni operazioni eseguita

dalla società di gestione)

Nel secondo caso rientrano invece:

§   La commissione di gestione e la commissione di performance (che

costituiscono la remunerazione della SGR)

§   I costi di intermediazione (le spese derivanti dalla compravendita degli

AUM)

§   Il compenso destinato alla banca depositaria

§   Altri costi (come quelli legati alla pubblicazione dei documenti, alla

contabilità etc.)

Questi costi, la cui presenza dipende dalla tipologia di fondo, sono riassunti nel

TER (total expense ratio)61, un indice calcolato come il rapporto tra i costi totali

dei fondi e gli asset complessivamente detenuti dallo stesso (in Figura 20 è

proposta una media dei TER in base alla tipologia di fondo).

Figura 20 – Il TER medio rispetto alla tipologia di fondo Fonte: http://blog.moneyfarm.com

60 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013 61 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010

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2.1.2   – Le banche d’investimento e le SIM

Oltre alle SGR e alle SICAV, è opportuno citare anche il ruolo delle banche

d’investimento e delle SIM (Società d’Intermediazione Mobiliare). Queste si

differenziano grazie al fatto che le prime si specializzano nell’emissione,

sottoscrizione e distribuzione di nuovi titoli; mentre le seconde operano

prevalentemente nella compravendita dei titoli in essere.

Per quanto riguarda i volumi, il settore è però ancora dominato dalle SGR, come

dimostrano i dati riportati dalla Banca d’Italia nel 2015 (figura 21). La lettura di

queste statistiche richiede però una considerazione fondamentale: oltre il 90% del

patrimonio gestito dalle SGR è riconducibile a Società di Gestione del Risparmio

controllate da banche62.

Figura 21 – La quota di mercato per operatore nella gestione del patrimonio

Fonte: Banca d’Italia, 2015

L’attività d’investimento delle SIM consiste invece nella “gestione di portafogli

finanziari individuali in nome e per conto dei clienti”63 poiché, come già

accennato, la gestione collettiva è riservata alle SGR. Tale servizio può essere

completamente personalizzato oppure standardizzato. In quest’ultimo caso al

cliente è assegnato un certo profilo d’investimento (dipendente dal suo grado di

avversione al rischio e dall’orizzonte temporale) in base al quale il portafoglio

sarà gestito in maniera simile a quelli con lo stesso profilo, offrendo così la

possibilità di accedere ad una gestione professionale a costi contenuti.

62 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010 63 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010

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Questo passaggio è fondamentale per il processo di composizione del portafoglio:

la raccolta di informazioni sul cliente (relativamente alle aspettative di

rendimento, propensione al rischio e orizzonte dell’investimento) permette infatti

di definire la “Asset allocation” strategica, che consiste nella scelta del peso da

assegnare alle differenti classi di attività finanziarie. Operativamente, tale

processo prevede due fasi fondamentali:64

1.   L’individuazione delle diverse asset class in cui ripartire gli investimenti

Con il termine “asset class” s’intendono gli insiemi di attività finanziarie

caratterizzate da omogeneità interna ed eterogeneità esterna in termini di

esposizione alle fonti di rischio sistematico. La loro segmentazione

dipende da criteri che variano in base alla tipologia:

v   Nel mercato azionario si è soliti segmentare in base alla

collocazione geografica (data la comunanza della valuta, dei tassi

d’interesse e del rischio paese) o al settore d’appartenenza (poiché

il comparto produttivo determina la sensibilità del titolo alle fonti

di rischio sistematico).

Figura 22 – La segmentazione delle classi per settore e paese dell’indice MSCI ACWI

Fonte: https://www.msci.com

v   Nel mercato obbligazionario le distinzioni avvengono soprattutto

in base al rating dei titoli e alla duration, che definiscono

rispettivamente la qualità creditizia e l’esposizione al rischio

volatilità.

v   Nel mercato monetario le asset class sono invece definite in base

alla valuta in cui sono denominati gli strumenti finanziari.

64 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013

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2.   L’individuazione di un benchmark idoneo a rappresentare ogni asset class

Come già accennato, ogni indice potrà rappresentare un portafoglio da

replicare o da “battere” a seconda che la gestione sia indicizzata o attiva.

In quest’ultimo caso, alla fase strategica seguirà quella di asset allocation

“tattica”, costituita dall’insieme di azioni che modificano i pesi delle asset

class in modo da sfruttare gli andamenti del mercato in un’ottica di breve

periodo (ovvero le operazioni che sfruttano la previsione dei timing dei

rialzi e ribassi del mercato per ottenere un differenziale positivo rispetto al

benchmark65). Questa attività non va però confusa con quella di

ribilanciamento periodico, costituito dalle azioni volte a riallineare le

proporzioni delle asset class a quelle definite dall’allocazione strategica

originaria. Tale processo deriva spesso dalla naturale tendenza del

portafoglio a “concentrarsi” sulle asset class più performanti: in questo

caso il ribilanciamento riduce il peso delle classi che si sono apprezzate e

aumenta quello delle classi che si sono deprezzate. Questo processo

potrebbe sembrare illogico, ma il mantenimento di un portafoglio non

bilanciato può rendere incompatibili la sua esposizione al rischio con la

relativa propensione dell’investitore.

L’ultima fase della gestione del portafoglio è quella dello stock picking, che

consiste nell’individuare i singoli strumenti finanziari da inserire nelle asset class

definite durante la asset allocation strategica. Nel caso della gestione passiva,

questo procedimento si risolve nella replica del benchmark tramite i meccanismi

di full replication, se si copia alla perfezione; o mimicking portfolio, se si replica

in modo più economico (per contenere i costi di transazione) limitandosi alla

creazione di un portafoglio sufficientemente simile a quello del benchmark.

La regolamentazione

Sia le banche d’investimento che le SIM sono soggette a vigilanza da parte della

CONSOB e della Banca d’Italia66. Al di là delle norme generiche previste per tutti

gli intermediari finanziari vi sono però alcune regole specifiche, come quelle

derivanti dalla normativa europea MIFID, del novembre 2007. 65 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R., 2013 66 Consob, 1998

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La Markets In Financial Instruments Directive è una normativa comunitaria

finalizzata alla creazione di un mercato finanziario europeo nel quale gli

investitori siano adeguatamente tutelati e gli intermediari messi in condizione di

operare su tutta l’unione67. Per ottenere tali risultati, essa richiede il rispetto di:68

1.   Principio di massima armonizzazione

Le imprese di investimento sono tenute a rispettare gli stessi obblighi in

ogni stato europeo.

2.   Principio di graduazione della tutela

I doveri di informazione vanno calibrati in base alla tipologia di cliente (in

termini di consapevolezza ed esperienza relativi al settore finanziario).

3.   Principio di proporzionalità degli obblighi ai servizi prestati

Le regole di tutela del cliente vanno proporzionate in base alle

caratteristiche dei rischi e della complessità del servizio in questione (le

operazioni non meramente esecutive richiedono quindi la valutazione

dell’adeguatezza o della appropriatezza da parte dell’intermediario).

4.   Principio di correttezza

Gli intermediari devono agire “in modo onesto, equo e professionale,

fornendo al cliente informazioni corrette, chiare, comprensibili e non

fuorvianti, necessarie affinché lo stesso possa comprendere la natura dei

rischi, nonché dei costi e degli oneri derivanti dalle scelte di investimento”

5.   Principio di tutela dei clienti e dell’integrità del sistema finanziario

Obblighi di trasparenza pre/post negoziazione e di segnalazione delle

operazioni alle autorità competenti.

Il 3 gennaio 2018 entrerà poi in vigore la MIFID 269 che condividerà lo scopo

originario della direttiva del 2004 e ne confermerà le scelte di fondo, andando ad

includere nell’ambito di applicazione i settori che in precedenza non erano

regolamentati e rafforzare il sistema di vigilanza ed enforcement70.

67 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010 68 Saunders A., Cornett M., Anolli M. & Alemanni B., 2010 69 Il Sole 24 Ore, 2016 (A) 70 ANASF, n.d.

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2.2  – Overview del settore e nuovi trend Secondo il World Wealth Report pubblicato da Capgemini, nel 2015 gli HNWI

(High Net Worth Individual, ovvero gli individui che vantano un patrimonio

personale superiore ad un milione di dollari) sono cresciuti del 4,9%,

raggiungendo i 15,4 milioni e portando il relativo livello di ricchezza globale a

quasi 59.000 miliardi. Questa crescita è stata trainata dall’area “Asia-Pacifico”

che ha registrato un aumento del 10% (in Cina e Giappone si è addirittura toccato

il 60%), ovvero cinque volte di più rispetto al 2% del Nord America. Se tale

crescita rimanesse costante, entro 10 anni l'area rappresenterà i due quinti della

ricchezza HNWI mondiale (più di quella di Europa, America Latina, Medio

Oriente e Africa messi insieme).

Figura 23 – La popolazione di HNWI per area

Fonte: Capgemini, 2016

Ritornando ad una prospettiva globale, la ricchezza complessiva del 2015 ha

quadruplicato quella registrata nel 1996 definendo un trend che porterebbe il

raggiungimento della soglia dei 100.000 miliardi entro il 2025. Tuttavia,

nonostante questi livelli record, il report ha anche evidenziato che attualmente

solo un terzo di tale ricchezza è affidata alle società di gestione patrimoniale (in

media il 32%, che però scende al 28% se si considerano solo gli under 4071). Ciò

dimostra quanto sia grande il potenziale di crescita di queste aziende e quindi

quanto risulti interessante questo segmento per i nuovi entranti della FinTech.

71 Capgemini, 2016 (F)

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Adottando una prospettiva più ampia rispetto a quella che considera i soli HNWI,

e osservando quindi gli AUM (Asset Under Management) complessivi, nel 2015 il

loro valore a livello globale ha raggiunto i 70 trilioni. Inoltre, secondo la società di

consulenza PWC, entro il 2020 si potrebbe arrivare alla soglia dei 100 trilioni72

(figura 24).

Figura 24 – La proiezione degli AUM per il 2020 Fonte: PWC, 2014

Le forti potenzialità del Wealth Management sono confermate anche da un recente

report di Deloitte, secondo la quale il segmento sarebbe particolarmente attraente

per almeno due motivi: il primo è che le aziende che vi operano stanno

registrando ottimi tassi di crescita, minori necessità di capitale e un ROE

tendenzialmente maggiore degli altri business appartenenti al filone del retail

banking. Il secondo è che il servizio di gestione del risparmio risulta essenziale

per attrarre e mantenere i clienti migliori: tra i criteri più utilizzati per la scelta

dell’istituto cui affidarsi, i "mass affluent customer"73 (che rappresentano

generalmente l'80% circa del reddito netto delle banche commerciali), hanno

infatti dichiarato di scegliere proprio la qualità del servizio di wealth

management74.

I dati sembrano quindi delineare delle prospettive molto positive per il settore;

anche se, per avere una visione più completa della situazione, è necessario tener

conto delle nuove tendenze che ne stanno modificando le caratteristiche. Tra le

più importanti si trovano:75

72 PWC, 2014 (A) 73 Definiti da PWC (2012) come il gruppo di consumers contenente i seguenti sottosegmenti:

1.   Wealthy (famiglie con possibilità d'investimento comprese tra 500.000$ ed un milione) 2.   Affluent (famiglie con possibilità d'investimento tra i 100.000$ e i 500.000$) 3.   Emerging affluent (famiglie che probabilmente entreranno nel segmento affluent entro

5/10 anni) 74 Deloitte, 2015 (A) 75 Deloitte, 2015 (A) & Capgemini, 2016 (C)

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v   L’arrivo di una nuova generazione di investitori

Tra i cambiamenti che stanno interessando il settore, quello più importante

è forse l’arrivo delle nuove generazioni di investitori76 che, secondo le

previsioni, entro il 2030 passeranno dal detenere il 18% della ricchezza al

possederne il 47% (figura 25)77.

Figura 25 – La quota di “ricchezza netta delle famiglie” per generazione

Fonte: https://dupress.deloitte.com

Questo cambiamento dev’essere preso in considerazione da chi si occupa

di Wealth Management poiché la differenza di mentalità rispetto alle

generazioni precedenti è molto forte. Infatti, questi nuovi investitori:78

1.   Vogliono ricevere un servizio personalizzato.

2.   Sono riluttanti a lasciare la gestione del loro patrimonio in mano ad

altri, quindi chiedono di essere informati e di poter mantenere il

controllo diretto sulle operazioni.

3.   Nutrono un forte scetticismo verso le autorità, quindi preferiscono

valutare l’opinione di diversi advisor ed esperti, ma anche (e forse

soprattutto) dei propri pari.

76 Spiegazione dei nomi delle generazioni:

ü   Silent Generation: 1920-1940 ü   Baby Boomers: 1940-1960 ü   Generazione X: 1960-1980 ü   Generazione Y (o Millennials): 1980-2000

77 Deloitte, 2015 (A) 78 Deloitte, 2015 (E)

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4.   Sono abituati all’utilizzo di piattaforme come Amazon o Facebook,

quindi si aspettano di poter fruire dei servizi in qualsiasi luogo e

momento, tramite diversi canali e device.

5.   Vogliono aver accesso anche ai prodotti finanziari e alle strategie

solitamente riservati a UHNWI e investitori istituzionali.

Ciò significa che i player di questo settore dovranno modificare la propria

offerta in modo da fornire servizi personalizzati e variegati (anche quelli

che erano precedentemente riservati agli investitori più benestanti), cui il

cliente possa accedere tramite una piattaforma multicanale in grado di

offrire un'esperienza digitale semplice ed intuitiva con risvolti social che

permettano il confronto e la valutazione di diverse opinioni.

v   L’impatto dei fattori macroeconomici sul settore

Il settore della gestione del risparmio è fortemente influenzato dal contesto

macro-economico "turbolento" che sta caratterizzando questo periodo

storico. Data questa premessa, si ritiene opportuno effettuare qualche

considerazione circa la situazione globale, con particolare attenzione

all'Europa e all’Italia.

Prendendo i dati del 2015, emerge che gli USA hanno registrato un

rallentamento del PIL dello 0,5%79, probabilmente imputabile alla forte

rivalutazione del dollaro e alla crisi dei prezzi petroliferi. Quest'ultimo

fattore ha contagiato anche il prezzo delle principali commodity industriali,

portando quindi ad un rallentamento delle economie dei paesi emergenti e

ad una tendenza deflattiva a livello globale. La paura della deflazione ha

così portato gli Stati Uniti a ritardare la normalizzazione dei tassi

d'interesse (pur avendo già esaurito il proprio Quantitative Easing) e la

BCE (Banca Centrale Europea) ad annunciare un programma di acquisto

di titoli sul mercato obbligazionario che, insieme all’imposizione di un

tasso d’interesse negativo sui depositi, avrebbe dovuto riportare

l’inflazione al livello programmato e comprimere i tassi d’interesse

stimolando gli investimenti (figura 26).

79 Centro di ricerca Luigi Einaudi, 2016

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Figura 26 – Il crollo dei tassi d’interesse

Fonte: BCE, 2015

Queste operazioni, finalizzate ad agevolare la ripresa economica, hanno

però avuto delle conseguenze sul fronte finanziario poiché hanno ridotto i

rendimenti obbligazionari, spingendo gli investitori verso asset class più

rischiose. Tuttavia, data la forte volatilità che ha interessato la borsa nel

2016, i risparmiatori hanno dovuto mettere in secondo piano i rendimenti,

a favore della sicurezza (come dimostra la crescita della quantità di denaro

non investito).

Figura 27 – I fattori di maggiore importanza per gli investitori

Fonte: Centro di ricerca Luigi Einaudi, 2016

A questa “ricerca della sicurezza” è legata anche una diminuzione della

propensione al rischio, probabilmente connessa all'impatto mediatico della

recente crisi attraversata da alcuni istituti bancari (si pensi all'influenza

sull'opinione pubblica della "bufera" giornalistica sul Monte dei Paschi in

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Italia) o comunque al clima di incertezza sulla ripresa generale, avvalorato

dalla volatilità dei mercati. Dati questi elementi e i rendimenti senza

rischio pari a zero, la tendenza dei risparmiatori è stata di allungare

l'orizzonte temporale dell’investimento.

In aggiunta a questo trend, si è comunque registrato un netto calo del peso

delle obbligazioni negli investimenti, spesso a favore del risparmio

gestito80. Il ricorso a questi servizi è generalmente giustificato non dai

rendimenti o dalla liquidità dell’investimento, ma dalla tranquillità

derivante dall’affidarsi ad un esperto per poter poi “non pensarci più”.

Evidentemente tali caratteristiche compensano la sfiducia verso gli istituti

bancari (che rimangono ancora il principale punto di accesso ai servizi di

risparmio gestito per la grande maggioranza degli investitori); anche se è

necessario sottolineare un crescente discontento dei clienti di questi

servizi, probabilmente dovuto all'andamento negativo dei mercati

nell'ultimo periodo.

Sintetizzando, nonostante il calo complessivo degli investimenti, il settore

del risparmio gestito si trova in una fase di sviluppo dovuta alla crescente

complessità dell’attività d’investimento, che deve contemporaneamente

affrontare un’alta volatilità dei mercati ed una grande difficoltà

nell’ottenere rendimenti senza esporsi fortemente al rischio. Data tale

premessa, è chiaro come, a fronte di ritorni molto bassi, il prezzo dei

servizi di gestione debba necessariamente adattarsi alle scarse

performance, in modo da non alimentare il già forte malcontento degli

investitori. Gli operatori del segmento devono quindi razionalizzare i costi

in modo da rendere sostenibile la diminuzione delle commissioni applicate

ai clienti (secondo le statistiche negli ultimi anni vi è stato un

abbassamento delle fee pari a circa il 30/35%81) e, allo stesso tempo,

fornire un servizio che si distingue per la qualità dell’advisory e

dell’esecuzione delle operazioni. È quindi chiaro come questo periodo

costituisca un’opportunità per la FinTech, data la sua capacità di utilizzare

la tecnologia e i modelli di business innovativi per abbattere i costi. 80 Centro di ricerca Luigi Einaudi, 2016 81 Amundi, 2016

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Tuttavia, se tale caratteristica rappresenta sicuramente il maggior punto di

forza delle piattaforme digitali, è possibile che ne costituisca anche un

limite. Questo perché l’economicità del servizio dipende dalla

minimizzazione della gestione attiva del portafoglio, il che potrebbe non

essere compatibile con l’attuale complessità dell’ambiente di mercato, che

richiede delle modifiche rispetto agli approcci solitamente utilizzati da tali

players; ad esempio per quanto riguarda la strategia di benchmark (che

dev’essere seguito in modo sempre meno rigido, ma più elastico, per poter

cogliere le opportunità offerte dal mercato) e l’asset allocation, procedura

nella quale si dovrebbe passare da un’allocazione basata sulle classi

tradizionali ad una incentrata sui fattori di rischio (dato il mutamento delle

correlazioni dovuto agli effetti delle politiche monetarie). Del resto queste

piattaforme automatizzate sono arrivate sul mercato in una fase di ripresa

economica che non ha ancora permesso di metterne alla prova le

performance in un contesto di declino dei prezzi82.

Ritornando al settore del Wealth management, dati gli elementi macro-

economici precedentemente citati, per gli advisors sarà sempre più

importante poter considerare contemporaneamente molteplici fattori e

scenari di mercato, ma anche utilizzare sistemi che permettano di reagire

prontamente ai cambiamenti e alla volatilità. Inoltre, per rendere attraente

il proprio servizio, è ormai fondamentale integrarlo con ricerche di

mercato ben strutturate ed un’efficace attività di risk management. Tutto

questo genera una crescita dei costi operativi, cui vanno sommati gli oneri

derivanti dalle difficoltà di compliance rispetto ad un sistema regolatorio

che non è solo in continua evoluzione, ma anche progressivamente più

esigente rispetto agli adempimenti imposti agli intermediari (figura 28). È

quindi chiaro come l’aumento dei costi operativi, in concomitanza con la

diminuzione delle commissioni precedentemente citata, stia assottigliando

pericolosamente i margini, mettendo in discussione la sostenibilità dei

modelli di business utilizzati tradizionalmente (ma anche di quelli nuovi

proposti dall’universo FinTech).

82 Bloomberg, 2016 (A)

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Figura 28 – Lo scenario globale a livello regolatorio Fonte: EY, 2014

Per affrontare tale situazione è quindi necessario che gli operatori

tradizionali aumentino la propria efficienza ricorrendo a strategie volte a

ridurre i costi fissi e il tempo che i wealth managers spendono nelle

attività meno produttive, come il reporting, l’adeguamento ai regolamenti

o il “client on-boarding” (la registrazione dei dati dei clienti). Tale

obiettivo potrebbe essere raggiunto con l'adozione di un "Utility Model",

ovvero di un sistema basato sulla condivisione dei costi con altri players,

ad esempio tramite lo sfruttamento di piattaforme in comune dedicate allo

svolgimento delle funzioni di front e back-office non core. Le implicazioni

di questo cambiamento non riguarderebbero solo l'abbassamento dei costi,

ma anche la liberazione di risorse che potrebbero così essere dedicate alle

attività più strategiche.

A tal fine si potrebbero anche sfruttare le potenzialità del cloud computing

(la tecnologia che consente di usufruire, tramite server remoti, di risorse

software e hardware) per ridurre i costi delle infrastrutture ed agevolare la

collaborazione facilitando la condivisione di risorse e informazioni.

v   Il potenziale dei Big Data

Il tema dell’efficienza è fortemente collegato a quello dei cosiddetti “Big

Data”. Secondo le proiezioni, infatti, la quantità di dati in rete sugli utenti

raggiungerà i 40 zettabyte entro il 2026 (equivalenti a più di 37.000

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miliardi di Giga)83; un numero che riflette l’importanza per le aziende di

investire da subito nell’ambito della loro analisi e gestione. Tale necessità

è particolarmente importante nel Wealth Management, dove si utilizzano

ancora sistemi piuttosto "semplici" ed orientati ad utilizzi di base (figura

29). È quindi fondamentale che i player del settore comprendano la portata

di questo fenomeno e investano in tal senso, soprattutto per quanto

riguarda l’utilizzo dei dati finalizzato alla creazione di algoritmi e modelli

predittivi, ma anche di sistemi di profilazione sempre più precisi e

approfonditi.

Figura 29 – I diversi impieghi delle analytic technologies

Fonte: Deloitte, 2016

Quest’ultimo punto è particolarmente importante, poiché un’efficace

sfruttamento dei dati sul cliente può permettere di analizzarne il

“sentiment” nei confronti dell’azienda senza ricorrere a questionari, ma

anche di utilizzare le informazioni sui suoi interessi e sulla sua personalità

per ottimizzare il matching cliente/advisor. La profilazione può anche

incrementare il successo delle vendite di prodotti e servizi, tramite

un’offerta calibrata sulle preferenze del cliente; ma anche la fase “post-

vendita”, con la creazione di portafogli personalizzati e la loro gestione

real time sulla base delle preferenze o addirittura delle richieste dirette del

cliente. 83 Deloitte, 2015 (A)

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49

A tal proposito è di crescente interesse il tema della “Cognitive Computing

Technology”, ovvero dell'utilizzo di sistemi dotati di un'intelligenza

artificiale sufficiente a simulare il modo di interagire delle persone, tramite

processi computerizzati supportati da algoritmi di auto-apprendimento

basati sul cosiddetto "data-mining" (nel senso che il sistema incrementa la

propria accuratezza all’aumentare dei dati cui è esposto)84. È quindi

possibile affermare che la portata del fenomeno “Big Data” non sia ancora

perfettamente quantificabile ma che, con grande probabilità, la capacità di

sfruttare tale fattore diverrà una delle principali fonti di vantaggio

competitivo del futuro.

v   Il problema della sicurezza informatica

La digitalizzazione dei servizi e l’incremento della mole di dati trattata

dagli operatori del settore richiede però un aumento dell'attenzione

riguardo al tema della sicurezza informatica, soprattutto se si considera

l'aumento degli attacchi (+11% nel 201585) e il costo medio che una "falla"

nel sistema può comportare, stimato attorno ai 4 milioni di dollari86

(Figura 30).

Figura 30 – Le fonti del costo di una falla nel sistema informatico

Fonte: Capgemini, 2016

Le conseguenze sono infatti pesanti sia in termini di perdita di fiducia da

parte della clientela che di eventuali sanzioni da parte degli enti che

fissano gli standard di sicurezza (negli USA sono la SEC, Securities

Exchange Commission, e la FINRA, Financial Industry Regulatory

Authority).

84 Forbes, 2016 85 ACA Compliance Group, 2015 86 Security Intelligence, 2015

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Per questi motivi tale tema è di crescente interesse per gli operatori del

settore, i quali devono necessariamente investire nello sviluppo di software

sofisticati e nell'utilizzo di tecnologie avanzate (come quelle biometriche)

che rendano sicuro l'accesso agli account e lo svolgimento delle

operazioni.

La sensibilità degli operatori del settore rispetto a questo tema sembra

essere supportata dai dati: negli USA, il settore che ha effettuato i

maggiori investimenti nella cybersecurity è proprio quello finanziario,

tanto che le proiezioni prevedono il raggiungimento dei 68 miliardi di

dollari entro il 202087. Per quanto tale cifra possa sembrare alta, bisogna

considerare che, attualmente, JPMorgan, Bank of America, Citigroup e

Wells Fargo spendono da soli circa 1,5 miliardi l’anno.

87 Security Scorecard, 2016

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2.3   - La FinTech nel Wealth Management Nel paragrafo precedente sono stati descritti l’andamento del settore e i

cambiamenti che lo stanno interessando, con il fine di delineare le condizioni che

hanno permesso alla FinTech di entrarvi ottenendo un successo tale da minacciare

gli incumbents. A questo punto è però necessario spostare l’attenzione sulla

modalità con cui la tecnologia sta modificando il Wealth Management, ovvero

sulla natura dei Business Model innovativi che, offrendo piattaforme digitali

trasparenti ed accessibili, stanno aggredendo le quote di mercato dei player

tradizionali. Questo processo sta avvenendo mediante due formule principali: il

robo advisory e il social digital trading88.

2.3.1   – Il robo advisory

Per “Robo Advisor” s’intendono le piattaforme online basate su algoritmi che

costruiscono e gestiscono (occupandosi anche delle attività di ribilanciamento e

tax management89) portafogli d’investimento, calibrandoli sulle necessità e sul

profilo del singolo cliente tramite procedure automatizzate90 (figura 31).

Figura 31 – Le tre fasi principali di funzionamento dei Robo advisor

Fonte: EY, 2016

Attualmente, queste piattaforme hanno ancora una quota di AUM piuttosto ridotta

ma, secondo le stime, entro i prossimi 5 anni potrebbero arrivare a gestire tra l’1 e

i 2 trilioni di dollari91 arrivando quindi a rappresentare l’effetto tangibile più forte

della FinTech sul settore (Figura 32).

88 Ferrari, 2016 89 CFA Institute, 2015 90 AziendaBanca, 2015 91 Capgemini, 2015

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Figura 32 – Le tecnologie che si prevede abbiano il maggior impatto sul settore

Fonte: CFA Institute, 2016

La crescita esponenziale prevista per queste piattaforme dipende prevalentemente

dai seguenti fattori critici di successo (figura 33):92

1)   L’esperienza di utilizzo

Le interfacce sono facili ed intuitive, contengono poco testo ed utilizzano

un linguaggio semplice. Inoltre, sono generalmente connesse ed integrate

con altri servizi (blog, fonti d’informazione, chat e strumenti di reporting).

2)   La politica di prezzo aggressiva e trasparente

Queste piattaforme non richiedono soglie minime di investimento (o

comunque irrisorie rispetto a quelle dei player tradizionali) e caricano

delle commissioni di gestione del portafoglio molto basse, grazie ad una

strategia di investimento basata sugli ETF (che come già accennato

costituiscono un prodotto molto economico poiché non gestito

attivamente).

Figura 33 – I fattori che spingono i clienti a provare i robo

Fonte: Capgemini, 2016

92 Capgemini, 2015

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Tali caratteristiche spiegano la crescente attrattività che queste piattaforme

esercitano anche verso le generazioni meno giovani, tanto che il 48,6% degli

HNWI si è detto disposto ad investirvi (percentuale che sale vertiginosamente se

si considerano solo gli under 30)93. Nonostante questi dati è però necessario

sottolineare che il concetto di piattaforma completamente automatizzata non

esaurisce la casistica dei robo advisors, ma solo quella dei servizi appartenenti al

segmento “Pure robo” che in realtà gestiscono una quota di AUM minoritaria

(anche se in crescita del 60% l’anno94) rispetto agli altri modelli di business

(elencati nella figura 34).

Figura 34 – I tre modelli di business del settore

Fonte: https://medium.com

È infatti possibile distinguere tra:95

o   Pure robo

I servizi che nascono come piattaforme online ed offrono un servizio

prevalentemente automatizzato;

o   Hybrid advisor

Costituiti dalle offerte che integrano i canali digitali con il supporto fisico

del consulente finanziario;

o   Enablers

Si distinguono per il posizionamento B2B orientato non ai clienti finali,

ma agli advisors e ai private banker che necessitano di una strumentazione

digitale per gestire in maniera efficiente i portafogli della loro clientela.

93 Capgemini, 2016 (F) 94 Il Sole 24 Ore, 2015 (A) 95 Ferrari, 2016

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Tra tutti questi modelli, quello che probabilmente vedrà lo sviluppo più intenso

nei prossimi anni è quello ibrido96, poiché sarà spinto dagli incumbents che

cercheranno di reagire al cambiamento tecnologico. L’esito della competizione tra

le start-up (generalmente pure player) e gli operatori tradizionali è infatti incerto,

soprattutto perché quest’ultimi potranno fare leva sulla propria reputazione ed

esperienza, oltre che su margini più alti (data la bassa reddittività dei servizi di

robo puro).

Figura 35 – La previsione delle quote di mercato degli Hybrid rispetto ai Pure dal 2016 al 2025

Fonte: http://www.businessinsider.com

Secondo le previsioni i modelli ibridi arriveranno a gestire 3.700 miliardi entro il

2020 e addirittura 16.000 entro il 2025 superando il 10% degli assets globalmente

investibili contro l'1,6%97 che sarà sotto la gestione dei pure robo (la figura 35 si

riferisce solo al mercato americano). Del resto, le potenzialità dei modelli ibridi

sono già state colte dai maggiori operatori del segmento, come Charles Schwab e

Vanguard. Il primo, nel 2015, ha aggiunto alla sua offerta tradizionale (“Managed

portfolios”) gli “Intelligent portfolios”, ovvero un servizio a basso costo che

costruisce, monitora e ribilancia il portafoglio automaticamente e al quale è

possibile accedere con un investimento minimo di 5.000€. Tale offerta ha raccolto

4 miliardi di AUM (superando quindi i pure player del segmento) dopo un solo

anno dal lancio.

96 Ferrari, 2016 97 MyPrivateBanking's, 2016

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Un risultato addirittura superiore a quello di Schwab è quello conseguito da

Vanguard (il leader globale di mercato dell’asset management) che, con la sua

piattaforma “Personal Advisor Services”, ha raccolto 12 miliardi di asset98 entro

soli sei mesi dal lancio. Tale risultato è sorprendente soprattutto se si considera

che il servizio ha un costo maggiore di quello di Schwab (giustificato anche dalla

necessità di parlare direttamente con un consulente, generalmente tramite video

chat, per poter accedervi) e che addirittura il 90%99 dei sottoscrittori erano già

clienti dell’azienda.

Entrambi i fattori sembrano dimostrare l’efficacia del modello ibrido per i player

già presenti sul mercato, che possono promuovere il servizio ai propri customers

attuali e impiegare i propri consulenti finanziari per fornire la componente di

contatto umano alla quale i clienti del settore non sembrano ancora pronti a

rinunciare (figura 36).

Figura 36 – I canali preferiti dai clienti in base alla complessità dell’operazione

Fonte: Deloitte, 2015

Le cose potrebbero però cambiare con l’arrivo delle nuove generazioni, più attente

al prezzo e meno diffidenti nei confronti della tecnologia. I cambiamenti che il

settore vivrà in futuro, citati nei precedenti paragrafi, potrebbero quindi

modificare la situazione a favore dei player pure che basano la loro offerta di

valore sull’economicità del servizio e la user experience (un riassunto delle

differenze tra i modelli di business è presente nella figura 37).

98 Bloomberg, 2016 (B) 99 Bloomberg, 2016 (B)

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Figura 37 - Le differenze tra l'offerta tradizionale ed i modelli Robo

Fonte: EY, 2015

Spostando quindi l’attenzione sul segmento pure robo, i leader risultano essere le

piattaforme americane Wealthfront (2011) e Betterment (2008) che, a novembre

2016, contano rispettivamente 4 e 6 miliardi di AUM, distribuiti tra quasi 100.000

clienti per il primo e più di 180.000 per il secondo (alla stessa data Schwab e

Vanguard gestiscono rispettivamente 10 e 40 miliardi)100. Confrontando le due

piattaforme, emerge un’offerta perfettamente coerente con i principi citati

precedentemente: per quanto riguarda il deposito minimo, infatti, Betterment non

impone nessuna soglia e Wealthfront chiede solo 500$ (per avere un metro di

confronto si consideri che per avere accesso alla piattaforma robo di Vanguard

serve un minimo di 50.000€)101. Il discorso è simile per le management fee: fisse

allo 0,25% per Wealthfront (ma pari a zero per i primi 10.000$) e comprese tra lo

0,15 e lo 0,35% per Betterment (figura 38).

100 Investment news, 2016 101 Bloomberg, 2016 (B)

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Figura 38 – Il confronto dei costi tra le due piattaforme

Fonte: https://www.nerdwallet.com

Ne consegue che Wealthfront è più conveniente di Betterment per gli investimenti

fino a 99.999$, ma successivamente le parti si invertono.

La difficoltà nel dichiarare uno dei due servizi come superiore, rimane anche se si

confrontano i servizi offerti. Entrambi danno infatti:

ü   La possibilità di aprire account non-retirement, sia individuali che joint (in

comune con due o più persone); e account IRAs (Individual Retirement

Arrangements), nelle sue varie forme.

ü   Il servizio di ribilanciamento automatico

L’importanza di questa operazione è già stata spiegata nel paragrafo 2.1.2,

tuttavia si ritiene opportuno illustrare le modalità con cui ciò avviene.

Infatti, il metodo preferito è quello del "cash flow rebalancing", che sfrutta

i movimenti (ritiri e depositi) che interesserebbero il portafoglio in ogni

caso, per ribilanciarlo minimizzando le tasse: in pratica, le entrate sono

utilizzate per acquistare gli asset sottodimensionati e le uscite per vendere

quelli sovradimensionati (rispetto all’allocazione originaria).

Tuttavia, se lo scostamento raggiunge il 3%102 ed i cash flow non sono

sufficienti, l'algoritmo attiva automaticamente il sistema classico del

"Sell/Buy Rebalancing", con il quale si vende la quantità minima di asset

overweight che permette di ottenere il ricavato necessario ad acquistare gli

asset underweight che annullano lo sbilanciamento.

102 Betterment, 2016 (A)

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Ovviamente il metodo più economico è quello che sfrutta le entrate,

poiché non produce capital gain e quindi neanche tasse. Per incentivarlo,

Betterment avvisa gli utenti del drift (lo scostamento rispetto alla

situazione di bilanciamento) del loro portafoglio e del deposito che

servirebbe per portarlo a zero (figura 39).

Figura 39 – L’avviso di Betterment sulla necessità di ribilanciamento del portafoglio

Fonte: https://support.betterment.com

ü   Il servizio di “tax-loss harvesting”

Il servizio di TLH consiste nel vendere i titoli in negativo presenti nel

portafoglio al fine di utilizzare la perdita per compensare gli utili e quindi

ridurre l’imponibile103. Il miglioramento dei risultati derivante da tale

operazione è tangibile, come dimostra la figura 40.

Figura 40 – Un esempio di conseguenze del Tax Loss Harvesting su un portafoglio con depositi automatici

Fonte: https://www.betterment.com

103 Wealthfront, 2013. (C)

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Una spiegazione molto chiara del funzionamento la offre Wealthfront104:

ipotizzando di acquistare 100 quote di un ETF a 65$ l’una, se il prezzo

crollasse a 41$ si avrebbe una perdita di 24$ per ogni quota. Utilizzando il

meccanismo THL, dalla perdita di 2.400$ si potrebbe ottenere un beneficio

fiscale di 1.224$ (figura 41), pari al 19% dell’importo investito

inizialmente.

Figura 41 - Il calcolo del beneficio fiscale

Fonte: https://www.wealthfront.com

Questo meccanismo è legale solo se si rispetta la “Wash-sale rule105”,

ovvero se dopo aver venduto l’ETF in perdita si ribilancia il portafoglio

comprandone uno simile ma non identico (in genere un ETF che replica un

indice diverso, ma che appartiene alla stessa asset class) che andrà

mantenuto in portafoglio per almeno 30 giorni, al termine dei quali potrà

essere sostituito con quello venduto all’inizio.

Il servizio di tax loss harvesting è fornito da entrambe le piattaforme, ma

Wealthfront sembra dimostrare un maggiore impegno rispetto al tema del

tax management tramite l’offerta del servizio di “Direct Indexing”106 (per

portafogli di almeno 100.000$) che permette di acquistare direttamente i

titoli che compongono gli indici, invece di possedere il fondo indicizzato

equivalente, ottenendo così un risparmio di tasse tale da aumentare i ritorni

di circa il 2%107 (derivante dal fatto che il possesso dei singoli titoli al

posto dei fondi massimizza le opportunità di TLH).

Se Wealthfront può offrire un servizio migliore del suo rivale nella gestione delle

tasse, quest’ultimo ha però delle maggiori funzionalità in termini di “goal-based

saving”.

104 Wealthfront, 2013 (B) 105 Investopedia, n.d. (A) 106 Wealthfront, 2014 107 Wealthfront, 2013 (A)

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Betterment permette infatti di calibrare le caratteristiche dell’investimento in base

al suo fine, distinguendo tra quattro obiettivi principali (pensione, emergenze,

preservazione del capitale e acquisti importanti) cui corrispondono altrettanti

strategie differenti:108

1.   Retirement

Questo conto, che può avere una longevità addirittura superiore ai 50 anni,

è suddiviso in due fasi che corrispondono al periodo in cui si effettuano i

versamenti (durante il lasso di tempo in cui si lavora) e quello in cui si

prelevano i fondi (durante la pensione). In ognuna delle due fasi, sia gli

importi da depositare/prelevare che il livello di rischio sono calibrati

automaticamente sulla base della posizione all’interno del piano di

risparmio, del valore del conto corrente e della soglia target (figura 42).

Figura 42 – L’andamento del rischio del profilo d’investimento finalizzato alla pensione

Fonte: https://www.betterment.com

2.   Safety Net

Questo conto è basato sull'assunzione che il denaro potrebbe non essere

mai necessario ma che, nel momento in cui lo sarà, una parte consistente

sarà liquidata in una volta sola. Per questo motivo, la parte investita in

titoli non supera mai il 40% del totale depositato.

108 Betterment, n.d (B)

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3.   General Investing

Questo conto non assume l'esistenza di un obiettivo specifico per

risparmiare, quindi viene generalmente utilizzato per finalità di lungo

termine come l'accumulo di capitale in vista della creazione di un conto

fiduciario o di una donazione generazionale. Dato tale scopo, il profilo

prevede un investimento in stock che varia dal 90% al 55% lungo

l’orizzonte temporale.

4.   Major Purchase

Questo conto viene utilizzato dagli investitori che hanno un obiettivo

specifico, come l'acconto per l'acquisto della casa, il pagamento delle rette

universitarie o altri scopi di medio-breve termine. Di conseguenza, dato

che ci si aspetta che allo scadere dell'orizzonte temporale la somma venga

interamente liquidata, il rischio viene regolato in modo che decresca

annualmente fino a raggiungere quasi lo zero (figura 43).

Figura 43 - L’andamento del rischio del profilo d’investimento finalizzato ad un acquisto importante

Fonte: https://www.betterment.com

Rispetto a Wealthfront, Betterment ha anche funzionalità più avanzate per quanto

riguarda l’integrazione con altri servizi. Uno degli esempi più importanti è quello

di Mint, l’applicazione dedicata alla gestione del budget familiare che permette di

monitorare le spese per confrontarle con budget predefiniti, ed è inoltre integrabile

con il proprio conto corrente per rilevare tutti i movimenti in automatico109.

109 Mint, n.d.

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La possibilità di collegare il proprio account di Betterment con Mint permette

quindi di avere una panoramica complessiva sul proprio patrimonio totale e di

calibrare dei piani d’investimento sulla base delle informazioni relative ai propri

livelli di reddito e di debito. Tramite tale integrazione Betterment segnala

all’utente anche l’esistenza di eventuale denaro inattivo che potrebbe essere

investito o la presenza di conti che comportano commissioni poco convenienti110.

Ovviamente l’integrazione può essere fatta anche con i singoli account, senza

utilizzare altre applicazioni (figura 44).

Figura 44 - I conti ai quali è possibile collegare Betterment Fonte: https://www.betterment.com

L’ultimo tema di interesse per il confronto delle due piattaforme è quello della

composizione del portafoglio. Come già accennato, infatti, entrambe investono in

ETF, ma con alcune differenze:111 da un lato Wealthfront permette il direct

indexing e offre la possibilità di investire anche negli ETF relativi all’immobiliare

e alle risorse naturali; dall’altro Betterment non da queste opportunità, però rende

possibile investire in quote frazionate degli ETF, con il conseguente vantaggio di

poter investire al 100% il proprio deposito o comunque di non dover aspettare di

avere la somma necessaria a comprare l’intera quota.

110 Life Hacker, 2016 111 Nerdwallet, 2016

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Un fattore da sottolineare è sicuramente quello della natura delle asset class, che

per Wealthfront sono riconducibili alle tre macrocategorie di stock, bond e

inflation asset. Questi insiemi, delle cui caratteristiche si parlerà in seguito, sono

composti da un totale di 11 classi, ovvero112:

1.   U.S. Stocks (le azioni delle società statunitensi).

2.   Foreign Developed Market Stocks (le azioni dei paesi sviluppati come Europa,

Australia e Giappone).

3.   Emerging Market Stocks (le azioni dei paesi in via di sviluppo come Brasile,

Cina, India o Sud Africa).

4.   Dividend Growth Stocks (le azioni delle società statunitensi che hanno

aumentano i propri dividendi per almeno 10 anni consecutivi e dalle quali ci si

può quindi aspettare una minore volatilità).

5.   U.S. Government Bonds (i titoli di debito emessi dal governo federale

americano).

6.   Corporate Bonds (i titoli di debito emessi dalle società statunitensi)

7.   Emerging Market Bonds (i titoli di debito emessi dai governi dei paesi in via

di sviluppo)

8.   Municipal Bonds (i titoli di debito emessi dagli stati americani e dai governi

locali)

9.   Treasury Inflation-Protected Securities (le obbligazioni indicizzate

all'inflazione emesse dal governo federale americano).

10.  Real Estate (agli investimenti immobiliare si accede tramite i REITs - real

estate investment trusts - quotati: dei trust che possiedono proprietà

commerciali, appartamenti, complessi e spazi; i quali ripagano gli investitori

utilizzando gli affitti come dividendi)

11.  Natural Resources (riflettono il prezzo delle fonti di energia, come gas e

petrolio).

Le ultime tre classi sono utilizzate prevalentemente come tutela dall’inflazione e,

come già accennato, solo Wealthfront le offre tutte (Betterment si limita infatti ai

TIPS).

112 Wealthfront, n.d. (A)

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Per concludere, è possibile affermare che tra Wealthfront e Betterment sia difficile

individuare un’offerta superiore. Ciò che è certo è che entrambe le piattaforme

propongono servizi avanzati a basso costo, ai quali è inoltre possibile accedere da

qualsiasi device, sempre tramite interfacce che offrono una user experience

piacevole e coerente con le esigenze delle nuove generazioni di investitori (figura

45):

Figura 45 - L'interfaccia di Betterment (sinistra) a confronto con quella di Wealthfront (destra) Fonte: www.betterment.com & www.wealthfront.com

Ciononostante, come già accennato, i player ibridi mantengono ancora il controllo

del mercato, probabilmente a causa della difficoltà degli investitori attuali a

rinunciare al contatto umano. L’importanza di questo fattore sembra comunque

esser stata colta dalle piattaforme pure robo, che nei loro siti ribadiscono spesso

l’importanza del team di consulenti che operano nelle loro aziende (figura 46).

Figura 46 – Gli accenni alla qualità delle risorse umane di Wealthfront (sinistra) e Betterment (destra)

Fonte: www.betterment.com & www.wealthfront.com

Il dibattito relativo alla possibilità che tale predominio venga mantenuto o

ribaltato con il passare del tempo è però molto forte e sarà oggetto dell’ultimo

capitolo del presente elaborato, volto ad evidenziare i possibili scenari futuri del

Wealth management “post-FinTech”.

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Una parentesi sul funzionamento dei robo

Per concludere il tema dei robo advisors si è ritenuto opportuno aprire una breve

parentesi sul loro funzionamento dal punto di vista tecnico. Infatti, nonostante

vengano visti come qualcosa di altamente tecnologico ed innovativo, in realtà si

basano su una teoria del 1952: la cosiddetta “Modern Portfolio Theory”113 di H.

Markowitz. L’economista statunitense, cui va riconosciuto il merito di esser stato

il primo ad introdurre il trade-off rischio-rendimento come criterio di scelta

dell’investitore, propone il seguente principio: tra due portafogli A e B, con

rendimento atteso µA e µB e rischio atteso σA e σB, è corretto affermare che A è

sempre preferibile a B se: 𝜇" ≥  𝜇% e 𝜎" ≤  𝜎% .114

Per fornire una spiegazione chiara dell’algoritmo che deriva da tale principio, è

necessario definire un ipotetico portafoglio di N asset class rischiose (con N≥3),

la cui composizione è data da un vettore W, dove:115

ü   wi esprime la percentuale di asset class i detenuta nel portafoglio, tale che

𝑊) = 1,)-. .

ü   Le caratteristiche di rendimento e rischio sono riassunte nei vettori µ e σ

(figura 47), tale che il rendimento atteso del portafoglio sia uguale a

𝜇/ = 𝑤)𝜇)  ,)-. e il rischio atteso a 𝜎/1 = 𝑤)𝑤2𝜎)2  ,

2-.,)-. .

𝑊 =  

𝑤.𝑤1…𝑤)…𝑤,

             𝜇 =  

𝜇.𝜇1…𝜇)…𝜇,

             𝜎 =  

𝜎.𝜎1…𝜎)…𝜎,

Figura 47 - I vettori che definiscono peso, rendimento e rischio Fonte: Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R, 2013

Date queste premesse, la teoria di Markovitz prevede la presenza di un investitore

razionale che vuole massimizzare la propria utilità attesa tramite la scelta del

portafoglio da detenere per un dato periodo durante il quale non potrà essere

modificato.

113 Ferrari, 2016 114 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R, 2013 115 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R, 2013

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Secondo l’autore, tale investitore sceglierebbe, nel set di portafogli possibili,

quello con la varianza minima per ogni livello di rendimento. I portafogli

corrispondenti a tale descrizione sono i “mean-variance efficient portfolio”, che

definiscono la cosiddetta frontiera efficiente (ovvero l’insieme di portafogli con il

miglior trade-off rischio-rendimento per ogni livello di rendimento fattibile). Fatte

queste precisazioni è possibile descrivere l’algoritmo di mean-variance

optimization (MVO) elaborato da Markowitz come il procedimento che permette

di definire i pesi delle asset class in modo da minimizzare il rischio  (𝑀𝑖𝑛  𝜎/1) del

portafoglio dati tre vincoli:116

1.   Il mantenimento di un certo rendimento atteso ( 𝑤)𝜇) =,)-. 𝜇/∗ )

2.   L’assenza di pesi negativi  (𝑤) ≥ 0)

3.   La necessità che la somma dei pesi sia uguale ad 1 ( 𝑤) =,)-. 1).

Questo modo di formulare l’algoritmo è detto “risk minimization formulation”,

ma è possibile utilizzare anche formule equivalenti come la expected return

maximization formulation (la cui funzione obiettivo non è la minimizzazione del

rischio dato un certo livello di rendimento, ma la massimizzazione del rendimento

dato un certo livello di rischio) e la risk aversion formulation, dove il fine è la

massimizzazione di una funzione di utilità caratterizzata dalla presenza di un

parametro λ che rappresenta il coefficiente di avversione al rischio (quindi

l’aggressività del portafoglio sarà inversamente proporzionale alla dimensione di

λ).

Il funzionamento di questa tecnica si basa su alcune ipotesi semplificatrici117, più

o meno realistiche. Ciononostante, le complicazioni nelle quali si incorrerebbe

rimuovendo tali condizioni sono tali da rendere l’approssimazione del modello più

che soddisfacente rispetto alle alternative. Infatti, la più grande criticità della

mean-variance optimization non sono i limiti teorici, ma le difficoltà

nell’implementazione pratica.

116 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R, 2013 117 Le principali ipotesi sono che:

1) I rendimenti delle asset class si distribuiscono normalmente 2) Gli investitori esibiscono una funzione di utilità quadratica 3) Gli investitori sono caratterizzati da un orizzonte temporale di investimento uniperiodale Fonte: Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R, 2013

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Partendo dal primo step del processo, ovvero la stima degli input, si nota come il

calcolo dei parametri sulla base dei dati storici porti a non considerare l’incertezza

che li caratterizza. Ciò si traduce nella non considerazione del cosiddetto

“estimation risk”, ovvero della possibilità che vi sia una differenza tra il valore

stimato di un parametro e quello effettivo. I principali effetti dell’utilizzo della

MVO con input imprecisi sono:118

1.   Il carattere “contro-intuitivo” dei portafogli, consistente nella costruzione

di portafogli molto concentrati (quindi poco diversificati) nelle asset class

con le caratteristiche che risultano più attraenti (generalmente grazie

all’imprecisione degli input). Con la conseguenza che le classi soggette ai

maggiori errori di stima vengono sovradimensionate nel portafoglio,

massimizzando quindi l’impatto di tali errori (il che sottintende come la

diversificazione sia uno strumento di tutela dall’estimation risk).

2.   L’esacerbazione della sensibilità dell’allocazione rispetto a variazioni

minime degli input; ovvero l’acutizzazione della rispondenza della MVO

ai mutamenti dei parametri, che per la natura stessa di questa tecnica è già

molto elevata (dato che l’algoritmo non prende in considerazione la

possibilità che vi possano essere errori di misurazione e quindi, utilizzando

le stime come input, reagisce in modo spropositato a variazioni marginali

rendendo il portafoglio instabile).

3.   Il mantenimento dell’ipotesi secondo la quale, per ogni livello di rischio,

esiste un solo portafoglio ottimo. Infatti, se si ammette l’esistenza

dell’estimation risk, in corrispondenza di ogni punto della frontiera

efficiente si avrà una regione di punti contenente portafogli praticamente

equivalenti.

4.   La tendenza dei portafogli costruiti con la tecnica MVO a performare

negativamente non appena si esce dal periodo storico utilizzato per la

stima dei parametri.

È però fondamentale sottolineare come tali difetti non dipendano dai limiti

strutturali dell’approccio di Markowitz, ma dalla qualità delle informazioni che

esso utilizza come input (dato che le impiega ignorando l’incertezza che le

118 Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R, 2013

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caratterizza). Quindi, per evitare tali problematiche, è necessario considerare e

gestire l’estimation risk durante l’implementazione operativa del modello.

Per farlo è possibile ricorrere a due tipologie di metodi: euristici e bayesiani; i cui

principali “esponenti” sono, rispettivamente, il metodo degli addition weight

constraint e il modello Black-Litterman. Più precisamente:

Ø   Il metodo degli additional weight constraint modifica l’algoritmo di

programmazione di Markowitz inserendo i vincoli Lbi e Ubi che

rappresentano, rispettivamente, l’allocazione minima e massima da

assegnare all’asset i all’interno del portafoglio. Lo scopo di questa

modifica è di impedire all’algoritmo di effettuare allocazioni “estreme” e

mantenere una composizione del portafoglio più diversificata. Va però

sottolineato che non vi sono criteri oggettivi per determinare la dimensione

dei vincoli, i quali vengono quindi generalmente definiti in modo

arbitrario dall’asset manager.

Ø   Il modello Black-Litterman appartiene agli approcci bayesiani, i quali non

intervengono sulle modalità di conduzione del processo di ottimizzazione,

ma sugli input. Esso considera quindi i parametri come una variabile

casuale ignota di cui si tenta di migliorare la conoscenza avvalendosi di

più set informativi. In altre parole, tale impostazione considera sia le

conoscenze pregresse (dette prior information) che quelle nuove (gli

updating), con l’obiettivo di ottenere la distribuzione di probabilità del

parametro (detta posterior distribution). Il meccanismo tramite il quale si

cerca di ottenere tale risultato è il teorema di Bayes che calcola la

posterior distribution p(θ|X) come:

p(θ|X)  =  p θp X θp X  

Equazione 1 – Il teorema di Bayes

Fonte: Abate I., Basile I., Braga M., Ferrari P. & Savona R. (2013)

• p(θ) è la distribuzione di probabilità a priori di θ

(detta prior distribution)

• p(X|θ) è la probabilità di osservare l’informazione

X assumendo come vero un certo valore di θ

• p(X) è la probabilità non condizionata della nuova

informazione X

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L’obiettivo è quindi di mescolare due distribuzioni per ottenerne una terza,

il che, per gli asset manager, si traduce nella possibilità di incorporare le

loro valutazioni personali in un framework quantitativo, con il fine di

migliorare gli input dell’ottimizzazione. Passando dalla metodologia

bayesiana generale al funzionamento specifico del metodo Black-

Litterman, è quindi possibile affermare che l’output di questo modello sia

costituito da un vettore di rendimenti attesi (da utilizzare come input del

processo di ottimizzazione), rappresentativo della media della posterior

distribution ottenuta dalla combinazione di due set informativi: i

rendimenti calcolati con il CAPM (che costituiscono la prior information)

e le opinioni personali degli asset manager (l’updating).

Tenendo presente che, ai fini di questo elaborato, non si è interessati ad

una riproposizione dei passaggi analitici, è possibile spiegare

sinteticamente la modalità di utilizzo di questi set informativi nel seguente

modo: nella prior information, i rendimenti attesi vengono calcolati

tramite il meccanismo della reverse optimization a partire dal portafoglio

di mercato e, successivamente, ne viene formulata la distribuzione

probabilistica. Per quanto riguarda invece le valutazioni dell’asset

manager, il modello distingue tra diverse tipologie di view che vengono

poi inserite in un’equazione matriciale che tiene conto delle asset class

interessate da ciascuna view, dell’entità delle view e dell’incertezza ad

esse connessa119. A questo punto, dopo aver determinato le distribuzioni di

probabilità dei due set, si procede con il calcolo della posterior

distribution che, come già accennato, rappresenta la definizione dei

rendimenti attesi sulla base della considerazione simultanea della prior

distribution e dell’updating (le due fonti d’informazione precedentemente

citate). La bontà di questo metodo deriva quindi dalla capacità della

posterior distribution di supportare la gestione dell’estimation risk tramite

il miglioramento del processo di stima degli input più influenti.

119 Il funzionamento è simile ad un codice binario in cui una valutazione positiva in termini

assoluti determina l’inserimento di un +1 sull’asset class interessata e di uno zero sulle altre; mentre una valutazione relativa richiede l’inserimento di un +1 sulla classe valutata come migliore ed un -1 su quella considerata peggiore.

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L’utilizzo della MVO nel caso di Wealthfront

Per dare un’applicazione pratica a questo excursus sulla Modern portfolio theory,

si è ritenuto interessante utilizzare come esempio la già citata Wealthfront. Nel suo

white paper, l’azienda afferma infatti di utilizzare la MPT per l’identificazione del

portafoglio ideale per ogni investitore, giustificando tale scelta con l’opportunità

di utilizzare questa tecnica per implementare una soluzione software-based che

rende il servizio molto più economico rispetto alla consulenza tradizionale e

quindi accessibile ad un’ampia platea di investitori.

Il servizio offerto da Wealthfront può essere riassunto nelle seguenti fasi120:

1)   Identificazione delle Asset Class

L’identificazione delle Asset Class che andranno a comporre il portafoglio

avviene sulla base di diversi fattori specifici (dati storici, previsioni, fattori

macroeconomici etc.), ma anche in relazione al loro impatto sul

portafoglio in termini di rendimento, volatilità, correlazione, capacità di

protezione dall’inflazione, costi dell’ETF ed efficienza fiscale. In base a

tali criteri, i tre macro-gruppi di asset class visti durante l’analisi della

piattaforma, possono essere così descritti:

§   Stock

Nonostante la loro volatilità, offrono un forte potenziale di

guadagno ma anche una certa protezione dall’inflazione a fronte di

un discreto livello di efficienza fiscale.

§   Bond

Producono ritorni poco incisivi, ma sono anche meno volatili e

poco correlati con le azioni (costituendo quindi un’ottima fonte di

diversificazione). Tuttavia, sono poco efficienti sotto il punto di

vista fiscale (con l’eccezione dei bond municipali che sono esenti).

§   Inflation asset

All’interno di questo gruppo troviamo i prodotti che tutelano

dall’inflazione, ovvero i TIPS (Treasury Inflation-Protected

Securities), gli investimenti immobiliari e le risorse naturali.

120 Wealthfront, n.d. (A)

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2)   Asset allocation

Wealthfront determina l’Asset Allocation ricorrendo alla tecnica MVO che,

come già accennato, richiede come primo step il calcolo degli input. A tal

proposito, l’azienda:

ü   Determina la deviazione standard e la correlazione sulla base dei

dati storici (figura 48)

Figura 48 – La deviazione standard (sinistra) e la correlazione (destra) calcolata da Wealthfront

Fonte: https://research.wealthfront.com/

ü   Determina il rendimento partendo dal CAPM (definendo quindi gli

importi attesi in condizione di equilibrio e sotto specifiche ipotesi)

per poi integrare tale stima, utilizzando il metodo Black-Litterman,

con le valutazioni personali (le views) dei consulenti finanziari,

basate prevalentemente sull’andamento dei tassi d’interesse, dei

dividendi, del PIL e delle variabili macroeconomiche.

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Dai ritorni lordi vengono infine sottratte le commissioni e il carico

fiscale per ottenere un “net-of-fee, after-tax expected return”

(figura 49).

Figura 49 – Il processo di determinazione degli “after tax net of fee return” in Wealthfront

Fonte: https://research.wealthfront.com/

Figura 50 – Le soglie di massima/minima allocazione (sinistra) e l’efficienza fiscale (destra) delle asset class

Fonte: https://research.wealthfront.com/

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A questo punto gli input vengono utilizzati per l’implementazione del

MVO, tenendo però conto:

o   Delle soglie minime e massime di allocazione per ogni asset class

che Wealthfront inserisce nell’algoritmo per assicurare una corretta

diversificazione, minimizzare gli errori di stima e riflettere le

preferenze dell’investitore (figura 50 sinistra)

o   Del modo in cui i ritorni di ogni asset class vengono tassati, perché

tale fattore influenza l’appropriatezza dell’inserimento di ogni

classe in un portafoglio taxable o retirement (figura 50 destra).

Considerando tutti gli elementi citati, si otterranno le due allocazioni (una per i

portafogli taxable e l’altra per quelli retirement) presenti nella figura 51.

Figura 51 – L’allocazione al variare del rischio per i portafogli taxable (sopra) e tax free (sotto)

Fonte: https://research.wealthfront.com/

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2.3.2   – Il social digital trading

Il segmento del social e digital trading è attualmente meno sviluppato di quello

del robo advisory, ma ha un potenziale di crescita non indifferente, soprattutto

grazie alle opportunità derivanti dalla possibilità di sfruttare i social per

aumentare l’engagement degli utenti, ma anche (e forse soprattutto) per analizzare

i dati e valutare il sentiment degli investitori, come dimostra il successo della

piattaforma Stock Twits (figura 52), che conta un’audience di circa 40 milioni di

utenti121 e potrebbe mettere in difficoltà competitor del calibro di Bloomberg (il

noto fornitore di notizie, informazioni e analisi di mercato).

Figura 52 – Un esempio (azioni Apple) dell’analisi del sentiment effettuata da Stock Twits

Fonte: http://stocktwits.com

All’interno del segmento del social e digital trading vi sono comunque svariati

player, che stanno ottenendo risultati interessanti. Il numero uno degli USA è

sicuramente Robinhood.com, una piattaforma di trading che permette di acquistare

azioni ed ETF quotati, cui è possibile accedere solo tramite un App mobile

caratterizzata da un’interfaccia talmente essenziale e minimalista (di fianco ad

ogni titolo ci sono solo un semplice grafico con l'andamento e due tasti: “Buy” e

“Sell”) da sembrare quasi banale (figura 53); aggettivo che comunque sarebbe

improprio se si considera che l’azienda ha vinto l’Apple Design Award122 e che

tale struttura è perfettamente coerente con il target di riferimento: i nativi digitali

(secondo i dati l'età media degli utenti è infatti di 26 di anni123).

121 StockTwits, n.d. 122 Robinhood, 2015 123 Il Sole 24 Ore, 2016 (G)

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Figura 53 – La semplicità dell’interfaccia di Robinhood Fonte: https://robinhood.com

Questa modalità di fruizione rende la società della Silicon Valley un ottimo

rappresentante del concetto di digital trading come applicazione del fenomeno

FinTech al Wealth management. Tuttavia, l'elemento davvero "disruptive" che

caratterizza questa piattaforma (tanto da esser stata definita la Uber del trading) è

la completa assenza di commissioni (figura 54); un modello reso sostenibile dai

bassi costi del lavoro (il personale è limitato a 40 persone124), dalla mancanza di

una presenza fisica sul territorio, dall’inesistenza di investimenti pubblicitari e

dall'eliminazione di analisti e consulenti finanziari.

Figura 54 – Il confronto tra Robinhood e gli altri operatori

Fonte: https://support.robinhood.com

Le fonti di guadagno sono quindi composte unicamente dai servizi opzionali

(come l’account gold che, al prezzo di 10$ al mese, offre l’accesso a vari servizi

premium125) e dagli interessi sulla liquidità rimasta sui conti correnti, in quanto

non investita.

124 Il Sole 24 Ore, 2016 (G) 125 Robinhood, 2016 (A)

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Nonostante le critiche, i risultati sembrano confermare la bontà dell’idea: anche se

il lancio della piattaforma è avvenuto solo a fine 2014, il numero di iscritti ha già

superato il milione, con un valore delle transazioni pari a 6 miliardi di dollari126 ed

un risparmio stimato in oltre 100 milioni di commissioni non applicate127. Forte di

tali risultati, l’azienda ha già preannunciato un’espansione sia territoriale che

strategica, grazie all’integrazione con altri operatori del segmento (tra i quali il già

citato Stock twits) interessati a sfruttare l’efficienza di Robinhood per l’attività di

trading.

I risultati e le prospettive appena accennati, rendono quest’azienda una delle start-

up FinTech più promettenti del segmento. Tuttavia, dato che il servizio è ancora

limitato al mercato statunitense (a breve arriverà anche in Australia), il ruolo di

leader globale del settore spetta ancora ad eToro.com, la piattaforma di trading

online (su valute, materie prime e indici) fondata a Cipro nel 2007 che opera già

in più di 170 paesi (Italia inclusa), con oltre 5 milioni di iscritti128. Il servizio,

fruibile sia tramite sito web che applicazione mobile, rappresenta perfettamente il

concetto di social trading già dalla registrazione, effettuabile infatti in automatico

tramite i social media che l’utente già utilizza (l’account di Facebook o di

Google).

Figura 55 – La Dashboard iniziale di eToro Fonte: https://www.etoro.com

126 Il sole 24 Ore, 2016 (G) 127 Considerando una commissione media tra quelle dei principali competitor 128 eToro, n.d. (A)

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Una volta effettuato il login, al cliente viene proposta una rapida spiegazione delle

principali funzionalità della piattaforma che esso può poi imparare ad utilizzare in

autonomia sfruttando un portafoglio virtuale di 100.000$ grazie al quale è

possibile simulare gli investimenti.

Il punto di accesso al servizio è la “Watchlist” (figura 55), una dashboard dalla

quale è possibile seguire l’andamento dei mercati e le performance degli altri

investitori, ma anche effettuare direttamente le operazioni di trading. Per farlo

basta cliccare sul pulsante “Acquista” posto di fianco al titolo selezionato, in

modo da accedere alla schermata (figura 56) che permette di definire:

1.   L’importo da investire;

2.   La soglia di perdita e guadagno superati i quali la posizione viene chiusa

in modo automatico;

3.   La leva finanziaria, ovvero lo strumento che permette di aumentare la

propria esposizione senza impegnare una quantità maggiore di liquidità ma

sfruttando un prestito fornito dal provider129. In pratica, ipotizzando di

voler acquistare 1.000 azioni ABC al prezzo di 1€, l'operazione costerebbe

1.000€. Se però si effettuasse l'operazione con una leva x10 si dovrà

versare solo un deposito di 100€ per ottenere lo stesso numero di azioni,

ottenendo quindi un rendimento molto più alto. È comunque opportuno

sottolineare che la leva amplifica non solo i profitti potenziali ma anche le

perdite; un aspetto che va tenuto in considerazione e gestito definendo in

modo accurato la soglia stop loss.

Figura 56 – Un esempio di schermata di acquisto su eToro

Fonte: https://www.etoro.com

129 Consob, n.d. (C)

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Il discorso è simile per la funzione di “Copy trading”, consistente nella possibilità

di copiare il portafoglio dei trader più esperti per ottenerne i medesimi risultati. In

questo caso, invece di cercare un titolo tramite il listino o il settore, si

individueranno i portafogli più interessanti in base al rendimento e al rischio.

Queste informazioni sono contenute nel profilo pubblico assegnato ad ogni trader,

che contiene le informazioni relative alla composizione del suo portafoglio e le

statistiche sul rischio e le prestazioni.

In questo modo, una volta che l’utente avrà individuato il profilo più interessante

rispetto ai suoi obiettivi, potrà copiarne le posizioni decidendo l’importo da

investire e la perdita massima accettabile (figura 57).

Figura 57 – Un esempio della schermata che contiene le opzioni di Copy Trading

Fonte: https://www.etoro.com

A completare il servizio vi sono altre due sezioni piuttosto importanti: il

portafoglio (figura 58), dove è possibile visualizzare e gestire le proprie posizioni

aperte; e la bacheca, tramite la quale l’utente può accedere alle novità e agli

aggiornamenti, oppure partecipare a discussioni con altri trader.

Figura 58 – La sezione “portafoglio” di eToro

Fonte: https://www.etoro.com

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L’opportunità di condividere le proprie operazioni e interagire con gli altri

investitori riflettono perfettamente la dimensione social di eToro. A questi fattori

va inoltre aggiunta la centralità della funzione di Copy Trading, perfettamente

coerente con i concetti di base della FinTech di semplicità di utilizzo e

accessibilità anche per chi non ha competenze avanzate. L’importanza di questa

possibilità per il modello di business della piattaforma è anche evidenziata dai

forti incentivi che essa offre ai cosiddetti “popular investors”. eToro prevede

infatti 4 possibili livelli di classificazione del trader (che dipendono da specifici

requisiti minimi) cui corrispondono vantaggi crescenti (figura 59). Nel livello più

alto, il cosiddetto “Elite”, i trader guadagnano mille dollari al mese più il 2% del

capitale che gestiscono (senza limiti) ottenendo così la possibilità di utilizzare la

piattaforma per svolgere l’attività in modo professionale (soprattutto se si

considera che la soglia di AUM per accedere al livello è di 300.000€).

Figura 59 – I quattro livelli di Popular Investor e i relativi benefit Fonte: https://www.etoro.com

La definizione delle caratteristiche principali delle piattaforme appena viste

permette di evidenziare le profonde differenze tra le due offerte: la prima centrata

sull’assenza di commissioni e la seconda sul lato social dell’attività

d’investimento.

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Le previsioni dei trend futuri non sono però orientate ad una maggiore

diversificazione, ma ad un’integrazione dei servizi, sia interna al segmento del

social e digital trading che trasversale rispetto a quello del robo advisory (nel

senso che i player attualmente specializzati in un determinato segmento

tenderanno ad articolare maggiormente la propria offerta includendo servizi e

funzionalità che in precedenza appartenevano ad altre aree).

L’analisi delle diverse piattaforme ha poi permesso di evidenziare come la

semplificazione della user experience sia un elemento comune a tutti i segmenti di

applicazione della FinTech. A tal proposito è interessante notare come, con la

progressiva maturazione di questo mercato, tale elemento venga sempre più dato

per scontato, spostando quindi l’attenzione dal front-end al middle e back-end,

ovvero all’uso integrato dei dati (anche basato sui social), al miglioramento

dell’efficienza e alla fornitura di servizi real time. L’ipotesi per il futuro è quindi

costituita dalla possibilità che la competizione si sposti dall’interfaccia

all’infrastruttura, eliminando l’attuale tendenza ad applicare le nuove tecnologia

solo al livello più superficiale, in modo quasi “estetico”.

2.3.3   – I rischi e la tutela dell’investitore

In questo capitolo sono state presentate le opportunità derivanti dai nuovi modelli

di business utilizzati dalle piattaforme di robo advisory e digital trading presenti

sul mercato. Per completare la trattazione di questo tema è però opportuno

accennare anche ai rischi legati al loro utilizzo, soprattutto perché la natura di

queste nuove piattaforme e del contesto nel quale operano (il web), sembrano

acutizzare alcuni problemi che affliggono il mondo degli investimenti. Tra questi,

è sicuramente importante citare i comportamenti che violano l'integrità dei

mercati, i quali sono solitamente raccolti in due gruppi:130

1)   L'abuso di informazioni privilegiate

Questa fattispecie è rappresentata prevalentemente dall'insider trading,

ovvero dalla trasmissione di ordini sul mercato basata sull'utilizzo di

informazioni privilegiate (non pubbliche) relative all'azienda o a qualsiasi

evento ad essa connesso che sia capace di influire sull'andamento del

130 Consob, n.d. (B)

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prezzo delle sue emissioni. A quest'ultima casistica appartiene il concetto

di "front running", ovvero dell'apertura di una posizione sul mercato a

fronte della conoscenza dell'imminente arrivo di un ingente ordine

(problema che potrebbe evidentemente interessare anche piattaforme come

eToro o Wealthfront).

2)   La manipolazione del mercato

La manipolazione del mercato può avvenire tramite due modalità:

o   Manipolazione informativa

Questo genere di alterazione avviene tramite la diffusione di

informazioni false o fuorvianti da parte di soggetti “influenti”

come analisti, giornalisti o politici. È però importante sottolineare

come il concetto di “soggetti influenti” stia progressivamente

perdendo significato con la penetrazione dei social media (basti

pensare alle recenti dichiarazioni dei principali social network circa

l’impegno a monitorare le notizie che circolano al loro interno,

dovuto all’influenza che le false news hanno avuto sulle elezioni

americane131). Gli esempi pratici sono numerosi, come le accuse

mosse dalla SEC (Securities and Exchange Commission) nel 2015

nei confronti di un trader che aveva creato degli account di Twitter,

personalizzandoli in modo da renderli somiglianti a quelli di note

società dedite a ricerche di mercato, per poi pubblicare delle notizie

negative su società quotate con il fine di speculare sull’impatto che

tali rumors avrebbero avuto (e che in effetti ebbero, dato che

causarono un crollo dei prezzi del 28% e del 16% per le due

aziende interessate)132.

o   Manipolazione operativa

Questo reato riguarda la trasmissione di ordini capaci di alterare il

processo di formazione dei prezzi portandoli a valori anomali che

favoriscono gli interessi del manipolatore. Uno dei casi più tipici è

quello della creazione di una "bolla" nell'andamento dei prezzi

tramite l'immissione di una serie di ordini a prezzi crescenti, in 131 La stampa, 2016 (A) 132 SEC, 2015

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modo da poter poi vendere con profitto ai prezzi più elevati

generati dagli acquisti effettuati dagli investitori che ritenevano il

trend basato su nuove valide informazioni.

È comunque opportuno sottolineare che anche le normali

operazioni di investimento possono produrre effetti significativi sul

mercato, tuttavia la normativa comunitaria stabilisce che la persona

che le pone in essere non è assoggettata a sanzione se dimostra di

aver operato per motivi legittimi.

Un fenomeno che non è illegale ma che comporta comunque rischi rilevanti per

l’integrità del mercato è poi quello del trading algoritmico, definibile come la

“modalità di negoziazione basata sull'utilizzo di algoritmi e programmi

informatici che raccolgono ed elaborano le informazioni e i dati di mercato in

tempo reale e avviano in automatico gli ordini sulle diverse piattaforme di

negoziazione”133. Il caso più discusso è quello in cui quest’operazione viene svolta

a velocità molto elevata, assumendo il nome di HFT (high-frequency trading).

Tale procedura si è diffusa di recente ma, nonostante sia sfruttabile solo da

soggetti dotati di supporti hardware e software sofisticati, ha già raggiunto un

livello di impatto sul mercato assolutamente rilevante. Ciò ha attirato l’attenzione

delle autorità di vigilanza, soprattutto per quanto riguarda la capacità di

quest’attività di destabilizzare i mercati. Un timore che è stato confermato dal

“Flash crash” del 2010, in cui gli ordini di vendita di alcuni HF-Trader hanno

innescato una spirale al ribasso (dovuta ad un effetto a catena in cui i trader

continuavano a vendere solo perché lo stavano facendo gli altri) portando ad un

crollo del Dow jones del 10% in pochi minuti (figura 60). Oltre all’impatto sulla

volatilità, questa procedura incide anche sulla correlazione dei prezzi rispetto ai

fondamentali economici (ossia lo stato di salute della società emittente), poiché si

basa su strategie di brevissimo termine legate solamente all’andamento dei

mercati in un determinato istante. Infine, l’HFT pone un problema di stampo quasi

etico, derivante dal fatto che tale procedura richiede alti investimenti in

infrastrutture tecnologiche e informatiche e, di conseguenza, avvantaggia gli

operatori con le maggiori risorse.

133 Consob, n.d. (B)

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Figura 60 – La caduta del Dow jones durante il flash crash

Fonte: http://money.cnn.com

La crisi finanziaria ha attirato l’attenzione delle Autorità di vigilanza e degli

Organismi internazionali sulle questioni relative all’integrità dei mercati, portando

alla definizione di un Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF) composto

dall’ESRB (European Systemic Risk Board), il comitato per il monitoraggio della

stabilità finanziaria; e dalle ESAs (European supervisory authorities), le autorità

di vigilanza europee che insieme costituiscono il Comitato congiunto, al quale è

assegnato il compito di favorire la cooperazione e la coerenza degli approcci di

vigilanza adottati dall’EBA (European Banking Authority), l’EIOPA (European

Insurance and Occupational Pensions Authority) e l’ESMA (European Securities

and Markets Authority).

Contestualmente alla riforma degli assetti di vigilanza, il quadro normativo

europeo ha subito un profondo cambiamento sia in termini di revisione delle

direttive esistenti che in relazione a nuove iniziative su specifici temi la cui

centralità è stata evidenziata dalla crisi (tra gli esempi principali troviamo la

revisione della MIFID, delle direttive sugli abusi del mercato e di quelle in tema

di prospetti informativi).

Focalizzando però l’attenzione sul tema della tutela del cliente, può essere

opportuno effettuare qualche considerazione di approfondimento sulla già citata

MIFID, che riguarda i fornitori e i clienti dei seguenti servizi:

•   Consulenza d'investimento

•   Esecuzione degli ordini di investimento

•   Gestione degli investimenti

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Questa direttiva richiede agli intermediari di rispettare determinati principi e

regole di condotta, il cui fine è quello di assicurare la correttezza del loro

comportamento e di consentire al cliente scelte di investimento informate,

consapevoli e rispondenti alle proprie esigenze. Particolare attenzione è quindi

posta al ruolo delle informazioni, che devono essere fornite nel modo più

completo e trasparente possibile sia prima che dopo l’investimento.

Le principali sono:

ü   Informazioni sul servizio e l'intermediario

L'intermediario deve fornire informazioni adeguate su sé stesso e sul

servizio che offre: alcune basiche (come i recapiti o l'indicazione

dell'autorità che ha rilasciato l'autorizzazione a svolgere l'attività), mentre

altre più sostanziali (come i metodi di comunicazione tra cliente e impresa,

le modalità con cui l'intermediario garantisce la tutela delle somme

detenute, la descrizione della politica seguita in materia di conflitto

d'interessi etc.).

ü   Informazioni sugli strumenti finanziari

L'azienda deve descrivere al cliente le caratteristiche ed i rischi del tipo di

strumento finanziario che acquisterà con il servizio di investimento.

ü   Informazioni sui costi

Il fornitore del servizio deve informare il cliente dei costi, sia in relazione

al prezzo totale che alle singole voci che lo compongono.

La maggior parte di queste informazioni sono contenute anche nel contratto scritto

che dev’essere necessariamente firmato per accedere ai servizi d’investimento.

I suoi contenuti fondamentali sono:

•   Le caratteristiche del servizio e delle prestazioni dovute;

•   La modalità di modifica e rinnovo del contratto;

•   Le modalità con le quali il cliente può impartire ordini e istruzioni;

•   La frequenza e il contenuto della rendicontazione;

•   La soglia di perdita oltre la quale avvertire il cliente;

•   La remunerazione dell'intermediario e gli incentivi da esso ricevuti;

•   La possibilità di prestare consulenza in materia di investimenti;

•   Le eventuali procedure in caso di controversie.

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È però interessante sottolineare come la direttiva non si limiti ad imporre agli

intermediari di fornire tutte le informazioni necessarie ai clienti, ma richieda

anche un loro impegno proattivo nel valutare se il servizio da essi offerto sia

compatibile con le caratteristiche dei clienti. Il primo passo per il raggiungimento

di tale obiettivo è la classificazione del cliente come retail o professionale: il

primo gruppo è generalmente composto dalle persone fisiche, mentre nel secondo

vi rientrano banche, governi, fondi pensionistici e grandi società. È però

opportuno sottolineare che una persona fisica può chiedere di essere classificata

come cliente professionale se soddisfa almeno uno dei seguenti criteri: ha svolto

frequentemente delle operazioni finanziarie; ha un ampio portafoglio titoli; o ha

lavorato nel settore dei servizi d'investimento.

Dopo la classificazione del cliente, all’intermediario spetterà anche l’onere di

valutare:

1)   L’adeguatezza

La valutazione dell'adeguatezza dell'investimento è prevista per i servizi di

consulenza e di gestione degli investimenti. Per effettuarla, l'azienda dovrà

chiedere informazioni al cliente in merito a:

1.   La sua conoscenza ed esperienza in materia di investimenti;

2.   I tipi di operazioni e strumenti finanziari con il quale ha

dimestichezza;

3.   La natura, dimensione e frequenza delle operazioni finanziarie già

effettuate;

4.   Il livello di istruzione e la professione svolta;

5.   La situazione finanziaria;

6.   Gli obiettivi di investimento;

Acquisite queste informazioni, l'intermediario valuterà che il servizio sia

tale da corrispondere agli obiettivi d’investimento del cliente e non porre a

suo carico rischi che non è in grado di sopportare o di comprendere

appieno. È quindi chiaro come tale processo comporti una forma di forte

tutela per il risparmiatore e, al contempo, un impegno gravoso per

l’azienda.

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2)   Appropriatezza

Per tutti i servizi di investimento (tranne quelli citati nel punto

precedente), l'intermediario deve valutare che l'investimento sia

appropriato. Tale valutazione è meno "impegnativa" rispetto a quella di

adeguatezza, poiché l'azienda deve chiedere al cliente solo le informazioni

relative alla sua conoscenza ed esperienza circa il tipo di strumento o

servizio in questione. Ne consegue che il prodotto si può ritenere adeguato

se il cliente ha conoscenze ed esperienza sufficienti per comprendere i

rischi ad esso connessi.

3)   Mera esecuzione

Quando l'offerta è limitata ai servizi di ricezione e trasmissione di ordini,

l'intermediario può eseguire la richiesta senza dover valutare se

l'operazione sia appropriata per il cliente (e quindi senza chiedere

informazioni).

Ovviamente con tale valutazione non si esauriscono gli oneri dell’intermediario, il

quale sarà poi tenuto ad eseguire gli ordini dei clienti "prontamente, in

successione (secondo l’ordine con cui li riceve) e tempestivamente"134 ma

soprattutto secondo il criterio di Best Execution, ovvero ottenendo il miglior

risultato possibile (in termini di prezzo, costi, rapidità etc.) per il cliente. Inoltre,

una volta effettua l'operazione, l'intermediario avrà il dovere di comunicare al

cliente le modalità con cui ha raggiunto la Best Execution in termini pratici,

nonché una conferma dell’operazione con le informazioni principali.

Infine, per completare questa parentesi sulla tutela dell’investitore, è opportuno

sottolineare che la MIFID stabilisce anche dei requisiti di carattere organizzativo,

che toccano i seguenti temi:

v   Gestione del conflitto d’interessi

Per conflitto d'interessi, s’intende la situazione in cui "l'intermediario, nel

prestare un servizio di investimento, ha un interesse proprio o è portatore

di interessi di terzi, in contrasto con quello del cliente"135 (si pensi, ad

esempio, al caso in cui l'intermediario inserisce nei portafogli le

obbligazioni della banca dalla quale è controllato). 134 BCC, 2008 135 Consob, 2012

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Per evitare che tali situazioni danneggino i clienti, gli intermediari devono

individuare tutte le situazioni al loro interno che possono generare conflitti

di interessi e gestirle in modo da evitare che incidano negativamente sugli

interessi dei clienti. Queste due fasi fanno parte della “policy di gestione

dei conflitti d’interesse” che dev'essere redatta per iscritto e comunicata al

cliente prima di prestare il servizio di investimento.

v   Istituzione di procedure efficaci e trasparenti per la gestione dei reclami

v   Salvaguardia dei diritti di proprietà

L’azienda deve dotarsi di disposizioni volte a:

o   Mantenere gli strumenti finanziari e il denaro dei clienti separati da

quelli dell’impresa

o   Tenere registrazioni e resoconti accurati

o   Inviare al cliente con periodicità almeno annuale un prospetto

contenente i dettagli degli strumenti finanziari e del denaro

detenuti per suo conto

Questi accorgimenti nei confronti del cliente, soprattutto per quanto riguarda il

livello d’informazione e di trasparenza pre-post vendita, verranno amplificati dalla

MIFID 2, che entrerà in vigore nel 2018136 con l’obiettivo di estendere l'ambito di

applicazione della norma originaria (andando ad interessare nuove asset class e

nuovi operatori) e collegarla ad altre direttive recentemente revisionate, come

quelle relative agli abusi di mercato e alla regolamentazione degli strumenti

derivati.

Per completare questo excursus sulla tutela del cliente, può essere infine

opportuno effettuare qualche considerazione sugli effetti che tali norme hanno sul

settore e sui player che vi operano. A tal proposito, si ritiene però maggiormente

interessante focalizzarsi sulla MIFID 2, la cui complessità e dimensione stanno

mettendo in crisi i processi di compliance degli operatori dell’investment

management europeo. Le aree di cambiamento (riassunte nella figura 60) sono

infatti numerose:137

136 Il Sole 24 Ore, 2016 (A) 137 PWC, 2014 (B)

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Figura 60 – I principali cambiamenti apportati dalla MIFID 2 Fonte: www.pwc.com

1.   Trasparenza pre-post negoziazione

La direttiva estende gli attuali requisiti di trasparenza anche alle

obbligazioni, i derivati ed i prodotti strutturati; richiede alle società che

operano sui mercati OTC138 di segnalare gli scambi in specifici report e

rafforza gli obblighi di pubblicazione tempestiva dei dati di post-

negoziazione.

2.   Segnalazioni sulle transazioni

Introduce un modello comune per gli obblighi di segnalazione sulle

transazioni e allinea i requisiti MIFID di reportistica delle transazioni con

quelli del MAD (Market Abuse Directive)

3.   Derivati

Allinea la normativa a quanto previsto dalla EMIR (European Markets

Infrastructure Regulation) e definisce le regole di registrazione dei

derivati soggetti a trading obligation (quelli che possono essere negoziati

solo su mercati regolamentati).

4.   Maggiori poteri di vigilanza

Introduce la possibilità per la Commissione di vietare i prodotti e i servizi

d'investimento che potrebbero generare rischio sistemico, inoltre

armonizza e amplifica i poteri dei supervisori nazionali 138 “I prodotti negoziati al di fuori dei circuiti borsistici ufficiali” - Borsa Italiana, 2011

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5.   Autorizzazione ad operare

Definisce il processo autorizzativo (identificando anche i requisiti minimi)

per le imprese che offrono servizi d'investimento.

6.   Derivati sulle materie prime

Estende la MIFID anche alle commodity firms, dando maggiori poteri ai

regolatori di mercato (affinché gestiscano in modo rigido le transazioni in

derivati sulle materie prime) e definendo le regole relative al reporting, al

position limit139 e ai diritti di emissione.

7.   Struttura dei mercati

Definisce i requisiti di ammissione al trading sui mercati regolamentati e

rafforza la vigilanza sui mercati RM (regulated market), MTF

(multilateral trading facility) e OTF (organised trading facilities); ma

introduce anche una nuova definizione di trading automatizzato volta ad

includere l'HFT e il trading basato su algoritmi specifici.

8.   Reporting e consolidamento dei dati

Introduce specifici report post-negoziazione attraverso i cosiddetti APAs

(Approved Publication Arrangements), ovvero i soggetti autorizzati a

fornire il servizio di pubblicazione di relazioni per conto delle società

d’investimento140.

9.   Protezione degli investitori

Richiede alle società d'investimento d'informare il cliente circa il fatto che

la consulenza offerta sia indipendente o meno; abolisce gli inducements141

per la consulenza indipendente e per la gestione del portafoglio; impone

un maggior livello di informazioni fornite ai clienti dei prodotti finanziari

complessi (dando anche una nuova definizione di tali prodotti, esclusi dal

regime execution only) e armonizza gli approcci nazionali per i requisiti

organizzativi e le regole di governance.

139 "The highest number of options or futures contracts an investor is allowed to hold on one underlying security" - Investopedia, n.d. 140 Emissions-euets, 2015 141 “Qualsiasi beneficio che un'impresa d'investimento riceve da un terzo in relazione al servizio

prestato al cliente” – Morning star, 2007

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10.  Offerta di servizi da paesi terzi

Estende la normativa anche ai servizi derivanti da paesi terzi, richiedendo

la costituzione di una succursale.

Questa breve panoramica dei cambiamenti apportati dalla nuova direttiva

testimoniano il forte impatto che essa avrà sull’intero settore finanziario. Secondo

un recente report della nota società di consulenza EY, le aziende che operano in

tale area dovranno focalizzare l'attenzione soprattutto sugli effetti della direttiva

rispetto alle attività di front office. Prendendo, ad esempio, la strategia

d'investimento e la costruzione del portafoglio, la MIFID 2 richiederà di:142

ü   Effettuare valutazioni (che possano essere provate) relative agli obiettivi

d'investimento, alla propensione al rischio e alla sopportazione delle

perdite dei clienti; nonché dimostrare che la costruzione del portafoglio

rifletta tali valutazioni;

ü   Rafforzare la "product governance" (concetto con il quale si fa riferimento

all'obbligo, per l'intermediario, di definire un assetto organizzativo e delle

regole di comportamento relative alla creazione, offerta e distribuzione dei

prodotti finanziari che riflettano la centralità dell’interesse del cliente143);

ü   Condurre "prove di idoneità" del cliente prima di effettuare operazioni con

prodotti complessi.

La nuova direttiva rende più impegnativo anche il rispetto del già visto concetto di

Best Execution, richiedendo alle aziende di: 144

•   Valutare l'adeguatezza del prezzo nell'esecuzione degli ordini su prodotti

OTC (servendosi di dati di mercato).

•   Includere nel concetto di migliore esecuzione il prezzo dello strumento

finanziario e i costi relativi all'esecuzione (nel quale rientrano le spese

sostenute dal cliente che sono direttamente connesse alla realizzazione

dell’ordine);

•   Comunicare al cliente le variazioni di commissione applicate dall'impresa

d'investimento a seconda della sede di esecuzione (in modo da consentire

la comprensione dei vantaggi e degli svantaggi di tale scelta).

142 EY, 2016 (A) 143 Norton Rose Fulbright, 2015 144 Compliance Journal, 2016

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•   Fornire la policy di best execution (era già richiesto nella MIFID I, ma ora

è necessario il consenso preliminare del cliente) indicandovi la lista dei

fattori utilizzati per selezionare la sede di esecuzione e spiegando come

viene valutata, monitorata e verificata la best execution;

•   Pubblicare annualmente la valutazione della qualità dell'esecuzione e i

nomi dei primi cinque intermediari ai quali si trasmettono gli ordini;

•   Comunicare al cliente tutti gli eventi di natura interna o esterna che

impattino sulla policy di best execution.

Questi esempi danno sicuramente un’idea dell’impegno di risorse richiesto dalla

normativa e della gestione tecnologica del cambiamento che dovranno affrontare

le imprese per sostenerlo. Tale tema tocca direttamente le piattaforme

d’investimento, che dovranno essere basate su una tecnologia capace di

raccogliere, organizzare e rendere accessibili tutti i dati necessari, in modo

tempestivo ed affidabile. Questo sarà fondamentale soprattutto per rispettare i

nuovi requisiti relativi al reporting, che richiedono una comunicazione entro il

giorno lavorativo successivo ogni volta che il portafoglio varia di valore del 10%

ed ogni volta che viene effettuata una nuova transazione. Gli effetti della MIFID

II non saranno però limitati al suo impatto diretto sulle piattaforme d'investimento

e i processi, poiché le aziende dovranno anche affrontare le conseguenze

trasmesse indirettamente al mercato. A tal proposito, di particolare interesse è

l'impatto che le sanzioni per la mancanza di liquidità (derivanti dalla "Capital

Requirements Directives") potrebbero avere sui mercati meno liquidi, ma anche

gli effetti delle nuove regole relative alle sedi di negoziazione, finalizzate a

spostare le attività di trading sui mercati regolamentati rendendo più difficile e

costoso ricorrere ad altre alternative. In conclusione, la combinazione di spese

tecnologiche, costi di compliance e requisiti patrimoniali più rigidi permette di

affermare che la MIFID 2 comporterà un aumento delle spese lungo tutta la value

chain del settore. Tale cambiamento peserà molto sui player del wealth

management, ma soprattutto sulle aziende meno efficienti che saranno più

vulnerabili rispetto alla pressione sui profitti. Tale gruppo è rappresentato

prevalentemente dalle aziende di medie dimensioni, che saranno quindi

svantaggiate rispetto a quelle più grandi, capaci di sfruttare economie di scala.

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Sembra inoltre inevitabile presupporre che alcuni di questi costi verranno

trasmessi ai clienti finali, evidenziando quindi come la maggior tutela richiesta

dalla MIFID 2 comporti anche un prezzo per i destinatari di tale beneficio.

Date queste premesse, è lecito aspettarsi che gli operatori del settore finanziario

comincino ad intraprendere delle risposte strategiche alla nuova direttiva che

vadano oltre la semplice visione di tale cambiamento come un costoso processo di

adeguamento. Il nuovo regolamento cambierà infatti l’industry, creando lo spazio

per nuove opportunità competitive che potranno esser colte dalle aziende più

attente all'ottimizzazione delle proprie attività e più proattive nello sviluppo di

soluzioni innovative, magari tramite partnership con altre istituzioni. È quindi

probabile aspettarsi dei forti cambiamenti nel contesto competitivo, dovuti anche

alla possibilità che le nuove opportunità siano sfruttate da aziende di nicchia o da

nuovi entranti. Infine, è lecito ipotizzare che tale direttiva porti a sviluppi non

previsti (come del resto aveva fatto la MIFID I, con lo sviluppo delle “dark

pools”145 da parte delle maggiori banche d'investimento), che saranno molto

probabilmente legati al crescente sviluppo delle soluzioni FinTech146.

A conclusione di questo capitolo, si ritiene infine interessante proporre una

“provocazione” in contrasto con la complessità normativa che caratterizza il

settore. Appare infatti piuttosto singolare come, nonostante gli sforzi regolatori

delle autorità di sorveglianza del settore, possano ancora verificarsi truffe come

quella di "Secure investment", la nota piattaforma internazionale di trading online

sul Forex che aveva adescato più di centomila clienti promettendo un rendimento

giornaliero medio dell'1%147. Purtroppo però, quando nel 2014 gli utenti hanno

cominciato a chiedere di poter ritirare il denaro, il sito è sparito insieme al

miliardo di dollari che era stato complessivamente versato. Casi come questo

dimostrano come il fenomeno FinTech rappresenti anche un rischio per gli

investitori e debba quindi essere oggetto di forte vigilanza da parte delle

istituzioni competenti.

145 “Le piattaforme finanziarie esterne ai circuiti regolamentati” - Il Sole 24 Ore, 2016 (H) 146 EY, 2016 (A) 147 Il Sole 24 Ore, 2014

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CAPITOLO III La FinTech in Italia

3.1 – La FinTech e il Wealth Management in Italia Il fenomeno FinTech ha interessato anche il territorio italiano, con la nascita di più

di un centinaio di startup che coprono praticamente tutti i segmenti citati nel

primo capitolo. Gli esempi sono molteplici: da Jiffy e Satispay per quanto riguarda

il segmento dei pagamenti digitali, a Prestiamoci e La Borsa del Credito nel P2P

Lending, passando per MoneyFarm e Advise Only nel robo advisory.

Figura 61 – I segmenti maggiormente presidiati dalle startup italiane

Fonte: http://smartmoney.startupitalia.eu

La crescita di queste startup e lo sviluppo della loro competitività internazionale è

però ostacolata dai fattori che caratterizzano “storicamente” il paese, come la

complessità dell’ecosistema normativo e fiscale, la dimensione ridotta del

mercato, la penetrazione di internet sotto la media e la mancanza di capitali148.

Figura 62 – Il totale finanziato in Italia rispetto a quello dei principali paesi europei

Fonte: http://blog.startupitalia.eu

148 Ferrari, 2016

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Spostando l’attenzione dalla FinTech in generale al segmento del Wealth

management, è opportuno sottolineare come i trend relativi alle disponibilità

finanziarie della popolazione, discussi nel precedente capitolo, siano confermati

anche dai dati dell’Eurozona: nel 2016 la ricchezza delle famiglie europee è infatti

aumentata di circa il 3%149, riportando il tasso di risparmio ai livelli pre-crisi.

Purtroppo però, tale ripresa non ha interessato anche l’Italia, il cui livello di

ricchezza è rimasto pressoché invariato, spingendo quindi il risparmio sotto la

media (figura 63).

Figura 63 – L’andamento del tasso di risparmio italiano (blu) rispetto a quello europeo (azzurro)

Fonte: Consob, 2016

Di tali attività, la percentuale detenuta in depositi bancari o postali è passata dal

38% del 2007 al 52% del 2015; una crescita sicuramente correlata alla

diminuzione della quota di azioni (-43%), debito pubblico (-23%) e obbligazioni

(-19%)150 che, secondo le analisi della Consob, deriva da tre fattori principali: la

mancanza di soldi da investire, il timore delle perdite e la scarsa fiducia negli

intermediari. A tali cause è però opportuno aggiungere l’importanza del basso

livello di conoscenze finanziarie che caratterizza le famiglie italiane. Infatti, in

media, solo il 40% è in grado di definire correttamente i concetti di base (come

l’inflazione o il rapporto rischio-rendimento), mentre per le nozioni più sofisticate

si scende addirittura all'11%151.

149 Consob, 2016 150 Consob, 2016 151 Consob, 2016

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È quindi chiaro come, in questo contesto, la FinTech possa essere portatrice sia di

benefici (in termini di ampliamento della platea di investitori grazie ai bassi costi)

che di rischi, derivanti soprattutto dal fatto che la "consulenza automatizzata"

presuppone che gli investitori siano dotati di un’appropriata cultura finanziaria e

digitale. A tal proposito è opportuno sottolineare che la penetrazione di internet in

Italia ha raggiunto, nel 2016, il 63%152 su una popolazione di circa 60 milioni di

persone153. Tra questi, più di 16 milioni154 utilizzano un profilo di online banking;

un numero ormai molto vicino a quello degli utenti dell’e-commerce, pari a 18,8

milioni155.

Dei fruitori complessivi del digital banking, il 18%156 circa utilizza un servizio

per la gestione del risparmio in forma di azioni, obbligazioni o fondi. Tuttavia,

solo il 55%157 di questi lo gestisce attivamente (le ragioni sono riassunte nella

figura 64).

Figura 64 – Le ragioni della scelta degli italiani di non gestire attivamente il proprio portafoglio

Fonte: Che Banca!, 2016

All’interno di questo gruppo di utilizzatori di servizi di gestione del risparmio, la

percentuale che dichiara di sapere che cosa sono i robo advisor è attualmente

limitata al 12%158 (percentuale che scende al 3-5%159 se si considera la

popolazione totale, come emerge dalla figura 65). 152 We Are Social, 2016 153 Istat, 2016 154 Che banca!, 2016 155 Ict & Strategy, 2016 156 Che banca!, 2016 157 Che banca!, 2016 158 Che banca!, 2016 159 Consob, 2016

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Figura 65 – La percentuale di investitori italiani che conosce il robo-advice

Fonte: Consob, 2016

Tali dati sono ancora più significativi se si considera che solo il 15% degli

investitori è interessato all’utilizzo dei Robo, poiché vi è un’alta percentuale di

persone che faticano ancora a fidarsi o comunque a rinunciare al contatto umano

(figura 66).

Figura 66 – Le ragioni degli italiani rispetto al desiderio di provare o meno i servizi di robo-advice

Fonte: Consob, 2016

A conclusione di questo inquadramento è quindi possibile affermare che la

tradizione di alti livelli di risparmio degli italiani è stata messa in difficoltà dalla

crisi economica, che ha anche diminuito la propensione al rischio degli investitori.

Inoltre, se a questo si aggiunge l’ancora alto grado di diffidenza rispetto ai servizi

digitali, emerge come questo territorio non sembri ancora particolarmente

attraente per le startup FinTech appartenenti al filone del Wealth Management.

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Tuttavia, per dare una visione più completa dell’andamento del settore, è

opportuno sottolineare che il patrimonio gestito in Italia è comunque in crescita,

come delineano i dati forniti da Assogestioni (l'associazione italiana delle società

di gestione del risparmio), che evidenziano anche un aumento costante nel ricorso

ai fondi aperti (Figura 67).

Figura 67 – I trend del patrimonio gestito in Italia negli ultimi tre anni (in milioni di euro)

Fonte: http://www.ifh.assogestioni.it

I dati dell’associazione permettono anche di individuare i principali operatori

tradizionali che dominano il panorama italiano del settore. Come si può osservare

nella figura 68, infatti, vi sono molteplici player (nella tabella ne sono riportati

solo 19 su 252 per ragioni di spazio), ma il mercato risulta fortemente concentrato

nelle mani di poche aziende (Generali, Intesa e Unicredit detengono da sole la

metà del mercato).

Figura 68 – Il patrimonio gestito dai principali operatori del settore in Italia (in milioni di euro)

Fonte: http://www.ifh.assogestioni.it

Il resto del capitolo sarà quindi dedicato alle startup italiane che potrebbero,

probabilmente, minacciare il dominio di questi grandi operatori.

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3.2 – Le principali startup italiane: Advise Only e Money Farm

Advise Only

AdviseOnly, fondata nel 2011 da un italiano proveniente dal settore bancario, si

autodefinisce come “un hub di consulenza finanziaria creato per aiutare i

risparmiatori di qualunque livello di competenza finanziaria e patrimonio a

migliorare le proprie scelte finanziarie"160. In pratica, il sito è strutturato come un

social network volto a stimolare l’interazione fra risparmiatori e professionisti in

modo da permettere a tutti di investire i propri risparmi in modo sicuro ed

efficace. La piattaforma non vende quindi prodotti finanziari e non esegue

operazioni per conto dei clienti, ma si limita alla mera attività di consulenza

finalizzata ad una gestione consapevole del risparmio. Ciò significa che il servizio

non si pone come sostituto dell'intermediario finanziario, ma come un prodotto

complementare.

Per spiegarne il funzionamento in maniera più chiara, è possibile far direttamente

riferimento all’esperienza pratica di fruizione del servizio, sperimentato

personalmente (come nel caso di eToro) per poter dare una descrizione più

approfondita all’interno del presente elaborato.

Dopo una rapida registrazione, all’utente viene data la possibilità di costruire un

portafoglio seguendo un percorso guidato a scelta, tra tre alternative161:

1.   Fai da te

Quest’opzione gratuita permette di creare il proprio portafoglio virtuale

selezionando manualmente gli strumenti finanziari (da un’ampia selezione

di ETF, fondi comuni, azioni e obbligazioni) con il quale comporlo.

2.   Portafogli AO

Con questo servizio (del costo di 9€), l’utente può scegliere tra diversi

portafogli predefiniti, per poi personalizzare l'investimento in totale

autonomia.

160 Virtualb Spa, 2015 161 Virtualb Spa, 2015

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Tali portafogli sono classificati in base a tre criteri:

a)   Investimenti a obiettivo

In questo caso è possibile scegliere un obiettivo tra la pensione,

l’integrazione del reddito e l’accumulo a favore di figli o nipoti

(figura 69).

Figura 69 – Le tre tipologie di investimenti a obiettivo

Fonte: www.adviseonly.com

b)   Investimenti a tema

Questa categoria permette di scegliere il portafoglio in base ad un

tema come gli investimenti etici, i trend del futuro o le soluzioni

anti-crisi (figura 70).

Figura 70 – L’investimento a tema dedicato ai trend del futuro

Fonte: www.adviseonly.com

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c)   Investimenti tattici

Questi portafogli, composti esclusivamente da ETF, vengono

costituiti automaticamente sulla base del livello di rischio e della

durata dell’investimento selezionata dall’utente. Si differenziano

da quelli visti precedentemente perché sono soggetti a revisioni

periodiche più frequenti, finalizzate ad adattarli rapidamente alle

dinamiche finanziarie ed economiche.

Figura 71 – Un esempio di investimento tattico

Fonte: www.adviseonly.com

3.   AO Tutor

Anche quest’opzione permette di scegliere un portafoglio predefinito (tra

le tre categorie viste nel punto precedente) ma, a differenza delle altre

opzioni, include (a fronte di un abbonamento da 49€ l’anno) un servizio

che comprende le notifiche di aggiornamento sulle condizioni economico-

finanziarie dei mercati, l'assistenza diretta da parte dei consulenti

dell'azienda e l'accesso ad approfondimenti ed analisi esclusive.

Oltre a queste tre modalità di creazione di un portafoglio, l’offerta B2C di Advise

Only è arricchita da alcuni servizi gratuiti, coerenti con il loro obiettivo principale

di fornire agli utenti tutte le informazioni necessarie per gestire i propri risparmi

in maniera consapevole. Uno di questi è il “test del DNA finanziario”, un

questionario finalizzato a definire il profilo di rischio dell’investitore sulla base di

quattro fattori: la situazione economico-patrimoniale, la propensione al rischio, le

conoscenze finanziarie e gli obiettivi e la durata dell’investimento.

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101

Dal momento che il servizio offerto dall’azienda è solo di consulenza (nel senso

che non esegue operazioni per conto del cliente), il test non è obbligatorio, ma

indirizzato agli utenti che desiderano individuare la tipologia di investimento

ideale per loro.

Figura 72 – Il risultato del “Test del DNA finanziario”

Fonte: www.adviseonly.com

Advise Only fornisce poi ai propri utenti due fonti di informazioni per aumentare

la propria conoscenza del mondo della finanza sia per quanto riguarda le notizie di

attualità (con un blog dedicato alla discussione dei temi del momento) che la

teoria, con la piattaforma AOpedia che, come suggerisce il nome, si pone

l’obiettivo di diventare un enciclopedia della finanza per i non esperti,

proponendo quindi, con un linguaggio chiaro e semplice, la spiegazione dei

principali concetti relativi all’attività di investimento, agli strumenti finanziari,

all’analisi dei mercati, alla previdenza etc.

Figura 73 – Un esempio di articolo del blog di Advise Only

Fonte: www.adviseonly.com

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102

Per concludere la descrizione delle attività svolte da Advise Only, si ritiene infine

opportuno sottolineare che la piattaforma vanta anche un’interessante offerta B2B,

composta da servizi di consulenza che vanno dal web marketing (ad esempio con

la gestione degli account social e dell'online advertising, ma anche con lo

sviluppo di blog per il settore finanziario o la strutturazione dei siti in maniera

moderna e con un linguaggio adatto) alla profilazione digitale del cliente e

l’utilizzo dei robo per la gestione del rischio e l’asset allocation. Grazie alla

validità di questi servizi e alla crescente importanza per gli operatori del settore di

acquisire competenze in questo campo, Advise Only vanta già clienti del calibro di

UBS, AXA, Amundi, Che Banca!, Zenit SGR e Fund Store.

Money Farm

MoneyFarm è probabilmente la più importante startup FinTech italiana del

momento, come dimostrano i numerosi riconoscimenti ricevuti negli ultimi anni

(dal sigillo d'oro come Migliore Consulente Finanziario Indipendente del 2015 per

soddisfazione dei clienti162, al premio come miglior startup FinTech conferitogli

da StartupItalia! nello stesso anno163), ma anche il primato conseguito con il suo

terzo round di investimento, pari a 16 milioni (un record assoluto per le startup

italiane), derivante dai fondi Cabot Square Capital e United Venture164. Al quale

va comunque aggiunta la recente (settembre 2016) acquisizione da parte di Allianz

di una quota del valore di circa sette milioni di dollari165.

I dati sono quindi promettenti, soprattutto se si considera che la società, fondata

nel 2011, conta già più di 60 dipendenti tra le sedi di Milano, Cagliari e Londra166;

e dichiara una crescita dei clienti del 20% al mese167. Tutto questo rende

verosimile il loro obiettivo di diventare, nei prossimi cinque anni, i leader europei

dei servizi di Digital Wealth Management (territorio all’interno del quale trovano

il loro principale competitor nell’inglese Nutmeg), andando poi magari persino a

sfidare player del calibro dei già citati Wealthfront e Betterment.

162 MilanoFinanza, 2015 (B) 163 MilanoFinanza, 2015 (A) 164 StartupItalia!, 2015 (A) 165 Il Sole 24 Ore, 2016 (E) 166 Il Sole 24 Ore, 2016 (E) 167 StartupItalia!, 2015 (A)

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MoneyFarm è quindi una società di consulenza finanziaria indipendente come

AdviseOnly ma, al contrario di quest'ultima, è anche una SIM. Ciò significa che la

sua attività è autorizzata sia dalla Consob che dalla Banca d’Italia (e dalla FCA,

Financial Conduct Authority, in Inghilterra). Essa non si limita quindi alla mera

attività di consulenza, ma effettua operazioni per conto dei clienti ponendosi

quindi come un’alternativa agli operatori tradizionali.

Figura 74 – L’home page di MoneyFarm

Fonte: www.moneyfarm.com

Anche in questo caso, per spiegare in modo efficace le caratteristiche di questo

servizio, si farà riferimento all’esperienza diretta avuta in merito.

Come per le altre piattaforme, la registrazione richiede solamente l’inserimento di

una mail ed una password. Tuttavia, per iniziare ad investire, l’utente deve

completare cinque step piuttosto lunghi:

1.   L’inserimento dei dati anagrafici

2.   Il completamento del questionario antiriciclaggio

3.   Il caricamento dei documenti per la verifica dell’identità

4.   La compilazione del questionario di profilazione

5.   La visione del contratto e la sua firma digitale

Per quanto tali passaggi possano sembrare articolati, essi derivano dalle varie

normative che interessano l'attività svolta dalla SIM. In relazione al punto due, è

opportuno sottolineare che il fenomeno del riciclaggio dei profitti illeciti e del

finanziamento del terrorismo rappresenta una crescente minaccia per il sistema

finanziario. La dimensione di questo problema ha quindi portato ad un processo di

armonizzazione internazionale della relativa regolamentazione, guidato dal

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Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale (GAFI). In Europa, la disciplina è

contenuta nella Direttiva 2005/60/CE che, in Italia, si è tradotta nei decreti

legislativi n. 109 e n. 231 del 2007168, che dettano le misure volte a prevenire

l'utilizzo del sistema bancario e finanziario per le finalità precedentemente citate.

Il decreto affida inoltre alla Banca d'Italia il compito di controllare il rispetto degli

obblighi, ma anche di emanare disposizioni in tema di adeguata verifica della

clientela da parte degli intermediari e di procedure e controlli interni. Per

adeguarsi a questi obblighi, MoneyFarm chiede agli utenti di compilare un

questionario antiriciclaggio nel quale vengono effettuate domande relative a

professione, tipologia di attività economica svolta, fascia di reddito, esposizione

politica e origine del proprio patrimonio.

Anche la compilazione del questionario di profilazione deriva da una direttiva

europea, ovvero la già citata MIFID. Questa fase permette infatti all'azienda di

valutare l’adeguatezza del servizio per il cliente e personalizzare la propria offerta

in modo da renderlo compatibile con le sue caratteristiche, le quali vengono

determinate in base a quattro criteri principali:169

1)   I bias cognitivi (quanto il cliente è soggetto ad errori cognitivi nelle scelte

d’investimento dovuti ad ansia, overconfidence etc.).

2)   L’avversione al rischio

3)   La situazione reddituale, patrimoniale e finanziaria (fondamentale per

determinare le necessità attuali e future dell’individuo tramite la

considerazione delle sue spese, dei suoi risparmi, delle sue proprietà e del

valore dei suoi debiti).

4)   La conoscenza degli strumenti e dei mercati finanziari

MoneyFarm misura il cliente su questa quattro aree, utilizzando un questionario

diviso in tre sezioni:

ü   Propensione al rischio

In questa parte si chiede all’utente di esprimere la propria opinione (il

livello di accordo) rispetto alle seguenti affermazioni:

1.   “Rischiare non mi spaventa ed è l'unico modo per avere nuove

opportunità”; 168 Banca d’Italia, n.d. 169 MoneyFarm, 2015

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2.   “Per limitare le perdite investo solo in prodotti sicuri, il rendimento

lo ritengo secondario”;

3.   “In caso di andamento negativo del mercato sono disposto a

sopportare perdite anche importanti”;

4.   “In caso di perdite tendo a disinvestire immediatamente”;

5.   “Ogni investimento che faccio mi genera stress e controllo

l'andamento giornalmente”;

ü   Conoscenza ed esperienza

In questa sezione viene chiesto di indicare il grado di istruzione e

segnalare il proprio livello di consenso circa alcune asserzioni:

1.   “Reputo gli ETF un ottimo modo per diversificare gli investimenti,

riducendo il rischio”;

2.   “Ho fatto più investimenti in ETF o in altri prodotti finanziari negli

ultimi anni”;

3.   “Faccio frequenti acquisti o vendite di prodotti finanziari come

ETF, fondi comuni, azioni o obbligazioni”;

4.   “Alcuni ETF denominati in Euro hanno componenti con valute

diverse dall’Euro il cui valore varierà anche in base al cambio”;

ü   Condizione finanziaria

In questa ultima parte del questionario si chiede di inserire l'ammontare

del proprio patrimonio complessivo, la fascia di reddito annua, l'età, la

capacità di risparmio rispetto alle entrate mensili e la natura della

principale fonte di reddito (pensione, rendita, lavoro dipendente etc.).

In base alle risposte date dal cliente nel questionario, l'azienda lo associa ad uno

dei sei profili d’investimento preimpostati (figura 75).

Figura 75 – Le sei tipologie di investitore proposte da MoneyFarm

Fonte: www.moneyfarm.com

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Completati questi adempimenti, la piattaforma richiede quattro giorni per attivare

l’account (necessari per la verifica dell’identità del cliente e l’apertura di un conto

corrente di “appoggio” presso Banca Sella) e permettere quindi di cominciare ad

investire (anche se, nell’esperienza di utilizzo effettuata ai fini di questo elaborato,

l’attesa ha superato la settimana).

Una volta ricevuta la notifica di attivazione, all’utente viene chiesto di definire

l’importo dell’investimento iniziale, il suo (eventuale) contributo mensile,

l’orizzonte temporale dell’investimento (da uno a dieci anni) e il livello di rischio

(tra basso, medio e alto). Il tutto avviene sempre online, con la rapida

compilazione dei campi riportati nella figura 76.

Figura 76 – Le informazioni che permettono a MoneyFarm di definire l’asset allocation

Fonte: www.moneyfarm.com

Questi dati, insieme a quelli derivanti dalla profilazione determinata in base alla

compilazione del questionario, permettono a MoneyFarm di definire l’asset

allocation più adeguata rispetto alle caratteristiche dell’investitore. Nel caso in

questione, sulla base del profilo e dei dati inseriti, l’azienda ha proposto il

portafoglio della figura 77, fornendo anche delle informazioni accessorie circa il

suo rendimento atteso (rispetto all’orizzonte temporale inserito) e quello storico

(basato sui dati raccolti da quando MoneyFarm ha cominciato ad utilizzarlo nel

2012).

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Figura 77 – Il portafoglio proposto da MoneyFarm e le informazioni sul suo rendimento

Fonte: www.moneyfarm.com

Una volta visionato il portafoglio proposto, per iniziare ad investire è necessario

portare la propria liquidità disponibile al livello necessario, tramite un bonifico, ed

accedere poi al “carrello” (figura 78) per concludere l’ordine (ovviamente è anche

possibile fare delle modifiche rispetto all’allocazione indicata).

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Figura 78 – Il carrello dal quale è possibile modificare o accettare il portafoglio proposto

Fonte: www.moneyfarm.com

Sempre da questa pagina è anche possibile ottenere diverse informazioni su ogni

strumento come, ad esempio:

o   Andamento

Figura 79 – L’andamento dell’Asset Class

Fonte: www.moneyfarm.com

o   Area geografica di riferimento

o   Valuta

o   AUM

o   Data di stacco dell’ultimo dividendo

o   Società emittente

o   TER

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109

Figura 80 – Le informazioni relative all’Asset Class

Fonte: www.moneyfarm.com

Una volta effettuato l’investimento, è possibile monitorare quotidianamente il

portafoglio accedendo al proprio profilo sul sito web dell’azienda e quindi a

dettagliate informazioni relative alla performance (figura 81), alle variazioni del

portafoglio (figura 82) e alle operazioni di gestione (che vengono comunque

notificate via sms al cliente, il quale ha così la possibilità di accettare o meno il

ribilanciamento proposto da MoneyFarm).

Figura 81 – Le performance del portafoglio

Fonte: www.moneyfarm.com

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Figura 82 – La variazione del portafoglio e il riassunto delle operazioni di gestione Fonte: www.moneyfarm.com

Oltre che per le modalità di fruizione del servizio, MoneyFarm appare fedele ai

principi delle startup FinTech citati nei precedenti capitoli anche per quanto

riguarda la trasparenza dei costi. L’azienda dichiara infatti la completa assenza di

costi di apertura (e di commissioni sui successivi depositi) o di negoziazione (dato

che le commissioni sono già incluse nell’abbonamento annuale in figura 83), ma

anche la mancanza di vincoli, poiché è possibile prelevare denaro o cancellarsi dal

servizio senza costi aggiuntivi.

Figura 83 – Il costo dell’abbonamento annuale al servizio offerto da MoneyFarm

Fonte: www.moneyfarm.com

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Per dare un’idea più completa della convenienza della sua offerta, MoneyFarm

fornisce sul suo sito anche una tabella comparativa rispetto alle principali

alternative (figura 84). Da essa emerge la validità della sua proposta, soprattutto

se si considera che l’azienda guadagna esclusivamente dall’abbonamento, poiché

non percepisce alcun tipo di provvigione da parte degli emittenti per i prodotti che

consiglia ai propri clienti.

Figura 84 – La tabella proposta da MoneyFarm per comparare il suo servizio con le principali alternative Fonte: www.moneyfarm.com

Tuttavia, se rispetto ai servizi sostitutivi l’offerta è sicuramente competitiva, lo

stesso non si può dire se si confrontano le sue commissioni con quelle dei

principali competitor.

Figura 85 – Un confronto tra le commissioni annuali dei principali player

Fonte: Elaborazione personale

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Come emerge dalla figura 85, infatti, MoneyFarm è sempre svantaggioso rispetto

ai player statunitensi e, tranne che nell’intervallo tra i 3.000 e i 100.000€, anche

dell’unico grande operatore europeo alternativo (Nutmeg).

Probabilmente, il fattore che incide maggiormente su questa differenza di prezzo è

l’importanza della componente umana per il mercato italiano che, come accennato

nel paragrafo precedente, non è ancora in possesso di una cultura finanziaria e

digitale sufficiente a portare ad un utilizzo “di massa” di piattaforme che offrono

un servizio completamente virtuale. Infatti, durante l’esperienza di utilizzo di

MoneyFarm, vi sono stati diversi momenti di contatto (sia via mail che tramite

telefono) con il personale dell’azienda che si è dimostrato disponibile ad

analizzare le esigenze specifiche e gli investimenti preesistenti del cliente, in

modo da fornire un servizio su misura. L’importanza dell’elemento umano (in

contrasto con la visione classica delle piattaforme pure robo) è quindi ribadita

dall’azienda sia per quanto riguarda la relazione con il cliente (che sul sito viene

rassicurato circa la possibilità di contattare in ogni momento il personale tramite

telefono, mail, Skype o i principali social network) che il processo di

investimento, dove svolge un ruolo fondamentale il “comitato investimenti”.

Per spiegare in modo più approfondito quest’ultimo punto, si ritiene necessario

aprire una parentesi sul processo d’investimento utilizzato da MoneyFarm, che

per certi aspetti appare comunque piuttosto simile a quelli analizzati

precedentemente. L'azienda distingue infatti quattro fasi170:

1)   Definizione dell’universo investibile

L’universo investibile scelto da MoneyFarm è rappresentato da tutti gli

ETP (Exchange Traded Products) quotati sulla Borsa Italiana, i quali sono

però sottoposti ad una selezione basata su molteplici criteri (come i costi di

gestione, il metodo di replica, il benchmark etc.) che riduce l'universo

investibile da circa 800 prodotti ad una cinquantina. A tal proposito è

opportuno sottolineare che ETP ed ETF sono due concetti distinti: il

termine ETP, infatti, comprende sia gli ETF che gli ETC (Exchange

Traded Commodities) e gli ETN (Exchange Traded Notes).

170 MoneyFarm, 2015

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Tutti questi strumenti sono accomunati dal fatto che offrono la replica

passiva di un indice ma, a differenza degli ETF, gli ETC e gli ETN non

sono fondi bensì vere e proprie obbligazioni, il cui rendimento è correlato

a un indice171.

2)   Classificazione dell’universo investibile

Le Asset Class utilizzate da MoneyFarm, definite e monitorate dal

“Comitato Investimenti”, sono attualmente undici:

a)   Money Markets (strumenti finanziari a breve termine, caratterizzati

da basso rischio ed elevata liquidità, come i BOT);

b)   Bonds Governativi Euro Investment Grade (obbligazioni emesse

dagli stati dell’Eurozona con scadenza superiore all’anno,

generalmente più rischiose di quelle a breve poiché esposte alle

aspettative sui tassi d’interesse);

c)   Bonds Governativi Euro Inflation Linked (obbligazioni emesse in

Euro e legate all’andamento dell’inflazione);

d)   Bond Societari Euro Investment Grade (bond societari emessi da

istituzioni dotate di un rating);

e)   Bonds Globali Investment Grade (obbligazioni globali emesse da

governi o società, quindi esposte, oltre che ai rischi dei mercati

obbligazionari, anche quelli valutari);

f)   High Yield Bond (obbligazioni non investment grade emesse da

società dei paesi sviluppati, generalmente caratterizzate da

rendimenti e rischi maggiori)

g)   Bond Governativi Paesi Emergenti in Valuta Locale (obbligazioni

emesse dai paesi emergenti in valuta locale, esposte quindi anche

ai rischi legati alle valute dei paesi dal quale provengono)

h)   Equity Paesi Sviluppati

i)   Equity Paesi Emergenti

j)   Metalli preziosi

k)   Materie Prime Generiche (materie prime agricole, energetiche e

industriali)

171 Il Sole 24 Ore, 2016 (D)

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3)   Asset Allocation Strategica

Anche MoneyFarm, come il suo competitor statunitense Wealthfront,

ricorre ad un processo di Asset Allocation Strategica basato

sull'integrazione di input qualitativi e quantitativi. L'azienda definisce così

i rendimenti attesi, la deviazione standard e la correlazione delle asset

class utilizzando come punto di partenza l'andamento degli ultimi dieci

anni. Successivamente, una volta definiti tali input, essa ottimizza i

portafogli utilizzando il già visto algoritmo di Mean Variance

Optimization e applicando, per mitigarne i difetti già analizzati nel

precedente capitolo, sia dei limiti di allocazione (additional weight

constraint) che una procedura di re-sampling. Su quest’ultimo punto è

forse opportuno dedicare un breve approfondimento: il resampling è infatti

un metodo euristico per gestire l’estimation risk che è stato brevettato nel

1999 da Richard e Robert Michaud172. Tale procedura è illustrabile

attraverso le seguenti fasi:173

a)   Il primo step consiste nella predisposizione degli input per

l’ottimizzazione nel modo classico (usando T osservazioni

storiche) e nel conseguente calcolo della frontiera efficiente

tradizionale, composta da M portafogli, assegnando ad ognuno un

indice di posizione k, detto rank (che va quindi da 1 ad M).

b)   A questo punto è necessario creare un nuovo dataset utilizzando il

ricampionamento o, in altre parole, simulando un sentiero casuale

di rendimenti di lunghezza L (con L generalmente uguale a T) per

ogni asset class, mediante L estrazioni da una distribuzione basata

sugli input stimati nel precedente passaggio. Le simulazioni così

ottenute vanno utilizzate per ottenere un nuovo set di input per

l’ottimizzazione e quindi per calcolare una nuova frontiera

efficiente (detta simulated efficient frontier).

c)   Quest’ultimi passaggi devono essere ripetuti un numero H

(elevato) di volte, in modo da ottenere altrettante frontiere

efficienti simulate (figura 86). 172 Basile, I. & Ferrari P., 2013. 173 Basile, I. & Ferrari P., 2013.

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Figura 86 – Le H frontiere simulate Fonte: Basile, I. & Ferrari P., 2013.

d)   Una volta ottenuto questo risultato, si assocerà (in base al rank) un

portafoglio della frontiera efficiente classica a ciascuno degli M

portafogli contenuti nelle H frontiere simulate; e, per ciascuno dei

portafogli con identico rank, si calcolerà la media del peso

assegnato a ogni asset class, pervenendo così alla composizione di

M portafogli ricampionati, i quali costituiscono la REF (resampled

efficient frontier) visibile nella figura 87.

Figura 87 – Il confronto tra la frontiera classica e quella simulata

Fonte: Basile, I. & Ferrari P., 2013.

Questo procedimento è efficace perché genera portafogli maggiormente

diversificati e meno sensibili a lievi modifiche delle stime. Ovviamente

non è però privo di difetti come, ad esempio, quelli derivanti dal fatto che i

nuovi dataset derivano da un’unica fonte informativa (ovvero i rendimenti

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storici) oppure dalla possibilità che alcune medie siano alterate da elementi

“estremi”. Tali problemi non sembrano però sufficienti a minare l’efficacia

del metodo, anche perché sono rispettivamente gestibili tramite

l’integrazione con i metodi bayesiani (citati nel secondo capitolo) o grazie

all’esame della distribuzione dei pesi. Infine, per concludere questa breve

parentesi sul resampling, è opportuno sottolineare come il metodo non sia

completamente oggettivo, poiché richiede la definizione discrezionale del

parametro L (ovvero del numero di osservazioni che devono comporre i

sentieri di rendimenti simulati). Tale decisione non ha un peso

trascurabile, poiché influenza fortemente la composizione dei portafogli, i

quali saranno caratterizzati da una maggiore redditività al crescere del

parametro (figura 88) e da una superiore diversificazione nel caso

contrario. Dati tali effetti, è chiaro che la decisione dovrà essere presa in

base alla fiducia del manager sulle proprie stime, nel senso che

un’aspettativa positiva verso di esse privilegerà un valore di L più alto (per

puntare a rendimenti maggiori) mentre una minor fiducia porterà ad un

livello più basso, in modo da avere maggiore diversificazione.

Figura 88 – Il variare della REF al mutare del parametro L

Fonte: Basile, I. & Ferrari P., 2013.

Ritornando all’asset allocation, dopo aver applicato l’algoritmo di MVO,

il Comitato Investimenti ha a disposizione un certo numero di portafogli

ottimizzati, dai quali seleziona i sei più compatibili con i diversi profili dei

clienti (Figura 89).

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Figura 89 – I sei portafogli proposti da MoneyFarm

Fonte: MoneyFarm, 2015

4)   Asset Allocation Tattica e i ribilanciamenti

Ogni due settimane, il comitato investimenti si riunisce per valutare

l'andamento dei mercati e dei portafogli, ma anche per definire le scelte

tattiche finalizzate a sfruttare le opportunità di breve periodo offerte dal

mercato. I ribilanciamenti che ne conseguono derivano da un'analisi che,

ancora una volta, integra uno strumento quantitativo con i giudizi

discrezionali del comitato. Per quanto riguarda il modello quantitativo,

questo permette di definire delle indicazioni a partire dalle informazioni

che influenzano il mercato quotidianamente. In altre parole, tale strumento

utilizza i dati macroeconomici e di mercato per generare dei segnali sulle

asset class incluse nei portafogli (per farlo individua i fattori che hanno

mostrato storicamente il maggior potere predittivo sui rendimenti della

classe, classificabili tra le quattro categorie nella figura 90).

MoneyFarm dichiara di aver testato la correttezza di questo meccanismo

sui dati storici e di aver ottenuto una previsione giusta nel 55/60% dei casi

(il che lo rende statisticamente efficace)174.

174 MoneyFarm, 2015

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Figura 90 – Le quattro categorie di fattori prese in considerazione dal modello quantitativo

Fonte: MoneyFarm, 2015

A questo punto, se ciò che viene suggerito del modello viene ritenuto

corretto dal comitato, si procede con il ribilanciamento. Ovviamente però,

per ridurre i costi di transazione, l’azienda cerca di effettuare le

movimentazioni con una cadenza non superiore a quella bimestrale (salvo

significativi movimenti di mercato o importanti cambi di strategia).

Il processo d’investimento appena descritto dimostra, come accennato

precedentemente, quanto sia erronea la visione secondo la quale il modello pure

robo miri ad eliminare completamente il ruolo del consulente finanziario. Sembra

infatti molto più probabile, almeno per i prossimi anni, che la componente “robo”

non sostituisca l’advisor, ma lo affianchi andando a svolgere delle attività che

richiederebbero altrimenti un ingente investimento di tempo. In altre parole, anche

se è possibile che in breve tempo, dato anche il ricambio generazionale, i clienti

attribuiscano sempre meno importanza al contatto umano nel momento di

fruizione del servizio (riducendo quindi il ruolo delle risorse umane nell’attività di

front office), il discorso diviene molto meno scontato quando si fa riferimento al

processo di investimento vero e proprio, poiché attualmente risulta ancora difficile

ritenere possibile che la figura del consulente venga completamente rimpiazzata

nel breve termine.

È però importante sottolineare come tale considerazione non significhi che

l’impatto di questi nuovi modelli di business sia meno dirompente per il settore o

“pericolosa” per i player tradizionali. Infatti, alla discussione degli effetti che il

fenomeno FinTech avrà sul Wealth Management e sugli incumbents che ne hanno

dominato il mercato fino ad ora, è dedicato il quarto capitolo.

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CAPITOLO IV L’impatto della FinTech sul settore e le prospettive future

4.1 – L’effetto disruptive della FinTech sul Wealth Management La maggior parte delle pubblicazioni che parlano di startup FinTech, sostengono

che in futuro il settore finanziario subirà una disintermediazione simile a quella

che l’avvento di internet ha portato nel settore dei viaggi, mandando le agenzie (e

in questo caso le banche) fuori mercato. Tale tesi viene spesso riportata tramite

l’associazione dell’aggettivo “disruptive” ai nuovi modelli di business175 basati su

piattaforme digitali, un termine con il quale ci si riferisce generalmente alla

situazione in cui un settore viene alterato da business model innovativi che

mettono in difficoltà le aziende già stabilite sul mercato.

Per analizzare gli effetti della FinTech sul settore può quindi essere opportuno

cominciare discutendo l’adeguatezza del termine disruptive rispetto alla situazione

delineata nei precedenti capitoli. Per farlo è necessario presentare la “Disruptive

Innovation Theory” proposta nel 1995 dal docente di Harvard Clayton

Christensen176. Secondo l’autore, la disruption è un processo tramite il quale

un’azienda dotata di risorse limitate utilizza un business model innovativo per

servire una fascia di mercato non soddisfatta (generalmente il low end) tramite un

servizio qualitativamente inferiore a quello fornito dagli operatori che dominano il

mercato, ma anche generalmente più economico. Ciononostante, gli incumbents

non prestano attenzione a questo cambiamento, poiché sono convinti che tale

innovazione non rappresenti una minaccia per le fasce di mercato sulle quali essi

si focalizzano. Tuttavia, con il tempo, il servizio delle aziende innovative

comincia ad interessare anche la parte mainstream del mercato andando ad

erodere progressivamente la quota degli incumbents, fino a minacciarne la

sopravvivenza. Questo accade perché gli operatori tradizionali tendono ad evitare

la competizione nel low end del mercato, spostandosi verso il segmento più

profittevole tramite innovazioni incrementali (dette “sustaining”).

175 “La logica dell’azienda, il modo in cui opera e crea valore per i suoi stakeholder” - R. Casadesus-Masanell & J. E. Ricart., 2010 176 C. Christensen, M. Raynor & R. McDonald, 2015

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Tale mossa elimina però il “prezzo ombrello” che salvaguardava i margini dei

“disruptors” scatenando una guerra dei prezzi tra i nuovi entranti, che li spinge a

muoversi verso la parte mainstream del mercato per continuare ad operare in

modo profittevole (figura 91).

Figura 91 – Un confronto tra le traiettorie dei nuovi entranti e quelle degli incumbents nel mercato Fonte: https://hbr.org

Uno dei casi più utilizzati per descrivere l’innovazione disruptive è quello di

Uber, il noto servizio di trasporto privato che ha messo in crisi i Taxi. Tuttavia, è

interessante sottolineare come lo stesso Christensen ritenga tale esempio errato,

per almeno due motivi:

1)   Uber non è entrato nel low-end del mercato, ma direttamente nella fascia

mainstream;

2)   Non è nato come un servizio qualitativamente inferiore, ma addirittura

superiore (data la comodità di prenotare e pagare utilizzando solamente

l’applicazione) rispetto a quello tradizionale.

Tali osservazioni dimostrano come il termine “disruptive” venga generalmente

utilizzato in modo impreciso. Può quindi essere interessante cercare di

determinare se tale problema riguardi anche l’associazione di questo concetto

rispetto alle aziende FinTech viste finora. Dal momento che le startup sono per

definizione delle aziende con risorse limitate che entrano nel mercato con un

modello di business innovativo, rimane da chiedersi se esse:

a)   Vanno ad accontentare una fascia di mercato insoddisfatta (low end) o

addirittura non servita (new market) tramite un servizio che è

qualitativamente inferiore a quelli tradizionali, ma anche più economico?

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Una delle conseguenze che viene più spesso associata alla rivoluzione

FinTech è quella della “democratizzazione della finanza”. Tale concetto è

particolarmente appropriato se si fa riferimento al Wealth management,

che costituisce una industry storicamente riservata agli investitori con

capacità d'investimento importanti. Infatti, le nuove piattaforme digitali

viste nei precedenti capitoli hanno allargato esponenzialmente la platea di

potenziali clienti di tali servizi, come dimostrano i dati relativi ai loro

AUM. Tale affermazione richiede però una precisazione: l’idea secondo

la quale i robo advisor avrebbero gestito il patrimonio dei millennials si è

dimostrata piuttosto errata. Il cliente tipo di questo genere di piattaforme

ha infatti tra i 40 ei 55 anni177, un target che è quindi molto vicino a quello

dei servizi tradizionali: 59-62 anni in Europa e 50-55 anni negli USA178. I

dati dimostrano inoltre che la disponibilità patrimoniale dei clienti è molto

varia, arrivando spesso a capitali medio-alti179. La determinazione del

posizionamento di questi servizi è quindi più complessa di quanto previsto

inizialmente, ma è comunque prevalentemente collocabile nel low end del

mercato, composto dai cosiddetti underserved180, rappresentabili in questo

caso dal segmento delle persone che chiedono servizi di gestione del

risparmio più economici e con soglie minime di investimento più basse.

Il dibattito è piuttosto dinamico anche per quanto riguarda la qualità del

servizio. A tal proposito, il tema maggiormente discusso è il peso della

mancanza del contatto umano. Questa controversia vede, da un lato, i

sostenitori dei robo affermare che la componente umana causa errori

derivanti dalla sovrastima dei dati o dall'eccesso di confidenza nelle

proprie scelte; mentre, dall'altro, la convinzione che solo il consulente

possa comprendere appieno le reali caratteristiche ed esigenze del

risparmiatore, dato che i questionari compilati online non possono

sostituire il colloquio tra due persone. A quest’ultima “corrente di

pensiero” appartiene anche l’opinione secondo la quale la gestione attiva

177 Citywire, 2016 178 AIPB, 2015 179 AIPB, 2015 180 EY, 2015

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effettuata da un consulente esperto porti a risultati decisamente migliori

della gestione passiva utilizzata nelle piattaforme digitali. Tale credenza è

però smentita dai dati, secondo i quali le gestioni attive tendono a sotto-

performare sistematicamente rispetto a quelle passive181, con la

conseguenza che entro il 2020 si prevede che, degli AUM globali, la quota

investita in gestioni passive passerà dal 11% al 22%182 (anche se tale

risultato non riguarda le performance dei robo rispetto a quelle dei

consulenti, ma semplicemente i risultati di due strategie diverse). Rimane

comunque inattaccabile l’importanza psicologica per il cliente di

confrontarsi con un'altra persona, la quale conosce i suoi obiettivi e la sua

situazione finanziaria complessiva. Tale fattore è ancora fondamentale,

tanto che due terzi degli intervistati durante una ricerca della Phoenix

Marketing International, sostengono di non riuscire ancora a fidarsi di un

servizio completamente digitale183. È però fondamentale ribadire che robo

advisor non significa "automazione totale del processo d'investimento",

perché quasi sempre la componente umana rimane centrale sia nelle scelte

strategiche di gestione che nella consulenza al cliente184. Il valore aggiunto

delle piattaforme robo deriva infatti dall'utilizzo della tecnologia per

automatizzare le fasi fortemente "time consuming" e potenzialmente

influenzate dall'emotività, rendendo più efficaci le attività di profilazione,

diversificazione e gestione del portafoglio. La logica appena delineata

sembrerebbe quindi eliminare, almeno in parte, l’argomentazione secondo

la quale l’impossibilità di confrontarsi con una persona fisica

svantaggerebbe le piattaforme robo. Tale affermazione viene spesso

utilizzata anche in riferimento ai crolli del mercato, dei momenti nei quali

si ritiene fondamentale la presenza di un consulente capace di rassicurare i

clienti e sconsigliare operazioni guidate dall’emotività. Tuttavia, secondo

un articolo del Sole 24 Ore relativo al “lunedì nero” delle borse

verificatosi il 24 agosto 2015, le principali piattaforme di robo advice

181 The Wall Street Journal, 2016 182 PWC, 2014 (A) 183 The Wall Street Journal, 2016 184 MondoETF, 2016

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(Wealthfront e Betterment) si sono limitate ad informare gli investitori con

una mail, spiegando che le fluttuazioni del mercato sono avvenimenti

normali che non devono provocare reazioni impulsive (lo stesso

comportamento è stato seguito da MoneyFarm in seguito agli esiti del

referendum italiano del 4 dicembre 2016). In base a quanto dichiarato

dalle due società, questa accortezza ha funzionato, poiché non si è

registrato un volume insolito di chiamate o mail dai clienti185. Infine, il

tema della componente umana comprende anche la questione del conflitto

d’interesse, che viene spesso utilizzata dai fautori delle piattaforme digitali

come principale argomento a favore dei robo. In effetti, è indiscutibile che

un asset allocation definita da un algoritmo dovrebbe essere estranea ad

attività di marketing di determinati prodotti, tuttavia l’assenza di conflitto

d’interessi non dipende tanto dalla tecnologia quanto dall’indipendenza

dell’azienda. La già citata MoneyFarm è infatti una SIM di consulenza

indipendente, ma vi sono altri robo advisor (come Yellow Advice) di

proprietà di banche, che potrebbero quindi essere comunque interessati dal

problema (dato che gli algoritmi possono essere facilmente strutturati in

modo da “spingere” determinati prodotti). Nonostante tali osservazioni, è

innegabile che vi sia una crescente sfiducia nei confronti della consulenza

professionale, dovuta comunque a molteplici fattori: dall’impatto dei

media sulla reputazione degli istituti tradizionali, alle aspettative poco

realistiche dei clienti, derivanti da un basso livello di comprensione delle

dinamiche del settore finanziario (nel senso che i bassi rendimenti imposti

dal contesto macroeconomico “stridono” con le importanti commissioni

dei consulenti tradizionali, spingendo un numero sempre più alto di

investitori ad abbandonarli186). Non è però detto che tale tendenza possa

favorire le piattaforme digitali, almeno nel breve termine. Prendendo come

esempio i dati italiani, emerge infatti una visione dei robo piuttosto

distorta (come si può notare dalle risposte della Figura 92) e caratterizzata

185 Il Sole 24 Ore, 2015 (A) 186 Il Sole 24 Ore, 2016 (C)

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dalla condivisione quasi totale (87% degli intervistati) del fatto che

“Nessuna macchina può sostituire l’intuizione umana»”187.

Figura 92 – Le opinioni degli italiani sui Robo Advisor

Fonte: Corriere economia, 2016

Nella valutazione della qualità di questi servizi, va infine considerata la

crescente importanza della user experience semplice e intuitiva fornita

dalle piattaforme digitali, della comodità derivante dalla possibilità di

accedervi tramite qualsiasi device e del valore aggiunto derivante

dall’integrazione con servizi accessori, come blog ed editoriali a tema

finanziario. Anche questi pregi apparentemente inattaccabili sono però

stati oggetto di critiche, prevalentemente basate sulla possibilità che tale

semplicità di utilizzo porti il risparmiatore a ritenere l'attività meno

complessa di quanto lo sia realmente, pensando quindi di star gestendo una

situazione che in realtà non comprende e diventando così vittima del

cosiddetto fenomeno "black box"188 (anche se forse non è poi così comune

il caso in cui il consulente umano vada a spiegare nel dettaglio i modelli

matematici e statistici utilizzati nella fase di strutturazione del portafoglio

al proprio cliente). L’individuazione di un servizio qualitativamente

migliore tra quello tradizionale e quello FinTech è quindi piuttosto

complessa e soggettiva. Ciò che si può affermare con discreta sicurezza è

che la qualità percepita dei servizi robo non sia superiore a quella delle

offerte tradizionali (come dimostrato dalla ricerca del CFA189, secondo la

187 Corriere Economia, 2016 188 Il Sole 24 Ore, 2016 (B) 189 CFA, 2016 (B)

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quale il 63% degli intervistati ritiene che la qualità sia minore o uguale a

quella dei servizi tradizionali).

b)   Si stanno dirigendo verso la fascia mainstream del mercato, dopo esser

state sottovalutate o addirittura ignorate dagli incumbents?

Per delineare l’opinione degli incumbents è possibile far riferimento ad

alcune recenti ricerche. Tra queste, è possibile citare l'indagine "Robo-

Advisor vs Human-Advisor" di PWC, che ha intervistato più di mille

consulenti sul territorio italiano190, ottenendo delle statistiche piuttosto

coerenti (figura 93) con la visione di Christensen.

Figura 93 – Cosa pensano i consulenti finanziari italiani dei robo

Fonte: www.pwc.com

Adottando invece una prospettiva globale, è possibile far riferimento alla

recente ricerca del The economist, che ha intervistato sia bankers

“tradizionali” che executives di aziende Fintech, ottenendo un quadro

meno drammatico, in cui la grande maggioranza dei banchieri dichiara di

essere consapevole circa il fatto che la tecnologia cambierà in modo

rilevante il settore. Di questi, solo il 30% ritiene che il fenomeno sia

sopravalutato o che le banche continueranno a dominare il mercato. La

quota restante prevede infatti uno scenario di coesistenza o integrazione

(solo il 5% ritiene infatti che le aziende FinTech arriveranno a dominare il

settore) tra i diversi modelli191.

190 PWC, 2015 191 The economist, 2015

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Un aspetto sicuramente interessante di tale ricerca, è che quando queste

domande sono state poste ai nuovi entranti, i risultati si sono ribaltati: il

58% degli intervistati ritiene infatti che le banche continueranno a

presidiare il mercato o che l’hype attorno alla FinTech sia esagerato192.

Questa differenza di visioni, che sembra delineare una prospettiva più

prudenziale da parte dei nuovi player ed una visione piuttosto

“preoccupata” degli operatori tradizionali, s’inverte però quando il tema in

oggetto è l’adeguatezza delle risposte delle banche. Secondo il 59% dei

player FinTech le banche non stanno infatti reagendo in modo adeguato,

percentuale che scende al 54% quando gli intervistati sono i banchieri

stessi193 (figura 94).

Figura 94 – La differenza di visioni circa l’appropriatezza della risposta delle banche

Fonte: www.eiuperspectives.economist.com

È quindi chiaro come sia difficile comprendere se gli incumbents abbiano

una visione abbastanza chiara del potenziale del fenomeno FinTech, anche

se in effetti è forse possibile affermare che vi sia una certa distanza rispetto

allo scenario proposto dalla letteratura, in cui gli operatori tradizionali

ignorano l’innovazione o la sottovalutano fortemente.

La situazione è sicuramente più chiara se si fa invece riferimento alla

possibilità che le piattaforme robo si spostino verso la parte più

profittevole del mercato. Secondo il World Wealth Report 2016 di

Capgemini, negli ultimi dodici mesi, la domanda di servizi di automated

advisory da parte degli HNWI è passata dal 48,6% al 66,9% (in Asia si è

192 The economist, 2015 193 The economist, 2015

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addirittura arrivati al 79,6%)194. Un dato che è ancora più rilevante se si

pensa che solo il 30,5% (comunque in crescita rispetto al 20% del 2015)195

dei Wealth managers ritiene che i propri clienti considerino la possibilità

di ricorrere a servizi automatizzati.

Figura 95 – Il confronto tra la visione degli HNWI e quella dei Wealth Manager

Fonte: www.worldwealthreport.com

Osservando questi dati emerge quindi come vi sia ancora una certa

resistenza al cambiamento che, se sommata al dato secondo il quale solo il

39% dei clienti HNWI196 è soddisfatto del proprio consulente finanziario,

fa emergere con chiarezza la vulnerabilità del settore rispetto ai nuovi

entranti FinTech. Questo pericolo dipende sicuramente dalla tendenza

degli operatori a ritenere che il modello classico, basato sul capitale umano

e sull'assicurazione di un forte livello di discrezione per il cliente, possa

rimanere invariato anche per il futuro. E i dati lo dimostrano:   solo un

player su quattro utilizza canali diversi dal telefono e dalle mail

194 Capgemini, 2016 (F) 195 Capgemini, 2016 (F) 196 PWC, 2016 (E)

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(addirittura solo uno su dieci utilizza i social media) e la maggior parte sta

cominciando solo ora ad investire in portali web e applicazioni mobile197.

La convinzione che questo sia un business “person-to-person” potrebbe

quindi facilitare l’ampliamento delle quote di mercato degli operatori

FinTech, come emerge dal fatto che il 65% degli HNWI si dice disposto a

lasciare il proprio Wealth Manager a causa della mancanza di un servizio

digitale multicanale198 (figura 96).

Figura 96 – La propensione degli HNWI a lasciare il proprio Wealth Manager

Fonte: www.capgemini.com

Se gli operatori in questione continuassero ad ignorare il problema,

potrebbero arrivare a perdere (nel peggior scenario ipotizzato dalle

proiezioni di Capgemini) addirittura il 56% dei profitti199.

Un’analisi simile è proposta anche dalla società di consulenza A.T.

Kearney, che ha effettuato delle previsioni di impatto delle piattaforme

robo sui player tradizionali ipotizzando due scenari alternativi: uno in cui

197 PWC, 2016 (E) 198 Capgemini, 2016 (F) 199 Capgemini, 2016 (F)

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gli incumbents mantengono la loro posizione di mercato e l’altro in cui

decidono di competere direttamente con i nuovi entranti (figura 97).

Figura 97 – Le perdite in ricavi degli incumbents (mercato USA) nei due scenari ipotizzati

Fonte: www.atkearney.com

Questi scenari sono comunque legati all’ipotesi secondo la quale i robo

raggiungeranno la parte mainstream del mercato nei prossimi tre/cinque

anni (figura 98).

Figura 98 – Le proiezioni relative alla quota di mercato dei robo nel mercato USA

Fonte: www.atkearney.com

In conclusione, è possibile affermare che i servizi digitali offerti dalle

piatteforme FinTech interesseranno sicuramente anche la parte

mainstream del settore e che gli operatori tradizionali dovrebbero quindi

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aumentare la loro proattività nel rispondere a tale minaccia. Quest’ultima

affermazione appare particolarmente fondata se si confronta l’attenzione a

questo fenomeno delle aziende di Wealth management rispetto a quelle

appartenenti agli altri settori del mondo finanziario (figura 99).

Figura 99 – La percentuale di accordo circa il fatto che l’azienda consideri prioritario rispondere al FinTech

Fonte: http://www.pwc.com

Quanto detto finora sembrerebbe quindi supportare l’ipotesi secondo la

quale il termine disruptive possa essere correttamente associato alle

innovazioni FinTech che sono state oggetto di questo elaborato

(ricordando che comunque tale classificazione è basata su una visione

piuttosto soggettiva). A questo punto si ritiene quindi opportuno spostare

l’attenzione sul futuro, cercando di valutare se sia corretto affermare che il

settore subirà una disruption (dato che, come afferma lo stesso

Christensen, il fatto che un’innovazione sia classificabile come disruptive

non implica necessariamente che essa riesca davvero a sconvolgere il

mercato e “spodestare” gli operatori tradizionali). L’ostacolo rispetto a tale

risultato non sembra comunque derivante tanto dal mercato, il cui appetito

per le soluzioni tecnologiche è stato più volte ribadito nel corso di questo

elaborato, quanto dalla reazione effettiva degli incumbents, che sarà

oggetto del prossimo paragrafo.  

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4.2 – La risposta degli incumbents La visione della letteratura manageriale

Prima di valutare l’effettiva risposta degli incumbents, si ritiene interessante aprire

una breve parentesi relativa alle strategie che, secondo la letteratura, gli operatori

già stabiliti sul mercato dovrebbero intraprendere per rispondere alla minaccia

delle innovazioni disruptive portate sul mercato dai nuovi entranti. In genere,

infatti, gli incumbents reagiscono affiancando al proprio modello di business

originario una nuova offerta, simile a quella dei nuovi entranti. Secondo

l'economista M. Porter, tale strategia risulta però spesso fallimentare a causa delle

difficoltà derivanti dal gestire due diversi Business Model contemporaneamente,

soprattutto quando essi confliggono reciprocamente portando, ad esempio, ad un

fenomeno di "cannibalizzazione"200.

Secondo Christensen, la soluzione consiste nel tenere i due diversi modelli

separati, in modo da dare alla nuova unità la possibilità di sviluppare una propria

strategia, una propria cultura e dei propri processi senza interferenze da parte

dell’azienda “madre”. Il problema principale di tale soluzione è il mancato

sfruttamento delle possibili sinergie che si sarebbero potute creare tra i due

modelli. Per mitigare tale mancanza, è stata quindi proposta una soluzione

intermedia, in cui si creano due unità di business separate che rimangono però

collegate da alcuni meccanismi di integrazione.

Prima di investire tempo e risorse in tale strategia, l’azienda dovrebbe però

rispondere ad alcuni quesiti fondamentali, tra i quali:201

1)   Conviene entrare nel segmento di mercato creato dal nuovo Business

Model?

I mercati creati dai nuovi modelli di business non sono necessariamente

più attraenti di quelli preesistenti e i consumatori attratti da tali nuovi

modelli non rappresentano obbligatoriamente un nuovo target da

raggiungere. Gli incumbents dovrebbero quindi valutare attentamente la

scelta di entrare o meno, analizzando non solo l’attrattività del nuovo

200 C. Markides & D. Oyon, 2010 201 C. Markides & D. Oyon, 2010

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spazio di mercato, ma anche se le loro competenze e risorse gli

permetterebbero di competervi efficacemente.

2)   Per entrare nel nuovo segmento è possibile mantenere il business model

originario?

Nel prendere questa decisione, l’azienda dovrebbe chiedersi se i nuovi

consumatori rappresentino un mercato completamente differente oppure se

costituiscano semplicemente un altro segmento da servire con il Business

Model preesistente. Per quanto la risposta a tale domanda sia piuttosto

soggettiva, generalmente dipende dalla dimensione del mercato e dal suo

tasso di crescita previsto (più tali valori sono alti, più conviene trattare il

nuovo spazio come un mercato “a sé”), ma anche dall’effettiva capacità

dell’attuale business model di servire entrambi i segmenti in modo

efficace.

3)   Se è necessario modificare il Business Model, è sufficiente replicare

quello del disrupter?

Quando le aziende decidono di entrare nel nuovo spazio con un Business

Model diverso, spesso si limitano ad utilizzare quello del disrupter. Questo

però è generalmente un errore perché contrastare un nuovo entrante

utilizzando la sua stessa strategia, molto difficilmente si rivelerà una

soluzione vincente. L’azienda dovrebbe invece utilizzare un Business

Model diverso sia dal suo preesistente che da quello del disrupter,

entrando nel nuovo mercato con un modello completamente originale.

4)   In che modo è opportuno separare il nuovo business model da quello

tradizionale?

Come accennato precedentemente, la separazione permette alla nuova

unità di sviluppare una propria strategia, una propria cultura e dei propri

processi senza interferenze. Tuttavia, essa ha un costo, soprattutto in

termini di mancate sinergie. La soluzione risiede nell’individuazione di un

compromesso che permetta di tenere le unità abbastanza separate da

evitare i conflitti, ma non da impedire lo sviluppo di sinergie. Questo

risultato è raggiungibile solo se l’azienda cerca di riflettere in modo

creativo sulla separazione di alcuni elementi critici, come la sede fisica, il

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nome, il livello di partecipazione della controllante, le attività della value

chain condivise e l’ambiente organizzativo. Ovviamente non c’è una “one

best way”, poiché è necessario valutare le specificità di ogni singolo caso.

L’importanza del modello di business con il quale si veicola la nuova tecnologia

sul mercato dipende dal fatto che essa non ha un valore intrinseco, ma relativo

rispetto alla logica con la quale viene utilizzata per creare valore202. La principale

implicazione di quest’affermazione è che un’azienda che utilizza un Business

Model appropriato per portare sul mercato una nuova tecnologia può ottenere

risultati migliori di quelle che l’hanno usata per prime. Data questa premessa, è

quindi chiaro che il motivo per cui spesso si verifica la disruption risiede nella

resistenza al cambiamento derivante dal conflitto tra il nuovo modello di business

e la configurazione tradizionale dell’azienda (spesso causato anche dal fatto che

all’inizio la nuova tecnologia permette dei margini inferiori, quindi spinge

l’impresa a favorire il modello usato tradizionalmente)203. Accanto a questa

visione se ne può però affiancare una alternativa, supportata dall’economista

statunitense H. Chesbrough, secondo il quale il problema risiede nel fatto che il

successo ottenuto dall’azienda con il suo modo di operare originario porti alla

definizione di una “logica dominante” che le permette di operare con efficacia in

un contesto incerto, ma la induce anche ad ignorare tutto ciò che non è in linea

con tale orientamento rischiando così di perdere opportunità importanti.

L’effettiva risposta degli incumbents

A questo punto si ritiene interessante confrontare quanto appena delineato con la

reazione effettivamente riscontrabile tra i maggiori incumbents. Come esempio di

riferimento è possibile utilizzare quello di Schwab e Vanguard che, come descritto

all’interno del capitolo due di questo elaborato, hanno reagito all’innovazione

affiancando al proprio modello di business originario un’offerta ibrida che andasse

a contrastare i nuovi entranti della FinTech (nello specifico Wealthfront e

Betterment). Le due aziende sono quindi state in grado di reagire rapidamente,

superando la resistenza al cambiamento ed entrando nel segmento con un modello

diverso sia dal proprio tradizionale che da quello pure dei nuovi competitor. 202 H. Chesbrough, 2009 203 H. Chesbrough, 2009

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Il risultato è stato sorprendente, come dimostrano i dati: negli USA, gli AUM dei

robo advisors sono di circa 45 miliardi di dollari, dei quali 36 sono però detenuti

proprio da Vanguard e Schwab, due incumbents. Infatti, nonostante la forte

crescita, Wealthfront e Betterment detengono ancora AUM per soli circa 2,5

miliardi di dollari204 ciascuno.

Figura 100 – Le % di AUM detenute dai Robo Advisors negli USA nel 2016

Fonte: www.deloitte.com

Ovviamente dietro tale risultato ci sono anche delle conseguenze negative, dovute

prevalentemente all’inevitabile effetto di cannibalizzazione in cui stanno

incorrendo gli incumbents. Tuttavia tale problema viene visto come un sacrificio

immediato a fronte di un beneficio nel lungo termine205 (dato che il passaggio dei

clienti da un servizio all'altro porta a dei mancati guadagni, ma almeno mantiene

l'investitore legato all'azienda). Inoltre è opportuno considerare che tale

transizione porta ad una naturale segmentazione del cliente che potrebbe aiutare

l'azienda a razionalizzare la propria offerta.

La situazione appena descritta rende quindi possibile affermare che “il futuro dei

servizi robo è promettente, ma non necessariamente per i nuovi entranti”206, nel

senso che è poco discutibile che tali servizi si affermeranno in futuro, ma lo stesso

non si può dire per i new comers, poiché per gli incumbents è piuttosto semplice

204 Deloitte, 2016 (C) 205 KPMG, 2016 (A) 206 Bloomberg, 2016 (A)

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adottare delle soluzioni tecnologiche e sfruttare la loro posizione di forza per

limitare l’espansione delle startup.

Questo tipo di reazione si è quindi dimostrato vincente e potrebbe rappresentare

un modello da seguire per gli altri operatori. È però interessante sottolineare come

la creazione “in-house” di un servizio digitale sia (almeno attualmente) una

soluzione adottata solo dal 9% delle aziende207 (figura 101).

Figura 101 – Le modalità di risposta degli incumbents secondo il survey di PWC Fonte: www.pwc.com

La maggior parte delle imprese (tra quelle che hanno deciso di rispondere alla

minaccia), hanno infatti scelto di lanciare una propria offerta digitale tramite

l’acquisizione o la partnership con un nuovo entrante. Tale dato è coerente con la

visione secondo la quale la FinTech non rappresenta un competitor, ma un

potenziale partner (figura 102).

Figura 102 – Come le banche percepiscono la FinTech Fonte: www.worldretailbankingreport.com

207 PWC, 2016 (B)

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Per completare il tema dell’effettiva risposta messa in atto dagli incumbents si

ritiene infine opportuno effettuare una breve parentesi circa la situazione in Italia.

Facendo infatti riferimento ai principali gruppi bancari, non mancano i segnali di

attenzione verso il fenomeno FinTech, come dimostra l’investimento di 30

milioni208 di Intesa San Paolo per la creazione di Neva Finventures (la società per

azioni che avrà il compito di selezionare e finanziare le imprese FinTech più

promettenti del settore) e la partnership con l’incubatore israeliano The floor209.

Ancora prima di Intesa, a muoversi è stata Unicredit che nel 2014 ha creato il

"FinTech Accelerator", l'acceleratore corporate del Gruppo, finalizzato a

supportare i progetti dedicati al settore bancario delle migliori startup FinTech

della nazione210. Un impegno ribadito poi nel 2016, con l’investimento di 200

milioni di euro211 (in partnership con la società di consulenza Anthemis) per la

creazione di UniCredit evo (equity venture opportunities), che finanzierà sia

società FinTech già mature che start-up di nuova costituzione. L’azienda che

sembra avere i progetti più ambiziosi è però Generali, che nel 2015 ha annunciato

investimenti in tecnologie finanziarie per oltre un miliardo212 (entro il 2019), che

verranno gestiti in partnership con importanti venture capital internazionali; e nel

2016 ha siglato un accordo con Microsoft finalizzato ad una “Business Digital

Transformation”213 che dovrebbe portare alla creazione di una piattaforma

innovativa aperta e flessibile che permetterà di raggiungere l’eccellenza operativa

sia nelle attività di back office che in quelle di vendita e assistenza ai clienti.

Focalizzando l’attenzione sul Wealth management, la risposta più interessante è

probabilmente quella di CheBanca!, con il lancio del servizio Yellow Advice,

posizionabile nel segmento degli Hybrid robo e finalizzato a “intercettare i

risparmiatori con un patrimonio tra 50 mila e 100 mila euro214 che spesso

vengono trascurati dai servizi di consulenza tradizionali, perché ritenuti clienti

poco redditizi”.

208 Il Sole 24 Ore, 2016 (F) 209 Edibeez, 2016 210 Unicredit, 2014 211 Unicredit, 2016 212 Financial Times, 2015 213 iFinanceWeb, 2016 214 Corriere della sera, 2016 (A)

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4.3 – Le prospettive future: Disruption o Fintegration? Il fenomeno FinTech all’interno del Wealth Management è ancora agli stadi

iniziali del suo ciclo di vita (figura 103), di conseguenza risulta piuttosto difficile

effettuare delle previsioni circa l’effettivo impatto che tali innovazioni avranno sul

settore.

Figura 103 – L’attuale fase del ciclo di vita degli automated advisor

Fonte: www.capgemini.com

Tuttavia è possibile affermare che la prospettiva di disintermediazione totale

riportata dai media, derivi più che altro dall’hype legato al fenomeno. Con ciò non

si vuole ridurre la portata del cambiamento che la FinTech apporterà al settore, ma

sottolineare che attualmente la tendenza non sembra essere indirizzata ad una

disruption, quanto ad una “Fintegration”215. Ovvero una complementarità tra i

servizi tradizionali e quelli digitali, che permetterebbe ai player del settore di

creare nuovi modelli di business con i quali aumentare la soddisfazione degli

attuali clienti e attrarne di nuovi, aumentando le entrate e ottimizzando i costi. La

qualità del servizio sarebbe forse l’aspetto maggiormente influenzato dalla

Fintegration, poiché:

o   La digitalizzazione di numerosi processi di back e front office

permetterebbe ai consulenti di concentrarsi sul cliente (figura 104).

o   L’offerta potrebbe essere resa accessibile all’investitore tramite interfacce

semplici ed intuitive, multicanale e integrate con servizi aggiuntivi (dal

reporting alla possibilità di contattare l’azienda tramite i social).

215 Ferrari, 2016

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Figura 104 – Le attività digitalizzabili e quelle che invece rimarrebbero di competenza dei consulenti

Fonte: www.capgemini.com

Per ottimizzare il risultato, gli incumbents dovrebbero però considerare alcuni

fattori critici:

o   La modalità con la quale costruire la propria offerta digitale216

1.   Sviluppare una soluzione in-house

Le aziende possono sviluppare internamente una propria

piattaforma digitale, come ha fatto Vanguard. Questa scelta

richiede però un’attenta valutazione dei costi e degli effetti sia

sull’organizzazione interna che sulla clientela attuale.

2.   Stringere una partnership con un robo-advisor

Questa soluzione è più rapida e meno impegnativa, sia in termini di

costi che di riassetto organizzativo. Tuttavia, a fronte dei vantaggi

in termini di rischi e costi più bassi, vi sono anche degli svantaggi

derivanti dalla minor flessibilità, dalla dipendenza rispetto al

partner e dalla possibilità che gli obiettivi futuri delle parti possano

entrare in contrasto.

3.   Acquistare un robo-advisor

L'acquisto di un robo advisor permette di arrivare sul mercato in

maniera molto rapida, tuttavia espone al rischio derivante dalle

difficoltà che si potrebbero riscontrare durante il processo di

integrazione della nuova piattaforma con l'infrastruttura

preesistente. Uno dei casi più noti di utilizzo di questa strategia è

l'acquisto di FutureAdvisor da parte di BlackRock (il più grande

asset manager del mondo) nel 2015. 216 Deloitte, 2016 (C)

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139

o   Il posizionamento della propria offerta di robo-advice217

A tal proposito l’azienda dovrebbe considerare con attenzione se proporre

il servizio come una semplice integrazione di quello tradizionale, come

una soluzione completamente autonoma (decidendo in questo caso se

utilizzare o meno lo stesso brand) oppure come un modello ibrido (o

addirittura come una proposta “entry-level” finalizzata a portare poi il

cliente verso servizi più sofisticati). Per prendere questa decisione è

fondamentale valutarne gli effetti rispetto alla propria infrastruttura in

essere e definire il target al quale si vuol fare riferimento. In base a tali

valutazioni sarà poi necessario delineare la tipologia di esperienza che si

intende fornire agendo su leve come il livello di supporto al cliente, il

pricing, etc.

o   Come ottimizzare l’integrazione tra la componente umana e quella digitale

Dal momento che gli incumbents hanno già al loro interno dei consulenti

finanziari, diviene fondamentale la valutazione del miglior modo di

integrare la loro attività con quella dei robo.

È quindi possibile concludere affermando che molto probabilmente il futuro del

settore finanziario sarà caratterizzato da un rapporto di collaborazione tra le

aziende FinTech e gli incumbents, una partnership sulla quale potrebbero

strutturarsi degli ecosistemi (figura 105) all’interno dei quali le banche

costituirebbero il “fulcro” e le aziende FinTech tenderebbero a specializzarsi in

nicchie specifiche.

Figura 105 – Gli ecosistemi che potrebbero caratterizzare il futuro settore bancario

Fonte: www.capgemini.com

217 Accenture, 2015

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Conclusione

Da quanto emerso all’interno dell’elaborato, è possibile concludere che il

fenomeno FinTech cambierà il settore del Wealth Management in modo

sostanziale. Ciò significa che gli operatori tradizionali che non riusciranno a

superare le resistenze al cambiamento e a digitalizzare sia la propria offerta che i

propri processi saranno inevitabilmente destinati al fallimento. È quindi lecito

aspettarsi un forte riassetto del settore in favore dei player che sono stati più

veloci nel reagire all’innovazione.

A fronte di tale scenario, è però opportuno sottolineare come i nuovi entranti della

FinTech non sembrino in grado di sovvertire la posizione degli attuali leader di

mercato. Infatti, più che ad uno scenario di disruption, è probabile che si assisterà

ad una Fintegration, ovvero all’istaurazione di un contesto di collaborazione,

secondo una logica “win-win”, in cui le aziende innovative non andranno a

competere direttamente con le banche, ma entreranno a far parte del loro

ecosistema, tendendo a specializzarsi in funzioni specifiche. Questa possibilità

sembra essere quella più plausibile, anche perché fortemente supportata dai dati a

disposizione, secondo i quali la maggior parte degli incumbents che hanno

risposto alla minaccia lo hanno fatto tramite una partnership con un’azienda

innovativa. Ciò non implica però che gli operatori tradizionali possano ridurre la

propria attenzione e i propri sforzi per stare al passo con il cambiamento; è infatti

lecito ipotizzare che il settore finanziario del futuro sarà basato su nuove “regole

del gioco”, che porteranno alla leadership i player dotati dei migliori ecosistemi.

Tale affermazione apre le porte al concetto di Open Banking basato sulle API

(Application Programming Interfaces), ovvero ad un nuovo modello di offerta

bancaria strutturata su piattaforme dotate di uno standard aperto che favorisce

l’integrazione con i servizi sviluppati da terzi (in questo caso le startup FinTech),

rendendo così l’intero ecosistema più flessibile e rapido nell’adeguarsi ai

cambiamenti tecnologici senza appesantire la struttura dei costi della banca. Se

tale scenario dovesse realizzarsi, è probabile che il sistema bancario si ritroverà ad

utilizzare le stesse logiche che sono attualmente adottate nel settore del Hi-Tech,

da ecosistemi di successo come iOS ed Android.

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In altre parole, è possibile che la competizione si giocherà sulla capacità di gestire

le leve (come il grado di apertura dell’ecosistema o i modelli di monetizzazione)

che determinano l’entità degli effetti di rete delle piattaforme sia per i clienti che

per gli sviluppatori e, di conseguenza, anche la qualità degli ecosistemi.

In conclusione, è forse possibile affermare che l’arrivo della FinTech non

rappresenta tanto una rivoluzione quanto l’inizio di un processo di cambiamento

del settore finanziario che potrebbe trasformare il sistema tradizionale attualmente

in uso in un “Customer-centric financial ecosystem”.

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