LIBERARSI RIFLESSIONI INTORNO AL SAPER DIMENTICARE · condizione paradossale di un uomo o di un...

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LIBERARSI DAL PROPRIO PASSATO. RIFLESSIONI INTORNO AL SAPER DIMENTICARE I Merita d’esser menzionato un passo del grande psichiatra Pierre Janet, che rinvia ad alcuni versi di un filosofo naturalista ottocentesco, Jean-Marie Guyau, il cui nome è oggi a stento rife- rito nei manuali. Di seguito la trascrizione integrale del passo, tratto dal tomo primo, capitolo decimo, di Névroses et idées fixes: (…) dimenticare qualcosa è più difficile di quel che in genere si crede. Saper dimenticare è una qualità come saper imparare, perché l’oblio è la condizione del passo avanti, del progresso, della vita stessa: Dimen- tichiamo e procediamo; l’uomo su questa terra se non dimenticasse potrebbe mai sperare 1 ? Più oltre Janet ribadisce il suo pensiero, citando a conforto della sua tesi un altro filosofo naturalista, che era anche uno storico: «Bisogna, come è stato detto, dimenticare per imparare. L’oblio è spesso una virtù degli individui e dei popoli. ‘Bisogna saper di- menticare’, diceva Taine» 2 . 1 J.-M. Guyau, Vers d’un philosophe, Paris, 1896 (Oublions et mar- chons; l’homme sur cette terre,/S’il n’oubliait jamais pourait-il espérer?). Cito dall’antologia a cura di N. Lalli, P. Janet, La passione sonnambulica, e altri scritti, Napoli, Liguori, 1996, pp. 115-116. Cfr. il testo originale in Né- vroses et idées fixes, I, Paris, Alcan, 1914, p. 404. 2 La passione sonnambulica, cit., p. 131. Cfr. Névroses et idées fixes, cit., I, p. 421. 1

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LIBERARSI DAL PROPRIO PASSATO. RIFLESSIONI INTORNO AL SAPER DIMENTICARE

I

Merita d’esser menzionato un passo del grande psichiatraPierre Janet, che rinvia ad alcuni versi di un filosofo naturalistaottocentesco, Jean-Marie Guyau, il cui nome è oggi a stento rife-rito nei manuali. Di seguito la trascrizione integrale del passo,tratto dal tomo primo, capitolo decimo, di Névroses et idées fixes:

(…) dimenticare qualcosa è più difficile di quel che in genere si crede.Saper dimenticare è una qualità come saper imparare, perché l’oblio èla condizione del passo avanti, del progresso, della vita stessa: Dimen-tichiamo e procediamo; l’uomo su questa terra se non dimenticassepotrebbe mai sperare1?

Più oltre Janet ribadisce il suo pensiero, citando a conforto dellasua tesi un altro filosofo naturalista, che era anche uno storico:«Bisogna, come è stato detto, dimenticare per imparare. L’oblio èspesso una virtù degli individui e dei popoli. ‘Bisogna saper di-menticare’, diceva Taine»2.

1 J.-M. Guyau, Vers d’un philosophe, Paris, 1896 (Oublions et mar-chons; l’homme sur cette terre,/S’il n’oubliait jamais pourait-il espérer?).Cito dall’antologia a cura di N. Lalli, P. Janet, La passione sonnambulica, ealtri scritti, Napoli, Liguori, 1996, pp. 115-116. Cfr. il testo originale in Né-vroses et idées fixes, I, Paris, Alcan, 1914, p. 404.

2 La passione sonnambulica, cit., p. 131. Cfr. Névroses et idées fixes,cit., I, p. 421.

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Appare chiaro il nesso qui posto fra oblio e apprendimento.Secondo lo psichiatra francese, il conseguimento o il manteni-mento della salute psichica è condizionato dall’attitudine a di-menticare, a cancellare quel che di superfluo o di doloroso avreb-bero i nostri vissuti nel ricordo. Solo in quell’atto, sembra direJanet, si liberano le energie che dispongono la nostra mente adaltro, al nuovo, a ciò che costituisce materia della nostra vita fu-tura. Restringiamo il campo della nostra coscienza, e concentria-mo in un punto le nostre forze; ci affranchiamo dal passato, e civolgiamo all’avvenire.

L’attitudine a dimenticare ― osserva inoltre Janet ― non èsolo degli individui, non riguarda solo la loro personale esperien-za esistenziale. Per disfarsi del fardello dei vissuti, per apprende-re e procedere innanzi, anche gruppi e comunità, persino interipopoli, debbono dimenticare. Di ciò la storia porge moltepliciesempi. Hanno dimenticato, o cercato di dimenticare, gli Armenisuperstiti delle vessazioni e dei massacri perpetrati dai Turchi frail 1894 e il 1920 e oltre, e solo lentamente, a decenni di distanzada quei tragici accadimenti, nei discendenti dei sopravvissuti si èravvivato il bisogno di sapere, e dunque di ricordare. Molti Ebrei,scampati ai campi di sterminio nazisti, per lungo tempo hanno ta-ciuto, tentando di soffocare, o alterando, il ricordo delle loroesperienze, onde preservare se stessi dall’orrore del passato riaf-fiorante. E non è lecito passare sotto silenzio le migliaia di Italia-ni che furono trucidati nelle foibe del Carso durante l’ultimoscorcio di guerra mondiale e negli anni successivi, tragedia na-zionale sulla quale solo oggi, dopo aver vinto resistenze tenaci, siviene sollevando il velo dell’oblio. Sovvengono le parole celebri

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di Nietzsche, il quale, nella seconda delle Considerazioni inat-tuali, sull’utilità e sul danno che la storia reca alla vita, caratteriz-za il passato dell’uomo, di ogni uomo, alla stregua di una catenache lo avvince e che egli è condannato a trascinare dietro di sédurante il suo cammino esistenziale: «un invisibile e oscuro far-dello» che «lo schiaccia a terra e lo piega da parte»; un compa-gno di viaggio indesiderato, che turba la sua serenità e deprime lesue energie vitali, e persino lo induce a pensare con invidia allacondizione dell’animale, che godrebbe l’inestimabile privilegiodi vivere tutto nel presente, nell’attimo, senza serbare nella suaqualsiasi vita mentale traccia alcuna delle esperienze trascorse3.

Dunque, se non dimenticasse, se non bandisse il passatoche l’offende e fa male, o che ingombra il suo spirito con la pro-liferante moltitudine delle sue rappresentazioni in eccesso, l’indi-viduo non serberebbe intatta la propria identità, non vincerebbela malattia, verosimilmente non sarebbe neppure in grado di so-pravvivere. Eppure, la dimenticanza che è condizione dello svol-gimento individuale e persino degli avanzamenti storici di popolie nazioni, forma singolare contrasto con il convincimento, oggiovunque diffuso, secondo cui la tradizione e la memoria del pas-sato — dunque, l’attivo ricordare — rappresentano il vivente so-strato della civiltà presente, onde questa sarebbe destinata a inari-dire, se a volta a volta non rinnovasse, per il tramite dei propri fi-gli, la consapevolezza di ciò che essa è stata, di ciò che ha agito epatito. Un albero senza radici, una statua senza piedistallo: sonopresumibilmente le immagini più appropriate per descrivere la

3 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano,Adelphi, 1974, pp. 6-7. Il testo di Nietzsche fu pubblicato originariamentenel 1874.

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condizione paradossale di un uomo o di un popolo che avesse de-ciso, e ci fosse per davvero riuscito, di annullare ogni concetto orappresentazione del proprio passato.

Si delinea perciò, almeno a prima vista, un’antinomia. Persopravvivere e progredire, gli uomini e i popoli debbono dimenti-care, lenire col balsamo dell’oblio lo strazio di ferite ancora aper-te, e non lasciarsi sommergere dal profluvio delle esperienze inu-tili. Per assodare e ampliare le proprie conquiste di civiltà — ecioè per progredire —, uomini e popoli debbono d’altronde ricor-dare, e alacremente predisporre tutti gli strumenti che rendonopossibile la rievocazione storica, ripristinando i segni del passato,promovendo l’opera e gli istituti della filologia, dell’archeologia,del restauro e in generale coltivando tutte quelle che potrebberodenominarsi (in accordo del resto con un’illustre tradizione) lescienze ‘monumentali’ e le tecniche correlative. Oblio e ricordostorico, dunque, s’intrecciano, interferiscono, si avvicendano inguise oscure. Individui e popoli martoriati, presto o tardi, finisco-no per dimenticare; senonché, quando il processo è in punto dicompiersi, s’inizia la riflessione della storia, la quale si volge percontro a recuperare ciò che prima, più o meno consapevolmente,si intendeva cancellare per sempre dalla memoria. Alle prese coni nostri ricordi più acerbi, invidiamo per un istante l’animale chenon sa né sente (ammesso poi che questi sia per davvero unamacchina incosciente e priva di memoria, secondo il modo assaidiscutibile in cui Nietzsche se lo rappresenta); ma l’istante suc-cessivo avvertiamo quella condizione animalesca come indegnadi noi, e pur anelando all’oblio, siamo indotti a rievocare l’acca-duto e a ricercarne le ragioni, ad attribuire un senso al passato.Per la verità, in casi come questi, l’oblio o, meglio, l’aspirazione

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all’oblio, si rivela un tentativo intimamente contraddittorio. Sivorrebbe dimenticare, poiché non si può fare altrimenti, poichénon possiamo fare che ciò che è stato non sia stato e poiché, peril momento almeno, non abbiamo a disposizione altri modi direagire che non siano quelli volti a distogliere l’attenzione dalpassato che riaffiora e ci ferisce. Eppure, siamo come fascinatidal maligno corteo di fantasmi che accompagna e sospinge incima ai nostri ricordi quanto abbiamo sofferto e che ci attira conforza irresistibile, polarizzando la nostra attenzione, le nostreenergie, il nostro tempo. Perché, allora, anche quando l’onda del-l’emozione è trascorsa, e il passato è veramente passato e si è al-meno in certa misura separato da noi, la mente avverte il bisognodi riandare a quel che è stato, e avverte che se non lo reintegras-se, avrebbe irreparabilmente perduto una parte di sé?

Per dissipare oscurità e contraddizioni, e giungere final-mente al cuore del presente discorso, vale attirare l’attenzionesulla differenza che intercorre fra dimenticare e saper dimentica-re. Dimentichiamo in modo del tutto naturale, quando non ci pro-viene vantaggio alcuno dal tener vivo nella nostra mente il fattoaccaduto. Il tempo, come sa anche il senso comune, appare allea-to dell’oblio e ne agevola l’opera. L’evento passato è destinato acadere dalla nostra memoria, e potrebbe anche non ripresentarsimai più. Non ho memoria della successione con la quale ho sbri-gato alcune piccole faccende domestiche nella mattinata di ieri;ricordo, invece, almeno alcune di quelle faccende, in quanto pre-sentano maggiore attinenza con i miei bisogni attuali. L’obliosembra sottratto al mio potere e dotato di un certo automatismo,alla stregua appunto di un processo naturale, o comunque di unaccadere indipendente dalla mia volontà. Riapro la Divina com-

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media e, deluso e indispettito, scopro di aver totalmente obliatoalcuni versi di bellezza singolare, che altra volta avevo mandato amemoria. Per me sarebbe tutt’altro che dannoso e sgradevole ri-cordare la terzina in questione; ma, concludo, se non la ricordo,se non l’ho serbata desta in me, è perché me ne sono mancate leforze, perché la mia attenzione è stata a lungo rivolta altrove, o,forse, non era poi tanto indispensabile per me fissare durevol-mente nel mio spirito quei versi. Parimenti, e con particolare ur-genza, sarò naturalmente tratto a dimenticare, o quantomeno a il-languidire nel ricordo, l’accadimento traumatico che mi tormen-ta. Ma quell’oblio, appunto perché richiesto alla nostra psiche daun bisogno di conservazione di se stessa, non ci permette di do-minare per davvero l’evento critico, che se ne sta sempre in ag-guato in qualche angolo della nostra mente, pronto a rispuntare ea ghermirci quando pensiamo di averlo per sempre soppresso.Appunto perché naturale, l’oblio descritto di sopra può a ogniistante convertirsi nel suo contrario, e con altrettanta naturalezzae imprevedibilità cedere il luogo al ricordo che, riaffacciandosi,ingiuria e fa male. A suo modo lo aveva già notato quel maestrodi spregiudicatezza di Montaigne, allorché osservava che «nonc’è nulla che ci imprima così vivamente qualcosa nella memoriacome il desiderio di dimenticarla: è un buon metodo per darequalcosa in custodia alla nostra anima e imprimervela, il solleci-tarla a dimenticarsene»4. In guise ancor più icastiche lo stessopensiero ricorre nell’Oráculo manual di Baltasar Grácian: «lecose che si vorrebbero dimenticare sono quelle di cui meglio ci si

4 Apologia di Raymond Sebond, in Saggi, Milano, Adelphi, 2005, p.645. Accenti analoghi e complementari ricorrono anche altrove, ad esempionel libro II, cap. XVII, p. 867.

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ricorda. La memoria non solo ha l’inciviltà di non sopperire al bi-sogno, ma anche l’impertinenza di capitare spesso a sproposito»5.Quantunque non si possa concordare con l’illustre moralista al-lorché soggiunge che «saper dimenticare è una fortuna più cheun’arte», con il sottinteso convincimento che l’oblio è in ognisenso sottratto al nostro potere. Al contrario, abbiamo mostratoche il saper dimenticare non può considerarsi effetto di inopinatafortuna. Esso è semmai da dirsi arte, poiché suppone una formadi attività, un esercizio consapevole volto alla soluzione di unproblema, e rappresenta il segno di una maturità finalmente con-seguita.

Dimenticare per davvero, cioè saper dimenticare, non si-gnifica dunque tentar di cancellare i contenuti della memoria, at-teggiarsi come se ciò che è stato non sia mai accaduto. Dimenti-care, a rigore, significa render disponibile al ricordo quel che èstato, dal momento che quanto ci è accaduto ha finalmente assun-to proporzioni veritiere dinanzi all’occhio della mente, e nellalimpidezza della riflessione critica risultano smussate le angolosi-tà che lo rendevano urtante, intollerabile, e quindi non suscettibi-le di rievocazione in senso proprio. Obliare, o tentar di obliare,significa esporsi per un tempo indeterminato al ritorno del rimos-so; saper obliare significa, invece, criticare l’accaduto, formarsidi esso un concetto, dar soluzione al problema che agita la nostramente. Il primo atteggiamento è da dirsi antistorico; il secondoatteggiamento, viceversa, corrisponde all’abito prettamente stori-

5 Riferito in epigrafe a P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio. Ottosaggi di storia delle idee, Bologna, il Mulino, 2001. Cfr. ivi, p. 195, ovespicca il riferimento a un analogo pensiero di Cicerone, De finis bonorum etmalorum, II, 32, 104.

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co o storiografico, e l’uno e l’altro rivelano un correlato etico pe-culiare. È da dirsi remissività la disposizione d’animo onde, nonpotendo fare altro, si sopporta con pazienza, e si attende che l’on-ta e il fremito di sdegno per quanto ci è accaduto passino da sé esi spera portino via con sé quel che è stato e che riaffiora nel ri-cordo. Speranza vana e contraddittoria, giacché la pazienza delremissivo che abbia subito un grave torto non si tramuta in rasse-gnazione, ma tende a convertirsi nel suo contrario, e ogniqualvol-ta il rimosso si riaffaccia col suo tristo sembiante, produce motiimpulsivi, conati d’azione incoerenti e tosto interrotti. Accadecosì che l’atteggiamento di patetica remissività venga a volta avolta sospeso per l’insorgenza di un bellicoso ma impotente ri-sentimento, onde siamo attirati nei gorghi del rancore, dell’odio,della sete di vendetta, persino di un’invidia strisciante e tenace-mente inconfessata; e tale vortice di sentimenti e pulsioni è ilvero tiranno che dovremmo debellare, anzitutto perché non si la-scia riconoscere e qualificare per ciò che è, e fintantoché ci op-prime, allontana da noi la serenità dell’animo e, con essa, la lim-pida visione del vero, lasciandoci alla mercé dei fantasmi che ri-salgono a loro piacimento la corrente del passato. È da dirsi vice-versa tolleranza la superiore attitudine a non lasciarsi irretire nelcattivo passato, a volgere lo sguardo in avanti dopo che lo si ècriticamente rivolto all’indietro, a saper dimenticare quel che fi-nalmente si è reso pensabile, che ci è dato metabolizzare e colquale è ora possibile riconciliarsi. Ed è solo lungo questa via chetaluni animi eticamente ispirati giungono alfine a largire il perdo-no a chi li ha fatti soffrire, riconoscendo nei persecutori e nei ne-mici di un tempo, in coloro i quali ai loro occhi apparivano sottola luce tutta irrazionale e ripugnante della malvagità e della per-

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versione, delle anime sofferenti anch’esse, divise fra proponi-menti discordanti, cedenti sotto il peso stesso della loro debolez-za, della fragilità che è di ogni essere umano.

La tolleranza del cattivo passato, del passato che ritornan-do più non ci ferisce e che ormai siamo pacificamente disposti arievocare e riconoscere come parte di noi, inquadrandolo nel no-stro svolgimento individuale come anello inseparabile di una ca-tena, è forse l’accezione più elevata che una virtù del resto con-troversa, quella di tolleranza, possa esprimere. Tolleriamo il no-stro prossimo, quando questi ci riesce molesto eppure non possia-mo fare a meno di convivere con lui; e non è detto che la convi-venza risulti ispirata a valori di umana fratellanza, comprensione,liberalità. Tolleriamo il nostro passato, e le ombre degli altri innoi, quando finalmente abbiamo determinato il senso fondamen-tale di quel che è accaduto e trapassato, e più non ci curiamo deisuoi aspetti incidentali e dettagli, che dapprima, in condizioni diinfermità o semiinfermità, avevamo ingigantito nella ricerca, ine-vitabilmente fantasiosa e congetturale, dei responsabili, dei col-pevoli e dei loro complici. La tolleranza dell’altro — del nemicoche oramai è tale solo in effigie —, nell’accezione che qui ci inte-ressa, altro non è se non la peculiare virtù del pensiero critico, ilquale dissipa timori inquietudini e tutte le congiunte immagina-zioni che l’animo ferito proietta sulle sue vicende vissute, e del-l’animo cura i mali e sana le piaghe, rassicurandoci su noi stessi,sulla coerenza della nostra condotta e l’autenticità della nostravocazione. È, se si vuole, un tollerare solo in senso metaforico,appunto perché l’altro da noi non vive in noi se non come effigieod ombra, e ha perduto la corpulenza dell’essere vivente in carnee ossa, con cui è necessario misurarsi e regolare i conti: è piutto-

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sto un modo di riappropriarsi una parte del nostro essere, chel’avversa fortuna ci aveva fatto apparire avulsa da noi, effetto diun incidente irrazionale, figlia esclusiva dell’unione di volontàmalevole. A ben guardare, nella fattispecie, la tolleranza di coluiche ci è stato nemico, quand’anche il ricordo che si ha di lui neconfermi l’indole malvagia o la pusillanimità, non è se non laconseguenza dell’accettazione e del riconoscimento di un episo-dio della nostra biografia, che in un primo tempo avremmo volu-to cassare con un colpo di spugna, ritenendolo di noi indegno, danoi immeritato. Di poi, chiarite le ragioni dell’accaduto, tessutimentalmente i fili che legano ciò che è stato a tanti altri episodi easpetti della nostra esperienza trascorsa e lo rendono intimamentesolidale con essa, l’astio e persino l’odio verso il malvagio affie-voliscono e da ultimo si estinguono, ancorché non muti il giudi-zio sul suo operato e la sua persona; ed egli è da noi tollerato —ossia sottratto alla rimozione e reso disponibile alla rievocazione— in quanto ingrediente del nostro vissuto, fattore ormai non piùpernicioso di una vicenda della nostra vita, che abbiamo infineaccolto con serenità, facendone il presupposto del nostro agire ul-teriore.

Alla luce di tutto ciò, risulta sempre più chiaro perché, nel-lo svolgimento degli individui e delle società umane, si passa e sideve passare dal dimenticare al saper dimenticare, dall’oblio cheè a volta a volta inerzia e impulsività all’oblio che è il frutto ma-turo dell’esercizio del pensiero e del conferimento di senso. Quelche è inutile e insulso, trascorre senza lasciar traccia di sé, senzaminimamente impegnar la nostra memoria, senza costituire pro-blema per il nostro spirito; quel che è grave, quel che ha prodottouna crisi nella nostra esistenza, reclama viceversa l’attribuzione

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di un significato, di un nomen che sia predicato e non verbalizza-zione vana, ed è per questa ragione che si accende il tormentosoprocesso interiore che conduce dalla malattia alla sanità, dal di-menticare al saper dimenticare. Dapprima non è dato concepirepredicato alcuno, e la mente ancora vaga nell’oscurità più fitta,rotta solo dai bagliori illusori del sentimento esacerbato; dipoi,man mano che il quadro degli eventi si schiarisce, anche il nostroanimo si rasserena, fino al punto in cui la ferita è da dirsi rimargi-nata, e quasi stupiamo al pensiero delle pene che quel duro trava-glio ci è costato.

È questa, in breve, la vicenda dell’uomo alle prese con ilsuo passato, ond’egli trascorre incessantemente, nell’incalzaredelle esperienze vissute, dall’uno all’altro dei due termini dianzidescritti, dall’oblio che è infermità e insipienza all’oblio che è sa-pere, fortezza, virtù. E l’uomo non sarebbe uomo, se a volta avolta non ci apparisse drammaticamente impegnato in quest’ago-ne, la cui posta in palio è il dischiudersi dell’avvenire, la rinascitaspirituale. Ci apparirebbe piuttosto simile all’angelo o alla bestia,che Pascal poneva rispettivamente al di sopra e al di sotto dellacondizione umana; ovvero simile allo yogî di cui discorre un te-sto classico del tantrismo indiano, e che avendo oltrepassata lacondizione dell’esistenza profana in cui versa l’umanità ordina-ria, per parte sua non avverte più né il bisogno di dimenticare, néquello di ricordare6. Creatura terrena, composto di natura e spiri-to, di bisogni corporali, affetti e idealità, l’uomo è a tratti dilace-

6 Lo yogî «si libera sia dal dimenticare sia dal ricordare» (Hathayo-gapradîpika, IV, 106, commento). Cfr. J. Evola, Lo yoga della potenza.Saggio sui Tantra, Roma, Edizioni Mediterranee, 2006, p. 212, nota 21, conl’interpretazione del quale non si può in tutto concordare.

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rato dall’attitudine a dimenticare e dalla concomitante attitudinea ricordare, o, per dirla in una, dall’esigenza di convertire in unsapere catartico le immagini ricorrenti del suo passato. Solo mer-cé tale catarsi l’evento che altra volta ha dispiegato un’efficaciatraumatizzante più non ci signoreggia, ma è da noi signoreggiato;sottratto all’alterna incontrollabile vicenda che lo vede disparirenei meandri della nostra mente e da essi riemergere minaccioso, èdefinitivamente assicurato alla serenità di un ricordo, che è piut-tosto pensiero. Infine, solo distinguendo il dimenticare dal saperdimenticare ci è dato togliere sapore di paradosso ai due passi diJanet riferiti in apertura, e a essi attribuire un significato preciso.Dimenticare, esordiva l’illustre alienista, è cosa ben più difficiledi quanto siamo portati a credere comunemente. E ciò, possiamodire ora, è vero in due sensi distinti eppur congiunti. La difficoltàdell’oblio è da un lato la difficoltà connessa al sapere autobiogra-fico e storico, cioè a dire al raggiungimento di una compiuta ela-borazione intellettuale del passato. Dall’altro lato, è la difficoltà(e a volte l’impossibilità) di estinguere le memorie che ci tormen-tano, e che s’inabissano e riaffiorano in noi come le acque di unfiume carsico, senza il concorso della nostra volontà.

II

Un’analoga parvenza di contraddizione fra l’attitudine adimenticare e l’attitudine a ricordare, fra il bisogno di rimuoveree quello di sapere, trapela laddove Janet osserva che l’oblio, non-ché condizione dell’equilibrio interiore e della salute psichica, èil presupposto dell’apprendimento7. Dimenticare per imparare: si

7 Supra, pp. 1-2.12

direbbe una pedagogia tutta in negativo, la quale, se fosse presaalla lettera, sgraverebbe il discente di qualsiasi nozione che tran-siti nel suo cervello, e lo condannerebbe a uno stato di perpetuavacuità e insipienza, rendendo il suo sforzo intellettuale similealla fatica di Sisifo. In verità, ancora una volta è dato sceverare loschietto significato dell’osservazione di Janet, che occorre inter-pretare non già al modo di una prescrizione, bensì di una consta-tazione di fatto; il che significa fare ancora una volta ricorso alladistinzione fra dimenticare e saper dimenticare. La testa ben fattao ben formata, secondo la nota metafora di Montaigne, non è daconfondersi con una testa piena in quanto imbottita di nozioni in-comprese; ma nessuno inferirà da ciò che debba trattarsi di unatesta vuota. Anche noi siamo perciò indotti a interrogarci intornoalle questioni millenarie: cosa significa veramente apprendere esapere? in cosa consiste la formazione intellettuale e pratica di unindividuo? Possiamo davvero assimilarla all’inumana, quasi grot-tesca facoltà di ritenere nella nostra mente, rappresentata allastregua di un contenitore di cose materiali, una quantità di dati einformazioni attingibili a comando? O non si tratterà di una fa-coltà o attitudine toto coelo diversa, cioè della capacità di forma-re ex novo pensieri e idee, nonché proponimenti pratici, muoven-do da dati e informazioni che altra volta furono assimilate per iltramite della nostra esperienza e memoria naturale, ma che orasono in gran parte sottratte alla nostra ritentiva, e forse addiritturaobliate per sempre e non più rievocabili su richiesta, come tumu-late entro le pieghe del nostro organismo psichico in divenire,che quelle informazioni hanno contribuito a nutrire e rinvigorire,per così dire, decomponendosi e disparendo entro di esso?

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Ritroviamo qui nitidamente delineata, ancorché da un’an-golazione nuova, la dialettica del dimenticare e del saper dimen-ticare, che abbiamo illustrata in precedenza. Come l’uomo mora-le alle prese con i problemi della vita pratica, così l’apprendista ol’allievo sarà tratto a oltrepassare il piano della dimenticanzapura e semplice e del correlativo ricordo incontrollato e inopina-to, al fine di accedere a un maturo saper dimenticare quel che divolta in volta egli ha esperito, provato, imparato. Ritroviamo quianche la ragione ultima del precetto pedagogico elementare, se-condo il quale è indispensabile non fare eccessivo affidamentosulle capacità della propria memoria, bensì addestrarsi a ragiona-re e capire. Nondimeno, con questo precetto che gli risuona nellamente, il senso profondo del quale seguita a sfuggirgli, il discentealle prime armi proverà a lungo la sensazione penosa di non sa-persi elevare se non accidentalmente al di sopra del puro momen-to mnemonico, ricascando tosto su questa primitiva base malfer-ma. Negli studi, come in ogni arte che richieda perizia e ingegno,il principiante è infatti rivelato tale, addirittura messo a nudo, daiconati volti a riacciuffare quel che si dilegua via via che entra nelsuo spirito, dal sentimento di impotenza e frustrazione che neconsegue, e dall’ingenua speranza di riuscire un domani nontroppo lontano a fermare nella mente, come in un’iscrizione aereperennius, le labili nozioni che oggi paiono beffarsi dei suoi sfor-zi. Il maestro, quando pure si abbia la ventura di incontrarne al-meno uno e di saperlo riconoscere per tale, apparirà al neofitacome colui il quale nel suo campo conosce ogni cosa, dal mo-mento che l’ha mandata a memoria a costo di sforzi che il princi-piante non osa nemmeno immaginare e che tuttavia sa di doversia sua volta sobbarcare, se vorrà diventare come il suo mentore, o

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addirittura migliore di lui. Quell’inarrivabile sapere, che desta lasua ammirazione stupita, gli appare come il frutto di una intera-zione quasi arcana fra le doti dell’intelligenza e quelle della me-moria, ed egli non riesce a figurarsi come si possa giungere a tan-to, e ancor meno è in grado di penetrare l’intima dialettica del-l’apprendimento e della formazione: sa solo che a lui è consentitosperare, perseverando nei suoi studi con inflessibile tenacia, dioccupare domani un ruolo simile, di potere parlare e scrivere conla medesima autorevolezza, di esser fatto segno di sguardi pari-menti ammirati. Per intanto, il maestro seguita ad attirarlo e in-sieme a respingerlo, quasi fosse il depositario di una peculiareenergia numinosa. Ma, si sa, la scalata di un monte è impresa ar-dua, ricca di inconvenienti e scevra di garanzie, e d’altronde laconquista della vetta abbacinante può sfinire al solo pensiero: ra-gion per cui nella maggior parte dei casi pigrizia e conformismoriducono l’allievo a più miti consigli e ad applicare la legge eco-nomica del minimo sforzo, a giustificare la propria rinuncia neimodi più svariati, persino svalutando in malafede il sapere e coluiil quale lo ricerca e, per quanto è nelle sue forze, lo professa.

È opportuno in ogni caso ribadire che apprendiamo soloapprestando in noi, e non senza travaglio e pena, le condizioniperché si verifichi un insensibile trapasso del nostro fardellomnemonico, ossia dando corso a una vera e propria eutanasia dinozioni e notizie disparate. Prima che ciò avvenga, è solo un fu-gace lampeggiare di suggestioni caduche, di riflessioni interrottea metà, di spunti senza vigore. Ecco perché la fatica dello studen-te che non sia ancora uno studioso è soprattutto opera di volontà,e solo a tratti s’innalza a intrinseca intelligenza delle cose; eccoperché, vi si accompagni o meno l’abito spocchioso, il dogmati-

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smo è la forma mentis connaturata al principiante, come l’espe-rienza quotidianamente conferma. Ineluttabilmente, infatti, coluiche apprende è indotto anche da circostanze esterne (es., la provad’esame) ad affermare senza propriamente capire, a far suo ciòche suo ancora non è; e laddove la critica esige che si sia compiu-to un passo innanzi, per così dire, rispetto all’autore che si leggeo all’oratore che si ascolta, il principiante è ancora nelle retro-guardie, destinato per il momento a seguire, non a precedere. Etuttavia l’apprendimento meccanico racchiude in sé il germe delsuo superamento. Mentre con diligenza si applica a fermare nellamemoria se non anche le formule letterali, i concetti espressi nellibro che ha sotto gli occhi, che legge e rilegge in vista della pro-va scolastica che incombe, lo studente prepara involontariamentela lenta conversione in sapere delle nozioni che stiva nella suamente: prepara e attua la transizione dalla volontà all’intelligen-za, che è quanto dire dal dimenticare (che alternativamente è unricordare) al saper dimenticare. Ed è quest’ultimo un oblio discopi pratici, oltre che di elementi dottrinali disgregati, scevri diintimo nesso: allorché impara per davvero, il discente va oltre gliobbiettivi contingenti del suo sforzo (es., il superamento dell’esa-me), e come le nozioni a volta a volta apprese e cumulate si tra-sfondono in un sapere organico e puntuale, al quale esse dannovita morendo, così gli scopi pratici via via conseguiti per il trami-te delle fatiche durate trapassano in un disegno più largo e com-plesso, nel quale talvolta ai fortunati può accadere di scorgere ilsegno di una missione esistenziale che tacitamente si adempie, ilsuggello di una vocazione fattasi a pieno consapevole e non piùdubbia.

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Va da sé che il processo descritto di sopra rappresenti, neisuoi molteplici aspetti, l’opera di una vita intera: è il travaglio delgiovane come dell’uomo maturo, dell’apprendista come del mae-stro, il quale serba un sentimento di umiltà da perpetuo princi-piante, che lo schietto principiante non di rado ignora. Lo studen-te che non sia ancora studioso, si è detto di sopra, naturalmenteafferma senza pensare, e afferma ripetendo le formule altrui:sforzandosi di ricordare dimentica, e dimenticando ricorda, che èquanto dire che finalmente egli sa, ossia è in grado di giudicare, eche il suo apprendistato è terminato. Sofista o sedicente maestroè invece colui il quale occulta a se medesimo e agli altri il natura-le e benefico processo della dimenticanza. Non avendo vissuto senon superficialmente ed estrinsecamente la vita dello studenteche anela a diventare uno studioso, vita della quale ignora le inti-me gioie e i tormenti, le tensioni e le speranze che riempionol’intera giovinezza e le conferiscono l’aspetto di un’iniziazionesevera, poco o nulla di quanto ha appreso si è convertito in lui insucco e sangue. La sua vita intellettuale, o piuttosto istituzionale,è per forza di cose quella dello ‘specialista’ di professione: pos-siede una parte, a volte non più che una porzioncina o un fram-mento, e si disinteressa del resto, ch’egli reputa meccanicamenteadiaforo alla parte, della quale potrebbe compromettere il posses-so presunto. E nella dimenticanza, anziché scorgere l’effetto libe-ratorio della sopraggiunta maturità, teme l’opera nefasta del tem-po che tutto sbiadisce e cancella, e che occorre fronteggiare mer-cé l’intervento restauratore del ripasso scolastico, ripigliando i li-bri e gli appunti del passato, sempre gli stessi. Teme dunque ladimenticanza, che sa ineluttabile, e la vive con tacito pudore,come un’inconfessabile mancanza; essendogli ignota la compren-

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sione che è un’intelligenza sempre nuova, sa di non poter fare af-fidamento se non sulle doti della memoria naturale, ossia su unafacoltà fallace, che emenderebbe e rafforzerebbe, se solo potesse,mediante stratagemmi artificiali (come erano soliti fare, in epo-che passate, anche i veri dotti, cioè a dire coloro i quali non ave-vano a disposizione se non rare opere scritte, e dovevano inge-gnarsi a stivare nel proprio cervello il proprio archivio medianteesercizi di mnemotecnica). E di qui alla sofistica, quando per ne-cessità professionale si vesta l’abito di maestro, il tratto è breve.Messo alle strette dalla domanda insidiosa dell’allievo, glissa esfugge; fatto segno di un’obiezione, ironizza o addirittura impre-ca; prudentemente, che parli o scriva, non esorbita mai i limitidell’allusivo, e nel generico che ti porge, non sai se mai se si celauna sapienza che fa la ritrosa, o un’insipienza che tuttavia si pale-sa…

Il continuo, a tratti ossessivo ritornare su nozioni altra vol-ta apprese allo scopo di imprimerle sempre meglio nella mente,quasi che non se ne sia sviscerato fino in fondo il senso riposto,ha in effetti un che di servile. Intellettualmente libero, o liberosenz’altro, è colui il quale con serenità accetta il trapasso del suocarico di reminiscenze, il loro continuo mutare che è pur sempreun morire, e insieme con esse estingue lo stimolo a rievocarle atutti i costi o a comando. Anche il discente più dotato, e il mae-stro e studioso medesimo in quanto si ritrova sempre di nuovonella condizione dell’educando, soggiace al processo, che abbia-mo detto naturale, del dimenticare ciò che ardiva ritenere un pos-sesso inconcusso. E non deve per questo incorrere in alcun sensodi vergogna, o di soggezione nei confronti di altri. Egli constateràcon spiacevole sorpresa che sono caduti dalla sua mente i versi

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della Divina commedia, si troverà in difficoltà nell’attribuire undeterminato filosofema a questo o a quell’autore, ovvero proveràun imbarazzo inconfessabile nel non osare dichiarare in pubblicol’anno in cui venne celebrata la pace di Tilsit o fu inaugurato ilConcilio di Trento. E altra volta sarà magari confortato dall’ino-pinato riaffiorare di questi e altri relitti nozionistici, senza alcunosforzo o sollecitazione da parte sua, sovente dietro lo stimolo diun’occasione contingente, come la pagina di un volume riapertoper caso, o una parola udita durante una conversazione colta. Ine-narrabili, a questo riguardo, le bizzarrie di cui si rende responsa-bile la nostra memoria o, che è lo stesso, la nostra facoltà diobliare. Può accadere, e la confessione che segue susciterà forsequalche scandalo nei benpensanti dalla ritentiva infallibile, che lamia memoria riservi una posizione di privilegio a umili vicendedi cronaca transeunte e disdegni per contro le campagne di un Fi-lippo o di un Alessandro; s’impregni delle rievocazioni autobio-grafiche di un Malaparte e non si curi di quelle dell’Alfieri; serbiimpronta nitida, quasi visiva, di alcune inferenze di Ugo Spirito enon trattenga se non brandelli platonici, e osi persino disfarsi coninsofferenza di tante lutulente pagine husserliane o rosminiane,senza nemmeno provare il colpevole rammarico che per una taledimenticanza tributa al padre Dante o al divino Platone… Infine,debbo confessare che cerco ormai da molti anni di disfarmi, sinqui senza alcuna speranza di successo, dei buffi neologismi co-niati da alcuni filosofanti accademici, nonché dei loro svarioni avoce e a stampa, che il pudore m’impedisce di riferire in questasede; e non sono quei marchiani errori e quei neologismi gratuitifantasmi che incutano timore, s’intenda, ma piuttosto spiritelli in-nocui, i quali di tanto in tanto riaffiorano spontaneamente nel ri-

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cordo e confermano l’indole impertinente, sottratta al comandodella volontà, della nostra memoria naturale, che talora tiene inserbo ciò che è insulso e lascia andare quel che è pensoso e gra-ve.

L’oblio, o, se si preferisce, l’alterna vicenda dell’oblio edella rammemorazione, prova in ogni caso che una determinatanozione non si era in noi convertita in sapere, o almeno che at-tualmente essa non è più sapere: è legna verde e umida, che nonarde nel fuoco del nostro intelletto e non lo alimenta. Non legan-dosi ai nostri bisogni intellettuali più autentici e sentiti, rappre-senta una suppellettile mentale sterile, la quale presto o tardi ver-rà inghiottita dall’oblio che è riservato a tutto ciò che variamenteingombra il nostro spirito. Diversa la sorte che attende le infor-mazioni che accendono il nostro più vivo interesse. Esse si in-trecciano e si richiamano vicendevolmente, si collegano a quantoaltra volta avevamo appreso, diventano materiali per la formula-zione di ipotesi, punto di partenza onde muovere alla confutazio-ne dei diversamente pensanti, ingredienti di nuove sintesi criti-che. E, finché il nostro intelletto si esercita alacre su quelle no-zioni, esse si serbano vivide nella nostra memoria, immediata-mente disponibili al ricordo, al punto da apparire indelebili comefigure intagliate nella roccia. Poi, trapassato il nostro interesse, econsacrata ad altro la nostra attenzione, esse a poco a poco illan-guidiscono, svaniscono i loro contorni, si offusca il loro nitore: e,come cenere superstite di un gran fuoco, anche per loro si spalan-cano le porte dell’oblio. È, tale dimenticanza, il sintomo dell’av-venuto progresso intellettuale, ancorché essa possa provocare inme qualche ansia o malcontento: poiché penso, ragiono, conosco,non ho alcun bisogno di ridestare, nella loro immota fisionomia, i

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contenuti delle mie esperienze cognitive nella forma primitiva incui li avevo appresi e che temporaneamente il ricordo aveva trat-tenuto. Onde il nostro spirito, per una sua interna legge di econo-mia e semplificazione, se ne disfa con indifferenza; ovvero, permeglio dire, non si disfa di alcuna nozione appresa, non si disfadi alcuna esperienza vissuta, ma di volta in volta, secondo le oc-casioni che si presentano, sarà tratto a rimaneggiare e riplasmarei contenuti dell’esperienza trascorsa, secondo un procedimentoche reca il tratto indelebile della libertà e spontaneità creativa.

Anche per questo un libro ambulante o un archivio parlan-te deve ancora dimostrare di essere una persona colta. Ciò chemanca al primo, e che invece possiede la seconda e suscita in noiammirazione e rispetto, è la vivida attitudine a caratterizzare nelpensiero e nel giudizio i fatti sempre mutevoli della vita in tuttala sua latitudine. È l’eterna antitesi dell’erudito e del sapiente, deldotto e dell’honnête homme, ben nota alla storia del pensiero,sulla quale non ci si stancherà mai di attirare l’attenzione. Di quila diffidenza e persino il compatimento che il primo sovente ispi-ra, nella sua aridità umana, a quanti abbiano la sagacia di pene-trarne la scorza. Il suo qualsiasi sapere ondeggia fra l’enunciazio-ne pedissequa di ciò che egli tiene in serbo, per esigenze scolasti-che, mediante la ripetizione periodica, e un’originale opera di tra-sfigurazione problematica, che non gli è dato attingere se nontransitoriamente. Da questo ondeggiamento fra critica e memoria,fra il piano cui l’erudito anela e un piano che non ha mai oltre-passato per davvero, proviene lo spiacevole carattere che si è det-to allusivo, indeterminato, intimamente disorganico, di tanta se-dicente produzione scientifica, che al palato fino in fondo sa dicontraffazione e frode. Dalla memoria che vorrebbe e non può in-

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nalzarsi alla dignità della critica discende il fondamentale trattoarbitrario di tante scritture firmate da specialisti e luminari; diqui, dalla dissimulata carenza di una cellula critica originaria,sorta di germe che dà vita a un organismo vario e che si lascia in-dovinare in ogni punto di esso, proviene la singolare attitudine dicerte pagine a respingere lungi il lettore che vi abbia posato sopralo sguardo e che, quando sia costretto a ricondurvelo per necessi-tà scolastiche, potrebbe vendicarsi più tardi mediante l’erezionedi una pira purificatrice o, più sobriamente, collocando l’opera inoggetto sullo scaffale più alto della propria biblioteca (che a suomodo è pur sempre un posto d’onore!).

Come si è osservato poc’anzi, il saper dimenticare in quan-to oltrepassa il mero dimenticare e ricordare, postula un concettodella vita intellettuale come originalità e creatività. Davvero, sa-pere è giudicare per predicati o categorie: è la determinazionecritica di un soggetto mutevole che ci è offerto da un’esperienzasempre varia e inaspettata. Non esiste un sapere astratto o in po-tenza, e se esistesse, se potessimo cioè stimare sapere un aridocumulo di nozioni sempre identiche a se stesse, non sapremmoche farcene. Lo schietto sapere è sapere in atto, è un giudizio chedefinisce questo o quello, suscitato da questo o quell’evento, chesi lega a questo o quel bisogno. Individualità, puntualità, attuali-tà, determinazione, concretezza sono perciò altrettanti sinonimi, iquali valgono a designare, insieme con la criticità, l’immutabilecarattere della conoscenza umana. Colui che sa è colui che giudi-ca, e colui che giudica dimentica, onde porsi dinanzi alle cosecon animo sempre rinnovato e poterle osservare con sguardo lim-pido, senza preconcetti. A lui solo spetta il privilegio di scoprirsisempre di nuovo ignorante e di doversi rifare ogni volta da capo,

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affrontando coraggiosamente il nuovo, disdegnando il troppo fa-cile rovistare nelle anguste stanze della propria memoria.

III

Possiamo così dir conclusa, seppure in via provvisoria, lapresente trattazione dedicata alla rievocazione e l’oblio. Restaperò un ultimo quesito, forse non del tutto ozioso, che ci ricondu-ce ai brani di Janet riferiti in apertura e alle circostanze in cui lesue parole videro la luce. Janet richiama l’assunto dell’obliocome condizione del progresso in due luoghi differenti di Névro-ses et idées fixes. Oltre che nei suoi pazienti, lo psichiatra dovetteaver osservato in se stesso le virtù benefiche dell’oblio che è sa-pere. Vien fatto perciò di domandarsi quali possano esser stati gliepisodi salienti della sua biografia (e della società del suo tempo)che lo sollecitarono a formulare, in modo naturalmente imperso-nale e astratto, quei pensieri. Detto altrimenti: cosa può aver agi-to sulla mente di Janet inducendolo a discorrere, in quel contesto,del dimenticare e del saper dimenticare? Non possediamo, è ov-vio, dati sicuri a riguardo: tutto e nulla potrebbe essere stato allaradice dei suoi ragionamenti. Nondimeno, possiamo avanzare al-cune ipotesi, esse sì fondate su dati storici incontrovertibili, gra-zie alle quali la nostra riflessione non attingerà le sommità delvero (posto che ciò sia mai stato concesso agli umani), ma si pro-verà almeno a circoscrivere quel che è possibile, ossia a indicarele sorgenti esistenziali da cui quella problematica intellettuale èforse scaturita nell’animo di Janet. Di seguito, insomma, non fac-cio se non formulare alcune congetture, sollecitate tuttavia daqualche rimarchevole circostanza documentabile. È, se si vuole,

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un esercizio puramente letterario, non storiografico; ma ciò nonlo rende meno attraente e degno di esser perseguito.

Janet aveva riferito inizialmente i versi di Guyau in occa-sione di una conferenza pronunciata il 23 dicembre 1894 e ripro-dotta più tardi in Névroses et idées fixes8. Solo qualche tempoprima, in autunno, era divampato l’affaire Dreyfus, che da subitoe per molti anni a venire scosse violentemente l’opinione pubbli-ca francese. E solo un giorno prima che Janet tenesse la sua con-ferenza, il 22 dicembre, il Consiglio di guerra aveva condannatoAlfred Dreyfus per alto tradimento. Singolare coincidenza: Janetparlò immediatamente dopo che quella iniqua sentenza di con-danna, frutto di vera e propria macchinazione giudiziaria, era sta-ta emessa. Ci piace pensare che quella sentenza ignominiosa, nu-trita di odio antisemita e di esacerbato nazionalismo, divenuta su-bito di pubblico dominio, producesse delle ripercussioni ango-sciose sul suo stato d’animo di uomo moderato, esponente dellaFrancia civile, e in qualche modo si collegasse alle riflessioni cheegli presentava al suo pubblico. Forse, allorché dichiarava la dif-ficoltà e purtuttavia la necessità dell’oblio come presupposto delprogresso esistenziale individuale e della salute psichica, Janetpensava con pietà anche alla condizione psicologica dello sventu-rato ufficiale, un ebreo alsaziano, la cui esistenza era stata spez-zata da quella condanna e che, se fosse sopravvissuto a essa, maiforse avrebbe potuto dimenticare quanto gli era accaduto. E pos-siamo congetturare che altri pensieri e reminescenze si facesserolargo per associazione nella mente del grande psichiatra e dissep-

8 P. Janet, La passione sonnambulica, cit., p. 91, nota. Cfr. Névroseset idées fixes, I, p. 375, nota.

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pellissero esperienze dolorose, temporaneamente obliate, dellasua vita psichica più remota. Come è noto, la tragedia personaledi Dreyfus si legava all’esito, per la Francia inglorioso, dellaguerra franco-prussiana del 1870. Forse, mentre pronunciava lesue parole, Janet pensava anche a se stesso, alle sofferenze patiteda bambino, quando insieme ai suoi famigliari aveva vissuto l’e-sperienza drammatica dell’assedio posto a Parigi nel 1870; e for-se pensava anche alle sofferenze che probabilmente patì poco piùtardi, quando, lasciata la capitale dopo che l’assedio era stato tol-to e per tema di privazioni maggiori, dai genitori fu mandato inquell’Alsazia che i Tedeschi avevano invasa e quindi avrebberostrappata alla Francia, e in cui a violenze e umiliazioni dovetteassistere se non anche sottostare egli stesso, le cui ascendenze perparte materna erano alsaziane, e che era cresciuto in un’atmosfe-ra famigliare di ardente patriottismo.

Anche nel suo caso, insomma, è lecito presumere, la storiain grande, la storia delle date memorande, degli eventi che fannoepoca e che verranno registrati negli annali, condizionava la bio-grafia intima e, forse, premeva su questa con il suo peso a volteopprimente: giovinetto, — ci informa uno storico —, cioè a direqualche anno dopo le vicende esposte di sopra, Janet era cadutoin uno stato depressivo, complicato, pare, da una crisi di naturaspirituale e religiosa9.

È ormai tempo di concludere per davvero. Non ci è con-sentito cedere al male, al cattivo passato che polarizza, ci irreti-sce e inebetisce. Condizione del progresso, della vita che si rin-nova e avanza, non è il mero dimenticare, bensì il saper dimenti-

9 Cfr. H. F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psi-chiatria dinamica, I, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 387 ss.

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care, sebbene quest’ultimo supponga gli spasmi di quell’oblioprimigenio, fra naturale e spirituale. Come anche le religioni in-segnano, non vi è risurrezione senza discesa ad inferos, senza chesia stato compiuto il passaggio attraverso quell’oscuro labirinto olanda turbinosa e arida, che simboleggia i tormenti dell’anima in-tesa a scacciare le ombre del suo passato, che è quanto dire leombre dei defunti che la perseguitano.

Antonio Di Mauro

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