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LIBERA UNIVERSITA’ DI LINGUE E COMUNICAZIONE IULM Facoltà di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo Corso di Laurea in Scienze e tecnologie della comunicazione MILANO NAPOLI MILIONARIA! di Eduardo De Filippo Docente che ha assegnato l’argomento della prova finale Chiar.mo Prof. Alberto Bentoglio Prova finale di: Emanuele Florio Matr. N. 153021 Anno Accademico 2007/2008

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LIBERA UNIVERSITA’ DI LINGUE E COMUNICAZIONE

IULM

Facoltà di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo

Corso di Laurea in Scienze e tecnologie della comunicazione MILANO

NAPOLI MILIONARIA! di Eduardo De Filippo

Docente che ha assegnato l’argomento della prova finale

Chiar.mo Prof. Alberto Bentoglio

Prova finale di:

Emanuele Florio

Matr. N. 153021

Anno Accademico 2007/2008

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Indice

• Premessa…………………………………………………………... 3

• Parte I : Contesto sociale e panorama teatrale………………… 5

Par. 1.1 : Sulla scia della tradizione scarpettiana……………. 5

Par. 1.2 : Teatro napoletano e italiano di inizio secolo……… 8

• Parte II : Le “Cantate” eduardiane……………………………….. 16

Par. 2.1 : Cantata dei giorni pari e l’influenza di Pirandello… 16

Par. 2.2 : Cantata dei giorni dispari…………………………… 29

• Parte III : Napoli Milionaria!..……………………………………… 38

Par. 3.1 : Analisi generale dell’opera eduardiana…………… 38

Par. 3.2 : Struttura della commedia…………………………… 47

• Scheda tecnica dell’edizione televisiva del 1962 …………… 60

• Nota bibliografica..……………………………………………….. 61

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PREMESSA

Con il presente elaborato intendo svolgere un’analisi approfondita di una fra le

opere più espressive e significative della produzione teatrale eduardiana, Napoli

Milionaria!. Il fine ultimo del seguente lavoro non consiste solo nello studio della

commedia in sé, bensì nella comprensione di quella “napoletanità” alla base

dell’intera drammaturgia dell’autore, una filosofia personale e un modo di rapportarsi

e vivere la vita.

Purtroppo non ho avuto modo di assistere a teatro alla rappresentazione della

commedia qui in esame, tuttavia in questi anni ho visto in scena altre opere

importanti come Uomo e galantuomo e Filumena Marturano, due lavori che, come

mostrerò successivamente, appartengono a differenti periodi produttivi.

Ho avuto l’occasione, inoltre, ed è questa la ragione per aver scelto Napoli

Milionaria!, di documentarmi e visitare personalmente i luoghi che hanno

caratterizzato e hanno dato i natali all’autore. Ho voluto infatti attraversare e

percorrere quei vicoli e i “bassi” del quartiere Chiaia, quell’area della città costruita

dagli spagnoli fuori dalla Napoli medioevale, il luogo in cui Eduardo è cresciuto e che

rappresenta tutt’oggi la quotidianità della gente partenopea. Comprendere fino in

fondo il senso ultimo di Napoli Milionaria! diviene più difficile se non si sperimenta e

non si vive in prima persona l’ambiente e “l’atmosfera” della Napoli di Eduardo; qui

mi sono reso conto del valore e del significato del “quartiere”, del “vico”, ovvero un

palcoscenico eterogeneo dove tutti sono attori, ciascuno recitando il proprio ruolo.

Come osservato in precedenza, l’elaborato mira inoltre a spiegare e a

mostrare l’origine della napoletanità che caratterizza Eduardo, una tradizione teatrale

che ha formato la sua personalità di autore e che verrà in seguito influenzata dalle

numerose esperienze drammaturgiche in Italia.

A tale scopo, ho suddiviso il presente lavoro in tre parti. Nella prima intendo

contestualizzare la vita dell’autore (fino al 1920) all’interno di un panorama storico e

culturale allargato, partendo dalla tradizione teatrale famigliare, del padre Scarpetta,

fino all’analisi della situazione autoriale e drammaturgica presente in quegli anni a

Napoli e nel resto d’Italia.

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Nella seconda parte, invece, analizzo in modo più approfondito la vera e

propria attività produttiva dell’autore (dopo il 1920), alternando lo studio dei testi

teatrali, divisi in due “Cantate” secondo la raccolta pubblicata per l’editore Einaudi,

alla storia dello sviluppo formativo di Eduardo e della sua carriera di commediografo

nelle diverse compagnie.

Nella terza e ultima parte del mio lavoro, infine, entro nel merito della

commedia Napoli Milionaria!, svolgendo, in un primo tempo, un’analisi generale

dell’opera, le sue principali caratteristiche e le tematiche di fondo, mentre nel

secondo paragrafo avvicino il mio studio alla struttura interna del lavoro eduardiano,

atto per atto, facendo riferimento all’edizione televisiva del 1962 e al testo della

“Collezione di teatro” della Einaudi.

Ho quindi concluso il mio elaborato con la scheda tecnica dell’edizione tv

analizzata ed un elenco di studi critici che ho utilizzato per arricchire e completare la

mia ricerca.

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PARTE I

CONTESTO SOCIALE E PANORAMA TEATRALE

1.1 – SULLA SCIA DELLA TRADIZIONE SCARPETTIANA

Se si osserva il contesto familiare in cui Eduardo affonda le proprie radici, si

comprende immediatamente che il suo destino è quantomeno inevitabile; nato il 24

maggio 1900 e figlio illegittimo del più famoso attore napoletano di quegli anni,

Eduardo Scarpetta, il giovane De Filippo (la madre era Luisa De Filippo, nipote della

legittima moglie dello Scarpetta, Rosa De Filippo) attraversa, insieme ai due fratelli

Titina e Peppino, una fase adolescenziale all’ombra degli innumerevoli successi

paterni, portatori di un rinnovato repertorio teatrale partenopeo.

La formazione del primo Eduardo risente fortemente di questa <<riforma

scarpettiana>>, interprete di una decadenza della tradizione popolaresca dei

“canovacci”, delle “maschere” e della stessa <<commedia dell’arte>>, la quale aveva

trovato per molto tempo in Antonio Petito1 il suo erede principale; la creazione del

personaggio-“macchietta” <<Don Felice Sciosciammocca>> (non più totalmente una

maschera), “l’imborghesimento” dei personaggi-tipo e un repertorio più attento alla

realtà e ai vizi della società napoletana, costituiscono i punti principali della suddetta

svolta stilistica scarpettiana, volta a rappresentare la borghesia napoletana e

“[…}orientata, lucidamente, da una scelta di genere: la commedia brillante ”2.

Questo importante mutamento di obiettivi nelle rappresentazioni è sinonimo di

una forte volontà di “formalizzazione” dello spettacolo in generale, coinvolgendo

inoltre una regolamentazione del linguaggio dialettale, non più un gergo

esclusivamente caricaturale (il <<Pulcinella>> petitiano) ma un parlato che si

estende e accomuna l’intera società piccolo borghese (“Il suo Sciosciammocca

aveva assunto così la maschera, senza la maschera, di quel ceto borghese appena

1 Antonio Petito ( Napoli, giugno 1822 – marzo 1876 ), drammaturgo italiano e figura importante del teatro napoletano dell’Ottocento. Figlio di Salvatore Petito, esordisce sulla scena al Teatro San Carlino di Napoli, rappresentando quasi tutti i suoi lavori per il popolo.

2 Anna Barsotti, Introduzione a Eduardo, Bari, Laterza, 1992, p. 12

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elevatosi, che della precaria promozione sociale portava addosso, negli abiti

acchittati e striminziti, i segni vistosi e ridicoli.”3).

Eduardo Scarpetta rappresenta, dunque, una figura fondamentale non solo

del teatro, ma dell’intera cultura napoletana di fine 1800-inizi 1900 e in questa

atmosfera riformatrice cresce appunto il giovane De Filippo, attirato sin dalla

primissima età dalle tavole del palcoscenico. La passione per la professione paterna

lo stimola sempre più a mettere alla prova, sin da piccolo insieme ai due fratelli, le

proprie capacità espressive e l’innata comicità con brevi sketch e buffi teatrini,

mentre la sua prima apparizione in un vero spettacolo, nella compagnia del padre

durante la parodia dell’operetta La Geisha, avviene già all’età di quattro anni.

È l’inizio così di un destino inevitabile per “i tre De Filippo” (Titina, Eduardo e

Peppino), quello di figli d’arte, dove i giochi adolescenziali e le esilaranti scenette

comiche in famiglia si intersecano con le prime saltuarie comparse nella compagnia

dello Scarpetta, tra cui nella sua famosa commedia ‘Nu ministre’ miez’ i guaie e nel

suo cavallo di battaglia Miseria e nobiltà.

Questi “[…]primi, significativi contatti, con la realtà del palcoscenico, nei sui

aspetti più suggestivi e invitanti, ma anche nei suoi rischi e nelle sue paure” 4, sono

accompagnati da una costante tutela e un assiduo supporto da parte del padre, vigile

sia nella preparazione scolastica di Eduardo, che però si ribella alle rigide regole

imposte dal collegio arrivando persino alla fuga, sia nella crescita del figlio nel mondo

dello spettacolo, verso la strada del grande teatro.

Nonostante l’opposizione della madre Luisa, tutto ormai spiana il cammino di

Eduardo e dei due fratelli: “gli esempi familiari, l’ambiente in cui si muoveva, tutto

spingeva verso quella direzione”5 e il 1913 segna finalmente l’inizio della carriera di

attore, quando è scritturato nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta;

periodo questo di numerosi sacrifici ed esperienze, professionali e personali,

3 Anna Barsotti, Eduardo, Torino, Einaudi, 2003, p. 16

4 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, introduzione e guida allo studio dell’opera eduardiana. Storia e Antologia della critica, Firenze, Le Monnier, 1980, p. 1

5 Giampaolo Infusino, Eduardo De Filippo, un secolo di teatro, Napoli, LITO-RAMA, 2004, p. 19

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Eduardo vive da vicino l’abile repertorio scarpettiano, affina le proprie qualità

comiche e interpreta, come “secondo brillante”, numerosi personaggi.

Se da un lato il giovane De Filippo, durante le prime esperienze, ottiene un

successo eccezionale sulla scia della tradizione teatrale paterna e sfrutta, a tal

scopo, le sue caratteristiche fisiche per ricavarne effetti comici, dall’altro lato non si

preclude la possibilità di sperimentare altri generi e sottogeneri ampliando il proprio

bagaglio professionale:

[…] sperimenta un repertorio che alterna farse pulcinellesche e melodrammi recitati senza musica, copioni storico-sociali a puntate e sceneggiate; entra in contatto, dunque, con l’altro filone del teatro popolare-dialettale, che trasformava in spettacolo la quotidianità più grama e violenta di Napoli.6

Il teatro del padre Scarpetta rappresenta dunque un importante inizio di

carriera attoriale per Eduardo, affascinato appunto da un tipo di commedia

“d’evasione”, di relax, nella quale le allegorie buffonesche e ciniche smuovono l’ilarità

del pubblico; ben presto tuttavia si sente insoddisfatto e comincia a prendere le

distanze da questa modalità di rappresentazione ancora troppo vicina al genere del

varietà, poco verosimile nei confronti della difficile realtà napoletana, fuori dal tempo

e dallo spazio in un quotidiano immobilismo, dove l’unico intento è quello di fare

ridere senza filtri, indagini intellettuali e ipotesi esistenziali.

Durante gli anni della prima guerra mondiale Eduardo, già promettente attore,

vive da vicino la miseria e la crudeltà dell’ambiente intorno a sé, specialmente

frequentando il Tribunale di Napoli, “[…]uno dei luoghi d’ispirazione del

drammaturgo, il palcoscenico di una piccola umanità derelitta, il laboratorio di mille

casi umani, che si ritroveranno più o meno riconoscibili nel suo teatro”7; tutto ciò lo

spinge a coltivare, insieme al fratello Peppino, un proposito di riforma teatrale, una

nuova commedia napoletana che sappia esprimere e mostrare la Napoli borghese,

con i suoi problemi materiali e sociali di tutti i giorni.

Rimanendo fedele agli aspetti formali del teatro scarpettiano: “[…]fedeltà al

copione scritto, abolizione delle improvvisazioni divenute ormai insopportabilmente

lunghe e tediose, disciplina in compagnia e nello scrivere”, Eduardo si avvia ad

6 Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 27

7 Giampaolo Infusino, Eduardo De Filippo, un secolo di teatro, cit. , p. 24

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intraprendere, a partire dal 1920, un percorso e una carriera di autore sempre attento

all’individuo e alla società ed equilibrando sapientemente, almeno nella prima parte

delle sue opere, riflessi seri con quelli comici.

1.2 – IL TEATRO NAPOLETANO E ITALIANO DI INIZIO SECOLO

Come è stato osservato in precedenza, per potere cogliere in modo completo

la complessità dell’opera eduardiana, è necessario tracciare ora, dopo avere chiarito

la condizione di figlio d’arte del giovane De Filippo, una mappa della situazione

teatrale italiana di inizio Novecento, in modo da comprendere in seguito il contesto

culturale, valoriale e di messinscena che si presenta a Napoli in quegli anni e con cui

Eduardo si confronta inevitabilmente.

Il 1900 può essere definito come il secolo più importante, in termini di

fermenti stilistici, per la drammaturgia in lingua e in cui il teatro assiste ad una

reazione alle due forme di rappresentazioni di primo piano presenti sulle scene

italiane: il teatro verista del Sud (Verga) e quello borghese del Nord; se il primo

possiede una matrice popolare, legato alle feste in piazza, all’aperto, coinvolgendo il

pubblico di massa, il secondo invece avviene prevalentemente al chiuso, nel

<<salotto>>, in un clima di quotidiane discussioni sul denaro, sulle proprie ambizioni

di vita ecc…

Nonostante l’enorme successo del teatro verista, supportato senza ombra di

dubbio dalla presenza di famosi interpreti, il nuovo secolo ne svela i limiti, costituiti

sia dalla grigia quotidianità, sia dalla realtà materiale del denaro borghese e della

“roba” nel Sud; “in definitiva, pur nella diversità delle atmosfere e dei problemi sociali,

si trattava di una drammaturgia in cui il “documento” prevaleva sull’elaborazione

fantastica, la cronaca sulla storia, i problemi materiali su quelli esistenziali.”8

Grazie anche agli esempi di alcuni paesi europei, la reazione ad una tipologia

di teatro troppo oggettivo si esprime in più direzioni, ma sicuramente la prima figura

chiave di questo cambiamento la si avverte in Gabriele D’Annunzio; questo ultimo si

oppone infatti nella propria drammaturgia, sia sul piano del contenuto che su quello

8 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 8

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della forma, al ritratto sociale “documentaristico” del teatro verista-borghese e, con la

forte ambizione di recuperare l’essenza delle rappresentazioni greche, prova a

creare una sorta di tragedia moderna accompagnandola con un’atmosfera musicale,

di danza e canto lirico.

Con D’Annunzio si registra una vera e propria rivalsa del teatro di poesia; le

proprie tragedie di ambientazione storica e mitica fungono da occasione per una

rivoluzione di parola, musica, scenografia ed inoltre, nonostante gli esordi

decisamente mediocri, con La città morta apre un nuovo percorso alla scena italiana

arrivando nel 1904 al trionfo tanto atteso con La figlia di Iorio, massima

“..espressione di questa concezione mitica e rituale, che ha un preciso riferimento

nelle tragedie di Eschilo e di Sofocle”9.

Straordinaria sintesi di passato con il presente, ambientazione di luoghi fuori

dal tempo e dalla storia e adeguata consonanza fra materia e l’espressione, in cui gli

stessi versi si fanno dramma, rappresentano ulteriori punti essenziali della mutata

drammaturgia dannunziana, che finalmente libera il teatro italiano dal predominio del

“documento” e che chiude il suo ciclo con il ritorno al <<mito>> di Fedra nel 1909;

tutto ciò non rimane ovviamente un capitolo a parte nel rinnovamento scenico

nazionale, al contrario crea la base per tutta la drammaturgia successiva ed inoltre

spiana la strada al suo erede di maggior successo, Sem Benelli.

Identificato maggiormente in un titolo, La cena delle beffe(1909), Sem Benelli

raggiunge consensi inimmaginabili sia in Italia, sia nel resto del mondo diventando, in

un arco di tempo brevissimo, il nuovo agognato autore del grande teatro di poesia

drammatica; già con la sua prima “pièce”, Tignola (1908), commedia secca e

dolorosa, il giovane scrittore si accosta, in questo caso all’opposto, al teatro

dannunziano, che segna profondamente la propria attività e rappresenta la sua più

forte ambizione.

La cena delle beffe offre a Benelli l’occasione per raggiungere la propria

aspirazione e lavorare, sia con la presenza di attori molto abili, sia con l’importante

supporto di un famoso scenografo-costumista, sull’esperienza dannunziana, anche

se con nuovi intenti; ai personaggi atteggiati ed eroici di d’Annunzio preferisce infatti

9 Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento,Roma, ed. Studium, 2002, p. 19

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uomini moderni, travagliati, sensibili e interpreti delle inquietudini di quegli anni,

anche se operanti e indossanti vesti del passato:

Il merito di Benelli, e, probabilmente la ragione dei suoi trionfi scenici , fu di travestire, nell’ambientazione storica della Firenze fastosa e fulgida di Lorenzo de’ Medici, sentimenti, sogni, inquietudini, amarezze tipicamente contemporanei, propri di quegli anni di rapida evoluzione sociale.10

La strada intrapresa prima da d’Annunzio e poi da Benelli, viene

successivamente seguita da molti altri autori, ma tutto ciò rappresenta solo una parte

del già citato rinnovamento teatrale in lingua; in modo assai diverso e con ben altra

consapevolezza, infatti, Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo,

contrasta i limiti e denuncia le convezioni del verismo borghese, proponendo al

pubblico l’idea di un teatro nuovo, lontano inoltre dalle ricostruzioni storiche, dagli

eroi e dagli scenari del passato di quello post-dannunziano.

Per comprendere l’essenza del movimento futurista, è indispensabile citare i

tre manifesti che aiutano a delineare con chiarezza gli obiettivi di questa radicale

trasformazione: Il Manifesto dei Drammaturghi futuristi (11 gennaio 1911), nel quale

viene attaccata la drammaturgia borghese, si denuncia l’uso esclusivamente

<<intellettuale>> del teatro e si invita alla partecipazione attiva del pubblico, Il

Manifesto del Teatro di Varietà(1913) e Il Manifesto del Teatro Sintetico (1915),

[…]rappresentano uno dei maggiori contributi europei, e quindi non solo italiani, a quella rivoluzione scenica dalla quale, nel primo quarto del secolo, nascerà un modo del tutto nuovo di concepire l’evento teatrale11

Comune negli intenti degli esponenti futuristi è la distruzione e la totale

assenza di trama, la condanna e l’allontanamento dalle forme del teatro

contemporaneo, del dramma borghese, di quello storico e verista, proponendo, nel

Manifesto del 1913, come “antidoto” il Teatro di Varietà, unica forma adatta alla

rappresentazione del dinamismo della modernità, “[…]con la sua agilità, il suo senso

dell’eccentrico e del meraviglioso, con il suo gusto della sorpresa”12.

Solo il Teatro di Varietà viene dunque avvertito come moderno, sovversivo,

veloce, capace di rispecchiare le nuove correnti della scienza e il dominio indiscusso

10 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 9

11 Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, cit. , p. 31

12 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 11

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della Macchina di quegli anni, distruggendo negli spettacoli ogni logica, introducendo

l’inverosimile e l’assurdo, tra cui la partecipazione attiva del pubblico con gli attori ed

inoltre, sostituendo la prosa al verso libero, capace di esprimere meglio il dinamismo

contemporaneo.

Ancora più ambiziosi sono gli obiettivi descritti da Marinetti, insieme a due suoi

collaboratori, nel manifesto del 1915 ( del Teatro Sintetico ), sicuramente l’apporto

più rivoluzionario al teatro italiano, prima della drammaturgia pirandelliana che sarà

analizzata più avanti. Oltre ad approfondire i temi trattati precedentemente, tale

manifesto introduce il concetto di spettacolo “sintetico”, condensato in pochi minuti o

secondi, in cui il gesto prevale sulla parola, dove la logica e la convenzione tecnica

scompaiono lasciando posto al dinamismo, all’improvvisazione, all’irreale e

all’assurdo.

Grazie all’intuizione di Marinetti, uomo di spettacolo, animatore e grande

provocatore, finalmente il pubblico acquista un rapporto diverso con la

rappresentazione, che va ben oltre la semplice fruizione; viene infranto

definitivamente il solido legame platea-palcoscenico, a favore di una forte

compenetrazione, partecipazione e coinvolgimento degli spettatori, fungendo a volte

da veri e propri protagonisti dell’azione.

Risulta facile comprendere ora, in un contesto totalmente mutato rispetto al

1800, l’interesse del futurismo per un tipo di teatro e di spettacolo che infrange tutti

gli schemi precedenti e che ebbe il merito,

[…]al di là di alcuni aspetti goliardici, di rivelare agli sbigottiti e stupefatti spettatori un teatro diverso da quello presente sui palcoscenici italiani, tutto affidato non alla costruzione scenica e alla trama delle battute, ma al gesto pieno di significati, alla battuta folgorante, alle scenografie estrose e spregiudicate.13

Se da un lato, tuttavia, è indiscutibile il ruolo fondamentale di Marinetti in

questa evoluzione e trasformazione nel modo di concepire lo spettacolo, dall’altro

lato è corretto specificare che la vera rivoluzione espressiva drammaturgica non

viene compiuta dai futuristi, ma dagli autori del <<grottesco>> e specialmente da

Luigi Pirandello, famoso romanziere siciliano di spiccata personalità che, già

13 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 12

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conosciuto per i suoi successi letterari in tutto il mondo, approda nel mondo del

teatro all’età di 50 anni.

Tra il 1916 e il 1926 si assiste infatti ad un periodo importantissimo e ad una

stagione splendida del panorama teatrale italiano, sia per i nuovi autori, sia “[…]per i

modelli che arrivano dall’Europa attraverso i grandi innovatori delle scene di fine

secolo: Ibsen, Strindberg, Checov […]”14; sono anni di intensi fermenti, di forti

trasformazioni che rinnovano il patrimonio artistico consolidato nel secolo precedente

e che danno vita e accompagnano l’attività del teatro grottesco, con “[…] la

rivoluzione pirandelliana, l’espressionismo di Rocco di San Secondo e il realismo

magico di Bontempelli”15.

Sulla scia delle esperienze europee si attua un decisivo passaggio da un

teatro oggettivo, caratteristico del verismo e del naturalismo, ad uno fortemente

soggettivo,in cui si indaga la coscienza, il pensiero, il problema dell’esistenza

dell’uomo; questo ultimo viene a coincidere, inoltre, con la crisi del personaggio ben

definito, a favore di altri non realizzati, che vivono il dramma della vita e della

solitudine in una estenuante ricerca di nuovi significati.

Con grande impegno Pirandello affronta tutto ciò e già nelle sue prime opere,

Pensaci, Giacomino!, Il berretto a sonagli e soprattutto Così è (se vi pare)(1917),

formula ed esprime i suoi temi di fondo, come il problema dell’essere e dell’apparire,

della realtà e finzione, l’essere per sé e per gli altri, le contraddizioni dell’esistenza, il

problema della fuga e dell’evasione ecc… ; dopo i primi esiti, influenzati ancora da

uno stampo naturalistico-verista, Pirandello si allontana definitivamente da questa

tradizione, soprattutto da quella siciliana, “[…]per conquistare i territori inesplorati

della coscienza della condizione umana”16.

Con I Sei personaggi in cerca di autore(1921) e con l’Enrico IV (1922), l’autore

siciliano giunge alla massima espressione della propria drammaturgia, mettendo in

scena non più personaggi tormentati nelle scelte e nelle decisioni da prendere, bensì

esseri umani perseguitati dalle proprie azioni passate, dai propri irrimediabili errori

14 Giampaolo Infusino, Eduardo De Filippo, un secolo di teatro, cit. , p. 51

15 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, Milano, Mursia, 1982, p. 21

16 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 14

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compiuti; l’uomo è colto dunque nel momento della riflessione con sé stesso, con la

propria coscienza, nel disperato tentativo di comprendere l’essenza e le ragioni delle

azioni intraprese, tenendo sempre viva l’attenzione al rapporto fra verità e finzione,

tra illusione e realtà.

È corretto infine menzionare, in riferimento all’apporto rivoluzionario del

grottesco, alcuni autori come Luigi Chiarelli17, con la propria opera dal titolo

suggestivamente pirandelliano La maschera e il volto (1916), Rosso di San

Secondo18, che, con Marionette, che passione! (1918), mostra la sofferenza di tre

uomini sconfitti dalla passione amorosa; danno il proprio contributo inoltre, Luigi

Antonelli19 e Massimo Bontempelli20, il primo con L’uomo che incontrò se stesso

(1918), il secondo con Nostra Dea (1919), in cui il tema del moltiplicarsi dell’<<io>>

esaspera il problema del definire una salda personalità e un volto autentico.

Se questa rappresenta, in modo schematico, la situazione del teatro italiano e

del suo rinnovamento, molto diversa si presenta la scena teatrale napoletana del

primo Novecento; oltre a Eduardo Scarpetta, autore-attore preferito della borghesia

napoletana, anche Federico Stella, Salvatore di Giacomo e Raffaele Viviani svolgono

una parte significativa nella tradizione drammaturgica partenopea.

Come è stato osservato in precedenza, mentre Scarpetta ritrae specialmente i

vizi della Napoli piccolo-borghese, gli altri tre autori si rivolgono quasi esclusivamente

ad un pubblico ben diverso, tutto di estrazione popolare; nei testi e nelle opere di

Stella, caratterizzate da un realismo spietato, tormentoso e difficile, è presente un

17 Luigi Chiarelli (Trani, 7 luglio 1880 – Roma, 20 dicembre 1947), commediografo italiano, iniziatore del genere grottesco contemporaneo. Agli inizi del Novecento si dedica all’attività di giornalista, critico e scrittore teatrale.

18 Rosso di San Secondo (Caltanissetta, 1887 – Lido di Camaiore, 22 novembre 1956), drammaturgo e giornalista italiano. Tra le sue opere più famose ricordiamo La sirenetta incantata, suo esordio nel 1908, e Marionette che passione! (1917), che accese l’interesse di Pirandello.

19 Luigi Antonelli (Teramo, 1882-1942), appartenente al "teatro grottesco" che si opponeva allo psicologismo borghese del teatro italiano dell'epoca. Tra le sue commedie, fiabesche e sottilmente ironiche, sono: L'uomo che incontrò sé stesso (1918), La fiaba dei tre maghi (1919), L'isola delle scimmie (1922).

20 Massimo Bontempelli (Como, 12 maggio 1878 – Roma, 21 luglio 1960), scrittore e giornalista italiano. Dopo una fase dannunziana, poi futurista, vive una amicizia ricca di frequentazioni e scambi culturali con l’ambiente intellettuale di Parigi, che lo porta all’inizio degli anni Venti alle prime opere di impianto magico. Importanti sono anche i rapporti con il teatro, specialmente con Pirandello.

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“[…]tema unico, la lotta tra il Bene e il Male, considerata nella realtà sociale di

Napoli, con il trionfo finale del primo sempre rappresentato dalla povera gente”.21

Su questa stessa linea, e tenendo presente la lezione verista verghiana de La

lupa e di Cavalleria rusticana, Di Giacomo diviene invece ben presto il portavoce di

un teatro dialettale, portando avanti una sorta di melodramma popolare, in cui i temi

principali della passione amorosa, del senso del peccato e della superstizione si

intrecciano al destino individuale dei personaggi; per un altro verso, infine, Raffaele

Viviani22 analizza attentamente la realtà sociale in cui vive, per poi dare vita,

attraverso le sue “macchiette” popolari, ai sentimenti, alle ansie, alle passioni e alle

ingiustizie dell’ umile plebe partenopea.

Diviene facile, a questo punto, comprendere in che modo vengono avvertiti,

nel panorama teatrale napoletano, tutti i fermenti rivoluzionari che attraversano

l’Europa e la maggior parte dell’Italia nel primo Novecento; se da una parte si avverte

il desiderio di aprire le proprie porte ad un nuovo stile di spettacolo, dall’altra parte,

[…]le teorie dell’arte oggettiva come riproduzione del reale si sposano bene con i mali endemici della città, rappresentando quel popolo napoletano che nei quartieri della Vicaria o della Sanità vive quotidianamente, sulla propria pelle, una situazione di “vinti”, fatta di miseria, di scoramenti, di speranze, di aspirazioni ma anche di fantasticherie23

Il teatro napoletano dunque, con il suo rinnovamento faticoso e tormentato,

“[…]appare molto lento ad accogliere nuove forme di spettacolo e i repertori

guardano al futuro con molta cautela”24; se per un verso la città è pronta ad

accogliere nuove forme e nuovi stili, come lo testimonia il grande successo del

movimento futurista di Marinetti che invade Napoli nel 1910, per un altro i gusti del

pubblico sono ancora fortemente “[…]legati ad un tardo-romanticismo o ad un

verismo di maniera”.25

21 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 4

22 Raffaele Viviani (Castellammare di Stabia, 10 gennaio 1888 – Napoli, 22 marzo 1950), poeta, commediografo, compositore e attore teatrale. La sua opera si differenzia da quella di Eduardo, mettendo in scena i mendicanti, la plebe. Durante il fascismo subisce, con la negazione dell'uso dei dialetti, l'ostilità e il silenzio della critica e della stampa.

23 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 24

24 Giampaolo Infusino, Eduardo De Filippo, un secolo di teatro, cit. , p. 54

25 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 25

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In questo contesto, in cui diviene difficile allontanarsi sia da un teatro

dall’effetto comico, prodotto da Petito e da Scarpetta, sia da un altro di stampo

realistico, come i drammoni popolari di Federico Stella, Eduardo De Filippo eredita

tutte queste problematiche e difficoltà e se, in un primo momento, accetta il teatro

comico imperante, successivamente, quando nel 1920 intensifica la sua attività di

autore, ne percepisce l’insufficienza e si predispone a cambiarla.

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PARTE II

LE “CANTATE” EDUARDIANE

2.1 – CANTATA DEI GIORNI PARI E L’INFLUENZA DI PIRANDELLO

La parte iniziale del primo capitolo ha introdotto e chiarito la scia della

tradizione, le origini e il contesto familiare del giovane De Filippo fino al 1919-1920,

ovvero nel pieno della sua crescita e formazione.

Questo capitolo invece, analizza ed approfondisce la vera e propria attività

autoriale di Eduardo, rispettando la suddivisione del medesimo in due raccolte, o

<<Cantate>>: << Cantata dei giorni pari>>, il quale raggruppa la sua produzione fino

allo scoppio della seconda guerra mondiale, e la <<Cantata dei giorni dispari>>, in

cui sono presenti i testi scritti dopo il 1940;

Pari e dispari come un gioco crudele con la vita, quella apparentemente perfetta, ma cinica del primo dopo-guerra, e quella triste e lacerata del secondo dopo-guerra; un gioco amaro, ironico che nasce da quell’ingiustizia sociale che è la molla di tutto il teatro eduardiano.26

All’interno delle Cantate tuttavia, specialmente in quella esaminata in questo

paragrafo, si trovano solo le opere selezionate, da un repertorio molto vasto, dallo

stesso autore; tutto ciò non deve stupire, dato che l’apprendistato attoriale si abbina

lentamente agli esordi autoriali, portando Eduardo, fra il 1920 e il 1921, oltre a

inventare brevi sketches per il genere del varietà, a scrivere per la “rivista”

monologhi buffi o scenette brillanti.

Sempre nello stesso periodo inoltre, durante il servizio militare a Roma,

organizza spettacoli per i bersaglieri e i soldati della caserma, mentre di sera recita al

teatro Valle nella compagnia del fratellastro, Vincenzo Scarpetta.

La prima opera presente nella Cantata iniziale, è l’atto unico Farmacia di turno

(1920), precedentemente intitolato Don Saverio ‘o farmacista e scritto probabilmente

per la Compagnia di Vincenzo Scarpetta: “[…] un farmacista filosofo è costretto, da

un fatale scambio di flaconi, ad assumere la parte del marito cornuto che vendica il

26 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 31

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proprio onore”27; nonostante sia ancora facilmente riscontrabile l’influenza del teatro

paterno, con l’uso di personaggi-macchiette e una trama che funge da “[…]semplice

pretesto per un gioco farsesco vivace, ma prevedibile”28, possono essere ravvisate

alcune fondamentali costanti della sua arte:

[…]l’ambientazione piccolo borghese, il luogo (la farmacia) come ritrovo di una collettività appartenente a classi diverse, il gioco beffardo del destino, il taglio realistico della vicenda e l’ironia sorniona che genera una particolare forma del comico.29

Se da un lato, a un livello macrotestuale, Farmacia di turno non incide in modo

significativo nell’itinerario drammaturgico di Eduardo, non oltrepassando il senso

della “trovata” scenica, da un altro, a livello microtestuale, è interessante segnalare il

monologo del protagonista, il quale informa il pubblico dell’antefatto con un

procedimento di analessi; questa tecnica, che discende da un’antica tradizione

teatrale, anticipa in prospettiva altri più famosi monologhi eduardiani che “[…]più tardi

diventeranno segnaletici di una media incomprensione fra gli uomini, parentesi

aperte nel “dialogo” per dar luogo a monologhi essenziali”.30

La seconda opera, ben più matura e con un piano drammaturgico molto abile,

è la commedia in tre atti Uomo e galantuomo (1922), in cui una compagnia di artisti

vagabondi vive nella costante ricerca di sopravvivenza.

Nonostante risulti ancora determinante il gioco farsesco e una struttura

scenica che rimanda al modello scarpettiano, Eduardo inizia a tingere la sua opera di

vibrazioni, risvolti e contenuti morali ben precisi, come la continua lotta fra le passioni

umane e le convenzioni sociali, nel testo rappresentata dal mondo del teatro; questa

luce di pirandellismo, senza alcuna componente filosofica o programmatica, e la

stessa tecnica del “teatro nel teatro” si intrecciano con la tematica della <<pazzia>>

simulata, portata all’assurdo e all’eccesso.

27 Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 28

28 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 43

29 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 32

30 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), Roma, Bulzoni ed. , 1995, p. 27

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Nella commedia sono presenti tre casi di pazzia recitata, una pazzia che si

discosta dal concettualismo pirandelliano per diventare puro strumento umoristico e

di spettacolo: per primo è Alberto, impresario della compagnia che ama la misteriosa

Bice, a fingersi pazzo in casa del marito della ragazza per salvare l’onore, mentre in

seguito è lo stesso marito di Bice, il conte-medico Tolentano, a usare questo

espediente al commissariato per difendere la propria rispettabilità e per non essere

accusato di tradimento; infine nel terzo atto è la volta del protagonista Gennaro, il

capocomico della compagnia, che simula la pazzia pur di non pagare il conto

all’albergatore.

Il dramma dell’onore si trasforma in un’irresistibile farsa, mediante una gran

cura degli effetti e delle trovate comiche, ma non impedisce di cogliere, proprio dal

“gioco della pazzia”, la metafora della condizione umana, ovvero il divario fra i

borghesi che usano la finzione “[…]per salvare l’apparenza (Alberto) o sfuggire alle

proprie responsabilità (Conte Tolentano), e i <<guitti poveri>> che la improvvisano

come parte per esorcizzare l’amare realtà dei debiti”31.

Nonostante sia ancora presente un disegno drammaturgico scarpettiano,

tipico “[…]incastro di un intrigo galante (vaudeville) in un quadro di miseria abituale

ma pittoresca, che riconduce a Miseria e Nobiltà”32, l’uomo eduardiano di quest’opera

incarna e rappresenta, nell’antropologia delle Cantate, le molte varianti del primo

termine dello scontro fra <<individuo>> e <<società>>.

Dopo queste iniziali prove di autore, tra il 1922 e il 1927 Eduardo affronta

anni caratterizzati da episodi significativi per la sua completa formazione: nel 1922 la

sua prima esperienza di regista con Surriento Gentile e una sortita fuori dalla

compagnia del fratellastro per entrare in quella di Francesco Corbinci; con la morte

del padre Scarpetta nel 1925 e dalla collaborazione nel 1927 con Michele Galdieri33

per La rivista che non piacerà, acuta satira di grande successo della vita napoletana

che tuttavia non ottiene una fortuna economica, Eduardo tenta per la prima volta,

insieme al fratello Peppino, di diventare impresario e amministratore di se stesso.

31 Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 30

32 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 29

33 Michele Galdieri (Napoli, 18 novembre 1902 – 1965), commediografo, paroliere e sceneggiatore italiano. Dal 1925 al 1965 collabora con i grandi interpreti del cinema e del teatro italiano.

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I due De Filippo sono sempre disposti a realizzare i loro obiettivi, a riformare la

commedia e il teatro napoletano, ma nel 1927 Eduardo accetta una scrittura nella

compagnia di Luigi Chiarini34, famoso esponente del teatro nazionale in lingua; la sua

forte aspirazione di raggiungere la vetta più alta del teatro italiano e, ancora di più, di

uscire dalla <<napoletanità>> e dalle esperienze della sua tradizione regionale, si

spegne in modo deludente dopo due mesi, a causa di un repertorio del tutto estraneo

ai suoi interessi, non lasciandogli altra alternativa che il rientro nella compagnia di

Vincenzo.

Il tema della pazzia, presente in Uomo e galantuomo, ritorna nel terzo lavoro

di Eduardo, Ditegli sempre di sì (1927), una commedia in due atti che non solo

approfondisce il discorso affrontato nell’opera precedente, ma rappresenta “[…]la

prima commedia giocata sulle ambiguità del linguaggio, in cui si profila il leitmotiv

della <<comunicazione difficile>> ovvero della crisi del dialogo”35.

Se tuttavia in Uomo e galantuomo la pazzia è solo un espediente, un mezzo,

o meglio ancora una pazzia simulata, qui invece caratterizza

[…]la condizione del protagonista, Michele Murri, che viene reinserito nella vita sociale, dopo un anno di manicomio, da uno psichiatra ottimista e fiducioso nelle sue capacità di recupero. Michele è un pazzo tranquillo, socievole, cortese: all’apparenza l’uomo più normale di questa terra. In realtà, la sua follia è più sottile, consiste essenzialmente, nel confondere i suoi desideri con la realtà, con tutte le conseguenze immaginabili in casi del genere.36

L’opposizione che sta alla base della struttura interna del testo è quella

corrente fra pazzi e sani, un conflitto concreto, quotidiano, che esprime ancora una

volta ciò che l’Autore stesso afferma essere il fondamento del suo teatro, ovvero la

lotta fra <<individuo>> e <<società>>; se da un lato tale contrapposizione porta

Michele a creare una serie di qui pro quo, di incomprensioni ed equivoci con il mondo

reale (dei <<sani>>) apparentemente attraverso uno sfondo farsaiolo e umoristico,

dall’altro lato si comprende l’amarezza del conflitto interiore vissuto dal protagonista

e che in un certo senso conduce alla morale del testo.

34 Luigi Chiarini (Roma, 20 giugno 1900 – 20 novembre 1975), sceneggiatore, critico e regista italiano. Nel 1929 si accosta al cinema collaborando alla rivista Educazione Fascista

35 Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 33

36 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 46

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Non vuole essere affrontato il rapporto tra finzione e realtà, caro a Pirandello,

bensì quello tra vero e non vero, attraverso la condizione di confusione mentale di

Michele, il quale, una volta a contatto con la società,”[…]aspira alla razionalità pura,

senza filosofemi, al significato primario delle parole, a quello letterale, senza

metafore o sovrasensi. La morte è morte, l’amore è l’amore, senza sotterfugi”37; il

protagonista si contrappone in questo senso a Luigi, il giovane che si impossessa

della sua camera, non pensando alla vita come luogo di simulazioni , ipocrisie e di

false rappresentazioni ma opponendosi a tutto ciò che <<non è vero>>, dando

credibilità <<all’essere>>.

Attraverso questo capovolgimento di ruoli, fra i cosiddetti <<sani>> e i <<saggi

pazzi>>, Eduardo si dimostra attento al legame con il quotidiano, con una realtà che

va vissuta così come si presenta, senza artifici, giungendo lentamente verso la sua

tesi: “[…]i veri pazzi sono quelli che ragionano ipocritamente e non coloro che

aspirano alla verità assoluta come Michele[…]”38.

Dopo due commedie significative come Uomo e galantuomo e Ditegli sempre

di sì, Eduardo inserisce nella Cantata dei giorni pari l’atto unico Filosoficamente

(1928), una prova decisamente minore, un bozzetto scontato e prevedibile di una

famiglia piccolo borghese che in una prospettiva futura può richiamare, ad un livello

poetico inferiore, le importanti commedie familiari come Natale in casa Cupiello

(1931) e Napoli Milionaria! (1945); Il tono pacato, l’andamento lento di questo

quadretto di vita familiare, semplice pretesto per una caratterizzazione tutta esteriore

dei personaggi, accompagnano l’azione in un reale immobilismo, privo di colpi di

scena, dove “[…]c’è solo la statica situazione accettata da tutti (i personaggi-

ambiente) <<filosoficamente>>”39.

Sul piano artistico intanto, il 1929 rappresenta un anno fondamentale per i tre

De Filippo, i quali, lasciata la compagnia di Vincenzo Scarpetta, si riuniscono nella

Compagnia Molinari del Teatro Nuovo, costituendo, dopo avere strappato

l’autorizzazione al capocomico, un gruppo autonomo dal nome <<Ribalta Gaia>>; il

37 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 35

38 Ibidem , p. 36

39 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 44

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loro debutto nel giugno del 1930 con la rivista Pulcinella, principe in sogno….!,

ottiene uno straordinario successo, “l’inizio della vera fortuna per noi De Filippo”

come dice Peppino, ma il merito maggiore di questo trionfo è indiscutibilmente da

attribuire all’atto unico di Eduardo, dal titolo Sik-Sik, l’artefice magico, inserito sotto

forma di sketch nello spettacolo.

Abbozzato in poche ore sul cartoccio del pane e formaggio durante un viaggio

in treno, il Sik-Sik eduardiano trasferisce la povertà e la miseria delle sue origini dalla

pagina al palcoscenico, introducendo

Il personaggio centrale del suo teatro, il povero derelitto costretto alle situazioni più spericolate per procurarsi di che vivere, pestato e deriso da tutti, ma ancora capace, anche se amaramente, di ridere di tutti. Personaggio educato, perciò, all’arte della menzogna per legittima difesa, abile nel raggiro e libero di fantasia;[…]ingenuo e scaltro nello stesso tempo, vinto dalla vita e vincitore per quella vocazione di sognatore.40

Il tema della magia in questo caso non si lega al significato letterale di

illusione, ma a quello di pratica quotidiana del sostentamento, di attività improvvisata

e incerta dell’uomo che è alla ricerca di qualsiasi espediente per vivere; il

protagonista della vicenda infatti, Sik-Sik, metafora della precaria condizione

dell’uomo di spettacolo, costretto quasi sempre ad improvvisare, ad arrangiarsi, si

vede obbligato, data la mancanza del suo compare abituale, ad accontentarsi “[…]di

uno improvvisato all’ultimo minuto, con tutti i rischi ed i risvolti comico-grotteschi che

possono derivarne”41.

Sono due le situazioni estreme in cui la farsa è sul punto di trasformarsi in

dramma: quando la moglie incinta Giorgetta rimane chiusa in un baule, il cui

lucchetto non è più finto ma vero, e successivamente quando, nel “numero” della

colomba, si presenta davanti al pubblico una gallina; se da una parte questo

semplice sketch richiama suggestioni di Raffaele Viviani e di Antonio Petito, dall’altra

tali elementi sono inglobati in una dimensione più profonda, in una condizione umana

40 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 48

41 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 38

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dei personaggi che sfiora la tragedia, tanto da intravedere già “tutto il mondo umano

e lebbroso di Filumena Marturano e di Napoli Milionaria!”42.

Sempre dello stesso anno, ma di livello poeticamente inferiore rispetto a Sik-

Sik, sono le due commedie Chi è cchiù felice ‘e me? e Quei figuri di trent’anni fa.

Pur nella trama farsesca sul tema dell’infedeltà coniugale, la prima si riscatta

alla fine dalla semplice e pura comicità artigianale, confermando in questo modo un

umorismo sarcastico e crudele e un ribaltamento del comico nel drammatico a causa

di un colpo improvviso; il titolo infatti, se nella prima parte dell’opera rispecchia in

pieno la condizione di felicità del tranquillo proprietario terriero Don Vincenzo, il quale

conduce una vita pacata e serena insieme alla dolce moglie Margherita, nasconde in

sé il vero colpo di scena inatteso, ovvero il tradimento di quest’ultima con il giovane

Riccardo.

Crollano in questo modo tutte le certezze, i sacrifici e le speranze del povero

Vincenzo, rimasto per anni isolato nella propria tranquillità e spensieratezza a

rincorrere “[…]la felicità come un qualcosa di necessario per completare la propria

esistenza”43; proprio il tradimento della donna, incomprensibile se rapportata alla sua

affermata virtù, smuove la commedia, per certi versi legata ancora alla vecchia farsa,

verso potenzialità tragiche.

Un ruolo del tutto diverso assume invece l’atto unico Quei figuri di trent’anni fa,

semplice sketch ancorato ai meccanismi del gioco farsesco, attraverso il personaggio

di Luigi, uno sciocco ingenuo ma onesto ingaggiato dal proprietario di una bisca

clandestina per fargli da “palo”; diviene facile immaginare la serie di equivoci e di

situazioni paradossali che il povero protagonista crea a causa della sua ingenuità, in

un gioco creativo di gags e di battute, arrivando alla fine a collaborare con la polizia

nell’arresto della malavita.

Se da una parte queste ultime due opere sono ancora una prova del legame

con la passata tradizione scarpettiana, il vero punto di svolta per Eduardo e i fratelli

lo si coglie, come detto in precedenza, nell’entusiasmante successo di Sik-Sik,

42 Indicazione di ALBERTO CONSIGLIO, un critico napoletano che ha seguito Eduardo e i De Filippo con particolare attenzione fin dai loro esordi ( cfr. Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 49 )

43 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 41

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l’artefice magico, il quale consente loro di formare, nel febbraio 1931, una propria

compagnia stabile ribattezzata con il nome di <<Teatro Umoristico I De Filippo>>;

[…]il passaggio dai cinema-teatro, dove avevano fino allora operato, ai teatri di prosa era un vero e proprio salto di qualità, la conferma dell’esistenza non solo di tre personalità spiccate e complementari di attori, ma anche di un repertorio di nuove commedie che erano pronte per uscire dai cassetti in cui erano rinchiuse. 44

Dopo alcuni primi esperimenti al Teatro Nuovo di Napoli, che non ottengono il

successo sperato, finalmente i De Filippo decidono di sottoscrivere, nel dicembre

1931, un contratto di soli sette giorni con il cinema-teatro Kursaal di Via Filangeri,

debuttando il 25 dicembre con la commedia Natale in casa Cupiello, scritta dallo

stesso Eduardo che, a causa dell’enorme successo, determina la proroga del

contratto fino al 21 maggio 1932.

Con Natale in casa Cupiello, considerato il punto più alto della prima

produzione eduardiana, l’autore abbandona le trovate comiche e si avvia alla

“[…]ricerca di significati più interiori, con una analisi di quel dolore umano che è la

caratteristica principale delle sue commedie”45; la stessa travagliata storia della sua

composizione (Eduardo infatti scrive disordinatamente i tre atti nell’arco di quattro

lunghi anni) può essere accostata e può anticipare in un certo senso la condizione di

dolore, di miseria e di tristezza che accompagna la vicenda della famiglia Cupiello.

Luca Cupiello, centro motore di questa commedia, con il suo candore, con la

sua bontà e l’animo fanciullesco, si scontra quotidianamente con il muro della realtà,

con una società dominata dall’interesse personale, dal vizio, dal cinismo; l’innocenza

del protagonista, espressa chiaramente nella perpetua attenzione al Presepio

natalizio, simbolo di un mondo pacifico e libero dal peccato, si imbatte però nello

sfrontato egoismo dei due figli e nelle continue incomprensioni della moglie Concetta.

Proprio nessuno riesce a comprendere e ad accettare fino in fondo i principi e

i comportamenti innocenti di Luca, che scorge solamente gli aspetti positivi della vita

(come li vedrebbe un fanciullo) e che è circondato da

44 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 26

45 Giampaolo Infusino, Eduardo De Filippo, un secolo di teatro, cit. , p. 59

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[…]una umanità che rifiuta il presepe, ovvero che rifiuta l’amore, l’innocenza, gli affetti, i sentimenti, e la sua visionarietà lo porta a credere che un giorno gli uomini ritorneranno a Cristo ed ai suoi insegnamenti di povertà ed amore, proprio attraverso il presepe 46.

Un rapporto di gemellaggio unisce l’opera successiva Gennareniello (1932)

con la commedia in tre atti Natale in casa Cupiello, sia da un punto di vista di

<<composizione familiare>>, sia per quanto riguarda i ruoli e le relazioni esistenti fra

i personaggi; al centro della commedia infatti si trova il pensionato Don Gennaro,

sognatore, visionario come Luca Cupiello e ricco d’ambizione per le proprie modeste

invenzioni, che sente la necessità di evadere con la mente e con la speranza dal

grigiore e dai problemi sociali che lo circondano.

Specularmente alla commedia del 1931, accanto al “capo famiglia”, vivono la

sorella zitella Fedora (lo stesso ruolo è assunto dal fratello di Luca in Natale), la

moglie Concetta, donna di sacrifici e saldamente legata alla realtà di tutti i giorni

(anche in questo caso scettica e indispettita dall’animo fanciullesco del marito), il

pigro e viziato figlio Tommasino e la giovane ed attraente vicina di casa Anna, la

quale, esattamente come la figlia di Luca Cupiello, è la molla scatenante che rompe

l’apparente tranquillità della famiglia.

È proprio un gioco amoroso perpetuato dalla giovane ragazza, che “[…]offre a

Gennaro la possibilità di sentire quella gioia di vivere da tempo soffocata dalle

preoccupazioni familiari di donna Concetta[…]”47, a fare esplodere la gelosia della

moglie; il naturale gesto di rabbia nei confronti del marito, deciso più che mai ad

abbandonare definitivamente quella casa, si trasforma successivamente in una

difesa e un aspro rimprovero contro due amici che tentano di deridere Don Gennaro,

il quale alla fine si riappacifica con la moglie, dedicandole la <<loro>> canzone.

La soluzione esemplare del lieto fine, attraverso la ritrovata solidarietà dei due

coniugi nella mediocrità quotidiana, è un esempio di come Eduardo voglia

rappresentare un ambiente familiare “[…]con amarezza e con quel registro comico

che sempre più va allontanandosi dai “tempi” della farsa, per un gioco teatrale più

46 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 44

47 Ibidem , p. 47

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intimo e più attento alla sofferenza”48; a questa vena intimistica si riallaccia il

successivo atto unico, o per meglio dire il monologo drammatizzato, Quinto Piano, ti

saluto (1934), dove serpeggia una situazione più lirica che teatrale.

Giacomo, un uomo sui cinquant’anni, assiste alla demolizione del palazzo in

cui abitò da giovane, in una stanzetta del quinto piano, e durante il lavoro dei

muratori, considerati dei becchini, si ferma assorto nei suoi pensieri, nei ricordi del

passato, della vita trascorsa in quella casa, che lo inducono alla fine a salvare una

traccia di quell’antica felicità strappando un pezzo di carta da parati della camera;

anche in questo semplice lavoro, che nonostante tutto raggiunge attimi di pura

malinconia, Eduardo non intende puntare l’attenzione sulla crudeltà della

demolizione, bensì sul contrasto e la lotta tra vita e sofferenza, elemento

fondamentale del suo teatro.

Queste ultime due prove drammaturgiche, Gennareniello e Quinto piano, ti

saluto, si collocano in un periodo decisamente particolare per la compagnia e per lo

stesso Eduardo; l’inizio degli anni Trenta segna infatti il definitivo passaggio dal

cinema-teatro al teatro di prosa, nel momento in cui, grazie all’aiuto e all’interesse

dell’impresario Armando Ardovino, il teatro Sannazaro di Napoli diviene (almeno fino

al 1934) sede stabile della <<Compagnia I De Filippo>>, la cui fama e popolarità si

estende anche al di fuori dell’ambito partenopeo.

In poco tempo i De Filippo diventano una realtà essenziale nel panorama

italiano, soprattutto grazie alle trionfali stagioni a Roma nell’ottobre 1933 e a Milano

nel 1934, sostenute positivamente da consensi e ammirazioni di molti scrittori come

Bontempelli, Rosso di San Secondo, Marinetti ecc…; il mito di Eduardo, Peppino e

Titina, consolidato da un perfetto equilibrio tra tre diverse doti e temperamenti

d’artista, ha “[…]ulteriore alimento dal singolare interesse che dimostrò nei loro

confronti Luigi Pirandello, uomo di spettacolo […] molto attento ai valori della

messinscena”49.

Proprio l’incontro e la collaborazione tra Pirandello ed Eduardo incoraggia

quest’ultimo a tentare nuove strade, a seguire la sua incontenibile trepidazione

48 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 47

49 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 30

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sperimentatrice, che lentamente rompe quel delicato equilibrio alla base della

coesione dei De Filippo; il cammino che intende intraprendere, secondo la forte

aspirazione a creare un teatro di respiro nazionale, avvia Eduardo verso un

“[…]itinerario soggettivo che nella ricerca e nella assunzione del <<nuovo>>

conserva i tratti originali della <<tradizione>>”50.

Incomincia dunque l’avventura <<pirandelliana>> del Teatro Umoristico I De

Filippo, che dal 1933 al 1936 ripropone, in un adattamento e in una vena partenopea,

quattro opere del novelliere siciliano: gli atti unici L’imbecille (1933) e Ll’ uva rosa

(1936), le commedie Liolà (1935) e Il berretto a sonagli (1936), quest’ultimo molto

apprezzato dalla critica del tempo per la straordinaria interpretazione di Eduardo, nel

ruolo di Ciampa. Un primo tentativo inoltre verso una drammaturgia più pirandelliana,

nel tentativo di “[…]creare un personaggio caratterizzato dal dominio della finzione

sulla realtà”51, può essere avvertito in parte nei tre atti di Uno coi capelli bianchi

(1935), una commedia di transizione che non ottiene particolare successo, incentrata

sul personaggio-simbolo Battista, al limite dell’astrazione e della credibilità a causa

della sua perversa e disumana negatività.

La commedia successiva, L’abito nuovo (1936), tratta dall’omonima novella

del <<Maestro>> Pirandello, nasce da una stretta collaborazione di quest’ultimo con

il giovane trentenne De Filippo, un importante apprendistato e contributo da cui

Eduardo impara moltissimo; rappresentata per la prima volta il 1° aprile 1937, poco

dopo la morte del novelliere siciliano, la commedia tuttavia risulta un insuccesso e

viene giudicata troppo macchinosa da un punto di vista scenico.

Il problema di fondo di un tale fallimento risiede nella decisione di Eduardo,

per un motivo drammaturgico, di teatralizzare e di esteriorizzare fino all’estremo

limite il testo narrativo, allontanandosi in questo modo dal senso stesso dell’opera

pirandelliana; se quest’ultima infatti , che vive del contrasto fra la triste condizione

umana del protagonista Michele Crispucci, deriso da tutti perché marito tradito, e la

sua profonda ribellione a questa situazione, gioca principalmente sul dramma

interiore,“[…]sull’implicito, sull’introversione del protagonista, sulle “smorfie” della sua

50 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 71

51 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 64

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maschera grottesca e penosa, sull’espressività dei suoi sguardi, dei suoi silenzi”52, la

trasposizione eduardiana invece si frantuma in una serie di personaggi e situazioni di

contorno al dramma di Crispucci, che tendono a esteriorizzarlo troppo, a dargli dei

contorni che gli sono estranei.

Nella novella pirandelliana quindi, “Crispucci è un non-eroe, un uomo

annientato[…]. Il Michele Crispucci di Eduardo ha, invece, qualcosa di troppo

polemico e programmatico nella sua rivolta, che ne fa per contrasto un personaggio

troppo consapevole”53.

L’insuccesso dell’Abito nuovo, e perciò anche la delusione delle ambizioni di

un autore sempre più vicino alle problematiche pirandelliane, induce Eduardo a

fermarsi un attimo, a ritornare per un momento alle sue origini farsesche con l’atto

unico Pericolosamente (1938), semplice sketch in cui un marito spara due colpi in

aria ogni qual volta la moglie diventa petulante, e con La parte di Amleto (1940);

storia di un vecchio e fallito guitto deriso e beffato da un gruppo di giovani attori,

questo seguente atto unico, ai limiti della farsa, mescola in un perfetto equilibrio

comicità e malinconia.

Questo breve periodo di riflessione coincide inoltre con l’inizio dei primi

dissapori e delle prima rivalità fra i De Filippo, per svariate ragioni d’ordine

economico, familiare e artistico, che in un primo momento causano nel 1938 il

distacco di Titina dalla compagnia e successivamente portano ad una profonda

incomprensione professionale tra Peppino ed Eduardo. Il primo infatti, che si sente

sottomesso al ruolo di primo piano del fratello, non intende rinunciare al genere

teatrale alla base del loro successo, il secondo, contrariamente, è spinto sempre più,

principalmente per l’influenza di Pirandello, verso una drammaturgia più ambiziosa.

Sullo sfondo di questa avviata incrinatura professionale, prendono vita le

ultime due commedie scritte da Eduardo per la Compagnia del Teatro Umoristico <<I

De Filippo>> e che chiudono la Cantata dei giorni pari: Non ti pago (1940) e Io,

l’erede (1942); con la prima l’autore assimila pienamente l’esperienza pirandelliana in

un ritorno agli umori, al clima e agli estri della vita napoletana della sua giovinezza, in

52 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 80

53 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 66

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un’atmosfera popolare animata di comicità e ilarità, dove viene mostrata la mania più

frequente della gente, il gioco del lotto.

Differente significato e prospettiva assume invece Io, l’erede, in cui vengono

dimenticati gli umori e le vitalità presenti in Non ti pago, per un ritorno “[…]ai toni

<<neri>>, a un moralismo risentito ed esasperato, che gli spettatori di quegli anni

rifiutano decisamente”54; aspri attacchi alla carità e alla beneficenza, come quelli

presenti in questa commedia, non passano infatti inosservati al pubblico di quel

periodo, che si trova coinvolto nel pieno della seconda guerra mondiale.

Io, l’erede, il quale mescola il tema della beneficenza con una critica alla

società borghese, intenta solamente a soddisfare i propri interessi, chiude la prima

parte dell’attività drammaturgica di Eduardo, un periodo di lungo apprendistato in cui

l’autore mette in mostra il proprio naturale talento e affina i suoi strumenti di autore.

54 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 71

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2.2 – CANTATA DEI GIORNI DISPARI

Come accennato brevemente nella parte iniziale dell’elaborato, il teatro di

Eduardo subisce una svolta, una rottura drastica, che dal 1945 lo avvia verso

un’attività drammaturgica più umana; questo paragrafo intende analizzare le opere

contenute nella seconda Cantata, quella dei “giorni dispari”, ovvero tutti i lavori che

ricadono nella nuova Compagnia, <<il Teatro di Eduardo>>, a cui inizialmente

collabora la sorella Titina.

È la crudele esperienza della guerra, nella sua angoscia e desolazione, a

sollecitare in maniera nuova e straordinaria la vena drammaturgica di Eduardo, il

quale, in questa “seconda” produzione, arricchisce la sua <<riforma>> di

problematiche di carattere assoluto; attraverso la prima opera della nuova Cantata, il

testo di frontiera Napoli Milionaria! (1945), dettagliatamente analizzato nel capitolo

successivo, l’autore partenopeo abbandona una volta per tutte la pura comicità delle

commedie precedenti, allargando la sua arte verso tematiche più concrete e realtà

più tormentate, e non intende più “[…]esorcizzare i mali endemici della sua città con

una <<risata>> puramente liberatoria, ma comunicare il senso della tragedia

sopravvenuta a macerare il ventre di Napoli”55.

Fin dalla prima rappresentazione al San Carlo di Napoli (25 marzo 1945),

Eduardo espone al pubblico i suoi nuovi intenti artistici, la sua nuova “strada”

drammaturgica, che nel clima della bufera bellica tralascia la fantasia comica per

mostrare le disavventure della sua città, un paese completamente trasformato,

distrutto moralmente; proprio da questi tragici eventi storici, si manifesta

maggiormente il conflitto tra <<individuo>> e <<società>>, una società sconvolta

nelle fondamenta dalla crudeltà della guerra, che non causa solamente morte e

violenza, bensì “[…]soprattutto sconvolgimento di valori consolidati, dissacrazione di

quello che resta il nucleo della vita sociale: la famiglia, mortificazione di certe ragioni

intime dell’uomo”56

Subito dopo il clamoroso successo di Napoli Milionaria!, giudicato dalla critica

come uno dei testi più importanti della drammaturgia italiana, Eduardo, sempre più

55 Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 80

56 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 73

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consapevole del suo spiccato talento di autore, rappresenta nel 1946 altre due

commedie importanti, come Questi Fantasmi! e Filumena Marturano.

La prima, da parte sua, se da un lato segna il ritorno a un pirandellismo del

tutto assorbito e controllato abilmente da Eduardo, da un altro fonde in un perfetto

equilibrio motivi diversi, “[…]passando dal realismo più minuto, al grottesco più

spinto, dal favoloso e dal fiabesco al comico più irresistibile, per toccare,infine, il

tragico più che patetico”57; il protagonista piccolo borghese Pasquale Lojacono, dopo

avere ricercato per anni una svolta nella propria vita, una prospettiva di felicità per sé

e la moglie Maria, trasloca, senza pagare un soldo, in una immensa casa

seicentesca, infestata tuttavia, secondo le voci popolari, da cruenti fantasmi.

L’ingenuo e tormentato protagonista, per una serie di situazioni ambigue e

contraddittorie si convince ben presto della “reale” presenza di spiriti vaganti nella

propria casa, arrivando a confondere per un fantasma l’amante della moglie, Alfredo;

quest’ultimo, perdutamente innamorato della signora Lojacono, tanto da sacrificare

famiglia e patrimonio, viene scambiato dal povero Pasquale per un fantasma

benigno,

[…]come il <<donatore>> delle fiabe, è capace di trasformare le cose più comuni della quotidianità in oggetti magici: dalla gallina che diventa pollo arrosto nel primo atto, alla giacca da casa attaccata all’appendiabiti che, nel secondo atto, è <<una miniera… Quello che ci vuoi trovare ci trovi>>, specialmente i biglietti da mille! 58

Attraverso queste ed altre contraddittorie segnalazioni presenti nella

commedia, in un gioco calcolato e attento di ruoli fra il protagonista, l’attore-regista e

lo spettatore, Eduardo vuole rappresentare il dramma umano di Pasquale, incapace

oramai di comunicare , di avere solidarietà con il mondo dei vivi e disposto a credere

nell’impossibile; con l’introduzione del fantastico nel quotidiano, l’opera si fa

portavoce di quella confusione morale e di incertezza che caratterizza la crisi

dell’ottimismo delle commedie successive, cogliendo in questo caso gli aspetti della

fragilità e della <<comunicazione difficile>>,in cui “[…]per mostrare solidarietà o

57 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 81

58 Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 100

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esprimere le proprie debolezze, i vivi sono costretti a travestirsi da fantasmi o a

confidare ai fantasmi la quotidiana miseria dell’esistenza”.59

Una strada diversa viene intrapresa da Filumena Marturano, la seconda opera

scritta e rappresentata nel 1946, che si allontana dal pirandellismo nascosto di

Questi fantasmi! per riallacciarsi più ad un dramma familiare come in Napoli

Milionaria!; con questa nuova commedia, Eduardo affina un intuito realistico sempre

più strumento di comunicazione, proteso alla continua ricerca di significati universali

rispetto ad una umanità che si allontana dalle tradizioni e dai veri valori della vita.

Contrariamente alla commedia analizzata in precedenza, Filumena Marturano

è priva di artifici, di trucchi scenici e di ambiguità, bensì affronta, su alti livelli

drammatici, i temi della famiglia e della maternità, creando un personaggio principale

come “[…]uno dei più importanti ritratti femminili della nostra drammaturgia”60; da ex

prostituta, Filumena, è stata per 25 anni la mantenuta di Domenico Soriano, ma ora

finalmente è riuscita, mediante un palese inganno, a legarsi in matrimonio al ricco

borghese, confessandogli di avere tre figli (ormai grandi) e di avere cresciuto questi

ultimi con i suoi soldi.

Attraverso una dura lotta verbale, colma di rancore, odio e collera, la coppia

rivive e giustifica le proprie scelte fatte in passato, i propri errori, i propri sacrifici, e

ora Filumena, che ha vissuto per anni il dramma di donna, vuole vivere felicemente il

ruolo di madre, dare un cognome ai suoi figli, confessando infine a Domenico che

uno di questi tre è anche suo; inizialmente colmo di disperazione e di rabbia,

tentando in tutti i modi di cancellare l’offesa e l’inganno subito, il padrone di casa,

dopo la rivelazione di avere un figlio da Filumena, comprende quello che deve fare,

trasforma l’odio in responsabilità e acconsente a diventare un marito e un padre, non

di uno ma di tutti e tre i figli.

Con Filumena Marturano, Eduardo crea […] un carattere completo, costruito nei minimi particolari, attraverso un’introspezione continua ed una ricerca negli angoli più nascosti dell’animo umano. Da prostituta a mamma, da

59 Ibidem , p. 102

60 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo,cit. , p. 87

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mamma a moglie, attraverso una storia di privazioni, di sofferenze, di apprensioni , di dolore.61

Se Napoli Milionaria! intende rappresentare le conseguenze del conflitto

bellico, focalizzando l’attenzione principalmente su un unico ambiente familiare, Le

bugie con le gambe lunghe (1947), da parte sua, è una chiara accusa all’intera

società borghese, spietata e corrotta, che si appropria del pretesto della guerra per

vivere di convenienze, bugie e inganni; il protagonista della commedia, Libero

Incoronato, tipico personaggio eduardiano candido e onesto, è circondato infatti da

un’umanità senza scrupoli, avara ed egoista che fa delle bugie un proprio modus

vivendi, in una realtà che ha perso le proprie illusioni, speranze e che crede oramai

nelle menzogne, nell’opportunismo e nel trionfo delle false coscienze.

Alla commedia del 1947 segue La grande magia (1948), un’opera che

all’epoca non ottiene particolare successo in quanto non compresa a fondo dal

pubblico ed essendo principalmente strutturata su tematiche pirandelliane, dove

l’illusione prevale sulla realtà; se da un lato Sik-Sik, l’artefice magico, primo lavoro in

cui Eduardo dimostra di apprezzare il tema della magia, appartiene a quel periodo

“dei giorni pari”, ovvero ai giorni della spensieratezza e dell’ottimismo, dall’altro La

grande magia è nel vivo “dei giorni dispari”, un clima ben lontano dalle illusioni della

giovinezza, una realtà in cui Eduardo affronta gli inganni e le amarezze delle vicende

umane.

La vicenda gira attorno a Calogero Di Spelta, marito gelosissimo, e

all’illusionista Otto Marvuglia, che durante uno spettacolo viene convinto dalla moglie

del primo (Marta) ad organizzare una sua “sparizione”, per fuggire finalmente

dall’oppressione del marito e seguire la passione verso un altro uomo; per quattro

anni Otto fa credere a Calogero di avere rinchiuso la moglie in una scatola, che deve

essere riaperta solamente se e quando il povero marito non dubiterà più della fedeltà

della donna.

Alla fine Marta ritorna, ma Calogero, che nel corso degli anni ha imparato a

convivere con quella finzione, non intende riconoscerla, bensì si aggrappa alla

scatola, ovvero all’illusione di possedere la fedeltà della moglie; “la scatola,

pertanto,[…]guai ad aprirla! In quel momento le illusioni svaniscono e la vita diventa

61 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 83

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quel dramma quotidiano[…]che, nella commedia Le voci di dentro, farà scegliere a

Zi’ Nicola la via del silenzio”62.

Proprio tramite quest’ultimo personaggio, Zi’ Nicola, al centro della tragi-

commedia Le voci di dentro (1948), Eduardo torna a trattare il tema

dell’incomunicabilità, sullo sfondo di un’Italia post-guerra, con tutte le amarezze, le

disillusioni e le ipocrisie di un’umanità corrosa nel profondo; forse l’opera più amara

dell’autore partenopeo, essa affronta la desolazione di una società che non ascolta

più “[…]le “voci di dentro”, le voci della coscienza che parlavano a Zi’ Nicola, il

vecchio[…]che aveva rinunziato a parlare, perché meglio essere muto se l’umanità è

sorda”63.

Accanto a lui si trova il nipote Alberto, il quale, a causa di un brutto sogno,

accusa di omicidio i propri vicini di casa (i Cimmaruta), poco dopo rilasciati dalla

polizia; pur non essendo colpevoli, i Cimmaruta sospettano l’esistenza di un

assassino tra di loro e per questo, in un clima di profondo odio reciproco, vanno da

Alberto per accusarsi a vicenda.

Per anni rimasto estraneo alle meschine vicende del mondo, vivendo in

solitudine e comunicando con il nipote attraverso lo scoppio di petardi, lo Zi’Nicola,

non sopportando più di vivere tra i crudeli sentimenti degli uomini, decide alla fine di

lasciarsi trasportare dalla morte, mentre ad Alberto “[…]tocca continuare a vivere in

mezzo all’umanità corrosa dal male con la consapevolezza di essere colpevole per il

solo fatto di essere anch’egli un uomo”64 ; il pessimismo che pervade Le voci di

dentro, con la sola speranza per l’uomo di riuscire ad ascoltare con sincerità le

proprie voci della coscienza, “[…]costituisce un ennesimo memorabile ritratto di quel

disfacimento, di quella dissoluzione della cellula familiare, che tanto preoccupa

Eduardo[…]”65.

62 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 86

63 Giulio Trevisani, L’Unità, Milano, 12 dicembre 1948 (cfr. Fiorenza Di Franco, Eduardo De Filippo, Roma, Gremesse Editore, 1980, p. 137)

64 Fiorenza Di Franco, Eduardo De Filippo, Roma, Gremesse Editore, 1980, p. 136

65 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 101

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Dopo il grande successo di Le voci di dentro, l’autore riprende in mano il tema

della guerra, successivamente all’atto unico Occhiali neri (1945), con La paura

numero uno (1950), opera di relativo insuccesso che nonostante la sua

frammentarietà episodica riesce a trasmettere profondamente quel senso di

inquietudine, angoscia e timore presente in quegli anni; Eduardo infatti, attraverso i

personaggi di Matteo e Luisa, ripropone quei sentimenti di sgomento, quella malattia

della mente e dell’anima, nei confronti di un possibile nuovo conflitto mondiale, che

caratterizza gli anni Cinquanta.

Le opere successive, con la sola eccezione di Amicizia (1952), breve sketch

meta-teatrale affidato quasi esclusivamente ad un gioco farsesco sul mito della

solidarietà e dell’amicizia, appartengono ad una nuova indagine perseguita

dall’autore napoletano, un’attenzione all’evoluzione socio-economica della società tra

gli anni Cinquanta e Sesanta; periodo questo del boom economico, della società dei

consumi e della ricerca del benessere, Edoardo, attraverso le tre commedie Mia

famiglia (1955), Bene mio core mio (1955) e De Pretore Vincenzo (1957),

“[…]intende registrare quel rinnovamento profondo,[…]ma anche le brutture di una

società consumistica pronta a travolgere tutto, pur di raggiungere facili interessi,

piaceri immediati, falsi benesseri”.66

Se da un lato le prime due opere trattano dei tormenti e dei problemi negli

affetti familiari, specialmente in Mia famiglia il protagonista è circondato dal profondo

egoismo dei figli e della moglie, in De Pretore Vincenzo, al contrario, Eduardo

concentra la propria attenzione sul dramma di un unico personaggio, un povero ladro

escluso dalla società del benessere il quale, come prodotto di una realtà

consumistica, è alla continua ricerca di ricchezze per sé e per la sua amata. Accanto

ancora alla tematica della famiglia, con le proprie incomprensioni, si attualizza il

lavoro successivo di Eduardo, Sabato, domenica e lunedì (1959), un’opera amara sul

significato dell’intimità e degli affetti di una famiglia, un lavoro sull’incomunicabilità,

sui silenzi e sul problema della <<parola>>, in cui l’autore “[…]non giunge mai alla

66 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 89

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tragedia,[…]semmai a una irritata ironia sulla volontaria coabitazione di esseri che in

fondo restano solitari nemici l’uno dell’altro”67.

L’ingiustizia è alla base delle due commedie successive, Il sindaco del Rione

Sanità (1961) e Tommaso di Amalfi (1963); con la prima Eduardo, basandosi su un

personaggio realmente esistito, racconta come il sindaco Antonio Barracano, dopo

avere tentato in tutti i modi di perseguire il suo senso di giustizia aiutando il prossimo,

diventa ben presto vittima dei suoi buoni sentimenti e si convince del fallimento dei

propri intenti. Stessa sorte tocca al protagonista di Tommaso di Amalfi, Masaniello, il

quale, dopo essere diventato il leader e l’istigatore delle sommosse popolari, viene in

seguito raggirato e ucciso dal potere e dall’ingiustizia del Vicerè cittadino, contro il

quale lottava.

Un’aspra battaglia e una forte polemica contro il potere statale e la sua

indifferenza, è presente ancora nell’opera eduardiana del 1964, L’arte della

commedia, in cui l’autore partenopeo, attraverso uno scontro verbale diretto tra il

capocomico di una compagnia di attori <<guitti>> e un arrogante prefetto, “[…]con

risentito orgoglio pone il problema del teatro in quanto funzione primaria della vita

sociale”68; opera di analisi, al confine tra manifesto e testamento, della precaria

condizione dell’artista, è un lavoro che trascina con sé “[…]amarezza, delusioni, ma

anche speranza, ottimismo sull’utilità sociale del teatro, sulle sue capacità del

denunziare il male che opprime l’umanità[…]”69.

Dopo avere chiuso il 1964 con un lavoro di minore rilievo, Dolore sotto

chiave,”[…] commedia farsesca e tuttavia amarissima,[…]fredda denunzia della

sproporzione esistente fra il dolore effettivo e la professione del dolore stesso”70,

Eduardo scrive nel 1965 e rappresenta nel gennaio 1966, il più felice atto unico di

tutta la sua drammaturgia del dopoguerra, Il cilindro. Incentrata su cinque personaggi

67 Mario Stefanile, Il Mattino, Napoli, 28 gennaio 1961 (cfr. Fiorenza Di Franco, Eduardo De Filippo, cit. , p. 173)

68 Mario Stefanile, Il Mattino, Napoli, 9 gennaio 1965 (cfr. Anna Barsotti, Eduardo, cit. , p. 123)

69 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 108

70 Raul Radice, Corriere della Sera, Milano, 4 novembre 1964 (cfr. Fiorenza Di Franco, Eduardo De Filippo, cit. , p. 189)

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(Rita, Rodolfo, Agostino, Bettina e don Attilio), in quell’Italia fra il boom economico e

la crisi della disoccupazione, la commedia rappresenta il ritorno di Eduardo “[…]alla

Napoli festosa,[…]in cui l’arte di arrangiarsi ha raggiunto vette d’invenzione e di

scaltrezza ineguagliabili”71; in questo bozzetto ricco di umori e trovate, omaggio a

quella tradizione teatrale del passato, il cilindro assume il ruolo di “maschera

pirandelliana”, una rappresentazione del potere atto ad intimidire gli ignoranti.

Dopo il Cilindro, l’autore partenopeo ritorna “[…]a un teatro di grandi

ambizioni, che vuole darci la sintesi di un’intera epoca e di un costume”72. Con Il

contratto (1967), Eduardo non rappresenta solo la storia di una truffa, di un inganno,

ma affronta il complesso tema della paura della morte, che mette a nudo l’animo dei

personaggi; attraverso il protagonista della commedia, Geronta Sebezio,

personaggio chiave del teatro maggiore di Eduardo, l’autore intende ripercorrere un

po’ tutti i motivi e i temi della sua drammaturgia, poetica e polemica, e

[…]ha voluto buttare sulla pagina e sul palcoscenico la paura della morte e l’avidità di denaro,[…]ambiguità perfide ed egoismi esasperati: tutto alla luce di una sulfurea ed essa stessa diabolica condanna moralistica, ipocrita, ad un’antica maniera partenopea, vale a dire beffarda fino al grottesco, farsesca fino alla dissacrazione d’ogni sentimento.

Gli anni Sessanta, caratterizzati inoltre dall’affermazione e dal successo dell’autore

sulle scene di tutto il mondo, cedono il passo agli ultimi due lavori della sua

prodigiosa attività di commediografo, attore e regista. Il 24 novembre 1970

rappresenta in anteprima al Teatro La Pergola di Firenze Il monumento, un testo che

intende approfondire il discorso iniziato nel Contratto ma che, tuttavia, suscita

reazioni diverse; sullo sfondo di una generica denuncia del militarismo e dei valori del

Potere, “si tratta di una commedia nera, di un misantropico attacco di malumore etico

e civile,[…] come un sussulto di sfiducia, di irritazione acritica, per un mondo che non

ha luce di valori”73.

Dopo avere ricevuto nel 1972 il Premio Internazionale “Antonio Feltrinelli”, il

Nobel italiano, dall’Accademia Nazionale dei Lincei, Eduardo scrive e mette in scena

71 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 133

72 Ibidem, p. 135

73 Giorgio Prosperi, Il Tempo, Roma, 5 dicembre 1970 (cfr. Fiorenza Di Franco, Eduardo De Filippo, cit. , p. 201)

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l’anno successivo l’ultima sua commedia racchiusa nella Cantata dispari, Gli esami

non finiscono mai. Attraverso il racconto della vita del protagonista Guglielmo

Speranza, l’autore intende rappresentare il dramma di questo personaggio,

utilizzando inoltre quella tecnica di stampo pirandelliano di contatto e racconto diretto

con gli spettatori, nelle varie tappe e nelle sfide (gli esami) della sua esistenza;

questo amaro itinerario di una vita qualsiasi (scuola, famiglia, lavoro, amici,

matrimonio) e le continue delusioni, sofferenze sentimentali e disaffezioni, sono un

segno dell’identificazione esistente fra il personaggio principale della commedia e

l’autore stesso.

In questo senso, mai Eduardo si era così identificato in un personaggio e nella sua parabola esistenziale, nelle sue speranze come nelle sue delusioni, nella sua amara presa di coscienza della realtà e nel suo definitivo isolamento, quando si è accorto di aver perduto la partita di fronte a una società ipocrita e nemica delle ragioni dell’individuo. 74

Si concludono così le Cantate eduardiane, con questo messaggio di umiltà e

amarezza rivolto all’esistenza dell’uomo, in cui “[…]la vita ci sottoporrà ogni giorno a

un nuovo confronto, a un nuovo esame,[…] ma una volta superato non ci darà

quiete”75.

Nell’ultimo decennio della sua vita (Eduardo muore a Roma il 31 ottobre

1984), l’autore realizza per la televisione un ciclo dedicato a Eduardo e a Vincenzo

Scarpetta e registra in studio numerose commedie come Uomo e galantuomo, De

Pretore Vincenzo, L’arte della commedia ecc… . A teatro, invece, si limita a

riprendere alcuni suoi classici, tra cui Natale in casa Cupiello e Le voci di dentro.

74 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit. , p. 143

75 Alfonso Spadoni, Programma - Gli esami non finiscono mai – Stagione 1973-74 (cfr. Fiorenza Di Franco, Eduardo De Filippo, cit. , p. 210)

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PARTE III

NAPOLI MILIONARIA!

3.1 – ANALISI GENERALE DELL’OPERA EDUARDIANA

Dopo avere approfondito criticamente il contesto sociale e la completa attività

drammaturgica di Eduardo, quest’ultima parte intende esaminare più da vicino

quell’opera cardine del suo teatro, che funge da spartiacque, da linea di confine, tra

due diversi periodi produttivi; con la messa in scena di Napoli milionaria!, infatti, il 25

marzo 1945 al San Carlo di Napoli, Eduardo compie il primo passo del suo

cambiamento e, con la nuova compagnia <<Il Teatro di Eduardo>>, l’autore giunge

alla piena maturità espressiva.

Come già osservato in precedenza, oltre a secondari motivi di carattere

artistico, è principalmente una la radice e l’origine di questo drastico mutamento: la

guerra; vero e proprio motore e protagonista principale della commedia qui

analizzata, il conflitto bellico, vissuto in prima persona dallo stesso autore, crea i

presupposti e stimola Eduardo ad un nuovo tipo di produzione, ad un teatro più

attento alla drammatica realtà quotidiana, in cui la farsa e il comico confinano con il

tragico, come due facce di una stessa medaglia.

Nasce dunque la prima commedia “dispari”, Napoli milionaria!, attraverso cui

Eduardo racconta “[…]il dramma della guerra non già come un fatto di cronaca, ma

come se fosse già Storia”76, con tutti i riflessi che produce nella vita della gente

comune, assumendo valore universale; contaminando “[…]la struttura del

melodramma con impennate da opera buffa,[…]diventa anche una <<metafora del

mondo>> trasformato, da tutte le guerre, in <<terra di disvalori>>”77, e già con il titolo,

accompagnato dal punto esclamativo, intende esprimere gli aspetti ridicoli e, allo

stesso tempo, amari, della disastrata realtà italiana. Inoltre, con l’appellativo

<<milionaria!>>, Eduardo vuole accentuare la conseguenza di quella “bufera” (la

76 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, Napoli, Liguori Editore, 2006, p. 31

77 Anna Barsotti, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, Torino, Einaudi, 1995, p. 5

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guerra), che costringe una normale famiglia napoletana ad una “[…]metamorfosi

traumatica e appunto perciò rivelatrice”78.

Napoli milionaria! nasce interamente dalla capacità dell’autore partenopeo di

osservare dalla scena, dal palcoscenico, la vita degli uomini, i loro sentimenti e le

loro difficoltà, cogliendo appunto in quegli anni il dramma esistente tra il soggetto e la

realtà circostante, “[…]una realtà familiare,sociale, <<storica>>, uscita stravolta e

deformata, forse per sempre, dalla guerra”79; è un opera che vive, dunque, dei riflessi

delle vicende belliche, nella Napoli della miseria morale e materiale, vissute sulla

pelle della famiglia Jovine, la quale, come tutti del resto, si trova in costante lotta con

le difficoltà e le ingiustizie della vita.

Dal corpo ferito di Eduardo, dal suo cuore dolente di uomo, prende vita questa

commedia, un’opera che intende intraprendere un viaggio verso la comprensione di

quel male profondo, di quell’<<ombra>>, che si è posata sull’intera umanità,

travolgendo le coscienze degli uomini; il tramite di questa tensione etica, di questa

“[…]accusa contro la guerra, i potenti, gli uomini di stato, ma anche contro la

corruzione, l’opportunismo, la ricchezza conquistata con il cinico sfruttamento del

prossimo[…]”80, Eduardo lo individua in un tranviere, Gennaro Jovine, onesto padre

di famiglia e “[…]<<coscienza simbolica>> dell’uomo che[…] sperimenta la natura

antisociale e distruttiva del contrabbando, a cui, come fenomeno ad esso connesso,

la guerra rinvia”81.

Completamente immerso in questa situazione storica, in cui la sete di

ricchezza distrugge qualsiasi sistema etico e ogni relazione umana, Eduardo-

Gennaro osserva e comprende <<dint’ ‘a ll’uocchie>>, come dice egli stesso, la

realtà ormai corrotta dalla guerra, a cui appartiene inoltre non solo la moglie Amalia,

l’altro personaggio chiave della commedia, ma anche il resto della famiglia e la gente

del <<vico>>; questi ultimi, infatti, contrariamente al protagonista, sono sopraffatti

dalla legge del bisogno, dalla sete di potere e di guadagno, rimanendo consciamente

78 Ibidem , p. 5

79 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit., p. 73

80 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 68

81 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 45

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impigliati in quel comportamento e in quella pratica sviluppatasi clandestinamente in

quegli anni, la borsa nera.

Aspetto ricorrente nella drammaturgia eduardiana, la famiglia diventa ancora

una volta metafora e microcosmo di una realtà molto più vasta, in cui Gennaro e

Amalia rappresentano le due facce opposte: quello sconcertato ma onesto e

umano(Gennaro) e quello che,

[…]reagisce senza badare ai modi e ai mezzi; quello che cerca di sopravvivere alle sofferenze e alla miseria, sfruttando proprio quella guerra che è solo un male, ma che non è ancora l’apocalisse; esorcizzando la paura della morte e difendendosi dalla fame fino al punto di trasformare la ricerca del meglio in avidità di guadagno.82

Partendo da questi presupposti, diviene opportuno ora, al fine di comprendere

con maggiore chiarezza i temi e le dinamiche di fondo dell’opera, avvicinare la

presente analisi alle vicende vere e proprie della commedia, cogliendo in tal modo

quei fatti e quelle circostanze iniziali che condurranno la famiglia Jovine allo sfacelo.

Gli eventi introduttivi di Napoli milionaria!, ambientati nel 1942, verso la fine

del secondo anno di guerra, mostrano immediatamente quali siano le condizioni

sociali, economiche e familiari in cui sono immersi i personaggi: Gennaro Jovine,

onesto tranviere e reduce dalla prima guerra mondiale, con il suo spiccato senso

morale e la sua incapacità a reagire di fronte alla miseria della vita, viene ormai

considerato un inetto, dai tre figli Amedeo, Maria Rosaria e la piccola Rituccia (che lo

chiama addirittura <<fesso>>), e infine dalla moglie Amalia. Quest’ultima, la vera

padrona di casa, date le ristrettezze economiche e “[…]dovendo provvedere al

sostentamento di tre figli,[…]si ribella alla miseria e allo spirito di adattamento del

marito e prende in mano le redini della situazione, cominciando a praticare la borsa

nera”83. Senza mai opporre una ferrea resistenza, se non con blande

disapprovazioni verbali, il povero Gennaro osserva preoccupato il traffico sui generi

di prima necessità ad opera della moglie.

Come osservato in precedenza, non esiste un’equilibrata opposizione tra

Gennaro ed Amalia, bensì a questa seconda <<visione del mondo>> appartengono

82 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 68

83 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 49

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tutti gli abitanti del vico e i frequentatori del “basso” (ovvero la casa della famiglia

Jovine, dove si svolge il contrabbando e dove l’intera commedia prende vita);

accanto al pericoloso commercio della donna, con la complicità di Errico

“Settebellizze”, suo fornitore e corteggiatore, si trovano altri personaggi di contorno,

come Pascalino “‘o pittore” e “’O Miezo Prèvete”, sempre pronti per qualche incarico

o lavoretto, e Riccardo Spasiano, un personaggio importante per la drammaticità

della storia, che nonostante il suo modesto lavoro d’impiegato, tuttavia “[…]si presta

allo strozzinaggio di donn’ Amalia, impegnando un orecchino della moglie pur di

procurarsi <<zucchero>>, <<ciucculata>>, <<pastina bianca>>”84.

Questa prima parte dell’opera si conclude con una delle scene più prestigiose

del teatro di Eduardo, quando appunto don Gennaro, per salvare la propria famiglia

dall’irruzione nel “basso” del brigadiere, è costretto ancora una volta a fingersi morto;

dopo aver magistralmente occultato tutta la mercanzia del contrabbando sotto il letto

del finto defunto, gli amici e i familiari improvvisano una veglia funebre alla presenza

del brigadiere Ciappa, il quale, una volta scoperto il palese imbroglio, ma ammirando

la caparbietà e la furbizia di quel padre di famiglia, che non cede nemmeno durante

le sirene di allarme, decide alla fine di riconoscere il suo coraggio e non procede

all’arresto.

La forza comica di questa scena cede il passo alla seconda parte dell’opera,

ambientata dopo lo sbarco degli alleati nel dopoguerra, in cui Eduardo mostra

quell’immagine “[…]nera e amara del sovvertimento di valori prodotto in casa Jovine

dall’improvvisa ricchezza”85; durante la lunga assenza di Gennaro, deportato dai

tedeschi, Amalia infatti incrementa i suoi traffici illeciti con “Settebellizze”, ormai suo

amante, approfittando del bisogno dei più disperati, come Riccardo, e diventando in

questo modo <<milionaria>>. Giunti, insomma, i primi segni del benessere e del

consumismo, e preoccupata principalmente a trasformare l’arredamento del “basso”

e il proprio vestiario, Amalia trascura tuttavia la vigilanza morale dei due figli più

grandi: “Amedeo è coinvolto in un losco traffico di pneumatici e di auto rubate,

84 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 152

85 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit., p. 78

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mentre Maria Rosaria si è innamorata di un soldato alleato che si è improvvisamente

dileguato lasciandola incinta”86.

Su questo sfondo di benessere sfarzoso, di questa presunta ricostruzione di

vita e felicità, la famiglia comincia a disgregarsi, a subire i primi contrasti interni,

specialmente fra donna Amalia e la figlia, e inaspettatamente un giorno, nel bel

mezzo dell’organizzazione di una festa per il compleanno di “Settebellizze”, ritorna

dopo quattordici mesi don Gennaro, ritenuto disperso da tutti; visibilmente stanco e

provato, moralmente e fisicamente, il povero reduce si sente ben presto intontito e

confuso di fronte alla radicale trasformazione in casa sua, all’eleganza della moglie e

dei figli, ma la stanchezza, i ricordi della guerra e la felicità nel potere riabbracciare i

propri cari lo spingono a soprassedere ai molti dubbi e alle tante ipotesi. A più riprese

tenta di fare partecipi gli amici e i familiari delle proprie peripezie, delle sofferenze

trascorse nel campo di prigionia, della crudeltà delle bombe e delle cannonate, ma

nessuno intende ascoltarlo; per tutti ormai la guerra è finita e passata, è solo un

ricordo, ma Gennaro, sentendosi quasi un intruso di fronte a tanta leggerezza e

immoralità, si rende conto che “la ricchezza ha contagiato tutti e[…] il coro degli

invitati, molto pacchianamente, dimostra lo stato di consumismo in cui una parte

dell’Italia si riconosce”87.

Con questa nuova consapevolezza, di trovarsi cioè di fronte ad una profonda

crisi della famiglia e della intera società, avidamente accecata dal denaro, si

conclude la seconda parte della commedia, quando l’incompreso don Gennaro si

ritira nella stanza della piccola Rituccia, gravemente ammalata; è proprio il grave

malessere della figlia, che senza una particolare medicina rischia seriamente di

morire, a produrre nell’ultima parte dell’opera un provvidenziale risveglio morale della

famiglia e a far ritrovare, principalmente in Amedeo e Maria Rosaria,”[…]quel minimo

di unità e solidarietà[…], quei sentimenti e sensazioni che avevano del tutto

dimenticato”88. Nonostante i gravi errori, di cui Gennaro viene a conoscenza, dei due

figli maggiori, questi ultimi si sentono pronti ad avvicinarsi ancora una volta ai principi

86 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 50

87 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 72

88 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit., p. 79

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morali del padre, mentre donna Amalia, che persiste nel proprio egoismo, si scioglie

dalla sua durezza solamente quando riceve l’introvabile medicina per la figlia proprio

da Riccardo, che le infligge un sonoro schiaffo morale.

Dopo essersi resa conto del “[…]baratro umano e morale in cui è piombata”89,

Amalia viene parzialmente confortata dalla frase conclusiva di Gennaro: <<Ha da

passà ‘a nuttata>> (deve passare la nottata), colma di speranza e fiducia rivolta al

futuro.

Come in molte altre commedie dell’autore partenopeo, anche in questo caso

Eduardo pone la famiglia al centro della propria costruzione drammaturgica, ma

tuttavia in Napoli milionaria! l’interesse maggiore è quello di mettere in mostra una

testimonianza reale e, allo stesso tempo, simbolica, di un genere di vita e di uno

spaccato naturalistico in costante rapporto coi vicini, con la società; attraverso un

continuo traffico della gente del vico, l’interno domestico del “basso di donna Amalia”,

in una dialettica spaziale del chiuso-aperto e secondo un rapporto dinamico delle

entrate-uscite, si apre alla comunità, al mondo esterno. Il luogo deputato alla

famiglia, <<’o vascio ‘e donn’ Amalia Jovine>>, diventa in questo modo il

palcoscenico concentrico di una città eterogenea, di “quella Napoli sempre in lotta

con la vita di tutti i giorni, impregnata di mille problemi sociali grandi e meschini”90; in

questo spazio “[…]permeabile dello <<stanzone lercio e affumicato>> si riunisce una

umanità composita,[…]gente che con la tessera <<nun po’ campa’>> e allora si

arrangia con la borsa nera o peggio”91.

Abbassando l’altezza del mondo e avvicinandolo agli occhi del pubblico,

Eduardo tenta di comunicare direttamente con lo spettatore, percorrendo e cercando

di oltrepassare quel confine sottile che separa la fantasia della rappresentazione e la

vera vita, il teatro e la vita sociale; mediante tale costruzione scenica, intesa a

manifestare un luogo di scambio e comunicazione tra gli uomini, l’autore intende

identificarsi con sentimenti e umori universali.

89 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 50

90 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 153

91 Anna Barsotti, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, cit., p. 7

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In Napoli milionaria! oggetti e suoni assumono un rilievo sociale importante,

rappresentando quell’intercomunicabilità dell’esistenza di ognuno con quella di tutti,

una realtà che non ammette privacy, in cui ogni singolo uomo diviene consapevole di

essere indissolubilmente legato all’<<altro>>; la dimensione corale della commedia,

caratterizzata dalla complementarità fra il “basso” e il vico, si rende esplicita da quel

frastuono popolare, da quel “sonoro” e “dal vocìo confuso di persone che litigano,

che a poco a poco diventa sempre più distino e violento, fino a che se ne distinguono

[…] le parole più accese”92.

È proprio attraverso il luogo inoltre, la costruzione scenica del “basso”, che si

colgono e si delineano i primi caratteri e le relazioni interne alla famiglia Jovine. Già

nella situazione di partenza, infatti, Eduardo posiziona il protagonista fuori scena,

nella propria “[…]minuscola e ridicola camera da letto ricavata provvisoriamente col

tramezzo”93, estranea al principale stanzone domestico; Gennaro dunque non

appartiene di fatto all’ambiente famigliare che lo circonda, e, del tutto emarginato e

tagliato fuori anche dalla vita lavorativa dell’azienda tranviaria, non viene più stimato

e considerato un vero capo famiglia né dai figli, né dalla moglie.

Con Napoli milionaria! il teatro di Eduardo si trasforma sempre più in un

<<teatro del protagonista>>, in un’azione di <<un uomo contro tutti>>, dove prende

vita quell’opposizione primaria tra il personaggio principale e tutti gli altri personaggi

della storia; considerato un teatro etico, dove i protagonisti principali combattono per

dei valori in cui oramai credono solamente loro, la nuova drammaturgia eduardiana

intende inquadrare e mettere a fuoco la “maschera” di quell’uomo (Gennaro),

[…]isolato nel suo stesso contesto, legato a valori ai quali non sa o non vuole rinunciare, che agisce <<contro>> il Mondo degli Altri, che quei valori quasi sempre ignorano o rifiutano. Il suo agire <<contro>>[…]è sempre e comunque teso a riportare gli <<altri>> sulla retta via. Agisce da monito, da spartiacque tra la via che conduce al <<bene>> e quella che conduce al <<male>>94.

Incapace di opporre una strenua resistenza alla corruzione di chi lo circonda, il

protagonista, rimasto stonato e intontito dalla prima guerra mondiale, dimostra subito

92 Anna Barsotti, Introduzione a Eduardo, cit. , p. 57

93 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 149

94 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 32

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la propria passività di fronte ai loschi commerci in casa sua, senza incidere o

modificare in alcun modo, con la propria filosofia e i propri interventi moralistici, la

situazione esistente; attraverso la sua presenza silenziosa e la profonda onestà,

Gennaro diventa “[…]la coscienza provocatrice, l’occhio vigile che nessuno vorrebbe

vedere, soprattutto quando, per sopravvivere, si è scelta la strada del contrabbando

e dell’illecito”95.

Donna Amalia, per contro, il cui attivismo e il cui carattere autoritario vengono

subito anticipati da Eduardo durante una lite iniziale fuori al “basso”, conosce

solamente la legge del bisogno e della sopravvivenza, sfruttando a proprio vantaggio

la critica situazione della guerra e facendo dell’avidità di guadagno la molla della sua

vita; con lo scopo principale di provvedere alle necessità economiche della famiglia,

la donna si interessa, sempre esigendo un proprio tornaconto, alla sua attività di

contrabbando e di “borsa nera”, con lo stimolo e l’appoggio dei due figli più grandi,

Amedeo e Maria Rosaria, i quali si schierano a favore del senso degli affari della

madre e sono costretti a sopportare le continue prediche e gli scrupoli di don

Gennaro.

La filosofia alla base di questo spirito di sopravvivenza, tematica di forte

impatto drammatico nella commedia, viene immediatamente enunciata nella prima

parte dell’opera proprio dal figlio Amedeo, durante una discussione con il padre:

[…]ma quando tu vide ca chille che avessere ‘a dà ‘o buono esempio, songo na mappata ‘e mariuole… allora uno dice: <<Vuo’ sapè ‘a verità… Tu magne buono e te ngrasse e io me moro ‘e famma? Arruobbe tu? Arrobbo pur’io! Si salvi chi può!>>. (Quando ti accorgi che coloro che dovrebbero dare il buon esempio, sono un gruppo di ladri… allora uno dice: <<Vuoi sapere la verità… tu mangi bene e ti arricchisci e io muoio di fame? Rubi tu? E allora rubo anch’io! Si salvi chi può!>>) 96

Attraverso il caso limite di una comune famiglia napoletana e della sua

disgregazione, tema ricorrente in molte altre commedie della Cantata dispari,

Eduardo porta alla ribalta “[…]quegli aspetti che il fascismo aveva completamente

negato: l’uomo e i suoi sentimenti”97. Non è soltanto la realtà sociale collettiva, il

95 Andrea Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, cit. , p. 69

96 Ibidem , p. 76

97 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 35

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mondo circostante, che viene denunciato, ma anche e soprattutto quella realtà

interiore individuale che, per la prima volta, viene giudicata e commentata

polemicamente dal personaggio chiave di don Gennaro; nelle sue considerazioni su

questo malessere sociale, sul potere, sui ladri ecc…, il protagonista coglie, infatti, i

segni di una realtà in piena crisi, in costante lotta con le ingiustizie della vita e

trasformata, forse per sempre, dai meschini meccanismi di sopraffazione ad esse

connessi.

Sono proprio questi ultimi, strettamente legati all’altro tema fondamentale

dell’opera, il denaro, a far <<perdere ‘a capa>>(perdere la ragione) ad Amalia, a far

degenerare il bisogno in avidità e a far prevalere l’inconscio sul conscio, l’emotivo sul

razionale; in uno stretto rapporto fra il denaro, la vita e il <<tempo>>,

[…]passando dalla fame alla speculazione sulla fame[…], dalla paura dei bombardamenti alla speranza nella <<liberazione>>, questa famiglia sconta una euforia fittizia (la Napoli milionaria del secondo atto) con l’inevitabile, amaro risveglio (la perdizione dei figli maggiori e la morte annunciata della figlia più piccola). Ma nel finale aperto e sospeso sul futuro[…]si manifesta la feconda ambiguità del teatro di Eduardo, perché con esso la commedia esce da Napoli per rappresentare l’intero paese, e il mondo… 98 .

98 Anna Barsotti, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, cit., p. 6

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3.2 – STRUTTURA DELLA COMMEDIA

Una volta compresa la storia della commedia e inquadrate le tematiche

portanti dell’opera, la presente analisi, che trae le proprie osservazioni dall’edizione

televisiva del 1962 e dal testo scritto pubblicato da Einaudi nella <<Collezione di

teatro>>, intende soffermarsi e mettere a fuoco la struttura interna e la distribuzione

della materia drammaturgica nei tre atti. Il primo di essi, per la presenza di molti

elementi che si rifanno alla precedente produzione teatrale (Eduardo infatti unisce

ancora trovate comiche con i primi segni di una drammaturgia più profonda), può

assumere in questo senso una funzione di prologo rispetto ai lavori successivi. Come

dice l’Autore stesso in occasione della “prima” a Roma: “[…]con il primo atto di

Napoli milionaria! si concludeva la <<Cantata dei giorni pari>>, con il secondo

cominciava la <<Cantata dei giorni dispari>>99.

Attraverso la didascalia iniziale dell’opera, in cui Eduardo per la prima volta

utilizza il dialetto nell’attribuire <<‘O Vascio>> a <<donn’ Amalia Jovine>>, e la

seguente descrizione dell’enorme stanzone domestico, l’autore delinea

minuziosamente le misere condizioni socio-economiche della famiglia e introduce il

pubblico nella povertà e nella desolazione di quell’ambiente.

Da un punto di vista drammaturgico, le prime due scene dell’atto iniziale

(complessivamente le scene nell’atto I sono undici) anticipano ed introducono

chiaramente i temi di fondo della commedia (soprattutto quello portante del

contrabbando), i caratteri e le relazioni interne fra i singoli personaggi. Nelle battute

iniziali, infatti, in cui si svolge un breve dialogo fra Maria Rosaria, impegnata in

alcune faccende domestiche, e il giovane Amedeo, appena svegliatosi, si viene a

sapere che la madre è fuori nel vico (la lite che si sente di sottofondo tra Amalia e

un’altra signora del quartiere dimostra che è lei a svolgere un ruolo attivo e

autoritario all’interno della famiglia), mentre il padre, sempre secondo la giovane

figlia, sta ancora dormendo nella minuscola stanzetta a fianco (probabilmente però,

con la frase <<Nun s’è scetato ancora>>, Maria Rosaria intende esprimere

99 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 147

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metaforicamente “[…]ciò che l’intera famiglia pensa di Gennaro, ovvero che sia[…]un

addormentato, uno un po’ ritardato”100).

Mentre all’esterno è ancora in atto la lite con donna Vicenza, la quale sta

facendo concorrenza ad Amalia con la vendita del caffè nel proprio “basso”, Gennaro

comunica ai figli, sempre dalla sua cameretta ricavata con un divisorio all’interno

dello stanzone, che è sveglio da un bel pezzo a causa delle grida della moglie; inizia

in questo modo un dialogo importante tra i due giovani e il padre riguardo la vendita

del caffè, ma più in generale riguardo al contrabbando, in cui si delineano due

opposte <<visioni del mondo>>. È il primo vero contrasto valoriale della commedia,

in cui da un lato vi è Gennaro, con la sua onestà e la sua disapprovazione ai traffici

della moglie, e dall’altro ci sono Maria Rosaria/Amedeo, che, nelle proprie critiche

rivolte al padre (per ben due volte il figlio puntualizza sulla sua <<fessaggine>>) e

nelle accuse contro la classe dirigente, approvano l’operato della madre e l’etica del

<<si salvi chi può>>, giustificata per chi deve sopravvivere.

Dopo la frase significativa di Gennaro rivolta ad Amedeo: <<fino a che ce

stongo io dint’ ‘a casa, tu nun arruobbe!>> (fino a quando ci sono io dentro casa, tu

non ruberai mai!), il tono e il ritmo dell’azione cambiano improvvisamente

nell’episodio conclusivo della prima scena, quando proprio il giovane, che nella sua

ultima battuta difendeva l’<<arte del rubare>>, attacca in modo aggressivo il padre,

accusandolo di avergli sottratto volontariamente un piatto di pasta asciutta.

Il ritorno a casa di donna Amalia, ancora infuriata per la lite, rappresenta il

passaggio alla scena successiva, in cui si comprende a pieno, in modo identico alla

scena precedente, la vera indole e il reale carattere della <<padrona di casa>>.

Ancora una volta è proprio attraverso il dialogo, questa volta con la cliente donna

Peppenella, che si coglie quello spirito di sopravvivenza e di intraprendenza insito

nella signora Jovine, la cui forza e aggressività è scandita dal suo autoritario tono di

voce, dai suoi movimenti più accelerati e veloci rispetto al marito ed, inoltre, dalla

crudele astuzia nel concludere gli affari, ottenendo sempre un tornaconto monetario.

100 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 53

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Interessante notare, inoltre, il differente uso delle parole dei due coniugi; se da

una parte donna Amalia, sotto un’apparente comportamento gentile e generoso, cela

astutamente nelle sue espressioni continui raggiri e truffe (specialmente sui prezzi

dei generi di contrabbando), al contrario Gennaro manifesta, per esempio nella sua

intromissione durante “l’affare” della moglie con donna Peppenella, una profonda

sincerità e onestà, ma allo stesso tempo anche incapacità ad opporsi in modo

drastico.

Da un punto di vista di progressione drammaturgica, la scena seguente, dopo

l’uscita dal “basso” della cliente di donna Amalia, non introduce niente di nuovo, anzi

ribadisce due aspetti già emersi in precedenza. Prima di tutto, dopo aver nascosto

del caffè sotto il letto, la donna rimprovera con cattiveria la figlia per essere tornata

tardi la sera prima, dimostrando con ciò di possedere più potere rispetto al marito,

riservando “[…]ai figli quel controllo superficiale della loro moralità che è solitamente

prerogativa dei padri”101; inoltre, dopo che Gennaro tenta per ben tre volte di

comunicare con la moglie, quest’ultima, con il proprio sguardo, manifesta nei suoi

confronti un freddo distacco e pura indifferenza.

Con la scena successiva invece, questa volta scandita dall’entrata nel

<<Vascio>> di donna Adelaide, signora di mezza età che ha appena accompagnato

a scuola la piccola Rituccia, l’azione comincia gradualmente a farsi decentrata e

plurale (anche Amedeo infatti, in tuta da lavoro, ritorna in campo subito dopo).

Rispetto alle due macroazioni iniziali, si è in presenza ora di un’azione più tranquilla

e serena; nuovamente, il tema della discussione è la <<fessaggine>> di don

Gennaro e, come accaduto in precedenza, quest’ultimo utilizza abilmente una nuova

trovata comica (riguardo i maccheroni rubati al figlio) per difendere la propria

situazione di reduce dalla prima guerra mondiale.

L’unico momento di sosta del primo atto, caratterizzato da un consueto

comizio “alla napoletana”, è presente nella quinta scena, azione importante da un

punto di vista tematico, in cui l’onesto tranviere manifesta le proprie opinioni sulla

guerra, sulla mancanza degli alimenti e sul calmiere ad un pubblico sempre più vasto

ed eterogeneo. Con l’ingresso in scena di altri tre personaggi (Federico, lavoratore e

101 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 150

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amico di Amedeo, Errico “Settebellizze” e Peppe ‘o Cricco, due autisti

semidisoccupati), don Gennaro infatti, “in un <<monologo>> autoriflessivo e

compiaciuto,[…]un pezzo serio-comico[…]in parte svolto in lingua,[…]come se

l’attore-autore, affrontando temi di interesse generale, volesse eliminare le difficoltà

di comprensione che il dialetto avrebbe potuto creare” 102, dimostra di essere l’unico

a possedere una coscienza critica e una propensione alla riflessione riguardo la

guerra e le sue conseguenze, che “[…]gli consentirà di[…]comprendere il nesso

profondo che separa il bene dal male”103.

Il discorso di Gennaro, caratterizzato inoltre da una gestualità tipicamente

partenopea, può essere inteso, tuttavia, come un “[…]<<anti-linguaggio>>, rispetto

alla comprensione dell’uditorio scenico,[…]rilevato dai commenti scherzosi[…]e dalla

confessione finale di Peppe ‘o Cricco:<<Don Genna’, io nun aggio capito

niente…>>”104.

Ancora una volta, ad una macroazione come quella precedente ne segue una

decisamente inferiore da un punto di vista di svolta drammaturgica. La scena

seguente, infatti, segnalata dall’ingresso nel “basso” del ragioniere Riccardo

Spasiano, si caratterizza esclusivamente per la sua pluralità (in scena ci sono nove

personaggi) e per l’eterogeneità dei discorsi e delle singole opinioni, tutto questo

durante il rito mattutino del caffè. Uno dopo l’altro, tranne Riccardo, i personaggi

escono dal <<Vascio>> di casa Jovine (mentre Gennaro ritorna nella sua minuscola

stanzetta) e, di nuovo, questo stacco rappresenta il passaggio alla settima scena del

primo atto, che, insieme a quella successiva, funge da scena speculare alle due in

apertura di commedia.

La velocità dell’azione rallenta, i toni e le parole, intermezzate da numerose

pause e silenzi, si fanno più cupe e cariche di dolore. Nella settima scena infatti,

esattamente come nella seconda, viene di nuovo riproposta l’avidità e l’egoismo di

donna Amalia, la quale, negando continuamente di ottenere un profitto dall’attività

che svolge (agendo sia sul piano legale che morale), approfitta delle necessità e

102 Anna Barsotti, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, cit., p. 7

103 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 53

104 Anna Barsotti, Introduzione a Eduardo, cit. , p. 59

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della disperazione di Riccardo, inducendo quest’ultimo a vendere addirittura

l’orecchino della moglie per acquistare alcuni generi alimentari. Con l’ottava scena,

invece, specularmente alla prima dell’opera, Eduardo ripropone quel dramma

interiore e quei sentimenti onesti di don Gennaro, in un faccia a faccia diretto con la

moglie; ancora una volta la sua espressività e le sue parole tentano di opporsi a quel

quotidiano e disonesto “movimento”, ma nella sua debole incisività verbale, nelle sue

ridondanze e nei giochi di parole, si cela l’amara rassegnazione e l’impotenza di

fronte a quella situazione, dicendo alla fine ad Amalia, con tono umano e

comprensivo: <<Ama’, stàmmece attiente…>> (facciamo attenzione).

L’entrata furtiva di Errico “Settebellizze” nel “basso” Jovine, contrapposta

all’uscita di don Gennaro, anticipa il colpo di scena che caratterizza l’azione

successiva. Non solo si scopre che don Errico è coinvolto ed aiuta donna Amalia con

il contrabbando, bensì tenta palesemente di corteggiare la padrona di casa; Maria

Rosaria, che li ha colti sul fatto, sfrutta a suo vantaggio la situazione, e, con aria di

superiorità e sotto forma di ordine, comunica alla madre che quella sera intende

uscire con le amiche.

Nel finale d’atto la situazione drammatica acquista improvvisamente un climax

e un ritmo accelerato, trasformandosi “[…]nell’episodio farsesco del finto morto così

da avvicinarlo per toni e situazioni al suo vecchio modo di fare teatro”105. Amedeo e

donna Adelaide ritornano improvvisamente nel <<Vascio>>, informando Amalia

dell’imminente arrivo del brigadiere; dopo avere avvisato don Gennaro, che con un

gesto di sgomento inizia a prepararsi per la sceneggiata, e chiamati in aiuto altri due

personaggi (Pascalino “‘o pittore” e “‘O Miezo Prèvete”), “[…]il basso si trasforma

rapidamente in una camera ardente: il grande letto-bara col <<cadavere>> di

Gennaro vegliato dai parenti in lacrime, dai vicini condolenti,[…]alla luce dei

tradizionali quattro ceri”106.

Nella corale macroazione conclusiva il primo atto, […]scena di teatro-nel-

teatro[…], modello per il suo equilibrio fra spunti farseschi e situazione

105 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 62

106 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 156

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drammatica”107, il povero don Gennaro, con l’immobilità e l’assoluto mutismo, riesce

alla fine a vincere la gara di resistenza con il brigadiere, non facendosi arrestare.

Scoperto comunque il contrabbando nascosto sotto il letto, ma ammirando l’eroica

fedeltà di quel padre di famiglia al ruolo di finto morto, il capo di polizia, in un silenzio

terrificante per via della sirena d’allarme, non può che rendergli omaggio: <<Bravo!

Overamente bravo![…], nun t’arresto. E’ sacrilegio a tuccà nu muorto, ma è cchiù

sacrilegio a mettere ‘e mmane ncuollo a uno vivo comme a te. Nun t’arresto!>> (è

sacrilegio toccare un morto, ma è più un sacrilegio mettere le mani su uno vivo come

te).

Fingendosi morto, Gennaro cede alla realtà, alla fame e alla guerra. Da

personaggio inizialmente passivo, quasi sempre relegato sullo sfondo (o addirittura

nascosto), nel secondo e il terzo atto è lui a guadagnarsi il centro della scena.

Nell’ellissi temporale che separa il primo e il secondo atto, si svolge l’evento

rivoluzionario del dramma: lo sbarco alleato è avvenuto, la sensazione di libertà

prevale su tutto e i generi alimentari si smerciano facilmente. L’assenza di Gennaro,

deportato ormai da quattordici mesi dai tedeschi, permette “[…]l’espansione del polo

etico Amalia-Altri personaggi,[…]la fioritura dell’etica del(l’ap)profitto” 108 e la radicale

trasformazione della famiglia Jovine e dell’intera Napoli, che , con il denaro

conquistato con il contrabbando, diventa appunto <<milionaria!>>.

Da un punto di vista di progressione e tensione drammatica, questo secondo

atto, composto da sette scene, possiede un climax improvviso, che tende

gradualmente a sconvolgere i toni festosi della prima parte. Le due scene iniziali,

infatti, compongono la prima sezione dell’atto, incentrato principalmente sul

personaggio di Amalia, sulla ricchezza del <<Vascio>> completamente rinnovato e

sui segni di quell’opulenza, di quella trasformazione esteriore (nei vestiti, negli

atteggiamenti, nella disponibilità di cibo) avvenuta grazie all’avidità di denaro.

Nella prima e nella seconda scena dunque, caratterizzate da uno svolgersi

delle azioni in un’apparente tranquillità e serenità e in cui non mancano neppure

107 Anna Barsotti, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, cit., p. 8

108 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 66

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alcuni spunti farseschi (il gioco di parole dei termini inglesi nice e friend, durante il

dialogo iniziale tra donna Amalia e le due amiche di Maria Rosaria, e la “risatina

nervosa” di donna Assunta), contrariamente all’atto di apertura, “[…]il linguaggio

cessa d’essere <<espressivo>> per diventare <<indicativo>> del significante

supremo che in Napoli milionaria! è rappresentato dal denaro, dalla volontà di

arricchirsi[…]”109. Già dalle note introduttive, si passa dallo stanzone <<lercio e

affumicato>> del primo atto a quello <<di lindura e di sciccheria fastosa>> del

secondo; per ben due volte inoltre, sempre nella parte iniziale, l’attenzione della

giovane donna Assunta, che con il suo carattere ingenuo e il suo candore sostituisce

il protagonista nel ruolo di oppositore all’egoismo di Amalia, è rivolta all’eleganza

della padrona di casa.

Ulteriore elemento da sottolineare è, inoltre, l’atteggiamento di Amalia,i suoi

movimenti, il proprio modo di porsi verso gli altri e la gestualità. Contrariamente alla

situazione di povertà nel primo atto, dove gli alti toni espressivi, la crudele furbizia e

la velocità dei movimenti della donna erano indispensabili per opporsi con decisione

alla povertà e alla miseria, nel secondo la ricchezza pervade l’anima della famiglia

Jovine e lo dimostra quell’atteggiamento di superiorità (nelle proprie parole, nei propri

sguardi) e quei lenti movimenti di donna Amalia, ora consapevole di potere

finalmente godere della guadagnata agiatezza.

Ai toni pacati e al ritmo tranquillo delle due scene iniziali si contrappone la

significativa azione successiva, scandita ancora una volta da un’entrata nel

<<Vascio>> (del ragioniere Spasiano) e divisa in due parti. Nella prima di esse, in cui

la velocità dell’azione rallenta drasticamente, si ripresenta il dramma del povero

Riccardo, “spogliato” di ogni bene dall’avidità di Amalia; dopo avere tentato di parlare

alla <<coscienza>> della donna, intenta a pignorare la casa di lui, il tono dell’azione

aumenta all’improvviso, nel momento in cui la padrona di casa, rimasta quasi sempre

seduta dimostrando indifferenza alle parole del ragioniere, perde la pazienza

manifestando tutta la sua ira e crudeltà.

109 Ibidem , p. 65

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Messi in mostra tutti quei sentimenti di rancore e ostilità, in una scena in cui

“[…]Amalia appare posseduta da una forza misteriosa, folle e distruttiva[…]”110, l’alto

livello drammatico, caratterizzato dalla lotta fra due opposte <<visioni del mondo>>,

cede il passo ad un’azione più tranquilla ma, allo stesso tempo, importante da un

punto di vista di svolta drammaturgica. La signora Jovine ed Errico “Settebellizze”,

arricchitosi anche lui mediante i trasporti dei camion, sono al centro della quarta

scena del secondo atto, immediatamente prima di due importanti dialoghi; la donna

ormai non ha notizie del povero don Gennaro da più di un anno e non sa se cedere o

meno alla avances di Errico, desideroso di trasformare la loro collaborazione in

qualcosa di più.

I continui giochi di sguardi, le pause e i silenzi fra i due amanti, alimentano

ardentemente il profondo desiderio di Amalia di trasformare la fantasia in <<lealdà>>

(realtà), come dice la donna, e alla fine, non riuscendo più a fingere e a trattenersi, si

lascia andare in un sensuale abbraccio. Nonostante il suo onore non sia del tutto

compromesso, l’atto della signora Jovine è il preludio alla disgregazione della

famiglia, segnalata dai due dialoghi nella quinta scena, fra Errico ed Amedeo e

quello fra Amalia e la figlia.

La vistosa ricchezza d’inizio atto si contrappone ora alla miseria morale dei

figli. Amedeo, da quando il padre non c’è più, si è messo in affari con Peppe “’o

Cricco” nel furto delle gomme d’auto, ed Errico, in un discorso realmente protettivo,

tenta di riportarlo sulla retta via; a questo dialogo, caratterizzato tuttavia da un tono

decisamente tranquillo, segue quello più aggressivo tra madre e figlia, in cui Maria

Rosaria confessa di essere incinta e accusa la donna, con profonda rabbia, di non

essere riuscita a sorvegliarla, perdendo il suo tempo con “Settebellizze”.

Proprio nel momento in cui l’unità della famiglia Jovine sembra dover crollare,

ecco che ritorna il “finto morto” del primo atto, don Gennaro, interrompendo in questo

modo una forte tensione famigliare; azione situata al centro dell’opera, essa funge da

svolta dinamica, influenzando la velocità, il ritmo e il <<tempo>> stesso del resto

della commedia. Il suo arrivo, annunciato dalla gioia del quartiere, ribadisce ancora

una volta l’osmosi <<Vascio>>-vico, ma l’atteggiamento spaesato e l’abbigliamento

110 Ibidem , p. 67

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da reduce “internazionale”, che gli fanno assumere in un certo senso i connotati di

una <<maschera>>, “[…]lo pongono in subita antitesi, visiva e gestuale prima ancora

che verbale, col mondo fintamente fastoso che lo circonda”111.

Al di là della trovata farsesca iniziale, quando Gennaro pensa di avere

sbagliato casa e chiede umilmente scusa alla <<signora>>, l’incontro con la moglie e

i figli non manca di dolcezza e tenerezza (specialmente di Amedeo, ignaro del

segreto e del dramma che intercorre tra la madre e la sorella). Inizia così un vero e

proprio monologo <<isolante>> di don Gennaro, che attraverso il racconto della

guerra (un commento e intermezzo epico) acquista il centro della scena

(sottraendolo ad Amalia), aumentando il livello drammatico della storia; azzerata del

tutto la velocità dell’intreccio principale, l’attenzione è ora rivolta al lungo flash-back

del protagonista, alle sue pause e riflessioni divaganti (ancora una volta

principalmente in lingua), che “[…]conferiscono al suo discorso il calore spontaneo

dell’eloquio napoletano e la funzione d’un teatro-nel-teatro verbale e gestuale”112.

Nelle prime battute e attraverso la sofferente espressività, risiede la forte

consapevolezza di avere ancora la crudeltà della guerra <<dint’ ‘a ll’uocchie>>, una

guerra che <<nun è fernuta>> e che gli permette ora di comprendere la vera natura

ambivalente delle cose, oscillante tra il bene (la coscienza di Gennaro) e il male (la

trasformazione e gli errori commessi dalla famiglia).

Dopo questo intermezzo <<eroico>>, con il quale l’autore tenta di istaurare

una sorta di “conversazione privata” con il pubblico, la situazione si fa gradualmente

plurale, riproponendo nuovamente, questa volta ad un più alto livello drammatico,

quel rapporto di incomunicabilità fra il protagonista e gli <<altri>> personaggi; per

ben due volte il povero reduce tenta di far partecipi i parenti e gli amici del vico delle

proprie disavventure, ma essi tendono via via a ridurre quello spazio verbale

concessogli per la commozione iniziale e, ripetutamente, cercano di convincerlo a

non pensare più al passato (ancora una volta, come è avvenuto nell’atto di apertura,

è per primo Amedeo a svolgere il ruolo di portavoce del pensiero comune, dicendo al

padre : << ccà è fernuto tutte cose…>> (qui è finito tutto) ).

111 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 162

112 Anna Barsotti, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, cit., p. 9

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Lentamente don Gennaro, fino al culmine della scena finale d’atto, quando

tutti si siedono a tavola per festeggiare, si rende conto della cinica indifferenza degli

<<altri>>, della stessa famiglia e questa separazione, questa appartenenza a due

mondi diversi “[…]non potrebbe essere significata meglio, a livello verbale, che dal

costante rifluire[…]di Gennaro sul leit-motiv <<’A guerra nun è fernuta… E nun è

fernuto niente!>>”113. Incapace a <<comunicare>> con la <<Napoli milionaria>>,

nella scena conclusiva il protagonista si allontana dal cinismo attorno a lui e si ritira,

insieme a Maria Rosaria (primo personaggio ad avvicinarsi al “mondo” del padre),

nella stanza della piccola Rituccia, gravemente ammalata.

Contrariamente alla lunga cesura temporale che separa i primi due atti, l’ellissi

tra il secondo e il terzo è solo di un giorno ed è sera inoltrata; per di più, nonostante

quest’ultima parte sia composta, esattamente come la seconda, da sette scene,

“[…]il movimento drammatico non scaturisce più dall’azione ma è insito nella

situazione stessa”114.

Già dalla scena iniziale si comprende subito il livello drammatico (che qui

raggiunge il culmine, secondo un climax regolare scandito tra il primo, il secondo e il

terzo atto), la crisi e la disperazione che avvolge la famiglia Jovine. Il primo dialogo

avviene tra don Gennaro, che acquista in quest’ultima parte il centro della scena, e il

brigadiere Ciappa, giunto ad avvertire il protagonista che quella sera intende

arrestare il giovane Amedeo, in procinto di compiere un furto d’auto insieme a Peppe

“’o cricco”; appresa la notizia, Gennaro replica con il proprio sconforto espressivo,

con un tono di voce freddo e cupo, che, insieme alle numerose pause riflessive,

esprimono distintamente lo stato d’animo del padre di famiglia.

La drammaticità della situazione comprende, inoltre, la condizione della

piccola Rituccia, che senza una particolare medicina rischia seriamente di morire.

Amalia ed Amedeo sono in giro per tutta Napoli alla ricerca dell’introvabile farmaco,

mentre donna Assunta e donna Adelaide recitano l’Ave Maria in presenza del

dottore, che le ascolta con commiserazione (l’atmosfera da veglia funebre presente

113 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 164

114 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 79

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in casa sembra contrapporsi, questa volta non in modo parodistico, all’episodio del

“finto morto” del primo atto).

A questa scena iniziale segue una macroazione, o meglio ancora un

importante monologo di don Gennaro in presenza del brigadiere e del figlio Amedeo,

ritornato a casa dopo avere cercato vanamente la medicina. Improvvisamente il

tempo si ferma, la velocità dell’azione non acquista più importanza e il protagonista,

nel suo discorso implicitamente rivolto al figlio (Gennaro non guarda mai in faccia il

giovane), esprime le proprie opinioni sulla differenza tra chi , come i contrabbandieri

o i truffatori, reagisce alla fame come può e chi, invece, fa il ladro,<<’o mariuolo>>,

un qualcosa che prescinde dalla guerra. Le parole cariche di dolore e di sconforto in

questo ultimo monologo (non più isolante, come era stato nel secondo atto), sono

dirette, sotto forma di meta-messaggio, al figlio Amedeo, che, imparata la lezione

morale paterna, decide in seguito di rinunciare al furto.

Il brigadiere a questo punto esce di scena e l’autore, dopo il lungo monologo

precedente, inserisce una microsequenza importante, tutta giocata sui silenzi, sugli

sguardi, sul ritmo, funzionale ad esprimere nuovamente il dramma interiore della

famiglia (principalmente di Maria Rosaria, che rimane in silenzio per tutto il terzo

atto). Da un punto di vista discorsivo e di <<statuto della parola>>, vi è una netta

contrapposizione fra le due scene seguenti; se nella prima, incentrata sul dialogo fra

Peppe “’o cricco” e don Gennaro, quest’ultimo gioca sui doppi sensi delle parole e

l’ambivalenza dei significati (“[…]un dialogo divertente che testimonia la sua chiara e

netta condanna dei ladri”115), nella seconda scena al contrario, segnalata dall’arrivo

di “Settebellizze”, il padrone di casa trasforma la propria ospitalità incondizionata in

ostilità, non concedendo più spazio agli <<altri>> e rispondendo, alle spiegazioni di

Errico, con un silenzio agghiacciante.

Nonostante la presenza di un leggero spunto farsesco de “’O Miezo Prèvete”

(racconta a don Gennaro la buffa sorte della moglie), addetto ad alleggerire il clima

troppo drammatico dell’azione, la sesta scena trascina con sé il colpo di scena finale,

acquistando un significato fondamentale per la risoluzione della storia. Al centro di

questo episodio determinante, si trovano donna Amalia, visibilmente affranta e

115 Ibidem , p. 82

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cambiata moralmente dagli altri due atti, e Riccardo Spasiano, ormai “spogliato”

completamente dall’avidità della donna, che in un gesto etico e colmo di amore

reciproco (nettamente contrapposto a tutti i comportamenti assunti dagli <<altri>>

fino a quel momento), dona alla signora Jovine la medicina che può salvare la

piccola Rituccia (metafora della morte morale a cui rischia di andare incontro l’Italia e

l’intera l’umanità).

È proprio attraverso il <<dono>>, atto di possibile salvezza e speranza per il

futuro, che la presente analisi giunge alla scena conclusiva dell’opera, la resa dei

conti finale fra Gennaro ed Amalia, ormai totalmente cosciente della crisi e del

baratro morale in cui non solo lei, ma tutta l’Italia è sprofondata. È il <<padrone di

casa>> che parla adesso, non con tono di accusa e di superiorità ma con la sua

tenera e triste consapevolezza, “[…]prima con la sua silenziosa presenza di

<<spettatore>>[…]e poi col suo sfogo verbale, però ragionato, mostra in fondo di

comprenderla”116.

Contrapposto al silenzio e allo sconforto di Amalia, in questo conclusivo

pseudo-monologo Gennaro si rende conto del ruolo fondamentale che un padre deve

ricoprire in circostanze simili, della sua responsabilità a farsi carico degli errori

commessi e della forza di volontà nel rimediare ad essi; alle parole della moglie:

<<Ch’è ssucciesso….ch’è ssuccieso?..>>, che testimoniano l’incapacità della donna

a reagire e ad opporsi alla situazione, Gennaro accusa prima la guerra e poi, dopo

un bacio consolatorio ai due figli, tenta di dare conforto e un minimo di speranza alla

moglie, alla famiglia, e all’intero paese con la frase più famosa del suo teatro : <<Ha

da passa’ ‘a nuttata>> (deve passare la notte).

I tre atti della commedia, secondo un rapporto monologo-dialogo e parola-

gesto, sono caratterizzati da “[…]altrettanti discorsi del protagonista, in un crescendo

diretto a raggiungere[…] l’intesa con gli altri”117. Come spesso accade nel teatro

eduardiano, non si è in presenza di personaggi buoni o cattivi tout court, ma, in un

mondo radicalmente trasformato (come quello in Napoli milionaria!), la risoluzione e

116 Anna Barsotti, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), cit. , p. 166

117 Anna Barsotti, Introduzione a Eduardo, cit. , p. 63

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la ri-affermazione dell’<<io>> diviene completa solamente penetrando il caos e la

disperazione degli avvenimenti umani (come sperimenta Gennaro).

Per aprirsi un varco nel cuore delle persone, Eduardo si serve di quell’alone

comico che non dimentica mai gli aspetti tragici della vita, fondendo perfettamente

tenerezza e amarezza, riso e pianto. Il vero segreto tuttavia risiede nel linguaggio; i

personaggi, infatti, “quando parlano della loro vita quotidiana e intima, adoperano il

dialetto; quando accennano a portati della vita civile, istituti, usanze[…], adoperano

con bell’effetto comico la lingua, le parole burocratiche, le frasi fatte[…]”118.

Il grande talento di Eduardo, nella sua <<illusione>> scenica, risiede nella

capacità di creare una testimonianza, di dare verità al proprio testo e al proprio

teatro:

Quando andò in scena per la prima volta Napoli milionaria! l’effetto che provocò nel pubblico fu di totale identificazione. Per la gente seduta in platea e nei palchi del San Carlo, osservare quella scena, il <<basso>> della famiglia Jovine, fu come guardare nella propria casa[…]. Sembrava di essere appena usciti dalle proprie abitazioni e vedere vissuta senza soluzione di continuità la propria vita[…], fu come guardarsi allo specchio. In una parola fu una rivelazione.119

Dopo l’enorme successo del debutto napoletano, lo spettacolo riceve ampi

consensi e critiche positive in molte città del paese. A fine marzo, sempre del 1945,

per prima è la capitale romana ad ospitare l’opera di Eduardo, che in pochissimo

tempo ottiene popolarità; nell’aprile del 1946 si sposta a Milano, raccogliendo anche

qui grandi consensi, mentre a giugno dello stesso anno si trasferisce a Genova e

viene accolto con entusiasmo. Nel 1948, inoltre, lo spettacolo va in scena sia al

Teatro Duse di Bologna, sia a Trieste, venendo recensito da numerosi quotidiani,

mentre nel 1950 l’opera viene ripresa e rappresentata nuovamente nella sua culla

nativa, Napoli.

118 Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, cit., p. 80

119 Carlo Montariello, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà all’arte senza soluzione di continuità, cit. , p. 39

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NAPOLI MILIONARIA!

(commedia in tre atti di Eduardo De Filippo, 1945)

Edizione televisiva del 1962 – scheda tecnica

Regia: Eduardo De Filippo

Regista collaboratore: Stefano De Stefani

Scenografia: Emilio Voglino

Collaborazione alla sceneggiatura: Aldo Nicolaj

Arredamento: Luigi D'Andria

Fotografia: Alberto Caracciolo

Produzione: RAI

Luogo delle riprese: Centro di produzione RAI di Roma

Data di trasmissione: 22 gennaio 1962 (R2)

Durata: 126'

Compagnia: "Il Teatro di Eduardo"

Personaggi ed interpreti: Maria Rosaria (Elena Tilena); Amedeo (Carlo Lima); Gennaro Jovine (Eduardo); Amalia (Regina Bianchi); Donna Peppenella (Evole Gargano); Adelaide Schiano (Nina De Padova); Federico (Antonio Allocca); Errico "Settebellizze" (Antonio Casagrande); Peppe "‘o cricco" (Ettore Carloni); Riccardo Spasiano, ragioniere (Lello Grotta); il brigadiere Ciappa (Pietro Carloni); Assunta (Angela Pagano); Teresa (Maria Hilde Renzi); Margherita (Marina Modigliano); "'o miezo prevete" (Ugo D'Alessio); il dottore (Enzo Petito); Pascalino "'o pittore" (Filippo De Pascale); un signore attempato (Antonio Ercolano).

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NOTA BIBLIOGRAFICA

(in ordine di pubblicazione)

FIORENZA DI FRANCO, Eduardo De Filippo, Roma, Gremesse Editore, 1980

GIOVANNI ANTONUCCI, Eduardo De Filippo, introduzione e guida allo studio

dell’opera eduardiana. Storia e Antologia della critica, Firenze, Le Monnier, 1980

ANDREA BISICCHIA, Invito alla lettura di Eduardo, Milano, Mursia, 1982

ANNA BARSOTTI, Introduzione a Eduardo, Bari, Laterza, 1992

ANNA BARSOTTI, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), Roma, Bulzoni ed., 1995

ANNA BARSOTTI, Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari vol. I, Torino, Einaudi, 1995

GIOVANNI ANTONUCCI, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma, ed. Studium, 2002

ANNA BARSOTTI, Eduardo, Torino, Einaudi, 2003

GIAMPAOLO INFUSINO, Eduardo De Filippo, un secolo di teatro, Napoli, LITO-RAMA, 2004

CARLO MONTARIELLO, La Napoli milionaria! Di Eduardo De Filippo, dalla realtà

all’arte senza soluzione di continuità, Napoli, Liguori Editore, 2006