L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden...

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1 Università degli Studi di Bologna Scuola di Economia, Management e Statistica Corso di Laurea Magistrale in Economia e Diritto Corso di Economia Civile e Sistemi di Welfare Prof. Stefano Zamagni L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden Age”? di Carlo Signor Giugno 2013

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Università degli Studi di Bologna

Scuola di Economia, Management e Statistica Corso di Laurea Magistrale in Economia e Diritto

Corso di Economia Civile e Sistemi di Welfare Prof. Stefano Zamagni

L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden

Age”?

di

Carlo Signor

Giugno 2013

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Sommario

Introduzione ............................................................................................... 3

Le radici dell’economia civile ...................................................................... 4

Il Medioevo: dalla cultura monastica al francescanesimo ................................................................ 4

L’umanesimo civile ......................................................................................................................................... 6

La notte del civile ............................................................................................................................................ 7

L’età dell’oro dell’economia civile ............................................................... 9

Genovesi e la scuola napoletana ............................................................................................................... 9

I concetti fondamentali dell’economia civile. .................................................................................... 10

Declino del “civile” e affermazione dell’economia politica..........................13

I punti in comune dell’umanesimo civile con la filosofia smithiana .......................................... 13

La caesura tra economia civile ed economia politica ..................................................................... 14

L’utilitarismo e la definitiva affermazione della political economy............................................ 15

I principi regolativi dell’economia civile ....................................................18

L’economia di mercato civile ................................................................................................................... 18

Gli ordini sociali e il principio di reciprocità ....................................................................................... 20

I beni relazionali ........................................................................................................................................... 22

Le ragioni del ritorno della prospettiva di economia civile .........................23

I limiti dell’economia politica................................................................................................................... 23

La questione occupazionale e la crisi del welfare state ................................................................. 24

La soluzione dell’economia civile ........................................................................................................... 25

Da welfare state a welfare society ......................................................................................................... 27

I mercati di qualità sociale. ....................................................................................................................... 28

Prospettive e conclusioni ...........................................................................30

Bibliografia ................................................................................................33

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Introduzione

Negli ultimi anni, specialmente in concomitanza con la recente crisi economico-

sociale, è tornato in auge, negli ambienti accademici e non solo, il modello di

teoria economica dell’economia civile.

Esso rappresenta un paradigma alternativo a quello, sino ad ora dominante,

dell’economia politica di estrazione culturale anglosassone che, spesso, è risultato

incapace di rispondere, completamente ed efficacemente alle sfide di una società

sempre più complessa ed articolata. É inoltre, corretto parlare di “ritorno”, perché

l’economia civile, sul piano cronologico, trova origine nel Medioevo per evolversi,

embricandosi con la political economics, scandendo le fasi dello sviluppo del

pensiero economico nei secoli e trovando i momenti di massima fioritura durante

la prima fase dell’Umanesimo quattrocentesco e il Settecento napoletano, con

l’economista Genovesi, prima di venir oscurata dall’economia politica.

In realtà, la modernità e la capacità rinnovativa del modello teorico dell’economia

civile sono insite nei contenuti, in grado di intercettare molte esigenze della

società contemporanea, ma anche nel linguaggio con il ricorrente utilizzo di

termini quali relazioni, reciprocità, fraternità, dono, gratuità, bene comune,

felicità strettamente connessi con questioni che, ad oggi, si ritagliano un ruolo

non marginale nel dibattito socio-economico.

Tali considerazioni costituiscono i presupposti razionali per ipotizzare una nuova

golden age per l’economia civile e per l’approfondimento/riscoperta delle sue

peculiari caratteristiche, specialmente nelle sue implicazioni operative per il XXI

secolo. Pertanto, tramite questo working paper, l’autore si pone i seguenti

obiettivi:

1. l’inquadramento storico di tale paradigma economico, indagandone

l’integrazione evolutiva, fino alla sua sostituzione col più conosciuto

modello dell’economia politica;

2. la descrizione dei principi regolativi e fondanti di tale modello, forse in

grado di offrire alcune ipotetiche soluzioni alle gravi, talora drammatiche,

problematiche economiche/sociali/antropologiche che oggi affliggono le

nostre comunità.

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Le radici dell’economia civile

Il Medioevo: dalla cultura monastica al francescanesimo

La tradizione dell’economia civile si distingue per aver radici profonde, intrecciate

ed in simbiosi con le vicende che hanno portato alla nascita della cosiddetta

“società civile”, alternativa, seppur collegata, ai concetti di Stato e di individuo.

(Bruni 2004)

Se l’idea di società civile si diffonde ai tempi della polis greca o della civitas

romana, essa sembra rivelare la sua essenza in seguito alla fioritura del

cristianesimo e, quindi, è fondamentale ripercorrere gli eventi cronologici a partire

dal Medioevo per meglio percepire l’evoluzione del paradigma sociale, economico,

politico e filosofico dell’economia civile.

In particolare, va considerato il ruolo essenziale svolto dal monachesimo, che

rappresentò, dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente, un grande movimento

spirituale europeo, e sul piano civile fu un faro di luce e di civiltà in secoli

storicamente ritenuti bui.

Monachesimo che, aldilà dell’essere la culla della neonata filosofia civile, è lo

stesso luogo di origine del primo vero lessico economico e commerciale, quindi

dell’economia moderna in sé; infatti, proprio all’interno delle abbazie, durante il

Basso Medioevo, si svilupparono le prime forme complesse di contabilità e

gestione che permisero la realizzazione, sebbene in forma primordiale, di ambienti

sociali e strutture economiche articolate. Ne è piena espressione il motto

benedettino “ora et labora”, non distante dalla cultura del lavoro e dell’economia

che ancora oggi è principio fondante di ogni teoria e cultura economica. Un altro

passo fondamentale fu il progressivo mutarsi del giudizio da parte dell’etica

cristiana tra il II e l’VIII secolo nei confronti del rapporto con i beni e la ricchezza,

non più condannati in sé, ma solo se usati con avarizia, che offre una prima

giustificazione dell’economia intesa come relazione tra soggetti e beni.

Altro punto di incontro con i principi dell’economia moderna che si può ricavare

dall’esperienza dei monasteri è l’approccio alla vita e alla comunità. La vita dei

monaci era volta allo scopo ultimo della salvezza, una sorta di mission aziendale

ante litteram guardando la comunità del monastero come un’impresa moderna.

Conseguentemente la loro vita era scandita e organizzata fin nei minimi dettagli

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secondo un’ottica di razionalità strumentale che è al cuore della cultura e

dell’economia occidentale (Max Weber).

Ma, forse, la vera rivoluzione ha luogo nel momento in cui la cultura cristiana,

ormai dominante in Europa, con i possedimenti dei monasteri, creò le condizioni

per la legittimazione etica della proprietà privata, un istituto essenziale per la

nascita dell’economia di mercato.

Dall’altro lato, con l’apertura relazionale dei monasteri sulle città e l’obbligo del

monaco di assistere poveri e concedere prestiti ai bisognosi, si andò a profilare un

principio chiave dell’economia civile: il dono.

In definitiva, i monasteri fecero da humus per la nascita di linguaggio e cultura

che poi andranno a definire tutti i paradigmi economici moderni, ma proprio in

queste realtà sociali iniziò a profilarsi la prima idea di economia civile, unica in

grado di cogliere la stretta connessione tra caritas ed economia, tra dono e

contratto, tra reciprocità e razionalità economica.1

Un altro momento topico della storia del pensiero economico si ebbe con la

nascita dei mercati e l’affermazione della classe dei mercanti a partire dal XI

secolo. In questo contesto a contribuire da un lato alla prima vera esperienza di

economia civile e poi, paradossalmente, a rivelarsi la prima vera scuola

economica dalla quale emergerà il moderno spirito del capitalismo 2 è il

francescanesimo.

Con il francescanesimo ebbe luogo il primo tentativo di una vera e propria

riflessione economica. 3 In questa fase si ebbe una dettagliata riflessione sul

significato del “possesso”, sulla cultura della povertà medievale, sull’usura, ma

soprattutto si assistette alla nascita dei “monti di pietà”, esperienza considerata

la prima vera istituzione di economia civile, dai forti caratteri solidaristici e quindi

riconducibile al principio di reciprocità.4

Oggi queste organizzazioni potrebbero essere identificate come vere e proprie

banche etiche, che oggi trovano una continuazione ideale nelle varie forme di

1 La successiva affermazione della cultura del contratto ai danni di quella del dono e della

razionalità economica sulla reciprocità fu poi storicamente l’inizio del declino dell’economia civile. 2 Contributi di Ockham, San Bernardino da Siena. 3 La scuola francescana superò sul piano dottrinale la proibizione dell’interesse con tutte le

conseguenze commerciali e bancarie che ne derivarono. 4 I monti di pietà sorsero nel Quattrocento in Umbria e nelle Marche per mano dei francescani come mezzi di “cura” della povertà e di lotta all’usura.

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microcredito, nelle casse rurali, il cui capitale si accumulava per mezzo di collette

sottoscrizioni, eredità, donazioni, depositi vincolati e questue.

L’umanesimo civile

Dal Quattrocento ebbe luogo quella grande rivoluzione che portò la società

occidentale dal medioevo alla modernità, concomitante con l’umanesimo e

l’umanesimo civile in particolare.

“Questa fase è vista come la fioritura della semina e della coltivazione medievale,

quando si sviluppò la semantica di quel civile e di quell’economico che fiorì

nell’umanesimo civile” (Zamagni 2004).

Tuttavia, è bene precisare che la stagione dell’umanesimo civile non coincide con

l’intero periodo dell’umanesimo, in quanto nella seconda fase, corrispondente

alla seconda metà del Quattrocento, riprese il sopravvento l’anima individualista

platonica, chiudendo di fatto la stagione del primo umanesimo sociale ed

aristotelico.

Con l’umanesimo civile si assistette ad una forte rivalutazione, già iniziata nel

medioevo, della dimensione orizzontale e relazionale dell’essere umano, dalla

famiglia alla città, allo Stato.

Concetti come il “bene vivere” successivamente riconosciuti come i tratti distintivi

della discussione propria della tradizione economica civile del Settecento

richiamavano i contributi di Bruni, Alberti, Bernardino da Siena sulle tesi

medievali dell’utilità sociale delle ricchezze.

Rivoluzionario il nuovo approccio al lavoro umano, non più visto come attività

moralmente più bassa rispetto alla contemplazione, ma valorizzata e innalzata al

rango di partecipazione all’attività creatrice di Dio.

In questo contesto si sviluppò ulteriormente il valore del dono e il principio della

reciprocità come via al mercato, in quanto l’economia è civile solo se ne prende

parte tutta la città.

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Come contraltare, il povero ozioso è condannato perché si autoesclude dalla

reciprocità.5

Infine è strettamente legata al paradigma di economia civile la discussione che si

sviluppò in questa fase sul tema della felicità, che, sulla scia di Aristotele, venne

vista come frutto delle virtù civiche e, quindi, di una realtà immediatamente

sociale: non esiste felicità disgiunta dalla vita civile.

La notte del civile

Come già anticipato, durante la seconda fase dell’umanesimo si assiste al declino

del “civile”. In particolare nella seconda parte del Quattrocento e nei primi anni

del Cinquecento si afferma la corrente di pensiero dell’individualismo che andò a

minare le fondamenta dell’umanesimo civile. I suoi più importanti autori di

riferimento sono Machiavelli, Hobbes e Mandeville.

Machiavelli incarna perfettamente la crisi morale e politica del suo tempo (inizio

XVI secolo): contesto caratterizzato dalla trasformazione delle repubbliche civili in

signorie che diedero luogo a continue guerre lungo tutta la penisola italica.

Nei contributi di Machiavelli si riconosce un radicale pessimismo antropologico,

poiché, diversamente dalle convinzioni dei primi umanisti, le virtù civili si erano

mostrate incapaci di creare e mantenere la pace e la coscienza nazionale.

L’individuo è, pertanto, incivile, malvagio, pauroso e scaltro. Ne consegue che la

base della vita in comune non può più essere l’amore reciproco, ma il reciproco

timore. In questo contesto diventa fondamentale la figura e il ruolo del princeps,

del quale Machiavelli descrive le virtù politiche, in una concezione

diametralmente opposta alle virtù civili, attraverso le quali egli libera i propri

sudditi dai conflitti distruttivi riconducibili all’inciviltà insita dell’individuo. Tipo

di approccio filosofico strettamente correlato al fenomeno di ricostituzione delle

gerarchie, quali le società feudali e castali, che ricreano le fondamenta di una

società non più basata sul principio di uguaglianza, tipico dell’economia civile.

5 Da una analisi attenta si può riconoscere in questa considerazione una delle principali motivazioni di fallimento del welfare state.

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Un secolo dopo, sulla scia di Machiavelli, si distingue un altro importante autore

le cui opere contribuiscono al declino del civile: Hobbes. “Gli uomini hanno in

comune solo la loro uccidibilità generalizzata, ossia chiunque può essere ucciso

da chiunque”. Il conflitto, la competizione, la lotta per sopraffare l’altro è la

condizione ordinaria degli uomini: la paura è, nuovamente, il fondamento della

vita in comune.

Ma il più significativo contributo, e vero grande capolavoro, di Hobbes è il

Leviatano (1651). Hobbes scrive che l’essenza fortemente negativa dell’uomo lo

porta a dover stipulare con un entità esterna, il Leviatano appunto, un patto

artificiale che permetta di evitare la guerra di tutti contro tutti attraverso la

rinuncia dei rapporti interpersonali delegando la mediazione intersoggettiva allo

Stato-Leviatano.

Prende forma il concetto di Stato, inteso come contrapposto all’individuo, che, in

chiave moderna, si può ricondurre al conflitto tra interesse pubblico ed interesse

privato. Il pubblico è il luogo di ciò che è comune e il privato è il luogo di ciò che è

proprio.

Un altro radicale attacco agli autori civili fu quello sferrato da Mandeville, con la

sua celebre “Favola delle api” del 1714.6 L’idea fondante è la sussistenza di una

consecutio tra “vizi privati” e “pubblici benefici”: è un concetto rivoluzionario in

totale contrasto rispetto alla filosofia civile, in quanto l’uomo non solo non è un

“animale civile” portato di natura a relazionarsi con gli altri, ma se lo fosse o lo

diventasse attraverso l’educazione e la cultura, dovrebbe tenere a freno le sue

virtù poiché negative per la vita della società.

A sintetizzare successivamente questa filosofia contribuì Kant, secondo cui

l’uomo è essenzialmente egoista e solo la morale e la vita gli impongono obblighi

sociali, dunque si manifesta l’esclusione della reciprocità sia su dimensione

essenziale che antropologica dell’essere umano.

Sembra evidente la stretta connessione tra questa nuova concezione dell’uomo e

della società, secondo cui la socialità è qualcosa di estrinseco, di transitorio, di

accidentale, e la cultura che poi nell’età contemporanea si è rivelata dominante.

6 La favola narra la storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà, vivevano nell’abbondanza e nel benessere. Ad un certo punto le api si convertono e diventano oneste, altruiste e virtuose. In breve tempo, l’alveare precipita nella miseria.

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È proprio in questa fase che sembra profilarsi la vera frattura tra umanesimo

civile e modernità: la vita civile si riscopre fragile.

Tuttavia, il momento che apparentemente sembra il più buio per l’economia

civile, poiché minata alle sue fondamenta dell’essenza dell’uomo, in realtà non è

altro che il prologo per la successiva esplosione di quella che può essere definita

la vera “età dell’oro del civile”. Difatti, sarebbe riduttivo sentenziare che

l’economia moderna nasca emancipandosi dall’etica. In realtà, le due forme di

pensiero che poi successivamente si svilupparono, l’economia politica

anglosassone e l’economia civile italiana, ebbero come principale punto in

comune il tentativo di rifondazione di una nuova struttura sociale che

consentisse all’economia di tornare civile. Gli stessi filosofi dell’economia classica

cercarono a loro modo di oltrepassare le teorie antropologiche di Machiavelli,

Hobbes, Mandeville tentando di costruire una società civile come insieme di

azioni, regole, istituzioni per orientare l’uomo con la sua “insocievole-

socievolezza” verso il bene comune indagando quei meccanismi capaci di

rendere compatibili l’interesse personale, da cui l’uomo è antropologicamente ed

istintualmente spinto, e l’interesse comune.

L’età dell’oro dell’economia civile

Genovesi e la scuola napoletana

Il momento di massima fioritura dell’economia civile è il Settecento, precisamente

in Italia tra Napoli e Milano. Il Settecento è caratterizzato da un periodo di

sostanziale assenza di conflitti, soprattutto per Napoli l’avvento di Carlo III di

Borbone e poi di Ferdinando IV scandirono le fasi di una primavera del civile.

Una stagione breve, ma che creò l’ambiente culturale nel quale riapparvero i temi

tipici dell’umanesimo e in cui fiorì la tradizione napoletana dell’economia civile.

Relazioni sulla felicità e le sue interconnessioni con l’economia e la socialità

restano la più grande eredità di questa fase storica. Si sviluppa il concetto di

“pubblica felicità”, secondo cui la felicità, diversamente dalla ricchezza, può

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essere goduta solo e grazie agli altri. Felicità pubblica, poiché non riguarda la

felicità dell’individuo in quanto tale, ma ha a che fare con le precondizioni

istituzionali e strutturali che permettono ai cittadini di sviluppare la loro felicità

individuale.

L’economista leader della scuola napoletana, e in un certo senso dell’intera Italia,

è il salernitano Antonio Genovesi (1713-1769). Una personalità fondamentale, in

quanto fu lo stesso Genovesi a coniare ed utilizzare il termine di economia civile. Il

suo principale trattato economico, del 1765-67, venne intitolato “Lezioni di

economia civile” e occupò la cattedra di “Economia civile e meccanica”.

I concetti fondamentali dell’economia civile.

La grande novità dell’illuminismo napoletano è l’idea di un’economia come luogo

di civiltà e come mezzo di incivilimento per migliorare il “bene vivere” delle

persone e dei popoli. Allo stesso tempo, la vita civile è pensata come il luogo in cui

la felicità può essere raggiunta pienamente grazie alle buone e giuste leggi, al

commercio e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità.

La visione di Genovesi dell’economia civile è riconducibile a dei concetti chiave

che poi nei secoli resteranno i punti di riferimento irrinunciabili di questo

paradigma.

Commerciare.

La tradizione napoletana considera l’attività economica come un’espressione della

vita civile, il “commercio” come un “fattore civilizzante”. Il luogo di scambio non

solo non si contrappone alle virtù, ma è vista come il luogo in cui le virtù possono

fiorire in pubblica felicità. Kant successivamente sentenziava come lo spirito del

commercio potesse fungere da strumento per evitare la guerra.

Rimane il forte senso di valore che viene attribuito, dunque, al commercio, ma é

altresì vero che la lode per lo stesso e per le civili ricchezze non fanno dimenticare

agli autori della scuola napoletana che i beni non fanno, di per sé, la felicità. Un

appunto fortemente innovativo che viene fatto da Filangieri e Bianchini, autori

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riconducibili all’illuminismo napoletano, è che l’incivilimento significa soprattutto

equa distribuzione della ricchezza, definizione più che mai moderna ed attuale

in una chiave di lettura sociale.

Fiducia.

Un’altra parola chiave dell’economia civile italiana è la “fede pubblica”, la fiducia,

vista anche come la vera precondizione dello sviluppo economico. La fiducia è il

vero fondamento dell’economia e delle relazioni in senso più ampio. Il commercio

non può prescindere dalla reciproca “fede” nei confronti della controparte.

Ma aldilà del ruolo centrale che la fiducia svolge all’interno di qualsiasi ambiente

economico, Genovesi si sofferma particolarmente sull’idea di “fiducia pubblica”,

che trova la sua ragion d’essere nella necessità di amore genuino e non

strumentale per il bene comune.

Oggi sarebbe definita “social capital”, ossia il tessuto di fiducia e di virtù civili che

fa sì che lo sviluppo umano ed economico possa partire e mantenersi nel tempo.

La fede pubblica si sviluppa principalmente nella società civile, in un ottica di

“principio di sussidiarietà”, principio basilare ormai di tutti gli ordini sociali

contemporanei.

Reciprocità.

Alla base della teoria economica e civile della scuola napoletana, troviamo la

concezione della “socialità basata sulla reciprocità” che può essere considerata la

parola chiave di tutto l’impianto antropologico e sociale dell’economia civile, un

impianto che porta a considerare la società derivante direttamente dalla “civil

natura dell’uomo”.

Per Genovesi lo stesso mercato è un luogo dove prestarsi reciproco aiuto, per

praticare l’assistenza reciproca. Tale è la reciprocità. Il mercato è, come ogni

ambito della vita civile, fondato sulle virtù. Palese sembra il contrasto con la

filosofia dell’individualismo che ha preceduto l’illuminismo napoletano, ma lo

stesso Genovesi, tenendo in considerazione le opere fortemente pessimistiche di

Machiavelli, Hobbes e Mandeville sull’egoismo insito nell’uomo, mutua questa

definizione dichiarando che l’uomo è un essere sospinto certamente dall’amor

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proprio, ma anche dall’amore per gli altri. Individua dunque una sorta di

bidimensionalità di ogni individuo ed ogni azione umane è funzionale ad essa.

Genovesi in particolare definisce queste due tendenze dell’uomo “forza

concentrativa” e “forza diffusiva” dove quest’ultima non rientra nella sfera della

benevolenza, nelle fattispecie di altruismo o filantropia, ma ha a che fare con i

rapporti interpersonali, e il suo elemento base è la capacità di simpatia, intesa

virtù naturale.

Felicità.

Parola che al giorno d’oggi è a volte abusata in certi ambienti, ma

paradossalmente ancor più spesso dimenticata e oscurata all’interno degli organi

decisionali di politiche economico-sociali e nei luoghi di pensiero e filosofia.

Durante l’illuminismo napoletano, invece, è principio e valore inamovibile,

soprattutto se intesa come costitutivamente relazionale.

La visione della felicità nella tradizione umanista e civile affermano la necessità

dell’educazione, in modo che “ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio

bene bisogna cercarlo nel procurarle quello de’ suoi simili” (Palmieri, 1788).

Ancora “Chi desidera il bene altrui scopre che la felicità degli altri è la fonte più

generosa per la propria felicità” (Ferguson, 1792).

Una “vita buona” non può essere vissuta se non con e grazie agli altri, facendo

“felici gli altri”. In questo senso, essendo incontrollabile la felicità, l’essere umano

ha bisogno, per realizzarsi, della reciprocità, attraverso la gratuità, senza la quale

la vita comune non fiorisce.

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Declino del “civile” e affermazione dell’economia politica

I punti in comune dell’umanesimo civile con la filosofia smithiana

Fino ad ora sembrano dunque profilarsi delle prime frizioni, del tutto fisiologiche

per via delle diverse influenze culturali e geografiche, tra economia civile ed

economia politica ma ancora sussiste una certa connessione tra le due filosofie di

pensiero che poi, successivamente, si ritroveranno a percorrere strade

diametralmente opposte.

Infatti, a ben vedere, lo stesso Adam Smith, conosciuto anche dai non addetti ai

lavori come il primo filosofo dell’economia politica che poi trovò maggior

affermazione nell’economia capitalistica in era contemporanea, presenta, nei suoi

scritti, più di un richiamo ai principi dell’umanesimo civile napoletano.

In definitiva non è Adam Smith, nel suo The wealth of nations (1776), la vera

caesura tra i diversi paradigmi delle scienze economiche, ma le conclusioni

raggiunte dalle generazioni successive dei filosofi di estrazione culturale

anglosassone.

In realtà fino ai primi decenni del Novecento l’economia civile, la sua visione

antropologica e sociale, ha avuto una certa fioritura, seppur limitata rispetto

all’esperienza italiana, anche in Gran Bretagna. L’economia classica da Smith a

Marshall non risulta, attraverso una visione più attenta, troppo lontana dalla

tradizione umanista.

Smith non dimentica l’egoismo istintuale dell’uomo, secondo cui niente è dato per

niente, ma dall’altro lato sottolinea come già la propensione allo scambio sia

riconducibile a quegli originari principi tipici della natura umana che richiamano

una tendenza alla relazione con gli altri.

Lo scambio con gli altri è un’espressione della socievolezza della natura umana,

che nella società civile si può esprimere nella sua pienezza grazie alla divisione

del lavoro che costringe ognuno a dipendere dagli altri.

Un altro fondamentale punto di incontro tra la filosofia smithiana e l’umanesimo

civile è la constatazione che per un buon funzionamento del mercato siano

essenziali elementi quali prudenza e giustizia, riconducibili alla sfera delle virtù

civili. Inoltre, il mercato in sé, istituzione fondamentale per Smith, è luogo che

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lascia ampio spazio anche all’assistenza reciproca nei bisogni. Il mercato dunque

è una delle principali espressioni della società civile poiché l’unico vero luogo in

cui si possano sperimentare rapporti umani liberi, superando la logica

alleato/nemico. Il mercato è un momento importante nella vita civile, che edifica e

non distrugge le virtù civili.

La caesura tra economia civile ed economia politica

Naturalmente riconoscere dei punti di contatto tra umanesimo civile e la scienza

economica smithiana non può distrarre dal fatto che The wealth of nations sia la

pietra miliare su cui fa perno l’intero assetto dell’economia politica della

tradizione anglosassone.

Già dal titolo dell’opera, Smith devia lo sguardo dalla “pubblica felicità” o “scienza

del bene vivere” alla “scienza della ricchezza”.

Inoltre sussiste uno strano strabismo tra la teoria morale e la teoria economica

smithiana dove, in quest’ultima, non sembra trovare spazio la reciprocità.

Strabismo che negli occhi dei suoi seguaci, tra cui Bentham, diventa cecità,

poiché questi costruiscono l’assetto della political economy come il regno dei soli

rapporti strumentali, tralasciando qualsiasi riferimento riconducibile al “civile”.

Un filosofo di spicco che si posiziona sulla traiettoria del pensiero moderno che

smarrisce il senso del civile è Hegel.

Per Hegel nella società civile, cioè economica, i rapporti tra i soggetti sono

puramente auto-interessati e il fine di ogni individuo é di conseguenza

esclusivamente “egoistico”.

L’economia viene sganciata dal civile e dal principio di reciprocità viene così

definita “incivile”, non preoccupandosi più del bene comune.

Si torna al conflitto tra interesse pubblico ed interesse privato, tra Stato ed

individuo, già incontrato nella “notte del civile” con Hobbes. Allo “Stato etico”

hegeliano viene attribuito il compito esclusivo di sedare gli inevitabili conflitti che

scoppiano nel mercato e per portare ai cittadini giustizia e pace, questione di cui

il singolo individuo non deve preoccuparsene minimamente.

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L’utilitarismo e la definitiva affermazione della political economy

Un altro passaggio importante in questa fuga dall’economia civile è l’utilitarismo

di Bentham, il momento in cui la “felicità” diventa “piacere” e la “pubblica felicità”

la somma dei piaceri individuali, perdendo così ogni contatto con le virtù civili.7

Le parole chiave dell’economia con Bentham diventano pleasure nell’intendere la

felicità e utility da cui prende il nome la filosofia dell’utilitarismo.

“Per utilità si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo del quale esso

tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità”.8

Dunque, utilità è la proprietà della relazione tra un soggetto e il bene/servizio,

mentre felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona (relazione con

l’altro da cui non si prescinde). Con l’avvento dell’utilitarismo, utilità coincide

con felicità, concetto che influenzerà tutta la scienza economica neoclassica,

producendo l’eclissi della “felicità” come oggetto dagli studi dell’economia.

Una continuità di tale approccio si può riconoscere anche in Wicksteed, la cui

teoria della socialità ribadisce l’economia come luogo di relazioni anonime e

impersonali. La sfera economica, secondo Wicksteed, è quella caratterizzata dai

rapporti puramente anonimi, spersonalizzati e, quindi, strumentali. L’altruismo

esiste, ma in ambiti diversi da quello economico, nel quale non trova dunque

spazio la reciprocità.

Appare evidente che, a partire dalla metà, circa, dell’Ottocento, la visione civile

del mercato inizia a scomparire dalla scena sia della ricerca scientifica sia del

dibattito politico-culturale. Le cause sono, da un lato, la penetrazione e diffusione

degli ambienti culturali europei dell’utilitarismo di Bentham come filosofia

vincente e, dall’altro, l’affermazione piena della civiltà industriale con la

Rivoluzione Industriale di fine Settecento.

Si ricorda che l’Utilitarismo trova fondamento nel Consequenzialismo, secondo

cui le scelte delle azioni individuali vanno valutate rispetto alle conseguenze:

7 Da “An introduction to the principles of morals and legislation”, pubblicato nel 1789. 8 Bentham 1998, 90-91, corsivi aggiunti.

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il valore dell’azione è interamente ed esclusivamente determinato dal valore

delle sue conseguenze a prescindere dalle intenzioni e dalle disposizioni

dell’agente;

la bontà della conseguenza è funzionale alla soddisfazione del soggetto che

l’ha posto in essere;

la sola base eticamente giustificabile per valutare le conseguenze è il

benessere, espresso sulla base dell’utilità.

Altro aspetto determinante nella teoria utilitarista è quello relativo ai meccanismi

di calcolo del benessere collettivo, inteso come semplice aggregazione del

benessere dei singoli. La sommatoria delle utilità individuali è lo strumento per

scegliere tra opzioni alternative. Non trova espressione nell’orizzonte

dell’utilitarismo la giustizio distributiva.

Ulteriore sostegno alla cultura, ormai dominante, dell’utilitarismo viene dato dal

Positivismo di fine Ottocento, fondamentale nel suo impatto sulla scienza

economica. Il contributo maggiore al distacco dall’economia civile avviene nel

momento in cui l’economia viene innalzata a scienza esatta (determinanti i lavori

di Vilfredo Pareto), quindi libera dall’etica.

Anche la Rivoluzione Industriale rappresenta un evento fondamentale nello

sviluppo del paradigma utilitarista, poiché con essa nasce la società industriale.

Si tratta di un nuovo modello di ordine sociale che si colloca agli antipodi del

modello di civiltà cittadina che contraddistingueva la società civile.

Con l’avvento del sistema di fabbrica si diffonde, nella società occidentale, uno

stile di vita basato sulla separazione non solo concettuale, ma anche pratica tra

produzione e consumo testimoniata dalla separazione tra uomo-lavoratore

portatore di forza produttiva e uomo-consumatore portatore di bisogni.

Nascono nuovi termini all’interno dell’universo economico: efficienza,

ottimizzazione, massimizzazione della produzione.

Lo sviluppo tecnologico e l’evoluzione dell’economia produttiva portano ad una

sempre più definita divisione del lavoro, tra ruoli e funzioni all’interno della

fabbrica. Questa ripartizione dei compiti ha come conseguenza la divisione in

classi, categorie all’interno della società. Tale fenomeno ritrova le sua fondamenta

teoriche nel taylorismo, nel quale ci si avvia sempre più verso una progressiva

dequalificazione e spersonalizzazione del lavoratore. Si assiste all’esclusione

Page 17: L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden Age”?

17

dell’individuo come soggetto pienamente attivo e determinante nella produzione,

con il fenomeno di alienazione dell’operaio e del suo lavoro rispetto al bene

prodotto (Karl Marx). Quello stesso lavoro che, ormai non più valore, è una

semplice variabile, peraltro sempre più marginale, nel calcolo della funzione di

produzione.

Sorge, in questa epoca, la prima forma di consumo opulento che, poi nel

ventesimo secolo, diverrà la cultura dominante nel mondo occidentale. Prende il

sopravvento un modello di società di mercato assai diversa da quella della

tradizione di pensiero dell’economia civile. Il mercato è un’istituzione che poggia

su un ben definito sistema normativo, che tuttavia non impedisce i

comportamenti opportunistici. Alla luce di ciò diventa dominante un altro

concetto che in precedenza nell’economia non aveva tale visibilità: la

competizione.

Ha luogo una vera scissione tra sfera dell’economia e sfera del civile, dove

quest’ultima trova spazio esclusivamente all’interno della famiglia, della società

civile e delle organizzazioni non profit. Il mondo delle relazioni esterne è

competizione, è selezione. Da questa nuova visione della realtà sociale, da un lato

va a definirsi il modello dell’homo oeconomicus9 e dall’altro il modello dell’homo

sociologicus.

L’individuo agisce sospinto esclusivamente dal self-interest. L’unico valore degno

di nota all’interno dei confini del mercato diventa l’efficienza, ossia l’adeguatezza

dei mezzi rispetto al fine, l’interesse di chi li realizza. Non c’è più spazio per

qualche forma di etica, se non esclusivamente nel rispetto della legge.

9 L’homo oeconomicus è un individuo razionale spinto dal self-interest. Egli persegue come

obiettivo la massimizzazione del proprio benessere, intesa in linguaggio matematico, come funzione di utilità. Egli si impegna nel perseguire un certo numero di obiettivi cercando di realizzarli in maniera più ampia possibile e con costi minori.

Page 18: L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden Age”?

18

I principi regolativi dell’economia civile

L’economia di mercato civile

Fin qui è stata fatta chiarezza sui percorsi, diversi senz’altro, ma spesso

intrecciati tra economia civile ed economia politica. Si è dimostrato,

riorganizzando gli eventi cronologici che hanno segnato la storia del pensiero

economico, la totale infondatezza di un opposizione chiara e definita, secondo

una visione manichea, tra questi due paradigmi teorici. I punti d’incontro sono

molti, ma è inutile dall’altro lato negare l’evidenza di due visioni della realtà

economica alternative tra loro.

Infatti “l’economia civile non rappresenta nient’altro che un punto di vista

alternativo, ma non contrario, rispetto al paradigma dominante nella teoria

economica” (Zamagni).

Aldilà delle influenze filosofiche, del percorso evolutivo delle due teorie

economiche, dei principi fondamentali dell’economia civile, delle giustificazioni

storico-sociali del dominio della political economics, finora esposti, è necessario

dare una definizione più precisa di economia civile attraverso la rassegna dei suoi

principi regolativi.

In primo luogo, a conferma della sussistenza di fondamenta comuni su cui si

basano la political economics e la civil economics, anche quest’ultima può essere

definita un’economia di mercato. Già questa affermazione è rivoluzionaria, in

quanto il termine di economia di mercato è comunemente utilizzata come

sinonimo di economia capitalistica nella sua visione dualistica di economia

liberista di mercato e economia sociale di mercato.

Ogni economia di mercato si fonda su una serie di principi:

1. Il concetto di divisione del lavoro, ovvero la specializzazione delle

mansioni che ha come conseguenza la realizzazione di scambi endogeni

(differenti da quelli “esogeni”, derivanti dall’esistenza di un surplus) che,

quindi, vanno ad aumentare la produttività del sistema in cui si inseriscono

(Francescanesimo del 1300, ma anche Adam Smith nel 1700);

2. L’idea di sviluppo che, da un lato, presuppone l’esistenza di solidarietà

intergenerazionale, ovvero di interesse da parte della generazione presente

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nei confronti di quelle future, mentre, dall’altro, si lega a quello di

accumulazione (Umanesimo del 1400);

3. Concetto di libertà d’impresa, secondo il quale chi è in possesso di doti

imprenditoriali deve essere lasciato libero di iniziare un’attività. Per doti

imprenditoriali si intendono: la propensione al rischio (ovvero

l’impossibilità di avere garanzia dei risultati derivanti dall’attività

imprenditoriale), l’innovatività o creatività (ovvero la capacità di aggiungere

in maniera incrementale conoscenza al prodotto/processo produttivo), l’ars

combinatoria (l’imprenditore, conoscendo le caratteristiche dei partecipanti

all’attività imprenditoriale, le organizza per ottenere il risultato migliore).

Questo principio introduce gli individui alla competizione;

4. il fine, ovvero la tipologia di prodotto (bene o servizio) da ottenere.

È in particolare quest’ultimo principio a differenziare l’economia civile

dall’economia di mercato capitalistica: se, infatti, quest’ultima ha assunto come

fine proprio del suo agire l’ottenimento del cosiddetto bene totale, l’economia

civile persegue, invece, ciò che va sotto il nome di bene comune.

La differenza tra i differenti fini perseguiti dalle due suddette economie di mercato

si può sintetizzare come segue. Il bene totale può essere calcolato come

sommatoria dei livelli di benessere (utilità) dei singoli:

Il bene comune, invece, tende all’ottenimento della produttoria dei livelli di

benessere dei singoli:

I due concetti differiscono per il fatto che nel primo caso il bene di qualcuno può

essere annullato senza cambiare il risultato finale; viceversa, nel caso del bene

comune, essendo esso il risultato di una produttoria, annullando anche uno solo

dei livelli di benessere si annulla il risultato finale. Traspare in maniera evidente

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come, secondo la teoria civile, principi come quelli di equità e giustizia non siano

fini a loro stessi ma, secondo questo modello di calcolo, fondamentali per il

perseguimento del benessere collettivo. In questo senso sembra profilarsi già una

maggior sensibilità da parte dell’economia civile, attraverso la forma dell’economia

civile di mercato, nei confronti di temi etici quali equità sociale, coinvolgimento

degli individui, benessere diffuso, rispetto alle fattispecie dell’economia liberista di

mercato e dell’economia sociale di mercato orientati prevalentemente

all’accumulazione di benessere totale.

Gli ordini sociali e il principio di reciprocità

Si è citata l’economia di mercato secondo i suoi principi fondanti e le sue diverse

sfaccettature, ma è necessario fare un passo indietro nella definizione stessa di

mercato. Il mercato, in una visione ormai matura, non è un semplice meccanismo

di allocazione delle risorse, ma è un’istituzione sociale che si regge su specifiche

norme basate su convenzioni e prassi culturali.

Con l’economia civile, il mercato subisce la socialità umana e ingloba la

reciprocità all’interno di una normale vita economica, partendo dal presupposto

che possano esistere principi aggiuntivi al profitto e allo scambio strumentale.

Ne deriva che la sfida dell’economia civile è quella di far coesistere, all’interno del

medesimo sistema sociale, tutti e tre i principi regolativi riconducibili all’ordine

sociale.

Questi principi sono:

1. lo scambio di equivalenti di valore: le relazioni si basano su un prezzo,

che è l’equivalente in valore di un bene/servizio scambiato. Si tratta del

principio che garantisce l’efficienza del sistema;

2. il principio di redistribuzione: per essere efficace, il sistema economico

deve redistribuire la ricchezza tra tutti i soggetti che ne fanno parte per dar

loro la possibilità di partecipare al sistema stesso. Si tratta del principio

che garantisce l’equità del sistema;

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3. la reciprocità: è il principio fondante dell’economia civile ed è

caratterizzato dalla presenza di tre soggetti, di cui uno (homo reciprocans)

compie un’azione nei confronti di un altro mosso non da "pretesa" di

ricompensa dell’azione stessa, bensì da aspettativa, pena la rottura della

relazione tra le due.

Negli scambi, governati da quest’ultimo principio, si susseguono una serie di

trasferimenti bi-direzionali, indipendenti, ma allo stesso tempo interconnessi. Il

fatto che gli scambi siano indipendenti implica la volontà, la libertà in ogni

trasferimento, in modo tale che nessuno di questi possa essere un prerequisito di

uno successivo.

La bi-direzionalità dei trasferimenti, inoltre, permette di differenziare la

reciprocità dal mero altruismo 10 , che si manifesta attraverso trasferimenti

unidirezionali, pur avendo a che fare, in entrambi i tipi di scambio, con

trasferimenti di natura volontaria.

L’ultima caratteristica degli scambi regolati dal principio di reciprocità è

la transitività: la risposta dell’altro può anche non essere rivolta versa colui che

ha scatenato la reazione di reciprocità, bensì è ammissibile che sia indirizzata

verso un terzo soggetto.

Attuando questi comportamenti l’homo reciprocans non solo agisce mettendo in

primo piano le emozioni (la cosiddetta intelligenza emotiva), bensì riesce anche a

rendere la razionalità "ragionevole", in modo tale che i sentimenti possano essere

maggiormente rilevanti rispetto alla pura e semplice razionalità, intesa come

l’utilità caratteristica dell’homo oeconomicus.

Il fine della reciprocità è l’affermazione della fraternità, principio che permette

agli “uguali” di essere “diversi” "e" postula, di conseguenza, il pluralismo, il quale

permette ad una società di garantirsi un futuro e di non scomparire.

10 La filantropia, a cui si ricorre nel mondo capitalista, non ha nulla a che vedere con la reciprocità.

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I beni relazionali

Un importante elemento di novità introdotto dall’economia civile è rappresentato

da un tipo di bene alternativo a quelli presi in considerazione comunemente nella

teoria economica classica: il cosiddetto bene relazionale. Si tratta di un bene la

cui utilità per il soggetto che lo consuma dipende, oltre che dalle sue

caratteristiche intrinseche ed oggettive, dalle modalità di fruizione con altri

soggetti.

Il bene relazionale è una tipologia di bene con determinate caratteristiche: esso,

infatti, postula la conoscenza dell’identità dell’altro, in cui i soggetti coinvolti si

conoscono a fondo; si tratta, inoltre, di un bene anti-rivale, il cui consumo

alimenta il bene stesso, e che richiede un investimento di tempo, bensì non di

mero denaro.

Pertanto, la produzione di beni relazionali non può essere lasciata all’agire del

mercato in quanto non può avvenire secondo le regole di produzione dei beni

privati, perché nel caso dei beni relazionali non si pone solo un problema di

efficienza, ma anche di efficacia. Al contempo, essa non può avvenire nemmeno

secondo le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato, anche se i

beni relazionali hanno tratti comuni con i beni pubblici.

Per tale ragione, le nostre società hanno bisogno di soggetti di offerta che fanno

della relazionalità la loro ragione di esistere: in questo senso nasce assieme

all’economia civile un nuovo tipo di impresa: l’impresa civile. Sostanzialmente si

tratta di una sorta di espressione della società civile che riesce ad inventarsi un

assetto organizzativo capace, per un verso, di liberare la domanda dal

condizionamento, talora soffocante, dell’offerta, facendo in modo che sia la prima

a dirigere la seconda e, per l’altro verso, di acculturare il consumo facendo in

modo che questo, entrando nella produzione, costituisca un avere per essere.

La funzione obiettivo di un’impresa civile è, allora, quella di

produrre intenzionalmente, nell’ammontare più elevato possibile, esternalità

sociali, che rappresentano uno dei più rilevanti fattori di accumulo di capitale

sociale. Esempi efficaci di imprese civili sono le organizzazioni non-profit e tutto

il mondo aziendale riconducibile al cosiddetto terzo settore, alternativo ai due

mondi del mercato-privato e del pubblico-stato.

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23

Allo stesso modo le imprese civili rappresentano la più grande rappresentazione

in termini di organismo sociale della filosofia del civile che si è evoluta nei secoli

ed è una sorta di punto di arrivo di tale percorso.

Le ragioni del ritorno della prospettiva di economia civile

I limiti dell’economia politica

Sussistono due insiemi di ragioni fondamentali nel ritorno dell’economia civile in

tempi recenti. Da un lato la presa d’atto, da parte degli economisti

contemporanei, che una comprensione adeguata dell’odierno processo economico

postula il superamento del carattere riduzionista di gran parte della teoria

economica moderna. L’applicazione della political economics non trova più

risultati soddisfacenti rispetto alle nuove esigenze sociali, culturali, economiche.

Basandosi spesso su assunzioni teoriche particolarmente forti, ma fonti di

fenomeni distorsivi, tra le altre l’individuo come homo oeconomicus, danno

soluzioni semplici rispetto alla complessità della realtà economico-sociale.

Per esempio, la teoria economica non sembra essere in grado di far presa sui

nuovi problemi che tormentano le nostre società quali la salvaguardia ambientale,

le disuguaglianze sociali in aumento, il senso di insicurezza che colpisce i

cittadini nonostante l’aumento delle ricchezze, la perdita di senso delle relazioni

interpersonali.

Dall’altro lato, sussiste la consapevolezza che di fronte a questioni cruciali quali

la crisi del modello tradizionale di welfare state e le difficoltà crescenti di

assicurare a tutte le persone un’attività lavorativa gratificante, sia necessario

riflettere sulle caratteristiche di fondo dell’attuale modello di crescita, piuttosto

che continuare ad affrontare tali questioni con manovre spesso tampone o di

ripiego.

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24

La questione occupazionale e la crisi del welfare state

Tra le altre, merita senza dubbio, una più approfondita riflessione la questione

occupazionale. Il welfare state, spesso riconducibile al modello più efficace in

chiave di equità e giustizia, non sembra più lo strumento efficace nella risoluzione

di tali problematiche in una realtà ormai globale e altamente competitiva.

Benché i valori che lo hanno sorretto fin dal suo nascere e benché rappresenti

una delle più alte manifestazioni del progresso democratico e civile entro il

contesto della civiltà industriale, lo Stato Sociale è in crisi.

Il problema non è di natura fiscale, ma deriva dall’incapacità di un modello di

coniugare in maniera armonica valori fondamentali quali equità e libertà. Non

sembra in grado di trovare la collocazione ottimale nel trade-off tra sicurezza e

libertà.

L’aspetto principale dello Stato Sociale è la socializzazione dell’incertezza in

chiave assistenzialista. Il passaggio dalla società fordista a quella postfordista

però causa un mutamento della natura dell’incertezza. Un esempio lampante è la

questione relativa all’occupazione: il lavoro cambia natura attraverso la

separazione tra attività lavorativa (work) e posto di lavoro (job). Per lungo tempo

attività lavorativa e posto di lavoro hanno significato la stessa cosa, ma con il

passaggio a una società soggetta al fenomeno del de-jobbing il posto di lavoro

fisso non esiste più.

Il disagio di questi tempi deriva dal fatto che la flessibilità lavorativa odierna dà

opportunità e valorizza talenti ma, allo stesso tempo, nella precarietà delle

condizioni del passaggio da un’attività lavorativa ad un’altra, genera insicurezza.

In passato invece il posto fisso, nonostante potesse essere alienante ed inficiare la

libertà, almeno dava certezze.

Le soluzioni adottate dal sistema di welfare state scontano la loro inefficacia a

causa del fenomeno della globalizzazione e all’apertura a nuovi mercati,

imponendo, come unica chiave di successo nella creazione di posti di lavoro, il

ricorso a politiche manageriali orientate alla competitività selvaggia.

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Tuttavia questa nuova regola aurea dell’occupazione11 risulta insostenibile nel

lungo periodo. Infatti, se una società registra aumenti costanti di produttività

media, al fine di mantenere immutato il livello di impiego, deve aumentare allo

stesso ritmi i propri consumi. Allo stesso tempi però, l’aumento dell’intensità del

consumo riduce l’utilità degli individui, soprattutto nella fase post-industriale in

cui gran parte del benessere è già stata ottenuta (Linder 1970).

Allo stesso tempi il rischio è quello che la competizione si trasformi in

competizione posizionale (Hirsch 1976), la quale si esprime sui beni posizionali12.

È una competizione distruttiva perché peggiora il benessere individuale e sociale,

in quanto, mentre genera lo spreco da opulenza, lacera il tessuto sociale.

La soluzione dell’economia civile

Dunque, il limite del welfare state è quello di non poter affrontare in maniera

risolutiva la piaga della disoccupazione. Gli strumenti adottati rischiano di

generare pericolosi trade-offs per le società: per distribuire un lavoro a tutti si

impone uno stile di vita neoconsumista, oppure si legittima nuove forme di

povertà (working poors13), oppure si restringono gli spazio di libertà dei cittadini e

ciò nella misura in cui non si consente loro di concorrere a determinare il menù

dei beni da consumare. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo etico e certamente

non sostenibile sotto quello economico.

In questo senso, nei prossimi paragrafi verrà descritta una possibile soluzione

alla problema occupazionale ricorrendo ai principi su cui si fonda l’economia

civile.

Tutto parte dalla separazione concettuale tra posto di lavoro e attività di lavoro.

L’intuizione dell’economia civile è che restando nell’ambito del solo mercato dei

beni privati è impensabile sperare di dare lavoro a tutti quello che vengono

11 I posti di lavoro aumentano con l’aumento dei margini di competitività dell’impresa: solamente imprese competitive possono nascere e crescere e così facendo possono creare impiego. 12 Sono quei beni che possono essere consumati solamente se distribuiti in modo ineguale tra una pluralità di soggetti. Per esempio i beni socialmente scarsi, richiesti in quanto mezzi di distinzione o di prestigio. 13 Individui che lavorando ottengono un reddito sotto la soglia di povertà.

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“liberati” a seguito degli aumenti di produttività senza che ciò scateni i problemi

di sostenibilità precedentemente descritti.

È necessario incanalare il lavoro liberato verso attività che producono beni che il

mercato privato non ha interessi a produrre, per sua stessa natura. Tra questi

beni ricadono i beni relazionali, i beni di merito e diverse tipologie di beni

pubblici, tutti beni a cui risulta impensabile applicare la logica dello scambio

degli equivalenti.

Bisogna superare l’assunto che identifica il lavoro come solo quello che transita

sul mercato privato. Invece, il lavoro è definibile come quell’insieme di attività

necessarie alla crescita umana, ma dell’uomo inteso nella globalità delle sue

dimensioni.

È necessario aggiungere alle attività monetarizzate, che passano attraverso il

mercato privato, le attività non monetarizzate e, soprattutto, iniziare a

contabilizzarle.

È fondamentale superare il dualismo che contrappone produzione e lavoro a

consumo e tempo libero, attraverso il riconoscimento di una nuova categoria di

soggetti riconducibile alla società post-industriale: i prosumers.

I prosumers auto-producono una parte del proprio consumo. In questi nuovi

soggetti si può riconoscere la convergenza tra lavoro e consumo.

Il consumatore diventa un attore sociale che scopre di detenere un potere di

influenza non solo nei confronti di cosa si produce, ma anche di come lo si

produce. L’era post-industriale ci direziona verso un nuovo modello di crescita

ormai riconducibile ad una specifica domanda di qualità della vita.

Non è una mera domanda di beni manifatturieri ben fatti, ma piuttosto una

domanda di attenzione, di cura, di servizio, di partecipazione, insomma di

relazionalità. La qualità richiesta non è tanto quella dei prodotti oggetto di

consumo, quanto piuttosto di qualità delle relazioni umane.

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Da welfare state a welfare society

La soluzione dell’economia civile si esprime attraverso la trasformazione del

modello tradizionale di welfare state nel modello di welfare society.

Prima di definire nel dettaglio le modalità di realizzazione di una società del

benessere è bene richiamare il presupposto fondamentale secondo cui il welfare

va mantenuto su basi universalistiche. Buchanan (1997) definisce una

democrazia stabile dal momento in cui i suoi programmi di welfare si ispirano a

principi di generalità, cioè di universalismo. Programmi di welfare che

discriminano tra i gruppi sociali finiscono per indebolire il sostegno della società

all’intero processo politico.

Universalismo che, tuttavia, è assunzione necessaria ma non sufficiente, per il

buon funzionamento di un modello di welfare, in quanto la questione

fondamentale coincide con il rischio che il sistema degeneri in assistenzialismo.14

Per evitare ciò, è bene richiamare la triplice funzione dello stato-regolatore: la

definizione del pacchetto dei servizi sociali, con i relativi standard qualitativi, che

si intendono assicurare ai cittadini; la fissazione delle regole d’accesso alle

prestazione e i conseguenti interventi in chiave redistributiva finalizzati alla

fruizione effettiva di tutti i cittadini; l’esercizio delle forme di controllo sulle

erogazioni effettive delle prestazioni.

La teoria definisce sostanzialmente tre modelli di welfare society.

Il modello neostatalista secondo cui lo Stato deve conservare il monopolio della

committenza, pur rinunciando, in tutto o in parte, al monopolio della gestione dei

servizi di welfare. Il cosiddetto welfare mix, in quanto nell’erogazione del servizio,

l’ente pubblico si avvale della collaborazione fattiva delle imprese civili. Il ruolo del

terzo settore è dunque quello di risorsa supplementare e/o complementare

all’intervento dell’ente pubblico.

Il secondo modello è quello del compassionate conservatorism che si affida al

fenomeno della filantropia e all’azione volontaria, che, tuttavia, già deficita del

principio universalista. Questo modello, favorito dal pensiero liberal-

individualsta, vede il terzo settore come segmento minore del mercato privato.

14 L’assistenzialismo è una delle concause della crisi in corso.

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Il terzo modello è quello civile, secondo cui alle organizzazioni della società civile

va riconosciuta la capacità di diventare partner attivi nel processo di

programmazione degli interventi e nell’adozione delle conseguenti scelte

strategiche.

Si presuppone però la necessità di una nuova regolamentazione di tali

organizzazioni a cui va riconosciuta una soggettività, non solamente giuridica, ma

anche economica. Per perseguire tale obiettivo, tuttavia, bisogna garantire

l’indipendenza economico-finanziaria per gli enti del terzo settore.

Un metodo è la creazione di una nuova categoria di mercati, i mercati di qualità

sociale.

I mercati di qualità sociale.

Affinché il welfare civile possa essere adottato è necessario attivare una specifica

tipologia di mercati, in cui si opera in maniera diversa dai privati: i mercati di

qualità sociale. Nei mercati di qualità sociale le risorse che lo Stato ottiene dalla

fiscalità generale e che decide di destinare al welfare vengono utilizzate per

interventi di promozione e sostegno della domanda di servizi sociali. I fondi

pubblici dunque vengono utilizzati per finanziare la domanda invece che

l’offerta.15

Dall’altro lato, bisogna intervenire sul lato dell’offerta dei servizi, con misure

legislative e amministrative per assicurare la pluralità dei soggetti di offerta dei

vari servizi in modo da scongiurare monopoli, posizioni di rendita e consentire

una reale libertà di scelta da parte dei cittadini. In definitiva il mercato di qualità

sociale inserisce la dimensione sociale dentro il mercato, invece che a monte

(welfare mix) o a valle (compassionate conservatorism).

Un mercato di qualità sociale poggia su tre pilastri:

- l’ente pubblico finanzia il portatore di bisogni allo scopo di trasformare una

domanda di servizi potenziale in una domanda effettiva;

15 Gli strumenti adottabili possono essere buono-servizi alla deducibilità fiscale, alla promozione di forme di mutualismo diffuso sul territorio ecc.

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- l’ente pubblico, onde evitare fenomeni distorsivi legati ad asimmetria

informativa, procede ad accertare la reale capacità dei soggetti di offerta a

fornire le prestazioni alle quali costoro sono interessati;

- l’esercizio della libertà di scelta da parte dei portatori di bisogni realizza

una sorta di competizione tra soggetti di offerta dei servizi alla persona su

base qualitativa.16

Il mercato di qualità sociale si smarca dal mercato capitalistico dal momento che

può essere definito una sorta di mercato relazionale, nel quale vengono prodotti

e scambiati beni che non sono monetizzabili e che postulano l’adozione di

pratiche relazionali.

Il mercato di qualità permette, in definitiva, di applicare a livello pratico il

principio di reciprocità, pilastro dell’economia civile, presupponendo un altro

principio fondamentale: il principio personalista, secondo cui l’essere umano non

è solo individuo, realtà distinta e autosufficiente, ma è soprattutto persona, cioè

diventa pienamente se stesso nel rapporto di reciprocità con l’altro.

Attraverso l’adozione del principio di reciprocità, il coinvolgimento maggiore del

terzo settore e la salvaguardia delle imprese civili, la creazione di mercati di

qualità va a profilarsi la proposta di riforma del nostro sistema di welfare e,

conseguentemente, del nostro sistema socio-economico.

16 De Vincenti e Gabriele 1999.

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Prospettive e conclusioni

Per decenni il dibattito economico, espressione di filosofie sociali, antropologiche

e politiche si è focalizzato sul dualismo tra Stato, nell’ideologia socialista, e

mercato privato, nell’ideologia capitalista. Una contrapposizione poi diventata

scontro violento durante il Ventesimo Secolo. Da un lato il mercato, in cui

vengono perseguiti gli scopi degli individui e in cui il principale strumento di

regolazione è il contratto, dall’altro lo Stato che si esprime attraverso il monopolio

dell’azione politica con l’emanazione delle leggi.

Una contrapposizione che, tuttavia, si è bilanciata, in discreto equilibrio, nel

mantenimento dell’ordine sociale. Il rapido susseguirsi della crisi del modello

socialista, del fenomeno della globalizzazione e dell’attuale crisi del modello

capitalista, hanno portato alla peggior crisi economica della storia moderna,

scompaginando e disgregando, a tutti i livelli, sovrastrutture socioeconomiche

apparentemente solide e profilando la necessità di seguire altre strade.

In effetti, in breve tempo, i paradigmi dell’economia politica, le sue assunzioni

teoriche e le dedotte ricette economico-sociali, sono andati incontro ad un

declinare delle loro “quotazioni/gradimenti”. Soprattutto, nel mondo occidentale,

il delicato equilibrio tra capitalismo e democrazia sembra essersi rotto. Sebbene

declinato in modo diverso in America ed Europa, questo equilibrio si basava su

un capitalismo in grado di arricchire tutti e di una democrazia che rinunciava agli

eccessi redistributivi per garantire il prosperare del sistema di mercato. A sigillare

questo patto contribuiva un sistema fiscale e previdenziale che gratificava le

generazioni presenti, trasferendo i costi su quelle future. Fintantoché le

generazioni future erano più numerose e più ricche, il peso di questo

trasferimento era minimo: il cosiddetto free lunch.

Ora questo gioco non trova più partecipanti e le sue regole non sono più

largamente condivise come prima.

La crisi economica e l’evidente insostenibilità di lungo periodo hanno minato per

la prima volta in maniera seria un modello teorico vincente per secoli.

Ma è anche vero che i momenti più bui, di maggior sfiducia ed incertezza, si sono

rivelati spesso preambolo di vere e proprie età di rivoluzione civica; esempio

citabile è quello dato dei fenomeni dell’Umanesimo e del Rinascimento dopo il

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Medioevo. Fase storica che tra l’altro coincide anch’essa con un periodo di

fioritura dell’economia civile.

La riproposizione dell’economia civile è riconducibile alle nuove esigenze della

società moderna: un ritorno ai principi valoriali, agli ideali di benessere, alle

regole comportamentali di un ordine sociale che vadano a definire una “civiltà

cittadina”.

Per certi versi, si tratta di un passo indietro per seguire un sentiero che nei secoli

si era abbandonato, nel tentativo di ricercare un modello che si contraddistingua

per un funzionamento sostenibile della società, attraverso la definizione di una

nuova prospettiva culturale da cui gettare le basi per una diversa teoria

economica. Ne consegue la possibile nuova Golden Age dell’economia civile che,

si badi bene, non è in contrapposizione all’economia politica, ma un punto di

vista alternativo, non contrario rispetto al paradigma dominante della teoria

economica. Si sono potuti identificare diversi punti di incontro, a partire dai

percorsi evolutivi, spesso intrecciati, per arrivare alla condivisione di diversi

principi regolativi, ma, allo stesso tempo, non mancano evidenti differenze.

L’economia civile è anch’essa economia di mercato al pari dell’economia liberista

di mercato e dell’economia sociale di mercato riconducibili al paradigma della

political economics, ma il fine è completamente diverso: vi è un orientamento verso

il bene comune piuttosto che il bene totale, introducendo nei meccanismi di

calcolo economico, valori quali giustizia, equità, redistribuzione.

Con l’economia civile il mercato incorpora la reciprocità all’interno della vita

economica, raggiungendo un equilibrio con lo scambio di equivalenti di valore e il

principio di redistribuzione quali fondamenti regolativi dell’ordine sociale.

Si presentano nuovi termini e nuovi soggetti tra cui l’homo reciprocans che si

esprime attraverso il dono ricucendo il principio di reciprocità al principio di

contratto.

Tali concetti hanno sofferto una netta separazione andando a definire forme

alternative di organizzazione della vita in comune, ciascuno con il proprio ambito

di applicazione esclusiva: il mercato per il contratto e tutto il resto per la

reciprocità. Principio di reciprocità rimasto confinato alla vita privata anche

durante il Novecento con l’avvento del “palliativo” principio di redistribuzione

della ricchezza. Questa separazione e successiva sostituzione hanno portato ad

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un profondo distacco dell’economia contemporanea dalla tradizione dell’economia

civile, attraverso l’emarginazione della reciprocità dalla vita economica.

Finora, infatti, in nessuna società contemporanea i tre principi regolativi hanno

trovato terreno fertile dal punto di vista culturale ma anche regolamentare per

coesistere.

Ma allo stesso tempo l’evidenza empirica dimostra come lo stesso mercato, per

poter funzionare ed essere sostenibile, abbia bisogno naturalmente dello scambio

strumentale, ma anche di gratuità, di redistribuzione del reddito, di relazionalità.

Ci si rende dunque conto di come la ricerca scientifica in campo socio-economico

debba applicarsi nell’allargare gli orizzonti al fine di poter essere in grado di

rispondere alle nuove esigenze e nuove sfide che contraddistinguono una società

ormai evoluta.

La necessità di ridefinire e rendere più efficaci strumenti quali il welfare state

deve spingere gli studiosi prima, i legislatori poi e ancora di più ogni individuo a

cambiare strategie decisionali e tecniche comportamentali.

La creazione dei mercati di qualità sociale, il coinvolgimento del terzo settore, la

regolamentazione e conseguente salvaguardia delle imprese civili costituiscono

esempi di come un paradigma teorico come l’economia civile, alternativo al

modello finora dominante, possa dare soluzioni pratiche nella proposta di riforma

del nostro sistema di welfare e garantire risultati validi nella gestione del nostro

sistema socio-economico.

Restano evidenti le difficoltà e le insidie insite nella traduzione pratica della

prospettiva dell’economia civile. Pensare che processi di trasformazione o di

transizione non rechino tassi anche elevati di conflittualità sarebbe ingenuo.

D’altro canto è proprio nei momenti di crisi ed incertezza, quali quello odierni, in

cui si può rinvenire il terreno più fertile per la ricerca e l’adozione di nuovi

principi filosofici, modelli teorici, strumenti pratici volti all’attuazione di soluzioni

finalizzate alla ricerca del benessere sociale.

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