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Traduzione leggermente rivista di: Rolf Petri, Europa? Ein Zitatensystem, in: Rolf Petri / Hannes Siegrist, Probleme und Perspektiven der Europa-Historiographie, Leipziger Universitätsverlag, Leipzig 2004, ISBN 3-937209-66-2, fascicolo tematico di: «Comparativ» 14/3 (2004), ISSN 0940-3566, pp. 14-49. Rolf Petri L’Europa? Un sistema di citazioni Nell’estate del 2001 gli interessati di storia potevano recarsi in una piccola cittadina marchigiana per assistere a un seminario dedicato a ‘Ottone III e l’Europa’. 1 Volendo, avrebbero poi potuto recarsi a Magdeburgo in Germania, dove durante lo stesso anno era stata allestita una grande mostra dal titolo ‘Ottone I, Magdeburgo e l’Europa’. Secondo i promotori, il testimonial dell’imperatore regnante durante gli anni 936-973 gli avrebbe potuto permettere l’introspezione di un’epoca ormai estranea ai contemporanei, ma in cui, tuttavia, l’Europa affonda le proprie radici. 2 Un discorso simile si associa al Premio Carlo Magno annualmente conferita nella città di Aquisgrana, la cui assegnazione è consacrata al così detto ideale europeo. L’accoppiamento tra Europa e Medioevo sembra molto popolare nelle celebrazioni più diverse, e nei discorsi fondanti le più svariate identità. Si tratta, tuttavia, di un travisamento retrospettivo. Sarà senz’altro corretto che ai tempi di Carlo Martello fonti arabe di Cordoba parlassero di ‘eserciti europei’, ricorrendo a tale, vago, riferimento geografico per segnalare presenze non solo cristiane tra le forze nemiche; e pare altresì corretto che successivamente lo stesso Carlo Magno evocasse l’Europa per fini politici di potenza suoi. 3 Eppure, all’epoca successiva degli Ottoni il termine ‘Europa’ sembrava come sparito dal lessico politico. Tanto meno è probabile che esso rivestisse alcun significato o ruolo di qualche rilievo per la quotidianità delle genti che all’epoca popolavano le lande tra Cadice e il Mar Baltico, e tra l’Irlanda e Atene. Gli storici del medioevo, almeno, sembrano concordi sulla difficoltà, se non impossibilità, di rinvenire tale termine nelle fonti del periodo, mentre poco difficile risulta loro comprovare l’uso frequente di christanitas e di altri concetti consimili. “Esattamente in quegli ambiti – ha notato Bernd Schneidmüller - in cui l’Europa alto medievale avrebbe potuto percepire sé stessa e in cui a limite già agiva come un’unità a sé stante, l’idea di Europa non ebbe alcun ruolo, se non, forse, uno del tutto marginale. Ciò vale sia per le crociate, sia per l’europeizzazione delle scienze occidentali, sia per le pretese universali della Chiesa e dell’Impero. Ne è ulteriore 1 Ottone III e l'Europa, Seminario del Centro studi avellaniti, Fonte Avellana 31.08.-01.09.2001. 2 Otto der Große, Magdeburg und Europa, Magdeburg, 27.08.-02.12.2001; citato da Internet, http://www.magdeburg.de/kultur/otto.html. 3 H. Mikkeli, Europe as an Idea and an Identity, Basingstoke 1998, pp. 17-20.

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Traduzione leggermente rivista di: Rolf Petri, Europa? Ein Zitatensystem, in: Rolf Petri / Hannes Siegrist, Probleme und Perspektiven der Europa-Historiographie, Leipziger Universitätsverlag, Leipzig 2004, ISBN 3-937209-66-2, fascicolo tematico di: «Comparativ» 14/3 (2004), ISSN 0940-3566, pp. 14-49.

Rolf Petri

L’Europa? Un sistema di citazioni Nell’estate del 2001 gli interessati di storia potevano recarsi in una piccola cittadina marchigiana per assistere a un seminario dedicato a ‘Ottone III e l’Europa’.1 Volendo, avrebbero poi potuto recarsi a Magdeburgo in Germania, dove durante lo stesso anno era stata allestita una grande mostra dal titolo ‘Ottone I, Magdeburgo e l’Europa’. Secondo i promotori, il testimonial dell’imperatore regnante durante gli anni 936-973 gli avrebbe potuto permettere l’introspezione di un’epoca ormai estranea ai contemporanei, ma in cui, tuttavia, l’Europa affonda le proprie radici.2 Un discorso simile si associa al Premio Carlo Magno annualmente conferita nella città di Aquisgrana, la cui assegnazione è consacrata al così detto ideale europeo. L’accoppiamento tra Europa e Medioevo sembra molto popolare nelle celebrazioni più diverse, e nei discorsi fondanti le più svariate identità. Si tratta, tuttavia, di un travisamento retrospettivo. Sarà senz’altro corretto che ai tempi di Carlo Martello fonti arabe di Cordoba parlassero di ‘eserciti europei’, ricorrendo a tale, vago, riferimento geografico per segnalare presenze non solo cristiane tra le forze nemiche; e pare altresì corretto che successivamente lo stesso Carlo Magno evocasse l’Europa per fini politici di potenza suoi.3 Eppure, all’epoca successiva degli Ottoni il termine ‘Europa’ sembrava come sparito dal lessico politico. Tanto meno è probabile che esso rivestisse alcun significato o ruolo di qualche rilievo per la quotidianità delle genti che all’epoca popolavano le lande tra Cadice e il Mar Baltico, e tra l’Irlanda e Atene. Gli storici del medioevo, almeno, sembrano concordi sulla difficoltà, se non impossibilità, di rinvenire tale termine nelle fonti del periodo, mentre poco difficile risulta loro comprovare l’uso frequente di christanitas e di altri concetti consimili. “Esattamente in quegli ambiti – ha notato Bernd Schneidmüller - in cui l’Europa alto medievale avrebbe potuto percepire sé stessa e in cui a limite già agiva come un’unità a sé stante, l’idea di Europa non ebbe alcun ruolo, se non, forse, uno del tutto marginale. Ciò vale sia per le crociate, sia per l’europeizzazione delle scienze occidentali, sia per le pretese universali della Chiesa e dell’Impero. Ne è ulteriore

1 Ottone III e l'Europa, Seminario del Centro studi avellaniti, Fonte Avellana 31.08.-01.09.2001. 2 Otto der Große, Magdeburg und Europa, Magdeburg, 27.08.-02.12.2001; citato da Internet, http://www.magdeburg.de/kultur/otto.html. 3 H. Mikkeli, Europe as an Idea and an Identity, Basingstoke 1998, pp. 17-20.

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indizio che per designare gli europei le fonti arabe non usassero tale termine, bensì parlassero di franchi”.4 Bisogna allora pensare che gli Ottoni fossero alfieri di un’idea la cui essenza agiva su di essi anche al di là della propria consapevolezza, e questo con tanto irresistibile vigore da incaricarli di una missione storica? Una simile visione teleologica, sottostante alle manifestazioni inizialmente ricordate, può essere senz’altro spiegata con il desiderio della società contemporanea di legittimazione storica per certi suoi obiettivi politici ed economici. Ma non dovrebbe rientrare tra i compiti dello storico quello di fornire supporti mitologici alla società di cui è parte. Parafrasando Witold Kula, il mestiere più nobile dello storico consiste in quella fatica di Sisifo che al contrario mira ad abbattere e dissipare i miti che la società inventa incessantemente sul conto proprio e su quello delle proprie origini.5 Motivato da una simile intenzione, il presente saggio si inserisce tra gli sforzi storiografici più recenti atti a comprendere chi, quando, come e perché abbia inventato, dimenticato, ritrovato, reinterpretato e via via strumentalizzato il concetto di Europa. Secondo la prima tesi, su cui peraltro converge gran parte dell’ultima storiografia, il concetto moderno d’Europa affonda le sue radici nel secolo XV, quando, insieme ad altri fattori, anche meno evenemenziali, la caduta di Costantinopoli del 1453 ingenerò nel cuore del potere ecclesiale e secolare dell’Occidente il bisogno di confrontare in modo inedito le idee di cristianità e tradizione classica con la presunta o reale diversità dell’Oriente. La seconda tesi è che entro la prima metà del secolo XIX l’evoluzione del concetto sia poi giunto a una certa conclusione. Conclusione, questa, che si nutre di un menu di almeno sei moduli interpretativi e discorsivi basilari, i cui ingredienti ancora oggi caratterizzano, in combinazioni varie e di volta in volta aggiustate sul contesto del momento, concetto e rappresentazione dell’Europa. Come hanno sottolineato Bo Stråth e Mikael af Malmborg, potevano emergere “tante diverse accezioni di Europa perché essa non è mai stata un oggetto in senso essenziale, bensì soltanto un’idea”.6 La terza tesi ricorre pertanto a un’analogia con il concetto d’Oriente proposto da Edward Said,7 sostenendo come la ‘vera essenza’ dell’Europa non risieda nel suo essere un insieme di oggetti geografici o statali, ma in quello di configurare un sistema mutevole di citazioni e rimandi reciproci. Un sistema che non s’indebolisce, ma al contrario trae

4 B. Schneidmüller, Die mittelalterlichen Konstruktionen Europas, in: ‘Europäische Geschichte’ als historiographisches Problem, a cura di H. Duchardt e A. Kunz, Mainz 1997, pp. 5-24, qui 11; Mikkeli, Europe as an Idea (nota 3), pp. 26-31, ha fatto presente come già Pierre Dubois (circa 1250-1320) usasse il concetto di ‘Europa’ con l’intenzione di mettere pace tra le fazioni del mondo cattolico e mobilitare loro per le crociate. Lo stesso autore ricorda tuttavia anche la bassa frequenza con cui ricorreva, e l’assenza in esso di quella carica emotiva che veniva invece trasportata dal termine concorrente di christanitas. 5 W. Kula, Riflessioni sulla storia, Venezia 1990, p. 27. 6 M. af Malmborg, B. Stråth, The National Meanings of Europe, in: The Meaning of Europe, a cura di Idd., Oxford 2002, pp. 1-25, qui 3. 7 E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano 2001, pp. 22-24.

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potenzialità comunicativa e persistenza culturale da definizioni tanto polivalenti quanto sfuggevoli. 1. L’Europa antica Uno sguardo pur superficiale alla storia greca dimostra come a differenza dell’alto medioevo l’antichità possedesse un’idea di ‘Europa’ ampia e trascendente le mere definizioni geografiche e anche, persino, le relative narrazioni mitologiche. L’oggetto geografico dell’Europa antica diverge grandemente da quello dell’Europa moderna, mentre, però, si assomigliano senz’altro le rispettive disposizioni mentali del Noi rispetto all’Altro. Similmente all’Europa moderna, anche quella antica fu un contenitore di significati e attributi molteplici, parzialmente contraddittori, e a ogni modo mutevoli e vicendevolmente intrecciati o sovrapposti. Anche l’Europa antica rimase dunque sfuggevole in quanto a contorni geografici e contenuti spirituali. E come la nostra, anche quella antica sembra aver tratto dalla propria sfuggevolezza una notevole forza d’attrazione presso il pubblico. Infatti, non diversamente dall’impotenza dell’odierna critica dei miti europei, che poco o nulla potrà contro la forza comunicativa di simboli spinti dagli interessi politici, neanche l’obiezione ‘storico critica’ di Erodoto, che fece presente come il piede della principessa fenicia chiamata Europa mai avesse toccato le terre ad essa intitolate, ma solo quelle dell’isola di Creta - extra europea secondo la concezione dei tempi - per posarsi infine sui lidi dell’Asia minore, ebbe alcuna eco apprezzabile. O almeno, non riuscì a impedire che l’identificazione di quel Noi che si voleva contrapporre ad ‘Asia’ continuasse ad compiersi sotto il nome di ‘Europa’.8 Il concetto antico d’Europa conosceva una tripartizione in ovest, est e sud. Sembra che inizialmente con l’Europa si identificasse la sola Grecia continentale, mentre l’Egeo venisse fatto coincidere con l’est e il Peloponneso con il sud. Pare dunque che solo con il tempo il concetto e i suoi opposti si allargassero geograficamente, posizionandosi nell’emergente conflitto tra Grecia e Asia (minore) e/o Persia. Alla fine ‘Europa’ comprese tutto il mondo di lingua e cultura greca, ossia sostanzialmente le sponde settentrionali e occidentali del Mediterraneo. Il Noi in esso racchiuso venne contrapposto non tanto a un Altro africano o meridionale, quanto a quello dell’Asia (minore) sotto dominio persiano. A popolarizzare e tramandare tale visione d’Europa contribuirono probabilmente le rappresentazioni che delle guerre con i persiani proposero tragedie ed epopee. Le immagini greche dell’Asia, dell’Est e dell’Impero persiano un tempo avevano oscillato tra l’ammirazione e la rivalità, e tra un senso di affiliazione e uno di estraneità. Talora ci si vedeva su un piano paritario, talaltra su uno superiore, e qualche altra ancora, su uno inferiore rispetto all’Altro. 8 M. Cortelazzo, Il nome Europa, in: Europa. Storie di viaggiatori italiani, Milano 1988, pp. 48-59, qui 48.

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Nel corso delle guerre persiane e con l’ausilio, anche, delle loro rappresentazioni teatrali da parte di Eschilo, questo quadro tutto sommato malfermo di attribuzioni veniva riorganizzato nel senso di una contrapposizione netta e irriducibile. Europa o Asia significavano d’ora innanzi civiltà politica o barbarie, libertà o oppressione dispotica9. Secondo il poeta l’Europa si collocava laddove tramonta il sole, ossia a Ponente o Ovest. Tale immagine non poteva però essere ricondotta alla prospettiva propria dell’europeo, ma doveva per forza avvalersi della prospettiva (immaginata) di un altro orientale che lo osservasse dall’esterno. Soltanto da levante si può infatti vedere tramontare il sole laddove abitiamo ‘noi’. Neanche la tragedia greca sfuggiva dunque all’inevitabile ambivalenza delle definizioni identitarie, che sempre abbisognano di uno sguardo altro incorporato per costruire e stabilizzare un Noi.10 Un simile discorso vale anche per le etimologie orientaliste che riconducono l’opposizione tra Europa e Asia non alla mitologia greca, bensì alle semantiche dell’accado: la prima deriverebbe da erêbu (‘ponente’), la seconda da âsû (‘levante’). In tutti i casi, comunque, l’Altro contrapposto all’Europa si identifica con un Est minaccioso e dispotico, che è al contempo stato luogo delle origini europee e rimasto intrecciato al destino occidentale. Oggi l’Est (oppure l’Asia, l’Oriente, il Levante o come dirsi voglia) è sempre centrale per l’auto-identificazione europea, e questo anche grazie al fatto che entrambi i concetti non abbiano mai designato un oggetto geografico e storico che fosse scrutabile con certezza al di là delle immaginazioni.11 Ecco perché l’Europa odierna può essere sempre quella e al contempo diversa e collocarsi altrove. La concezione costante di un Noi situato a Ovest e contrapposto all’Est, accostata alla pluralità di miti, attributi e a mutevoli delimitazioni geografiche – tutto ciò giustifica chiamare quella antica una ‘Europa classica’. Ma non per questo si può delineare una tradizioni che derivi dall’antichità a noi senza soluzione di continuità. 2. Christianitas

9 P. Barcellona, Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Troina 2001, p. 146. 10 F. Remotti, Contro l'identita, Roma-Bari 1996, p. 63; C. F. Graumann, Soziale Identitäten, in: Kultur – Identität – Europa. Über die Schwierigkeiten und Möglichkeiten einer Konstruktion, a cura di R. Viehoff und R. T. Segers, Frankfurt am Main 1999, pp. 59-74, qui 63-67. 11 Sembra questo un punto malinteso da D. Fokkema, Okzidentalismus als Antwort auf Saids Orientalismus, in: Kultur – Identität – Europa (nota 10), pp. 50-58, la cui polemica contro il ‘determinismo discorsivo’ non fa giustizia della visione molto articolata che Said ha del rapporto tra realtà e rappresentazione (nota 7, p. 14-16). Del resto, neanche il più spinto ‘determinismo discorsivo’ potrebbe rivoluzionare l’epistemologia storica: anche i discorsi sulla realtà appartengono infatti a quelle realtà di cui vale la pena indagare la storia (R. Petri, Pamphlet per il tempo storico, in: Velocità storiche, a cura di S. Bertelli, Roma 1999, pp. 37-68, qui 54-55). E comunque sia, il problema sollevato da Said, ossia la pretesa d’egemonica culturale occidentale, non si può certo eliminare con una critica del metodo.

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Una soluzione di continuità, effettivamente, ci fu. Essa venne operata nel modo più radicale da un altro import orientale, il cristianesimo. Il terreno era comunque già stato preparato dalle pretese universalistiche di Alessandro Magno e dell’Impero romano, alle quali il concetto d’Europa forniva uno scarso supporto ideologico. In tal modo, l’Europa tardo antica venne degradata a mera indicazione geografica, e anche questo solo in modo vago.12 L’‘Europa’ intesa come idea politica veniva sempre meno menzionata, per poi sostanzialmente sparire, o essere esulata, nel Medioevo cristiano, dietro le spesse mura dell’erudizione monastica e, più tardi, di quella scolastica. Tutt’al più conobbe una breve rinascita ‘pubblica’ attraverso i richiami di Carlo Magno, di cui oggi piace forse troppo ricordare le presunte ‘idealità’ e dimenticare l’evidente strumentalizzazione geo-politica, la quale, tuttavia, prefigurava quantomeno un papato meno ‘universale’ e più terreno e territoriale, anticipando con ciò, in qualche modo, i futuri scismi e l’occidentalizzazione dell’Europa. Questa visione doveva però concorrere con quella agostiniana, per lungo tempo predominante, secondo la quale il cristianesimo non poteva che porsi in una prospettiva universale completamente distaccata da ogni limitante territorialità. La stessa idea di fines Christianitatis trovava una sofferta accettazione teologica non prima del secolo XI.13 Certo sarebbe irrealistico pensare che per mera prescrizione teologica l’immagine di Christianitas rimanesse del tutto avulsa da ogni forma o immagine di spazialità. In un certo senso esistevano sempre inevitabili demarcazioni anche geografiche tra il cristianesimo e ciò che cristiano non era. Poco o nulla ebbero però a vedere, ad esempio, con un concetto ‘eurocentrico’ di Oriente. Da una parte, tra Africa settentrionale e orientale, Asia minore, Levante e Caucaso vivevano molti cristiani di varia liturgia e confessione, in parte frammischiati a popolazioni convertite all’islam. Dall’altra, la collocazione geografica del diverso o miscredente riguardava sia il Nord – pagano, e nondimeno ‘europeo’ - sia il Sud e l’Ovest, in gran parte ormai islamici.14 Non collochiamo ancora oggi l’Occidente islamico, il Maghreb15, e città molto più occidentali delle nostre quali Rabat e Casablanca, in ‘Oriente’? Le crescenti tensioni tra papato e Costantinopoli, poi gli scismi religiosi, intricarono ulteriormente i connotati di quest’ultimo concetto. Basti pensare che l’Impero romano, erede legittimo delle antiche tradizioni greco-romane e cristiane, non tramontò nel 476, bensì - almeno nel concetto ortodosso - circa un millennio più tardi, quando nel 1453 Costantinopoli cadde in mano turca. Questa caduta era la formalizzazione di una secolare agonia, e tuttavia solo mezzo secolo prima il patriarca dell’antica capitale ormai quasi spoglia di territori negò a Mosca, potenza ortodossa emergente dopo la 12 Cortelazzo, Il nome Europa (nota 8), p. 50. 13 Mikkeli, Europe as an Idea (nota 3), pp. 22-23. 14 M. Borgolte, Perspektiven europäischer Mittelalterhistorie an der Schwelle zum 21. Jahrhundert, in: Id. (Hg.), Das europäische Mittelalter im Spannungsbogen des Vergleichs, Berlin 2001, pp. 13-27 (Europa im Mittelalter 1). 15 La parola araba برغم [maγrib] denota infatti la direzione del sol ponente.

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vittoria sui tartari, l’eredità della rappresentanza universale del cristianesimo e dei valori romani, tanto si sentiva al centro di quella esperienza. Tali avvenimenti furono tanto e forse più importanti per il rinascimento dell’Europa nel Quattrocento quanto lo fosse la scoperta del continente americano quasi mezzo secolo dopo. In prima approssimazione, dunque, quella rinascita altro non fu che una conseguenza politica e psicologica della così detta minaccia turca. Quel che agli occhi latino occidentali ‘europeizzava’ a posteriori quell’Impero romano da loro ribattezzato ‘bizantino’ fu proprio il suo tramonto. Prima, infatti, si era insinuata nella visione esterna, occidentale e cattolica, dei rhômaioi, un connotato di diversità che sarebbe forse errato chiamare ‘orientale’, ma che tuttavia li escludeva in misura crescente da un’idea di Christinitas incentrata attorno al soglio pontificio di Roma.16 Fu anche in ragione di tale diversità che l’Occidente si reputasse unico erede legittimo della tradizione classica, ossia ‘europea’, pervenuta dall’antica Grecia al proprio patrimonio tramite varie fonti, tra cui le traduzioni arabe. Dove si collocavano, dunque, gli insediamenti cristiani e dove abitavano invece coloro cui occorreva ancora portare il vangelo? Nelle carte dei navigatori cristiani e musulmani il Mezzodì, lo zenit solare, veniva in genere rappresentato in alto, e la notte del Settentrione in basso. La cartografia stilizzata e simbolica del medioevo cristiano conservava invece la tripartizione (tardo) antica dell’Orbis terrarum, tanto più che il cerchio dell’O era suddiviso da una T interpretabile come simbolo della croce di Cristo. La fetta più grande, l’Asia, stava in alto, le due fette più piccole, l’Europa e l’Africa, in basso rispettivamente a sinistra e a destra. Questi tre continenti furono pensati come divisi dal Mare mediterraneo e dalle acque di Nilo e Don. Talora, Roma veniva inscritta in queste rappresentazioni, talaltra se ne faceva meno. Mentre, però, quasi sempre, Gerusalemme, sulla sponda asiatica in cima al Mediterraneo, quindi leggermente sopra il centro dell’orbe, fu portata in massimo rilievo. Anche le mappe mondo dei secoli XII e XIII, a metà strada tra stilizzazione simbolica e rappresentazione geografica, confermano come il mondo cattolico collocasse il centro spirituale del cristianesimo non ancora a Roma né nel quarto sinistro inferiore, ossia in Europa, bensì in Asia. Gerusalemme fu, ancora, immaginata essere il vero centro del mondo, e la città sul Tevere poco più di una Gerusalemme ‘di scorta’. Nelle stesse mappe mentali occidentali, dunque, Christianitas, per quanto gravasse ormai sull’occidente, rimase ancora collocata attorno al Mare di Mezzo.17 E sebbene Dante individuasse la sede dell’Altro in Asia e 16 J. Le Goff, Les traits originaux de l’indentité européenne, in: Histoire du dévelopment scientifique et culturel de l’humanité, Paris 1996, ha individuato nella separazione tra Stato e Chiesa la differenza qualificante tra ‘Europa’ da una parte, Islam e mondo bizantino dall’altra; J. Ferluga, Bisanzio. Società e Stato, Firenze 1974, vede nella deificazione dell’imperatore, simboleggiata dalla prosternazione rituale, l’effetto di una non meglio specificata “influenza orientale” (p. 7); l’iconoclastia sarebbe dovuta, a sua volta, in parte instillata dall’influenza araba, divenendo un altro aspetto della “orientalizzazione della società” bizantina. “L’impero bizantino si allontanava così ancora di un passo dal mondo occidentale” (p. 29). 17 M. Milanesi, Le carte dell’Europa, in: Europa. Storie di viaggiatori (nota 8), pp. 13-46.

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Africa, non identificava il Noi con l’Europa, bensì, ancora, con una Christanitas che muoveva soltanto i primi passi sulla via della propria europeizzazione.18 3. Il ritorno dell’Europa tra tardo medioevo e prima età moderna Nell’immaginario medievale, cristianesimo ed Europa non furono dunque affatto congruenti. Il termine di ‘Europa’, nella misura in cui era in uso, aveva evidentemente perso i valori ideali, ideologici e identitari che lo avevano contraddistinto nell’antichità, riducendosi a una più o meno vaga accezione geografica. Come programma politico viene fatto risorgere, dalle antiche scritture, non prima del secolo XV, 19 ad esempio nel pensiero di Nicola Cusano (1401-1464) e negli scritti di Enea Silvio de' Piccolomini (1405-64), che diventa Papa Pio II nel 1458. 20 Sembra che la caduta di Costantinopoli di cinque anni prima renda necessaria, dal loro punto di vista, una nuova, diversa, proiezione cristiana verso oriente. Con ciò non si intende tanto l’esigenza geopolitica in sé, fortemente sentita (e nel secolo successivo perorata da Nicolò Machiavelli, Torquato Tasso e altri) di creare, ‘per la difesa del cristianesimo’, quell’alleanza di potenze europee che infine avrebbe vinto la battaglia navale di Lepanto (1571) e frenato l’espansionismo dell’Impero ottomano. La domanda che insorge è infatti perché tutto ciò debba ora succedere sotto il segno dell’Europa. Perché proprio adesso, dopo tanti secoli di coesistenza in parte conflittuale e in parte pacifica con l’islam, il vessillo dell’unità non dev’essere più ornato di un simbolo cristiano, bensì di uno classico? Le ragioni sono, più che altro, interne all’Occidente, e solo indirettamente condizionate da un Altro esterno. Sono, ad esempio, emerse nuove potenze territoriali e secolari, e nuovi centri del sapere, che si stanno gradualmente sottraendo all’imperio secolare e al dogma teologico della Chiesa, divenendo più autonomi anche in ragione delle proprie risorse. L’umanesimo, le scienze21, poi il Rinascimento, le scoperte coloniali intese come reperimento di nuove risorse economiche e rinvenimento di una realtà naturale e culturale esotica, per non parlare delle inquietudini religiose e dell’attesa di rinnovatio che pervadono il continente come prodromi della Riforma: tutto ciò necessita di una definizione più ampia ed ecumenica, e al contempo più territoriale, di quella alleanza che si deve opporre all’assalto ottomano. Detto in modo tanto più semplice quanto più drastico: adesso il mondo cattolico si insinua in un contesto politico, economico, sociale e culturale ben

18 Cortelazzo, Il nome Europa (nota 8), pp. 50-53. 19 G. Vogler, ‘Europa’ an der Wende vom Mittelalter zur Neuzeit, in: Nations, Identities, Historical Consciousness. Volume dedicated to Prof. Miroslav Hroch, a cura di M. Řezník / I. Slezáková, Praha 1997, pp. 289-307, qui 293. 20 Schneidmüller, Die mittelalterlichen Konstruktionen Europas (nota 4), p. 14 nonché Mikkeli, Europe as an Idea (nota 3), pp. 33-39. 21 P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari 1997.

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diverso rispetto al periodo delle invasioni degli unni risalenti al secolo V, o a quello successivo dell’espansionismo arabo e islamico in oriente e nel Mediterraneo occidentale. È un contesto, anche, diverso rispetto alla più recente epoca delle crociate. Sotto tale aspetto il ricorso a un concetto classico e precristiano, qual è l’Europa, ricalca soltanto la moda del momento. Certo non si tratta però, o almeno non ancora, del tentativo di adombrare un’Europa laica o secolarizzata. Altrimenti sarebbe difficile trovare tra i protagonisti più importanti della rinascita europea esponenti di punta della Chiesa, tra cui un papa. Quella che qui viene ideata non è altro che una concezione nuova, territorializzata, latina e cattolica, di christianitas. Come Franco Cardini ha giustamente sottolineato è solo in quel frangente del secolo XV che nasce l’Europa cristiana.22 Vari fattori materiali contribuiscono in seguito ad approfondire e rendere autonomo quel processo. All’esterno del Sacro romano impero emergono nuove potenze che traggono la propria forza e indipendenza dall’esplorazione, dall’espansione, dal colonialismo, dalla conquista. Agiscono cercando di imporre il proprio dominio e definire la propria relazione con l’esotico in un contesto extra-latino ed extra-mediterraneo ora concepito, per l’appunto, come extra-europeo. La trepidazione di imporre il proprio dominio sopra popolazioni non cristiane e non europee, se non è levatrice della nuova Europa, ne è quanto meno nutrice. Ora, dominio e potere, lo insegna tutta la storia dell’esperienza umana, esigono una legittimazione che trascenda la cruda violenza sopra cui in fin dei conti si ergono. Sotto tale luce, proprio l’universalismo cristiano risuscita nuovo interesse. Certo, nel corso del tempo verrà degradato a strumento ideologico tra altri, resisi altrettanto e più utili al predominio europeo. Inizialmente, comunque, quanto più tardi verrà chiamata la ‘missione storica dell’Europa’ viene senz’altro inteso e vissuto come una missione cristiana,23 per quanto vacua possa apparire la distinzione, negli affari quotidiani del colonialismo, tra motivi e interessi.24 E certo in ogni caso che i motivi i quali nel secolo XVIII verranno riassunti nel concetto di ‘civilizzazione’

22 F. Cardini, Le radici cristiane dell’Europa. Miti, storia, prospettive, Rimini 1997, p. 11. 23 Sulla distruzione, ad opera dei conquistatori portoghesi, dei templi buddisti e induisti classificati come casas de idolatria dopo il concilio tridentino (1545-1563) e l’instaurazione dell’Inquisizione (1560) in Goa, cfr. A. Pinto Pereira, Historia da India no tempo em que a governou o Visorey Dom Luis d'Ataìde, Coimbra 1616, citato da V. Magalhaes Godinho, The Portuguese Empire 1565-1665, The Journal of European Economic History 30 (2001) Heft 1, pp. 49-104. 24 Nel contesto del colonialismo portoghese, le autorità ecclesiastiche agivano spesso, in alternativa a quelle politiche e private, di propria iniziativa anche in campo economico. La Chiesa portoghese divenne “un fattore politico ed economico” controllando, ad esempio, la pesca di perle tra Coromandel e Ceylon e l’agricoltura sulla costa dell’India occidentale, e tentando di inserirsi, per dominarlo, nel commercio di argento e seta sino-giapponese. In tutto questo, motivi religiosi e interessi economici si sovrapponevano: “Sin dal primo giorno i conquistatori portoghesi eleggevano lo spirito delle crociate a ideologia del proprio imperialismo, il quale venne da loro concepito come servizio reso al cristianesimo. L’islam era un ottimo nemico anche perché in molte situazioni il commercio portoghese entrò in conflitto con quello musulmano”; Magalhaes Godinho (nota 23), pp. 55-56.

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conquisteranno l’egemonia solo nel corso dei secoli, e questo senza rimpiazzare mai del tutto l’idea della missione cristiana. Lo sviluppo testé delineato può essere ricostruito anche attraverso la cartografia, sia quella che persegue finalità simboliche e artistiche sia quella che ha obiettivi pratici, vale a dire militari, amministrativi e mercantili. Non è possibile, in questa sede, scendere nei dettagli.25 Uno degli aspetti più lampanti è la rotazione delle mappe mondo per portare l’Asia sul lato destro, l’Europa in alto e l’Africa in posizione inferiore. Come accennato, nelle precedenti mappe simboliche il nord stava a sinistra, in quelle nautiche il più delle volte in basso. Gerusalemme troneggiava al centro del mondo e del cristianesimo. Ora scivola in posizione periferica, poiché su tutto troneggia l’Europa. Non meno interessanti della visione del ‘mondo’ sono le gerarchie che nei secoli XVI e XVII si instaurano nelle mappe tra quegli spazi che oggi chiamiamo con il nome di Europa. Troviamo carte stilizzate che escludono dall’Europa non solo le terre dei tartari, ma anche la penisola scandinava. Nel frattempo la produzione scientifica delle carte geografiche, spronata dagli interessi di potere, ha fatto grandi progressi. Quando dopo la caduta di Costantinopoli Mosca pretende di essere riconosciuta come terza Roma, i suoi ambasciatori sottopongono al papa carte che testimoniano l’enorme estensione del Granducato. In misura crescente le carte geografiche si trasformano in biglietto da visita dei principi potenti, quale oggetto di rappresentazione e contrattazione, e strumento nell’esercizio, del potere sovrano sul territorio. Polacchi e svedesi, nel timore di essere emarginati dalle politiche di potenza europee, pubblicano mappe geografiche dettagliate che documentano la loro appartenenza all’Europa e al contempo rivendicano la sovranità sul loro territorio. Il rilevamento scientifico della sagoma geografica europea può dirsi concluso attorno al 1600, quando Willem Barents rientra dai suoi viaggi d’esplorazione lungo le coste che si affacciano sui mari del nord. Il che tuttavia non significa che la mappa mentale dell’Europa già coincida con quella attuale. Se da una parte sin dalla tarda antichità l’Europa è pensata iniziare presso Cadice, a sudovest, a lungo nessuno saprà dire dove precisamente essa finisca a nordest ed est. Dell’area balcanica, ad esempio, che vive in gran parte sotto il dominio ottomano, si conoscono solo piante geografiche alquanto rudimentali. Un discorso simile vale per la Grecia. I viaggiatori che lasciano questa ‘culla d’Europa’ in direzione nord-occidentale, ancora a lungo,

25 Le seguenti osservazioni sulla cartografia si basano su Milanesi, Le carte dell’Europa (nota 17), pp. 13-46; L. Bagrow, R. A. Skelton, Meister der Kartographie, Berlin 1985, pp. 28-126; G. Sammet, Der vermessene Planet. Bilderatlas zur Geschichte der Kartographie, Hamburg 1990, pp. 74-139; G. K. Nagel, Alte Landkarten, Globen und Städteansichten, Augsburg 1994, pp. 9-20, 73-77, 96; in questi lavori si trovano anche le relative illustrazioni e riproduzioni.

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fino all’epoca moderna inoltrata, diranno che si stanno recando ‘in Europa’, e altrettanto che ‘dall’Europa’ provengono al loro ritorno. 26 A ben vedere, tale indecisione sembra un elemento costituente, o almeno costante, del concetto, infatti non esiste neanche all’inizio del secolo XXI alcun accordo sul confine orientale quanto meno dell’Europa ideale e immaginaria. E in ogni modo, l’Europa occidentale passa per essere più europea di quella mediana, e questa più europea di quella orientale, in qualunque area si vogliano collocare queste ripartizioni.27 Basti pensare ai negoziati e ai criteri, non che ai discorsi che si sono fatti in tale circostanza, di inclusione o esclusione di questo o quel paese dall’allargamento dell’Unione europea, oppure al tono dei commenti su vari fenomeni politici e culturali rilevati per esempio in Russia o in Serbia. Si potrebbe pensare che le mappe mentali possano tranquillamente rimanere sfocate, e che basti che quelle geografiche siano esatte. In realtà esiste una certa reciprocità tra queste due dimensioni della ripartizione spaziale. Un tempo, la convenzione aveva voluto che l’Europa finisse al Don e nel Caucaso. Ma il nord profondo, indistinguibile dall’est, appariva come una tenebrosa ‘terra di nessuno’: pagana, nomade, in parte slava e vagamente orientale, ma senza marca. Soltanto l’illuminismo settecentesco si sforzerà di distaccare la cartografia dall’immaginazione. Cercherà appigli naturali, oggettivi, sicuri. Li individuerà lungo gli Urali, la catena di monti e poi l’omonimo fiume che chiudono da nord a sud quasi interamente la grande pianura verso est. Prendendo per buona tale definizione, il così detto ‘vecchio continente’ risulta avere si e no trecento anni. 4. L’Europa dell’illuminismo: una missione universale Nell’atmosfera intellettuale del secolo XVIII non può certo sfuggire ai geografi come la delimitazione dell’Europa lungo gli Urali, più che ubbidire ai criteri razionali della propria scienza, ubbidisca, non diversamente dalla più grossolana raffigurazione stilizzata, a un’esigenza di rappresentazione simbolica. Qualcuno di quei geografi, nell’intento di onorare i principi della ricerca e della scoperta, ha gioco facile nell’osservare come, se la parola ‘continente’ deve avere un senso e le definizioni scientifiche ad essa date una qualche validità, di altro non si possa parlare che di un unico, grande, continente eurasiatico. Ma nulla può l’innocente linearità di una simile critica contro la volontà d’imperio, espressasi, ad esempio, nella dichiarazione non propriamente umile del marchese di Condorcet, secondo cui i lumi, il libero pensiero,

26 Si veda anche il contributo di C. Tsoukalas, The Irony of Symbolic Reciprocities. The Greek Meaning of ‘Europe’ as a Historical Inversion of the European Meaning of ‘Greece’, in: The Meaning of Europe (nota 6), pp. 27-75. 27 È la suddivisione di K. Pomian, Nations et religions: l’Occident, l’Europe centrale, l’Europe de l’Est, in: Lieux de mémoire et identités nationales, a cura di P. den Boer / W. Frijhoff, Amsterdam 1993, pp. 47-60.

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la ragione, la scienza e la ricerca di verità comprovano come la storia dell’Europa sia l’anticipazione della storia di tutta l’umanità.28 Parola e pensiero liberi corrono però il rischio di una severa lezione qualora si prendano la libertà di criticare, o di screditare involontariamente e con le stesse sue armi, il costrutto razionalista medesimo.29 Imparino dunque anche i geografi che l’Europa illuminata e progredita non può certo scivolare, senza soluzione di continuità, dentro l’Asia arretrata e dispotica! Con l’idea di progresso l’Europa del secolo XVIII compie senza dubbio un salto di qualità. Dopo circa tre secoli di coabitazione talvolta pacifica, talaltra conflittuale, l’Europa sospinge in seconda fila il cristianesimo, assumendo essa stessa il valore di universalità. L’Europa, beninteso, rimane anche simbolo di tradizione cristiana, la quale deve però contendersi i richiami europei con la tradizione giuridica e filosofica classica, e misurarsi con le libertà individuali, la ragione, la scienza, la crescita economica e il mutamento tecnologico. Poiché tutto questo, e altro ancora, è ora contenuto nella parola ‘Europa’, per essere indicato, come prima lo era il vangelo, a tutta l’umanità come via alla redenzione. L’umanità deve tendere all’Europa, all’Occidente, se vuole redimersi. 30 La contrapposizione tra progresso e arretratezza diventa il criterio preponderante di inclusione ed esclusione, il confine immaginario dell’Europa, ma anche divario interno, declivio tra ovest ed est, e alternativa tra libertà e dispotismo. Persino per il simpatetico Gottfried Herder gli slavi rappresentano un tramite bifronte tra Asia ed Europa. Possono aspirare a diventare parte a pieno titolo di quest’ultima solo se si “destano dal lungo letargo” liberandosi “dal giogo della schiavitù”.31 In altre parole: il dispotismo asiatico opprime il vero popolo slavo (russo). Idea, questa, che come vedremo rimarrà cara anche all’uomo politico tedesco più famoso del secolo XX. Il mandato europeo alla Russia, confermerà intanto Mazzini, non è quello di opprimere le altre nazioni slave, più europee di lei, ma bensì di “conquistare le vaste regioni orientali” all’“incivilimento”, in un’“opera provvidenziale che farà dell’Asia [...] per molti secoli [...] una appendice d’Europa”.32 Conquista per il supremo fine della civilizzazione, è questa la missione europea. Nella misura in cui la Russia dimostra di assolverla potrà aspirare a iscriversi all’associazione degli europei.

28 M. J. A. N. de Caritat marquis de Condorcet, Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain (1794), Ouvrage posthume, Milano 51798. 29 Cfr. per esempio K. Popper, Die offene Gesellschaft und ihre Feinde, Vol. 1, München 51977, p. 243, che traduce il pensiero di Condorcet in una sorta di imperialismo della Ragione. 30 Non risulta infatti troppo difficile scorgere dietro alla teleologia del progresso dell’Europa laica, come del resto dietro alle varie utopie e filosofie della storia di fine Settecento, la matrice cristiana della redenzione, a cui l’umanità deve tendere dopo essere stata espulsa dal paradiso, quel luogo senza storia che nella nuova versione laica diventa ‘natura’ o ‘società primitiva’. 31 J.G. Herder, Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menscheit (1785-1792), in: Herders sämmtliche Werke, a cura di B. Suphan, vol. 14, Weidmann, Berlin 1909, p. 280. 32 G. Mazzini, Missione italiana, vita internazionale (1866), in: Id., Lettere slave, con prefazione di F. Canfora, Laterza, Bari 1939, pp. 97-106, qui p. 101.

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È facile constatare, a questo punto, una contraddizione tra la tensione alla liberazione universale dell’uomo e all’affermazione del suo diritto naturale, e la credenza che tale liberazione debba passare attraverso la sottomissione di chi, per immaturità e credenza irrazionale, si ostini a non voler essere liberato preferendo di essere lasciato in pace. E certamente insita nella tradizione cosmopolita dell’illuminismo il sogno non realizzato e forse utopico dell’umanocrazia universale. Ma proprio per questo la Declaration of Rights del 1776, che è stata rubricata come “illuminismo applicato”,33 deve essere criticamente interrogata sul carattere esclusivo della sovranità popolare e non separata, come spesso avviene, dal suo reale contesto storico fatto di conquista, genocidio e sfruttamento schiavista, come se tale contesto non la riguardasse, né la condizionasse né impregnasse di sé i suoi contenuti. I diritti che reclama sono infatti i diritti di coloni e conquistatori, la cui missione è, come conferma ancora Condorcet, quella di civilizzare oppure estinguere, con o senza conquista, le “nazioni selvagge”.34 Poiché, però, le interpretazioni acquistano una certa autonomia finanche rispetto alla stessa realtà che si incaricano di giustificare, la contraddizione fin troppo evidente tra, da una parte, libertà, umanità e progresso assunti a telos della storia umana, e la realtà del colonialismo dall’altra, è sempre stata senz’altro notata e a più riprese criticata. Tali critiche hanno comunque in genere puntato più alla riforma che non all’abolizione del regime coloniale. Ritirarsi dalle colonie sarebbe infatti apparso irresponsabile e amorale, poiché avrebbe ributtato i poveri indigeni in uno stato perpetuo di arretratezza, oscurantismo e barbarie. Occorreva restarci, se non altro per ragioni umanitarie. Tanto più che qualcuno, considerando con obiettività scientifica fattori quali clima e razza, stabilisce per via deduttiva che la sacrosanta lotta per l’auto-determinazione non può riguardare, purtroppo, né i barbari né i selvaggi. Scrive infatti David Hume di essere “portato a credere che i negri come, in generale, tutte le altre specie di uomini [...] sono naturalmente inferiori ai bianchi. Mai vi è esistita un società civilizzata che abbia avuto un colore di pelle diverso dal bianco, e neanche una singola persona che sia emersa nel campo dell’azione o della speculazione. Non hanno prodotto né fabbricanti ingegnosi, né le arti, né le scienze”.35 Bisogna ammettere che quella di Hume è una proiezione particolarmente chiara dell’Europa verso il suo esterno. Per non essere troppo nell’ingiusto occorre comunque aggiungere che la maggioranza degli autori dell’epoca, quando parla di beni e valori ‘universali’, di 33 R. Dahrendorf, Die angewandte Aufklärung. Gesellschaft und Soziologie in Amerika, München 1963. 34 La citazione è tratta da un brano polemico contro il disprezzo riservato dall’uomo bianco ad altri esseri umani, di diversa carnagione o diversa religione. Secondo la preoccupazione del marchese il comportamento spregiativo, molto diffuso nelle colonie, poteva distruggere il rispetto e la fiducia che gli indigeni nutrivano nella ‘superiorità’ dei lumi; de Condercet, Esquisse d’un tableau des progrés (nota 28), pp. 331-335. 35 D. Hume, Of National Characters, in: Id., Political Essays, a cura di K. Haakonssen, Cambridge 1994, pp. 78-92, qui p. 86.

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‘umanità’ e quant’altro, non intende affatto disquisire seriamente dell’Africa, dell’America o dell’Estremo Oriente, bensì sottende quasi sempre un riferimento alle sole aree europea, mediterranea e mediorientale. In questo senso, la stessa guerra e la successiva dichiarazione di indipendenza delle colonie nordamericane possono ancora considerarsi, in prevalenza, un affare interno europeo. E tuttavia, anche all’interno di questo ‘interno’, in cui già si annunciano le prime spaccature nazionali, ad assicurare un posto di rilievo al discorso sull’Europa è proprio la sua cifra universale. Si prepara qui, alla fine del Settecento, quella che Gerard Delanty ha chiamato la “dialettica dell’identità nazionale ed europea”, dentro la quale ogni identità nazionale presuppone “un appello all’Europa” in chiave universalista, “per legittimare con esso, paradossalmente, il particolarismo nazionale”36. È questa, in particolare, la cifra della Rivoluzione francese e dell’espansionismo che ne consegue quasi con naturalezza. La superiorità francese si base su una mitologia composta di filoni rivoluzionari e antecedenti, diversi tra di loro e spesso in aspro conflitto, ma rispetto al tema che qui interessa più complementari che alternativi: la Francia carolingia e cristiana unificatrice d’Europa, la Francia illuminista prosecutrice della tradizione classica e romana, la Francia, dunque, della dea Ragione e della sovranità popolare, ma poi anche la Francia gallica anti-cristiana e anti-latina.37 Tutte queste Francie entrano in vivace e talvolta mortale conflitto una con l’altra, ma al contempo concorrono a comprovare come l’Europa migliore, l’Europa più autentica, sia proprio incarnata nella nazione francese. Ma va ugualmente colta la modernità della reazione alla Rivoluzione, che ripesca simili concetti, soltanto invertendo la Rivoluzione in una minaccia a un’Europa ‘antica’ da salvare. Non lo fa per ritornare veramente al passato, ma per gettare, con discorsi non meno rivoluzionari, le basi di una mobilitazione nazionale che sia altrettanto europea e al contempo anti-francese. Edmund Burke si appella a un’Europa ‘medievale’ e aristocratica configurante un sistema delle differenze che già aveva trovato il suo equilibrio ideale nella Pace di Westfalia del 1648.38 Con ciò prepara le basi ideologiche della diplomazia europea durante il ‘secolo britannico’, e più a breve quelle della restaurazione di Vienna. Altrettanto poco riducibile ai termini di pura nostalgia reazionaria è il richiamo di Novalis ai “bei tempi in cui l’Europa fu terra cristiana”.39 Il poeta, al secolo Georg Philipp Friedrich von Hardenberg, esorta in realtà a una rifondazione politica del discorso nazionale in chiave sacrale. Riconosce alla Rivoluzione francese il merito di aver riformato in quella direzione 36 G. Delanty, Die Transformation nationaler Identität und die kulturelle Ambivalenz europäischer Identität, in: Kultur, Identität, Europa. Über die Schwierigkeiten und Möglichkeiten einer Konstruktion, a cura di R. Viehoff / R. T. Segers, Frankfurt/M 1999, pp. 267-288, qui 272. 37 A.M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna 2001, pp. 44-51. 38 E. Burke, Reflections on the Revolution in France, and on the Proceedings in Certain Societies in London Relative to that Event, London 1790; U. Frank-Planitz, Edmund Burkes Leben und Wirkung, in: E. Burke, Betrachtungen über die Französische Revolution, Zürich 1987, pp. 9-32, qui p. 23. 39 Novalis, Die Christenheit oder Europa, in: Id., Monolog [e altri saggi], Hamburg 1963, pp. 35-52, qui p. 37.

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l’azione politica, basando il discorso pubblico non più sulla fredda ragione degli illuministi bensì sulla passione di una nuova fede, per quanto errata. Egli anticipa non solo la sacralizzazione della nazione, tipica dei nazionalismi dell’Otto e Novecento, dimostrandosi quindi pioniere di una comunicazione politica che ricolloca l’emozione al centro del proprio discorso. Al contempo conferisce alla stessa legittimazione universale della nazione una dimensione ‘veramente’ europea, vale a dire, dal suo punto di vista, cristiana. “La Germania precede lentamente, ma con fermezza, il cammino degli altri paesi europei” verso “una superiore vita religiosa”. Sta in questo il suo valore universale, poiché “la altre parti del mondo attendono la riconciliazione e la risurrezione dell’Europa, per aderirvi e diventare anch’essi concittadini nel regno dei cieli”.40 Si riproduce, dunque, in versione moderata, l’esatta argomentazione a scatole cinesi della Francia rivoluzionaria: l’Europa, che guida l’umanità essendo la più umana tra gli umani, va guidata dalla propria nazione essendo questa la più europea degli europei. Qualcuno ha notato con rammarico come alle soglie del secolo XXI la maggioranza degli europei abbia un rapporto con l’Europa “di carattere strumentale e quasi scevro di elementi affettivi”.41 Va tuttavia sottolineato come sul piano di studio della pedagogia nazionale, che tanto ha battuto il tasto dell’emozione, accanto a temi come ‘popolo’, ‘natura’ e ‘libertà’ non sia mai mancata, in nessun singolo caso, l’Europa. 5. L’Ottocento: l’Europa legittima la nazione Alla fine del Settecento e durante il secolo entrante il discorso sull’Europa abbraccia dunque significati più variegati, ma nel contempo anche più definiti. Piace rilevare sei moduli discorsivi, destinati a rimanere abbastanza stabili nel tempo. In particolare, sono tutti serviti, in combinazioni di volta in volta diverse, come figure retoriche di riferimento nella creazione delle identità nazionali. Non è davvero semplice stabilire una gerarchia tra queste sei ‘Europe’, ma in ordine cronologico la prima da evocare sembrerebbe senz’altro l’’Europa classica’, la quale, insieme con la secondogenita e quasi contemporanea ’Europa cristiana’, ha poi fornito una matrice per le citazioni dei successivi discorsi sull’Europa. 5.1. L’Europa classica

40 Ivi, pp. 47 und 51. 41 M. R. Lepsius, Die Europäische Union. Ökonomisch-politische Integration und kulturelle Pluralität, in: Kultur - Identität - Europa (nota 10), pp. 201-222, qui 208.

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Quasi tutti i nazionalismi se ne sono nutriti in varia maniera e misura. Perfino la Terza Roma moscovita fa idealmente convergere su di sé, tramite Bisanzio, non solo la tradizione cristiana ma anche l’eredità classica della Grecia42. Mentre la Terza Roma di Giuseppe Mazzini è ideata come sintesi e aspirazione nazionale a rappresentare e sublimare nel primato italiano l’eredità europea dell’Impero romano e della Roma papale43. Della Francia razionale e illuminata e poi rivoluzionaria e repubblicana concepita come prosecutrice ideale dell’Europa classica si è già detto. Con altrettanta ‘modestia’ Johann Gottlieb Fichte arriva ad asserire, sul filo di una dotta disquisizione linguistica, che al tedesco padrone di una lingua incontaminata riesce meglio dischiudere e tradurre nell’attualità i significati e i valori classici che non ai popoli neolatini, caduti vittime inconsapevoli delle alterazioni semantiche operate dalla prima cristianizzazione.44 Le contese nazionali e simboliche attorno all’arte, all’estetica, all’architettura, al diritto, all’archeologia, alla filosofia e alla storia, che si protraggono anche nel Novecento – basti pensare, nel caso italiano, alla Mostra Augustea del 193745 - sono troppo note per equivocare sul fatto che la competizione per una privilegiata rappresentazione e attinenza all’Europa classica sia una costante delle costruzioni e competizioni nazionali. 5.2. L’ Europa cristiana Sebbene l’Europa classica, resuscitata sull’onda dell’umanesimo, fosse la prima leva di una rinascita europea intesa come programma politico, quella cristiana è stata pedissequa, anche perché le motivazioni dell’una e dell’altra inizialmente si fusero nel pensiero di importanti teorici e gerarchi ecclesiastici. Alla luce degli avvenimenti dei secoli XVIII e XIX, il rapporto tra le due appare però molto più conflittuale. L’Europa cristiana sembra decisamente minacciata e contraddetta dalla rivalutazione che l’Europa classica ha ottenuto dai lumi, dalla Rivoluzione e dalla secolarizzazione, la quale, nonostante gli sforzi restaurativi dell’era post-napoleonica, prosegue 42 M. van den Bruck, Die politischen Voraussetzungen der Dostojewskischen Ideen, prefazione a: F.M. Dostojewski, Politische Schriften, a cura di M. van den Bruck / D. Mereschkowski, München 1917, pp. VII-XIV, qui VII-VIII. 43 H. Kohn, Propheten ihrer Völker. Mill, Michelet, Mazzini, Treitschke, Dostojeweski: Studien zum Nationalismus des 19. Jahrhunderts, Bern 1948, pp. 101-102. Nel caso italiano il culto dell’Impero romano è comunque già presente in epoca napoleonica: "I francesi per primi sovrappongono la storia di Roma antica al presente, sia quando i proclami di Bonaparte rievocano il destino di Roma per designare il futuro d’Italia, sia quando il Generale Miollis organizza a Mantova il culto di Virgilio repubblicano"; E. Pii, La ricerca di un modello politico durante il triennio rivoluzionario (1796-99) in Italia, in: Modelli nella storia del pensiero politico, vol. 2 (La rivoluzione francese e i modelli politici), a cura di V. I. Comparato, Firenze 1989, p. 285. 44 J.G. Fichte, Reden an die deutsche Nation (1808), in: Id., Sämmtliche Werke, Dritte Abtheilung, vol. 2, Berlin 1846, pp. 320-327. 45 F. Scriba, The Sacralization of the Roman Past in Mussolini's Italy. Erudition, Aesthetics, and Religion in the Exhibition of Augustus' Bimillenary in 1937-1938, in: Storia della Storiografia 30 (1996), pp. 19-29.

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imperterrita a pervadere il continente. Nell’Ottocento, insomma, il confronto tra l’Europa classica, illuminata e laica, e l’Europa cristiana, segna una divisione profonda, intrisa d’inchiostro e di sangue, lungo un itinerario che dalla Santa Alleanza passa per Porta Pia per poi approdare al concetto di Kulturkampf. L’Europa cristiana si incarica, tuttavia, delle più varie funzioni, anche di quelle utili e rappresentative per il concetto nella sua interezza. La più ovvia, e meno rinunciabile, è quella della produzione di alterità, individuando di volta in volta la minaccia ortodossa, islamica, giacobina, comunista, e marchiando nemici esterni e stranieri interni in funzione di lotte culturali, sociali, nazionali. Ma non è tutto: pare infatti un poco riduttiva l’idea di Cardini secondo cui l’Europa cristiana di discendenza medievale, intesa come sistema “organico” e tollerante delle differenze, sia caduta vittima innocente del nazionalismo “anticlericale, anticattolico e perfino anticristiano”.46 Riduttiva, perché nelle costruzioni nazionali la componente istituzionale e ufficiale del cristianesimo ha svolto un ruolo tutt’altro che secondario, e non solo in Polonia, in Irlanda o in Croazia, dove si ritiene che ciò sia ovvio, ma anche in realtà protestanti quali l’Inghilterra47 o la Danimarca48. Riduttiva, inoltre, perché lo stesso repubblicanesimo rivoluzionario, ad esempio, del polacco Mochnatzki49, e perfino l’anticlericalismo mazzinano, hanno attinto alle intuizioni emotive romantiche, allo spiritualismo e persino alle congetture utopiche cui aveva dato voce Novalis. La “Giovine Europa”, che potrebbe anche fare caso a sé, nella sua venatura romantica e nella congettura di un’Europa dei popoli è debitrice dell’Europa cristiana. Scrive infatti Mazzini che il cristianesimo, “considerato nella sua sostanza, non nelle forme, [...] gittò le basi d’una universale giustizia; e creò quell’ardore d’insegnamento, quella predicazione del Vero, quello spirito proselitico, che acquistarono piú tardi tanti difensori della causa santa della umanità, e del diritto”.50 A dispetto dall’immagine pacifica che ama dare di sé, va detto che l’Europa cristiana non è stata da meno rispetto ad altre nel sostenere la competizione di tutti i nazionalismi contro tutti gli altri nel ritenersi campioni assoluti di europeismo. La stessa fede cattolica, europea e universale, ha poi conferito legittimità nazionale ai credenti che si combattevano, e talvolta si sparavano

46 Cardini, Le radici (nota 22) pp. 9 e 30; la tesi della sopraffazione dell’Europa cristiano-cattolica è tratta da C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, Hellerau 1923, ital: Cattolicesimo romano e forma politica, Milano 1986. 47 Per l’Inghilterra moderna si vedano le valutazioni di H. Schulze, Staat und Nation in der Europäischen Geschichte, München 1999, pp. 131-133, che cita, tra l’altro, l’idea della nazione inglese come popolo prediletto da dio espressa nel 1655 da O. Cromwell, Letters and Speeches, a cura di T. Carlyle, vol. 3, London 1857. 48 Per la Danimarca ottocentesca cfr. N. F. S. Grundtvig, Nordens Mytologi eller Udsigt over Eddalaeren for dannede Maend der ei selv ere Mytologer, København 1808, con Id., Vom wahren Christenthum, Leipzig, 1844. 49 L’autore individuava nella "ragione senza fede" della filosofia tedesca la causa principale della mancanza di un vero e proprio "spirito” rivoluzionario dei tedeschi; M. Mochnatzki, Über die Revolution in Deutschland, Dresden-Leipzig 1833, pp. 73-84. 50 G. Mazzini, D’una letteratura europea (1829), in: Id., Opere, vol.II (Scritti), a cura di L. Salvatorelli, Milano 1939, pp. 101-102.

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uccidendosi, gli uni contro gli altri sui due lati della barricata nazionale. Il Tirolo ne è soltanto uno degli esempi51. 5.3. L’Europa come unità nella diversità Le funzioni della terza Europa si sono già intraviste riferendo del concetto di equilibrio dell’inglese Burke. Quel suo concetto si basava a sua volta sull’idea dell’Europa come unità mediata di forme plurime. L’equilibrio come risultato di una negoziazione equa e razionale di interessi nazionali viene ricondotto, da Federico Chabod, al modello rinascimentale italiano e precisamente a Machiavelli52. Quest’idea non ha soltanto informato di sé la diplomazia europea fino a Versailles53, come illustra Chabod in un’altra opera forse non a caso risalente al 1951, ma ha appunto fornito una prospettiva alla reintegrazione europea dopo la seconda guerra mondiale: sia nella sua più “fredda” e “machiavellica” versione neo-funzionalistica54, sia nella versione “calda” e “idealista” di un tecnocrate come Walter Hallstein (presidente della commissione Cee tra il 1958 e il 1967). Hallstein sosterrà l’esistenza di una comunità europea “saldata dal destino, dalla memoria, dalla storia,” la quale tuttavia conserverà le differenze.55 Se l’idea dell’equilibrio sembrava debitrice dell’Europa classica in quanto gestione razionale e civilmente partecipata di un bene pubblico, il sottostante principio della libertà e dell’unità nella diversità viene ricondotto, nell’Ottocento - da Guizot e Sismondi - al Medio Evo cristiano56. Ancora più di recente anche Le Goff ha fatto risalire al Medio Evo cristiano un’Europa in nuce che, benché traesse linfa anche da una remota tradizione greca, sarebbe tuttavia edificata sul tramonto caotico dell’imperialismo accentratore romano.57 Vuoi che l’accento cada sulla sinergia 51 H. Heiss / T. Götz, Am Rand der Revolution. Tirol 1848/49, Wien 1998; R. Petri, Nordschleswig und Südtirol. ‚Heimat‘ im Kontext multipler Identitäten, in: Die Nationalisierung von Grenzen, a cura di M. G. Müller / R. Petri, Marburg 2002, pp. 161-197. 52 F. Chabod, Il principio dell’equilibrio nella storia d’Europa (1935), in: Id., Idea di Europa e politica dell’equilibrio, a cura di L. Azzolini, Bologna 1995, pp. 3-6, che riprende: G. Bonnot de Mably, Principes des négociations pour servir d’introduction au droit public de l’Europe fondé sur les traités, in: Id., Oeuvres completes, vol. 5, 1797, pp. 4-15; N. Machiavelli, Il principe (1513), in: Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, pp. 255-298. 53 F. Chabod, Nazione ed Europa nel pensiero dell’Ottocento (1951), in: Id, Idea (nota 52), pp. 259-283; H. Duchardt, Gleichgewicht der Kräfte, Convenance, Europäisches Konzert. Friedenskongresse und Friedensschlüsse vom Zeitalter Ludwigs XIV bis zum Wiener Kongreß, Darmstadt 1977, pp. 3-4. 54 Sul funzionalismo, cfr. B. Balassa, The Theory of Economic Integration, London 1961, pp. 3-15; H. von der Groeben / E.J. Mestäcker, Ziele und Methoden der Europäischen Integration, Frankfurt/M 1972, pp. 13-23; B. Bursig, Die Regionalpolitik der Europäischen Gemeinschaft unter besonderer Berücksichtigung integrationstheoretischer Überlegungen, Frankfurt/M 1991, pp. 43-48. 55 W. Hallstein, Die Europäische Gemeinschaft, Düsseldorf-Wien 1974, p. 12. 56 F.P.G. Guizot, Cours d'histoire moderne. Histoire générale de la civilisation en Europe depuis la chute de l'empire romain jusqu'à la révolution française, Paris 1828 ; J.L. Sismonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge, Paris 1809. 57 Cfr. Le Goff, Les traits originaux (nota 16).

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policentrica delle città medievali italiane, vuoi che venga invece messo sull’innesto che l’egualitarismo delle tribù germaniche avrebbe operato sul tronco del diritto romano, pure questa Europa delle forme plurime serve – come in Burke - a reclamare primati o a denunciare l’alterità del paese ostile vicino o di chiunque altro minacciasse di sovvertire l’equilibrio e con esso la libertà di ciascuno di rimanere identico a sé. 5.4 L’Europa liberale La quarta Europa, qui chiamata ‘liberale’, sembra in realtà un incrocio otto e novecentesco che in un certo senso equivale a una sintesi progressiva delle citazioni fatte fin qui. In origine essa riassume, in buona sostanza, le auto-rappresentazioni fortemente intinte di peculiarità personali, ideologiche e nazionali delle élite e delle idee politiche egemoni nell’Europa del secolo XIX. Tenendo presente tale eterogeneità – basti pensare a pensatori così diversi tra loro come Carlo Cattaneo, Friedrich List o Alexis de Tocqueville – si capisce quanto sia arduo volerne ricondurre il contenuto a un convincente denominatore comune. Altrettanto disagevole è distinguerla dalle altre modalità di discorrere dell’Europa, alle quali in effetti essa si rifà attraverso ampie citazioni di volta in volta diversamente combinate. A questo punto sorge il dubbio se abbia, o meno, un senso parlare di una ‘Europa liberale’. La risposta affermativa si motiva con la frequenza con cui, nel discorso politico, i due concetti vengono abbinati. Del resto, se ammettiamo che è proprio la polivalenza a designare l’Europa, perché dovremmo invece attenderci che ‘liberale’ debba significare la stessa cosa in Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Polonia e così via? Ma pur tra questi molteplici scarti di significato, l’‘Europa liberale’ sembra comunque rispecchiare una sorta di umore profondo dell’establishment ottocentesco. Le motivazioni, pretese e contraddizioni dell’‘Europa liberale’ possono forse essere esemplificate attraverso l’interpretazione che Benedetto Croce ne propone nella propria apologia del secolo diciannovesimo. Croce la riconduce a una “religione della libertà” fondata su realismo, etica e mito. Egli vede l’Europa come punta di una progressione a tappe dell’umanità da una concezione della libertà come privilegio, alla libertà come diritto naturale e infine attributo inalienabile della persona. L’Europa liberale è la risultante dell’intero percorso della civilizzazione, ma anche della speculazione filosofica romantica, almeno nella misura in cui giova alla rivalutazione dell’individuo, e al principio di storicità come principio di libertà che mette freno al razionalismo e meccanicismo cartesiano. L’Europa liberale è dunque moderazione democratica del radicalismo giacobino, è equilibrio e mediazione tra interessi, ed è pace con la propria storia cristiana. Deve però prendere le distanze dai romanticismi tedesco, russo e nordico che vagheggiano il ritorno al paganesimo e alla magia. Deve altresì diffidare dell’utilarismo astratto che domina il mondo a influenza

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britannica. Fuori, dunque, Russia e Inghilterra, sotto osservazione Nord e Mitteleuropa, restano nella più autentica Europa liberale i paesi latini o solo cattolici, con l’Italia che vanta – guarda caso – le coordinate migliori.58 L’Europa liberale ottocentesca, descritta da Croce in retrospettiva, è solo un esempio delle declinazioni nazionali sull’argomento. Qui dunque si ritrova, in forma più blanda, il richiamo alla missione civile dell’Europa e insieme il contrasto tra i presunti primati nazionali. A parte gli assiomi filosofici basilari condivisi dal liberalismo, l’‘Europa liberale’ di Croce è dunque rappresentativa non tanto di contenuti quanto di un metodo. 5.5. L’Europa pagana e anti-latina Vedendone già gli effetti di lungo periodo, non a caso Croce accenna alla quinta Europa, quella pagana e anti-latina, che forse in tema di Europa è stata la più originale, radicale e innovativa invenzione ottocentesca, sebbene in realtà anche le sue radici superano ampiamente l’epoca romantica per affondare nel pieno Settecento. Sicuramente, è questa l’Europa più importante ed efficace in termini di comunicazione letteraria, museale, pedagogica e simbolica, e quindi in quelli dell’indottrinamento, e della nazionalizzazione delle masse. Una delle sue radici settecentesche può essere fatta risalire al filosofo ginevrino Rousseau e alla sua idea di primordiale condizione naturale e preistorica dell'uomo.59 Un'altra può essere ricondotta all’idea di Herder60 e Fichte61 secondo cui vi è un’essenza culturale, uno ‘spirito’, insito in ogni popolo che trascende ogni mutamento storico, e che manifesta la propria autenticità nella mitologia, nella purezza della lingua e nella genuinità dei costumi. Riscoprendo nel passato barbaro e mitico i propri più intimi caratteri spirituali, e sviluppandoli, ogni popolo può contribuire al raggiungimento del fine ultimo della storia, che è il compimento e perfezionamento della piena ‘umanità’ universale. Con larga approssimazione qui si riscontra, se non l’Europa cristiana, quanto meno la teologia cristiana della redenzione convertita in teleologia storica della civilizzazione, la quale è diretta a redimere l’uomo attraverso il pieno sviluppo della natura umana, e senza per questo ricadere nello stato brado e incosciente primitivo. Con altrettanto larga approssimazione, l’Europa pagana è altresì debitrice di quella classica, in quanto la ‘riscoperta’ delle ‘originarie’ mitologie nordiche ed europee attraverso – vere o false – fonti medievali e popolari (canti, fiabe ecc.) imita le forme 58 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, pp. 7-19, 38-91. 59J.J. Rousseau, Discours sur les sciences et les arts. Lettre à d’Alembert. Préface de Narcisse (1752), Paris 1987. 60 Herder, Ideen (nota 31), vol. 6, pp. 792-794. 61 Per Fichte, coloro che sono soggetti alle stesse influenze che l’ambiente ha sull’evoluzione della lingua formano "un popolo"; Fichte, Reden (nota 44), p. 315.

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letterarie della mitologia classica, come per dimostrare che gli ‘antichi europei’ pagani fossero aedi non meno degni degli omologhi greci e romani, ai quali invece si richiama quella cultura francese settecentesca della cui schiacciante egemonia gli emergenti sentimenti nazionali si vorrebbero sbarazzare. Si intravedono qui, ed è questa al contempo una grande novità, gli elementi centrali per la fondazione etnica della Nazione, la quale si rivelerà essere l’arnese discorsivo più tagliente di tutti quelli finora menzionati. Questa Europa è una grande trovata, da cui discendono invenzioni poetiche, culturali, folcloristiche, museologiche e storiche della più vasta portata. Nello stimolo che ha dato, popolarizzandoli, alla letteratura, alla poesia, al folklore, ai musei, all’archeologia, all’etnografia, alla storiografia dilettante e professionale - e attraverso tutto ciò, alla Nazione - questa ‘Europa antica’ non è seconda a nessun‘altra. È attraverso di essa che la Nazione si riconduce al popolo nel doppio senso della parola: come a un ente che conserva la condizione primitiva e naturale dell’uomo attraverso i legami comunitari di lingua e di sangue, e come a un programma di sovranità popolare che aspira a ritornare alla primordiale convivenza egalitaria. Cosa vi è, in tutto questo, di europeo? Non soltanto l’idea della superiorità climatico-biologica e/o culturale della razza o civiltà europea, soprattutto nella sua espressione nordica, ma poi anche gallica, italica, slava e così via. Né soltanto il riferimento allo spazio europeo e indoeuropeo come teatro comune delle migrazioni tribali. Si tratta soprattutto di un vero e proprio programma di scavi archeologici attraverso cui ‘i popoli’ europei si rendono eterni ritrovando sotto gli strati del sedimento che nella storia hanno lasciato le epoche classica e cristiana la loro vera essenza nonché l’istinto e la religione della patria terra.62 Questo programma si diffonde, poi, via trasferimenti culturali transnazionali più o meno mirati, come ha mostrato Anne Marie Thiesse. Il culto gaelico, attraverso cui James Mcpherson trasforma la Scozia da paese annesso alla corona in un luogo primordiale di vera britannicità, ben presto attraversa la Manica. Per darsela meglio addosso a vicenda, insomma, la clava celtica passa di mano, ora nella versione originale ora nel ritrovamento di origini germaniche, vichinghe, illiriche e così via, creando un vero e proprio circuito etnologico europeo.63 La stessa Italia, paese latino per eccellenza, non riesce a fare a meno della rivalutazione, anche in chiave pre- o anti-latina, delle origini etrusche, sabine, picene e così via.64 In tal modo l’Europa etnografica precede, inventa e plasma l’Europa etnica. 62 J. Michelet, Le peuple, Paris 21826, citato dalla traduzione tedesca: Das Volk, Nordhausen 1846, pp. 216-221. 63 Thiesse, La creazione (nota 37), pp. 19-62. 64 S. Troilo, Il patrimonio storico-artistico e l’identità locale nell’Italia liberale (1861-1911), manoscritto per la sessione ‘Le identità locali nella storia d’Italia’ dell’incontro SISSCO, ‘Cantieri di Storia’, 20.09.2001, p. 4.

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5.6. La Nuova Europa contadina Con le cinque precedenti sono state menzionate le modulazioni più importanti e frequentate del discorso culturale e politico sull’Europa. Se ne potrebbero formare sottogruppi e derivazioni varie, ad esempio la Giovine Europa, l’Europa giacobina, oppure il nascente internazionalismo del movimento proletario, che come tradisce la stessa denominazione fa ancora passare la liberazione dell’uomo attraverso un accordo tra nazioni (europee). Anche il confronto paradigmatico tra Europa dell’ovest ed Europa dell’est, a cui è in genere sovrapposto il declivio tra progresso e arretratezza, oppure la relazione tanto intima quanto indefinibile tra ‘Europa’ e ‘Occidente’, potrebbero dar luogo a dissertazioni separate, a cui qui si rinuncia perché comunque pervadono, con costanza, tutti gli altri discorsi sull’Europa. Le variazioni possibili, del resto, tendono all’infinito, e quindi occorre semplificare raggruppando, se non altro per ragioni pragmatiche. Preme tuttavia segnalare, distinguendola, una sesta categoria, che ha avuto un certo seguito soprattutto nel mondo slavo e che è stata chiamata Nuova Europa contadina. È un esempio dei trasferimenti più o meno consapevoli di cui si è già fatto menzione. Discende dall’Europa pagana e anti-latina, secondo cui natura, ruralità e istinto contadino al meglio esprimono lo spirito autentico di un popolo. Uno dei tanti che lo sostengono è Jules Michelet.65 Era stato del resto Herder a esortare gli slavi, in quanto popolo contadino troppo sommesso e pacifico, a ridestarsi per regalare il loro prezioso contributo di umanità alla rinascita dell’Europa.66 Esortazione, questa, accolta ampiamente fino a fondersi completamente nell’immaginario di molte collettività slave. Ad esempio, in quella polacca immaginata in termini anti-inglesi e insieme anti-russi del Lud Polski.67 Fa parte anche dell’armamentario anti europeo della slavofilìa russa, in cui quell’‘anti’ è in realtà da intendersi come affermazione dialettica. Gli slavofili come Dostojewski contrappongono la rozzezza commovente e ingenua del contadino al degrado identitario di una inteligencija corrotta ed europeizzata68. Compiendo questo passo, le polemiche anti-europee degli slavofili russi si inscrivono in realtà nei canoni interpretativi tipicamente europei del momento, nonché in una prassi discorsiva altrettanto tipicamente europea, che vive di molteplici trasferimenti così detti ‘inter-culturali’. Non fanno infatti altro che adattare al proprio caso il modello di Herder, Michelet, Nicolai Grundtwig, Walter Scott, e molti altri. 5.7. Europa e nazione: un bilancio provvisorio del secolo XIX 65 Michelet, Das Volk (nota 62), pp. 117-210. 66 Herder, Ideen (nota 31), pp. 696-699. 67 Gli inglesi avrebbero perduto il senso della comunità, mentre l‘Asia minaccerebbe la fratellanza europea con un’alleanza tra islamismo e barbarie russa: H. Temkinowa, Lud Polski. Wybor dokumentow, Warzawa 1957, pp. 107-128, 332-351. 68 F.M. Dostojewski, Vom russischen Volk (1872), in: Id., Politische Schriften (nota 42), pp. 147-159.

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Tutte le Europe testé elencate sono in lotta l’una con l’altra sia su un fronte orizzontale, come istanze simboliche contrapposte tra vari gruppi sociali, sia in verticale, come ricopiature legittimanti di un nazionalismo contro l’altro. Al contempo, tutte si mischiano, si sovrappongono, si fecondano, citandosi a vicenda. Non sembra possibile alcun discorso autarchico, poiché sempre spunta, come arbitro, mito e talvolta minaccia, il fantasma europeo. Questo vale per tutti, sebbene l’importanza e la centralità del discorso sull’Europa cambino di tempo in tempo e di luogo in luogo. La prospettiva globale della potenza mondiale britannica, e quella atlantica dei paesi della penisola iberica, ad esempio, ben si discostano dal focalizzarsi del discorso nazionale francese e tedesco sul tema europeo. Altrettanto cambiano, in relazione a tempo e circostanze, gli accenti messi sul dover o voler essere dentro o fuori. Queste ben rimarchevoli differenze, che qui si sono dovute sacrificare all’abbozzo delle grandi linee69, non sembrano comunque mai sconfinare in una effettiva indifferenza né in una totale perdita di significato di ‘Europa’. Il disprezzo ostentato, l’opposizione appassionata, la profonda delusione e altre espressioni forti di ‘protesta contro l’Europa’ sembrano al contrario testimoniare di un notevole grado di identificazione a emotività negativa, come è tipica di un rapporto filiale infelice e compromesso. Per Michelet, ad esempio, la Francia all’Europa ingrata ha dato il sangue e la ricchezza, ed è chiamata a dare finanche la propria anima. L’autore sottolinea dunque la minaccia europea all’identità francese, salvo poi sostenere, solo poche righe più in là, che senza l’anima francese l’Europa non esisterebbe e sarebbe a sua volta perduta.70 Tale, ambiguo, gioco di identificazione e repulsione, rinvenibile in mille circostanze politiche e pubblicistiche, è rimasto sino ad oggi un sostrato retorico fondamentale nella definizione del rapporto tra nazione ed Europa.71 E non si dica che il rapporto filale venga qui invocato a invano, troppo spesso, infatti, l’Europa è tirata in ballo quale arbitro che deve premiare i buoni e cacciare i cattivi dal cortile di casa. Si domanda Mochnatzki se “la Polonia potrà mai tornare ad esistere senza che la Russia sia espulsa dall’Europa?”.72 Un dubbio retorico che Victor Hugo scioglie volentieri e in modo brutale, dicendo che dall’Europa “saranno escluse l’Inghilterra e la Russia. L’Inghilterra verrà ricacciata negli oceani: la Russia tartarica nelle steppe”.73 E mentre Dostojewski constata come i popoli slavi minori respingano la Madre Russia nell’infamia della barbarie asiatica onde meglio 69 Qui occorre un altro rimando a Malmborg / Stråth, The National Meanings of Europe (nota 6), che discutono le somiglianze e le differenze nazionali dei discorsi sull’Europa. 70 Michelet, Das Volk (nota 62), pp. 214-215. 71 Di per sé, non si tratta comunque di una peculiarità ‘europea’; il “’bilico’ difficile, forse impossibile, tra identità e alterità”, appare piuttosto come una costante di tutti i processi di identificazione; Remotti, Contro l’identità (nota 10), p. 69. 72 Mochnatzki, Über die Revolution (nota 49), p. 62. 73 Citato in forma di aforisma sotto il titolo Visione europea e l’indicazione dell’anno 1842 in: "Giovane Europa" 6 (1942), p. 3.

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distinguersi come ‘popoli civili’ all’occhio di un’Europa vista come dispensatrice di lauti finanziamenti, lo scrittore sente ugualmente il bisogno di veder riconosciuto il ruolo della Russia quale sentinella anti-asiatica74. Lo stesso discorso ‘anti-europeo’ degli slavofili è, insomma, rivolto al salotto parigino più che alle baite disperse nella steppa. Fa parte di questo bilancio provvisorio interrogarsi, dal punto di vista odierno, sul grado di maturazione dei discorsi sull’Europa rinvenibili nell’Ottocento. Ebbene, pare proprio che, nonostante l’assetto istituzionale e geopolitico sia oggi radicalmente mutato, si viva ancora, almeno sotto il profilo della costruzione retorica dell’Europa, nell’era inaugurata tra Sette e Ottocento. Non è difficile ritrovare le figure retoriche e le immagini ottocentesche sopra accennate nel linguaggio politico odierno - almeno facendo la tara delle loro infinite variazioni e degli adattamenti del caso. Si pensi solo alle recenti guerre contro la Serbia, alla rappresentazione di quel paese in termini di dispotismo, corruttela e familismo, e alla figurazione opposta della parte serba secondo cui la battaglia di Kosovo Polje “di seicento anni fa servì allora a salvare l’Europa, prima che a proteggere la Serbia dai turchi”.75 Si pensi alle retoriche ostentate in occasioni come la creazione dell’Unione monetaria e la scrittura di una ‘costituzione’ europea, i conflitti d’interesse tra Russia e Nato, e la ‘guerra contro il terrorismo’ copiosamente alimentata dal ritorno a un’immagine tra le più scontate dell’Oriente, e più in generale a un atteggiamento per certi versi sempre più apertamente neo-coloniale che si codifica, come già quello coloniale ottocentesco, attraverso la ‘responsabilità’ a cui l’Europa non si può sottrarre se vuole, come deve in quanto Europa, salvare l’umanità. Senza voler negare il valore intrinseco e di novità rappresentato da tutti questi, e altri consimili, avvenimenti, si potrà sostenere a ragion veduta come i discorsi sull’Europa, in questo inizio di secolo XXI, si nutrano ancora da un menù preparato con gli stessi ingredienti base già in uso nel secolo XIX. E se davvero nell’Europa di oggi sopravvive quella dell’Ottocento, allora sorge il sospetto che un altro grande racconto europeo sia altrettanto degno di qualche rivisitazione. Il discorso a cui si fa riferimento è quello secondo cui, dopo il 1945, sia stata l’Europa a salvare i suoi cittadini, oltre che dai tartari rossi, dal nazionalismo esasperato. Non che lo si voglia qui negare, bensì sottolineare come, storicamente, questa sia soltanto la mezza trama della storia. È certo fuori discussione che negli ultimi cinquant’anni il lavoro politico attorno alle istituzioni sopranazionali europee (occidentali) ha notevolmente contribuito, insieme ad altri fattori politici, economici e strategici, a mantenere la pace tra gli stati aderenti e nel continente, nonché ad attutire e trasformare in negoziato, compromesso e procedura consenziente e codificata, i molteplici conflitti tra gli interessi nazionali in gioco. In questo, l’Unione europea ha

74 F.M. Dostojewski, Zur Orientfrage (1877), in: Id., Politische Schriften (nota 42), pp. 461-463; nonché Id., Foma Daniloff, der zu Tode gemarterte russische Held (1877), in: ivi, p. 222. 75 V. Pellizzari, Milosevic denuncia le ‘bugie della Nato’, in: “Il Messaggero” 124 (2002), 44 (15.02.2002), p. 9.

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già ampiamente superato l’ordine di pace della Restaurazione stabilito a Vienna, fondato sulla logica di grande potenza ma pur tuttavia efficace prima di soccombere, dopo non meno di quattro decenni, nelle paludi della Crimea. Ma tale risultato, tanto più inaudito e notevole quanto meno fosse scontato, non autorizza a dimenticare l’altra metà della storia, né a rappresentare l’Unione europea e le sue forme precedenti come una vera catarsi dalla “smisurata esaltazione della politica nazionalista durante la Seconda guerra mondiale”,76 e ultimo atto di una lunga lotta tra i buoni europeisti e la loro visione di una ‘Europa unità’ da una parte, e i cattivi nazionalisti che, dall’altra, con i loro egoismi e particolarismi hanno da due o trecento anni tentato di frapporre ostacoli all’inevitabile corso della storia. Quella tra nazione e Europa non è stata in realtà un’inconciliabile contrapposizione, ma una vicendevole affermazione dialettica. Specie nell’Ottocento per le nazioni emergenti l’Europa ha costituito un richiamo in apparenza ineluttabile. Tutti i nazionalismi, e in specie quelli più esaltati, hanno reclamato a sé il merito di rappresentare l’Europa più autentica. Ed è proprio per questo che già nell’Ottocento l’Europa non è più una chimera77. Le varie Europe suddette non sono, infatti, soltanto il risultato di invenzioni più o meno originali, più o meno veritiere, ma anche e soprattutto di molteplici trasferimenti culturali. Lo si vede, in particolare, nell’amore-odio e nel rispetto-disprezzo che legano società e intellettuali tedeschi e francesi per un secolo e mezzo. Un’invettiva di Hugo contro i tedeschi si trova tradotta un mese dopo da qualche editore di Lipsia, un’invettiva anti-francese dell’ultimo Richard Wagner si legge il giorno dopo sui giornali di Parigi, e l’arrabbiata risposta degli intellettuali francesi all’indomani sulla stampa di Berlino. Persino la sanguinosa Prima guerra mondiale, con il suo strascico interminabile di reciproci attestati retorici di eroismo patriottico, come se questo fosse traducibile in postumo amore di pace perpetua, appare come il culmine sinistro di tale ambiguità. La lotta dei nazionalismi crea e ricrea dunque l’Europa, e non la distrugge. L’Europa è condivisa anche in quanto divisa. Non è solo stata generata da equilibrio, cooperazione e compensazione di interessi, ma altrettanto da competizione, lotta e guerra. Tutto ciò ha generato (con)divisione, compartecipazione e soprattutto comunicazione. L’Europa è stata, già nell’Ottocento, più di ogni altra cosa una ‘sfera pubblica’. È un grande circuito di comunicazione in cui si stringono le mani, s’incrociano le armi, e si rubano le citazioni. 6. L’Europa e le ‘guerre civili europee’ del Novecento

76 Hallstein, Die Europäische Gemeinschaft (nota 55), p. 15. 77 Il timore che l’immagine dell’Europa venga accostata a quella di una chimera, espresso da W. Burgdorf, ‘Chimäre Europa’. Antieuropäische Diskurse in Deutschland (1648-1999), Bochum 1999, non si adatta certo al presente saggio.

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Parlando di Ottocento, si è detto già molto anche del Novecento: è questa una delle tesi di questo saggio. È tuttavia ovvio che molto altro ci sarebbe da aggiungere. Nella politica europea, dopo il 1950 si sono create strutture e istituzioni nuove che non conoscevano precedenti. E che, tuttavia, non sono il soggetto del presente scritto. Il soggetto è l’insieme dei discorsi sull’Europa, a cui i costruttori di quelle istituzioni hanno attinto per promuovere l’integrazione dell’area europea (occidentale). Non possono, come talvolta fanno, reclamare a sé il monopolio di citazione, poiché allo stesso insieme si erano già in precedenza ispirati, e se ne sono via via serviti, le diplomazie d’inizio secolo, le parti nella Grande guerra, la Società delle nazioni, i federalisti europei, le parti nella Seconda guerra mondiale e in genere i protagonisti delle varie ‘guerre civili europee’. Se, per scopi analitici, si estrapolano dal contesto le varie affermazioni che i più diversi e antagonisti attori delle vicende novecentesche hanno proferito sul conto dell’Europa, la continuità di un Ottocento lunghissimo e per molti versi non ancora finito emerge con estrema chiarezza. Scrisse, nell’immediatezza degli eventi drammatici del 1942 il confinato politico Altiero Spinelli che “l’apparire e il giganteggiare dell’atteggiamento razzista” dovesse sembrare assurdo a un “ingenuo europeo che, senza pensarci troppo, aveva creduto che la civiltà del secolo XIX fosse la forma, per così dire, naturale e spontanea in cui si esplica l’attività umana”.78 Non gli sembrava evidentemente interessante rilevare nella circostanza data in quale alta misura per la civiltà europea del secolo XIX l’alterigia culturale e razzista nei confronti di popolazioni ‘altre’ e civiltà ‘arretrate’, fosse, specie nelle colonie, consuetudine tutt’altro che ingenua, ma quotidiana. Lo scandalo risiedeva, pare, nell’inusitato atteggiamento razzista tra europei. La drammatica esperienza di guerra, persecuzione politica e genocidio di cui era testimone e anche vittima lo stesso Spinelli, si inseriva in quello che ormai è uso chiamare il ‘secolo dei totalitarismi’, onde marcarne la diversità. Totalitarismi, questi, alla cui reciproca inconciliabilità sarebbe da ricondurre, secondo Ernst Nolte, una vera e propria “guerra civile europea”, poi culminata nella Seconda guerra mondiale.79 Ma le motivazioni ideologiche di tale guerra si inserivano nel canone più tradizionale del confronto europeo con l’Est, e questo, dopo il 1945, creava un certo imbarazzo. A tanti protagonisti, testimoni e osservatori il razzismo europeo contro europei poteva rendere meno agevole l’uso di giustapposizioni come quelle tra civiltà e barbarie, illuminismo e oscurantismo, progresso e arretratezza, che erano pur così

78 A. Spinelli, Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, in: A. Spinelli / E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Napoli 1982, pp. 47-94, qui p. 48. 79 E. Nolte, Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nazionalsozialismus und Bolschewismus, Berlin 1987. La figura retorica è stata usata dagli stessi fascismo e nazionalsocialismo per designare la seconda guerra mondiale, e in tale accezione è stata ripresa nel dopoguerra, ad esempio da De Gasperi, che parlò di “funesta eredità di guerre civili”; A. De Gasperi, Discorso pronunziato dinanzi all’assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo il 10 dicembre 1951, in: Id., Per l’Europa. Tre discorsi, Roma 1952, pp. 5-9, qui 5.

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ben addestrati a considerare innocenti. Quindi si trattava di distinguere la ‘vera civiltà’ dall’esperienza nazista, de-occidentalizzandola. In tal modo sene potevano riciclare i paradigmi da guerra contro i barbari, tanto profondamente radicati nell’immaginario quanto utili nella guerra fredda; e far apparire come interrotta una continuità di discorsi sull’Europa che in realtà non ha conosciuto soluzione. 6.1. Civiltà occidentale e minacce dall’Est La stessa idea di ‘guerra civile europea’, l’idea di un confronto tra gli appartenenti a una stessa Civitas, non è stata un’invenzione della storiografia recente. La rievocazione di una comune civiltà che andava difesa da nemici che la volevano distruggere dall’interno, e fiaccarne carattere, integrità e missione storica, è rinvenibile sin dall’epoca della Rivoluzione francese. “Tutta l’Europa attualmente si può considerare come divisa in due sette. Nazioni intere appartengono o all’una o all’altra”,80 scrisse Vincenzo Cuoco nel bel mezzo delle guerre napoleoniche. La rivoluzione del 1848 fu un altro momento unificante per divisione che, di fatto, creò una sfera pubblica europea; e anche il Kulturkampf della seconda metà dell’Ottocento, il quale, similmente a tutto il processo di secolarizzazione, era vissuto, quanto meno dalla Chiesa cattolica, come una guerra per le radici dell’Europa. A questa spaccatura ‘orizzontale’, si aggiunse quella verticale, tra Est e Ovest. ‘Est’ (‘Oriente’, ‘Levante’) è sempre stata una categoria malleabile e polifunzionale, adattabile di volta in volta all’Impero ottomano, agli unni, al mondo slavo in generale, all’islam, ai Balcani, al comunismo e alla così detta anima profonda della Russia. “Se un giorno la Russia dovesse predominare […] credete voi che poi la cultura, quale noi la intendiamo, continuerebbe ad esercitare la sua forza incontrastata e che ci sarebbe ancora una speranza per la libertà che noi prepariamo ai nostri figli?” Fu questa la domanda che Cesare Correnti pose più di cento anni prima della Guerra fredda. 81 Richard Nicolas von Coudenhove-Kalergi, nel 1922 autore dell’appello per Paneuropa che alla fine dello stesso decennio ispirò Aristide Briand nella proposta di un régime d'union fédérale européenne, è insignito nel 1950 del primo Premio internazionale Carlo Magno di Aquisgrana. È una cerimonia che quasi equivale a un rito di santificazione, divenendo il conte austriaco infatti elevato a una sorta di padre spirituale dell’Europa secondo i canoni della storia ufficiale delle Comunità europee. Ancora nel 1930 aveva ritenuto che, stante la collaudata fede anti-bolscevica, il gruppo intorno ad Asvero Gravelli, un esponente vicino a Mussolini, rappresentasse

80 V. Cuoco, La Rivoluzione francese e l’Europa, citato da I. Tognarini, Giacobinismo, rivoluzione, Risorgimento. Una messa a punto storiografica, Firenze 1977, p. 15. 81 Citato come aforisma sotto il titolo: La minaccia russa, in: Giovane Europa 3 (1943), p. 51.

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“l’ala fascista del movimento paneuropeo”.82 Lasciato Vienna dopo l’annessione al Terzo Reich, prese durante la Seconda guerra mondiale, insieme ad altri esponenti del federalismo europeo, una chiara posizione anti-nazista. Una volta sconfitto l’odio razzista – era questa la sua speranza - l’Europa si sarebbe finalmente potuta riconciliare e unire. Ma unirsi entro quali confini, e a quali condizioni? Anche Spinelli, in prigionia, si poneva questa domanda, per rispondere che in “Russia sviluppare il tema dell’unità europea significa far compiere al popolo russo un altro passo verso la sfera della civiltà europea [...] Ma significa anche la necessità di smontare buona parte del sistema economico creato”.83 Detto altrimenti, secondo Spinelli il carattere bifronte della Russia, combattuta tra dispotismo asiatico e libertà europea, e tra progresso e arretratezza economica, a meno di cambiamenti radicali l’avrebbe per il momento esclusa dal processo di unificazione. E come la pensavano, su questo punto, i suoi aguzzini e loro amici? Aborrivano, con una chiarezza che non necessitava riguardi per alcun alleato politico, la barbarie, l’arretratezza e il dispotismo asiatico della Russia. Sotto il titolo “La fine della guerra civile europea” venne scritto nel 1942 che la “ragione per cui noi prendiamo parte a questa travolgente marcia contro la Russia Sovietica è perché l’Europa è per noi un concetto sacro e santificato”.84 Già nel 1937 Adolf Hitler aveva sottolineato che il bolscevismo è “la più grande minaccia per la cultura e la civiltà umana”, poiché “in fondo la Russia odierna è la Russia di 200 o 300 anni fa”. Secondo il Führer, la “nostra Europa” doveva restituire “il dominio al vero popolo russo”, oppresso com’era da “una dittatura brutale” e “terrorista”.85 Un tempo erano stati i mongoli o tartari, ora era ‘l’Ebreo’ e, quindi, a ogni modo il dispotismo orientale,86 a impedire che gli slavi si potessero affrancare come aveva chiesto Herder, e che la Russia potesse uscire dall’arretratezza per rientrare in una dimensione europea. All’inizio del 1943, dopo la svolta di Stalingrado, Joseph Goebbels, paventando la minaccia di un “bolscevizzamento dell’Europa”, incitava un auditorio estasiato alla ‘guerra totale’ con le seguenti parole: “L’assalto della steppa si manifesta davanti ai nostri fronti e l’attacco dell’Oriente, che divampa contro le nostre linee in misura che cresce giorno 82 R.N. von Coudenhove-Kalergi, Antieuropa, Paneuropa 6 (1930) Heft 3, pp. 91-95, qui 94-95; cfr. S. Eleuteri, Europäische Einheitsbewegungen zwischen den zwei Weltkriegen. Coudenhove-Kalergis ‚Paneuropa‘ und das faschistische ‚Antieuropa‘, Vorstellung eines Dissertationsprojekts, München 2002, p. 4. 83 Spinelli, Gli Stati Uniti (nota 78), p. 73. 84 "Giovane Europa" 1-2 (1942), p. 69. 85 [A. Hitler], Reden des Führers am Parteitag der Arbeit 1937, München 1937, pp. 88-89. 86 Che per l’autore l’antisemitismo si fondesse su di una precisa associazione degli ebrei all’Oriente, si può leggere in A. Hitler, Mein Kampf, München 1936: “Una volta mentre passeggiavo in centro [di Vienna], ad un tratto mi imbattei in un tale con un lungo caffettano e neri ricci in testa. Anche questo è un ebreo? fu questo il mio primo pensiero. A Linz, in effetti, avevano un aspetto diverso” (p. 59). Hitler in sostanza spiega come solo la visione del Kaftanjude, dell’ebreo orientale, gli aprisse gli occhi sul vero carattere di quella ‘razza’. Un declivio gerarchico tra Ovest ed Est si ravvisa persino nel trattamento degli ebrei ghettizzati a seconda della provenienza geografica e nazionale da parte degli aguzzini nazisti, ma anche nel comportamento vicendevole degli ebrei imprigionati stessi; G. Corni, I ghetti di Hitler. Voci da una società sotto assedio, Bologna 2001, pp. 51, 97, 190.

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per giorno, non è altro che il tentativo ripetuto delle storiche distruzioni, che già in passato così spesso hanno messo in pericolo il nostro continente. […] L’Occidente è in pericolo. [...] Tutto il lavoro millenario dell’Uomo occidentale è in pericolo”.87 Sconfitti il nazismo e il suo razzismo antisemita, la ‘coscienza europea’ circa l’esistenza di una minaccia orientale si faceva ulteriormente strada. “Il mondo europeo si vide minacciato da forze politiche orientali, il cui obiettivo era la distruzione del modo di vita europeo”, scrive Walter Hallstein in riferimento alla politica estera sovietica.88 Nel 1952, un altro ‘padre fondatore dell’Europa’, Alcide De Gasperi, alla cerimonia di conferimento del premio Carlo Magno di cui anch’egli viene insignito ad Acquisgrana, sottolinea la necessità della Nato da uno specifico punto di vista europeo, in quanto si tratta di respingere, insieme con l’America, una “minaccia comune” proveniente da est, che mina “il nostro patrimonio di civiltà comune e di esperienze secolari”.89 Il Patto Atlantico è necessario, dice in altra occasione, poiché “se è vero che abbraccia gran parte del mondo, non è meno vero che in questo mondo l’Europa custodisce le fonti più antiche e le tradizioni più alte della civiltà”.90 Similmente, il ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, quando nel maggio 1950 lancia la sua storica proposta di creare una comunità del carbone e dell’acciaio, inizia dicendo che “la pace nel mondo non può essere preservata senza uno sforzo creativo che sia all’altezza della minaccia. È irrinunciabile per il mantenimento di relazioni pacifiche il contributo che un’Europa organizzata e viva può dare alla civilizzazione”.91 Il nocciolo di tanti discorsi è che “la guerra viene sempre dall’Est”.92 Dal 1989 il pericolo russo sembra, almeno per il momento, smorzato. Ma comunque sia, l’Est è tale e quale, e tale e quale rimane. Nuovi pericoli e nuove sfide incombono, ad esempio nella interminabile ‘questione balcanica’ scoppiata negli anni 1990. Ancora una volta “lo spazio multi-etnico dell’Europa sud-orientale” pone l’alternativa tra una “civilizzazione dei Balcani e una balcanizzazione dell’Europa”. Non riesce difficile a un ‘europeo convinto’ scegliere tra queste due l’opzione giusta, ma gli conviene, consiglia il politologo Theisen, superare ogni “ingenuità romantica e

87 [J. Goebbels], Berlin, Sportpalast, Kundgebung des Gaues Berlin der NSDAP, in: Goebbels Reden 1932-1945, a cura di H. Heiber, Bindlach 1991, pp. 172-208, qui 177-179, traduzione in: J. Goebbels, All’Europa. Dal discorso pronunciato al Palazzo dello Sport di Berlino, in: "Giovane Europa" 4 (1943), p. 11-14. 88 Hallstein, Die Europäische Gemeinschaft (nota 55), p. 15. 89 A. De Gasperi, Discorso pronunziato il 25 settembre 1952 nella sala imperiale del comune di Acquisgrana in occasione del conferimento all’on. De Gasperi del Premio "Carlo Magno" per l’Europa, in: Id., Per l’Europa (nota 79), pp. 19-22, qui 20. 90 De Gasperi, Discorso pronunziato dinanzi all’assemblea del Consiglio d’Europa (nota 79), p. 6. 91 Tradotto da Eine große Idee wird Wirklichkeit: Europa. Festschrift zum zehnten Jahrestag der Erklärung Robert Schumans, s.ind. edit., s. ind. luogo, 1960, p. 9. 92 M. Bassi, La guerra viene sempre dall’Est, Milano 1950; in questo testo si può leggere: “Ci troviamo ora nella tragica situazione di dover affrontare un colosso pericolosissimo, la Russia; e non la Russia zarista, che sapeva abilmente verniciare di una tinta occidentalizzata le sostanziali forme rudi delle sue genti primitive, ma la vera Russia, quale è nella sua essenza” (pp. 11-12).

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illusione” sulle cose da fare. “Non è facile entrare in dialogo con coloro che pretendono di possedere la verità assoluta e anche una superiorità morale, poiché non sono avvezzi allo scettico e razionale relativismo rispetto al proprio punto di vista”. A elementi che tanto si ostinano a non voler cogliere l’essenza del pensiero critico, occorre dunque chiarire con un monologo perentorio che non ci può essere alternativa alcuna alla “accettazione dell’identità europea”. L’Europa può accogliere soltanto coloro che “sono pronti ad adeguarsi alla cultura europea di riferimento. L’Europa è multi-etnica, ma non è multi-culturale. Non ci può esistere una coesistenza paritaria tra culture diverse”. Più in generale, qui e nel processo di allargamento dell’Unione europea, non si tratta tanto di ottenere un “adattamento formale” quanto “processi di apprendimento culturale” e una “acculturazione identificativa”.93 Che il processo di apprendimento produca frutti, pare di poterlo riconoscere anche nella primavera 2003, quando la maggioranza dei governi della ‘Nuova Europa’ entrata nella Nato dà il proprio sostegno alla campagna militare anglo-americana in Medio Oriente. Sostegno, questo, che verrà ricompensato dalla protezione militare e politica contro il dispotismo asiatico, il terrorismo islamico e orientale, e la sempre perniciosa e incorreggibile Russia. Di fronte a questi e altri, consimili, discorsi verrebbe quasi la tentazione di tracciare una linea diretta dalle tragedie di Eschilo al secolo ventunesimo: i mutevoli confini d’Europa, che secondo Condorcet delineano le frontiere del progresso umano, sono costantemente viste come minacciati da dispotismo e barbarie orientali. Ciò vale indipendentemente dalle maschere dietro le quali la Canaglia si mimetizza, fosse essa quella di persiani, unni, mongoli, tartari, arabi, ottomani, autocratici zar, bolscevichi, ebrei, islamici o altri. Come ha notato Edward Said, l’idea di Oriente ha sommamente contribuito a impregnare di sé, per giustapposizione, l’immagine, il carattere e l’esperienza dell’Europa.94 Anche l’idea d’Europa comprende, dunque, una (di)visione manichea del mondo, di quelle che paiono irrinunciabili alle ideologie e alle religioni, politiche o meno, che intendano resistere al mutare dei tempi. 6.2. L’unificazione delle diversità Contrastando l’auto-immagine dell’Europa con quella dell’Oriente, oppure, soltanto, quella della ‘vera’ Europa con le rappresentazioni dell’Est europeo (Russia, Balcani e, alla bisogna, altre aree: l’Est è elastico), si è fatto dunque emergere l’identità e l’unità culturale del continente. Eppure, “le differenze rimangono. Anzi, devono rimanere. L’Europa non deve diventare un crogiolo. L’Europa è varietà. Noi

93 Tutte le citazioni sono tratte da di H. Theisen, Zivilisierung von Kulturen. Zu einer notwendigen Selbstreflexion Europas, Die politische Meinung 47 (2002) n. 388, pp. 22-28, qui 25 und 27-28. 94 Said, Orientalismo (nota 7), pp. 11-18.

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vogliamo conservare la ricchezza e la differenza dei caratteri, degli indoli, delle credenze, dei costumi, delle usanze, dei gusti”.95 Dopo il 1950 all’interno dell’Europa – di quella ‘vera’, latino-germanica, cattolica e protestante – le relazioni tra gli Stati hanno subito un mutamento fondamentale. Ormai si basano su stabili accordi istituzionali, che includono una graduale rinuncia all’esercizio della sovranità nazionale nell’interesse comune. Come già ricordato, secondo la lettura ufficiale ciò è dovuto al fatto che si volevano trarre insegnamenti dalla catastrofica guerra mondiale, frutto di un nazionalismo estremamente esagitato. Per ora, la speranza di Spinelli e altri federalisti di poter superare la suddivisione del continente in Stati nazionali non si è tuttavia realizzata. Nelle visioni nazionali, che ancora dominano la dimensione degli interessi e dell’organizzazione del consenso politico, l’Europa rimane fondamentalmente quella che era stata ai tempi di Michelet, ovvero speranza e al contempo minaccia, oggetto di identificazione e insieme di ripulsa ed estraneità. Ripiegando sul concetto della ‘unità nella diversità’ l’idea federale, o confederale, dei vari Coudenhove-Kalergi e Briand, non aveva del resto prescritto in modo perentorio il superamento dello Stato-nazione. L’Europa ha legittimato lo Stato nazionale, e per ora continua a farlo. Tale legittimazione non ha soltanto un carattere simbolico. Alan Milward ha interpretato la costruzione di enti soprannazionali quali la Comunità del carbone dell’acciaio (Ceca) e la Comunità economica europea (Cee) non come superamento dello Stato-nazione, ma al contrario come un modo per preservarlo da un delegittimazione strisciante, agevolando attraverso l’integrazione dei mercati la crescita economica, e attraverso questa le proprie funzioni di Welfare State. L’Europa, dunque, serviva a mettere il contratto sociale su nuove basi politiche.96 Il processo di integrazione sarebbe, dunque, stato non tanto una risposta idealistica all’esasperazione nazionalista precedente, quanto una sobria messa in conto delle debolezze politiche che derivavano allo Stato nazione dall’esperienza delle popolazioni europee dopo la grande crisi e durante la guerra. In quel frangente, infatti, molti Stati nazionali, vuoi per l’impellente minaccia e gli attacchi aerei distruttivi, vuoi per le traumatiche occupazioni militari, vuoi per le divisioni territoriali di cui esse spesso si accompagnavano, vuoi infine per le sconfitte subite, erano stati quasi tutti messi in forse nella loro esistenza. Forse per la prima volta dall’emergere della nazione moderna avevano in modo così generale perso il nimbo di eternità. Per recuperare la fiducia dei cittadini dovevano fare, un’altra volta - attraverso modalità istituzionali e politiche comunque inedite - ricorso all’Europa. Negoziazione razionale ed equa compensazione degli interessi nazionali hanno per decenni regalato alla parte occidentale del continente economie in espansione, mercati integrati, prosperità e soprattutto pace. E tuttavia, ancora una volta sul piano dei discorsi, che è quello del presente saggio, va segnalato come neanche a questi 95 Hallstein, Die Europäische Gemeinschaft (nota 55), p. 12. 96 Alan S. Milward, The European rescue of the nation-state, Routledge, London 1994, pp. 1-45.

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sviluppi si possa attribuire un valore di novità assoluta, né di negazione totale del passato ‘totalitario’. Oggi gli storici del diritto traggono senz’altro paralleli tra, da una parte, l’approccio ‘machiavellico’ di Carl Schmitt alla creazione di un Großraum geopolitico e geoeconomico europeo e quanto, dall’altra, di istituti giuridici sopranazionali sia poi venuto in essere in opposizione ideale alle dittature precedenti.97 Questa continuità concettuale, su cui ovviamente non tutti concordano,98 fu frutto, anche, di processi economici di più lunga durata, che almeno sin dall’Ottocento spingevano per una maggiore integrazione dei mercati o, come allora si disse, degli spazi economici. Tale era l’opinione, ad esempio, dei pianificatori nazisti incaricati a produrre idee per un ordine economico europeo postbellico. Sin dal 1942 parlarono, letteralmente, di una Comunità economica europea nell’Europa occidentale, di cui espressamente sottolinearono la diversità rispetto al regime di occupazione e sfruttamento previsto per la più ‘arretrata’ Europa orientale. Nell’Europa occidentale la preponderanza tedesca doveva al contrario essere economica, in un contesto di libera concorrenza.99 Tramite la reciprocità dei vantaggi economici in questo spazio più ampio integrato, così una eco proveniente dall’alleata Repubblica sociale italiana, si doveva altresì sorpassare “ogni superata mentalità particolaristica” e “spingere l’economia dei singoli paesi nel loro imprescindibile interesse sul piano della comunità continentale”.100 Se ipotizzato prima o meno, sul piano pratico, politico e istituzionale il processo di integrazione si avvia senza dubbio solo dopo la guerra, e in particolare nel 1951, con la creazione della Ceca. Dal punto di vista della storia dei discorsi, che qui interessa, da tutto ciò non è tuttavia lecito dedurre uno strappo lacerante nell’intreccio dei discorsi e delle citazioni sull’Europa. 7. Conclusione Nelle pagine precedenti si è visto che il concetto ancora a noi famigliare di ‘Europa’ è stato coniato in un processo che si protrasse dalla metà del secolo XV alla metà del secolo XIX. Nell’ultima fase di tale processo, che coincideva con l’emergere di movimenti e Stati nazionali, e la conseguente nazionalizzazione degli immaginari collettivi, maturò un set di definizioni e discorsi basilari sull’Europa a cui si ricorre, con modalità e in combinazioni di volta in volta diverse, ancora ai giorni nostri. Risiede in questa complessa e mutevole interconnessione di riferimenti incrociati un

97 M. Mahlmann, The European order in Fascist and Nazi legal thought, EUI Review 20 (Novembr 2000), pp. 14-17. 98 F. Blindow, Carl Schmitts Reichsordung. Strategie für einen europäischen Großraum, Berlin 1999, p. 8. 99 Bundesarchiv, R 3 (RuK), 1941, Vortrag von Walther Funk 15.1.1942. 100 C. Ferri, Lineamenti di una comunità economica europea, “Giovane Europa” 3 (1943), pp. 35-39, qui 39.

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motivo per ritenere che la ‘vera essenza’ dell’Europa non sia quella di un oggetto storico o geografico ma quella di un sistema di citazioni. L’impossibilità di definire in modo univoco e risolutivo l’oggetto storico-politico e geografico designato con tale nome non ne svilisce tuttavia l’efficacia politica e culturale, ma al contrario ne potenzia il vigore nel contesto della comunicazione d’élite e di massa. È proprio in ragione della polivalenza e malleabilità dei suoi significati storico-concreti, e delle sue innumerevoli possibilità di associazione con altri, che il nome di Europa si possa mostrare così longevo e intrecciarsi tanto in profondità – ben oltre, anche, alle più superficiali apparenze – con altri oggetti dell’immaginario collettivo. Se fosse stato univoco, concreto e perfettamente definito, non avrebbe potuto essere per secoli invocato nelle oratorie e scritture di amici e avversari, né inserito nell’auto-immagine e nelle mappe mentali di gruppi umani tra i più diversi. D’altra parte, tuttavia, il simbolo sta per alcune costanti ideologiche, quali l’idea di un’asse del progresso umano e civile alla cui posizione avanzata sta l’Europa, e quella di un declivio di civiltà che dall’Ovest ‘avanzato’ scende verso l’Est e il Sud ‘arretrati’. Si è qui voluto rinunciare a ogni chiara distinzione, interna o esterna, e falsamente oggettiva, tra ‘Occidente’ ed ‘Europa’. Probabilmente è tanto impossibile stabilire con precisione se esista e dove stia la differenza tra i due concetti, quanto è improbabile trovarne sostegno essenziale sul piano geografico, storico e politico. Così pare, per ora. Ma ciò non significa che non si possano avere cambiamenti significativi nel futuro. Il secolo XX era ancora iniziato come ‘secolo europeo’, ma è finito come ‘secolo americano’. È difficile immaginare che la crescente americanizzazione dell’America, che sembra stia ora per compiersi, sul lungo andare non produca effetti sui discorsi riguardanti i concetti di Europa e Occidente. Nel lungo periodo i sistemi interpretativi o si aprono a una diversificazione o si esauriscono. Diagnosticare per il passato una grande stabilità del sistema di citazioni che va sotto il nome di Europa, non implica affatto una necessità storica che anche in futuro porti per forza tutti i discorsi, persino quegli antagonisti, a convergere e fondersi, prima o poi, in un’unica idea o identità condivisa. E tanto meno contiene alcuna previsione di vita eterna. L’egemonica capacità di definire sé e gli altri, tramite gli altri e se stessi, è espressione molto concreta dell’egemonia più generale che l’Europa ha saputo esercitare con le proprie idee, le proprie tecnologie, le proprie merci e i propri cannoni. Pur senza ipotizzare nel breve periodo un ritorno del primato economico in Estremo Oriente, la presunzione europea di comprendere nel proprio spazio geografico le origini, il volano e il modello del progresso umano, potrebbe presto infrangersi di fronte a una sempre meno resistibile forza di definizione e d’attrazione americana, ormai anche concettualmente vicina a emanciparsi dalle origini coloniali. L’Europa potrebbe cercare di mantenere un proprio profilo cambiando radicalmente, tramite un esercizio di quella capacità auto-critica di cui va tanto fiera, quel menù dal quale ha finora nutrito il proprio discorso. Ma nulla fa attualmente presagire che ciò

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possa accadere. Sembra più verosimile che, semmai, nel completarsi del passaggio del primato dall’altra parte dell’Atlantico, il concetto di ‘Europa’ verrà allargato fino a fondersi del tutto in quello di ‘Occidente’. Se, poi, quell’Occidente sarà una meta-Europa o comunque un assemblaggio di eredità della ‘vecchia Europa’, o se, invece, farà del tutto a meno di citazioni europee, questo potrà mostrare soltanto il futuro. A ogni modo è probabile che in una forma o in un'altra verrà salvato l’elemento centrale del discorso sull’Europa moderna: la teleologia laica del progresso, che reincarna - e qua e là (specie là dall’Atlantico) si ricongiunge con - la teologia cristiana della redenzione, e che incarica i fedeli di una missione. Quel che rimane è, dunque, la suddivisione manichea dell’umanità in un partito del bene e uno del male, e la giustapposizione tra Occidente e Oriente, civiltà e barbarie, libertà e dispotismo, già inventata e conosciuta nell’antica Grecia. L’ultima parola spetta, dunque, a un greco: “L’uomo occidentale, liberatosi dalle fobie della guerra fredda, veduti i propri nemici a terra e inebriato della propria forza, ha riscoperto l’antica presunzione e voglia di dominio totale in campo economico, politico, militare e culturale?”101 È quanto si domandava Mikis Theodorakis in tempi meno sospetti, ovvero due anni e mezzo prima dell’Undici settembre.

101 M. Theodorakis in: ΤΟ ΒΗΜΑ, 26. April 1999, tradotto in tedesco da G. Wagner sotto http://www.mikis-theodorakis.net/mikinato.htm.