LA STORIOGRAFIA COME PROBLEMA FILOSOFICO · 2018. 4. 2. · epoche che abbiano auto le stesse...

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1 Francesco Lamendola LA STORIOGRAFIA COME PROBLEMA FILOSOFICO Parte Terza "L'eccesso di storia ha aggredito la forza plastica della vita, essa non riesce più a servirsi del passato come di un sostanzioso nutrimento." FRIEDRICH NIETZSCHE Sull'utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II (1874).

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Francesco Lamendola

LA STORIOGRAFIA

COME PROBLEMA FILOSOFICO

Parte Terza

"L'eccesso di storia ha aggredito la forza plastica della vita,

essa non riesce più a servirsi del passato come di un

sostanzioso nutrimento."

FRIEDRICH NIETZSCHE

Sull'utilità e il danno della storia per la vita.

Considerazioni inattuali, II (1874).

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1. Storiografia e società: ancora sul concetto di "decadenza".

2. Idealismo, relativismo, solipsismo.

3. La storia e i giudizi morali.

4. Conclusioni.

1. STORIOGRAFIA E SOCIETA': ANCORA SUL CONCETTO DI

"DECADENZA".

Abbiamo considerato il concetto di "decadenza" sia relativamente ad alcuni

campi della ricerca affini alla storiografia, sia alla vita di una società considerata

come un tutto, e ci siamo posti il problema della sua legittimità in sede storiografica.

Vogliamo adesso spostare la nostra attenzione dalla storia politica, economica,

sociale e culturale alla storia stessa della storiografia, nella quale abbiamo

riconosciuto già una importante manifestazione storica, e porci il problema della

legittimità del concetto di "decadenza" rispetto ad essa.

"Decadenza della storiografia tardo-antica", "decadenza della storiografia

medioevale", "decadenza della storiografia storicistica": sono queste espressioni nelle

quali ci imbattiamo non di rado, ed è necessario considerare con qualche attenzione la

questione della natura e dei limiti del concetto che le accomuna.

Anche a questo proposito vogliamo fare innanzitutto una considerazione di

carattere generale, e cioè che l'impiego di questi termini e di questi concetti è

caratteristico di due categgorie di studiosi: 1) i filosofi e gli storici d'indirizzo o di

tendenza positivista, e 2) gli studiosi saldamente ancorati a "scuole" o "dottrine"

particolari, che accusano di "decadenza" gl'indirizzi storiografici da esse divergenti.

Un caso tipico del primo gruppo è quello offerto dal filosofo e matematico

Bertrand Russell. Appunto perché matematico, egli non concepisce la filosofia se non

in termini di logica matematica e si può dire che mostri d'ignorare l'esistenza storica

di un altro modo di concepire la filosofia, che conta nomi come quelli di Platone e

Plotino, o, in tempi più recenti, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, nonché tutto

l'esistenzialismo; per non parlare di Socrate e di tutto il pensiero orientale; e che, di

contro a quella "scientifica", ha sempre evidenziato una caratteristica a procedere

oltre le categorie precise, ma ristrette, della logica formale e strumentale. Il punto di

vista del Russell è che per ogni problema filosofico esista una ed una sola soluzione,

una verità, e che il suo raggiungimento sia solo una questione di tempo e non di modi.

La logica conclusione di tali premesse è una completa paralisi di giudizio in sede

filosofica, davanti alla quale l'assenso o la riprovazione etica, estetica,

epistemologica, ecc., hanno bisogno sempre e solo di una giustificazione logico-

matematica; quasi che l'etica, l'estetica, ecc. fossero in definitiva riconducibili a

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un'impostazione logico-formale delle loro problematiche. Ma lasciamo parlare lo

stesso Russell:

"Nessuna ragione scientifica può essere data per cui è male infierire sadicamente

e crudelmente sul proprio prossimo. A me sembra che sia male, e immagino che

questo punto di vista sia largamente condiviso.Ma non sono certo di poter indicare

ragioni soddisfacenti per cui la crudeltà è cattiva. Sono problemi difficili, e risolverli

richiede tempo." (B. Russell, La saggezza dell'Occidente, cit., vol. 2, p. 200).

Davvero? A noi sembra che tale genere di problemi, da un punto di vista

filosofico ed etico, siano tutt'altro che difficili; ma ammettiamo, per absurdum, che lo

siano; in tal caso la loro risoluzione sarebbe davvero questione di tempo? Sembra che

ventisei secoli di storia della filosofia stiano a provare il contrario, e mostrino

chiaramente come per qualsiasi ordine di problemi la soluzione o è un fatto intuitivo,

che la ricerca può perfezionare, ma non far scaturire dal nulla; oppure come ogni

società e ogni individuo siano liberi di fabbricarsi le risposte "temporanee" più adatte

al fabbisogno del momento. A questo proposito vogliamo citare alcuni passaggi dello

Spengler, non privi di una profonda verità:

“Ma porre problemi è un conto, credere nella soluzione di essi un altro.La pianta

vive e non lo sa. L’animale vive e lo sa. L’uomo si stupisce del suo vivere e domanda.

Ma alle varie quistioni nemmeno lui può dare una risposta. A lui è solo dato di

credere nella giustezza della risposta e a tale riguardo non v’è differenza fra un

Aristotele e l’ultimo dei selvagi.(…) La critica può dunque risolvere i grandi

problemi o anche soltanto constatare la loro irrisolvibilità? Agli inizi del conoscere

si crede di sì. Ma quanto più conosciamo, tanto più siamo sicuri del contrario.

Finché speriamo, i misteri li chiamiamo problemi. (…) Non esistono verità eterne.

Ogni filosofia è espessione del suo tempo, e solo del suo tempo; non vi sono due

epoche che abbiano auto le stesse intenzioni filosofiche.” (Oswald Spengler, Il

tramonto dell’Occidente, cit., vol. 2, pp. 669. 671, vol. 1, p. 73).

Ma, per tornare al nostro assunto iniziale, è chiaro che lo studioso che si ponga da

un punto di vista come quello del Russell, non potrà che considerare i progressi

umani in forma quantitativa, ed è quindi portato naturalmente a palrare di “epoche di

decadenza” per quei periodi storici di una data civiltà in cui tali progressi si siano

succeduti con un ritmo particolarmente lento. Nel campo della storiografia, tale modo

di vedere farà parlare di “decadenza” o di “crisi” ove determinati indirizzi

storiografici, rinunciando all’ambizione di servirsi di metodi analoghi a quelli delle

scienze positive,cerchino mezzi d’indagine e di ricostruzione diversi, attingendo in

larga misura alla tanto deprecata “compartecipazione emotiva”.

L’altra categoia di studiosi che non si peritano di parlare di “decadenza” nella

storiografia è rappresentata dai militanti intransigenti di una determinata fede politica,

filosofica, religiosa, i quali non nutrono alcuna indulgenza per le opinioni diverse

dalle proprie e scagliano i fulmini dell’anatema contro quei pensatori che sono, a loro

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giudizio, eterodossi. Abbiamo citato poc’anzi lo Spengler e, a questo proposito,

vorremmo menzionare un tipico rappresentante di questa seconda categoria di

studiosi, il Croce, che dello Spengler fu stroncatore spietato. A proposito del

Tramonto dell’Occidente, egli nel 1920 drasticamente sentenziava:

“La fortuna toccata in Germania a questo libro che è vento in luce ai primi del

1918 – e nel 1919 era già alla 4a edizione – non può non impensierire gravemente

coloro che hanno a cuore le sorti del lavoro scientifico. Sopraggiungendo dopo altri

libri simili, se non nella tesi, nel metodo, sembra comprovare la decadenza –

decadenza assai anteriore alla guerra – di alcune forze per le quali la Germania

operò già beneficamente nella vita intellettuale moderna.” (Benedetto Croce, in La

critica, XVIII, 1920, pp. 236-39).

Questa e altre accuse, come quella di "dilettantismo”, “ignoranza” e

“inconsapevolezza”, rivolte allo Spengler, sortirono il risultato di contribuire a

ritardare la pubblicazione del Tramonto dell’Occidente in Italia fino al 1957: tipico

esempio di quel “sultanismo” culturale (o sottoculturale?) esercitato nel nostro Paese

da un cinquantennio di incontrastata e intollerante preponderanza della filosofia e

della storiografia d’indirizzo neo-idealistico. Beninteso, l’esercizio del diritto di

critica non è in discussione; e certo sono molti gli aspetti criticabili della filosofia

della storia di Spengler. Pochi altri libri, crediamo, come il Tramonto dell’Occidente

presentano una tale mescolanza d’intuizioni brillanti e talvolta geniali e di deduzioni

arbitrarie e anche, purtroppo, rese spesso antipatiche da una rara presunzione e

faciloneria argomentativa. Ma certe forme d’intolleranza mal si addicono al campo

della cultura. Innanzitutto, l’accusa di “dilettantismo” è quasi sempre, nelle

polemiche sulla storiografia, indice di palese malafede. Giustamente ha fatto notare lo

Huizinga come

“l’esercizio della storia, passivo o attivo, è aperto a tutti; una speciale

preparazione scientifica non è indispensabile. La storia tiene le porte spalancate al

dilettante.” (J. Huizinga,La scienza storica, cit., p. 26).

Non è dunque su questo terreno che vanno portate le critiche a una determinata

concezione della storia, a meno che si concepisca la funzione dell’intellettuale come

la gelosa sorveglianza di una personale riserva di caccia, ove gli altri studiosi sono

guardati alla stregua di potenziali bracconieri, la cui spiacevole “concorrenza”

dev’essere neutralizzata nell’unico modo possibile: demolendone la credibilità

professionale col ricorso all’autorità: in questo caso, a un codice metodologico che

non sarebbe stato da essi rispettato. Quanto allo Spengler, che abbiamo chiamato in

causa, la nostra opinione è che i santoni dell’idealismo crociano avrebbero potuto

accordare maggiore fiducia alle capacità critiche del pubblico italiano, invece di

prodigarsi in scomuniche irrevocabili affinché l’opera “eretica” non portasse da

oltr’Alpe una pericolosa infezione.

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Altri casi potremmo citare a proposito dell’uso, o dell’abuso, del concetto di

“decadenza” applicato da una certa storiografia a correnti di pensiero di diverso

orientamento filosofico. Valga per tutti il caso di un crociano illustre e indipendente,

Carlo Antoni, che affrontando un proflo dello storicismo tedesco da Dilthey a

Wölfflin, affermava:

“Il processo che vi è esaminato [nello studio in questione] è quello del trapasso

o caduta del pensiero tedesco dai problemi posti dallo storicismo nel sociologismo

‘tipologico’.” ( C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, cit., p. VII).

Il fatto che uno studioso di valore non abbia avvertito come soltanto l’immediata

curvatura polemica della propria concezione filosofica lo inducesse a tratteggiare

come un patetico errore l’opera imponente di sei fra i massimi storici del nostro

tempo (e cioè Dilthey, Troeltsch, Meinecke, Max Weber, Huizinga e Wölfflin), è un

indice significativo di quanto possa fuorviare l’adesione a un sistema di pensiero

quando scivola verso una miope ortodossia dottrinale, incapace di sollevarsi al di

sopra della mischia.

E qui emerge chiaramente il valore di un moderato ed equilibrato scetticismo nel

campo storiografico, così come in quello filosofico. Ogni studioso dovrebbe sempre

aver presente il caso dell’imperatore Marco Aurelio, il grande amante della pace che

dovette spendere undici anni dei suoi diciannove di principato combattendo i barbari

sul Danubio per salvare l’Impero Romano, e al quale le proprie vittorie e le vane

pompe del potere facevano l’impressione di una zuffa di cani intorno a un osso:

“Il ragno si fa bello perché ha preso una mosca, qualcun perchè ha preso una

lepre; un altro, una sardella con la rete adatta; un altro, un cinghiale; un altro, un

orso, un altro, dei Sàrmati. Non si tratta pur sempre d’assassini, se fai attenta

indagine su quello che ne muove il pensiero?” (Marco Aurelio Antonino, Ricordi, X,

10; Milano, 1975, p. 171).

Una testimonianza impressionante dell’intimo dramma di questo imperatore-

filosofo, costretto a sostenere il pesante fardello di lunghe guerre, atrocità e

distruzioni, è offerto dal suo ritratto, scolpito fra le altre scene della Colonna

Antonina a Roma. Esso ci mostra

“il volto profondamente segnato dall’angoscia, dalla fatica e dall’età,

dell’imperatore Marco, allora sui 54 anni: non certo il volto di un trionfatore

esaltato dalle vittorie, ma quello che doveva essere nella quotidiana verità

dell’adempimento del suo ingrato dovere, di quest’uomo ‘alienissimo dalle usanze

dei ricchi’ (Mem., I, 3), vero e dolente santo laico.” (Ranuccio Bianchi Bandinelli,

Roma. L’arte romana nel centro del potere, Milano, 1978, p. 326).

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Se gli studiosi apprendessero a esercitare nei confronti delle proprie opinioni un

simile distacco, finalmente smetterebbero di considerarsi i soli depositari della

rivelazione e sarebbero più cauti nel censurare quelle degli altri.

Si badi, non stiamo facendo del vieto moralismo. Come giudicare, ad esempio,

il fatto che a oltre sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non sia stato

ancora possibile affrontare, in sede storiografica, con un minimo di serenità una

valutazione complessiva del fenomeno “fascismo”? Al punto che non esiste ancora

neppure un accordo di massima, fra gli studiosi, se si debba parlare di uno o più

“fascismi”; se si sia trattato di una rivoluzione, una reazione o una contro-

rivoluzione; se abbia fatto leva sulle classi medie in crisi o su quelle in ascesa; se

abbia portato all’estremo linee di tendenza già presenti nella società tardo-

ottocentesca, o se abbia “creato” qualcosa di sostanzialmente nuovo; se si sia trattato

di una reazione contro la modernità (la “rivolta dei perdenti”), o di un balzo in avanti

della modernità stessa; se sia stato un ritorno all’utopia ruralista o una scorciatoia

verso l’industrializzazione accelerata; se abbia voluto recuperare e difendere

strenuamente valori tradizionali, o elaborarne dei nuovi; se abbia inteso integrare le

masse nello stato o semplicemente reprimerle; se sia nato come reazione “difensiva”

davanti alla doppia minaccia del capitalismo finanziario e del bolscevismo, o come

preparazione consapevole di un assalto al potere mondiale; se in esso abbia prevalso

l’esaltazione dello stato o del “sangue”(volk); se il razzismo ne sia stato un elemento

costitutivo o un esito accidentale; se si sia trattato di cesarismo oppure di populismo;

se la figura del capo carismatico gli sia stata consustanziale, o tutto sommato retorica

e di facciata; se, per concludere (si fa per dire) abbia tentato di elaborare

coscientemente una terza via tra capitalismo e comunismo, o sia stato, e fin

dall’inizio, poco più che un semplice strumento nelle mani della reazione padronale

anti-operaia. Ma rispondere, o tentar di rispondere, a tutte queste domande

implicherebbe, innanzitutto, una distinzione metodologica tra fascismo come

movimento, come regime e (se ne ebbe una) come ideologia; tra fascismo

“rivoluzionario” delle origini e fascismo del compromesso coi “poteri forti” costituiti;

fra fascismo di sinistra, di centro e di destra: tutte cose che richiederebbero, appunto,

un minimo di serenità critica e di distacco emotivo.

Ma la storia, è sempre la storia del vincitore: il che significa che, anche

sessant’ani dopo la fine di una guerra, la parte sconfitta non è ancora meritevole di

una equanime valutazione storiografica; e che gli storici che vi si arrischiano,

vengono bollati ipso facto alla stregua di nostalgici, più o meno camuffati, di quella

parte. Il che non è affatto necessario. (Ma su tutta la questione, vedi l’esemplare

monografia di Marco Tarchi Fascismo. Teorie, interpretazioni e modelli, Roma-Bari,

2003).

& & & &

Dopo questa necessaria premessa, passiamo a considerare l’applicazione

concreta del concetto di “decadenza” relativamente a determinati periodi o indirizzi

della storiografia. È lecito l’uso di tale concetto? Esistono delle circostanze

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sufficientemente oggettive per la sua applicazione? Dobbiamo necessariamente

rifarci a quanto già detto sul concetto di “decadenza”. Lo abbiamo sostanzialmente

negato a proposito della storia dell’arte, perché le manifestazioni estetiche di una data

società non esprimono mai, a rigore, soltanto una decadenza, ma sempre un contenuto

spirituale che può, tutt’al più, attraversare periodi di incertezza formale nel momento

critico del cambiamento del gusto e del trapasso da un codice formale a un altro. Lo

abbiamo in gran parte respinto anche a proposito della storia letteraria, essendo

valide, in larga misura, le medesime considerazioni; con la sola differenza che la

letteratura è legata a codici formali maggiormente “rigidi” di quelli delle arti

plastiche e figurative, come il caso-limite della distruzione grammaticale operato dal

futurismo ci sembra dimostrare. (Si obietterà che anche la pittura, da Kandinskij in

poi, ha operato una progressiva distruzione della forma naturalistica; è vero: ma le

arti figurative possono elaborare altri codici; la letteratura, giunta a una certa soglia,

non può che ritornare sui propri passi, dato che la parola è un significante ma anche

un significato e non può sostituire sé stessa con qualcos’altro).

Ma, giunti a considerare la storia della cultura come un tutto, abbiamo dovuto

riconoscere che, rispetto ad essa, il concetto di “decadenza” non poteva dirsi

arbitrario. Le forme dell’espressione artistica e, in parte, di quella poetica e letteraria

possono mantenersi vive e vigorose anche in un periodo storico di generale

decadenza della cultura, come dimostra il caso dell’Impero Romano alle soglie del V

secolo. Le scienze, il diritto, la filosofia e la diffusione del sapere e dello spirito di

ricerca possono indubbiamente subire – e hanno subìto nel corso della storia – periodi

di pausa, di torpore, di stanchezza.

Riprendendo l’esempio della tarda antichità, mentre la pittura e la scultura

subivano una trasformazione che sarebbe sfociata nel nuovo linguaggio figurativo

medioevale; e mentre Ausonio, Claudiano e Rutilio Namaziano tenevano ancor alto

il nome della letteratura latina, la filosofia greca subìva un colpo fatale

dall’imposizione dell’ortodossia cattolica e dalla chiusura, da parte di Giustiniano,

della scuola di Atene, che l’avrebbero condotta all’estinzione; le scienze venivano

abbandonate, e così la tecnica, l’ingegneria, le arti meccaniche; l’antico diritto

romano decadeva e la stessa lingua latina subìva quel processo di trasformazione che

avrebbe portato, attraverso la sua scomparsa (a livello parlato) alla nascita delle

lingue romanze.

È stato detto giustamente che la nuova esigenza fondamentale dell’uomo tardo-

antico era essenzialmente mistica, e che l’abbandono della mentalità scientifica negli

studi e nella vita pratica non era che la conseguenza dei nuovi orientamenti della

sensibilità. Lo stesso potrebbe dirsi, crediamo, per ogni epoca di trapasso e di radicali

mutamenti – come lo è, del resto, quella attuale: resta il fatto che le scienze positive, e

non esse soltanto, ma tutte le manifestazioni del Logos astratto e calcolante, sono

soggette a periodi di arresto o di “decadenza”. Un esame approfondito del perchè ciò

accada ci mostrerebbe, pensiamo, che le ragioni profonde di esso hanno a che fare

con la “primarietà” dello spirito estetico-creativo (l’emisfero destro del cervello)

rispetto alle esigenze del pensiero logico-razionale (l’emisfero sinistro); e che quindi

le prime sono più dure a morire, anzi, per dir meglio, potenzialmente insopprimibili.

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Le pitture rupestri dei cosiddetti “uomini primitivi” (ma lo erano poi veramente?)

testimoniano una meravigliosa sensibilità estetica, e questo in un’epoca in cui il loro

livello di civiltà era, secondo i nostri parametri, estremamente basso (ma non sempre

né ovunque: lo provano le migliaia di edifici megalitici costruiti con prodigiosa

perizia e allineati con dati astronomici sofisticati).

“Gli uomini - scriveva il buon vecchio Giambattista Vico – prima sentono

senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente

riflettono con mente pura”. ( G. Vico, La scienza nuova, II, LIII; ed. Milano, 1977, p.

199).

A questo punto si tratta di vedere se la storiografia sia da considerarsi un’arte, o

piuttosto una scienza; nel primo caso essa dovrebbe respingere il concetto di

“decadenza” per qualunque sua fase storica; nel secondo, dovrebbe invece accettarne

l’uso. Ma la natura della storiografia respinge un simile aut-aut. Da tutto quanto

abbiamo fin qui esposto circa le nostre opinioni sulla natura della storiografia,

dovrebbe risultare chiaramente che essa non ci sembra essere né un'arte, né una

scienza. Non è un'arte, perché l'arte è libera effusione del sentimento. Il genere

artstico più prossimo alla storia è il romanzo storico; ma la distanza che separa

quest'ultimo dalla storiografia è assai più grande di quella che lo separa dalle altre arti

- dall'opera lirica, per esempio, o dal teatro.

D'altra parte la storia non è neanche una scienza, poiché non è che un cavillo

obiettare che nemmeno le scienze fisiche e naturali, oggi, ardiscono più parlare di

"leggi"; e così pure affermare, come fa lo Huizinga, che "la storia deve esssere

considerata una scienza inesatta per eccellenza" (cfr. J. Huizinga, la scienza storica,

cit., p. 56) ci sembra poco più che un gioco di parole. Checché se ne dica, il concetto

di scienza resta indissolubilmente legato a quello di una conoscenza più che probabile

- epistéme e non doxa, se vogliamo adoperare la terminologia dei filosofi greci - ; se

non sempre del tutto certa, almeno assai vicina all'oggettività. Ciò che non può dirsi

per la storiografia, in seno alla quale - come è noto - studiosi moderni continuano ad

accettare, e anzi e guardare con ammirato rispetto, opere di autori che certo non

concepivano la loro disciplina in senso scientifico, ma desideravano semmai fare,

oltre che ricerca sul passato, della buona letteratura. Tale il caso di opere "classiche",

da Erodoto a Gregorovius, le quali non verrebbero mai utilizzate da uno studente

universitario per preparare un esame di storia greca o medievale (semmai sulla

concezione dei loro autori). Eppure Erodoto o Gregorovius figurano a tutt'oggi fra i

grandi nomi della storiografia, di cui la civiltà europea può andare orgogliosa; ed è

giusto che sia così.

Comunque, a voler ricavare la lezione più conseguente da un simile stato di cose -

tutt'altro che logico dal punto di vista della moderna storiografia "scientifica" - si

deve concludere che anche i sostenitori di un metodo scientificamente rigoroso

dovrebbero prender atto della vera natura della storiografia, che è sempre

ricostruzione soggettiva e spesso, a distanza di tempo, si rivela assai poco attendibile.

Uno dei maggiori storici sovietici di Roma antica, il Kovaliov, studiava le guerre

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civili della tarda Repubblica citando questo o quel discorso di Stalin al tale o tal'altro

Congresso del Partito Comunista Sovietico: una prassi comune fra gli studiosi di quel

paese e di quella generazione, ma che oggi fa venire i capelli ritti agli storici della

nostra generazione.

Che cosa è dunque la storiografia, se non possiamo definirla né scienza, né arte?

Non affronteremo in queata sede il problema di una rigorosa definizione, anche

perché crediamo poco alle definizioni, e ancor meno a quelle con pretese di

rigorosità. Ci limiteremo qui a sostenere che essa, pur non essendo arte né scienza,

partecipa tuttavia delle forme metodologiche dell'una e dell'altra. Una storiografia che

si sforzasse di sopprimere completamente l'intuizione, il sentimento, la capacità

evocativa dello storico andrebbe incontro a un pedantesco fallimento e - come

abbiamo già avuto modo di accennare - potrebbe tutt'al più aspirare alla qualifica di

erudizione antiquaria. D'altra parte, una storiografia che al sentimento e alla fantasia

dello studioso si abbandonasse interamente, trascurando sia la ricerca, sia

l'imparzialità nell'uso delle fonti, sfocerebbe direttamente nel romanzo e nulla più. Il

romanzo storico, lo ripetiamo, è una degnissima forma di letteratura: ma è necessario

fissare dei limiti ragionevoli tra arbitrio letterario e scrupolosità storica. Confini

sempre vaghi e niente affatto categorici, come taluno mostra di pensare; ma confini

sulla cui esistenza e necessità non è lecito avanzare dei dubbi.

Posta in tali termini la questione, il lettore avrà forse già intuito la nostra opinione

circa il concetto di "decadenza" applicato alla storiografia. Dal punto di vista

dell'oggettività scientifica, o meglio dell'aspirazione a un ragionevole grado di

oggettività, è innegabile che in taluni periodi storici così come in talune correnti di

pensiero sia legittimo parlare di "decadenza della storiografia".

Dal punto di vista della dimensione artistica inerente alla storiografia, del calore

di vita e della capacità evocativa che pervadono un'opera storica, il concetto di

"decadenza" non appare giustificato. È noto infatti come la forza dell'immaginazione

e una ricca sensibilità possano contribuire a creare dei capolavori storiografici, a

dispetto di una metodologia approssimativa e di una chiarezza concettuale

inadeguata. Ciò avviene anche in altre forma espressive. De Sanctis, per esempio,

definiva Dante "divino ignorante" perché la sua poesia raggiunse vette ineffabili a

dispetto di una pesante tradizione scolastica ed erudita di cui egli si professava

campione e in cui mostrava di riporre il proprio maggior vanto. Potremmo fare molti

esempi anche nel campo della storiografia. A dispetto dei suoi intendimenti extra-

storici e moralistici, Plutarco di Cheronea ci ha lasciato, nelle Vite parallele, un'opera

di valore non inferiore a quella di uno storico che si autodefiniva rigorosamente

"prammatico", Polibio di Megalopoli. Nella tarda antichità, Procopio di Cesarea,

benché fosse in effetti un pallido epigono della storiografia classica e si sfozasse -

senza molta abilità - di imitare lo stile di Tucidide, è passato giustamente alla storia

come il maggior storico del VI secolo e l'ultimo della grande tradizione classica.

Niccolò Machiavelli, autore di una alquanto romanzata Vita di Castruccio

Castracani, e nelle cui Istorie fiorentine errori di fatto e di giudizio possono contarsi

letteralmentea decine, tuttavia con la forza eccezionale del suo pensiero si è librato

come aquila al di sopra di tanti suoi più diligenti contemporanei. Possiamo infine

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osservare che una concezione alquanto opinabile della civiltà bizantina - intesa come

prosecuzione ininterrotta della "decadenza" tardo-romana, non ha impedito a

Montesquieu e a Gibbon di segnalarsi come due fra i massimi cultori di storia in

un'età tutt'altro che incolta.

Resta il fatto che, per quella componente della storiografia che tende al rigore del

metodo scientifico, non è inappropriato parlare di "decadenza" a proposito delle età in

cui l'interesse per le scienze e soprattutto la diffusione della mentalità scientifica

vengono meno a causa di rivolgimenti politici, economici e sociali. È legittimo

parlare, ad esempio, di "decadenza della storiografia altomedievale", quando le

maggiori opere del tempo - quelle di Jordanes e Paolo Diacono, Gregorio di Tours e

Fredegario, si segnalano per la più completa indifferenza nei riguardi dell'ordine

cronologico, della connessione causale, dell'ordine espositivo (non parliamo poi

dell'uso delle fonti), e, in definitiva, della stessa logica e del buon senso. D'altra parte,

proprio la considerazione dell'ambivalenza della natura della storiografia, che non è

arte né scienza, ma partecipa dell'unae dell'altra, dovrebbe consigliare una maggior

prudenza nell'uso, o nell'abuso, del concetto di "decadenza".

2. IDEALISMO, RELATIVISMO, SOLIPSISMO.

La storiografia è profondamente legata alla vita, e questo è un aspetto che

l'avvicina all'espressione artistica più che alle scienze. A partire dall'abbandono della

concezione tolemaica dell'universo, e sempre più quanto maggiormente ci si avvicina

ai nostri giorni, le scienze fisiche e naturali rispondono a una concezione unitaria di

fondo, per la quale tutti gli scienziati (pur conservando, a livello personale, visioni

del mondo anche diversissime tra loro), nutrono la coscienza di una unità di metodi e

di fini, che li fa sentire pur sempre come appartenenti a una medesima categoria di

studiosi. Non così gli storici, i quali - come abbiamo visto - divergono gli uni dagli

altri non solo nei metodi e nelle prospettive, ma nella concezione della natura stessa

della loro disciplina, e tra i quali è osservabile la gamma di filosofie più vasta che si

possa immaginare, dal materialismo più meccanicistico al solipsismo più spinto.

Tuttavia c'è pur sempore un legame con le scienze fisiche e naturali, che continua a

tenere separata la storiografia dalle altre forme di espressione pura dell'arte, ed è

appunto la necessità di una concezione cosciente del mondo da parte del singolo

storico (cosa non necessariamente richiesta a un artista), senza la quale non sarebbe

possibile neanche pensare di accingersi a una ricostruzione del passato.

È vero. Allo storico è concessa una libertà illimitata di posizioni filosofiche da cui

partire nel proprio lavoro di ricerca, libertà che non è concessa in eguale misura allo

scienziato (specialmente se ci tiene a non venire espluso dall'aureo tempio della

scienza accademica e "ufficiale"). Sia lo studioso che si accinge a ricostruire il

passato, considerandolo nulla più che un insieme di percezioni illusorie della mente,

sia quello che attribuisce un'assoluta preponderanza ai fattori materiali, possono pur

sempre definirsi membri di una stessa categoria, quella degli storici. Nulla di simile

nel mondo scientifico, sarebbe quasi - volendo fare un paragone provocatorio - come

se in astronomia potessero lavorare fianco a fianco sia i sostenitori dell'eliocentrismo

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che quelli del geocentrismo; o come se, nella geologia, "plutonisti" e "nettunisti"

potessero coesistere come ai tempoi di Hutton e Lyell. Ciascuno scienziato è

liberissimo di professare una propria filosofia e di trarre le conclusioni esistenziali

più disparate dai risultati delle proprie ricerche, tuttavia ha la consapevolezza di

metodi e obiettivi comuni, universalemente accettati dai suoi colleghi (o da quasi

tutti).

Tuttavia, proprio la libertà di metodi e di prospettive consentita allo storico è,

paradossalmente, ciò che accosta il suo lavoro a quello dello scienziato, e scava un

profondo fossato tra il suo e quello dell'artista. Quest'ultimo, infatti, non solo è libero

di professare l'ideologia o la Weltanschauung che ritiene veritiera; non solo è liberoi

di svolgere il proprio lavoro secondo gl'impulsi di tale ideologia o concezione del

mondo; ma, per meglio dire, è soprattutto libero di non averne alcuna, e di esprimere

il proprio mondo interiore in modo del tutto indipendente da qualsiasi forma

prestabilita di pensiero. Nell'arte, è l'elemento assolutamente individuale che dà il

proprio carattere all'opera e vi imprime il sigillo dell'autenticità; è esso che rende

unica la forma espressiva di cui si serve l'autore, attraverso un uso assolutamente

personale di mezzi e procedimenti che, tecnicamente, sono alla portata pressochè di

chiunque. L'artista vero emerge e si impone anche all'interno di un codice espressivo

rigidamente codificato, oppure abusato e stereotipato; magari a distanza di anni,

s'impone ed emerge a dispetto di tutte le ideologie e di tutte le filosofie precostituite

(di cui la cosiddetta critica s'incarica sovente del tristo compito di essere, per così

dire, il volonteroso gendarme).

Noi non crediamo che sarebbe possibile fare - come sostenne, con voluto

paradosso, il Wölfflin - una "storia dell'arte senza nomi": scuole e correnti non ci

danno che un quadro esteriore del gusto di un'età o di una cultura. Ma l'artista

autentico, muovendosi entro di esse oppure contestandole e combattendole, si eleva

sempre al di sopra dei suoi stessi presupposti e procede impetuosamente al di là di

ogni ortodossia formale e di ogni canonizzazione estetica. Proprio perché in lui è la

voce potente di una individualità che parla; proprio perché la sua arte consiste nella

sua soggettività inconfondibile, egli è slegato da ogni predefinita concezione del

mondo e, per quanto egli (come del resto ogni essere umano) ne abbia comunque una,

nelle sue creazioni non è tanto essa che viene alla luce, quanto un trasporto

sentimentale che oltrepassa ogni eventuale intenzionalità ideologica o filosofica.

Si considerino, in proposito, gli affreschi a soggetto storico del pittore messicano

Diego Rivera. Loro scopo è una celebrazione ideologica, loro mezzo espressivo una

sensibilità che vuole apparire prorompente e immediata, non filtrata attraverso la

riflessione di una coscienza, ma ancor viva e palpitante nella scomposta turbinosità

del sentimento. Ma subito dopo un'altra impressione ci afferra: ciò che la coscienza

personale dell'autore non ha filtrato, è stato però filtrato intenzionalmente e

freddamente attraverso una vivissima coscienza politica, che si è servita

dell'apparente tumulto dell'animo per esprimere, con forza studiata, una celebrazione

ideologica, una commemorazione politica (la lotta del popolo indigeno e delle classi

sfruttate contro i conquistadores prima, contro i latifondisti e i capitalisti poi). E in

effetti, in quegli affreschi non è l'animo individuale che ci parla, quello dell'artista,

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non un sentimento immediato e sincero, ma una fredda apoteosi politica. Tutto ciò è

molto umano e molto rispettabile: ma può definirsi arte? (Rispettabile come uomo,

forse Rivera lo era un po' meno, dato il suo coinvolgimento in uno dei più odiosi

crimini staliniani: l'assassinio di Trotzkij. "Diego Rivera - scrive lo storico inglese

Nicholas Mosley - il quale era stato l'alleato di Trotzkij e si era adoperato perché

fosse ospitato in Messico, sbandierava ora ai quattro venti di averlo fatto soltanto

per adescarlo e permettere quindi la sua morte." ( N. Mosley, L'assassinio di Trockij,

Milano, 1975, p. 59).

Ben diversa è la personalità di Francisco Goya, che - anche quando affronta temi

di drammatica, immediata valenza politica (come ne Le fucilazioni del 3 maggio

1808, che pure richiamano superficialmente, dal punto di vista formale, gli affreschi

del Rivera) non permette mai che la volontà di denuncia gli prenda la mano. Qui il

tumulto dei sentimenti è mediato e universalizzato da una profonda sensibilità umana,

e la dimensione individuale non si lascia soffocare da schemi ideologici invasivi e

precostituiti. In Goya noi sentiamo tutto il dramma intimo dei fucilati madrileni del 3

maggio; in Rivera vediamo la tragedia degli indios e dei peones messicani, ne siamo

anche impressionati, ma non commossi, perché la sentiamo lontana nello spazio e nel

tempo, come non fosse nostra.

Abbiamo citato il caso di Diego Rivera per porre in evidenza come una coscienza

filosofica o ideologica, che nell'atto dell'espressione artistica non sappia obliare anche

sé stessa e andare oltre i propri schemi razionali, per cogliere il fatto umano in quanto

tale, nuoccia irrimediabilmente alla sincerità e alla universalità dell'opera d'arte.

Orbene, proprio all'opposto è il caso dello storico. Egli non può accingersi al proprio

lavoro senza una qualsiasi concezione del mondo, che sia anche (a differenza di

quella dell'uomo comune) cosciente e sufficientemente elaborata. Con ciò non si vuol

dire affatto che egli dev'essere schiavo delle scuole o delle ideologie: ben al contrario;

ma che, pur avendo una sua personale filosofia, che magari divergerà da quelle di

tutti i suoi colleghi, egli non potrà evitare di filtrare attraverso di essa lo studio del

passato; e non di un passato generico, ma di quel passato che avrà scelto di

considerare e di ricostruire.

Si obietterà subito, e con qualche ragione, che la storia non deve, non dovrebbe

essere ricondotta a forza entro la concezione personale dell'autore: ma è veramente

realistica una siffatta ambizione? Così come uno storico non può non avere una

propria concezione del mondo, allo stesso modo è umanamente assai difficile, per

non dire impossibile, che egli non finisca per "modellare" il passato attraverso le lenti

che essa gli fornisce, e cerchi di farlo rientrare più agevolmente , in tal modo, nel

proprio schema. In teoria, ciò è deprecabile; e ogni storico serio, nella pratica,

dovrebbe sforzarsi di evitare gli eccessi che comporta, aiutato magari da una qualche

dose di scetticismo, che lo aiuti a "sdrammatizzare" un poco le sue stesse, rigide

convinzioni. Ma la realtà è che ogni concezione del mondo crea di necessità una

prospettiva "obbligata" entro la quale uomini e fatti sembrano rientrare non per moto

proprio, ma per confermare la giustezza della visione da cui lo storico muove. È una

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caratteristica piuttosto deprecabile, ma alquanto comprensibile della natura umana

quella di tendere sempre, anche negli intelletti più vigili e attenti, verso una

"sicurezza" ideologica che è, in effetti, la maschera della pigrizia intellettuale e che

cerca di evitare alla mente la fatica estenuante di un continuo riesame delle verità già

conquistate. Per riuscirvi, è necessario alterare e deformare sistematicamente tutti i

fatti e le circostanze che, nel nostro schema precostituito, hanno la scortesia di non

voler entrare, e ridurre così anche gli elementi più ribelli e disturbatori entro la norma

rassicurante di una data ideologia o filosofia. In un certo senso è perfino un bene che

sia così, in quanto lo spirito, se non esercitasse un siffatto genere di violenza sugli

enti della storia per conquistare una propria tranquillità interiore, non potrebbe

protendersi verso nuovi problemi, ma sempre dovrebbe logorarsi e consumarsi in una

nuova fatica di Sisifo per riconquistare ciò che era stato già acquisito e superato.

Comunque, la conseguenza innegabile di questa tendenza verso il conformismo

mentale, ossia verso una ideologia che pieghi anche a forza, se necessario, gli

elementi che mostrano di opporre resistenza, è per l'appunto, in campo storiografico,

la collocazione parziale, e talvolta forzata, di tutta la realtà entro gli schemi ideologici

del singolo storico. Questi si trova dunque eternamente costretto in una condizione di

contradittorietà: da un lato non può iniziare la ricostruzione del passato sprovvisto di

una propria concezione del mondo, dall'altro non può poi, in pratica, evitare che tale

concezione diventi da mezzo o strumemnto, il fine stesso della ricerca, e che i fatti si

riducano a "dimostrazioni" o "conferme", più o meno passive, della validità di tale

ideologia.

Lo ripetiamo: qualcuno griderà allo scandalo. Ma si prenda in mano un qualsiasi

libro di storia, e si rifletta: è veramente sfuggito esso a una tale inevitabile necessità?

Lo storico è pur sempre un essere umano e, non disponendo di strumenti di lavoro

"scientifici" se non piuttosto rudimentali (almeno paragonati a quelli del fisico o del

chimico), è costretto a "vedere" la storia non attraverso le lenti oggettive e

impersonali di un meccanismo, ma attraverso le sue lenti; la storia che egli studia

diventa, in definitiva, la sua storia; le conclusioni alle quali approda, non sono che le

sue conclusioni. Egli crede di studiare dei fatti, mentre studia semplicemente le sue

opinioni intorno a dei fatti che, in sé stessi, risultano elusivi, inafferrabili. Per questo

dicevamo a suo tempo che il principale interesse di un'opera storica non consiste

tanto nella veridicità (impossibile da accertare) del passato che essa ricostruisce, ma

nel processo mentale compiuto dal suo autore e nella sua personale maniera di

interpretare una realtà che mai giungeremo a conoscere con certezza nella sua intima

essenza.

Uno storico può vedere nella figura del generale Charles George Gordon

assediato a Khartoum il prototipo dell'idealista e quasi del filantropo, dell'animo

generoso che affronta il proprio destino con coraggio, mentre tutti lo abbandonano;

un altro può scorgervi il campione dell'imperialismo colonialista o quanto meno un

suo strumento, e nel Mahdi un eroe popolare divorato dall'amore per la dignità e

libertà del suo popolo. Potremo dissentire dalle opinioni dell'uno e dell'altro, ma non

li chiameremo entrambi "storici", e non diremo legittimi (anche se magari non

condivisibili) entrambi i punti di vista? Questo, al contrario, non potrà mai accadere

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nelle scienze esatte: se due teorie su un medesimo fenomeno si contrappongono, una

dovrà per forza essere vera, e l'altra falsa (tranne in rari casi come quello della natura

della luce, ove la teoria corpuscolare di Newton e quella ondulatoria di Huygens si

sono dimostrate parzialmente vere entrambe).

Al tempo stesso, non si potrà mancare di rilevare alcuni fatti: 1) noi non sapremo

mai veramente (cioè con assoluta certezza) chi fu il generale Gordon; 2) le tesi

opposte sul suo carattere, sui suoi ideali, sul significato storico delle sue imprese

possono essere egualmente accettabili, purchè seriamente documentate; 3) ma, per il

fatto stesso che che possono essere ugualmente accettabili, il loro valore oggettivo è

ben scarso, per non dire nullo. La storia è forse la sola forma di conoscenza che

avanzi pretese di oggettività e per la quale, tuttavia, sia possibile affermare tutta una

serie di proposizioni, e anche quelle ad esse diametralmente opposte.

Già lo abbiamo detto. La storiografia è legata alla vita. Ancor oggi, al

monumento del generale Gordon montato sul dromedario, a Khartoum, sembra

contrapporsi polemicamente il mausoleo di Mohammed Ahmed, detto il Mahdi (ossia

il ben guidato, personaggio messianico politico-religioso), ad Omdurman. A

Khartoum Gordon trovà la morte (26 gennaio 1885), al termine di un assedio durato

quasi un anno da parte dei Mahdisti; a Omdurman, sulla riva opposta del Nilo (la

sinistra) pose il suo quartier generale Mohammed Ahmed, detto il Mahdi, e lì, il 2

settembre 1898, il sirdar Horatio Herbert Kitchener vi sconfisse in maniera definitiva

il nuovo Mahdi, Abdullah el Taisha (dopo di che fece disseppellire i resti di

Mohammed Ahmed e ne fece spedire a Londra, dalla regina Vittoria, la testa

mozzata). Da che parte sta la verità storica? A noi parrebbe più giusto domandare: ma

esiste dunque una verità? Non lo crediamo. I fatti, già lo sappiamo, parlano solo se

interrogati: e siamo noi a rispondere al loro posto. Non è che un vuoto cerimoniale

moralistico quello di biasimare la parzialità e la soggettività dei singoli storici; ciò

può avvenire solo perché da molti non si è voluta comprendere la reale natura della

storia, che non è e non potrà mai essere verità certa e oggettiva.

"I fatti, dateci soltanto i fatti", esortava il Ranke nel XIX secolo. Ma quali fatti?

Quelli che ciascuno vuole intendere a suo modo, naturalmente. Dovremo perciò

gettare la storia nel cestino della carta straccia, delusi per non avervi trovato altro che

ipotesi e supposizioni, là dove avevamo creduto di trovare verità immutabili e

definitive? La colpa della delusione è tutta nostra: la storia non si era mai sognata di

farci simili promesse. E come avrebbe potuto, quando un qualsiasi fatto a noi vicino

nel tempo e nello spazio, semplice e da tutti comodamente osservabile, produrrà tante

"impressioni di verità", ossia tante interpretazioni, quanti sono gli astanti? Si dirà:

eco del relativismo. Certo, del relativismo, ma quale persona di buon senso, davanti

al problema della conoscenza, non parte armata di una certa dose di relativismo,

rimedio alla malattia infantile dell'estremismo?

Faremo un solo esempio in proposito: il più banale. Sulla grondaia del tetto della

casa di fronte sono posati alcuni passerotti. Li vedo attraverso i vetri della finestra, li

odo cantare: sono dunque ben certo che esistono. Ma non dubito neppure per un

istante che i passanti, camminando sull'altro lato di quella stessa casa, non possano

vederli né udirli: dunque quella medesima realtà, che per me è esperibile e

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indubitabile, per altri neppure esiste. Si potrà allora dire che è una mia creazione

soggettiva, un'invenzione? No di certo: eppure, se volessi convincerne altri, non

disporrei di argomenti più forti che la mia parola e la mia eventuale attendibilità di

testimone. Ma, e se avessi un qualche difetto della vista o dell'udito? E si tratta solo

di passerotti! Se avessi visto qualche cosa appartenente a un diverso ordine di

fenomeni, qualcosa d'insolito?

Lo scrittore giapponese Akutagawa, ai primi del Novecento, scrisse un suggestivo

racconto, Rashomon (da cui, nel 1950, il grande regista Akira Kurosawa trasse un

celebre film). È la storia di un un samurai che attraversa una regione impervia e

boscosa, insieme alla moglie (che viaggia ricoperta da un velo), per recarsi in

pellegrinaggio ad un tempio. Un fuorilegge li scorge, non visto, e si accende di

desiderio per la donna: quindi li aggredisce, uccide il marito e violenta la moglie. Una

storia tragica, ma semplice. Oppure no? Parlano i protagonisti - il bandito, la donna,

lo spirito del marito assassinato per mezzo di una evocazione negromantica, e un

testimone involontario che si era tenuto nascosto, per paura. Quattro voci che

dovrebbero confermare la stessa versione dei fatti: e invece ciascuna ha la sua verità

da raccontare, e sono tutte profondamente diverse l'una dall'altra. Come sono andate

veramente le cose? Non c' è risposta a questa domanda. Anche nella vita di ogni

giorno, gli uomini non vedono mai le stesse cose nella stessa maniera. Perché dunque

pretendere dalla storia - dall'esame, cioè, di un lontano e confuso passato, delle verità

universalmente valide e oggettivamente certe?

& & & &

Tuttavia la discussione intorno al relativismo è troppo importante ai fini di una

concezione consapevole del fatto storico, perché ci possiamo accontentare di questi

brevissimi ed elementari cenni.

Prendiamo un qualsiasi vocabolario e leggiamo alla voce "relativismo":

"Ogni concezione filosofica che sostenga essere la realtà non conoscibile in sé

stessa, ma soltanto in relazione con le particolari condizioni in cui, volta per volta, i

suoi fenomeni vengono osservati." ( dal Dizionario Garzanti della lingua italiana).

E questa sarebbe una filosofia? E intorno alla legittimità di una tale filosofia si è

tanto discusso e polemizzato? A noi sembra piuttosto che essa sia la necessaria

premessa a qualsiasi filosofia; di più: che sia la premessa alla normale vita quotidiana

di ogni essere umano. E chi potrebbe dubitarne, dopo solo qualche attimo di

riflessione? Questo cielo azzurro e terso, che posso guardare dalla finestra mentre

scrivo, al tramonto si tingerà d'arancio e di violetto, poi di blu scuro, indi verrà

inghiottito dalle tenebre; e altri esseri umani, in questo stesso istante, agli antipodi di

questo paese ne stanno ammirando la volta trapunta di stelle. Dovrò concludere che il

cielo muta, che il cielo che io vedo adesso è altra cosa da quello che vedrò questa

notte, fra un anno, fra venti; altro da quello che è visibile, ora, lontano da qui? Quale

persona di buon senso direbbe che non il cielo muta, bensì mutano le condizioni in

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cui ciascuno, a suo modo e a suo tempo, lo vede? E lo affermerebbe in tutta

tranquillità, senza per questo che un siffatto relativismo nella sua vita quotidiana lo

sospinga verso il dubbio più scettico e l'angoscia esistenziale.

E adesso torniamo all'esempio precedente, quello del generale britannico Gordon

e della sua morte nella presa di Khartoum da parte dei Mahdisti, al principio del 1885

Eroe disinteressato o strumento dell'oppressione? Qualcuno – pirandellianamente –

risponderà: “Ma è semplice: vi sono due Gordon: il Gordon della Gran Bretagna, del

mondo occidentale – che è un eroe, mentre il Mahdi non era che un pazzo fanatico; e

il Gordon del Sudan odierno, delle ex colonie europee, che fu un simbolo dello

sfruttamento, e contro il quale lottò l’eroe nazionale, il Mahdi.” Sarebbe facile

obiettare fin dall’inizio: : “Non è così, per molti occidentali di oggi il generale

Gordon era un ambizioso, un temerario, una punta avanzata del colonialismo; e non è

detto che fra qualche sudanese non sia valida l’opinione contraria: il nemico della

schiavitù, della miseria, della sofferenza di quella terra sfortunata. Ma ammettiamo

pure che tutti gli occidentali lo esaltino, e che tutti gli africani (o gli asiatici) lo

condannino. Noi domanderemo allora: che vogliono dire termini come “Gran

Bretagna”, “Occidente”, “Sudan”, “Africa”? Sono forse delle forme diverse di

conoscenza? Da quanto abbiamo detto, sembrerebbe di sì. E dunque? Ammettere due

diverse forme di conoscenza per la medesima realtà; due modi di interpretare e di

valutare non già le stesse opinioni, ma lo stesso fatto – come voleva il Ranke: non è

questa una piena ammissione dell’inevitabilità del relativismo?

Ora, si badi, il problema che ci poniamo non è: “Esistettero effettivamente due, o

più, generali Gordon?”; ma bensì: “Sarà mai conoscibile un generale Gordon; o

dobbiamo di necessità ammettere che possiamo conoscerne due, o più di due, ma non

il generale Gordon, perché quello non lo conosceremo mai?”. Si avrà un bel dire: lo

spirito dell’affermazione del Ranke era un altro, e cioè: “voi storici dateci i fatti, e

lasciate che sia poi il lettore a farsi un’idea personale.” Le difficoltà incominciano

molto prima di arrivare sul terreno dei giudizi, incominciano già su quello delle

parole: o, per meglio dire, ogni nome è una scelta, quindi un giudizio.

I Mahdisti erano dei “ribelli”? Ma ciò implica un giudizio di valore, di segno

indubbiamente negativo; quale storico italiano chiamerebbe “ribelli” i Milanesi delle

‘cinque giornate’ del 1848? “Patrioti,”allora? Ma anche questo è un giudizio di

valore; di segno opposto, ma sempre opinabile. Dove sono dunque i “fatti” che il

Ranke voleva? Potremmo ricorrere a un termine “neutro”, quello di “insorti”. Insorti

ha quasi lo stesso significato di ribelli, ma spogliato della componente peggiorativa:

può essere usato, tutto sommato, da amici e da nemici. Ma se fosse puramente un

problema di termini, una soluzione sarebbe sempre abbastanza facile da trovare;

invece il problema di fondo è ben altro. Naturalmente lo storico serio, che sia inglese

o sudanese o egiziano, dovrà sforzarsi di non partire con un’idea preconcetta del

generale Gordon, ma lasciare che i fatti studiati e ricostruiti gli svelino, per così dire,

a poco a poco la reale natura del suo soggetto.

Ma anche ammesso che uno storico, che è sempre un essere umano, possa

davvero spogliarsi di ogni partecipazione emotiva; anche ammesso che l’ambiente

geografico, socio-politico e culturale in cui vive non lo condizioni per nulla; anche

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così noi ci chiederemo: quali fatti dovrà egli lasciar parlare? Non tutti,

evidentemente. Che cosa fosse solito bere, o come usasse vestire il generale Gordon è

cosa che non lo interesserà affatto, se non forse incidentalmente. Dovrà dunque

operare una scelta: scartare certi fatti, considerarne altri. Chi gli dirà quali fatti

scartare e quali prendere in considerazione? Molti risponderebbero: la storia. Ma

torniamo a ripeterlo: la storia, così intesa, non esiste. La storia, cioè la ricostruzione

del passato, è sempre una scelta: è ricostruzione di un certo passato, e considerato

sotto certi aspetti piuttosto che sotto certi altri. Chi decide allora quali aspetti sono

degni d’attenzione, e quali non lo sono? Lo storico, naturalmente: cioè l’uomo. Ora, il

fatto è che un criterio di cernita, tra la mole infinita dei fatti del passato, non esiste e

non può esistere. È solo il giudizio del singolo storico che decide quali fatti siano

importanti, e quali no. È sperabile che lo storico possieda una coscienza professionale

superiore a quella di certo giornalismo, e che non si serva dei fatti scartati per

smontare, pezzo a pezzo, una immagine scomoda della realtà, e poi di quelli prescelti

per ricostruirla a suo completo talento; oppure che non mescoli le carte imbrogliando

il mazzo, col risultato di distorcere mostruosamente l’immagine del passato e ridurla

a un rebus che lui solo sa decifrare nel senso che meglio preferisce.

È sperabile: ma nulla di più. In storiografia non esistono strumenti o metodi

scientifici, e quindi nemmeno criteri veramente scientifici: è sempre la buona fede

dello storico a tagliare il nodo della questione. Noi osserviamo che – ad esempio –

nella Storia della rivoluzione russa di Lev Trotzkij, lo sforzo d’imparzialità e di

comprensione delle altrui ragioni è del tutto assente: e concludiamo che Trotzkij,

semplicemente, non è uno storico. Ma di solito le cose non sono così semplici.

Moltissimi storici distorcono i fatti in buona fede, o quanto meno non

intenzionalmente: essi mescolano vero e falso, coerenza e arbitrarietà, buona fede e

ingenuità. In casi del genere, se vi è comunque una documentazione adeguata e un

certo sforzo di obiettività, nessuno contesterà loro la qualifica di “storici”, e storiche

son dette le loro opere. Ma quanta verità si può trovare in esse?

Sono questi i nodi cruciali intorno all’”oggettività” della storia, e i sostenitori della

storiografia scientifica nascondono la testa nella sabbia come struzzi per non vederli;

e, non vedendoli, o meglio ostinandosi a non volerli vedere, negano addirittura che

esistano.

& & & &

In che rapporto stanno idealismo, relativismo e solipsismo? Leggiamo ancora nel

vocabolario:

“Idealismo: ogni sistema filosofico che risolva tutta la realtà nel pensiero,

negando l’esistenza di una realtà al di là o al di fuori dello spirito.”(Dizionario

Garzanti della lingua italiana).

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Antonio Gramsci ha osservato che ogni idealismo, di fatto, finisce per cadere nel

solipsismo. Se ciò è esatto, dovremo concludere che proprio la soriografia idealistica

d'indirizzo crociano, tanto ligia custode - in nome dello "storicismo assoluto" - di una

ortodossia metodologica che l'ha portata a bollare come un disgraziato errore quasi

tutto il movimento storicistico tedesco, trarrebbe le proprie radici filosofiche da una

posizione che è la più estremisticamente soggettiva che il pensiero possa assumere.

Leggiamo dunque alla voce solpsismo:

"L'atteggiamento per cui si afferma come reale solo l'esistenza del soggetto

individuale, mentre tutte le altre cose e le altre persone sono soltanto sue

percezioni." (Dizionario Garzanti della lingua italiana).

L'idealismo dunque, come atteggiamento filosofico generale, può approdare - e di

fatto è approdato, in tempi moderni - a differenti posizioni gnoseologiche, da quella

empirista (iniziale) berkeleyana, a quella trascendentale hegeliana e crociana. Ma un

nesso fondamentale unisce questi diversi indirizzi dell'idealismo, ed è la convinzione

che non soltanto tutta l'attività conoscitiva, ma altresì tutta la realtà, sono in definitiva

riconducibili a puro immaterialismo. E tuttavia, è lecito definire la filosofia del

Berkekey, come per convenzione si usa fare, "idealismo empirico"? L'esse est percipi

del pensatore irlandese non è in effetti una posizione più vicina al solipsismo che

all'idealismo? [A questo proposito, si può vedere L'unità dell'Essere, parte prima, di

F. lamendola; e, dello stesso autore, Il pensiero filosofico di George Berkeley]. La

salda fede religiosa del vescovo anglicano di Cloyne fa sì ch'egli non nutra alcun

dubbio circa la causa delle percezioni individuali, che è Dio; ma dal punto di vista

conoscitivo la sua posizione è prettamente solipsistica. La filosofia berkeleyana può

definirsi idealistica con riguardo alla sua concezione teoretica (Dio, spirito infinito;

individui, spiriti finiti), solpsistica rispetto al suo atteggiamento pratico (la sostanza

materiale si risolve interamente nelle percezioni soggettive). Da questo punto di vista

diremmo che non tanto l'idealismo sfocia inevitabilmente nel solipsismo, quanto

piuttosto è quest'ultimo, come atteggiamento conoscitivo della realtà, che non può

non condurre all'idealismo. Una volta che sia negata l'esistenza di una sostanza

materiale, non resta altra via per darsi ragione del mondo esterno che l'idealismo: e

non solo limitatamente al soggetto (donde proverrebbero allora le percezioni?), ma

necessariamente riguardo a uno Spirito infinito che è la sola possibile origine delle

nostre percezioni. "Esse est percipi" è dunque una proposizione naturalmente

reversibile: "percipere est esse"; dove è chiaro che, di contro alle percezioni vane e

illusorie degli spiriti finiti, esiste una forma oggettiva e superiore di percezione, ed è -

per esclusione -quella dello Spirito infinito rispetto ai singoli individui.

"Tutti gli oggetti sono eternamente conosciuti da Dio, o, ciò che è lo stesso,

hanno un'eterna esistenza nella Sua mente: ma quando le cose, prima non percepibili

dalle creature, sono, con un decreto di Dio, percepibili da esse, allora si dice che le

cose cominciano un'esistenza relativa, rispetto alle menti create." (George Berkeley,

Dialoghi tra Hylas e Philonous, Torino, 1969, p. 157).

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Questo per quanto riguarda l'idealismo empiristico. In che rapporto col solipsismo

sta l'idealismo trascendentale? Per Hegel, come per Croce, tutta la realtà è idea, ossia

ragione: "Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale." Anche

l'idealismo trascendentale, o assoluto, nega dunque l'esistenza oggettiva di una

sostanza materiale: tutte le sue imponenti costruzioni speculative muovono da questa

premessa - senza porsi, invero, il problema di abbozzarne una dimostrazione. Se ne

dovrebbe dedurre che, anche per esso, la realtà fenomenica non ci si palesa che per

mezzo di percezioni illusorie; e anche da questo lato, perciò, si ricade nel solipsismo.

Se ne esce ponendo tutta la realtà al di fuori della sostanza materiale, nello Spirito

assoluto: ma questo è un atteggiamento teoretico, non pratico. Nel mondo

fenomenico l'idealista trascenentale non può porsi che in una posizione solipsistica, e

ridurre tutti gli oggetti esterni della sua percezione a creazioni o apparenze della

mente individuale.

Idealismo empiristico e idealismo trascendentale non sono dunque, veramente,

due indirizzi diversi di pensiero, e sia pure dello steso pensiero; sono due momenti

distinti di un unico atteggiamento filosofico. Il primo pone l'accento sul momento del

percipere, e ne trae la conclusione dell'inesistenza d'una realtà materiale; il secondo

si interessa all'esse, e si rappresenta l'intera realtà come spirito razionale. Una

differenza d'accenti, dunque, non di concezioni e nemmeno di metodi: e dell'uno

come dell'altro il necessario complemento è il solipsismo, come posizione del

soggetto di fronte alla realtà esterna, almeno di quella fenomenica.

Se ogni atteggiamento filosofico idealistico conduce, per quel che riguarda la

realtà materiale, a una forma più o meno sfumata di solipsismo, è possibile di qui -

sempre per quel che riguarda il mondo fenomenico, campo d'attività dello storico -

sottrarsi a un crescente sentimento di scetticismo? Nella storia della filosofia, come

tutti sanno, il nome di Locke è legato, come necessario antecedente, a quello di

Berkeley, così come quello di Berkeley sembra condurre molto naturalmente a quello

di Hume, che appunto sul limitare dello scetticismo arresta la sua speculazione

filosofica. Se ne dovrebbe concludere che le logiche premesse dell'empirismo

conducono, sviluppate, all'idealismo empirico e di qui allo scetticismo? O, per

limitare il campo della questione che ci eravamo posta, che l'idealismo empirico (e

quindi anche il suo logico correlato, il solipsismo) conducono necessariamernte allo

scetticismo? Sembra difficile negarlo, dal momento che il solpsismo delinea una

visione del mondo così malagevole e angosciosa, per i bisogni e gl'istinti della vita

quotidiana, che occorre una notevole energia mentale per non lasciarsesi travolgere

da essa.

E in effetti, dal fondo dello scetticismo cui le premesse della sua stessa filosofia

minacciavano di farla precipitare, solo una mente lucida e pacata come quella di

David Hume poteva risalire a riconquistare la forza di continuare tranquillamente

l'esistenza di tutti i giorni.

"La grande sovvertitrice del pirronismo, cioè dello scetticismo eccessivo, è

l'azione, il lavoro e le occupazioni della vita quotidiana. Questi princìpi scettici

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possono fiorire e trionfare nelle scuole, dove, in verità, è difficile se non impossibile

confutarli. Ma appena essi escono dall'ombra e per la presenza degli oggetti reali

che mettono in movimento le passioni ed i sentimenti, vengono contrapposti ai più

potenti princìpi della natura umana, svaniscono come fumo e lasciano lo scettico più

ostinato nella stessa condizione degli altri mortali." (David Hume, Ricerche

sull'intelletto umano, Bari, 1974, p. 202 (sez. XII, parte II).

Ora, con qual mezzo il filosofo, lo storico o, in generale, l'intellettuale possono

risalire la china dello scetticismo, ove l'idealismo e il solipsismo li abbiano sospinti, e

tornare a guardare senza disgusto e senza illusioni il mondo della realtà fenomenica

che cade sotto i nostri sensi?

Lo scetticismo radicale, già lo abbiamo visto, cade e si elimina da sé medesimo:

esso, per usare un'espressione di Johann Huizinga, è "certamente un bel gioco

intellettuale; ma con esso non si può più vivere." (J. Huzinga, La scienza storica, cit.,

p. 88). È la stessa natura umana che reagisce con tutte le sue forze alle rigorose ma

aride e sconcertanti dimostrazioni dell'intelletto, e proclama il suo diritto a vivere,

sentire, vedere, toccare, giudicare; giacché lo scetticismo assoluto non è forse tanto

un "bel gioco", quanto piuttosto uno stato di angoscia insopportabile, uno

sradicamento della natura umana dalle proprie radici. E quel che non viene mai

considerato abbastanza è che ogni dualismo è uno sradicamento della natura umana

dalle proprie radici.

Ha cominciato Platone. Egli per primo ha creato un sistema di pensiero organico,

grandioso e suggestivo, ove il mondo superiore delle Idee è posto non tanto come

superamento o perfezionamento della realtà sensibile, quanto contrapposto ad essa e

proiettato, al tempo stesso, in lontananze irraggiungibili. Ogni idealismo sfocia

sempre in una forma di dualismo, in una lacerazione, in una negazione di ciò che è

parte della natura umana e della sfera mentale in cui vive e pensa. E ogni dualismo

porta sempre, per un verso - quello della raltà svalutata o addirittura negata - al

solipsismo e allo scetticismo.

Già David Hume si spingeva al di là delle proprie premesse, e concludeva che un

moderato e giudizioso scetticismo è un atteggiamento mentale decisamente utile in

ogni circostanza della vita, mentre lo scetticismo radicale si esaurisce in sé stesso e

fatalmente ristagna delle acque morte dell'impotenza.

"Basta che chiediamo ad uno scettico del genere [ossia radicale]: qual è la sua

intenzione? E che cosa si propone con tutte queste curiose ricerche? Si trova subito

imbarazzato e non sa che cosa rispondere. (…) Risvegliato dal suo sogno, sarà il

primo a ridere di sé stesso ed a confessare che tutte le sue obiezioni sono meri

passatempi e non possono servire ad altro che a mostrare la stravagante condizione

in cui si trova l'umanità che deve agire e ragionare e credere." (David Hume, Op.

cit., sez. XII, parte II, pp. 203-04).

Questi problemi sono soprattutto importanti per lo storico, impegnato in un'opera

di ricostruzione del passato che è fatto di uomini e azioni, e ch'egli non potrebbe

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nemmeno intraprendere se realmente fosse convinto della non-esistenza della realtà

esterna (non diciamo della sostanza materiale, che è già altra questione). Egli, d'altra

parte, non può semplicemente ignorare tutte le obiezioni filosofiche che sono state

mosse all'esistenza, o quanto meno alla conoscibilità, di tutti quegli oggetti che la sua

professione lo costringe continuamente a considerare e a valutare. Anche in questo

senso una filosofia personale, una concezione del mondo da parte dello storico è

premessa e strumentoindispensabile al proprio lavoro.

Dopo tutto quanto abbiamo detto in proposito, vorremmo aggiungere che la

condizione a nostro avviso più propizia per affrontare una ricostruzione del passato

consiste in un atteggiamento di moderato relativismo. L'idealismo, già lo abbiamo

visto, pone un dualismo, e quindi una lacerazione dello spirito umano: esso per un

verso conduce direttamente al trascendentalismo, e per l'altro piomba inevitabilmente

nel solipsismo: e di qui allo scetticismo radicale, il passo è breve. Ora il

trascendentalismo, o meglio la tensione metafisica, che ne è la logica conseguenza,

costituisce una forma rispettabilissima di speculazione filosofica; ma è difficile che

possa trasformarsi in un costruttivo punto di partenza storiografico. Il meno che si

possa dire di ogni storiografia idealistica è che essa dà al lettore la spiacevole

impressione che lo storico nutra la convinzione di esser stato egli solo messo a parte

dallo Spirito Assoluto dei suoi piani ineffabili; se non, addirittura, che sia

quest'ultimo a sforzarsi di adeguare la propria azione nel mondo alla filosofia della

storia professata da quello studioso. Questa è precisamente l'impressione, ad esempio,

che si ricava dalla lettura di Hegel: sembra che lo Spirito Assoluto e le sue

manifestazioni si pieghino umilmente a seguire i dettami del pensatore di Stoccarda.

Impressione analoga si ritrae dalla concezione storicistica di Croce, ove lo Spirito

sembra non aspettar altro che le categorie crociane per articolarsi nell'attività teoretica

e in quella pratica.

Il solipsismo, l'altra faccia della medaglia dell'idealismo, rappresenta dal punto di

vista teoretico l'eccesso opposto. Là dove le manifestazioni e le stesse finalità

dell'Idea universale sembrano non aver segreti per il filosofo trascenentalista, il

solipsismo si chiude nella più stretta soggettività individuale e non ardisce fare il

minimo paso all'esterno, che vada oltre l'immediata intuizione del cogito cartesiano.

Al tempo stesso, però, nel solipsismo vi è una componente di "audacia intellettuale"

che contrasta con il suo appaente negativismo: esso, cioè, non si limita a negare la

conoscibilità della realtà esterna al soggetto individuale, ma si spinge fino ad

affermarne la non-esistenza, in quanto la riduce semplicemente alle percezioni del

soggetto stesso.

Nello scetticismo, poi, emergono due tendenze fondamentali: da un lato quella

"moderata", che si limita a una sospensione del giudizio; dall'altra una radicale, che

supera perfino le premesse del solipsismo in quanto abolisce ogni distinzione tra

soggetto percipiente e realtà esterna, e nega puramente e sempliemente ogni

possibilità di conoscere il reale. Ora è ovvio che tanto il solipsismo, quanto la sua

manifestazione estrema, rappresentata dallo scetticismo radicale, rispondono a

concezioni del mondo che contrastano irrimediabilmente con il sentimento storico.

Nel primo caso, tutta la storia si vedrebbe ridotta a "illusione" o "delirio" della mente

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soggettiva, né potrebbe minimamente aspirare a una ricostruzione valida per più di un

solo individuo; nel secondo, dovrebbe di necessità limitarsi a una miope e pedissequa

narrazione degli avvenimenti (ammesso che ciò sia possibile), una storia monotona

senza principio né fine, senza insegnamenti e perfino senza significato (una assurda e

tragica pupazzata, come avrebbe detto Luigi Pirandello).

D'altraparte, è noto che un atteggiamento filosofico più ragionevole ha sempre

sottolineato l'importanza di una forma di scetticismo moderato, la cui funzione e

utilità principale consistono nello smuovere i dogmi e ogni forma di pensiero rigido,

che da sempre costituiscono il più potente sonnifero per la mente umana. Come

antidoto alla dogmatica e alla sistematica astratta e presuntuosa, come strumento

critico d'indagine e di ricerca e come stimolo contro ogni forma d'inerzia intellettuale,

lo scetticismo moderato è un fondamentale atteggiamento propedeutico alla filosofia,

che trova il suo complemento di segno positivo in un altrettanto moderato

relativismo. Là dove lo scetticismo distrugge falsi miti e mette in guardia contro

vane presunzioni e pompose assurdità, il relativismo fornisce un senso alla ricerca e

offre, al tempo stesso, una prospettiva storica ove collocare i vari ordini di fatti. Il

relativismo è una concezione altamente storica della realtà, nel senso che, rifiutando

ogni teorizzazione astratta, scende sempre sul terreno fenomenico concreto e non

presume di poterlo giudicare dal di fuori, ma solo entro la cornice spazio-temporale

in cui si producono i singoli eventi. Vorremmo dire che il relativismo è la

generalizzazione filosofica dello storicismo (non quello di matrice idealistica,

naturalmente, ma quello tedesco iniziato dal Dilthey); è, potremmo dire, storicismo

assoluto, se il Croce non avesse già utilizzato questa espressione con ben diverso

significato. Il concetto dell'unicità e irripetibilità degli accadimenti storici è

necessariamente legato a quello della mancanza di oggettività della conoscenza, e

della sua validità unicamente in relazione al soggetto. Là dove lo storicismo di

Troeltsch e di Meinecke finiva per concludere che non esistono valori e realtà

permanenti, il relativismo suggerisce che la realtà esterna in quanto tale è

inconoscibile, e che solo le forme particolari entro cui agisce il soggetto in una

determinata cornice spazio-temporale possono essere oggetto d'indagine obiettiva.

Ciò non significa - lo abbiamo già detto - rinunciare a un tentativo di ricostruzione

del passato in quanto tale. Significa semplicemente sgombrare il campo da molte

illusioni e false certezze, e guardare senza veli la reale natura della storiografia. Lo

sforzo verso l'oggettività della ricostruzione storica può e deve esserci, ma è

importante sapere che di uno sforzo si tratta - cioè di un'aspirazione, di un desiderio;

e che non può essere nulla di più.

Concludendo, i fatti vanno sì studiati nella loro concretezza immediata e

irripetibile, ma (o meglio, appunto per questo) le circostanze in cui si presentano sono

sempre non comparabili. Niente generalizzazioni, quindi, niente parametri di

valutazione uguali per civiltà ed epoche storiche diverse. I bisogni e le aspirazioni

costanti riscontrabili nella vita dell'essere umano sono campo di studio della filosofia,

alla storia interessa ciò ch'è concreto, immediato, particolare. Non i bisogni e le

aspirazioni eterni dell'essere umano, ma i modi concreti e irripetibili con cui

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storicamente ha tentato, volta a volta, di soddisfarli. La storia non studia le

rivoluzioni, ma la rivoluzione francese, quella industriale, ecc. La storia non studia le

guerre, ma la guerra dei Cent'Anni, la guerra delle Due Rose, ecc. Certo, lo storico

non può lavorare a casaccio, per cui deve essere in possesso di un proprio concetto

filosofico di "guerra", "rivoluzione", e così via. Ma quello che lo interessa realmente,

ai fini della ricostruzione, sono soltanto le manifestazioni storiche particolari e

concrete di tali categorie fenomeniche.

3. LA STORIA E I GIUDIZI MORALI.

Una delle questioni più lungamente e inutilmente dibattute tra gli storici è quella dei

rapporti tra storiografia ed etica, ossia della legittimità dei giudizi di carattere morale

nei confronti di uomini ed eventi del passato. Abbiamo detto inutilmente, perché una

breve analisi della questione ci rivelerà trattarsi - anche in questo caso - di un falso

problema, tenuto in piedi più dalla forza dell'abitudine e da una serie di equivoci, che

da una sua reale necessità.

In linea di massima possiamo accettare la nota espressione che "la storia deve

preoccuparsi di comprendere, più che di giudicare": una massima tanto ovvia e

intuitiva che alcuni storici, alle prese con nomi e parole più che con idee e concetti,

hanno finito per perderla di vista. E in effetti, qualsiasi discussione circa la legittimità

dei giudizi morali in sede storiografica sembra nascere piuttosto sul terreno astratto

della teoria, che su quello concreto della ricerca e della ricostruzione. Anche in

questo caso, il discutere tanto intorno a una questione di per sé (metodologicamente)

trascurabile, ha finito per ingigantire artificialmente il dibattito, spostando il fulcro di

esso dalla pratica storiografica alle questioni etiche e filosofiche ad essa correlate.

Certi storici si mostrano terribilmente preoccupati all'idea di non poter esprimere

giudizi di condanna sui grandi "mostri" della storia, e alcuni altri si impegnano, con

energia non minore, ad interdire loro questo indebito sconfinamento nei regni

opinabili e soggettivi della morale. Ma se tutti sono veramente d'accordo sul fatto che

"la storia deve sforzarsi di comprendere più che di giudicare", il contrasto sembra in

realtà destinato a sussistere solo fintanto che essi troveranno preferibile fingere di

parlare due lingue diverse.

Lo storico - lo abbiamo detto e ripetuto - è un essere umano; e, in pratica, non si

troverà un solo storico che sia riusciuto a evitare, in sede di ricostruzione e di

interpretazione del passato, qualche "sconfinamento" più o meno indebito nel campo

dei giudizi morali. Ciò è connaturato alla struttura dell'essere umano e anche a quella

del divenire storico, il quale, sottoponendo continusamente alla nostra attenzione il

carattere e le azioni di altri esseri umani, ci induce quasi nostro malgrado ad

approvare o a condannare. Certo, è fondamentale che lo storico abbia coscienza che

tale disposizione d'animo potrebbe portarlo a indebite conclusioni e, forse, ad

autentici travisamenti, e che cerchi il più possibile di controllare la propria sensibilità

etica nei riguardi di vicende del passato. Ma il fatto stesso che si continui a discutere

e, spesso, a polemizzare accesamente su tali questioni, indica chiaramente come non

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sia in potere dell'essere umano - e quindi neanche dello storico - sopprimere

completamente l'atto naturale e istintivo del giudicare.

È vero che grandi passi avanti sono stati fatti, rispetto alla storiografia di un

tempo. Nella storiografia classica si notano due atteggiamenti al riguardo. Da un lato

vi è la fredda indagine di Tucidide, di Senofonte, di Polibio, in parte anche di Tacito,

in cui il problema morale passa in secondo piano per lasciare il più ampio spazio alla

trattazione "oggettiva" degli avvenimenti. Dall'altro Sallustio, Plutarco, Svetonio,

Zosimo riservano un posto preminente ai fattori morali, che non mancano di porre

direttamente in relazione con le cause profonde di determinati avvenimenti storici.

Prendiamo il caso di Zosimo, il misterioso storico pagano della "decadenza"

dell'Impero Romano. Per lui, le sorti dello Stato sono direttamente legate al rispetto

della tradizione religiosa pagana, e tutte le altre ragioni di debolezza o di senescenza

della civiltà antica appaiono ridotte a ben poca cosa rispetto a questa. Ai suoi occhi

ciò diviene quasi un fatto automatico, una chiave di lettura con cui va interpretata

tutta la storia tardo-antica: con Costantino i culti antichi vengono per la prima volta

trascurati dall'imperatore, e per lo stato si apre un periodo disastroso di corruzione e

guerra civile; Giuliano li rimette in auge, e si delinea una ripresa; con Teodosio, che è

un ozioso e un dissoluto, il paganesimo riceve il colpo di grazia e l'Impero riprende la

sua corsa precipitosa verso l'abisso.

"Se il cristanesimo è corruzione, anche la politica di Costantino 'convertito'

diverrà corrotta e ne conseguirà direttamente lo sfacelo politico e amministrativo

dello Stato." (G. Zucchelli, La propaganda costantiniana e la falsificazione storica in

Zosimo, in I canali della propaganda nel mondo antico, vol. IV, Milano, 1976, p.

248).

La storiografia altomedioevale riprende ed accentua la componente moralistica di

tipo plutarchiano, che era stata fatta propria dalla storiografia cristiana tardo-romana

e bizantina. Sant'Agostino aveva addirittura ridotto l'intera vicenda della storia

universale a una incessante, drammatica lotta tra la Città di Dio e la città degli

uomini: l'una ispirata dall'amore verso Dio, l'altra dall'egoismo, cioè dall'amore di sé

stessi. Ma come spiegare i disastri sociali e militari che si abbattevano sempre più

duramente sul corpo dell'Impero, ora che la vera religione trionfava sul Campidoglio

e nel palazzo dei Cesari? Sant'Agostino non aveva avuto esitazioni: le apparenti

sciagure erano in definitiva delle occasioni di bene, o, al massimo, giusti castighi

contro la corruzione degli uomini.

Tale schema fu interamente accettato e ripreso da Paolo Orosio. Egli si preoccupa

di mettere in chiaro che le sciagure che si abbattono sull'Impero non avvengono per

colpa dei sovrani, che sono pii, ma per la scelleratezza degli uomini; sempre, però, il

Dio dei cristiani finisce per gettare il peso della propria potenza dalla parte dei giusti.

"Perciò Dio, giusto provveditore delle umane cose, fece perire il nemico pagano

e prevalere quello cristiano in modo che i Romani pagani e bestemmiatori

rimanessero confusi per colui che era andato in rovina e venissero puniti da chi ne

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aveva preso il posto; questo massimamente perché non poco valevano agli occhi

della divina misericordia la purissima fede dell'imperatore Onorio e la sua

moderazione, davvero ammirevole in un re." (Paolo Orosio, Storie contro i pagani,

libro VII, 37; in I Barbari, a cura di E. Bartolini, Milano, 1970, p. 141).

È noto che Zosimo seguì esattamente questo schema storico, soltanto

rovesciandone i termini: il suo punto di vista era quello, polemico e pessimista, di un

pagano che vedeva coincidere significativamente la rovina dell'antica religione con la

rovina dello Stato.

Negli storici dell'Alto Medioevo, ecclesiastici per la maggior parte, la

componente moralistica di matrice religiosa si accentua ancor di più; ma, a causa del

contemporaneo venir meno di ogni interesse per la concatenazione causale degli

eventi e per la processualità della storia, essa viene "polverizzata" e frammischiata

alla serie monotona e slegata di accidenti curiosi o prodigiosi, di stranezze, di

miracoli, di fantasie, che caratterizzano la storiografia di quest'età. Nella Vita di San

Severino di Eugippio i miracoli e il soprannaturale occupano un posto più importante

di ogni altro ordine di eventi.

Jordanes e Paolo Diacono, entrambi di origine barbarica (ostrogoto il primo,

longobardo il secondo) complicano questo schema esilissimo. Benchè ecclesiastici

sia l'uno che l'altro e profondamente latinizzati, non è ancor spenta in loro l'antica

fiamma dell'orgoglio di razza, ciò che li pone sovente in una posizione palesemente

contraddittoria, presi tra l'istinto di magnificare le "gloriose" imprese dei barbari e il

dovere, per così dire, di esaltare la superiore civiltà di Roma. Il moralismo di Paolo

Diacono, per esempio, trova allora il modo di esplicarsi pienamente là dove delinea il

quadro dei costumi del suo popolo quando, non ancora convertito al cattolicesimo,

non solo verso i Romani ma anche al proprio interno si abbandonava alla naturale

ferocia della sua barbarica indole. Un esempio classico di questo atteggiamento si

può vedere nel famoso episodio della cena di Alboino e Rosmunda:

"Alboino regnò in Italia per tre anni e sei mesi e fu poi ucciso per le trame della

moglie. La causa della sua uccisione fu questa. Mentre sedeva a banchetto a Verona,

allegro oltre il lecito, ordinò che alla regina fosse dato da bere del vino nella coppa

che si era fatto fare col cranio di suo suocero, il re Cunimondo, e la invitò a bere

lietamente in compagnia del padre. Ciò non sembri impossibile, perché in nome di

Cristo dico il vero: vidi io stesso quella coppa in occasione di una festa, e il principe

Rachis la teneva in mano e la mostrava con ostentazione ai suoi convitati.

Rosemunda perciò, come vide quel gesto, provando in cuor suo un dolore così

profondo che non riusciva a calmarsi, subito arse della brama di uccidere suo marito

per vendicare la morte del padre." (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi,II, 28;

Milano, Rizzoli, 1967, p. 69).

Alle soglie dell'età moderna, Francesco Guicciardini - il più grande storico del

Rinascimento italiano - accantona invece completamente ogni considerazione di

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carattere moralistico e si concentra tutto nella ricerca dei fattori oggettivi della storia.

Il suo sguardo lucido e disincantato, fortemente pessimista, vaglia e soppesa moventi

materiale e spirituali alla luce di un'attenta analisi dei fatti. Circa nello stesso tempo

Niccolò Machiavelli - inferiore al Guicciardini come storico, superiore come

pensatore politico - opera la rottura definitiva tra etica e politica e rivendica la

completa autonomia di quest'ultima: con lui, anche la storia si libera dal peso di una

tradizione secolare e fonda la propria dignità su una completa autonomia. Se ciò sia

stato un male o un bene, non è questa la sede per discuterne. La figura morale di papa

Borgia gli serve appunto per delineare le caratteristiche necessarie all'uomo di potere:

spietatezza, ipocrisia, mancanza di scrupoli.

"Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare

uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi

maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa,

che la osservassi meno; non dimeno, sempre li succederono l'inganni ad votum,

perché conosceva bene questa parte del mondo. A uno principe, adunque, non è

necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di

averle. Anzi, ardirò di dire questo: che avendole e osservandole sempre, sono

dannose, e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero,

religioso, ed essere, ma stare in modo edificato con l'animo, che, bisognando non

essere, tu possa e sappi mutare el contrario. E hassi ad intendere questo, che uno

principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le

quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato,

operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla

religione. E però bisogna che egli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e

venti della fortuna e le variazioni delle cose li comandano, e, come sopra dissi, non

partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato." (Niccolò

Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII, 4).

La storiografia del Seicento prosegue lungo la via aperta da Machiavelli e

Guicciardini, ma è col Settecento, e soprattutto con l'Illuminismo, che la storiografia

si lascia definitivamente alle spalle l'atteggiamento moralistico per concentrarsi

sull'analisi spassionata dei fatti. È l'inizio di un atteggiamento "storicistico": non a

caso il Meinecke, nel suo Die Enstehiung des Historismus, prende le mosse dall'età

illuministica.

Ma prendiamo in esame, una per una, le singole opere dei massimi storici di

quell'età, e domandiamoci: sono sfuggiti veramente alla tendenza moraleggiante, che

porta l'autore a comportarsi come un giudiuce che approva o condanna le azioni degli

uomini passati? Ci accorgeremo ben presto che la storiografia illuministica resta

presa, in certo qual modo, entro i lacci della propria prospettiva filosofica. È vero che

la componente razionale dell'uomo viene rivalutata e assume un posto centrale nella

ricostruzione; ma ogni qualvolta le vicende passate rivelano aspetti che sono in

contrasto con quegli ideali di razionalità, di tolleranza e di libertà di coscienza che lo

storico ferventemente professa, questi insorge con violenza contro la materia stessa

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del passato, e ricade inconsapevolmente in un moralistico giudizio su uomini e cose.

Solo che in età medioevale "malvagio" era sinonimo di non cristiano; ora lo è di non

razionale e, in definitiva, di non "illuminato". Quando invece la realtà del passato

appare conforme agli ideali e alle aspirazioni professate dal "secolo dei lumi", lo

storico non esita a lanciarsi nell'elogio più sperticato, nell'approvazione più calorosa,

allontanandosi anche in questo caso - sia pure per una via opposta - da un imparziale

equilibrio di giudizio.

Per Voltaire, ad esempio, l'imperatore Marco Aurelio è "il primo degli uomini";

Giuliano è un modello di perfezione assoluta; mentre Costantino è una sentina di vizi

e un tiranno feroce e inumano.

"Qualche volta si tarda molto ad aver giustizia. Due o tre scrittori, mercenari o

fanatici, si mettono a parlare del barbaro ed effeminato Costantino come di un dio, e

trattano da scellerato il giusto savio e grande Giuliano. Tutti gli altri, copiando i

primi, ripetono l'adulazionee la calunnia. Queste opinioni diventano quasi un

articolo di fede. Finalmente arriva il tempo della savia critica e, dopo qualcosa come

quattordici secoli, alcuni uomini illuminati fanno la revisione di quel processo che

l'ignoranza aveva dimenticato. Si scopre così che Costantino era un ambizioso

fortunato, che non rispettava né Iddio né gli uomini, che ebbe l'insolenza di fingere

che Dio gli aveva mandato per aria una insegna ad assicurargli la vittoria, che si

bagnò nel sangue di tutti i congiunti, si abbrutì nelle mollezze, ed ebbe solo l'astuzia

di farsi passare per cristiano: in conseguenza di che fu canonizzato. Giuliano invece

fu sobrio, casto, disinteressato, valoroso e clemente; ma, non essendo cristiano, fu

considerato per secoli come un mostro. (…) Insomma, sulla base dei fatti, siamo stati

obbligati a riconoscere ch Giuliano aveva tutte le qualità di Traiano, salvo quei tali

gusti che furon per tanti secoli ammessi fra i Greci e i Romani; tutte le virtù di

Catone, ma non la sua ostinazione e la sua acredine; tutte le qualità che ammiriamo

in Giulio Cesare, senza i suoi vizi; ed ebbe anche la continenza di Scipione. Infine,

egli fu in ogni cosa pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini." (Voltarire,

Dizionario Filosofico, voce Giuliano il filosofo, imperatore romano, ed. it. Milano,

1977, pp. 407-08 , 409).

Nel Decline and Fall di Gibbon i giudizi moralistici si contano letteralmente a

migliaia, e non sempre sono particolarmente equilibrati. Talvolta il grande storico

inglese si abbandona a deprecazioni così violente e a generalizzazioni così

grossolane, che in alcuni punti della sua pregevole e monumentale opera, purtroppo, i

limiti di questo approccio settecentesco alla storia si fanno sentire in modo piuttosto

pesante.

"Il cupo ed implacabile Tiberio, il furioso Caligola, lo stupido Claudio, il

malvagio e crudele Nerone, il bestiale Vitellio ed il timido e disumano Domiziano,

sono condannati ad una perpetua infamia." (Edward Gibbon, Op. cit., cap.III, Roma,

1973, vol, 1, p. 113).

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E chi più ne ha, sembra proprio il caso di dire, più ne metta. Nemmeno

Montesquieu va esente da tali difetti, e senza ombra d'incertezza non esita a dividere

gli imperatori romani - in un capitolo intitolato Delle ricompense che dà il sovrano -

in "buoni" e "cattivi":

"I peggiori imperatori romani sono stati quelli che hanno donato di più: per

esempio Caligola, Claudio, Nerone, Otone, Vitellio, Commodo, Eliogabalo e

Caracalla. I migliori, come Augusto, Vespasiano, Antonino Pio, Marco Aurelio e

Pertinace, sono stati economi." (Montesquieu, Lo spirito delle leggi, libro V, cap.

XVIII; Milano, 1967, vol. 1, p. 104).

Si noti che né nel primo elenco, né nel secondo troviamo il nome di Tiberio. La

ragione è semplice: certamente egli fu un imperatore "economo", scruploso

amministratore delle finanze statali; però la tradizione moralistica, risalente a Tacito e

Svetonio e giunta - come abbiamo testé veduto - fino a Gibbon, lo aveva bollato, una

volta per tutte, fra i peggiri tiranni della storia. Dunque, se non si poteva lodarlo,

bisognava almeno tacerlo. Ciò dimostra, una volta di più, che non sono i "fatti" a

parlare, ma è lo storico che li fa parlare: e fa dir loro quel che conferma i suoi

pregiudizi; altrimenti, piuttosto che dar ragione ad essi e torto ai suoi preconcetti,

preferisce far finta di non vederli.

Dopo l'età dell'illuminismo, gli indirizzi storiografici si moltiplicano lungo il

corso dell'Ottocento, e l'atteggiamento dei singoli storici nei confronti del giudizio

morale diviene estremamente vario, tanto da non poter essere più seguito, neppure

per sommi capi, nell'ambito di questo lavoro. Certo, la storiografia positivista

infligge un duro colpo alle "intrusioni" etiche nella ricostruzione del passato, ed alla

storiografia romantica che di esse aveva fatto largo uso. Ma il romanticismo non è

tanto un movimento intellettuale o un indirizzo culturale, quanto piuttosto una

tendenza naturale ed eterna dell'animo umano: il positivismo non potè distruggerne le

radici profonde, che sono parte integrante di ognuno di noi; allo stesso modo, non

potè troncare in maniera definitiva la tendenza "moralistica" nella storiografia.

Mommsen non potè trattenersi dal definire Pompeo "un pusillanime", come

Burckhardt dal chiamare Costantino "un egoista in manto di porpora". Sembra ancora

di sentire Montesquieu che chiama l'imperatore Massimino "feroce e insensato", o

Gibbon che definisce l'animo di Valentiniano III "privo di amicizia e di gratitudine".

È anzi interessante confrontare i giudizi morali emessi dalla storiografia illuminista

su determinati personaggi, con quelli degli storici del secolo successivo, sulle stesse

personalità. Ferdinand Gregorovius, "uno storico poeta" - come è stato da qualcuno

definito (G. Brindisi, Uno storico poeta: F. G., , in Nuova cultura, I, 1921), ha

talvolta ricalcato passo passo i giudizi di Gibbon: anche per lui Valentiniano III era

"un vile", e "un imperatore di scarsa intelligenza".

Neppure nel XX secolo la tendenza al giudizio morale può dirsi scomparsa del

tutto dal campo della storiografia. Naturalmente, vi sono molti modi per effettuare

un'intrusione moralistica nella ricostruzione del passato. Quello di catalogare

semplicisticamente uomini e azioni in "buoni" e "cattivi" - il più banale e, a un

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tempo, il più diffuso - sembra oggi definitivamente scomparso; solo la peggiore

storiografia divulgativa lo tiene ancora in piedi. Ma anche dei "giudizi" globali sul

carattere di un dato personaggio, non possono venir emessi che sulla base di un

preconcetto etico. In un tempo in cui la storiografia ha definitivamente preso

coscienza che suo compito è "comprendere, non giudicare", anche questi tentativi di

giudizio complessivo (e necessariamente sbrigativo) sarebbe auspicabile che

venissero quanto prima abbandonati.

Un caso clamoroso è quello di Hitler, la cui personalità è stata identificata dagli

storici del secondo dopoguerra come "il male assoluto" o, nel migliore dei casi, come

un soggetto psicopatologico, con l'implicita conseguenza che non vale la pena di

indagare sulle sue motivazioni né sulla sua visione del mondo, se non per dimostrare

una tesi precostituita: che egli fu un pazzo o un criminale, o entrambe le cose. Il tutto,

con il sottinteso che concedergli un diverso tipo di attenzione - cioè, quello che uno

storico dovrebbe comunque rivolgere agli oggetti della sua disciplina, "non per

giudicare, ma per tentare di comprendere", in questo particolare caso sarebbe fuor di

luogo e inopportuno. A meno, s'intende, che non si voglia in qualche modo tentare di

riabilitarlo: questo il ricatto che ha reso impossibile accostarsi alla figura di Hitler -

come a quelle di altri grandi "maledetti" della storia - con un minimo di obiettività e

di serenità di giudizio. Certo, nessuno vuol dire che sia facile accostare

"serenamente" una figura come quella di Hitler; d'altra parte, definirla "demoniaca"

non può avere altro significato di che quello di indurre lo storico ad accettarne in

partenza l'assoluta irrazionalità, che è, per uno storico, la stessa cosa che confessare il

proprio fallimento prima ancora di aver tentato una qualche interpretazione.

Uno dei pochi studiosi che ha osato infrangere questo tabù è stato Eberhard

Jäckel, con un saggio apparso nel 1969 in Germania con il titolo Hitler

WeltanschauungEntwurt einerHerrschaft. In buona sostanza, dopo anni di anatemi e

di ostracismo, la questione ch'egli poneva era la seguente: Hitler fu solo un cinico

opportunista che cercava "il potere per il potere", o ebbe una sua coerenza, per quanto

perversa e criminale, una sua chiara visione della politica ? Fino ad allora, quasi tutti

gli storici (sulla scia di Rauschning) avevano risposto affermativamente alla prima

alternativa, e negativamente alla seconda. Ciò li aveva in pratica esentati dall'onere di

cercare nella politica nazista, interna ed estera, qualche cosa di più che il delirio di

onnipotenza di un paranoico amorale e improvvisatore.

"Chi assume come strumento di lavoro (che non voglia o non possa far

diversamente) il vocabolario di un rifiuto passionale e di una indignazione morale,

chi mette continuamente le parole tra virgolette per dar loro una coloritura negativa,

e pensa a ogni riga di doversi distanziare dall'argomento, non può aspettarsi di

capire qualcosa. L'odio rende ancora sempre ciechi, e il danno in queso caso, nel

caso di un dibattito scientifico, va non all'oggetto dell'odio, ma a chi quest'odio

esprime. Se è vero il motto goethiano, che non si conosce nulla che non si ami,

bisognerà abbandonare ogni ricerca seria su Hitler. Ma non deve poterci essere una

via di mezzo, quella di un'analisi obiettiva e imparziale? Il presente studio parte in

ogni caso dalla convinzione che una rappresentazione spassionata di Hitler sia

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sufficientemente eloquente da rendere superfluo l'uso continuato di epiteti di

aberrazione: intende perciò rinunciarvi, e non già per neutralità morale, ma per

favorire un risultato serio dell'indagine. In secondo luogo il dibattito sembrava

essersi compromesse le possibilità di successo (e torniamo così alle obiezioni di

Nolte) con l'introduzione prematura di giudizi di valore. Certo può esservi la

giustificazione, anzi addirittura l'esigenza, di tali giudizi: però è ancor sempre valido

il concetto che una indagine scientifica, per esser tale, deve in un primo tempo

tenersene lontana. Dove sta scritto, a esempio, che una Weltanschauung debba aver

raggiunto un determinato livello ideologico o morale per essere riconosciuta come

tale?E anche se così fosse, che metro si potrà impiegare per misurare questo livello

minimo richiesto? (…) Se egli [cioè Hitler], come si è affermato a lungo, non aveva

obiettivi precisi, non occorreva ricercarli, e, se lo si faceva ugualmente, si era

addirittura sospettati di voler attribuire alla immagine del tiranno tratti di

grandezza." (Eberhard Jäckel, La concezione del mondo in Hitler, tr. it. Milano,

1972, pp. 24-25, 31).

Abbiamo già visto come sia difficile afferrare i moventi delle azioni umane,

specie a distanza di tempo, e come, anzi, "personalità totali" non esistano, e ognuno

di noi sia, in realtà, per usare una celeberrima espressione pirandelliana, "uno,

nessuno e centomila". Quasi tutte le più aggiornate correnti di pensiero hanno ormai

fatto proprio un tale punto di vista, dal quale neanche lo studioso di storia ha ormai

più il diritto di prescindere. Sul terreno concreto della ricostruzione storiografica,

quel che interessa chiarire non è se l'assassinio di Giulio Cesare sia stato un atto

moralmente condannabile, ma attraverso quali moventi e quali condizioni politiche

sia potuta maturare una simile congiura contro l'uomo che aveva posto fine alla

Repubblica romana. Parrebbero considerazioni così ovvie e banali, da non meritare

neppur di essere sottolineate; ma ancor oggi, e troppo spesso, esse vengono

accantonate più o meno consapevolmente da molti storici, tutti presi dall'ardore della

ricostruzione.

È soprattutto il delitto che continua ad esercitare uno strano fascino sugli storici

delle tendenze più disparate. Nel suo saggio - peraltro eccellente - su Galla Placidia,

lo storico dell'antichità americano S. I. Oost, giunto a narrare l'assassinio del patricius

Ezio da parte di Valentiniano III, non ha potuto trattenersi dal considerare:

"Se questo assassinio di Ezio fu giustificato o no è una difficile questione morale.

Certamente Ezio fu un traditore, che aveva acquistato il proprio potere venti anni

prima con l'impiego di forze armate [leggi: gli Unni] contro il proprio paese, forze

armate ottenute con la cessione di un territorio del proprio paese. E per venti anni

grazie al controllo di quelle forze armate egli aveva dominato il governo legale dello

stato. Esistevano parecchie leggi romane che condannavano una tale condotta come

un reato capitale." (Stewart Irvin Oost, Galla Placidia Augusta, Chicago 1968, pp.

301-302; la traduzione è nostra).

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La biografia è il genere storiografico che con più difficoltà può sottrarsi alla

tendenza moralistica. Il biografo di Guglielmo II, come essere umano, non può fare a

meno di riflettere che il personaggio di cui cerca di ricostruire la vita e i pensieri,

contribuì in misura notevole al massacro di oltre otto milioni di individui e alla rovina

morale e materiale dell'Europa. Come studioso, dovrà mettersi in guardia nei

confronrti del proprio lato etico, ma è inevitabile che, quando il problema che gli si

presenta, appare superiore alla sua capacità di rimanervi non coinvolto emotivamente,

egli commetta qualche forma di eccesso - in un senso o nell'altro. Per esempio, a

forza di ripetersi che non è suo compito né il giudicare, né il condannare, potrebbe

accadere che il biografo di Guglielmo II finisca per minimizzarne anche le reali

responsabilità storiche e per tracciarne un profilo umano che, se non è parziale nelle

critiche, lo è però (magari inconsciamente) nella difesa a oltranza. Un buon esempio

di ciò può trovarsi, appunto, nella biografia del kaiser dello storico inglese Michael

Balfour: Guglielmo II e i suoi tempi (tr. it. Milano, 1968).

Chi non ha presente lo spietato e penetrante ritratto dello zar Nicola II e della

zarina tracciato da Lev Trotzkij nella sua Storia della rivoluzione russa? Dal punto di

vista dell'autore, si è trattato di un'applicazione coerentissima della sua teoria della

ricostruzione storica "secondo la legge intrinseca" dei fatti. E in effetti non si può dire

che le conclusioni di Trotzkij siano del tutto arbitrarie, o campate in aria: ad esse non

manca né la documentazione (per quello che allora era disponibile), né un notevole

sforzo di comprensione e di penetrazione psicologica. D'altra parte, è innegabile che

l'assoluta mancanza di serenità dell'autore (il quale fu parte in causa nelle vicende

descritte, anzi, fu diretto avversario dello zar: pessima posizione per uno storico) lo

ha portato a tracciare un ritratto in cui la veemenza polemica ha finito per deformarne

mostruosamente i contorni. Ancor più deformata, e con l'aggravante di avere

assecondato i più vieti luoghi comuni della pubblicistica di terz'ordine, l'immagine

del consigliere privato dello zar, il monaco Rasputin: per l'occasione, lo storico

bolscevico prende a prestito le calunnie della corrotta aristocrazia di corte, quella

stessa che decise ed attuò l'eliminazione dello scomodo personaggio, il cui torto

politico principale era stato quello d'essersi opposto alla guerra, e di insistere perché

la Russia ne uscisse prima che fosse troppo tardi.

Anche in questo caso possiamo dire che la tendenziosità politica dell'autore, per

usare l'espressione di Leo Valiani, ha avuto l'effetto di rendere più acuta e incisiva la

ricostruzione; ma la tendenziosità poltica è un'arma a doppio taglio, e comunque lo

storico non dovrebbe mai ergersi a giudice, specialmente se è stato parte in causa

nell'evento che pretende di ricostruire - evidentemente, pro domo sua. Via, siamo

logici: possiamo pretendere che Cesare, nel De Bello Civili, sia equanime nel

giudicare le ragioni del Senato e quelle di Pompeo?

Trotzkij, con la brutale franchezza che caratterizza il suo stile, si è bensì di

premettere che

"Il lettore serio e dotato di spirito critico non ha bisogno di una ingannevole

imparzialità che gli offra una coppa di spirito di conciliazione misto a una buona

dose di veleno depositato sul fondo."

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Questo, sia detto tra parentesi, perché

"nell'ora del pericolo, i pontefici di una' giustizia che riconcilia' se ne stanno di

solito chiusi in casa, in attesa di vedere a chi tocchi la vittoria." (Lev Trotzkij, Op.

cit., vol. 1, p. 14. Le successive citazioni sono tutte tratte dalla medesima opera).

Ma è anche chiaro che il suo non compiere il minimo sforzo verso questa tanto

deprecata "imparzialità" deve necessariamente viziare il rispetto della "legge

intrinseca dei fatti" - restando nell'ambito della sua logica; e portare l'autore a falsare

deliberatamente e sistematicamente i fatti che narra in base alla sua ideologia -

secondo la nostra logica. Una delle conseguenze che ciò reca implicito è proprio il

riapparire del "giudizio moralistico" che, nell'opera di Trotzkij, fa la sua irruzione, si

può dire, ad ogni pagina; e specialmente là dove compaiono in scena personaggi

contro-rivoluzionari. Lo scrittore Fjodor Dostojevskij è "un reazionario epilettico";

l'ambasciatore francese Maurice Paléologue "uno psicologo raffinato a uso di

accademici e di portinai". Riportando una frase del deputato monarchico Sulghin, in

cui gli operai erano definiti "canaglia", Trotzkij con ardente zelo moralistico

commenta: "Inutile sottolineare la volgarità di un gentiluomo reazionario nei

confronti degli operai"! (cosa che invece fa, con una tipica preterizione); e subito

dopo aggiunge, trionfante: "La rivoluzione ha calpestato questi signori".

Evidentemente Trotzkij non ritiene una volgarità affermare, com'egli fa, che "le dame

dell'aristocrazia sollevavano le gonne più che potevano", oppure che Aleksandr

Kerenskij, il capo del governo provvisorio nel 1917, "si strofinava alla rivoluzione".

Potremmo continuare a lungo, ma crediamo che basti.

Taluni storici contemporanei, poi, non hanno esitato a estendere la propria

riprovazione moralistica ad interi periodi storici e ad intere civiltà. Gabriele Pepe, ad

esempio, in un libro che sembra dettato dall'odio e dalla chiusura preconcetta nei

confronti del proprio oggetto di studio, non ha esitato a parlare con tutta naturalezza

"del brutto medioevo" (ne Il Medioevo barbarico in Europa, Milano, 1967, p. 16).

Non è stato neppure sfiorato, dunque - a quanto sembra - dal dubbio sulla pertinenza

di questo tipo di giudizi; basati, oltretutto, su pesanti generalizzazioni. Perché non,

allora, il brutto mondo antico o la brutta età moderna? La brutta Africa o la brutta

Asia? Se poi lo storico può adoperare così a cuor leggero la categoria del brutto in

senso morale, significa che ha in mente un'idea di ciò che si deve considerare

storicamente bello. Guarda caso, se il Medioevo è brutto, ovvi indizi portano a

pensare che lo sia in confronto con la Grecia o con Roma: è - ancora e sempre,

direbbe Ranuccio Bianchi Bandinelli - il rimpianto ossessivo per le forme belle

dell'arte classica, per il kalòs tanto caro ai poeti e ai filosofi greci, Platone compreso.

Possiamo dubitare per un solo istante che Achille non fosse bello, e quindi valoroso?

Logico, visto che il deforme Tersite era brutto fisicamente e moralmente. O che non

fossero belle, bellissime, Calipso, Circe, Nausica? E noi, figli della civiltà cristiana -

erede della civiltà classica - possiamo dubitare per un solo istante che non fosse bello

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Gesù Cristo? Chiediamolo a millesettecento secoli di storia dell'arte occidentale: la

risposta sarà assolutamente univoca.

& & & &

Probabilmente i giudizi morali non scompariranno mai del tutto dalla storiografia.

Accingersi a ricostruire il carattere di determinate personalità o le conseguenze di

determinate azioni in termini di costi umani, e sia pure al solo scopo di comprendere,

reca la conseguenza pressoché inevitabile di entrare nella sfera del giudizio etico;

fermo restando che indulgervi è un'altra cosa.

Perché ciò accade? Perché la storia è legata alla vita, e la morale ne è una

componente essenziale; essa traspare in ogni circostanza, spesso a livello inconscio; e

ci sollecita a prendere una posizione che non è mai unicamente tecnica, ma anche,

almeno tendenzialmente, etica. Ci sembra che il Toynbee non abbia veramente

centrato il bersaglio, quando ha affermato che

"il perfetto distacco abolisce la pietà, e perciò anche l'amore, inesorabilmente

come spazza via tutte le passioni cattive. (…) Cristo crocifisso è follia per il filosofo

perché la mèta del filosofo è il distacco, ed egli non può comprendere come un essere

ragionevole che abbia raggiunto una volta quella durissima méta, possa cadere nella

contraddizione di abbandonare di proposito ciò che ha così faticosamente

conquistato. Che senso c'è nel ritirarsi, semplicemente allo scopo di ritornare?".

(Arnold Toynbee, Oip. cit., vol. 2, pp. 167-68).

Secondo questo modo di vedere tutti i grandi saggi, tranne Gesù Cristo, hanno

potuto insegnare soltanto la via della fuga dal mondo, l'indifferenza per l'amore così

come per l'odio. Se il Toynbee fosse stato meno frettoloso, e forse anche meno

semplicistico, avrebbe dovuto accorgersi che sotto l'apparente distacco di molte

antiche filosofie (per non parlare di quelle dell'Oriente asiatico) palpitava sempre una

eccezionale sensibilità e un profondo desiderio di lenire il dolore del mondo.

L'apparente imperturbabilità, e talvolta il cinismo di Diogene o dello stesso Epicuro

non sono che una maschera, onde proteggere un animo sensibile da un genere di

coinvolgimento che non farebbe del bene né al filosofo, né all'uomo della strada. E

ciò vale anche per molti filosofi moderni, che all'antica sapienza si sono ispirati e ne

hanno tratto parte della propria linfa vitale. Basti pensare alla dolorosa vicenda

umana del Leopardi, autore di una traduzione del Trattato di Epitteto, per il quale ci

sembra ben difficile parlare di "aridità" o "indifferenza". La stessa cosa potrebbe poi

dirsi, e con altrettanta ragione, per Schopenhauer e per Nietzsche, le cui speculazioni

- soprattutto quella del secondo - sono state, sia detto per inciso, troppo a lungo

deliberatamente equivocate (al punto da fare di Nietzsche un profeta della violenza

razziale - proprio lui che detestava ogni nazionalismo - e, addirittura, un profeta del

nazismo).

Oppure che dire dello stoicismo di Marco Aurelio? Se egli realmente fosse stato

coerente con i princìpi che professava di credere; se avesse tratto le conclusioni

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pratiche dalle premesse contenute nei suoi Colloqui con sé stesso, Roma avrebbe

avuto ben altro imperatore, e il mondo oggi non ricorderebbe con rispetto e riverenza

la personalità di un sovrano pagano che non si astenne dal perseguitare i cristiani, e

tuttavia sulla cui statura morale esistono ben pochi dubbi. Egli poteva ben paragonare

le vicende umane a una zuffa di cani intorno a un osso, e sorridere del compiacimento

di un soldato romano che catturava un Sàrmata, paragonandolo a un ragno che si

esalta per aver catturato una mosca. Egli trascorse undici anni combattendo sul

Danubio i popoli germanici che avevano minacciato l'Impero; egli vendette gli arredi

preziosi, il vasellame di corte, le statue, le vesti preziose delle sue donne per

sostenere le spese della guerra; lontano da Roma e nella dura vita del campo, col

freddo e tra i pericoli, egli realmente mostrò che stoffa d'uomo nascondessero gli abiti

del filosofo; e infine, morendo di peste nell'assolvimento di un ingrato dovere, lasciò

al mondo un testamento spirituale che è ancor oggi la ricchezza di tutti gli esseri

umani. Fu questo il "distacco", questa l'indifferenza verso l'amore di cui parla il

Toynbee?

Non esiste alcuna forma di distacco, alcuna forma di egoismo più o meno

intenzionale che possa impedirci di atteggiarci moralmente in ogni circostanza della

nostra vita. David Hume affermava che un impulso irresistibile della natura ci porta a

giudicare, così come a respirare e a sentire; noi possiamo aggiungere che, con forza

altrettanto irresistibile, essa ci porta ad approvare o a condannare le azioni dei nostri

simili.

4. CONCLUSIONI.

Non ci sono conclusioni.

Con le conclusioni possiamo illuderci di aver dato una sistemazione definitiva ai

nostri pensieri, di aver "catturato"e messo in cornice un lembo di verità, come un

entomologo fa con le sue farfalle. Possiamo barare con noi stessi e ostentare una certa

soddisfazioni per aver dato ordine al disperso e forma al confuso.

È vero: la verità è uno sforzo, un'aspirazione, mai una conquista. E uttavia - si

dice - se non ritenessimo di poterne afferrare una qualche parte, e sia pur

piccolissima, sia lo sforzo che l'aspirazione non sarebbero che un continuo,

logorante, vano brancolare nel buio. Ma occorre guardarsi dalle illusioni. La

soddisfazione di sé stessi, del proprio lavoro, della propria filosofia, sono delle

pericolose forme d'illusione. Ogni verità acquisita è morta, e non dovremmo mai

presumere di possedere delle verità acquisite.

Eravamo partiti da un'indagine sulla natura della storiografia, e siamo inciampati

ad ogni passo in dubbi, interrogativi, incertezze. Non abbiamo inteso offrire delle

soluzioni pre-confezionate, perché pensiamo che esse siano poco più che il paravento

della pigrizia intellettuale. Ogni discussione teorica è un po' una battaglia contro i

mulini a vento: è la vita che si incarica, poi, di presentarci dei problemi concreti, e

l'istinto ci fornisce le armi per affrontarli. Questo è il dramma di tutte le filosofie, che

difficilmente riescono a tradursi in una presa efficace sulla realtà di tutti i giorni; e le

varie filosofie della storia non sono sfuggite al comune destino.

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Tuttavia, sarebbe eccessivo affermare che la pratica può fare interamente a meno

della teoria. Uno storico non può risolvere alcun problema pratico, se non è riuscito a

chiarire, o almeno a inquadrare, almeno i principali nodi teorici della sua professione.

È importante che non si consideri le coinclusioni della sua riflessione come altrettante

verità rivelate, ma non può evitare di dare una sistemazione almeno approssimativa al

proprio pensiero - una sistemazione che sa essere solo temporanea, e aperta a ogni

suggerimento che la vita quotidiana gli offra.

A fini puramente pratici, riassumiamo brevissimamente i punti principali cui

siamo approdati nel corso della nostra indagine. Potremmo chiamarli ipotesi di lavoro

piuttosto che certezze stabilite in via definitiva; o, se si preferisce, opinioni maturate

nel corso di qualche decennio di studi storiografici.

1) La storia non è una scienza né assomiglia ad alcuna delle scienze positive; i

suoi metodi di ricerca sono profondamente diversi, i suoi scopi - descrivere una

certa realtà non del presente, ma del passato - solo a livello di aspirazione

possono paragonarsi a quelli delle altre scienze.

2) La storia non è nemmeno un'arte, proprio a cuasa di quella aspirazione a una

conoscenza oggettiva, che la separa dalle discipline estetiche pure. Tuttavia, i

suoi mezzi d'indagine sono talvolta più vicini a quelli dell'arte, chea quelli

scientifici. Anche per la storiografia, come per la musica o la pittura o la

scultura, si può in una certa misura affermare che le sue produzioni hanno una

validità soggettiva, cioè sono valide sono in quel contesto spazio-temporale e,

al limite, solo per il soggetto che le ha realizzate.

3) Spogliata dei falsi miti scientifici, la storia non perde nulla del suo antico

fascino e della sua potente suggestività. Essa può e deve riconoscere

modestamente i propri limiti, ma non rinuncerà per questo a uno sforzo, a una

tensione verso l'oggettività, cioè verso una comprensione degli avvenimenti

non in rapporto esclusivo a colui che li ha ricostruiti, ma considerati nel

proprio autonomo valore e significato.

4) La storia non è una disciplina autosufficiente.Rifugge dalle generalizzazioni

teoriche, perché si occupa del particolare e del concreto; eppure non può farne

del tutto a meno, perché esiste sempre il pericolo che si perda in una serie di

fatti senza prospettiva e senza movimento. Il rapporto tra storia e filosofia è di

ripulsa e di attrazione: alla storia è necessario mantenere un equilibrio sempre

vigile e attento.

5) La storia, come la filosofia, presta la propria voce a chi la interroga e

risponde solo a chi la interroga, nella maniera che questi desidera. Al

contrario delle scienze positive, in definitiva essa è creazione dell'animo

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umano, ma non in maniera univoca, cioè nell'atto di estrinsecarsi, bensì nelle

infinite maniere in cui dai singoli storici viene ricostruita.

6) Il fine della storia non è comprendere il presente, né cercar di prevedere il

futuro, ma lo studio del passato in sé e per sé. Che dalla conoscenza del

passato, poi, scaturisca di necessità una più piena comprensione del presente, e

forse anche una lungimiranza nei confronti degli eventi futuri, è un'altra

questione: queste sono conseguenze, non fini della storia.

7) La storia non ha "leggi" deducibili a priori, formulabili - cioè - dall'esterno.

Ciò che suol definire "legge" è piuttosto una norma di comportamento

generale, un tipo di evoluzione costante osservato in un gran numero di casi.

Ma è noto che civiltà tecnologicamente più arretrate, entrate bruscamente a

contatto con altre più progredite, tendono a "saltare" diverse fasi di tale

processo, anche se ciò comporta squilibri e traumi di notevole entità. Le uniche

"leggi" della storia sono quelle che i filosofi le hanno soggettivamente e

arbitrariamente attribuito, deducendole non già dalla concreta ossrvazione dei

fenomeni, ma dai propri schemi di pensiero precostituiti.

8) Quando gli approcci al passato per via documentaria sono lacunosi o

insufficienti, la storia non disdegna lo sforzo di "rievocazione" del singolo

studioso; che ha sempre, comunque, una parte più o meno importante nella

ricostruzione. Non esistono criteri per premunirsi contro i pericoli

dell'arbitrarietà, tranne la serietà e la buona fede dello storico.

9) La storia deve cercar di comprendere, non di giudicare. Ma in pratica è

inevitabile che lo storico sia portato, e sia pure inconsciamente, a giudicare. Sia

da un punto di vista etico, sia da un punto di vista "sentimentale". La storia che

lo studioso ricostruisce è giudizio, scelta, opinione personale: dal periodo del

passato che viene prso in esame, alla terminologia, all'accento posto su questo

o quell'altro aspetto della realtà, tutto è "soggettività".

10) Relativismo e un moderato scetticismo costituiscono, forse, l'abito

mentale più adatto per premunirsi contro gli eccessi di un ottimismo o di un

pessimismo ingiustificati. Il relativismo offre una prospettiva "storicistica"

entro cui considerare il passato, lo scetticismo è un salutare ammonimento

contro la propria presunzione di poter capire e giudicare "dall'alto".

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Page 37: LA STORIOGRAFIA COME PROBLEMA FILOSOFICO · 2018. 4. 2. · epoche che abbiano auto le stesse intenzioni filosofiche.” (Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., vol.

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Abbiamo sgombrato il campo da luoghi comuni consacrati dall'abitudine e da

illusorie certezze acriticamente accettate. Ciò potrà consentire un lavoro più concreto

e meglio orientato nell'opera di ricostruzione del passato.

Ma, fatti i conti, è innegabile che quanto abbiamo tolto supera il peso di quanto

abbiamo lasciato, anche se reso più agile e illuminato da una maggiore

consapevolezza. Da un punto di vista teoretico, il pessimismo prevale sull'ottimismo.

Siamo arrivati infatti alla conclusione che la storia può offrirci, anche nel migliore

dei casi, una conoscenza del passato molto parziale e limitata.

"Tutto qui ciò che rimane della storia?".

Tutto qui.

Ma non è pur sempre uno dei campi di studio più ricchi e affascinanti dello

spirito umano?

Francesco Lamendola